Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.
Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.
I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.
Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."
L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.
L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.
Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.
Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).
Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.
Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro.
Dr Antonio Giangrande
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ANNO 2020
GLI STATISTI
SECONDA PARTE
DI ANTONIO GIANGRANDE
L’ITALIA ALLO SPECCHIO
IL DNA DEGLI ITALIANI
L’APOTEOSI
DI UN POPOLO DIFETTATO
Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2019, consequenziale a quello del 2018. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.
Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.
IL GOVERNO
UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.
UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.
PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.
LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.
LA SOLITA ITALIOPOLI.
SOLITA LADRONIA.
SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.
SOLITA APPALTOPOLI.
SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.
ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.
SOLITO SPRECOPOLI.
SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.
L’AMMINISTRAZIONE
SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.
SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.
IL COGLIONAVIRUS.
L’ACCOGLIENZA
SOLITA ITALIA RAZZISTA.
SOLITI PROFUGHI E FOIBE.
SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.
GLI STATISTI
IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.
IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.
SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.
SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.
IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.
I PARTITI
SOLITI 5 STELLE… CADENTI.
SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.
SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.
IL SOLITO AMICO TERRORISTA.
1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.
LA GIUSTIZIA
SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.
LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.
LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.
SOLITO DELITTO DI PERUGIA.
SOLITA ABUSOPOLI.
SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.
SOLITA GIUSTIZIOPOLI.
SOLITA MANETTOPOLI.
SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.
I SOLITI MISTERI ITALIANI.
BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.
LA MAFIOSITA’
SOLITA MAFIOPOLI.
SOLITE MAFIE IN ITALIA.
SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.
SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.
SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.
LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.
SOLITA CASTOPOLI.
LA SOLITA MASSONERIOPOLI.
CONTRO TUTTE LE MAFIE.
LA CULTURA ED I MEDIA
LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.
SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.
SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.
SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.
SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.
LO SPETTACOLO E LO SPORT
SOLITO SPETTACOLOPOLI.
SOLITO SANREMO.
SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.
LA SOCIETA’
GLI ANNIVERSARI DEL 2019.
I MORTI FAMOSI.
ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.
MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?
L’AMBIENTE
LA SOLITA AGROFRODOPOLI.
SOLITO ANIMALOPOLI.
IL SOLITO TERREMOTO E…
IL SOLITO AMBIENTOPOLI.
IL TERRITORIO
SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.
SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.
SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.
SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.
SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.
SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.
SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.
SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.
SOLITA SIENA.
SOLITA SARDEGNA.
SOLITE MARCHE.
SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.
SOLITA ROMA ED IL LAZIO.
SOLITO ABRUZZO.
SOLITO MOLISE.
SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.
SOLITA BARI.
SOLITA FOGGIA.
SOLITA TARANTO.
SOLITA BRINDISI.
SOLITA LECCE.
SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.
SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.
SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.
LE RELIGIONI
SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.
FEMMINE E LGBTI
SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.
GLI STATISTI
INDICE PRIMA PARTE
IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO. (Ho scritto un saggio dedicato)
Essere Aldo Moro.
I Nemici di Aldo Moro.
IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE. (Ho scritto un saggio dedicato)
Essere Giulio Andreotti: il Divo Re.
SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Biografia di Craxi.
La Ricorrenza della morte.
Craxi grande Statista. Dalle Stelle alle Stalle.
Craxi ed i Comunisti.
Craxi e l’impunità dei comunisti.
Craxi e l’ombra delle influenze esterne.
Craxi ed i Socialisti.
Craxi ed i Fascisti.
Craxi e Berlusconi.
Craxi e le Donne.
Craxi e la Famiglia.
Craxi ed i giornalisti amici.
Craxi ed i giornalisti nemici.
Craxi ed il finanziamento della Politica.
Craxi e Mani Pulite - Tangentopoli.
Prima della Morte.
Essere Bettino Craxi.
La pellicola su Bettino Craxi.
Ridateci i Leaders, anche se lupi famelici.
Non era Mafia, ma Tangentopoli Siciliana.
Quelli che…al tempo di Tangentopoli.
INDICE SECONDA PARTE
SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA. (Ho scritto un saggio dedicato)
L’Imperituro.
Berlusconi e la Famiglia.
Berlusconi e le Donne.
Berlusconi e la Giustizia.
Berlusconi e la Mafia.
Berlusconi e l’Arte.
Chi lo ha accompagnato.
Quelli che l’hanno abbandonato.
Quelli con Problemi Giudiziari.
IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Ai Tempi del Nazismo.
Quando arrestarono Garibaldi.
Dopo il Nazismo.
Prima del Fascismo.
Socialismo e scissioni.
L’Alba Rossa del Fascismo.
Le Corporazioni. Ossia: Il Sindacato del fascismo rosso.
I nemici del Duce.
I Peccati del Duce.
Mussolini ha fatto cose buone.
L’8 settembre: corsi e ricorsi storici.
Le Partigiane liberali che lottarono per un'Italia non rossa.
Il Vate: non era Fascista.
I Figli del Duce.
Dio, Patria, Famiglia Spa.
GLI STATISTI
SECONDA PARTE
SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA. (Ho scritto un saggio dedicato)
· L’Imperituro.
Covid Sardegna, dai calciatori ai volti tv: la maledizione della Costa Smeralda che insegue anche i vip. Candida Morvillo su Il Corriere della Sera il 2 settembre 2020. L’onda lunga del Covid Smeraldo sembra inseguire tutti: non solo Berlusconi e Briatore, ma anche calciatori come Mihajlovic e Pjanic e star della tv come Aida Yespica. Solo nel Lazio sono stati contati 764 positivi tornati dalla Sardegna in agosto. La maledizione dell’estate smeralda non perdona neanche chi si credeva ormai in salvo sul «continente». Silvio Berlusconi è solo l’ultimo colpito dal contagio da Sars-Cov-2 quando già si riteneva sfuggito ai «venti sardi», così battezzati da Flavio Briatore. Dopo la grande fuga da Porto Cervo e dintorni e mentre imperversa la caccia agli avventori di Billionaire, Phi Beach e Sottovento, specie a quelli andati a far baldoria lasciando all’ingresso falsi nomi e recapiti, l’onda lunga del Covid Smeraldo sembra inseguire tutti: ricchi o poveri e in questo è democratica. Colpisce quelli sbarcati a Civitavecchia dai traghetti stracolmi dove tanti sono saliti con la febbre, come denunciato dall’assessore alla sanità del Lazio, e colpisce quelli scappati con l’aereo privato, come Briatore, come Berlusconi. Il primo, partito il 18, risultava negativo a un test sierologico il 19 e positivo al tampone del 25, fatto di prassi, mentre veniva ricoverato per prostatite e mentre una sessantina di dipendenti pure risultavano contagiati, di Covid, non di prostatite. Berlusconi, invece, aveva fatto due tamponi il 25, dopo aver saputo di Briatore, ed era risultato negativo. Sospiro di sollievo: i due si erano visti a Villa Certosa il 12 e, nei selfie, stavano vicini vicini, senza mascherina. Ormai, passati i 14 giorni, sembrava averla scampata, ma il contagio l’avrebbe raggiunto dopo l’incontro coi figli Luigi e Barbara, di rientro da una vacanza in barca. È stato detto e scritto che questo virus passa da figli e nipoti a genitori e nonni, specie se, di mezzo, ci si mette la movida. Ma niente. In Costa Smeralda si è ballato in pista e sui tavoli, grazie al governatore Christian Solinas che, prima, ha reclamato invano test per chi arrivava sull’isola e, poi, ha aperto le discoteche in deroga al Dpcm, confidando che si ballasse distanziati di due metri. La leggerezza di quelle notti magiche ha invece contagiato le mattine in spiaggia e gli apericena su piscine e barche, dove distanziamento e mascherine sembravano poi superflui. Solo nel Lazio sono stati contati 764 positivi tornati dalla Sardegna in agosto. Fanno notizia i famosi, ovvio: una ventina. Quasi tutti bella gioventù e asintomatici, come le soubrette Aida Yespica o Antonella Mosetti. È positivo e vanta «sintomi stranissimi» il parrucchiere dei vip Federico Fashion Style. Dalla fauna di Uomini e donne, risultano positivi l’ex tronista Nilufar Addati e quattro ex corteggiatori. È positivo e sta bene l’ex di Temptation Island Vip Andrea Zenga. È positivo e asintomatico Sinisa Mihajlovic, mister anche della partita di calcetto con Briatore. Sono positivi dieci calciatori, fra cui Kevin Bonifazi, Andrea Petagna, Miralem Pjanic e Antonio Mirante. È positivo e senza sintomi anche il pugile Daniele Scardina, detto King Toretto. E lo è la deputata Elvira Savino. Intanto, Briatore e Berlusconi, positivi e asintomatici, sono in cura dal professor Alberto Zangrillo. Era lui che diceva «il virus è clinicamente morto». Peccato che lo stesso virus resti un formidabile inseguitore.
Berlusconi è positivo al Covid. Zangrillo: "È asintomatico". Il tampone dopo il soggiorno in Sardegna. Berlusconi continuerà a lavorare da Arcore. Positivi anche Barbara e Luigi. Il fratello Paolo: "È forte, ce la farà sicuramente". Sergio Rame, Mercoledì 02/09/2020 su Il Giornale. Silvio Berlusconi è risultato positivo al coronavirus. A confermare il risultato del tampone nasofaringeo, che è arrivato oggi, è stato il suo medico curante, Alberto Zangrillo, primario di anestesia e rianimazione dell'ospedale San Raffaele di Milano, spiegando all'Adnkronos Salute che, pur essendo asintomatico, il Cavaliere si è sottoposto al controllo dopo il recente soggiorno in Sardegna. Tutte le persone più vicine al Cavaliere sono state sottoposte a tampone. Il fratello Paolo ha detto di averlo sentito appena ricevuta la notizia: "È forte e ce la farà."
Il test positivo dopo la Sardegna. "Mi è successo anche questo ma continuo la battaglia", ha commentato in serata Berlusconi in collegamento con il Movimento azzurro donne. L'esito del tampone nasofaringeo è arrivato oggi. Tale controllo, come ci ha tenuto a sottolineare lo stesso Zangrillo che al San Raffaele di Milano dirige le Unità di anestesia e rianimazione generale e cardio-toraco-vascolare, era stato programmato "in considerazione del suo recente soggiorno in Sardegna". "È asintomatico - ha quindi spiegato il primario - resta in regime di isolamento presso il suo domicilio come da disposizioni regionali". Dalla residenza di Arcore, dove trascorrerà il periodo di isolamento previsto, continuerà a fare politica andando avanti a sostenere, in prima persona, i candidati di Forza Italia e della coalizione di centrodestra che in queste settimane sono impegnati nelle elezioni regionali e amministrative che si terranno a fine mese. "Berlusconi continuerà a guidarci in questa campagna elettorale - ha commentato il vicepresidente azzurro Antonio Tajani - festeggeremo insieme alla vittoria la fine della quarantena. Forza Silvio!".
I controlli in famiglia. I familiari del presidente Berlusconi sono stati sottoposti al tampone. I figli Barbara e Luigi sono risultati positivi al coronavirus. Il fratello, Paolo Berlusconi, ha riferito ad AdnKronos Salute di avere immediatamente sentito il presidente di Forza Italia dopo la notizia del tampone positivo. "Oggi ha lavorato, sta bene, compatibilmente con il virus che ha preso. Sintomi non ne ha, quindi vista la sua costituzione molto forte dovrebbe farcela senza problemi. L'ho sentito assolutamente tranquillo, consapevole che non si sa come lo abbia preso. D'altronde tutti quelli che lo hanno preso non sanno da dove è arrivato, è nell'ordine delle cose. Abbiamo superato tante cose, superiamo anche questa". "Noi avevamo già fatto tutti il tampone - aggiunge - ho visto mio fratello l'ultima volta ieri, quindi coscienziosamente ci siamo messi in autoisolamento da oggi, per precauzione e per qualche giorno, previo tampone che andremo a fare".
L'abbraccio di Forza Italia. Tutta Forza Italia si è stretta attorno a Berlusconi augurandogli una pronta guarigione. "Ha combattuto e vinto battaglie per tutta la vita. Uscirà da questa ennesima sfida, come sempre, da vincitore", ha assicurato la presidente dei senatori azzurri Anna Maria Bernini. "Il Presidente Berlusconi anche in queste circostanze si dimostra il gigante che conosciamo: ha appena parlato in collegamento ad un evento di Azzurro Donne. E chi lo ferma? Fieri e orgogliosi per l’esempio che ci dà, sappiamo che continuerà la campagna elettorale e a battersi per il Paese" ha scritto su Twitter Mariastella Gelmini, capogruppo di Forza Italia alla Camera dei deputati. "Superata anche questa sfida - ha twittato Mara Carfagna - continuerai a lavorare per l'Italia e gli italiani". Conoscendone "la fibra forte e l'animo indomito e positivo", Michaela Biancofiore è certa che l'ex premier "supererà al meglio anche il virus e questi giorni di quarantena". Renato Brunetta, deputato e responsabile economico di Forza Italia scrive: "Vincerai anche questa battaglia, siamo tutti con te. Forza Presidente". ''Non solo Berlusconi sconfiggerà il virus, peraltro da asintomatico, ma avrà il vantaggio di essere immune dopo aver vinto anche questa battaglia. Berlusconi è stato, è e sarà il numero uno e noi siamo e saremo sempre al suo fianco'', dichiara Maurizio Gasparri.
Gli auguri della politica. Non appena hanno appreso della notizia, tutti i politici hanno fatto gli auguri a Berlusconi. "Che è un leone lo ha dimostrato tante volte - ha twittato Giorgia Meloni - siamo certi che supererà brillantemente anche questo". "Auguri di pronta guarigione all'amico Silvio", ha invece detto Matteo Salvini. Il premier Giuseppe Conte, riferiscono le fonti di Forza Italia, ha telefonato in serata il Cavaliere per fargli gli auguri di pronta guarigione. Lo stesso augurio gli è stato rivolto dal capo politico del Movimento 5 Stelle, Luigi Di Maio: "Spero si riprenda presto". "Combatterà con forza anche questa battaglia. A presto", ha scritto su Twitter il segretario piddì Nicola Zingaretti che lo scorso marzo era stato contagiato dallo stesso virus. "Forza presidente", ha invece scritto il leader di Italia Viva, Matteo Renzi, mandandogli un "affettuoso abbraccio" virtuale con l'augurio che torni "presto in campo". "A Berlusconi faccio i miei auguri di pronta guarigione" ha detto il ministro della Salute, Roberto Speranza, ai microfoni di AdnKronos Salute. L’Aula di Montecitorio, a seguito del messaggio rivolto dal deputato di Liberi e Uguali, Federico Fornaro, ha voluto esprimere i propri auguri di pronta guarigione al leader di Forza Italia tributandogli un applauso. La notizia è stata data dall'ufficio stampa di Forza Italia.
Berlusconi positivo al coronavirus, fratello: “Non sa come l’abbia preso”. Notizie.it il 03/09/2020. Paolo Berlusconi ha spiegato che il fratello Silvio, positivo al coronavirus, non ha idea di dove possa essere stato contagiato. Contattato dall’Adknronos dopo la notizia che Silvio Berlusconi è risultato positivo insieme ai suoi due figli Luigi e Barbara, il fratello del Cavaliere ha spiegato che non si sa come né dove abbiano contratto il coronavirus. Ha comunque assicurato che l’ex premier sta bene e per il momento non manifesta alcun sintomo. Paolo Berlusconi ha aggiunto che “vista la sua costituzione molto forte dovrebbe farcela senza problemi“. Ha spiegato che il fratello ha continuato a lavorare normalmente e che lo ha sentito assolutamente tranquillo. Dato che l’ultima volta che lo ha visto è stato il giorno prima della conferma della sua positività, si è messo in autoisolamento insieme alle altre persone che avevano fatto visita al leader di Forza Italia in attesa di sottoporsi nuovamente a tampone. L’uomo ha ribadito che, come spesso accade per tutti quelli che contraggono l’infezione, Berlusconi non ha idea di dove possa essere contagiato. Il pensiero è andato subito all’incontro in Sardegna con Flavio Briatore, risultato positivo così come decine di frequentatori del locale di sua proprietà a Porto Cervo. Una volta tornato ad Arcore dopo il soggiorno sull’isola il Cavaliere aveva però già effettuato un test che aveva dato esito negativo. Resta dunque il giallo sulle circostanze del contagio, mentre la certezza è che Berlusconi sia bene e continui a lavorare dalla sua residenza. A confermarlo anche il deputato azzurro Sestino Giacomoni che ha assicurato di averlo sentito di ottimo umore, combattivo e determinato. Come concluso dal fratello Paolo, “ha superato tante cose, supererà anche questa”.
Tommaso Labate per corriere.it il 3 settembre 2020. A evocare una «battaglia», dalle prime dichiarazioni ufficiali, sono in tre. Lui, che la sta combattendo. Nicola Zingaretti, che l’ha combattuta e vinta. E Luigi Di Maio, sulla carta è uno dei suoi più agguerriti avversari politici, che gli riconosce pubblicamente «quella forza che lo ha sempre contraddistinto» e che lo aiuterà a vincere, per l’appunto, «questa battaglia». A tarda sera, quando dalla conferma ufficiale di aver contratto il coronavirus sono già passate parecchie ore, Silvio Berlusconi getta l’occhio distrattamente sull’elenco delle chiamate in arrivo fornitogli dalla segreteria di Arcore. Spunta quelle «prese», annota gli interlocutori da richiamare. Una vagonata di messaggi e chiamate bipartisan, in cui spicca anche il nome del presidente del Consiglio Giuseppe Conte, che non s’era mai vista in quel di Arcore. Nemmeno durante gli ultimi anni, spesso scanditi da acciacchi, operazioni, ricoveri, controlli. Il leader di Forza Italia sta bene ed è asintomatico. La prova sulle sue buone condizioni di salute decide di darla lui stesso, proprio mentre la notizia della sua positività al Covid-19 sta facendo il giro dei siti internet. «Sarò presente in campagna elettorale con interviste in tv e sui giornali, secondo le limitazioni imposte dalla mia positività al Coronavirus», dice in un collegamento telefonico con il Movimento Azzurro donna. Poi la frase destinata ai titolisti, «purtroppo mi è successo anche questo ma continuo la battaglia», dove l’ultima parola viene riferita tanto al virus quanto alla prova di forza che attende Forza Italia alle elezioni regionali. Negativo a due tamponi di fila, fatti più di una settimana fa dopo aver individuato un cluster praticamente dentro le mura di Villa Certosa (positiva la figlia Barbara, positivo il figlio Luigi, positivo qualche nipote, senza dimenticare l’ormai celeberrima visita di Flavio Briatore con tanto di foto ravvicinata e senza mascherine), Berlusconi quasi trasecola quando l’ultima analisi dà il più sorprendente e preoccupante dei risultati: «positivo». L’esame viene ripetuto per sicurezza dal laboratorio del San Raffaele ma il risultato non cambia. La data da cerchiare con la penna rossa è quella del 19 agosto. Quando si rende conto di essere circondato da familiari positivi al Covid-19 - lui che per dribblare il contagio era di fatto stato costretto dalla figlia Marina a trasferirsi in Francia per qualche mese – l’ex presidente del Consiglio abbandona la Sardegna e si rifugia ad Arcore. Le misure di sicurezza imposte dalla primogenita per andarlo a trovare sull’isola – dove i rari appuntamenti concessi erano comunque subordinati al presentarsi con il certificato che attestasse la negatività dell’ospite al tampone – non reggono all’impatto con l’ondata di Covid-19 che si abbatte come una maledizione su Villa Certosa. Berlusconi torna in Brianza, si isola, teme l’arrivo di quei sintomi noti ormai a tutti. Che però non arrivano. Superata la prova dei due tamponi negativi, a quel punto, l’ex presidente del Consiglio è convinto di essere fuori pericolo. Prima del definitivo ritorno ad Arcore, secondo alcune testimonianze, torna anche in Francia per qualche giorno. Lunedì è di nuovo in Italia, sa dell’appuntamento con «l’ulteriore controllo precauzionale dopo il soggiorno in Sardegna», di cui parlano le note ufficiali. Ma non ci dà granché peso, prima della sorpresa di ieri. Isolamento volontario è il destino che adesso per legge tocca a tutti quelli che sono entrati in contatto con lui. Probabilmente Marta Fascina, senz’altro lo staff di Villa San Martino. A questi si aggiunge anche da Niccolò Ghedini, che l’ha incontrato nelle ultime quarantott’ore e che sarà sottoposto a tampone nel giro di qualche ora. Dall’esito del tampone dell’avvocato-senatore, poi, dipenderà l’allargarsi o il restringersi di una cerchia che, per esempio, non comprende Antonio Tajani o le capigruppo Bernini e Gelmini, che hanno visto Berlusconi per l’ultima volta prima di Ferragosto. In famiglia, poi, ci sarà una ricognizione su come sia stato possibile che un uomo tenuto sotto ogni soglia di rischio durante la Fase 1 si sia beccato il virus nella Fase3. Ma non è questione di oggi, dove conta solo una «battaglia».
Lorenzo Salvia per corriere.it il 5 settembre 2020. Scontro a distanza tra l’ex presidente del gruppo L’Espresso Carlo De Benedetti e Marina Berlusconi. «Faccio i miei auguri a Berlusconi, ma il mio giudizio su di lui rimane critico». E anche molto pesante perché secondo De Benedetti — che sta per lanciare un nuovo giornale, il Domani — l’ex presidente del Consiglio «ha abbassato il livello di civismo e moralità del Paese. È l’Alberto Sordi della politica italiana. È stato molto nocivo al Paese». Parole pronunciate al Festival della tv di Dogliani, dove De Benedetti ha ricordato anche la lite giudiziaria che li ha coinvolti direttamente per il controllo della Mondadori: «Berlusconi è stato un grande imbroglione. Io l’ho punito severamente. Ha versato alla Cir 562 milioni, che è la più grande goduria che ho avuto nella mia vita, per uno che ha fatto di tutto per ostacolarmi. Per lui deve essere stato il più grande dolore della sua vita e per me la più grande goduria, anche se non ho toccato un euro personalmente». Nel suo intervento De Benedetti ha criticato anche l’attuale premier, Giuseppe Conte, «un signore capitato lì per caso, non vedo in lui nessuna visione del futuro». Ma a fare titolo sono proprio le parole su Berlusconi, pronunciate nelle stesse ore in cui è in ospedale per il Covid. A intervenire in difesa di Berlusconi è la figlia Marina, presidente di Fininvest: «Le parole di un uomo in disarmo sotto tutti i punti di vista, dalle esperienze imprenditoriali fino ai rapporti famigliari, non possono suscitare altro che un sentimento di commiserazione». Da Forza Italia, poi, arriva una pioggia di reazioni: «L’ingegner De Benedetti — attacca la presidente dei senatori Anna Maria Bernini — ha dato dell’imbroglione al presidente Berlusconi in ospedale per il Covid. Una sortita che si commenta da sola. Ma il virus dell’invidia, evidentemente, è più forte della decenza». Anche la capogruppo alla Camera, Mariastella Gelmini, giudica «inopportune oltre che false» le parole di De Benedetti: «Farebbe bene ad astenersi da simili commenti, visto che perfino Di Maio ha imparato a rispettare gli avversari politici. Ma Di Maio, al confronto di De Benedetti, è un membro della Camera dei Lord». Di avviso diverso rispetto a De Benedetti Urbano Cairo, presidente di Rcs MediaGroup, che pubblica il Corriere della Sera: «La mia esperienza da assistente di Berlusconi — ha detto Cairo che era proprio con De Benedetti al Festival della tv di Dogliani — è durata tre anni e devo dire che sicuramente quei tre anni sono stati importanti per la mia formazione». E ancora: «Mi ha insegnato molto, faceva come quei maestri che ti lasciavano guardare quello che facevano. Io guardavo, ascoltavo e direi che in questo mi è molto servito e mi ha dato uno stimolo notevole. Per me è stato un momento importante della mia formazione ed è stato un periodo bellissimo».
(ANSA il 4 settembre 2020) - Silvio Berlusconi - si apprende - è stato ricoverato a Milano al San Raffaele per accertamenti dopo che è risultato positivo al covid. Il presidente Berlusconi, dopo la comparsa di alcuni sintomi, è stato ricoverato all'ospedale San Raffale di Milano a scopo precauzionale. Il quadro clinico non desta preoccupazioni. É quanto si legge in una nota dello staff di Berlusconi.
Tommaso Labate per corriere.it il 4 settembre 2020. Le tracce di una polmonite bilaterale allo stato precoce. Una carica virale tutt’altro che sottovalutabile, visto che Silvio Berlusconi ha ottantaquattro anni e viene da complicate patologie pregresse. E, non da ultimo, la provenienza da quello che è diventato un cluster importante: una compagna, due figli, un uomo della scorta, amici e personale di servizio, tutti contagiati o a rischio contagio. Ricostruiscono al Corriere fonti politiche di Forza Italia che nel bel mezzo della notte, con in mano il risultato della Tac di Silvio Berlusconi appena arrivato dal laboratorio, il dottor Alberto Zangrillo si sia impuntato con l’ex presidente del Consiglio perché rimanesse al San Raffaele e non se ne tornasse a casa. Nessuna situazione di rischio, ovviamente, visto che le tracce della polmonite bilaterale – e soprattutto il suo stato precoce – non impongono (anzi) un ricovero in terapia intensiva. Ma la massima attenzione, la voglia di stare lontani da ogni minimo pericolo, quella sì. La stanza al sesto piano del San Raffaele era già stata predisposta. Camera con filtro, isolamento totale, norme Covid rispettate alla lettera. La massima competenza con cui viene affrontato il caso, unita all’insistenza del suo medico personale, piegano le resistenze di un paziente che comunque dice di sentirsi tutto sommato bene. Per capire come ci fosse arrivato Berlusconi al San Raffaele, nel pieno della notte per giunta, bisogna riavvolgere il nastro di qualche ora. All’ora di cena, l’ex presidente del Consiglio è ancora al telefono con amici e parlamentari. A tutti ripete la storia delle linee di febbre che c’erano e non ci sono più, del piccolo senso di stanchezza e spossatezza che ancora lo pervade, come se fosse un’influenza che fatica ad andare via. Quando dall’altra parte della cornetta c’è Zangrillo, però, la situazione cambia. Il medico, è la ricostruzione che fanno i pochissimi politici che sono riusciti a parlare con Arcore poco prima delle 22, s’impunta per sottoporre il leader di Forza Italia a una Tac. Berlusconi, a quel punto, esce di casa per raggiungere l’ospedale di Milano Due e si sottopone agli esami di rito. È convinto che sia giusto questione di un’ora, al massimo due, poi potrà tornare a casa. Da quella Tac, però, emergeranno i segni della polmonite bilaterale allo stato precoce. La stanza, a quel punto, era già stata preparata.
Amedeo La Mattina per “la Stampa” il 4 settembre 2020. Quelli della foto avevano fatto tutti il tampone prima di mettere piede a Villa Certosa il 6 agosto. L'hanno fatto prima e dopo. Erano andati da Silvio Berlusconi per risolvere una serie di rogne di partito, per definire le liste delle regionali e mettere la parola fine agli scontri in Campania sulle candidature. Poi si erano fatti una bella foto tutti insieme nel giardino, a corona attorno al capo. Gianni Letta, i capigruppo Annamaria Bernini e Maria Stella Gelmini, il vice presidente azzurro Antonio Tajani, Sestino Giacomoni. C'erano Adriano Galliani, l'avvocato Niccolò Ghedini, il deputato Andrea Orsini e la senatrice Licia Ronzulli, che ha pubblicato lo scatto sul suo profilo. Nell'immagine anche la famiglia scodinzolante dei barboncini Dudù, Dudina e Harley. Tutti avevano notato che il clima era rilassato, con molta gente in giro, i figli Barbara, Luigi, i nipoti, amici vari. Un'aria estiva di libertà. Tutta un'altra storia rispetto al «regime militare», come aveva osservato Ghedini, che si respirava a casa di Marina, dove il patriarca aveva passato tutto il lockdown. Anche in Provenza alcuni di quelli della foto erano andati a trovare il «dottore». Ma sembrava un «bunker», ha racconta uno di loro, «una villa blindata dove non si entrava se prima non mostravi il tampone fatto 24 ore prima, con tanto di scritta «negativo». Distanziamento anche in giardino, lontani a tavola». Gelmini è sicura che quando il gruppo dirigente di Forza Italia quel 6 agosto si recò a Villa Certosa Berlusconi non aveva contratto il virus. E i partecipanti all'incontro da allora non accusano alcun sintomo. «Sto bene e non sono preoccupata, detto questo bisogna stare sempre in guardia», dice la capogruppo azzurra. «Sì, bisogna tenere alta la guardia - sostiene Giacomoni - perché questo virus è insidioso per quante precauzioni si possano prendere». Giacomoni racconta che il leader aveva fatto il tampone prima di riceverli e lo stesso avevano fatto gli ospiti. «Sono sicuro che il contagio a Villa Certosa sia arrivato dopo la nostra riunione. Detto questo - aggiunge - ho sentito il presidente desideroso di lavorare, di dare il suo contributo alla campagna elettorale. Voleva pure andare di persona in Campania, ma già prima di sapere di aver contratto il virus glielo abbiamo sconsigliato». Giacomoni sorvola su chi avrebbe potuto contagiare Berlusconi. Gira la voce che sia stata Barbara, alla quale piace la vita mondana. Si dice pure che Marina sia furibonda per il lassismo al quale è rimasto esposto il padre in Sardegna. «Ma la caccia all'untore - afferma Giacomoni - è ridicola. Pensate che oggi un'agenzia ha scritto che il ministro Gualtieri ha partecipato all'audizione della commissione di vigilanza su Cassa depositi presieduta da me, facendo notare che io c'ero pure nella foto a Villa Certosa». Ghedini si sente strasicuro: fa due tamponi alla settimana e ha già fatto quattro volte il test sierologico. E poi racconta di non partecipare mai alle feste, «l'ultima volta forse è stata 40 anni fa, quando ero ragazzino». Martedì scorso ha incontrato Berlusconi a pranzo con tutte le cautele di questo mondo, in giardino e in una sala dove campeggia un apparecchio che purifica l'aria. Ovvio che il Cavaliere non possa andare in giro a fare campagna elettorale. C'è però una cosa che non sopporta, che lo rende triste. Lo ha confidato a Galliani, uno di quelli della foto, che è andato a fargli visita. Lo ha trovato in forma, hanno parlato a lungo di politica e calcio. Ecco, il leader azzurro ha confessato che il suo più grande rammarico è di non potere assistere alla partita di sabato sera tra il suo Monza e il suo ex Milan. Sarebbe stata la sua prima volta allo stadio per vedere il Milan come avversario.
L. U. per “la Stampa” il 4 settembre 2020. «La cosa più giusta da fare, in questo frangente, è affidarsi con la massima fiducia alle terapie, seguire scrupolosamente le indicazioni dei medici». Veronica Lario è più che una spettatrice attenta alla comparsa del Covid 19 a casa Berlusconi, con il contagio che ha colpito i figli Barbara e Luigi, oltre che il Cavaliere. Segue costantemente il decorso della malattia, ma lo fa con la discrezione diventata una cifra di vita, respingendo la richiesta di dichiarazioni pubbliche. «Non serve che unisca la mia voce al coro di auguri», ha confidato a chi le ha parlato ieri. Il messaggio di pronta guarigione e la vicinanza a chi sta affrontando una malattia sono qualcosa che lei crede giusto manifestare in maniera privata e diretta, anche se risulta che fino a ieri pomeriggio non ci fossero state telefonate con l'ex marito. Ma sarebbe sbagliato voler leggere in questo altro che non un momento di attesa, un passo di lato per lasciare spazio ai contatti da parte delle istituzioni e degli esponenti politici. Sono i figli a tenerla aggiornata sulle loro condizioni e sulla risposta alle terapie, che come ha detto lo stesso ex premier sembra procedere in maniera confortante. E proprio l'importanza delle terapie è ciò che Veronica Lario tiene a sottolineare. Sì è informata e documentata: «Non sono un medico e non ho competenze specifiche, ma ci sono ancora troppi aspetti di questa malattia che vanno capiti». Dubbi estesi anche all'arrivo del vaccino, per i tempi e l'efficacia ancora sconosciuti. Oggi non rappresenta ancora una soluzione, quindi «la sola certezza disponibile è la competenza dei medici».
Paolo Cappelleri per l'ANSA il 4 settembre 2020. "Voglio rassicurarvi che sto abbastanza bene, sono anch'io vittima come tanti italiani del contagio del covid, una malattia di cui non ho mai sottovalutato l'importanza, né i rischi che comporta e la conseguente necessità di misure rigorose di tutela della salute pubblica". Con una telefonata nel tardo pomeriggio a un convegno di Forza Italia a Genova, Silvio Berlusconi è uscito virtualmente dalle mura di Villa San Martino ad Arcore, dove da due giorni è in isolamento dopo il tampone positivo al coronavirus. "Mi è capitato anche questo. Non ho più febbre, non ho più dolori e voglio rassicurarvi sto abbastanza bene e continuo a lavorare". continuo a lavorare e parteciperò in tutti i modi possibili alla campagna elettorale in corso". "E' un leone, supererà anche questa", assicura chi gli sta vicino, liquidando le indiscrezioni secondo cui invece qualche sintomo sarebbe ancora evidente . Di certo, i quasi 84 anni e i problemi cardiaci risolti in passato impongono uno stretto controllo e non è escluso che possano essere programmati esami all'ospedale San Raffaele di Milano. "E' una malattia di cui non ho mai sottovalutato l'importanza né i rischi che comporta", ha aggiunto il leader di Forza Italia, che, secondo più fonti, ad agosto avrebbe invece allentato le attenzioni rispettate prima, soprattutto durante il lockdown nella residenza della figlia Marina a Valbonne, in Provenza. Tanti incontri, poche mascherine. Ora ricostruire a ritroso la catena dei contagi è quanto meno difficile. Positiva è anche la sua nuova compagna, Marta Fascina, che ha trascorso con lui il lockdown, lo ha accompagnato sulla barca di Ennio Doris e in Sardegna. Dove sono ancora in isolamento domiciliare a Villa Certosa due figli dell'ex premier, Barbara e Luigi, che pare non abbiano avuto contatti ravvicinati con il padre dal 16-17 agosto. Fra i contagiati nella cerchia di Berlusconi, c'è anche un uomo della sua scorta, quest'estate al suo fianco ad Arcore e in Provenza. Non a Villa Certosa, luogo che il leader di Forza Italia ha lasciato il 19 agosto, appena appreso che potevano esserci positivi in famiglia, volando ad Arcore. Pochi giorni prima, la sera di Ferragosto, il leader di Forza Italia nella sua residenza sarda avrebbe ospitato una festa con alcune decine di persone. Quella settimana, poi, i figli Barbara e Luigi con lo yacht di famiglia si sono trasferiti a Capri, trascorrendo una serata all'Anema e Core. Punto di riferimento della vita notturna dell'isola, quel locale questa estate ha ospitato vip transitati dal Billionaire, focolaio in Costa Smeralda, e gruppi di turisti che poi hanno dovuto fare i conti con il tampone positivo. Come poi è successo a Luigi e Barbara, che ha avuto sintomi per un paio di giorni, nonché ad alcuni nipoti di Berlusconi. Rientrato ad Arcore, l'ex premier si è sottoposto a due tamponi e a un test sierologico, tutti negativi, e nella sua villa in Brianza ha ricevuto diversi esponenti politici. Il 20 si è goduto anche un piccolo bagno di folla ad Angera, sulla sponda varesina del Lago Maggiore, ritratto nelle foto senza mascherina, così come nel video della settimana prima a Villa Certosa con Flavio Briatore, risultato poi positivo. Berlusconi è volato il 27 agosto in Provenza, diventata regione a rischio coronavirus, rientrando ad Arcore il primo settembre. L'indomani il tampone positivo. Dall'agenda ha dovuto cancellare, "con molto dispiacere" assicura Adriano Galliani, anche il ritorno in tribuna a San Siro, per la suggestiva amichevole fra il suo Monza e il Milan, di cui è stato proprietario per trentuno anni. La sua segreteria ha raccolto una mole di messaggi e gli ha augurato pronta guarigione anche Romano Prodi, avversario del Cavaliere in molte sfide elettorali. "Tanta vicinanza - ha osservato Berlusconi - mi ha commosso ed è il miglior incentivo ad andare avanti, avendo ben presente la sofferenza di tante famiglie vittime di questa malattia insidiosa" alle quali va "la mia partecipazione e il mio affetto". E ora tocca a lui e alla sua famiglia combattere contro il Covid.
Tommaso Labate per corriere.it il 5 settembre 2020. «Allora, gli esami li abbiamo fatti e io mi sento abbastanza bene. Adesso posso tornare a casa, giusto?». Con l’«umore non proprio dei migliori» di Silvio Berlusconi, di cui poi parlerà apertamente durante la diffusione del bollettino medico di metà pomeriggio, il professor Alberto Zangrillo inizia a fare i conti a mezzanotte in punto. Esattamente sedici giri d’orologio prima della conferenza stampa del primario anestesista trasmessa a reti unificate da tutti i siti d’informazione, nelle prime ore di una nottata che sarà insonne per entrambi. Il medico oggi più celebre del San Raffaele e il più celebre dei suoi assistiti sono faccia a faccia in una stanza dell’ospedale di Milano Due, nel rispetto dei dispositivi di sicurezza predisposti per accogliere una persona contagiata dal Covid-19. Il dialogo è complicato, anche perché c’è la distanza e ci sono le mascherine di mezzo. E poi Berlusconi è affaticato, avverte leggeri sintomi di stanchezza e spossatezza, anche se non ha febbre. Vuole tornare a casa, a villa San Martino, da cui era uscito con la promessa che sarebbe stato giusto per il tempo di fare un esame e poi via, l’avrebbero riportato indietro. Non succederà nulla di tutto questo. Con i risultati della Tac ai polmoni sotto gli occhi, portati dal tecnico di laboratorio mentre le dita di Berlusconi tamburellano nervosamente sul lettino, Zangrillo oppone il suo niet alla voglia del Cavaliere di tornare ad Arcore per smaltire i sintomi del Coronavirus nello spazio isolato che gli avevano ricavato all’interno della villa — soggiorno con vista sulla parte nord del parco circostante e uso esclusivo della sala da pranzo adiacente — magari continuando a fare la campagna elettorale per le Regionali al ritmo di due telefonate al giorno. La diagnosi immediata di Zangrillo rimanda a una polmonite bilaterale, individuata per fortuna nella sua «fase precoce». Non c’è da allarmarsi ma nemmeno da stare tranquilli. Non c’è immediato pericolo di finire in terapia intensiva ma nemmeno la serenità di rispedire il paziente a casa, come se nulla fosse. Soprattutto perché di mezzo ci sono, oltre agli anni che diventeranno ottantaquattro il 29 settembre, anche quelle patologie pregresse che l’hanno portato a frequentarlo spesso, il San Raffaele, negli ultimi anni. Berlusconi, alla fine del dialogo, accetta di farsi ricoverare. Gli ripetono a più riprese quello che sarà il mantra dei comunicati ufficiali e delle voci ufficiose, la formula dei «fini precauzionali» per cui è meglio stare in ospedale e mantenersi anche sotto la più bassa soglia di rischio. Gli parlano di quella «situazione confortante», che Zangrillo stesso sottolineerà a più riprese rispondendo ai cronisti nel pomeriggio. E gli illustrano un percorso che sarà lungo almeno dieci giorni, il perimetro temporale durante il quale i polmoni del Cavaliere giocheranno la loro partita con l’infezione polmonare derivante dal Coronavirus, con l’obiettivo primario di non farla avanzare oltre lo stato precoce. E dire che la serata precedente, quella di giovedì, era cominciata sotto tutt’altro segno. «Avevo qualche linea di febbre ma adesso è passata», aveva ripetuto Berlusconi parlando al telefono con compagni di partito e avversari politici (tra questi, ore prima, anche col presidente del Consiglio Conte). Alle 22, dopo averlo sentito, Zangrillo lo convince a raggiungere il San Raffaele per sottoporsi a una Tac ai polmoni. Come a dire, togliamoci il pensiero, vediamo che cosa esce, il tempo di avere le lastre, le guardiamo e si torna a casa come se nulla fosse. L’ex premier accetta di buon grado, anche se il sentirsi decisamente meglio rispetto alla mattina l’aveva già portato ad abbassare la guardia. «Sto meglio rispetto a qualche ora fa, le linee di febbre che avevo non ci sono più. Buon segno, no?». Alle 23, i diciannove e rotti chilometri che separano il cancello di Villa San Martino dall’ingresso dell’ospedale di Milano Due sono già stati coperti dalla colonna di auto di Berlusconi. Le macchine torneranno all’alba indietro senza il loro legittimo proprietario, che rimane ricoverato. Le domande sullo stato di forma di Berlusconi troveranno risposte nell’arco dei prossimi dieci giorni. Le paure sul possibile allargamento del cluster familiare non sono ancora alle spalle. Anche se una notizia positiva, ieri all’ora di cena, arriva. I componenti del consiglio di amministrazione di Fininvest che si erano sottoposti al tampone a Milano (c’è chi l’ha fatto fuori regione) — avevano incontrato l’ex premier martedì sera a cena, nel posticipo del tradizionale pranzo del lunedì — hanno avuto l’esito del test. Tutti negativi al Covid-19. A cominciare da Adriano Galliani, che a meno di sorprese dell’ultimo minuto potrà assistere all’amichevole Milan-Monza. Seduto accanto a una sedia vuota, quella che sarebbe toccata a Berlusconi.
Massimo Giannini per ''La Stampa'' il 4 settembre 2020. «Certo, non ci voleva. Ma combatto come sempre. Ne ho passate tante, supererò anche questa». È il pomeriggio tardo ad Arcore, e la voce di Silvio Berlusconi al telefono è solo un po' più ovattata e più nasale del solito. Come se il Cavaliere, invece di essere positivo al Coronavirus, fosse solo raffreddato. «Eh no - aggiunge - purtroppo questo non è un raffreddore Adesso che la cosa mi riguarda personalmente, e non solo me ma anche la mia famiglia, mi rendo conto una volta di più di quanto sia grave questa tragedia che ci è capitata. Mi rendo conto di quanti lutti ha seminato in tante famiglie, di quanto dolore ha causato a tante persone. Penso a chi non c'è più, penso a chi ha perso i suoi cari». "Ricoverato" nella sua Villa San Martino, il leader di Forza Italia non nasconde un filo d'ansia, ma smentisce le voci più pessimistiche che già dal primo pomeriggio di ieri avevano preso a circolare tra i cronisti. «Guardi, non posso dire di essere al 100 per cento, ma mi sento solo un po' debole. Per il resto, ieri ho avuto la febbre, ma è passata. Ho avuto dolori ai muscoli e alle ossa, ma sono passati». «Insomma, per essere positivo al virus, non mi lamento. Soprattutto, come le ripeto, se guardo alle sofferenze di tanta altra gente». Un po' più di preoccupazione, a casa Berlusconi, c'è per la fidanzata Marta Fascina, e soprattutto per le condizioni della figlia Barbara, che ha avuto febbre alta per dieci giorni, e per il figlio Luigi, anche lui tuttora febbricitante. Ma la situazione, anche per loro, è sotto controllo. Tanto che il Cavaliere, già dalla mattina alle 8, si è rimesso a lavorare. «Si, ho fatto un'intervista, ho preparato il mio saluto all'iniziativa in Liguria sulla disabilità, ho fatto e ricevuto tante telefonate, ho letto un po' di report». E qui rispunta fuori lo spirito del Combattente, quello che gli abbiamo sempre riconosciuto, anche quando ha commesso i suoi errori più gravi, anche quando ha forzato le regole, anche quando ha violato la legge o ha picconato "toghe rosse" e "comunisti", partiti e istituzioni. Il vecchio leone che, nonostante i rovesci e l'età, non si arrende. E non arretra mai sui due fronti che gli stanno più a cuore. Il primo fronte è la politica, ovviamente. In vista delle regionali del 20 non sarà in campo nei territori: «Ma farò comunque campagna elettorale», come ha annunciato in collegamento telefonico ai forzisti liguri, citando Platone e «i cittadini che non votano scegliendo il governo della propria città e che meritano il più pericoloso governo di incapaci». Proprio in mattinata il leader azzurro ha ripassato i sondaggi di Alessandra Ghisleri: «Sono più di 7 milioni gli italiani che dichiarano di non aver intenzione di andare a votare perché disgustati dalla politica, ma che dicono di essere moderati, conservatori e simpatizzanti del centrodestra. È soprattutto a loro che dobbiamo rivolgerci nel finale di questa campagna elettorale». Il Cavaliere non si scompone nemmeno di fronte ai numeri sconfortanti di Forza Italia, che un tempo viaggiava intorno al 40 e oggi oscilla tra il 6 e l'8 per cento: «Siamo gli unici a combattere contro le tre grandi oppressioni dello Stato, quella fiscale, quella burocratica e quella giudiziaria. Per questo restiamo indispensabili, per un centrodestra in grado di governare, di rilanciare il Paese, di essere credibile in Italia e nel mondo». Il secondo fronte è il business, naturalmente. E anche qui il Cavaliere ti stupisce. In mattinata, nonostante il Covid, si è studiato la sentenza della Corte Ue che ha dato ragione a Vivendi riconoscendo l'illegittimità del "congelamento" della sua quota azionaria del 28 per cento in Mediaset, ma che abbattendo di fatto i tetti alle concentrazioni previsti dalla legge Gasparri ha potenzialmente riaperto tutti i giochi nel settore delle telecomunicazioni. Non a caso, a questo punto, il Biscione non esclude di poter entrare nella partita della Rete Unica appena avviata dopo il disco verde dei cda di Tim e Cdp. Certo, ora c'è il rischio che nel grande gioco si affaccino anche gli Over The Top della Rete, da Google a Facebook, da Amazon a Apple. E di nuovo l'uomo di Arcore ne sfodera una delle sue: «Come stanno andando i vostri giornali? Io sono preoccupato, perché questi colossi del Web ci stanno uccidendo. Lei pensi che proprio stamattina leggevo un report inquietante. La pubblicità sulle televisioni è scesa al di sotto di quella su Internet: la prima rappresenta il 37 per cento, la seconda il 46 per cento della torta complessiva. Non era mai successo nella storia: si rende conto?». C'è solo una speranza: «Che l'economia si riprenda in fretta», aggiunge. E questo vale anche per la sua salute. È quello che gli hanno augurato in tanti, in queste ore. «Sì, non glielo nascondo, ho ricevuto tante di quelle telefonate e di quei messaggi che sono felice ma anche imbarazzato, perché non so se riuscirò a rispondere a tutti». Dagli alleati Salvini e Meloni, ovviamente, ai rivali Zingaretti e Prodi, sorprendentemente. «Un po' mi sono stupito, ma sa che le dico? Evidentemente oggi sta pagando il mio modo di fare politica, la mia attenzione ad evitare polemiche inutili e a non demonizzare mai gli avversari. Si vede che questo mio atteggiamento costruttivo finalmente l'hanno registrato anche a sinistra». Negli anni in cui ha governato la storia era diversa, con scelte ai limiti dell'eversione costituzionale, ma oggi non c'è dubbio: di fronte al radicalismo populista del Capitano della Lega il Cavaliere di Arcore sembra, inopinatamente, De Gaulle. Forse anche il virus incide. «È una malattia insidiosa, e infatti non l'ho mai sottovalutata», dice adesso Berlusconi, quasi a voler prendere le distanze dai negazionisti della destra no-mask. Ad Arcore, a quanto pare, quelli che "il Covid non esiste" godono di poca simpatia. Nell'entourage del Cavaliere non ce l'hanno solo con Salvini. Anche il video girato a Villa Certosa e postato sul Web da Briatore (un po' troppo "sborone", come si dice da quelle parti) ha dato parecchio fastidio. E persino certe uscite "riduzioniste" del medico personale del leader non sono state apprezzate. Mentre la figlia Marina faceva di tutto per tenere con sé in Provenza suo padre, evitando di farlo andare in giro ad esporsi al contagio, il professor Zangrillo in tv ridimensionava ogni giorno la portata del rischio. Così è passato un messaggio fuorviante. Ma di tutto questo Berlusconi non vuol parlare. Come non vuol parlare di chi, dove e come possa avergli trasmesso l'agente patogeno. Briatore reduce dai calcetti e dai balli del Billionaire? La stessa figlia Barbara di ritorno dalle feste di Capri? Il Cav non ci pensa e guarda avanti. «Sto abbastanza bene, non mollo - conclude - e anche stavolta non riuscirete a liberarvi di me». Guarisca, presidente.
Federico Garau per il Giornale il 4 settembre 2020. In queste ultime ore si sta molto parlando della positività di Silvio Berlusconi al test del tampone faringeo dopo il suo soggiorno in Sardegna. Oltre al leader di Forza Italia, anche i figli Barbara e Luigi e la compagna Marta Fascina sono risultati contagiati. È stato lo stesso dottor Alberto Zangrillo, primario dell’Unità Operativa di Anestesia e Rianimazione Generale e Cardio-Toraco-Vascolare al San Raffaele di Milano e medico curante dell'ex premier a spiegare la situazione, dichiarando che Berlusconi è al momento asintomatico e si trova in isolamento domiciliare ad Arcore. Non è passato neppure un giorno dalla divulgazione della notizia, che sono già partiti i primi ignobili strali nei suoi confronti. C'è anche chi, senza porsi alcun problema, gli ha augurato la morte. "Confessiamolo: chi di noi non ha pensato, sapendo del contagio di Hurluberlu, "forse questa è la volta buona?", ha scritto sul proprio profilo social il linguista italiano Raffaele Simone, come riportato da "LiberoQuotidiano". "Chi, vedendo questa foto, non ha pensato: "Magari ci liberassimo di tutti questi?". Si pensa, ma non si può dire, e meno ancora scrivere. Si ha paura che la sorte si ritorca contro chi augura il male e lo punisca. (I vilain, in particolare, sono capaci di questo effetto boomerang... ). Peccato. Ma, come c’è un giudice a Berlino, così c’è un Covid 19 anche per i potenti e i prepotenti". Parole di una freddezza e di una crudeltà inaudite, che hanno scatenato la durissima la replica della giornalista Maria Giovanna Maglie, subito intervenuta per denunciare l'intervento di Simone e rimettere il soggetto al proprio posto. "Leggete con attenzione questo testo e ditemi voi se questo che augura la morte a @Berlusconi e ai parlamentari di Forza Italia è un professore anche emerito o invece semplicemente un patetico pericoloso risentito sociale", ha scritto la saggista e opinionista italiana sul proprio profilo Twitter. Tanti i commenti sotto il post della Maglie. "Il solito pezzo di sterco sinistro", ha sentenziato un utente. "Come era la barzelletta sulla commissione Segre..." aggiunge un altro."Signora Maglie, dico solo che l’ultimo governo da noi votato è stato quello di Berlusconi, da lì in poi il buio, spero di vedere presto una luce di speranza e di libertà di pensiero, così non va bene per tutto e tutti... il mondo intero è partecipe", ha replicato un internauta. "Di fronte alla malattia (seppur stavolta solo positività senza sintomi) si tace. Non per paura o convenienza, ma perché siamo umani. E tra umani ci si rispetta, soprattutto di fronte alla fragilità. Fa male scoprire quanto odio si celi sotto il buonismo (da posto fisso)", conclude un altro utente. Infine è intervenuta anche Licia Ronzulli, vicepresidente del gruppo Forza Italia al Senato, sui suoi profili social: "Che i leoni da tastiera, il cui unico scopo di vita è offendere chicchessia, possano scivolare in commenti inadeguati è, purtroppo, ormai cosa di tutti i giorni. Però, che a perdersi in commenti inopportuni, qualunquistici e di basso spessore sui social sia addirittura qualche emerito docente universitario è francamente inaccettabile".
Gigi Di Fiore per “il Messaggero” il 4 settembre 2020. Nei tre bar della piazzetta non ci sono più di 18 tavolini occupati. La gente gira con la mascherina, come obbliga l'ordinanza del sindaco Marino Lembo. «Capri isola sicura» dice lo slogan dell'associazione albergatori presieduta da Sergio Gargiulo. E la notizia che Barbara Berlusconi sia stata contagiata a Capri dal Covid viene da tutti respinta. Dice il sindaco Lembo: «Ho appreso solo dalla stampa che la signora Barbara Berlusconi è stata a Capri. E mi è sembrato un gossip. Non lo sapevo, evidentemente è rimasta poco tempo sull'isola e nella massima riservatezza. Ho letto anche che ha scoperto di essere positiva al coronavirus, contagio che non può essere sicuramente avvenuto qui. Le auguro di cuore una guarigione rapida». Quando è stata a Capri, Barbara Berlusconi? Era il 14 agosto scorso. La figlia del leader di Forza Italia arriva a bordo del panfilo di famiglia Morning Glory direttamente dalla Costa Smeralda in Sardegna. È con undici amici, tra cui sembra anche un paio di manager di note aziende del settore dell'abbigliamento. Lo yatch è lungo oltre 52 metri e per questo non può entrare nel porto turistico: resta in rada, ma nella comitiva c'è l'intenzione di trascorrere una serata a Capri. Sono venuti apposta. La comitiva di Barbara Berlusconi scende a Marina Grande, ad attendere gli undici ci sono tre taxi. La prima tappa è il ristorante Da Paolino per la cena. Poi la piazzetta e, per terminare la serata, naturalmente la taverna night Anema e core di Guido Lembo. È ancora aperta, ma per l'ultima notte. Il giorno dopo, con decisione autonoma, chiuderà i battenti per le restrizioni sul coronavirus. Conferma Gianluigi Lembo, il figlio di Guido: «Quella sera, ci venne chiesta massima discrezione. La prenotazione fu fatta ad altro nome. Il gruppo si sistemò in un'area privé recintata e riservata. Per il periodo in cui siamo rimasti aperti, dagli inizi di luglio al 15 agosto, non abbiamo mai accolto più di 60 persone privilegiando la soluzione privé che consentiva distanziamento e sicurezza. Naturalmente, nessun nostro dipendente è risultato mai positivo». La comitiva di Barbara Berlusconi entra e esce da un'uscita secondaria. Poi, di nuovo a Marina Grande e ritorno nella notte in Sardegna. Un blitz rapido, che nei giorni successivi scatena singolari tam tam nelle messaggerie smartphone del mondo imprenditoriale. Tanto che, il 23 agosto, la testata online Affari italiani scrive: «Rumors accennano al fatto che notissimi esponenti dell'imprenditoria italiana, tutti in vacanza sulla stessa barca, avrebbero scoperto di aver contratto il coronavirus dopo una serata di baldorie e balli al Billionaire replicata, dopo un'allegra navigata la sera successiva, all'Anema e core di Capri». La notizia è rimasta per qualche giorno limitata a circuiti ristretti e il sindaco di Capri osserva: «Nessuna Asl di altre regioni ha avvisato la Asl locale che ci sono stati casi di coronavirus scoperti su persone sbarcate sull'isola anche se per poche ore». Ora Capri è indicata come possibile origine del virus che Barbara Berlusconi avrebbe poi passato al padre Silvio. «L'origine di quel contagio va ricercata altrove», rispondono in piazzetta.
Lettera di Anonimo Caprese a Dagospia il 4 settembre 2020: Barbara Berlusconi arriva a Capri il 14 agosto in tardo pomeriggio, proveniente dalla Sardegna. Sosta in rada a Marina Piccola. Lei con il gruppo di amici decide di cenare da Paolino. La prenotazione viene fatta a nome della barca. Alle ore 00.30 l’intera comitiva si dirige all’Anema & Core, passando da una porta di servizio. Lo staff Anema & Core sapeva chi fossero le persone, prova ne sia che fu fatto approntare un tavolo nel “ recinto “, cioè sotto la band. Nessuno del gruppo della Barbara Berlusconi indossava mascherina né fuori, né tantomeno dentro il locale, come d’altronde non ha fatto nessuno all'interno…Alle 02.30 hanno lasciato il locale per dirigersi verso la barca e salpare alle prime luci dell’alba. Tutto bene, se non fosse che Barbara Berlusconi aveva passato molto più tempo a Porto Cervo, dove aveva partecipato a diverse cene e party, mentre la sua permanenza a Capri è durata meno di un giorno. Il Covid-19 non ti dice dove te lo sei preso, ma noi a Capri fino a metà agosto avevamo solo 4 persone asintomatiche positive, seguite dalla ASL nelle proprie abitazioni. Si trattava di 4 ragazze capresi di 18 anni, provenienti da un viaggio organizzato in Grecia per i maturandi, un girone dantesco senza precedenti, per le foto messe sui social dalle ragazze. Capri, ancora ti ricordo, è stato il primo Comune, che ha obbligato l’uso delle mascherine 24 h, anche per le strade del territorio. Difficile che Barbara possa averlo preso a Capri, più facile che lo abbia portato lei sull'isola, visto la zona ad alta contagiosità da cui veniva lei con il suo nutrito gruppo di amici.
Giuseppe Scarpa per ilmessaggero.it il 3 settembre 2020. Una vacanza nella vacanza, per Barbara e Luigi Berlusconi. Che nei giorni di Ferragosto hanno lasciato la Costa Smeralda, troppo affollata, e si sono diretti a bordo dello yacht di famiglia, il Morning Glory, a Capri. E proprio qui avrebbero trascorso la serata fatale da cui sarebbe partito il contagio Covid che ha sconvolto la famiglia dell'ex premier. Una serata all'Anema e Core tra canti e balli e assai poche mascherine, affollata anche da tanti ragazzi della Roma bene, che si sarebbe trasformata in un cluster vip. I primi sintomi sono stati avvertiti quasi subito da Barbara, tanto da suggerire un test immediato, se non in alto mare quasi. Tornati in Sardegna, infatti, il Morning Glory ha gettato l'ancora nella baia di Portisco. Qui alcuni medici sono saliti a bordo evitando di dare nell'occhio, e hanno effettuato i tamponi a tutta la comitiva. Il risultato: positivi Barbara e Luigi, ma anche il compagno di lei, Lorenzo, e i due figli maggiori dell'ex dirigente del Milan. A quel punto nessun contatto ci sarebbe più stato tra i berluschini e papà Silvio, volato via precipitosamente alla volta di Arcore.
Angela Frenda per corriere.it il 4 settembre 2020. «Un trattamento disumano, quello che mi stanno riservando». In una giornata di grande preoccupazione per la salute del padre, mentre è ancora in quarantena insieme con i suoi figli a Villa Certosa, Barbara Berlusconi avrebbe solo voglia di chiudersi a riccio con tutto e tutti. Non le piace quello che ha letto sui giornali stamattina: lei dipinta come la persona che ha trasformato in cluster la residenza sarda dell’ex premier. Ma, soprattutto, la primogenita di Berlusconi e di Veronica Lario non condivide il modo in cui tutta la vicenda è stata gestita e interpretata, addossando a lei responsabilità pesanti e, a suo parere, ingiuste. Così, alle pochissime persone alle quali ha risposto al telefono non ha fatto che ribadire il suo pensiero: «Nei giorni in cui vivo momenti di grande angoscia per la salute di mio padre penso sia disumano essermi trovata su tutti i media come l’untrice ufficiale della persona a cui voglio più bene. Vorrei proprio capire su quali basi sono stata indicata con certezza come la responsabile. Tra l’altro, i tempi e i ripetuti tamponi negativi fatti da mio padre dimostrano il contrario. La caccia all’untore è una cosa da Medioevo, e la trovo umanamente inaccettabile oltre che scientificamente indimostrabile». Non ci sta, insomma, Barbara, a interpretare il ruolo della colpevole, proprio mentre le condizioni del leader di Forza Italia diventano comunque più serie di quanto si potesse ipotizzare inizialmente. E lei, che di quell’uomo è la figlia, sente di avere addosso, oltre alla naturale ansia per un genitore, anche la responsabilità di essere additata pubblicamente come colei che quella malattia l’avrebbe portata in casa. Un «trattamento disumano» del quale dà la responsabilità ai media, va bene, ma anche a un certo mondo vicino al padre che, forse, non la ama poi così tanto. E pensare che, ritagliandosi un ruolo più defilato, dopo l’esperienza dirigenziale al Milan, credeva di essersi oramai salvata da certi veleni interni. Questa ultima vicenda, però, le sta dimostrando il contrario. Ma quello che non accetta è la ricostruzione fatta della sua estate, nella quale la si dipinge come una irresponsabile che sarebbe andata per feste e movida, senza alcuna cautela. «No, non ci sto a sentirmi dire questo. Non mi riconosco in questa specie di ritratto. Non ho condotto alcuna vita sregolata in Sardegna. Le volte che sono uscita la sera in tre mesi si possono contare sulle dita di una mano. Mai come quest’anno sono stata praticamente sempre a Villa Certosa: altro che movida… Pannolini, piuttosto!». Ma è soprattutto sulla tempistica che Barbara insiste per allontanare i sospetti, le ipotesi velenose, le illazioni: «Dopo tre tamponi e un test sierologico negativi è molto improbabile che papà abbia preso il Covid 19 da me. Lui è risultato positivo molto dopo, e ultimamente il periodo di incubazione del virus si è ridotto». Insomma, il messaggio è chiaro: non buttatemi addosso fango, non addossatemi colpe non mie. Soprattutto in un momento in cui la tensione per la salute di Silvio Berlusconi è altissima. E lei, da figlia, chiede di poter vivere questi momenti senza ricostruzioni «indimostrabili e strumentali». Aggiungendo: «Credo di averne diritto».
Silvio Berlusconi, lo sfogo prima del ricovero: "Non date la colpa a Barbara". Libero Quotidiano il 04 settembre 2020. "Non date la colpa a Barbara". L'auto di Silvio Berlusconi ha varcato il cancello dell'ospedale San Raffaele di Milano intorno alla mezzanotte, il professor Alberto Zangrillo primario di Anestesia, le condizioni del Cavaliere sono cominciate a peggiorare nel tardo pomeriggio quando la febbre è salita. Immediata la richiesta di tac che secondo fonti mediche ha evidenziato "l'inizio di una polmonite bilaterale". Diagnosi che ha costretto Zangrillo ad imporre al Cavaliere il ricovero in isolamento nel settore Diamante del nosocomio nella sua camera abituale. Nelle ultime 48 ore sono stati spulciati tutti i movimenti di Silvio Berlusconi, spostamenti, incontri, con famigliari, parenti e amici. La ricostruzione delle date fa pensare che il contagio sia avvenuto attraverso la figlia più piccola, Barbara e i suoi figli. Al Cav però non interessa sapere come e da chi "ormai è fatta" e soprattutto non vuole che la privacy della sua famiglia sia invasa. L'altra preoccupazione del Cavaliere è per il business. Ieri la Corte di Giustizia europea in una sentenza storica ha accolto le tesi di Vivendi sul Tusmar della legge Gasparri, la norma sulla quale l'Agcom ha intimato ai francesi di scegliere tra la partecipazione rilevante in Tim o in Mediaset. Anche se i tempi di applicazione concreta delle decisione sono tutti da definire, la Corte è intervenuta in modo netto, rompendo il principio di impossibilità di controlli incrociati tra gruppi delle telecomunicazioni e operatori televisivi. Berlusconi sta studiando la sentenza della Corte Ue che ha dato ragione a Vivendi riconoscendo l'illegittimità del congelamento della sua quota azionaria del 28% in Mediaset. "Sono preoccupato", ha detto in un'intervista a La Stampa, -perchè questi colossi del web ci stanno distruggendo. La pubblicità sulle tv è scesa al di sotto di quella su Internet. Non era mai successo nella storia: si rende conto?".
Silvio Berlusconi, Massimo Clementi: "Il tampone ha evidenziato una carica virale alta". Libero Quotidiano il 06 settembre 2020. Su Silvio Berlusconi ricoverato al San Raffaele per coronavirus le informazioni non sono molte. Ieri, sabato 6 settembre, lo scarno bollettino di Alberto Zangrillo: "Condizioni cliniche stabili" e "cauto ma ragionevole ottimismo". Ma a sbottonarsi un poco di più, interpellato dal Corriere della Sera, è Massimo Clementi, direttore del laboratorio di microbiologia e virologia proprio dell'ospedale San Raffaele di Milano. Come sta davvero Berlusconi? "Non sono un clinico, ma so che l'onorevole Berlusconi non è sottoposto a ossigenoterapia e non lo è mai stato. Ora sta seguendo una terapia con antivirali", spiega. Poi aggiunge che è in cura con "il Remdesivir, l'unico farmaco anti-virale finora autorizzato dagli enti regolatori per la cura di infezioni da virus Sars-Cov-2". Il Remdesivir è efficace solo nelle prime fasi della malattia e Clementi lo conferma, aggiungendo: "La scelta di questo trattamento testimonia che l'infezione è limitata a una replicazione virale. In altre parole, Berlusconi non è andato incontro alla famosa tempesta citochinica. Sta solo combattendo contro il virus e dal punto di vista respiratorio le cose stanno andando bene". Ma c'è un elemento che non può essere sottovalutato, un elemento che ancora non era stato reso noto: "Dopo tanti esami negativi, l'ultimo, la settimana scorsa, si è rivelato positivo e con una carica virale alta. E questo è stato un elemento che ne ha suggerito il ricovero e l' uso di antivirali". Insomma, il tampone ha rivelato una carica virale alta. E un ricovero, per quanto precauzionale, è risultato doveroso.
Bruno Vespa su Silvio Berlusconi positivo: "Il coronavirus dimostra il suo peso politico. Entrerà nei libri di storia". Libero Quotidiano il 05 settembre 2020. Bruno Vespa non ha dubbi: Silvio Berlusconi non è un "ex" della politica. La riprova? I siti di tutto il mondo che, appena scoperta la positività del leader di Forza Italia al coronavirus, hanno rilanciato all'istante la notizia. "Berlusconi - è il plauso del conduttore di Porta a Porta - è stato fin dall'inizio populista nel senso più nobile. Ha intuito il devastante rapporto con i partiti di un'opinione pubblica sconvolta da Tangentopoli, ma niente affatto pronta a consegnarsi ai 'comunisti' e con il suo carisma comunicativo ha fatto sposare da Forza Italia popolo e potere". Per Vespa, che dedica sul Giorno un intero editoriale al Cav, Berlusconi "è l'unico leader di partito in un paese occidentale a essere in carica da 27 anni". Sondaggi a parte l'ex premier "oggi vale molto di più di quanto i suoi stessi seguaci - spesso lacerati da miopi giochi di corrente e da tentazioni voltagabbana - siano disposti a riconoscergli". È lui il vero "elemento di equilibrio all'interno del centrodestra italiano", conteso dalla Lega e da Fratelli d'Italia. E proprio in questi giorni difficili sul leader sono piovuti auguri di veloce guarigione. Auguri - conclude il giornalista - che non sono soltanto il rispetto per una persona d'età, né l'onore delle armi al 'nemico di ieri. Ma la consapevolezza, ammessa sotto voce, che Berlusconi guida con largo margine la lista dei leader della Seconda Repubblica destinati a entrare nei libri di storia".
Adriana Bazzi per il ''Corriere della Sera'' il 6 settembre 2020. Lo scarno bollettino ufficiale di ieri, sulle condizioni di Silvio Berlusconi, parla di «condizioni cliniche stabili» e di «un cauto ma ragionevole ottimismo» sull' evoluzione della sua malattia. Per saperne qualcosa di più, abbiamo sentito Massimo Clementi, direttore del laboratorio di microbiologia e virologia dell' ospedale San Raffaele di Milano (dove il leader di Forza Italia è ricoverato): è la sua équipe che analizza i tamponi dell' illustre paziente e si occupa degli esami virologici.
Come sta davvero Silvio Berlusconi e quali terapie sta seguendo?
«Non sono un clinico, ma so che l' onorevole Berlusconi non è sottoposto a ossigenoterapia e non lo è mai stato (l' ossigenoterapia è un aiuto, a chi ha problemi ai polmoni, per respirare meglio, ndr ). Ora sta seguendo una terapia con antivirali».
Quali?
«Il Remdesivir, l' unico farmaco anti-virale finora autorizzato dagli enti regolatori per la cura di infezioni da virus Sars-Cov-2: è stato sviluppato per combattere il virus Ebola (quello che provoca gravi forme emorragiche, soprattutto in Africa), non è specifico per il nuovo coronavirus, ma funziona anche in questo caso, se utilizzato nelle fasi precoci. È una terapia che può essere somministrata solo in ospedale ed è per questo che si è ritenuto necessario il ricovero al San Raffaele di Berlusconi: è indispensabile, infatti, monitorare, passo dopo passo, gli effetti di questa trattamento».
Ci risulta, però, efficace solo nelle prime fasi della malattia.
«Ecco, è proprio questo il punto. La scelta di questo trattamento testimonia che l' infezione (che ha provocato, in Silvio Berlusconi, una polmonite bilaterale allo stadio iniziale, secondo quando evidenziato da una Tac ai polmoni) è limitata a una replicazione virale. In altre parole, Berlusconi non è andato incontro alla famosa tempesta citochinica (che provoca uno stato di infiammazione generalizzata dell' organismo, richiede cure speciali e, nello scorso marzo, ha provocato tante morti, ndr ). Sta solo combattendo contro il virus e dal punto di vista respiratorio le cose stanno andando bene».
Prende anche i cortisonici, vecchi farmaci che si sono dimostrati particolarmente utili nel caso di Covid 19?
«No».
Forse perché potrebbero interferire con terapie per malattie già presenti?
«Probabilmente sì. I medici stanno cercando di adattare in maniera sartoriale le terapie su un paziente che può essere definito "fragile"».
In che senso?
«Berlusconi ha avuto problemi alla prostata e al cuore. I clinici devono tenere conto anche di questo».
Torniamo all' infezione. Berlusconi è risultato positivo al Coronavirus qualche giorno fa.
«Sì. Era costantemente monitorato ed eseguiva tamponi regolarmente. Dopo tanti esami negativi, l' ultimo, la settimana scorsa, si è rivelato positivo e con una carica virale alta. E questo è stato un elemento che ne ha suggerito il ricovero e l' uso di antivirali».
E adesso?
«Stiamo eseguendo tamponi per vedere se, grazie alle terapie, la carica virale diminuisce. Ma occorre almeno una settimana (meglio dieci giorni di tempo) per valutare l' evoluzione».
L' ultima domanda. Grazie ai tamponi, eseguiti nel tempo, si può risalire al momento del contagio?
«No. Alcune persone diventano positive, dopo il contatto con infetti, in tempi brevi, altri richiedono tempi più lunghi».
Chi ha contagiato il Cavaliere? Il mistero si fa fitto. Nel mirino le feste. Nel panico anche Bernini, Gelmini e Ghedini che ora temono di avere il coronavirus. Mechelangelo Bonessa il 4 settembre 2020 su Il Quotidiano del Sud. Alla fine sarà stato il maggiordomo. Berlusconi ha contratto il Covid19, questo lo sanno tutti, ma non è ancora chiaro come lo abbia preso. E allora ecco partire la caccia all’untore, colpevole di aver costretto l’ex premier allo smart working. Infatti Silvio Berlusconi ha comunicato tramite il suo staff di essere asintomantico e in isolamento nella storica villa di Arcore dove continua a occuparsi delle elezioni. Il “Cavaliere contagiato” fa dunque sapere di essere ancora in sella, ma come si sia trovato nelle condizioni di un qualunque impiegato delle sue aziende resta un mistero. L’unico indizio è la Sardegna, regione trovatasi da terra a prova di Covid a generatrice di focolai. E quando di parla di estate, Sardegna e Berlusconi è impossibile non pensare subito a Flavio Briatore e al suo Billionaire, locale famosissimo dove tutti i famigliari dell’ex premier godono di un trattamento di favore. Le cronache di come Barbara Berlusconi venisse riservato il super-privè del Billionaire sono facilmente reperibili. E quindi il primo a essere colpevolizzato è stato proprio l’amico di vecchia data. L’imprenditore è tornato in questi giorni sulle pagine di tutte le testate nazionali proprio per il Coronavirus: prima è stato chiuso il suo celeberrimo locale perché è diventato il centro di un nuovo focolaio di contagiati. Poi lui stesso è finito ricoverato in ospedale il 24 agosto, ma nei primi giorni ha provato a smentire che fosse per il Covid parlando di una prostatite. Il governatore campano De Luca sul tema aveva commentato: “Si sta curando la prostatite ai polmoni”. Nel frattempo, Daniela Santanché ha provato a sostenere la stessa tesi in televisione e per contrappasso ora è lei che ospita Briatore per il periodo di isolamento domiciliare. Questa catena di sfortune legate all’imprenditore ha suggerito a tutti che potesse essere proprio Briatore, scopertosi neo menagramo, ad aver trasformato Silvio nel cavaliere contagiato: dopo aver indirettamente aiutato la Sardegna a perdere la fama di terra sicura dalle infezioni, dopo aver spinto un’amica a una comica difesa, sembrava ovvio che avesse affondato pure l’ex premier. Il sospetto non era nato a caso: in un video insieme del 12 agosto Briatore diceva: “Ti trovo in forma”. Una frase subito diventata spauracchio per tutti i superstiziosi come lo “Stai sereno” di Matteo Renzi rivolto a Enrico Letta. Ma i tamponi sembrano aver “scagionato” l’imprenditore: i test effettuati il 25 agosto riportavano un esito negativo per l’ottantaquattrenne Berlusconi, sono i successivi che lo hanno spedito in smart working nell’esilio dorato di Arcore. Ma se non Briatore allora chi? Dopo l’ipotesi amico, è scattata quella di famiglia pensando ai più giovani che si sono dedicati alla “vita smeralda” sulle coste sarde. La trentaseienne Barbara è in pole position tra gli “indagati”. Troppe feste secondo il patriarca contagiato che pare l’abbia pure redarguita: lei era risultata positiva già a metà agosto. Ma sembra non abbia rinunciato del tutto alla vita festaiola, passando rapidamente da Maracaibo mare forza 9 a Sardegna col Covid 19. Barbara però non è l’unica: il virus adora le famiglie. Specie se numerose come i Berlusconi. E quindi ha colpito anche il figlio Luigi e Marta Fascina, la nuova compagna di Berlusconi. Una notizia confermata ieri e che gettato nel panico anche i più fedeli collaboratori del Cavaliere contagiato: Niccolò Ghedini, Maria Stella Gelmini e Anna Maria Bernini hanno scoperto improvvisamente di correre il rischio di aver contratto il Coronavirus. E così in un attimo da possibile questione di amicizia, passando per una crisi famigliare tra generazioni, alla fine il contagio del Cavaliere è diventato pure un fatto politico con lo stato maggiore di Forza Italia che potrebbe trovarsi in smart working proprio in periodo di elezioni. Chissà che a qualcuno non dispiaccia viverle per una volta dal divano in pantofole invece che correndo di città in città. La fibra ormai è piuttosto diffusa, almeno quella internet. E quindi non dovrebbe essere difficile collegarsi con i territori. Il primo a partire con la vita in telelavoro è proprio Berlusconi senior, come annunciato dal numero due di Forza Italia Antonio Tajani: “Il Presidente Berlusconi è in piena forma. Mi ha appena confermato che si collegherà con la manifestazione di Forza Italia a Genova verso le 17:30”. Ma se l’ultima volta che un amico ha elogiato il suo stato di salute è stato subito prima di scoprire di essere stato contagiato dal Covid, forse dopo le dichiarazioni di Tajani da Arcore è partito un ordine per un paio di tonnellate di cornetti rossi e altri oggetti porta fortuna: da Cavaliere contagiato a Cavaliere ricoverato il passo è brevissimo. Alla fine, il dubbio resta aperto: chi ha contagiato Silvio? Un amico, un famigliare, una delle mille donne che si dice girino ancora nei letti dell’ex premier? Tra sospetti più o meno fondati, la pista più probabile pare che alla fine sarà quella dei vecchi libri gialli: il colpevole è il maggiordomo.
Da affaritaliani.it il 5 settembre 2020. Sarebbe stata una cena di Ferragosto con tanti invitati a Villa Certosa, la causa del contagio prima dei figli Barbara e Luigi, poi dell’ex premier Silvio Berlusconi con la nuova compagna e deputata forzista Marta Fascina e alla fine pure della sua guardia del corpo. Casa Berlusconi - si legge sul Fatto Quotidiano - si è trasformata in una sorta di focolaio. All’interno del cerchio magico è partita la caccia al responsabile, con tanto di tensioni familiari. C’è chi punta il dito contro Silvio Berlusconi: “Ma se a Ferragosto c’è stata una festa a Villa Certosa con molti invitati ”. E se diverse fonti lo confermano, i più vicini all’ex premier smentiscono: “Non ne sappiamo nulla, al massimo sarà stata una cena”. È la saga di villa Berlusconi, con tanti che ora passano al setaccio tutti gli incontri dell’ex premier nel mese di agosto. Nei giorni successivi Silvio Berlusconi trascorse una giornata ad Angera, sul Lago Maggiore. Non mancarono i selfie . “Si è prestato ad alcune foto con i passanti nei pressi della fontana sul lungolago”, scrive Varesenews. Intanto emerge che, come aveva già anticipato Affaritaliani.it lo scorso 23 agosto, il virus dilagato al Billionaire, è stato "portato" la sera dopo all'Anema e Core di Capri dove tutti i super vip molto "free", in termini di precauzioni, si sono diretti allegramente viaggiando sulla stessa barca. A quella serata hanno partecipato anche i figli dell'ex premier, Barbara e Luigi Berlusconi.
Marina Berlusconi, lo sfogo: “Avrei dovuto tenere papà in Provenza”. Notizie.it il 05/09/2020. Marina Berlusconi ha espresso il suo rammarico per non aver trattenuto in Provenza il padre, positivo al coronavirus dopo le vacanze estive. La positività al coronavirus di Silvio Berlusconi che ha reso necessario un ricovero a scopo precauzionale all’ospedale San Raffaele di Milano non va giù alla figlia Marina, primogenita del Cavaliere che si rammarica per non averlo tenuto in Provenza con lei come durante il periodo di lockdown. Lo sfogo è giunto in una telefonata con un’amica, secondo quanto appreso dal Messaggero, in cui la presidente di Fininvest ha lamentato che finché il padre è rimasto in Francia da lei è stato al riparo da tutto e da tutti e stava bene. Abituata a fare da scudo a Berlusconi e sorvegliare attentamente sulla sua salute vigilando che non si affatichi troppo, lo aveva infatti ospitato nella sua villa provenzale di Chateauneuf-de-Grasse, ad una trentina di chilometri da Nizza. Qui il Cavaliere ha trascorso i mesi caldi dell’epidemia senza mai muoversi se non per un breve trasferimento a Milano per ragioni cliniche. Qui l’ex premier ha trovato protezione e si è tenuto lontano dal rischio di venire contagiato, fino a quando è giunta la decisione di spostarsi in Sardegna. Marina si è premurata di accompagnarlo lei stessa per assicurarsi che tutto procedesse per il meglio, i due hanno festeggiato il compleanno di lei insieme alla famiglia e hanno trascorso dei giorni tra lo yacth Morning Glory e la maestosa Villa Certosa. A bordo del primo erano ammessi solo pochi intimi e chiunque avesse voluto incontrare il padre nella sua residenza avrebbe dovuto presentare l’esito negativo del tampone. Un cordone di sicurezza che però ha iniziato ad allentarsi e ha causato lo scoppio di un cluster familiare. “Tutti vedono Silvio come l’uomo invincibile, il presidente, il leader di partito“, ha concluso Marina, rammaricata per non essersi imposta a tenerlo con sé in Francia.
Valentino Di Giacomo per il Messaggero il 5 settembre 2020. «Finché è stato con me è stato al riparo da tutto e da tutti, stava bene, avrei dovuto impormi per farlo restare in Provenza con me». Marina Berlusconi primogenita del Cavaliere ha affidato il suo sfogo ad un' amica in una lunga telefonata ieri mattina. Chi è riuscito a parlare con la presidente di Fininvest ha colto l' amarezza, ma pure tanta rabbia nelle sue parole. «Tutti vedono Silvio come l' uomo invincibile, il presidente, il leader di partito si è sfogata Marina ma per me è semplicemente papà come Barbara e Luigi sono miei fratelli». Parole di una figlia che ieri sono risuonate anche nel padiglione Diamante del San Raffaele, dove Berlusconi è ricoverato, e dalla clinica si sono diffuse di voce in voce nel partito. Marina da quattro anni a questa parte ha creato attorno al papà un vero e proprio cordone di sicurezza. È dal 2016 che la primogenita di Berlusconi ha deciso di fare da vero e proprio scudo al papà, da quando l' ex premier nel corso di un comizio accusò un malore che rese poi necessario un intervento chirurgico. Da allora è Marina che da vicino o da lontano sorveglia attentamente sulla salute di Berlusconi affinché il papà non si affatichi e non tenga troppi incontri in agenda come è abituato da sempre a fare.
LA FAMIGLIA Marina aveva accompagnato lei stessa il padre in Sardegna proprio per assicurarsi che tutto procedesse per il meglio. La decisione di muoversi dalla Provenza dove da marzo, salvo un breve salto a Milano, sempre per ragioni cliniche, Berlusconi si era ritirato nella villa di Chateauneuf-de-Grasse, ad una trentina di chilometri da Nizza era giunta a ridosso del compleanno di Marina. Una ricorrenza festeggiata a bordo della yacht di famiglia il 10 agosto tra le coste settentrionali della Sardegna e la Corsica. L' idea era di passare le vacanze tra la villa galleggiante e la mega residenza di Villa Certosa: ingressi contingentati e, per incontrare Berlusconi, era necessario presentare l' esito del tampone con esito negativo. L' ex premier aveva acquistato anni fa il suo yacht, il Morning Glory, dal magnate Rupert Murdoch. A bordo erano ammessi, oltre a Berlusconi, la nuova fidanzata, la deputata eletta in Campania, Marta Antonia Fascina, la figlia Marina con il consorte Maurizio Vanadia e i figli, Gabriele e Silvio. È con il passare dei giorni che quel cordone di sicurezza ha forse cominciato ad allentarsi.
IL CERCHIO Affari di famiglia, di azienda e affari di partito si concentrano in quell' uomo che ora è di umore nero in un letto d' ospedale. Non vuole il leader di Forza Italia, al pari di Marina, che ora si apra un processo nei confronti dei suoi figli, Barbara e Luigi, anche loro risultati positivi al Covid. Così come non vuole che si getti la croce addosso alla sua nuova fidanzata, Marta Fascina. Anzi viene riferito che ora il Cavaliere è in apprensione più per gli altri che per se stesso. «Attaccavano le persone del suo entourage spiegano ora alcuni parlamentari perché avevano tenuto Berlusconi al riparo da tutti e con l' agenda contingentata anche per ricevere le telefonate. Ora magari qualcuno ne comprenderà i motivi». Poche le persone ammesse ad Arcore, nella storica residenza del Cavaliere: Marta Fascina, Licia Ronzulli, Sestino Giacomoni, Niccolò Ghedini, Adriano Galliani, Fedele Confalonieri e poi le lunghe telefonate, da Roma, di Gianni Letta. Così aveva chiesto Marina per non mettere sotto stress il fisico del papà. Un cerchio di persone all' interno del quale Berlusconi era protetto e coccolato, ma che è saltato con le vacanze estive e gli appuntamenti dei parlamentari azzurri per la campagna elettorale nelle varie Regioni.
Da ansa.it il 5 settembre 2020. "Credo che la malattia di mio padre, come quella di qualunque altro essere umano, meriterebbe ben maggiore rispetto, discrezione e attenzione alla verità di quanto non legga e non ascolti in questi giorni. Giorni segnati dalla ossessiva ricerca di conflitti che non esistono e da una caccia al “colpevole” che lascia davvero sconcertati". Così la presidente di Fininvest Marina Berlusconi interviene in relazione ad alcuni articoli di stampa di oggi e relativi al ricovero del padre, Silvio Berlusconi. "Per quanto mi riguarda - continua la dichiarazione di Marina Berlusconi - , mi vedo attribuiti non solo pensieri che non ho mai avuto e accuse che non mi sono mai sognata di formulare, ma addirittura parole e giudizi che non avrei mai avuto motivo di pronunciare. Sarò un'ingenua, ma non riesco a rassegnarmi nel vedere così calpestati i sentimenti di familiari, amici veri, collaboratori leali. Oltre, naturalmente, all'impegno dei medici che stanno seguendo come sempre mio padre con grande professionalità e umanità e che ci tengo ancora una volta a ringraziare". (ANSA).
Marina Berlusconi: "La malattia di mio padre merita un rispetto maggiore". Su certa stampa continua la "caccia all'untore". La dura condanna di Marina: "Ossessiva ricerca di conflitti che lascia sconcertati". Sergio Rame, Sabato 05/09/2020 su Il Giornale. "Credo che la malattia di mio padre, come quella di qualunque altro essere umano, meriterebbe ben maggiore rispetto". In una nota resa pubblica questa mattina il presidente di Fininvest, Marina Berlusconi, ha condannato la caccia al "colpevole" che nelle ultime ore si è scatenata su molti giornali. Una "ossessiva ricerca di conflitti che non esistono", come l'ha definita la primogenita del Cavaliere, che si è propagata, con una furia senza precedenti, non appena il padre, risultato mercoledì scorso positivo a Covid-19, è stato ricoverato all'ospedale San Raffaele di Milano su consiglio del primario Alberto Zangrillo.
La condanna di Marina. Non si arresta la crociata di una certa stampa per cercare di risalire alla persona che ha contagiato Silvio Berlusconi. Una crociata che indigna profondamente. "Credo che la malattia di mio padre, come quella di qualunque altro essere umano, meriterebbe ben maggiore rispetto, discrezione e attenzione alla verità di quanto non legga e non ascolti in questi giorni", ha commentato Marina Berlusconi condannando duramente i numerosi articoli pubblicati oggi su numerosi quotidiani. A chi li ha scritti e pubblicati la presidente di Fininvest ha ricordato che questa "ossessiva ricerca di conflitti che non esistono" e questa caccia al "colpevole" lasciano "davvero sconcertati". In questi "retroscena" la presidente di Fininvest si è vista attribuire "non solo pensieri che non ho mai avuto e accuse che non mi sono mai sognata di formulare, ma addirittura parole e giudizi che non avrei mai avuto motivo di pronunciare". Quello che Marina Berlusconi chiede in un momento tanto delicato è "maggiore rispetto" nei confronti del padre e di tutta la famiglia. "Sarò un'ingenua - si legge ancora nella nota - ma non riesco a rassegnarmi nel vedere così calpestati i sentimenti di familiari, amici veri, collaboratori leali. Oltre, naturalmente, all'impegno dei medici che stanno seguendo come sempre mio padre con grande professionalità e umanità e che ci tengo ancora una volta a ringraziare".
Un "trattamento disumano". Già ieri sera Barbara Berlusconi aveva duramente criticato la "caccia all'untore" che si è appunto scatenata nelle ultime ore. In un colloquio pubblicato dal sito del Corriere della Sera, la primogenita di Silvio e Veronica Lario, che è in quarantena insieme ai figli a Villa Certosa, ha parlato di "trattamento disumano" nei suoi confronti e alle pochissime persone alle quali ha risposto al telefono in queste ore ha ribadito la propria contrarietà: "Nei giorni in cui vivo momenti di grande angoscia per la salute di mio padre penso sia disumano essermi trovata su tutti i media come l'untrice ufficiale della persona a cui voglio più bene. Vorrei proprio capire su quali basi sono stata indicata con certezza come la responsabile". "Tra l'altro - ha poi concluso - i tempi e i ripetuti tamponi negativi fatti da mio padre dimostrano il contrario. La caccia all'untore è una cosa da Medioevo, e la trovo umanamente inaccettabile oltre che scientificamente indimostrabile".
(ANSA il 7 settembre 2020) - Anche Marina Berlusconi, secondo quanto apprende l'Ansa, risulta positiva al Covid-19. Dopo una serie di tamponi negativi, l'ultimo, nel fine settimana, ha dato invece risultato diverso. La notizia trova conferma in ambienti del Gruppo. La presidente di Fininvest e di Mondadori, comunque, sta bene e lavora normalmente al telefono. Marina Berlusconi assieme alla sua famiglia si è isolata, in linea con le regole vigenti, nella propria abitazione milanese da quando, mercoledì scorso, il padre è risultato positivo. Non si sa se anche altri membri della sua famiglia, protetti dalla privacy, siano positivi. Secondo quanto ha appreso l'ANSA, però, anche le condizioni del marito e dei due figli, minorenni, sono buone.
Coronavirus, "anche Marina Berlusconi positiva": conferme dal Gruppo, sta bene e continua a lavorare. Libero Quotidiano il 07 settembre 2020. Anche Marina Berlusconi ha contratto il coronavirus: la notizia è stata rilanciata dall'agenzia di stampa Ansa. La figlia di Silvio Berlusconi - ricoverato al San Raffaele di Milano con una polmonite bilaterale dopo aver contratto il Covid-19 - dopo una serie di tamponi negativi, l'ultimo dei quali nel fine settimana, è risultata positiva all'ultimo test. La notizia, secondo quanto riportato dal Corriere della Sera, avrebbe trovato delle conferme negli ambienti di Fininvest e Mondadori, di cui Marina è presidente. Stando a quanto trapelato, la primogenita del leader di Forza Italia sta bene e starebbe normalmente proseguendo il suo lavoro al telefono.
Marina Berlusconi positiva al Covid: "Sta bene e lavora da casa". La figlia del Cavaliere si trova in isolamento a casa. Dopo una serie di tamponi negativi, l'ultimo è risultato positivo. Giovanna Stella, Lunedì 07/09/2020 su Il Giornale. Marina Berlusconi, secondo quanto apprende l'Ansa, è risultata positiva al Covid-19. Dopo una serie di tamponi negativi, l'ultimo, nel fine settimana, ha dato invece risultato contrario. La presidente di Fininvest e di Mondadori - continua l'agenzia - sta bene e lavora normalmente al telefono. Dopo Silvio Berlusconi, risultato positivo al Covid-19 mercoledì scorso e attualmente ricoverato al San Raffaele di Milano, anche la figlia Marina è risultata positiva ai test per il coronavirus. Secondo quanto appreso, la numero uno di Fininvest e Mondadori sarebbe asintomatica. Il suo stato di salute le consente, infatti, di continuare a lavorare senza alcun tipo di difficoltà. Fonti a lei vicine, confermano che la figlia del Cav sta bene e lavora regolarmente, ovviamente si trova in isolamento. La figlia dell'ex premier è insolamento con tutta la famiglia da mercoledì scorso, quando il Cavaliere è risultato positivo al nuovo coronavirus. Anche Barbara e Luigi sono risultati positivi nei giorni scorsi. Dopo la notizia della positività di Marina Berlusconi, l'Ansa - grazie alla testimonianza di varie fonti milanesi e romane oltre che a notizie già emerse - è in grado di compiere una prima ricostruzione di quanto è accaduto nelle ultime due settimane. Con Silvio Berlusconi, che era accompagnato da Marta Fascina, la figlia e i suoi familiari avevano trascorso i giorni conclusivi di agosto nella tenuta della primogenita a Valbonne in Provenza, dove l'ex presidente del consiglio aveva vissuto per l'intero lockdown e parte dell'estate per poi trasferirsi, ad agosto, prima in Sardegna, a villa Certosa, e successivamente ad Arcore. L'Ansa continua e spiega che come sempre nel caso degli spostamenti del padre, Marina Berlusconi, la famiglia e tutto il personale presente a Valbonne avevano eseguito il giorno precedente il tampone, che per tutti aveva dato esito negativo. Non risulta che il gruppo abbia lasciato durante il soggiorno la tenuta, rientrando poi a Milano domenica 30 agosto con un volo privato. Secondo quanto è trapelato, in quei giorni, sia Berlusconi che la Fascina avrebbero accusato leggeri sintomi influenzali, peraltro senza febbre, che non avevano però suscitato particolari preoccupazioni. Del resto per i primi giorni di settembre Berlusconi aveva già programmato un tampone di controllo. Tampone che, mercoledì 2 settembre, ha dato esito positivo, così come quello di Marta Fascina. Negativi invece i primi controlli cui, appresa la notizia, si era sottoposta la figlia Marina. Un nuovo tampone nel fine settimana ha dato però risultato positivo.
DAGONOTA il 6 settembre 2020. Anzitutto sia chiaro che la caccia all’untore è assurda, oltreché inutile. Mettere sul rogo Barbara Berlusconi o Briatore o uno dei tanti visitatori di Villa Certosa che hanno avuto contatti con colui che Don Verzè definì “Il dono di Dio” è un gioco al massacro che non ci appartiene. Carlito Rossella, uno che conosce bene la vita sociale del Cavaliere, oggi su “La Stampa” ha bisbigliato: ‘’Può essere stato chiunque, ha il contagio può avvenire dove e quando meno te lo aspetti, con un tizio che incroci casualmente e con uno di quei disgraziati che ti baciano per strada…”
Pura casualità. Ma tutti o quasi hanno puntato l’indice contro Barbara Berlusconi. La primogenita di Silvio e di Veronica Lario si è imbufalita: “Nei giorni in cui vivo momenti di grande angoscia per la salute di mio padre penso sia disumano essermi trovata su tutti i media come l’untrice ufficiale della persona a cui voglio più bene. Vorrei proprio capire su quali basi sono stata indicata con certezza come la responsabile. Tra l’altro, i tempi e i ripetuti tamponi negativi fatti da mio padre dimostrano il contrario. Dopo tre tamponi e un test sierologico negativi è molto improbabile che papà abbia preso il Covid 19 da me. Lui è risultato positivo molto dopo, e ultimamente il periodo di incubazione del virus si è ridotto”. Ma quello che non accetta la berlusconina è la ricostruzione fatta della sua estate, nella quale viene dipinta dipinge come una irresponsabile che sarebbe andata per feste e movida, senza alcuna cautela. “No, non ci sto a sentirmi dire questo. Non mi riconosco in questa specie di ritratto. Non ho condotto alcuna vita sregolata in Sardegna. Le volte che sono uscita la sera in tre mesi si possono contare sulle dita di una mano. Mai come quest’anno sono stata praticamente sempre a Villa Certosa: altro che movida… Pannolini, piuttosto!”. In quel “praticamente sempre a Villa Certosa”, c’è un intermezzo caprese. Raccontato in maniera dettagliata da una lettera che abbiamo pubblicato sul sito: “Barbara Berlusconi arriva a Capri il 14 agosto in tardo pomeriggio, proveniente dalla Sardegna. Sosta in rada a Marina Piccola. Lei con il gruppo di amici decide di cenare da Paolino. La prenotazione viene fatta a nome della barca. Alle ore 00.30 l’intera comitiva si dirige all’Anema & Core, passando da una porta di servizio. Lo staff Anema & Core sapeva chi fossero le persone, prova ne sia che fu fatto approntare un tavolo nel “recinto“, cioè sotto la band”. “Nessuno del gruppo della Barbara Berlusconi indossava mascherina né fuori, né tantomeno dentro il locale, come d’altronde non ha fatto nessuno all'interno…Alle 02.30 hanno lasciato il locale per dirigersi verso la barca e salpare alle prime luci dell’alba. La missiva dell’Anonimo caprese chiude così: “Tutto bene, se non fosse che Barbara Berlusconi aveva passato molto più tempo a Porto Cervo, dove aveva partecipato a diverse cene e party, mentre la sua permanenza a Capri è durata meno di un giorno”. A testimonianza di quanto sopra, siamo riusciti a recuperare una foto della serata “incriminata” di Barbara Berlusconi all’Anema e Core dove danza con alcune amiche, senza mascherina ma ben distanziate. Certo, “Altro che movida… Pannolini, piuttosto!”, se lo poteva risparmiare. A meno che, tra un ballo e l’altro, non abbia confuso i tovaglioli dei camerieri con i pannolini del pupo…
Emilio Pucci per “il “Messaggero” il 3 settembre 2020. L'amico di sempre, Fedele Confalonieri, lunedì si è recato al San Raffaele a Milano a fare il tampone per poi andare ad Arcore con i suoi collaboratori come ogni lunedì. «Giù la mascherina, mica siamo al teatro», ha scherzato il padrone di casa. Ma è solo con lui che Silvio Berlusconi si è concesso una battuta affettuosa, perché tra colazioni di lavoro e incontri vari, il Cavaliere ha puntualmente, da quando è scoppiata la pandemia, tenuto alta la guardia. Alta con tutti tranne che con Flavio Briatore, che è andato a trovarlo come ogni anno la settimana di Ferragosto. Il Cavaliere è rimasto a villa Certosa due settimane, circondato dai figli minori - Barbara, Eleonora e Luigi - con rispettivi compagni e nidiate di bimbi, presentando alla famiglia anche la nuova fidanzata Marta Fascina. Tra gite in barca e bagni in mare, nessuno poteva pensare che la Certosa si stesse trasformando in un cluster familiare. Tanto che subito dopo il Cavaliere si è concesso una puntata in Francia per festeggiare il compleanno della figlia Marina, una visita nella sua villa sul Lago Maggiore e poi di nuovo sull'isola per ricongiungersi alla famiglia. E' dalla primogenita, in Provenza, che l'ex premier si è rifugiato per tanto tempo per evitare il coronavirus. Da quella residenza sulle colline di Grasse ha diretto il partito, pretendendo che chiunque fosse con lui si accertasse di non aver contratto il Covid. A Villa San Martino lunedì scorso c'erano anche i due figli maggiori e ora tutti i collaboratori dovranno fare le opportune verifiche sanitarie. Berlusconi sta bene, la preoccupazione ovviamente è legata alla sua età (a fine settembre compirà 83 anni) e ai problemi di salute che ha avuto ma ha continuato e continuerà a mantenere i suoi impegni. Con lui c'è Marta Fascina, la nuova compagna dopo la separazione con Francesca Pascale. Ieri si è collegato con ‘Azzurro donna', il dipartimento presieduto dalla forzista Polidori e ci ha scherzato anche un po' su. «Sarò presente in campagna elettorale con interviste tv e sui giornali e secondo le limitazioni imposte dalla mia positività al Coronavirus. Purtroppo mi è successo anche questo ma continuo la battaglia», ha poi detto nel corso del suo intervento. Berlusconi non è mai stato negazionista. Non ha mai sottovalutato il problema, assicurano i suoi. Ad ogni interlocutore in questo periodo ha chiesto la massima attenzione. Preoccupato per la diffusione del virus. Tutti coloro che l'hanno visto da marzo hanno dovuto prima fare il tampone. Nessuno escluso. Anche i più stretti collaboratori non si sono sottratti all'obbligo. Quando scoppiò la polemica perché Salvini e diversi militanti del centrodestra a Roma, nella manifestazione con Meloni e Tajani, giravano senza mascherina, fu proprio lui a chiamare il vicepresidente azzurro per far emergere la necessità di una maggiore cautela. Ed è stato proprio l'ex presidente del Consiglio a chiedere che in un'altra manifestazione della coalizione si attrezzassero delle sedie in piazza, per rispettare il distanziamento sociale. In quanto asintomatico non c'è alcun allarme sulla sua situazione ma è chiaro che sarà costantemente sotto controllo e in isolamento. L'ex premier si controllava settimanalmente. L'ultimo incontro pubblico con lo stato maggiore del partito risale al 6 agosto, a Porto Rotondo. Briatore è risultato positivo il 12 ma i primi tamponi fatti sono risultati negativi. Ieri la sorpresa. Fonti di Forza Italia riferiscono che potrebbe essere stato contagiato proprio dopo l'incontro con l'imprenditore ma ovviamente non c'è alcuna certezza in proposito. «Presidente sospendiamo tutti i suoi impegni?», gli ha chiesto il fedelissimo Giacomoni. «No, andiamo avanti serenamente», la risposta del Cavaliere che oggi interverrà in collegamento per una iniziativa in Liguria ma non sarà né a Napoli né in Puglia. «Darà il suo apporto come sempre», assicura Tajani. Certo, la notizia della positività al Covid cambia i piani della campagna elettorale. «Questa situazione non ci aiuta di certo», spiegano diversi big' ma il presidente azzurro assistito dal suo medico di fiducia, Zangrillo e dal suo staff con a capo la senatrice Ronzulli ha fatto sapere che si spenderà per far sì che alle Regionali FI abbia un ottimo risultato. La preoccupazione degli azzurri è che gli equilibri interni al centrodestra possano ridurre il partito ad un ruolo di comparsa, soprattutto se dovessero eletti Acquaroli e Fitto (di Fdi) nelle Marche e in Puglia e la leghista Ceccardi in Toscana.
Nicola Pinna per “la Stampa” il 3 settembre 2020. La voce non è quella di sempre: tono basso, a tratti bassissimo. I medici dicono che Flavio Briatore stia benissimo, e lui lo conferma continuamente, ma il virus ha messo alla prova il suo fiato. Nella casa di Daniela Santanchè si sente l'eco e ogni parola arriva con un po' di ritardo. Lui risponde al terzo squillo: solita cortesia, ma pochissima voglia di chiacchierare.
Ha saputo che anche il suo amico Silvio Berlusconi è risultato positivo al test sul Covid?
«Sì, ho saputo poco fa. Sono molto dispiaciuto per lui. Gli auguro di superare il più velocemente possibile anche questa situazione. Spero che guarisca presto».
Vi siete già sentiti?
«Ancora no, ci sarà tempo nei prossimi giorni per fare quattro chiacchiere».
Sui social i meme impazzano in pochi minuti. E in un attimo, appena la notizia compare su tutti i siti, ripartono le condivisioni del video girato da Flavio Briatore nel giardino di Villa Certosa insieme «all'amico Silvio». Commenti a raffica e ironia che stonano con le notizie sulle condizioni di salute dell'ex premier e del patron del Billionaire. Flavio Briatore e Silvio Berlusconi sono amici di vecchia data e s' incontrano ogni estate a Porto Rotondo. L'aperitivo, le chiacchierate e le foto nel giardino di Villa Certosa sono quasi una tradizione. E anche quest' anno il rituale si è ripetuto. Era il 12 agosto, la sera in cui in Sardegna era scoppiata la prima polemica sulle discoteche. Il governatore sardo Solinas non aveva prorogato l'autorizzazione concessa con un'ordinanza di luglio e sembrava che per tutto agosto la musica si dovesse spegnere. Tra i locali che avrebbero dovuto chiudere c'era il Billionaire di Briatore. Le prenotazioni erano tante, ma in quelle ore il rischio del contagio sembrava dimenticato, la Costa Smeralda era super affollata. Nell'incontro pomeridiano a Villa Certosa, ovviamente documentato su Instagram con tanto di video e foto, Flavio Briatore e Silvio Berlusconi hanno parlato anche della grana discoteche. C'era da mediare col governatore sardo, che guarda caso è sostenuto da una maggioranza di centro-destra di cui fa parte anche Forza Italia. Le telefonate, di cui gli amici parlavano tanto in quelle ore, hanno avuto l'esito sperato e la musica in Sardegna è ripartita subito. Con un'eredità pesantissima.
Adesso Berlusconi si ritrova come lei ad affrontare l'incubo virus. Si sente di dargli qualche consiglio?
«Silvio è un uomo tosto, sono certo che avrà la capacità di superare il virus con la solita forza. E poi è assistito da un'equipe medica di grande valore che lo terrà sotto controllo continuamente e gli assicurerà le cure migliori. Non ha certo bisogno dei miei consigli».
Scusi, ma Berlusconi è un'altra delle persone che lei ha incontrato in quei giorni tra Porto Cervo e Porto Rotondo. Ora il collegamento sul contagio sembra chiarissimo: teme di essere stato lei a contagiarlo?
«Ma che c'entra? Non credo che dipenda da quel nostro incontro E adesso mi avete rotto». Questa era la domanda da non fare, perché Briatore perde la pazienza e la telefonata s' interrompe. Ma gli auguri a Berlusconi li aveva già fatti.
Francesco Rigatelli per la Stampa il 4 settembre 2020. Emilio Fede, 89 anni, ex direttore del Tg4, anche dagli arresti domiciliari per favoreggiamento della prostituzione nel caso Ruby non rinuncia a solidarizzare con l' amico ed ex editore Silvio Berlusconi. «È il quotidiano La Stampa? Qui è il quotidiano Va e viene... sto scendendo dal treno, vado a Milano 2».
Quando l' ha sentito l' ultima volta?
«Lui era ancora in Francia. Mi ha detto che non era più a casa di Marina e aveva affittato una proprietà con la piscina per stare più comodo. Mi ha anche proposto di raggiungerlo. Alla nostra età, lui un anziano e io un vecchio, ci ho pensato, ma poi gli ho detto: tu hai ancora problemi giudiziari aperti, io sono ai domiciliari, ma dove andiamo?».
E poi Berlusconi ha preso il coronavirus. Com' è successo?
«Non penso proprio che abbia fatto feste o cose del genere. Il professor Zangrillo lo ha certamente sconsigliato».
Gliel' ha attaccato Briatore?
«Impossibile saperlo. Con lui eravamo amici, ma da quando ho avuto problemi giudiziari non l' ho più sentito. Non so neanche se con Berlusconi siano tanto amici».
Un' altra ipotesi è che possa essere stata la figlia Barbara a contagiarlo, che ne dice?
«Improbabile, i figli gli vogliono così bene che saranno stati sicuramente attenti».
Lei ha paura del coronavirus?
«Sì, infatti non esco mai di casa. Certo, sono ai domiciliari....».
A Napoli o a Milano?
«Vivo a Milano 2, ma ogni tanto posso andare a trovare mia moglie a Napoli. Di recente mi hanno arrestato perché ero evaso, ma l'avviso dello spostamento era solo arrivato in ritardo».
E ora sanno che è a Milano?
«Speriamo, anche perché tra poco dovrei passare ai servizi sociali. Sto sempre nell' appartamento che mi diede Berlusconi a Milano 2».
Gli paga l' affitto?
«Sono stato licenziato da Mediaset senza motivo e liquidazione, così da due trimestri ho smesso, anche se con lui non parlo di questi dettagli. Tra di noi si sono messi i gelosi».
L' amicizia è rovinata?
«Rompono tutti con questa domanda, ma il nostro rapporto non finirà mai. Per questo ogni tanto ci sentiamo ancora».
Qual è l' episodio che descrive meglio il vostro rapporto?
«Sembrerà banale, ma tornavamo dalla Sardegna col suo aereo. Era brutto tempo e lui, anche se non lo ammette, ha paura di volare. Mi chiedeva di guardare dal finestrino al posto suo per non guardare fuori. A un certo punto mi ha preso la mano e mi ha detto: "È come se ci conoscessimo fin da ragazzi". Il mio sogno, oltre alla buona salute di mia moglie Diana, è che me lo ripeta».
Salvatore Dama per “Libero Quotidiano” il 4 settembre 2020. Irriso, sfottuto, dileggiato. Per cose che, oltretutto, non ha mai detto. È il destino del professor Alberto Zangrillo. Considerato, a torto, il "capo dei negazionisti". Soltanto perché si è permesso di rompere il muro del pensiero unico. Perché, dati alla mano, ha contestato chi dispensava allarmismo. I professionisti del Covid-19. Virologi. O, spesso neanche tali, che hanno visto schizzare la propria popolarità durante il lockdown. E che, finita la quarantena, non avevano nessuna voglia di tornare nell'ombra. Men che meno alla routine quotidiana. Zangrillo non ha mai negato l'esistenza del virus. Si è limitato a commentare i dati partendo dal suo osservatorio privilegiato. È primario di Anestesia e Rianimazione all'Irccs San Raffaele di Milano e prorettore dell'Università Vita-Salute di Milano. In questa veste ha osservato lo svuotarsi delle terapie intensive. E degli ospedali. Questa seconda ondata (per chi la chiama così) non ha le caratteristiche drammatiche della prima. Proprio l'altro giorno Zangrillo aveva condiviso sui social un grafico riassuntivo di un lavoro pubblicato su Critical Care: «In questo studio hanno dimostrato come una bassa carica virale è risultata indipendentemente associata a un ridotto rischio di essere intubati e morire: i pazienti intubati e deceduti avevano una carica virale 8 volte superiore a quelli sopravvissuti/non intubati». Poi sono successi i casi di Flavio Briatore e di Silvio Berlusconi. Entrambi contagiati, ma senza sintomi. E anche questo fatto confermerebbe la tesi zangrillina della minore pericolosità odierna del Covid. Briatore e Berlusconi sono entrambi over settanta, dunque catalogabili nella fascia a rischio. Il patron del Billionaire dopo un paio di giorni di osservazione è stato dimesso. Ed è a casa Santanchè dove sta trascorrendo la quarantena. Il Cavaliere è nella sua villa di Arcore, in isolamento, asintomatico pure lui. Eppure lo stanno massacrando. A Zangrillo. Sui social. Dai suoi colleghi fino all'ultimo troll. «Un negazionista curato da un negazionista», è stata la battuta più ricorrente quando Briatore è stato ricoverato al San Raffaele. Ora sfottono Berlusconi. «Povero Silvio», scrivono, «in che mani ti sei messo...». E cose così. Ma la barzelletta che supera le altre, in termini di cattivo gusto, è quella sulla presunta prostatite berlusconiana. («Non è Covid, come per Briatore»). Pessima, perché all'ex premier è stata asportata la prostata nel 1997, in seguito a un tumore. «Tanti auguri di pronta guarigione. A tutti i pazienti infettati da un virus dichiarato clinicamente estinto dal loro medico». Il commento del biologo Enrico Bucci, docente negli Usa alla Temple University di Filadelfia, scatena i social, riaccendendo il dibattito su asintomatici e malati. «Fate attenzione, per favore», è il monito di Bucci che aggiunge un post scriptum: «Come Briatore, nemmeno Berlusconi mi è particolarmente simpatico. Ma cancellerò ogni commento che gioisca per l'infezione sua o di altri». Di commenti in realtà ne piovono di ogni genere. Alcuni ironizzano parlando di «prostatite contagiosa», altri giudicano il post «di dubbio gusto» e «gratuito». Ma, del resto, sui social vale tutto. Liliana Armato ribattezza il professore «Zangrillstein». Ibico scrive: «Berlusconi ha il coronavirus, ma per Zangrillo è solo un'influenza elegante». Udo Gumpel: «E ora Zangrillo cosa darà a Berlusconi per curarlo? La camomilla». Luca Bottura sfotte anche l'Esselunga: «Lo spot con i clienti e i cassieri senza mascherina deve averlo sceneggiato Zangrillo». Macina condivisioni la foto di Briatore e Berlusconi in Sardegna, con la didascalia «Zangrillo' s boys». Un altro meme tira in mezzo la Santanchè. Con una finta dichiarazione: «Ho sentito Zangrillo, è sciatica». «Hanno Stato Gli Insegnanti» percula: «Qualcuno ha il numero di Zangrillo? Mentre tossivo mi sono fatta la pipì addosso. Temo si tratti di prostatite polmonare». Il dottor Giancarlo apprezza la «testardaggine del Covid, che da quando Zangrillo ha detto che è clinicamente morto sta contagiando i suoi pazienti uno a uno». Kotiomkim: «Se sei povero è Covid, se sei ricco è prostatite».
Manuel Costa per “Libero Quotidiano” il 3 settembre 2020. Che pellaccia, il Berlusca. Una tempra che definire resistente è un eufemismo. A dimostrarlo, la lunga lista di problemi fisici, ricoveri e interventi che ha subìto e superato brillantemente. E non è per dire, ma il Cav c'ha ormai quasi 84 anni.
La prima malattia che Berlusconi si trova ad affrontare è un tumore alla prostata, per il quale viene operato nel 1997. L'11 maggio tiene un comizio contro il governo Prodi: il giorno dopo entra all'ospedale San Raffaele di Milano per operarsi. L'intervento viene reso pubblico soltanto nel 2000: il Cav ne parla in un'intervista a Repubblica: «Temevo di morire», racconta. Dieci anni più tardi, parlando a Porta a Porta, dichiara invece di non avere temuto per la sua vita.
Il 27 novembre 2006 Berlusconi interviene alla kermesse dei giovani di Forza Italia a Montecatini. Sta parlando sul palco quando, all'improvviso, si sente male e sviene. Lo portano via semi-incosciente. Qualche giorno e si rimette: solo un collasso per stress.
Il 13 dicembre 2009 Berlusconi sta tenendo un comizio a Milano quando un uomo lo raggiunge e lo colpisce al volto con una statuetta del Duomo. L'ex Cavaliere viene ferito e ricoverato per qualche giorno, il tempo di mettere i punti e assicurarsi che non ci siano altre lesioni. L'aggressore è Massimo Tartaglia, allora 42enne con problemi psichici, uscito dal carcere ad aprile 2016 perché non più pericoloso.
Il 23 settembre 2010 Berlusconi entra in ospedale dopo la diagnosi di tendinite alla mano sinistra. Per giorni l'ex Cavaliere aveva indossato un tutore: alla fine la decisone di sottoporsi all'intervento. Una breve degenza e il tutore sparisce.
L'8 marzo 2013 Berlusconi viene ricoverato al San Raffaele di Milano per uveite, un'infiammazione degli occhi che lo costringe a usare occhiali da sole anche al chiuso. La degenza dura una settimana e per qualche tempo è costretto a indossare gli occhiali scuri. Il 16 novembre 2014 viene ricoverato per la seconda volta sempre a causa dell'uveite. «È stata quella maledetta statuetta», spiega ai giornalisti.
Il 7 giugno 2016 il Cavaliere viene ricoverato ancora al San Raffaele di Milano per uno scompenso cardiaco che gli aveva dato problemi nei giorni precedenti. Il 14 giugno l'ex premier viene sottoposto a un intervento chirurgico a cuore aperto di quattro ore e mezzo: gli viene sostituita una valvola aortica malfunzionante. Per farlo, per circa un'ora viene fermato il cuore del paziente, e utilizzata un'apparecchiatura particolare per garantire la circolazione extracorporea. Berlusconi viene dimesso il 5 luglio: «Una prova molto dolorosa», ha detto in seguito.
Il 30 aprile 2019 Berlusconi viene ricoverato al San Raffaele di Milano in seguito a quella che sembrava una colica renale acuta. Esami più approfonditi hanno poi permesso di diagnosticare una occlusione intestinale, ragion per cui il Cav è stato operato. L'intervento è perfettamente riuscito, e Berlusconi è stato dimesso il 6 maggio successivo.
Da iltempo.it il 22 agosto 2020. Costano care a Silvio Berlusconi le sue magnifiche ville. La proprietà in Sardegna (Villa Certosa), la principale abitazione ad Arcore e quella di Macherio dove un tempo abitava l'ex moglie Veronica Lario, gli hanno fatto perdere altri 5 milioni e 839 mila euro l'anno scorso che si aggiungono al rosso quasi equivalente dell'anno precedente di 5 milioni e 888 mila euro. Ormai è una voragine il bilancio della Idra immobiliare, la società che detiene la proprietà delle ville del Cavaliere e quella di qualche appartamentino a Porto Rotondo che per fortuna del leader di Forza Italia in gran parte viene affittato, consentendo di limitare i danni che potrebbero essere ben peggiori. Ma sulle tasche di Silvio per quelle case l'anno scorso si è abbattuto una sorta di tsunami-bollette come indica il bilancio della Idra immobiliare depositato ieri presso il registro delle Camere di commercio. Il costo della manutenzione delle ville è infatti stato nel 2019 di 16,3 milioni di euro, 768 mila più dell'anno precedente. Solo per le riparazioni di immobili e impianti se ne sono andati più di 5 milioni di euro, 355 mila più dell'anno precedente. Ma Silvio è stato colpito soprattutto dal caro bollette, che sembravano tutte impazzite. Quella dell'acqua è cresciuta quasi del 40% superando il record di un milione di euro. Salite di più del 20% le bollette del gas (140 mila euro) e della luce (534 mila euro). L'aumento boom però è stato della bolletta telefonica, che in un anno è passata da 106 mila a 172.690 euro. Chissà chi diavolo ha chiamato il Cavaliere compulsivamente l'anno scorso...Può però stare certo che nel 2020 un po' di questa spesa sarà risparmiata, visto che Berlusconi ha scelto di vivere il lockdown e anche qualche settimana in più in Costa azzurra nella villa di proprietà della figlia Marina. Infine aumentano di 5 milioni di euro le proprietà in terreni e fabbricati della Idra immobiliare che ora in bilancio sono riportate come immobilizzazioni del valore di 397 milioni e 188 mila euro. E ci sono debiti per 221 milioni e 510 mila euro, più della metà però (130 milioni di euro) sono con il proprietario, cosa che fa sembrare quelle ville di lusso ancora più costose.
Angelo Scarano per ilgiornale.it il 9 settembre 2020. Silvio Berlusconi torna ancora una volta a far sentire la sua voce. Dopo l'intervento telefonico per un'iniziativa del partito in Valle d'Aosta, oggi Berlusconi fa il bis e a sorpresa si è collegato telefonicamente con la riunione del gruppo di Fi in corso alla Camera. Il Cav ha parlato del suo ricovero di questi giorni a causa del Covid: "È una esperienza davvero brutta, ma sono qui a combattere con voi...". Sempre l'ex premier ha affermato che questa "è l'esperienza peggiore" della sua vita. Poi una raccomandazione a tutti gli italiani: "E' un virus terrificante che non auguro a nessuno, state attenti a tutto e mettete le mascherine". Parole, quelle del Cavaliere, che sono arrivate subito dopo una vera e propria standing ovation partita proprio durante la riunione dei parlamentari azzurri: "Vogliamo esprimere un corale e affettuoso abbraccio al Presidente Berlusconi che - ha detto Mariastella Gelmini nel suo intervento iniziale - sta affrontando, con la consueta grinta e con straordinario coraggio, la battaglia contro il Covid. Sappiamo che il Presidente ha già sconfitto molti nemici e che metterà a tappeto anche questo subdolo avversario. Le notizie che il professor Zangrillo e l'equipe del San Raffaele ci stanno dando sono confortanti". A questo punto l'appello al voto del leader azzurro che cita Platone: "È grande l'incertezza sul numero di votanti, per questo bisogna ricordare a tutti gli indecisi il monito di Platone a chi non voleva votare per il governo di Atene: 'Chi non va a votare si merita un governo di pericolosi incapaci...". Poi ha galvanizzato gli azzurri: "Dovete sentirvi superiori rispetto agli altri partiti perché siamo l’unico partito in Italia che possiede i valori propri della tradizione cristiana: l’unico partito che mette al centro la libertà, la giustizia; l’unico partito in Italia che ha i principi propri della civiltà occidentale. Siamo il partito dell’impresa e del lavoro". Nel corso del suo intervento telefonico di ieri sera il Cav aveva parlato delle sue condizioni cliniche: "Il Covid è una "malattia molto brutta. Pensare che qui al San Raffaele ho fatto non so quanti migliaia di esami e io sono uscito tra i primi 5 come forza del virus". Poi una promessa: "Ce la sto mettendo tutta, spero proprio di farcela e di riuscire di tornare in pista per condurre le nostre battaglie di sempre, soprattutto per l'impresa, il lavoro, contro l'oppressione fiscale e burocratica, contro la giustizia ingiusta e contro i giudici che invece di fare i giudici lo fanno per far fuori gli avversari politici. Abbiamo tanto da lavorare e tante battaglia da fare per un Paese libero". E di fatto Forza Italia in questo momento è impegnata nella grande battaglia per le Regionali che si terranno il prossimo 21 e 22 settembre. Una sfida decisiva per tutto il centrodestra che vede in questo voto una sorta di resa dei conti col governo giallorosso. Non è escluso infatti che dal voto alle Regionali possa arrivare (sondaggi alla mano) una spallata per Conte. Un eventuale trionfo del centrodestra, soprattutto nelle roccaforti rosse (ad esempio la Toscana), potrebbe tramutarsi in una avviso di sfratto per l'intero esecutivo.
Emilio Pucci per ''Il Messaggero'' il 9 settembre 2020. La grande paura è passata. A cinque giorni dal ricovero per un principio di polmonite bilaterale il quadro clinico di Silvio Berlusconi, positivo dal 2 settembre al Covid, è in progressivo miglioramento, «in costante evoluzione favorevole». Tanto che l'ex premier in serata interviene al telefono ad un comizio elettorale ad Aosta e chiama i senatori azzurri riuniti a Palazzo Madama: «Sono in campo», assicura. Poi aggiunge: «Lotto per uscire da questa malattia infernale». Ed ora familiari, amici e parlamentari tirano un sospiro di sollievo. Perché nelle prime 24 ore in ospedale la preoccupazione è stata massima. Il Cavaliere mercoledì notte, su insistenza del suo medico curante Zangrillo, era stato costretto ad andare in ospedale. In realtà non c'è stato alcuno scontro su quella decisione perché i più intimi dell'ex premier riferiscono che lo spavento è stato reale, nella mattinata di giovedì la situazione si era fatta molto complicata. «Ma ora gioisce il numero due di FI, Tajani Berlusconi sta vincendo la sua battaglia. L'ho sentito, è determinato e mi riempie di consigli per la campagna elettorale». Il bollettino di ieri è chiaro: «Tutti i parametri clinici ed ematochimici monitorati sono rassicuranti». Da qui l'ottimismo, anche se non è ancora deciso quando l'ex presidente del Consiglio a fine mese compirà 84 anni potrà tornare ad Arcore. Nella sua residenza di villa San Martino è tutto pronto. Ieri sono stati eseguiti i tamponi all'intero personale, è stata compiuta l'ennesima sanificazione. Tuttavia il presidente azzurro potrebbe restare al San Raffaele ancora per diverso tempo. Perché lo staff preferisce tenerlo sotto controllo e la stessa primogenita Marina, in isolamento anche lei nella sua casa milanese, ha chiesto di evitare forzature. E' vero che Berlusconi scalpita, chi ha avuto modo di raggiungerlo sottolinea che sta lavorando sia alle sue aziende che sul partito. Al massimo però anche da indicazioni familiari potrà in prossimità delle Regionali inviare un messaggio, per galvanizzare la truppa forzista che si sente in qualche modo orfana del leader. «Torno presto. Serve un impegno di tutti perché sono elezioni importanti», è stata la rassicurazione del Cavaliere ai suoi. La positività dell'ex presidente del Consiglio ha frenato le manovre interne. Da una parte ci sono Renzi e Calenda, dall'altra Salvini e Meloni. Entrambi i fronti sono attrattivi per quegli azzurri delusi che in questi mesi non si sono ritrovati con la linea impressa dal leader. Il rispetto per le condizioni di Berlusconi ha stoppato soprattutto operazioni centriste, considerato che in diversi in FI avevano manifestato l'intenzione di lasciare il partito dopo il voto del 20 settembre. Il fatto è che mentre Salvini potrebbe festeggiare per l'esito delle elezioni in Veneto e in Liguria (più complicata la Toscana) e Meloni vede la conquista di Marche e Puglia, per Caldoro in Campania la strada è in salita. Per questo tra 15 giorni sono in ballo gli equilibri del centrodestra. «Ma con il documento di unità firmato da tutti i big, sarà difficile che ci saranno fuoriuscite», sottolinea un dirigente di FI. «Nessuno abbandoni la barca», mette le mani avanti un altro. Al cluster familiare partito e figli hanno reagito mostrando compattezza. Anche negli ambienti azzurri è risaputo che i rapporti tra Marina e Barbara non sono stati dei migliori in passato. Ma tra le due anche nei giorni scorsi ci sarebbe stata una telefonata per gli auguri di pronta guarigione. Un ulteriore segnale che si è chiusa la «caccia all'untore». A Berlusconi sono arrivate ieri le telefonate di incoraggiamento di Matteo Salvini e di Matteo Renzi eil messaggio di auguri del ministro della salute Roberto Speranza (Pd).
(ANSA il 10 settembre 2020. ) "La carica virale del tampone nasofaringeo di Berlusconi era talmente elevata che a marzo-aprile, sicuramente non avrebbe avuto l'esito che fortunatamente ha ora. Lo avrebbe ucciso? Assolutamente sì, molto probabilmente sì, e lui lo sa. E non è una boutade per esagerare visto il personaggio di cui si parla, ma è un cercare di rimanere aderenti alla realtà". Lo ha detto Alberto Zangrillo, primario di Terapia intensiva del San Raffaele, ospite di Piazzapulita su La7, parlando delle condizioni del leader di Forza Italia Silvio Berlusconi, ricoverato con polmonite bilaterale da coronavirus. "Diciamo che" Briatore e Berlusconi "sono in situazioni più che soddisfacenti, stanno bene, per loro credo che l'epilogo di questa malattia sia vicino", ha aggiunto. "La cosa fondamentale dell'intervento su Berlusconi non è stata tanto la terapia seguita una volta entrato in ospedale, ma è stato capire che doveva andare in ospedale e che doveva andarci in quella fase. Dieci ore dopo poteva essere troppo tardi, perché lui è un paziente a rischio per i motivi che si sanno". Lo ha detto Alberto Zangrillo, primario di Terapia intensiva del San Raffaele, ospite di Piazzapulita su La7, chiarendo che quello che è stato decisivo per il leader di FI "deve essere decisivo per tutti" i pazienti, ossia "farsene carico tempestivamente sul territorio". "E' molto più importante dare degli indirizzi ai medici di medicina generale piuttosto che fare nuove postazioni di terapia intensiva che speriamo di non utilizzare mai - ha aggiunto -. E poi è fondamentale avere idee molto chiare sul fatto che la tempestività di intervento è fondamentale.
Il commento del primario del San Raffaele di Milano. “Berlusconi a marzo sarebbe morto per il covid”: ma Zangrillo parlava di blando coinvolgimento polmonare. Redazione su Il Riformista l'11 Settembre 2020. Se Berlusconi avesse contratto il coronavirus a primavera, nella fase più acuta della pandemia, non sarebbe sopravvissuto. È quello che ha detto Alberto Zangrillo, primario di Terapia intensiva del San Raffaele e medico personale dell’ex premier e leader di Forza Italia. Zangrillo è intervenuto al programma Piazzapulita su La7 e ha parlato delle condizioni del politico, ricoverato all’ospedale di Milano con una polmonite bilaterale da coronavirus. “La carica virale del tampone nasofaringeo di Berlusconi era talmente elevata che a marzo-aprile, sicuramente non avrebbe avuto l’esito che fortunatamente ha ora. Lo avrebbe ucciso? Assolutamente sì, molto probabilmente sì, e lui lo sa. E non è una boutade per esagerare visto il personaggio di cui si parla, ma è un cercare di rimanere aderenti alla realtà”.
GLI AGGIORNAMENTI – È più che soddisfacente la condizione di Berlusconi. Come quella di Flavio Briatore, ricoverato anche lui al San Raffaele prima del Cavaliere dopo aver contratto il coronavirus. “Sono in situazioni più che soddisfacenti, stanno bene, per loro credo che l’epilogo di questa malattia sia vicino”, ha aggiunto Zangrillo.
L’EVOLUZIONE – Silvio Berlusconi ha sofferto i sintomi del contagio. Le sue condizioni cliniche vanno migliorando, secondo quanto riportato nei bollettini degli ultimi giorni. Il leader di Forza Italia era stato ricoverato per un blando coinvolgimento polmonare, secondo quanto riportato da Zangrillo nella prima conferenza stampa dal San Raffaele. Berlusconi, paziente a rischio per l’età e per le patologie sofferte in passato, ha descritto la malattia come infernale, la peggiore esperienza della sua vita.
Selvaggia Lucarelli attacca il Cav. Zangrillo: "Donna volgare e cattiva". Selvaggia Lucarelli polemizza con Zangrillo per le sue affermazioni di Piazzapulita in merito a Silvio Berlusconi e alla sua carica virale, ma il professore non ci sta e risponde per le rime. Francesca Galici, Venerdì 11/09/2020 su Il Giornale. Intervenuto in diretta a Piazzapulita, il programma di La7 condotto da Giovanni Floris, Alberto Zangrillo ha rivelato quali fossero le condizioni di salute di Silvio Berlusconi quando è arrivato all'Ospedale San Raffaele di Milano, ormai otto giorni fa. "La carica virale che caratterizzava il tampone di Berlusconi era talmente elevata che a marzo-aprile molto probabilmente lo avrebbe ucciso e lui lo sa", ha detto il professore. Anche ora le conseguenze sarebbero potute essere più gravi se il Cavaliere non si fosse presentato rapidamente in ospedale per tac, sotto insistenza proprio di Alberto Zangrillo: "Dieci ore dopo poteva essere troppo tardi perché, si sa bene, lui è un paziente a rischio". Sono parole importanti quelle del professore, che come spesso accade quando c'è di mezzo Silvio Berlusconi sono state usate contro di lui, stavolta da Selvaggia Lucarelli. "Zangrì, facciamo che a marzo intanto Berlusconi avrebbe trovato posto in una terapia intensiva. Un altro 83enne col cazzo", ha scritto la giornalista su Twitter. Il riferimento della Lucarelli è alla grave crisi di emergenza sanitaria in cui versava il Paese in quelle settimane. Un'insinuazione pesante, quella della Lucarelli, che manca di rispetto a tutti quei medici, infermieri e operatori sanitari che in quei mesi di estrema difficoltà per il sistema sanitario italiano hanno fatto di tutto, e anche di più, per salvare quante più vite umane possibili con i mezzi a loro disposizione. Un'affermazioe che non poteva passare inosservata a Zangrillo, diventato provocatoriamente "Zangrì" per la giornalista, che al termine del programma in cui era ospite ha voluto rispondere a questa affermzione. "Lei è una donna volgare e cattiva. Lo dico a difesa dei medici e degli infermieri che hanno lavorato al mio fianco, senza sosta per salvare l'ultimo degli ultimi. Dio abbia perdono di Lei", ha scritto su Twitter il medico, difendendo soprattutto i suoi colleghi. La Lucarelli ha ribattuto alla risposta del primario ma, anziché stare nel merito della questione, ha spostato il centro del discorso sul tono utilizzato dal medico nella sua replica: "Strano, perché quando mi scrive o mi telefona per cercare di addolcirmi mi chiama "gentilissima". Avrà capito che con me certi tentativi sono clinicamente morti".
Da corriere.it il 14 settembre 2020. Silvio Berlusconi sarà dimesso oggi, intorno alle 11.30, dal San Raffaele di Milano dove era ricoverato dalla notte di giovedì 3 settembre dopo essere risultato positivo al test Covid-Sars2. L’ex premier resterà in isolamento, secondo quanto apprende l’Ansa, probabilmente nella sua residenza di Arcore, fino a quando non avrà un secondo tampone negativo. Berlusconi «ha dato grandi soddisfazione e credo abbia personalmente contribuito a dimostrare che, seguendo delle regole codificate e precise, riusciremo ad avere ragione del virus e riusciremo a rasserenare tutti, visto che c’è molta ansia e preoccupazione», aveva detto domenica sera Alberto Zangrillo, responsabile dell’Unità operativa di Terapia intensiva generale e cardiovascolare del San Raffaele e medico personale dell’ex premier, in collegamento con L’Aria che tira su La7.
Marco Galluzzo per corriere.it il 16 settembre 2020.
Presidente Silvio Berlusconi, innanzitutto come sta, come si sente?
«Mi sento molto stanco, spossato. Questa è la caratteristica del Covid. Ma ho superato anche questa difficile prova, e questo mi rende sereno».
E i suoi familiari come stanno?
«Si stanno riprendendo, grazie al cielo nessuno di loro ha accusato sintomi molto severi. Però mi creda, l’angoscia di sapere ammalati i miei figli e positivi anche i miei nipoti, che sono ancora dei bambini, è forse la cosa che mi ha fatto stare più male. Per questo mi sento vicino al dolore di tante famiglie che, come la mia, sono state provate da questo terribile morbo. Ancora di più mi sento vicino a chi ha perso una persona cara».
Lei stesso ha detto che ha ricevuto tanto affetto e tanti messaggi, politici e non: quale è stato il più bello?
«Farei un torto a tutti gli altri, se ne citassi uno solo. Ognuno è stato un gesto di affetto, di stima, di rispetto, di solidarietà umana del quale sono profondamente grato. Posso dire che la telefonata del presidente della Repubblica, che rappresenta la nazione, li riassume tutti».
Presidente quali sono stati i momenti più duri del ricovero, cosa ha subito, cosa ha pensato rispetto alla sua vita?
«I momenti più duri sono stati i primi tre giorni in ospedale. Avevo dolore dovunque, non riuscivo a stare nella stessa posizione per più di un minuto. Temevo di non farcela. In quei momenti ho avuto chiare negli occhi le terribili immagini degli ospedali che tutti abbiamo visto in questi mesi, le terapie intensive, i pazienti intubati. Mi hanno detto successivamente che la carica virale trovata nel mio tampone era la più alta riscontrata al San Raffaele su migliaia di tamponi. Dunque il rischio è stato concreto e reale. Ma devo dire che non ho mai smesso — come in passato — di confidare nell’aiuto di Dio e nella grande competenza dei medici e del personale sanitario. È questo il consiglio che rivolgo a tutti gli ammalati: non lasciatevi andare, non perdete mai la speranza di guarire. Il Covid si può battere».
Lei ha preso il Covid durante la campagna elettorale, ha temuto di non poter più guidare Forza Italia?
«Nei primi giorni di ricovero ho temuto per la mia vita, questo sì. Ma dopo ho continuato a lavorare a delle interviste per i giornali, nonostante il professor Zangrillo, che oltre ad essere un bravo medico è un mio amico, cercasse in tutti i modi di impedirmelo».
Il Covid in Italia è in risalita, teme un nuovo lockdown?
«Il caso di Israele dimostra che il pericolo è dietro l’angolo. Però dobbiamo assolutamente scongiurarlo. Una seconda ondata sarebbe una catastrofe umanitaria, sanitaria ed economica senza precedenti. Per questo tutti abbiamo il dovere di rispettare con il massimo rigore le regole per prevenire i contagi».
Il suo medico personale Alberto Zangrillo si è distinto per delle dichiarazioni ottimistiche sul virus nei mesi scorsi: lo ha rimproverato?
«Credo che su questo sia nato un equivoco. Il professor Zangrillo ha espresso da medico valutazioni destinate al dibattito scientifico. Forse essendo un clinico e non un politico ha sottovalutato il fatto che sarebbero state riprese, enfatizzate e sostanzialmente fraintese dai mass media. Il suo non era affatto un invito ad abbassare la guardia. Del resto nel mio caso non ha certo sottovalutato sintomi apparentemente lievi che però nascondevano una situazione molto seria per la quale mi ha imposto un ricovero immediato in piena notte».
Cosa pensa di questo rientro a scuola, come giudica il governo?
«C’è una grande confusione. Le scuole dovevano riaprire, questo è evidente, ma in condizioni di sicurezza, che oggi obiettivamente non ci sono».
Non siete state coinvolti, come opposizione, nel Recovery plan europeo: è un errore di Conte?
«L’opposizione non è mai stata veramente coinvolta nella gestione di questi mesi difficili».
Pensa che il governo abbia le idee chiare su come spendere i 209 miliardi che arriveranno?
«Sul durare il più a lungo possibile hanno un’idea molto chiara».
Sul Mes pensa che dovrebbe essere presa subito una decisione?
«È davvero grave che non sia stata ancora presa una decisione positiva. Nelle condizioni in cui ci troviamo, è incomprensibile rinunciare a delle ingenti risorse a costo zero che ci consentirebbero di costruire nuovi ospedali, di ammodernare quelli esistenti, di assumere più personale sanitario, di investire nella ricerca. Davvero non riesco a capire il senso di questo no».
Se il centrodestra trionfa alle elezioni regionali cosa succede?
«Che avremo un buon governo nelle Regioni e nei Comuni e si confermerà che la attuale maggioranza di governo non è la maggioranza del Paese».
E per parlare di un vostro successo in quante Regioni dovete vincere?
«Non ci poniamo limiti. Potremmo anche vincere dovunque».
Avete lasciato libertà di scelta sul referendum, è una riforma che andava fatta diversamente?
«Senza dubbio. Noi avevamo tagliato il numero dei parlamentari fin dal 2005, ma nel quadro di una riforma organica delle istituzioni, che poi fu cancellata dalla sinistra. Fatto così, il taglio dei parlamentari è solo una riduzione degli spazi di rappresentanza, di libertà, di democrazia. Per questo Forza Italia ha lasciato libertà di voto a tutti i suoi sostenitori. Ma mi lasci aggiungere un altro concetto importante».
Prego.
«Quello però che mi sento di chiedere a tutti gli italiani è di andare a votare. Di non rinunciare ad un’occasione per esprimere la propria sovranità. Ai referendum come alle elezioni è il popolo a decidere, come è giusto e sano in una democrazia. C’è una frase attribuita a Platone che dice che la punizione per chi si disinteressa della vita pubblica è quella di essere governato da persone inadeguate. Dopo 2.300 anni questa riflessione è ancora valida. È in gioco il futuro nel Paese, il nostro futuro comune, il futuro dei nostri figli. È un patrimonio che appartiene a tutti e che quindi ci riguarda tutti. Gli italiani hanno dato una grande prova nei giorni più difficili della pandemia, è fondamentale che sappiano essere una collettività coesa e responsabile — al di là di ogni divergenza politica — anche nei difficili passaggi che ci attendono. Io credo nel nostro meraviglioso Paese e invito tutti a crederci come ci credo io».
Continua la convalescenza di Silvio Berlusconi. Il leader di Forza Italia rassicura comunque i suoi: "Ne usciremo". Agostino Corneli, Venerdì 25/09/2020 su Il Giornale. Silvio Berlusconi è ancora positivo al coronavirus. Il leader di Forza Italia, nonostante le ottime risposte alle cure del San Raffaele e alla totale assenza di sintomi, è risultato positivo al tampone che segnala la presenza del virus. Una notizia che, come riporta Repubblica, è stata accolta con serenità - anche se con naturale amarezza- da Berlusconi, che avrebbe confessato in queste ore: "Il virus non è ancora andato via, ma con pazienza e serenità ne usciremo". Come riporta AdnKronos, il Cavaliere prosegue nel suo isolamento ad Arcore. All'inizio della prossima settimana, spiega l'agenzia, Berlusconi sarà sottoposto a ulteriori esami programmati "per determinare l'evoluzione della malattia e lo stato di positività o negatività". La notizia non implica, come ribadito anche dallo stesso professore Alberto Zangrillo che ha personalmente seguito l'iter di cura dell'ex presidente del Consiglio, un riaffacciarsi della malattia. La positività al tampone, infatti, non implica necessariamente una malattia in corso né la sintomatologia tipica del Covid. Moltissimi pazienti, pur guariti dalla fase acuta, restano positivi al tampone per le successive settimane. Sono molti i casi di tamponi positivi a distanza addirittura di mesi dalla completa guarigione. Silvio Berlusconi, in ogni caso, ha riferito ai suoi collaboratori di essere ancora seguito in maniera estremamente rigorosa dai medici. La positività al tampone è chiaramente un ostacolo, ma sia dal punto di vista fisico che dal punto di vista politico, il leader di Forza Italia non sembra intenzionato a cedere. Berlusconi in questi giorni sta compattando le file dopo i risultati delle elezioni regionali e del referendum, e con Giorgia Meloni e Matteo Salvini, insieme ai più stretti collaboratori di Fi, sta cercando di impostare la linea del centrodestra in vista di mesi cruciali per il governo e per l'opposizione. I fondi dell'Unione europea oltre che le riforme richieste per l'erogazione dei sussidi saranno temi fondamentali per il presente e futuro dell'Italia.
Simona Ravizza per corriere.it il 14 settembre 2020. «Mi ricordo bene, anche perché in realtà sono passati pochi giorni, 12 credo, di avere visitato il presidente e di essermi accorto che c’era un’evoluzione del virus strana, veloce e repentina, che dovevo approfondire. Sulla base di una Tac fatta nella notte (il 4 settembre,ndr), il primo vero, grande problema che ho dovuto affrontare è stato quello di obbligare un paziente che si sentiva ancora bene a un ricovero ospedaliero».
Professore Alberto Zangrillo, abbiamo visto Berlusconi all’uscita dell’ospedale emozionato. Questo per l’ex presidente del Consiglio non è stato un ricovero uguale agli altri. In che cosa è stato diverso?
«Io li ho conosciuti tutti quelli degli ultimi 20 anni. Credo ci sia stata una cosa che richiama una delle caratteristiche veramente negative del Covid-19: ti obbliga alla solitudine e ad affrontare la malattia da solo. Berlusconi era emozionato. Era provato. L’hanno visto tutti. E in questi giorni, forse, è stato anche un po’ spaventato, perché l’evoluzione della malattia non lascia scampo se si perde del tempo. Lui questa volta credo abbia avuto voglia di dirmi che stava vivendo qualcosa che lo preoccupava veramente. È un uomo molto razionale per cui, se c’è una terapia che è una terapia esatta per la cura della patologia, è il primo a capirlo. Ma l’evoluzione di una malattia infettiva può, soprattutto quando non c’è una terapia specifica, sfuggire di mano e presentare un quadro clinico molto negativo. Questo tipo di percezione lui l’ha avvertita».
Aveva la preoccupazione che la situazione potesse sfuggire di mano, insieme alla consapevolezza di essere in buone mani...
«Tutto ciò è molto umano. Lo lego alle sfaccettature che questa malattia ci ha presentato. Anche chi ha mantenuto un comportamento razionale e anche chi ha mantenuto un comportamento molto freddo può avere avuto dei momenti in cui si è sentito solo e non sapeva con chi sfogarsi».
Berlusconi l’ha definito «il momento più pericoloso della sua vita». Per lei c’è stato un momento in cui ha pensato che lui potesse aggravarsi oltremodo?
«Io ho sempre dolorosamente in mente l’evoluzione dei quadri clinici di marzo e aprile. Il mio timore è che si potesse avere un’evoluzione di questo tipo. Un individuo di quasi 84 anni con una carica virale elevatissima: quello che ti aspetti è un quadro clinico che può evolvere in modo negativo. Non è stato così perché c’è stata una corretta risposta immunitaria».
Ma per un signor Rossi qualunque come sarebbe andata?
«È la solita fastidiosa domanda. Ma è una domanda assolutamente legittima. Io capisco, sopporto e comprendo che io possa essere in qualche modo indicato come: “Eccolo là, parla Zangrillo, il medico dei Vip”. Vabbé ci saranno anche loro. Però il 99% della mia vita è fatta di tanti Mario Rossi. Ma sul territorio è molto più difficile il controllo del paziente. Con il tempo forse è venuto un po’ a mancare quel rapporto molto personale con i medici di famiglia che dobbiamo sforzarci di ripristinare. Vinceremo sul virus se ci sarà veramente un’integrazione tra ospedale e territorio».
È mancato un cordone di sicurezza intorno all’ex presidente? Il pericolo, come ci dimostra il caso di Berlusconi esiste ancora, e la situazione avrebbe potuto sfuggire di mano. Lei il 31 maggio ha detto che il virus era clinicamente morto...
«Tanti “amici” mi incolpano di essere uno dei responsabili di questo “mollare gli ormeggi”. Io ho le spalle larghe e accetto le accuse. Però devo avere la possibilità di spiegare. Nessuno si può permettere lontanamente di pensare che usi leggerezza e imprudenza chi come me, e come tanti miei colleghi, ha vissuto il dramma della prima, e speriamo unica, ondata. Io sono il primo a dire che il virus c’è. Il virus esiste e ci ha dimostrato di essere molto contagioso. Il virus ci sta prendendo in giro. Perché il virus vince sul tampone».
Dunque, professor Zangrillo possiamo dire ”Riapriamo l’Italia”, ma l’attenzione deve restare alta?
«Non ho mai negato questo. L’attenzione deve restare altissima. Ma non dobbiamo confondere l’attenzione con l’isteria. Noi dobbiamo spiegare agli italiani: “Alla fine è peggiore il danno che produco bloccando tutto o è peggiore il problema che posso produrre con qualche contagio in più?” Non abbiamo ancora capito quando ciò finirà. Quello che però tutti devono sapere è che finirà prima se tutti siamo bravi. È il motivo per cui abbiamo creato l’acronimo che si chiama Post. La “P” sta per prudenza, la “O” per osservazione, la “S” per sorveglianza, la “T” per tempestività. È una sorta di decalogo che tutti noi dobbiamo osservare. Se lo facciamo viviamo tutti più tranquilli».
È la famosa convivenza con il virus. In che cosa si è scontrato con Berlusconi? Qualche affettuoso botta e risposta in questo ricovero l’ha avuto...
«Ma no. Sono stato semplicemente rigoroso».
L’imitazione di Crozza le piace?
«Ho sempre stimato tantissimo Crozza. Io sono ammirato perché l’imitazione è veramente bella».
Alberto Zangrillo, il retroscena di Guido Crosetto: "Perché è diventato medico di Berlusconi", critici ammutoliti. Libero Quotidiano il 10 ottobre 2020. Guido Crosetto ha preso le parti di Alberto Zangrillo dopo che è stato associato a Norimberga insieme ad altri colleghi (Tarro, Gismondo e Bassetti). A rendere il fatto ancora più grave è che sia stato commesso da un professore universitario, che ha accostato i quattro esperti al tribunale davanti al quale sono stati processati i nazisti per i crimini di guerra. “Ci sono persone che, come me, non capiscono nulla di medicina ma insultano Zangrillo per le sue idee”, ha esordito Crosetto che poi ha aggiunto: “Volevo informarli che lui non è diventato primario e bravo perché era medico di Silvio Berlusconi ma è diventato medico del Cav perché era bravo. Chi può sceglie il meglio”. Ovviamente le parole del professore universitario non sono passate inosservate ai diretti interessati, con Zangrillo che è intervenuto così: “È triste constatare che un professore universitario baratti la ricerca di notorietà con una querela certa”. E inevitabile, perché ognuno è libero di esprimere la propria opinione su qualsiasi argomento, coronavirus compreso, ma sempre nel rispetto del prossimo.
Carlo De Benedetti, non solo insulti: la calunnia a Berlusconi, "si è comprato un giudice". Ipotesi-querela. Libero Quotidiano il 07 settembre 2020. Non solo gli insulti - "imbroglione", "nocivo per il Paese" - ma anche la calunnia. Si parla dei "gentili pensieri" espressi da Carlo De Benedetti su Silvio Berlusconi ricoverato per coronavirus al San Raffaele di Milano, alle parole dell'Ing che hanno suscitato indignazione in tutta Italia, a partire da Marina fino ad arrivare ad insospettabili come Adriano Celentano e Giuseppe Conte. E come fa notare Il Giornale, il Cav è stato anche calunniato. Roba che potrebbe valere a De Benedetti una querela. Il punto è che l'ex editore di Repubblica ha giustificato il suo "imbroglione" così: "È la Cassazione che lo ha detto, ha pagato per comprarsi un giudice. C’è qualcosa di più che comprarsi un giudice?". Il riferimento è al caso del Lodo Mondadori, la sentenza con cui nel 1990 venne assegnato a Fininvest il controllo della casa editrice. Effettivamente, cinque anni dopo la procura di Milano accusò Berlusconi di aver versato una tangente a uno dei giudici che emisero la sentenza. Peccato però che all'accusa non seguì mai alcuna condanna: né dalla Cassazione, né da alcun altro giudice. Semmai, Rosario Lupo - il primo magistrato a cui Ilda Boccassini si rivolse per chiedere di processare Berlusconi - respinse in toto la richiesta, insistendo su una "insanabile inidoneità degli elementi a sostenere in giudizio l'accusa", che si basava su "semplici sospetti". Anche il ricorso in appello della procura venne respinto: niente rinvio a giudizio. Anche in caso di colpevolezza, infatti il reato era prescritto. Ma non è ancora finita: la procura fece ricorso in Cassazione e per la terza volta ebbe tolto, la Suprema Corte trovò totalmente logico quanto detto dalla Corte d'Appello meneghina. "Sconcertante, rispettate mio padre". La schifosa "caccia all'untore", Marina picchia duro (dopo la terrificante prima pagina di Travaglio). Insomma, per il Lodo Mondadori Berlusconi non è stato mai condannato né processato. Non esiste una sola sentenza in cui si dica che "Berlusconi ha pagato per comprarsi un giudice". Ragione per la quale, dopo essersi rimesso e dopo essere uscito dall'ospedale, Berlusconi potrebbe anche togliersi la soddisfazione di querelare De Benedetti.
Continua il delirio di De Benedetti. De Benedetti rincara la dose e attacca nuovamente Silvio Berlusconi. E poi anche Marina: "Non la commento, poverina". Federico Giuliani, Sabato 05/09/2020 su Il Giornale. Carlo De Benedetti ha rincarato la dose su Silvio Berlusconi e, nonostante le polemiche derivanti dalle sue prime affermazioni, ha rilasciato ulteriori dichiarazioni al vetriolo. Insomma, l'Ingegnere non conosce limite alla decenza. E, direttamente dal Festival della Tv e dei Nuovi Media, in corso a Dogliani, a Cuneo, ha ribadito, punto per punto, le critiche al Cav. "Io duro su Berlusconi? Assolutamente no". Questa la risposta data da De Benedetti al termine dell’intervista sulla presentazione del quotidiano Domani in merito al terremoto provocato dalle sue stesse parole riguardo le condizioni del leader di Forza Italia, ricoverato per una polmonite bilaterale interstiziale causata dal Covid.
L’affondo di De Benedetti. Mentre il mondo della politica, avversari compresi, esprimevano la loro vicinanza a Berlusconi, l'Ingegnere ha messo sul tavolo del leader di Forza Italia auguri di pronta guarigione a dir poco particolari (ed evitabili). De Benedetti ha quindi replicato alle parole della figlia del Cav, Marina Berlusconi. "Per quel che riguarda Marina non val la pena di commentarla, poverina. Per gli altri sono stupito dal loro stupore", ha affermato. A questo punto l’Ingegnere si è lanciato in una personale ricostruzione dei fatti. "Prima del mio intervento ha parlato Cairo, suo amico, che stranamente non ha pensato di fargli gli auguri mentre io ho cominciato il mio intervento facendogli gli auguri e chiedendo alla piazza un grande applauso", ha provato a spiegare De Benedetti. Detto altrimenti, De Benedetti ha cercato di far apparire il proprio lato umano. Anche se, viste le dichiarazioni che da un paio di giorni a questa parte sta rilasciando, l'Ingegnere è riuscito a peggiorare la propria situazione. Già, perché - ha aggiunto - anche se una persona è malata le opinioni sul suo conto restano tali. "Dopodiché se uno è malato o meno le mie opinioni non cambiano. Tutti sanno che Berlusconi è stato mio avversario e che io presiedevo un giornale che si è distinto per il modo di condannare la sua politica", ha detto. De Benedetti ha infine calato un ulteriore carico da novanta, dichiarando che Berlusconi è stato "negativo per il Paese". "Vorrei chiedere: cosa ha lasciato al paese? Quali valori ed esempi? Mi hanno attaccato perché l’ho definito imbroglione - ha concluso - ma è stata la Cassazione ad averlo condannato come tale. Cosa c’è di peggio che avere corrotto un giudice?”. Le parole dell'Ingegnere, oltre che grondare di rancore, appaiono alquanto fuori luogo. Eppure De Benedetti è stato difeso a spada tratta dal vignettista Vauro Senesi: "Forse la dichiarazione di De Benedetti è stata preventiva, nell'opporsi alla santificazione, che in questo caso sembra già in atto. Sembra che il fatto che Berlusconi si sia preso il covid già lo abbia santificato". Un'altra uscita evitabile, che completa un quadro infelice.
La calunnia sulla "condanna" di Berlusconi, neppure processato per il lodo Mondadori. L'Ingegnere: "Ecco perché l'ho definito imbroglione»". Ma i fatti lo smentiscono. Luca Fazzo, Martedì 08/09/2020 su Il Giornale. Silvio Berlusconi non ama le querele per diffamazione: e comunque in queste ore ha altre preoccupazioni. Ma quando leggerà i giornali di questi giorni, potrà - ammesso che ne abbia voglia - fare una eccezione alla sua abitudine, e togliersi la soddisfazione di querelare Carlo De Benedetti, ex proprietario di Repubblica e ora editore di Domani. Che presentando la sua nuova creatura al festival di Dogliani, ha dapprima riservato un aggettivo spietato al Cavaliere, ricoverato per Covid-19 al San Raffaele, dandogli dell'«imbroglione». E fin qui la faccenda si colloca nella sfera del rispetto umano e del buongusto, dalla quale - per valutazione bipartisan - il commento dell'Ingegnere ha ampiamente tracimato. Ma in seconda battuta, per giustificare e rivendicare la spietatezza del giorno prima, ha aggiunto De Benedetti ha aggiunto una falsità. Spiegando che l'epiteto di «imbroglione» sarebbe pienamente giustificato dalla storia giudiziaria di Berlusconi: «Imbroglione? Certo, è la Cassazione che lo ha detto: ha pagato per comprarsi un giudice. C'è qualcosa di più che comprarsi un giudice?». Il riferimento è alla vicenda del Lodo Mondadori, la sentenza che nel 1990 assegnò alla Fininvest il controllo della casa editrice milanese. Effettivamente, la Procura milanese accusò cinque anni dopo Berlusconi di avere versato una tangente a uno dei giudici che emisero la sentenza. Ma a quella accusa non è mai seguita alcuna condanna. Nè da parte della Cassazione, nè di alcun altro giudice. Anzi: il primo magistrato cui il pm Ilda Boccassini si rivolse per chiedere di mandare Berlusconi a processo, il giudice preliminare Rosario Lupo, respinse integralmente la richiesta, parlando di «insanabile inidoneità degli elementi a sostenere in giudizio l'accusa» basata da «semplici sospetti». La Procura ricorse in appello, ottenendo il rinvio a giudizio dei coimputati di Berlusconi, tra cui il giudice Vittorio Metta e Cesare Previti: ma per il Cavaliere si vide respingere nuovamente la richiesta di rinvio a giudizio, visto che per la Corte d'appello anche in caso di colpevolezza il reato attribuito a Berlusconi sarebbe stato comunque coperto dalla prescrizione. Motivo: l'imputato avrebbe avuto diritto alle attenuanti generiche, vista la corruzione giudiziaria diffusa a Roma. La Procura generale di Milano, non si arrese, ricorse in Cassazione: e si vide dare torto una terza volta, perché la Suprema Corte trovò del tutto logico il ragionamento della Corte d'appello milanese. Dunque: Berlusconi per la vicenda del Lodo Mondadori non è mai stato condannato e nemmeno processato. In nessuna sentenza è scritto che, come dice De Benedetti, «Berlusconi ha pagato per comprarsi un giudice». A venire condannata a risarcire la Cir di De Benedetti è stata la Fininvest, in seguito alla condanna di Previti. Non è una differenza irrilevante. In nessuna sentenza è scritto che, come dice De Benedetti, «Berlusconi ha pagato per comprarsi un giudice».
Quella giornata in galera: le mazzette dell'Ingegnere. L'ex editore di "Repubblica" fu graziato nel '93 dai Pm di Milano ma a Roma lo fecero arrestare. Luca Fazzo, Martedì 08/09/2020 su Il Giornale. «Ingegnere, lei è in arresto». Bisogna tornare a quel pomeriggio di novembre del 1993, nella caserma milanese di via Moscova, per capire fino in fondo il rapporto di Carlo De Benedetti con la giustizia. Perché quando l'altro giorno l'Ingegnere rinfaccia a Silvio Berlusconi i suoi trascorsi giudiziari, in realtà affronta un tema che lo ha visto coinvolto anche personalmente. E lui, a differenza del suo arcinemico, ha provato l'onta del mandato di cattura e della galera. È una macchia che si porta dentro, e che lo porta - più o meno consciamente - a ribaltare sull'avversario colpe di cui, in modo ben più drammatico, lui stesso è stato chiamato a rispondere. Eppure quella volta era convinto di aver trovato il modo di farla franca. Nel pieno della tempesta di Mani Pulite, quando aveva capito che le indagini del pool si avvicinavano pericolosamente alle tangenti versate dalla sua Olivetti ai partiti della Prima Repubblica, aveva mandato i suoi legali a trattare a Palazzo di giustizia, chiedendo di incontrare Di Pietro e i suoi colleghi a piede libero, promettendo di consegnare loro un memoriale-confessione. Una sorta di salvacondotto che all'epoca chiedevano molti imprenditori, con alterne risposte: due mesi dopo ci provò anche Raul Gardini, a lui dissero di no, e l'inventore di Enimont si fece saltare le cervella. A De Benedetti invece venne detto di sì. E il 16 maggio 1993 poté incontrare i pm nella caserma dei carabinieri di via Moscova, ammettendo quello che fino al giorno prima aveva negato giurando e spergiurando: cioè di avere comprato appoggi e appalti a botte di miliardi. Per sbarcare nel business delle telescriventi, aveva autorizzato un suo manager a trattare le stecche con un dirigente delle poste: «Dopo una contrattazione tra Cherubini e Parrella, il quale chiarì che tutti i fornitori dovevano pagare una quota ai partiti; si arrivò ad un accordo in base al quale Olivetti avrebbe pagato come tutti gli altri fornitori». Una corruzione gigantesca, tanto che il giorno dopo Eugenio Scalfari su Repubblica si dichiarò «ferito e sconvolto» dalla confessione del suo editore. Il pool si limitò a indagarlo a piede libero. Ma l'Ingegnere non aveva fatto i conti con la complessità della macchina della giustizia. Perché, essendo state pagate a Roma le mazzette, l'inchiesta sulle tangenti alle poste venne trasferita a Roma. E qui approdò nelle mani di due magistrati meno comprensivi di quelli milanesi, il pm Maria Cordova e il gip Augusta Iannini. Che raggiunsero nei confronti di De Benedetti la stessa certezza che a Milano aveva spedito in galera tanta gente: lasciato a piede libero, l'uomo avrebbe potuto continuare a delinquere. E il 30 ottobre, cinque mesi dopo il colloquio con i pool milanese, De Benedetti si vide colpire da un mandato di cattura per corruzione. Era all'estero per il weekend. Il 2 novembre, il giorno dei morti, rientrò in Italia, si presentò dai carabinieri. E lì trovò l'ufficiale che lo dichiarò in arresto, lo caricò su un'auto e lo portò a Roma. Gli vennero risparmiate le manette, non le foto segnaletiche e le impronte digitali. A Roma, lo portarono di filato a Regina Coeli, e lo chiusero in cella. Mai, neanche nei suoi peggiori incubi, il patron di Repubblica avrebbe immaginato una sorte così spietata, dopo mesi di plauso dei suoi giornali al repulisti di Mani Pulite. Durò poco. Dodici ore dopo essere entrato in cella, un secondino lo avvisò che era già arrivato il momento di uscire: a casa, ai domiciliari. Tre giorni dopo, gli permisero di spostarsi a Milano, per stare agli arresti nella sua casa di via Ciovasso: arrivò a Linate con il suo aereo privato, accompagnato dall'addetto stampa, e rispose ringhiando a un cronista che gli chiedeva se davvero, insieme ai finanziamenti sottobanco, avesse fatto arrivare in regalo a Bettino Craxi anche dei cimeli garibaldini. Al momento del processo, arrivato ben dieci anni dopo, se la cavò senza danni: lo assolsero per due capi di accusa, e per gli altri due se la cavò con la prescrizione grazie alle attenuanti generiche. Maria Cordova, il pm che aveva condotto l'indagine e che lo aveva arrestato, manifestò il suo stupore per il fatto che «le attenuanti sono state concesse agli imputati maggiori e negate a quelli minori». Sono passati ventisette anni da quelle dodici ore a Regina Coeli. Ma chissà se Carlo De Benedetti riuscirà mai a buttarsele alle spalle.
Da liberoquotidiano.it il 9 settembre 2020. "Lo conosco ma stavolta Carlo De Benedetti ha detto una volgarità che non mi aspettavo da lui". Vittorio Feltri, in collegamento con Mario Giordano a Fuori dal coro, bacchetta l'editore di Domani, ex patron di Repubblica, per la infelice uscita su Silvio Berlusconi ricoverato in ospedale per coronavirus e definito a bruciapelo "grande imbroglione". "De Benedetti è anche una persona gentile, ma stavolta ha fatto la pipì fuori dal vaso. Non si fa con una persona sul letto di dolore, è una questione di tatto. Peraltro ha detto una cosa sbagliata: Berlusconi imbroglione non lo è mai stato, semmai è stato imbrogliato dalla Cassazione, come abbiamo potuto apprendere dalle testimonianze di un giudice che lo aveva condannato", ha concluso il direttore.
Da liberoquotidiano.it il 9 settembre 2020. Piccole, grandi e indirette lezioni a chi, come Carlo De Benedetti giusto per fare un nome, insulta e sfregia un uomo malato, Silvio Berlusconi al San Raffaele per coronavirus. Piccole, grandi e indirette lezioni che, in questo caso, arrivano da Mauro Corona, lo scrittore e opinionista di CartaBianca, il programma di Bianca Berlinguer in onda su Rai 3 ripartito ieri, martedì 8 settembre. Nelle sue riflessioni iniziali, Mauro Corona infatti ha affermato: "Non sono mai stato politicamente dalla parte di Berlusconi, ma sulla malattia di una persona non si possono pubblicare messaggi farabutti e vigliacchi. Manderò a Berlusconi tutta l’energia buona delle mie montagne perché guarisca. E so che guarirà", ha concluso lo scrittore. Lezioni di stile a De Benedetti, insomma.
Gli affari d'oro di De Benedetti dietro il crac dell'Ambrosiano. L'Ingegnere lucrò sullo scandalo che travolse la banca di Calvi. La sentenza: indebito ingentissimo guadagno, Luca Fazzo, Mercoledì 09/09/2020 su Il Giornale. L'espressione più colorita, ma forse più efficace, l'ebbe Orazio Bagnasco, destinato a prendere il posto di Carlo De Benedetti nel vertice del Banco Ambrosiano, raccontando ai giudici le confidenze di Francesco Micheli, finanziere di fiducia dell'Ingegnere: «Proprio siffatte informazioni avevano consentito al De Benedetti di iugulare il Calvi al momento di concordare le modalità di uscita dal Banco». Iugulare: un verbo che nel dizionario non c'è. Ma che racconta bene l'approccio che la sentenza del 16 aprile 1992 del tribunale di Milano attribuisce a Carlo De Benedetti, ex editore di Repubblica e oggi di Domani. E che forse racconta bene anche l'animo di un uomo che davanti a un avversario in pericolo di vita sceglie di infierire su di lui: come l'Ingegnere ha fatto nei giorni scorsi con Silvio Berlusconi. La sentenza che riporta la testimonianza di Bagnasco è l'atto più illuminante e riassuntivo della carriera giudiziaria di De Benedetti. È la sentenza di primo grado per lo scandalo del Banco Ambrosiano di Roberto Calvi, il più fosco tra gli scandali bancari italiani. De Benedetti sedeva sul banco degli imputati insieme a Licio Gelli e al resto della P2 (Calvi era già stato impiccato a un ponte di Londra), e il tribunale lo condannò a sei anni e quattro mesi concorso in bancarotta, per «l'indebito ingentissimo guadagno lucrato» ai danni dell'Ambrosiano. Il seguito della vicenda è noto: condanna ridotta in appello, e poi annullata dalla Cassazione in base a un curioso ragionamento, secondo cui essendo stato indagato prima per estorsione e poi per bancarotta, De Benedetti non poteva venire condannato per nessuno dei due reati. Poco conta che imputati di filoni laterali, come i disturbatori di assemblee, venissero poi condannati per entrambe le accuse. E vano sarebbe ora chiedersi perché la Procura di Milano, dopo l'annullamento della condanna, non incriminò nuovamente l'Ingegnere: alla prescrizione mancavano ancora otto anni. Anche quella volta, De Benedetti seppe difendersi bene. Ma i fatti, quelli rimangono, mai messi in discussione né in appello né in Cassazione. Li raccontano le 270 pagine dedicate a De Benedetti delle motivazioni della sentenza di primo grado, scritte dal giudice Pietro Gamacchio. Dentro, ci sono prologo ed epilogo dei tre mesi cruciali della vicenda: tra il 16 novembre 1981, quando la Cir (la holding dell'Ingegnere) compra un milione di azioni del Banco e De Benedetti ne diventa vicepresidente, e la fine del gennaio successivo, quando se ne va con una «liquidazione dorata» (testuale nella sentenza). Gli vengono ricomprate tutte le azioni, anche quelle che non ha mai pagato, insieme al prezzo d'acquisto gli vengono versati gli interessi, e la banca si impegna a vendere al suo posto 32 miliardi di azioni di una finanziaria. Un salasso, per i conti dell'Ambrosiano prossimo al collasso. Dietro, per i giudici, c'è una storia semplice: De Benedetti entra nell'Ambrosiano sapendo benissimo degli affari sporchi della banca, e punta ad approfittarne per cacciare Calvi e prendere il suo posto. Dirà nella sua arringa Lodovico Isolabella, difensore di un imputato: «Quando mettono in prigione Calvi, De Benedetti pensa che sia il momento giusto per dire: ecco, qui faccio l'affare della vita mia». Ma quando Calvi contrattacca e gli chiude la strada, De Benedetti pretende soldi in cambio del suo silenzio. In cambio dei segreti sui rapporti con lo Ior del Vaticano che non ha reso noti né al consiglio d'amministrazione né alla Banca d'Italia. E c'è un altro aspetto della sentenza che illumina ancora di più il modus operandi che ha fatto grande De Benedetti: il rapporto d'acciaio con il potere politico, la contiguità con lo Stato. Ad aprirgli la strada verso l'Ambrosiano è Bruno Visentini, che prima di diventare presidente della Olivetti è stato ministro della Finanze. Quando va in Vaticano a parlare dello Ior col cardinal Silvestrini, ci va insieme al ministro dell'Interno, Virginio Rognoni. E quando Calvi gli fa arrivare una letteraccia anonima, lui invece che al commissariato di zona la porta al Quirinale, a Pertini. A uno così, come potrebbero andar male gli affari?
Luca Fazzo per ''il Giornale'' il 9 settembre 2020. Argent de poche, gli spiccioli che ti ballano in tasca e che nemmeno ti ricordi di avere. Questo, per Carlo De Benedetti, dovevano essere i 123 miliardi di lire che tra il 1994 e il 1996 la sua Olivetti mise a bilancio, e che invece non esistevano nemmeno sulla carta. C'erano invece fondi di magazzino, antiquariato tecnologico ormai invendibile, che nei bilanci di Ivrea venivano fatti figurare come se fossero già venduti. Un'operazione colossale di maquillage dei bilanci di una azienda già pericolante? No, una inezia, un dettaglio così irrilevante che l'Ingegnere se l'era dimenticato. E si era pure dimenticato di essere stato, per quei 123 miliardi, inquisito, processato e condannato. Ma quando nel 2015, nel processo per diffamazione che aveva intentato a Marco Tronchetti Provera gli chiesero se i bilanci Olivetti fossero mai stati messi in discussione, il padrone di Repubblica insorse con la veemenza dell'orgoglio ferito: «No, giammai!». E quando l'avvocato di Tronchetti gli tirò fuori la sentenza di condanna, sembrò cadere dalle nuvole. «Era una cosa talmente irrilevante che me la sono dimenticata». Una bazzecola. Però, in questi giorni in cui l'Ingegnere si erge ad alfiere della moralità altrui, è interessante andarsi a rileggere quella vecchia e dimenticata sentenza del tribunale di Ivrea. E soprattutto è interessante collocarla in quegli anni difficili, in cui il salvataggio della gloriosa Olivetti da parte dell'ex manager della Fiat sembrava trasformarsi in un disastro, al punto che in Parlamento si parlava di nazionalizzazioni e di commissioni d'inchiesta. Il bilancio del primo semestre del 1996 evidenziava un passivo di 440 miliardi, una voragine. Per salvarsi la faccia, De Benedetti fece uno dei suoi rari sbagli: chiamò in Olivetti un direttore generale proveniente dalla Rai, Renzo Francesconi, fama di mastino dei conti. Presenza lampo: a luglio 1996 Francesconi arriva a Ivrea, a settembre si dimette precipitosamente raccontando che i bilanci che si è trovato davanti sono uno più fasullo dell'altro. Il titolo crolla in Borsa. Si muove il governo, preoccupato che il crollo dell'Olivetti si ripercuota sul sistema bancario, che ha finanziato l'avventura di De Benedetti con quasi duemila miliardi di lire. Per l'Ingegnere, che in quel momento ha ancora sul groppo la condanna per il crac del Banco Ambrosiano (l'assoluzione in Cassazione arriverà due anni dopo) rischia di essere la botta finale. Ecco, è in questa fase di lotta per la sopravvivenza che qualcuno a Ivrea decide di sistemare i bilanci alla bell'e meglio. Di tutte le accuse di Francesconi, è l'unica che porterà a una condanna: destinata a venire inghiottita qualche tempo dopo dalla riforma delle norme sul falso in bilancio. De Benedetti anche stavolta sembra protetto da quello che gli americani chiamano l'effetto Teflon: le accuse gli scivolano addosso, non gli restano attaccate. Ma i fatti, anche in questo caso, restano nero su bianco, incontrovertibili, tanto che a Ivrea nel 1999 lo stesso De Benedetti rinuncia a difendersi in aula e chiede di patteggiare la pena. Lo fa personalmente, con una procura autografa inviata al suo avvocato Gilberlo Lozzi, e mettendosi d'accordo con la Procura per una condanna a tre mesi di carcere, convertita (come consente la legge) in una multa da 51 milioni di lire. E questi sì che sono spiccioli, per uno degli uomini più ricchi d'Italia. Ma i fatti, come nel caso dell'Ambrosiano, sono meno ondivaghi delle sentenze. Ed eccoli, cristallizzati nella sentenza che il 14 ottobre 1999 dichiara De Benedetti colpevole di falso in bilancio, insieme al suo ex braccio destro Corrado Passera. Nell'imminenza della chiusura dei bilanci, venivano indicate come crediti le vendite di macchinari che non potevano essere consegnati, per il semplice motivo che non esistevano. Al loro posto, veniva simulata l'uscita di giacenze di magazzino. «Il fenomeno era complesso e sofisticato, prevedeva anche una modifica del sistema informatico per l'evasione degli ordinativi», in un «disegno fraudolento diretto a fornire un quadro fuorviante circa l le condizioni economiche della società». Un imbroglio, per usare una parola oggi cara a Carlo De Benedetti.
Relazione tempestosa finita in acido. Berlusconi e De Benedetti, storia di una passione autentica tra due ex amici. Paolo Guzzanti su Il Riformista l'8 Settembre 2020. Allora, dilemma: che gli ha preso all’Ing (con la maiuscola, come Avv per Agnelli e Cav per il cavaliere) Carlo De Benedetti quando ha commentato la malattia (Covid a 83 anni con un sacco di problemi pregressi, come da manuale) di Silvio Berlusconi dandogli dell’ «imbroglione» e parlando del proprio personale orgasmo – «la mia maggior goduria» – quando quello fu costretto a rimborsare alla sua Cir un bel pacco di miliardi? Qui ci sarebbe da rifare la storia d’Italia con tutta la “guerra di Segrate” fra Berlusconi e De Benedetti quando fu giocata una partita mortale sulla Mondadori. Ma occorrerebbero pagine per chi non sa e non ricorda. Mettiamola invece sul piano personale. Li ho conosciuti e anzi li conosco entrambi, De Benedetti e Berlusconi, umanamente parlando. E quando ho visto questa sparata dell’ingegnere a commento della malattia che aveva costretto Berlusconi al ricovero recalcitrante per polmonite da Covid mi sono chiesto se avesse avuto una botta di follia. Ho pensato in questi giorni durante i quali si è scatenata la zuffa all’italiana con violenza verbale, battute da querela e da fogna, e insomma sono rimasto ipnotizzato come spettatore cronista dal solito clima da guerra civile mentale e verbale che ci accompagna dalla fine della guerra fredda, anzi da molto prima. Con calma, anzi con rammarico, direi che De Benedetti si è fatto prendere da uno dei suoi personali attacchi di odio. Carlo De Benedetti ed io scrivemmo insieme un libro intervista qualche anno fa e diventammo amici, io bevevo la sua stessa tisana giallina che gli portavano in caraffe e rievocammo la sua vita e le sue guerre. E devo dire che mi colpì presto la dicotomia, o se preferite la contraddizione, fra il suo aspetto pacioso, florido senza essere grasso, apparentemente misurato e contegnoso, ma colmo di disprezzo e con una schiuma interna di conti non saldati. Dette a me l’anteprima di aver voluto letteralmente licenziare Eugenio Scalfari proprio perché voleva cacciarlo via e sostituirlo dalla mattina alla sera con Ezio Mauro che dirigeva la Stampa, lasciando in braghe di tela l’avvocato Agnelli, editore de la Stampa, che non credeva ai suoi occhi. Mi parlò molto, molto male, di persone che sono morte e di cui dunque taccio il nome. Ne parlò in maniera sferzante. E anche con qualche ragione, penso. Mi colpì molto quando disse che essendo fuggito da bambino in Svizzera con i suoi a causa delle persecuzioni razziali, sperimentò la fame e la povertà e giurò a sé stesso di non voler più essere povero, ma anzi di voler diventare ricco, ricchissimo, straricco. E lo fece. Fu un imprenditore di motociclette, di auto, entrò e uscì dalla Fiat litigando con Agnelli cui lasciò in compenso la Panda («una specie di carrarmato brutto e solido che costava poco e rendeva molto»), mi parlò con commiserazione altera di Francesco Cossiga che dopo le loro guerre gli venne a portare come dono di pace un coltello da pastore sardo (ma non una parola sul fatto che Cossiga insieme a De Michelis perorarono la sua causa presso la Casa Bianca dopo che la Olivetti era stata messa sul libro nero delle aziende che passavano segreti americani ai russi). E naturalmente mi parlò della Olivetti di Adriano Olivetti, il gioiello italiano delle macchine da scrivere e anche dei primi computer (con scheda Ibm) che lui, l’Ingegnere, gettò nella spazzatura perché non rendeva. Mi disse di quando gli offrirono di finanziare un giovanotto, un certo Bill Gates, che fabbricava computer in garage e che purtroppo non lo fece. Una bella storia di vittorie e qualche sconfitta, ma con un bel cesto di sassi nelle scarpe che non cessavano di dolergli. Una di queste era il comportamento dei figli che lo avevano sostituito nelle aziende e che non volevano sapere dei giornali perché i giornali portano solo rogne e niente soldi. In particolare, il dente avvelenatissimo col figlio Rodolfo con cui ebbe dei chiarimenti che sembravano regolamenti di conti e che si conclusero poi con la vendita del gruppo Repubblica-L’Espresso che passò alla Fiat poco dopo aver insediato nella direzione lo sfortunato e bravo Carlo Verdelli che sarà poi cacciato dai nuovi padroni dalla mattina alla sera. Una vita di lotte feroci fra combattenti italiani in un panorama molto italiano, con qualche ombra russa dei tempi sovietici. Quando iniziammo la nostra intervista mi disse: «Immagino che lei voglia prima di tutto sapere qual era la storia degli agenti russi nell’Olivetti». E me la raccontò, a suo modo. Aveva distrutto Scalfari, un altro giornalista storico di Repubblica, Cossiga, Craxi, Agnelli. Ma più di tutti, naturalmente., l’oggetto del suo odio al vetriolo era Silvio Berlusconi di cui parlava peraltro – e con mia sorpresa – come di un vecchio amico che di tanto in tanto lo andava a trovare per chiedergli consiglio, cui lui benignamente accordava qualche suggerimento utile. I due, quanto ad essere nemici, lo furono in maniera totale, da grande gioco del capitalismo italiano con ogni sorta di colpo di scena, accusa di falso, corruzione, imbroglio. Schiere di avvocati se le dettero di santa ragione per anni. La Mondadori alla fine andò a Berlusconi con Panorama ma senza Repubblica e l’Espresso che andarono invece a De Benedetti, con passaggi milionari di soldi decisi dai giudici nei vari livelli della causa. Tutto ciò detto, resta aperta e non risolta la domanda: perché De Benedetti ha di fatto augurato la morte anziché la guarigione all’ex nemico caduto malato? Qualcuno forse obietterà: ma non esageriamo, certo che gli ha augurato la guarigione ma con una battutaccia senza conseguenze. Ecco: quando si vuole augurare lunga vita al nemico caduto da cavallo, si fa come fece Bersani il quale, senza farsi pubblicità, andò a trovare Silvio Berlusconi in ospedale ferito e scioccato dal lancio di una madonna di piombo, da parte di un odiatore di passaggio. L’odio, sia detto per amor di verità banale, è un sentimento umano che ha il suo ruolo nell’economia selvatica dell’essere. Quell’espressione di De Benedetti usata per esprimere disprezzo persino per la malattia fisica del corpo di Berlusconi, appartiene o no all’armeria dell’odio ideologico? Naturalmente le risposte saranno divise in due fra chi conferma e chi dissente, ma nel caso di diniego per dissenso – De Benedetti non voleva manifestare odio e augurare la morte, ma gli è soltanto sfuggito il piede dalla frizione – resterebbe in piedi la domanda d’obbligo successiva: De Benedetti ha superato il limite del logoramento e ha perso il controllo definitivo della muscolatura liscia del pensiero che dovrebbe regolare l’emissione dei gas emotivi? Nessuno può garantire, ma io voto sì. Per De Benedetti, penso, e per una discreta fetta di italiani andati in acido e fuori controllo, tutto ha a che fare con Berlusconi, come prima con Craxi. Berlusconi ha impedito – storicamente e vorrei sapere chi si sentisse di negarlo – che con la decapitazione della prima Repubblica vincesse la gioiosa macchina da guerra di Achille Occhetto e del nuovo “coso” uscito dalla Bolognina. De Benedetti ha detto che per lui Berlusconi è ed è stato «una specie di Alberto Sordi» della politica italiana. Ora, ammesso che De Benedetti intendesse paragonare i personaggi miseri e imbarazzanti creati da Sordi, davvero lui o chiunque altro può dire che l’impensabile operazione politica che fece saltare i piani e le speranze del Pds con una impossibile alleanza fra i leghisti separatisti di Bossi e gli ex fascisti di Fini, fosse una “albertosordata”? Davvero? Una cosa da Ambra Jovinelli? Da Fratelli De Regie o da Sarchiapone di Walter Chiari? Davvero? Qui secondo me casca l’asino dell’innocenza pretesa nelle parole di De Benedetti. Il suo (mal)augurio a Berlusconi è stato maldestramente mascherato da sbuffo di insofferenza nei confronti di un preteso pagliaccio, un “albertosordo” dell’impresa e della politica. Sarebbe da imbecilli pensare che davvero De Benedetti lo pensasse perché tutta la sua (di De Benedetti) vita politica con la tessera numero uno del Partito Democratico è stata dedicata a combattere su tutti i campi sia alla luce del sole che nei vicoli notturni, contro quell’uomo che rovesciò il tavolo e bloccò il ribaltone destinato ad instaurare in Italia un sistema politico egemomìnizzato dal vecchio Pci. Per molti fu un lutto e fra quei molti c’era sicuramente De Benedetti. E tuttavia, come può un uomo del suo rango, fingere di essersi battuto contro un imbroglione che “albertosordeggiava”? È impossibile. Dunque, a mio parere, questa verità storica e fattuale esclude qualsiasi attenuante benevola per la maledizione che l’Ingegnere ha lanciato contro il vecchio nemico spaventato dalla morte, sorpreso dalla polmonite, ricoverato quasi con la forza, messo a brutto muso di fronte alla prospettiva di lasciarci la pelle. Come se non bastasse, e infatti non basta, De Benedetti come i bambini capricciosi che rifiutano di chiedere scusa alla nonna accoltellata in un momento d’ira, ha ribadito che diceva sul serio, che non si scusava di nulla e che aveva ragione lui. L’uscita di De Benedetti ha comunque funzionato anche da test di Rorschach, quello delle macchie d’inchiostro di fronte alle quali ognuno vede quel che ha già nella testa. C’è stata una pletora di gaglioffi che per il piacere di giocare come i pirati che si giocavano una bottiglia di rhum, si sono gettai nel gioco malaticcio sotto la rubrica “Piatto ricco mi ci ficco”. L’Italia dei codardi ha fatto quasi tutta un passo avanti per applaudire. De Benedetti ha giocato un pessimo finale di partita e purtroppo non saprà trovare dentro di sé la forza che altre volte ha trovato per fare un passo indietro e giocarsi la carta magnifica non dell’autocritica – che detesto – ma del decoro e del rispetto. Orsù, Ingegnere: ha ancora l’età per esibirsi in un colpo di reni che la restituisca alla postura del coraggio, l’unica uscita da questa storia.
Abbiamo odiato Berlusconi perché ci ha detto chi siamo. Gioacchino Criaco su Il Riformista il 5 Settembre 2020. Tutto in provincia arriva con un ritardo che dà umanità agli eventi, le novità. Pure le lucciole di Pasolini arrivarono in ritardo. Fu una sera d’estate del ‘75. La domenica i padri portavano i figli nelle sezioni di partito dei paesi: per dimostrare che erano importanti, parlavano di massimi sistemi. “Le lucciole sono scomparse” diceva un certo Pasolini. I bambini ascoltavano, poi scappavano fuori. compravano un paio di nazionali sfuse e attorno alla loro brace raccoglievano decine di lucciole. Tornavano dai grandi a dir loro che quel Pasolini era un impostore. Rimediavano qualche pesante rimprovero, più per le sigarette che per la scoperta, e se ne andavano mogi a casa. Molti lo odiano Berlusconi, pure quando sta male, molti gli augurano da anni morte o galera. Magari può non essere il nonno con cui mandare i figli al parco. Non è lo scrittore la cui penna può far sognare. Non è il medico al quale affidare la vita. Il prete al quale consegnare la confessione. L’idraulico a cui dare in riparazione la caldaia. La donna da amare. Per molti lui non fa sognare. Però ci ha dimostrato che sognavamo. Sognavamo di avere grandi politici. Solide Istituzioni. Super giornalisti. Esimi intellettuali. Formidabili imprenditori. Genitori integerrimi. Mogli e mariti fedeli. Figli affettuosi. Ci ha portati per trent’anni davanti allo specchio. Ci siamo visti nudi. Il sogno è diventato un incubo. Abbiamo scoperto di essere un popolo di cubiste e tronisti, calciatori e veline, scrittorucoli e scribacchini. Politicanti rionali. Rivoluzionari da salotto o al massimo guerriglieri da Facebook. Berlusconi ha tolto il lenzuolo al fantasma e sotto abbiamo scoperto di esserci noi. Una piccola, egoista, mediocre società. Ed è questo che non riusciamo a perdonargli. Ci ha dimostrato quanto le porte della nostra moralità siano sfondabili. Ho acceso una bella sigaretta americana, una di queste ultime sere d’estate. Le lucciole si sono illuminate per un po’. Ma non si sono avvicinate. Le loro luci sembrano asettici neon, non somigliano a quelle belle fiaccole giallognole dell’infanzia. Gli insetti vanno ognuno per conto proprio. Sembrano finti. Di plastica. Forse pure Pasolini si era sbagliato come sostenevano i bambini della sterminata provincia nazionale. Le lucciole erano andate, in anticipo sui tempi, da qualche pioniere della chirurgia estetica. Sono tornate, volti abbronzati e tirati cercano inutilmente di nascondere un vuoto d’anima, e la colpa non può essere tutta del Cavaliere.
Dagospia il 6 settembre 2020. Adriano Celentano su Facebook. Caro De Benedetti, stavolta con Berlusconi non mi sei piaciuto per NIENTE. Eri stonato e fuori tempo. Forse non ti sei accorto, ma siamo nel bel mezzo di un INCENDIO planetario. E tu cosa fai?... Anziché buttare acqua sul fuoco per spegnere un inquinamento di cui anche tu sei responsabile, come del resto lo "SIAMO" chiunque non si abbassa a raccogliere il pezzetto di carta che sporca la strada e tu, e tu invece cosa fai?... Nel bel mezzo dello sporco, non solo non raccogli, ma approfitti per lanciare una bella dimostrazione di RANCORE. Miscela altamente INFIAMMABILE per qualunque tipo di ODIO.
Franco Stefanoni per il ''Corriere della Sera'' il 6 settembre 2020. «Io duro su Berlusconi? Assolutamente no». Ad affermarlo Carlo De Benedetti tornando, al termine dell’intervista sulla presentazione del giornale Domani al Festival della Tv dei nuovi media di Dogliani (Cuneo), sulle polemiche innescate ieri dalle sue parole su Silvio Berlusconi, ricoverato per una polmonite bilaterale interstiziale dovuta al Covid. «Per quel che riguarda Marina non val la pena di commentarla, poverina. Per gli altri sono stupito dal loro stupore. Penso che Berlusconi sia stato negativo per il Paese. E vorrei chiedere: cosa ha lasciato al paese? Quali valori ed esempi?» «Mi hanno attaccato perché l’ho definito "imbroglione" - ha concluso - ma è stata la Cassazione ad averlo condannato come tale. Cosa c’è di peggio che avere corrotto un giudice?». De Benedetti ribadisce così punto per punto le critiche all’ex premier Silvio Berlusconi e risponde alla dura controreplica della figlia dell’ex premier, Marina Berlusconi. E ricostruisce i fatti: «Ho cominciato il mio intervento facendogli gli auguri e chiedendo alla piazza un grande applauso. Dopodiché, se uno è malato o meno le mie opinioni non cambiano. Tutti sanno che Berlusconi è stato mio avversario e che io presiedevo un giornale che si è distinto per il modo di condannare la sua politica», ha concluso.
Da ''la Repubblica'' del 23 maggio 1993. "Ingegnere, siamo infuriati...". E' il titolo di un lunga intervista a Carlo De Benedetti, un faccia a faccia fra Giampaolo Pansa e il presidente dell' Olivetti che ha ammesso di aver pagato tangenti. Un botta e risposta sulle accuse, le scelte, i comportamenti dell' imprenditore pubblicato sul prossimo Espresso.
Perchè De Benedetti (azionista di maggioranza del gruppo L' Espresso) ha pagato? Perchè non si è rivolto subito a Di Pietro? E come mai non ha denunciato il racket dei politici nemmeno sui suoi giornali? Ci sono state pressioni? Non poteva dire la verità?
"La verità? Nessuno ci avrebbe creduto. Avrebbero detto: ecco l' Ingegnere rosso che accusa i partiti di governo. E nessun altro imprenditore si sarebbe associato alla denuncia. Basta guardare come si sono comportate le altre imprese che possiedono anch' esse giornali. Il clima, allora, era quello". Spiega meglio: "Beccavano Mario Chiesa con la tangente in tasca e il suo partito, sapendo tutto quello che sapeva, strillava: è soltanto un mariuolo. Idem gli altri partiti di governo". E l' Ingegnere, rivolgendosi a Pansa, afferma: "Se avessi fatto come dici tu, mi avrebbero distrutto più di quanto hanno tentato di fare". Ma perchè i grandi gruppi industriali non hanno usato, insieme, la loro grande forza per reagire?
"Non c' è mai stata coesione. Ciascun gruppo ha sempre perseguito il proprio interesse... Esiste il grande faidismo, ossia le faide". Alla fine dell' intervista Pansa si rivolge così all' editore: "Molti sono convinti che, alla fine di questa rivoluzione italiana cominciata con Tangentopoli, anche i vertici imprenditoriali dovranno sgombrare il campo. E anche tu dovrai andartene a casa...".
De Benedetti risponde: "Sembra un invito, il tuo. E anche un po' duro. Rispondo: deciderò di smettere il mio impegno in Olivetti il giorno in cui pensassi di non essere più utile all' Olivetti. Oggi non è così. Oggi se si fa un accordo con la Digital o un aumento di capitale è perchè ci sono io. E' incluso addirittura nelle clausole contrattuali di entrambe le operazioni. Ad ogni modo alla tua domanda cattiva osservo: non mi sono mai sentito nel branco di cui parli, quello delegittimato dalla rivoluzione italiana".
Chi è davvero De Benedetti: il lato "segreto" dell'Ingegnere. Le rivalse eccessive non sempre hanno contribuito a saturare le sue aspirazioni provocando un sottofondo costante di ansia di prestazione. Evi Crotti, Sabato 12/09/2020 su Il Giornale. La firma del cavaliere Carlo De Benedetti (Debenedetti per l’anagrafe) si presenta col cognome che precede sempre il nome ridotto, quest’ultimo, ad una semplice iniziale “C”. Il primo fatto indica quanto De Benedetti tenga al casato e come abbia investito molte aspirazioni su di esso. Dal momento che la firma indica simbolicamente la paternità, evocando il bisogno di imitare il padre come spinta al sociale, tale aspirazione inizia sempre o abitualmente già nell’adolescenza: Carlo De Benedetti non ha fatto eccezione. Peccato che tale spinta lo abbia portato a rivalse eccessive che non sempre hanno contribuito a saturare le sue aspirazioni provocando un sottofondo costante di ansia di prestazione. Vale a dire che egli è sempre in stato di allarme veglia o addirittura di agitazione, ogni volta che deve affrontare una situazione spinosa o conflittuale. Le aste rette, prolungate e poco chiare, sono sempre un segnale di aggressività malamente trattenuta che a volte supera la soglia di controllo. È allora che da lui emerge quel senso di rivalsa e gelosia che lo ha sempre accompagnato. Non a caso, il nome, ridotto alla sola iniziale, si caratterizza per la trasformazione dello stesso in una sorta di freccia lanciata verso destra cioè verso l’ambiente sempre temuto ma anche affrontata con atteggiamenti di soggettività.
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Luca Fazzo per “il Giornale” l'8 settembre 2020. Alla fine, Carlo De Benedetti la zappa sui piedi se l'è data da solo, in un gesto dettato forse più dal carattere che dal raziocinio: e dall'antipatia che da anni lo contrappone a un altro grande imprenditore, l'amministratore delegato di Pirelli, Marco Tronchetti Provera. Sei anni fa, al termine di una baruffa a distanza, a colpi di dichiarazioni alle agenzie, l'Ingegnere sporse querela per diffamazione. E Tronchetti venne assolto. Grazie a quella sentenza, una serie di epiteti a De Benedetti sono da oggi ufficialmente sdoganati. Nell'ordine: è consentito dire che «De Benedetti è stato molto discusso per certi bilanci dell'Olivetti»; si può serenamente affermare «che fu allontanato dalla Fiat»; via libera alla frase «fu coinvolto nella bancarotta del Banco Ambrosiano». E non c'è nulla di male a rimarcare, come fece Tronchetti, la cittadinanza svizzera dell'ottantaseienne editore. Nella sua sentenza, il giudice Monica Amicone dà atto che i giudizi riservati da Tronchetti al collega non sono certo dei complimenti. Anzi, le circostanze indicate da Tronchetti sono «quanto meno disdicevoli per il De Benedetti». L'«essere implicato» nella bancarotta del Banco Ambrosiano, «uno dei più grandi scandali finanziari italiani del dopoguerra», «risulta pregiudizievole per la reputazione di chiunque». E per un manager di professione l'accusa di stendere bilanci discutibili significa mettere in discussione «la capacità di una corretta ed efficace gestione delle società». Il problema, per il querelante De Benedetti, è che le affermazioni di Tronchetti per i giudici sono tutte vere. É vero che venne coinvolto nell'Ambrosiano: «appare riscontrata la veridicità della dichiarazione dell'imputato (Tronchetti Provera, ndr) circa il coinvolgimento di De Benedetti in un procedimento per bancarotta che l'ha visto imputato fino al giudizio di Cassazione, benché successivamente prosciolto». È vero che dalla Fiat venne repentinamente accompagnato alla porta. Ed è vero anche che per i bilanci dell'Olivetti è stato condannato. A questo capitolo la sentenza del giudice Amicone dedica uno dei passaggi più lunghi, partendo dalla surreale udienza in cui, interrogato in aula, De Benedetti disse al giudice di non essere mai stato denunciato per falso in bilancio, «parlare di bilanci discussi è un falso è un insulto». Ma a quel punto si alzò il difensore di Tronchetti e gli chiese se non si ricordasse di una sentenza del 1999 del tribunale di Ivrea. «Non mi ricordo, era una cosa irrilevante perché è finita certamente nel nulla». E l'avvocato, implacabile: «Non è finita nel nulla, è finita con una condanna nei suoi confronti a tre mesi di reclusione». Saltò fuori che a chiedere di patteggiare era stato lui, De Benedetti. Scrive il giudice nella sentenza: «appaiono prive di rilievo oltre che opinabili le considerazioni sulla natura marginale della fattispecie penale rispetto alla quale il De Benedetti ha chiesto e ottenuto l'applicazione della pena».
Lo dice la sinistra "Il meglio a destra è Berlusconi". Intervista su "L'Express". I radical chic rivalutano l'ex premier come elemento di moderazione nei confronti dei sovranisti. Fabrizio De Feo, Venerdì 21/08/2020 su Il Giornale. La Francia riaccende i riflettori su Silvio Berlusconi. Per cercare di fare chiarezza sulla situazione italiana uno storico settimanale come l'Express si rivolge al presidente di Forza Italia, ovvero a colui che «è ancora al centro della vita pubblica dopo 30 anni ed è al centro di una possibile nuova maggioranza di governo ed è probabilmente uno di quelli in grado di comprendere meglio l'opinione degli italiani». Ne nasce una lunga intervista da cui si comprende che alcuni antichi pregiudizi sono ormai superati o storicizzati e la figura del Cavaliere è oggetto di una rivalutazione anche in ambienti a lui un tempo ostili. Il colloquio si concentra sulla politica italiana, ma non manca il respiro continentale - «sono convinto che tra 10 anni l'Italia sarà ancora saldamente nell'Unione Europea, perché se così non fosse vorrebbe dire che l'Europa non ci sarebbe più» - la richiesta di un giudizio su Emmanuel Macron. «Ho molta stima e profondo rispetto per il Presidente Macron, per il suo ruolo di leader e di protagonista responsabile e al tempo stesso innovatore del processo di integrazione europea. Del resto, fin dai tempi di De Gaulle questa è la vocazione della Francia. Di lui apprezzo il dinamismo, il coraggio, la capacità di visione. Ma al di là dell'età, non credo si possa definire politicamente un mio figlio. Certo, ha saputo trasformare i termini della politica francese, come è accaduto in Italia all'epoca della mia discesa in campo. Però lui e io abbiamo un percorso culturale e politico molto diverso. Il Presidente Macron viene da una sinistra che è stata capace di evolversi in senso liberale. Lo apprezzo molto per questo, ma non è la mia storia». Dalla Francia all'Italia. Sullo stato dell'arte nel nostro Paese Berlusconi non nasconde le proprie perplessità. «Sono molto preoccupato. Per fronteggiare la crisi il governo ha agito con grande ritardo, adottando misure stataliste e dirigiste, distribuendo mance elettorali piuttosto che una vera strategia per il rilancio. Le difficoltà con l'Europa sono anche conseguenza di questo, probabilmente». L'Express chiede a Berlusconi come sia cambiata l'Italia nell'arco di 30 anni, partendo dal presupposto della sua immutata centralità politica. «La centralità di cui lei parla è soprattutto una centralità delle idee che abbiamo messo in campo per uscire dall'emergenza. L'Italia è cambiata profondamente come è cambiato tutto il mondo occidentale nel quale noi viviamo. L'evoluzione della tecnologia ha trasformato le nostre abitudini di consumo e il nostro modo di ottenere informazioni. Quello che possiamo già dire oggi è che come in tutte le fasi di trasformazione le persone sono disorientate. E il disorientamento produce scelte spesso irrazionali. Chi oggi ha 50/60 anni o più ha fatto in tempo a crescere in un mondo condizionato dalle ideologie e dalle esperienze del '900, con tutte le tragedie che il secolo scorso ha portato con sé, dal fascismo al comunismo. I più giovani hanno perso questa memoria storica e non l'hanno ancora sostituita con diversi punti di riferimento. La scuola ha mancato il suo compito formativo. Per questo spesso per esempio i giovani non votano o votano in maniera irrazionale». Berlusconi si rifiuta di liquidare il populismo e il sovranismo come fenomeni negativi. «Cos'è davvero il populismo? Io non potrò mai dare un valore negativo a un concetto che esalta il ruolo del popolo. La sovranità popolare è alla base della democrazia. In effetti io sono sceso in campo nel 1994 proprio per riportare al popolo quella sovranità che il sistema dei partiti della prima Repubblica aveva finito con l'espropriare. Che governo per l'Italia ho in mente? Di centrodestra, naturalmente. Un centrodestra che per vincere, per governare, per essere credibile nel mondo deve avere un profilo liberale, cristiano, garantista, europeista. Quello che solo Forza Italia, rappresentante italiano del Ppe, può rappresentare. Per questo il nostro ruolo è essenziale, non solo per una questione numerica. Se per sovranismo lei intende orgoglio della nostra identità europea e occidentale, della nostra storia, del nostro stile di vita, della nostra società libera e aperta, se intende determinazione a difendere tutto questo contro i nemici vecchi e nuovi, allora posso dire che il primo sovranista sono io. Su questo non è difficile trovare un'intesa, da liberali, con i nostri alleati». Sulle sue vicende giudiziarie Berlusconi ribadisce la volontà di chiedere giustizia «alla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo. Non lo faccio per me, io sono stato ampiamente indennizzato dal consenso e dall'affetto che gli italiani hanno continuato a darmi, lo faccio per la democrazia italiana. Tutti gli elettori, di qualsiasi partito, devono sapere che il processo democratico in Italia è stato alterato da alcuni magistrati». Infine Berlusconi risponde a una domanda su Giorgia Meloni, sulla quale anche oltralpe cresce la curiosità, esprimendo un giudizio più che positivo. «La stimo e la rispetto. Ha molta energia e determinazione. Viene da una cultura diversa dalla nostra, da una storia che non è la nostra, ma ha abbastanza pragmatismo e sensibilità politica da non essere prigioniera del passato. E poi è molto cresciuta da quando era un giovanissimo ministro del mio governo».
La riabilitazione di Silvio Berlusconi: da Caimano a principe azzurro. Giulio Seminara su Il Riformista il 16 Luglio 2020. “Se il diavolo ti accarezza vuole l’anima”. E’ il proverbio che sta animando in questi giorni una tormentata ma desideratissima Forza Italia, con il suo leader Silvio Berlusconi ormai passato dallo status repellente di “Caimano” ad ambitissimo partner di governo della sinistra. A menare le danze della riabilitazione per primo è stato il premier Giuseppe Conte che ha lodato l’opposizione “seria” e “costruttiva” di Forza Italia. D’altronde era già iniziata la dolce musica del Berlusconi europeista e liberale che annunciava fiero il sì al Mes in spregio agli accorati “no” sovranisti degli alleati di centro-destra Matteo Salvini e Giorgia Meloni. Poi è arrivato l’endorsement del già leader della Cgil e segretario Pd Guglielmo Epifani, convinto dall’“anima liberal-democratica” del leader forzista, e che dai banchi di Leu gli ha aperto le porte di un governo comune. Quindi l’abbraccio dell’ex rivale storico, quel Romano Prodi che l’ha sconfitto due volte alle elezioni politiche: «Forza Italia al governo? Nessun tabù». E l’odiato Berlusconi? «La vecchiaia porta saggezza». Infine è arrivato anche il bacio del più acerrimo nemico, l’Ingegnere Carlo De Benedetti con il quale il duello è stato pure imprenditoriale ed economico, oltre che politico: «Trangugio anche Berlusconi al governo con la sinistra». Insomma, contrordine compagni: il Cavaliere non è più il nemico numero uno, ma un prezioso alleato. L’attuale presidente del Consiglio, adesso sostenuto solo da Il Fatto Quotidiano, sogna i voti di Forza Italia in Parlamento. La maggioranza è in fibrillazione. Il Movimento 5 stelle è balcanizzato e schizofrenico sull’agenda politica. Il ministro degli Esteri Luigi Di Maio, che ha recentemente incontrato Gianni Letta (altra vicenda-simbolo dello sdoganamento berlusconiano), sta facendo la guerra all’avvocato del popolo, immaginando un governo diverso e logorando l’intesa con il Pd, a Palazzo e alle elezioni regionali. Conte considera Matteo Renzi e la sua Italia Viva degli alleati solo momentanei e inaffidabili, molto depotenziati in caso di ingresso in maggioranza di Forza Italia. Il Partito Democratico, finora sostanzialmente schiacciato sulle posizioni del premier, ha mostrato i primi segnali di inquietudine. Vedasi le recenti frizioni tra Conte e Dario Franceschini, ministro della Cultura e capodelegazione dem. E alle porte ci sono il voto sul Bilancio, la decisione sul Mes, la battaglia europea sul Recovery Plan e una crisi economica e sociale che solo una maggioranza di governo robusta e coesa può sostenere. Per saldare la baracca ci vuole Forza Italia. E quindi adesso “il governo più a sinistra della storia”, per dirla con la Meloni, chiede aiuto a Berlusconi in una sorta di “C’eravamo tanto odiati” della politica italiana. Abbiamo provato a farci spiegare il sorprendente ed epocale evento dall’accademico e politologo Paolo Pombeni: «In politica nessun nemico è per sempre. Ogni tanto la Storia chiama, l’emergenza provocata dal Coronavirus chiede alle forze politiche di unirsi per affrontare la crisi e generare una forte solidarietà nazionale». E Berlusconi sta rispondendo alla chiamata della Storia? «Sembra di sì, probabilmente ha capito che il bipolarismo fondato sui reciproci insulti come “caimano” e “bolscevichi”, e che lui stesso ha alimentato, non serviva». Ma lei ce la vede Forza Italia al governo con la sinistra? «Spero che lui scelga di servire il Paese e che non faccia come con la Bicamerale, quando dopo l’intesa con D’Alema uscì dal tavolo. Adesso ci vuole uno spirito costituente, ce lo chiedono le difficili sfide a venire». E chi sembra sottrarsi, come Salvini e Meloni? «La lega dovrebbe liberarsi di Salvini, invece la Meloni interpreta una vetero-destra. Vogliono le elezioni illudendosi di acquisire il potere, ma non credo abbiano soluzioni. E sappiano che rischiano di vincere sulle macerie». Ma cosa ne pensa Forza Italia di questa “chiamata della Storia”? Sembra ci siano più idee in proposito. I parlamentari forzisti del Nord, ostaggi del consenso della Lega da quelle parti, non lascerebbero mai il centro-destra a trazione salviniana per aderire a un nuovo governo: «All’uninominale poi non passerebbe nessuno di noi». Qualcuno è più possibilista, aspettando la svolta di Berlusconi. Come un big azzurro secondo il quale l’ex premier è «il catalizzatore dei nuovi equilibri» e lo strumento per inaugurare una «nuova fase costituente» e fare «le grandi riforme europee». Ma con quale schema, quale governo? Una deputata azzurra risponde sibillina: «Chiaramente questa maggioranza e Conte non bastano più. Ci vuole un altro tipo di presidente del Consiglio». Un tipo alla Mario Draghi? «Il nome si fa da solo». Dichiara al Riformista di non voler andare in maggioranza Maurizio Gasparri. Per lui i recenti elogi della sinistra a Berlusconi, definito dal senatore «lo zio d’Italia» e «la versione laica di San Francesco», sono «tardivi» e no, «al governo insieme non si va». Gasparri voterebbe solo un «monocolore Berlusconi», sognando la caduta di Conte e il voto. E i colleghi forzisti che invece in maggioranza ci vogliono andare? «Non sono miei colleghi». Ma se lui chiude e Berlusconi tace, gli aspiranti alleati ci sperano. Certamente la nomina nel collegio di Agcom tramite votazione al Senato di Laura Aria, già dirigente del Mise gradita a Fi, non ha danneggiato i rapporti con il pezzo preferito dell’opposizione. Così come è stata gradita dalla maggioranza di governo l’astensione di Forza Italia in Commissione giustizia della Camera sul disegno di legge contro l’omo-transfobia proposto dal democratico Alessandro Zan, mentre gli alleati leghisti e di Fratelli d’Italia votavano contro inferociti. Probabilmente il corteggiamento non si tradurrà in matrimonio, Berlusconi non farà il colpo di teatro e il centro-destra non si romperà, con annesse drammatiche ricadute nelle regioni in cui si governa o corre insieme. Ma intanto Forza Italia, così desiderata, rivive una nuova giovinezza e acquista una forte centralità politica. È una posizione “win\win”, chiosa uno storico senatore azzurro: «Ci cercano dalla maggioranza e dall’opposizione». Ieri sera sono state rinviate le votazioni delle commissioni perché le forze della maggioranza non hanno trovato la quadra, tra risse interne al Movimento 5 stelle e dispetti ai renziani. Pesa anche la vicenda di Autostrade, non ancora conclusa: il calo dei pedaggi, l’intervento statale di Cassa depositi e prestiti, l’uscita di scena di Atlantia, la quotazione in Borsa e l’arrivo dei nuovi soci sono eventi finora solo annunciati, sebbene in pompa magna e con lo scalpo dei Benetton in bella mostra. Qualcuno definisce il problema «solo rinviato». Tra questi Giorgia Meloni che parla di «percorso solo immaginato e ancora tutto da fare», possibilmente quando ci sarà «un altro governo». Riecco lo spettro del ribaltone, delle larghe intese. Il protagonista neanche a dirlo sarebbe Silvio Berlusconi, l’ex Caimano diventato il principe azzurro.
Andrea Biondi per ''Il Sole 24 Ore'' il 4 settembre 2020. È una bocciatura secca quella della Corte di Giustizia Ue sulle norme italiane che hanno costretto Vivendi a congelare al 9,9% la sua partecipazione in Mediaset. La disposizione, «è contraria al diritto dell'Unione». La sentenza della Corte del Lussemburgo, oltre a piombare come un macigno sulla contesa fra il gruppo di Cologno e quello che fa capo a Vincent Bolloré, apre a scenari tutti da verificare, con possibile «Big bang» nel mondo dei media e delle tlc. Mediaset in una nota usa parole che sanno di messa in guardia: «Se, al contrario di quanto prevede oggi la Legge italiana, si aprissero possibilità di convergenza tra i leader delle tlc e dell'editoria televisiva, Mediaset che in tutti questi anni è stata vincolata e penalizzata dal divieto valuterà con il massimo interesse ogni nuova opportunità in materia di business tlc già a partire dai recenti sviluppi di sistema sulla Rete unica nazionale in fibra». Per capire occorre tornare alla Legge Gasparri, legge sul sistema radiotelevisivo approvata dal Parlamento ad aprile 2004. L'iter non fu semplice, tant' è che nel dicembre 2003 fu rinviata alle Camere dall'allora presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi. Fra i motivi di quel rinvio c'era il Sistema integrato delle comunicazioni (Sic): paniere poi recepito dal Testo unico dei servizi di media audiovisivi e radiofonici (Tusmar) per evitare le concentrazioni nel mercato audiovideo, a tutela del pluralismo. La legge ha stabilito che nessun soggetto potesse superare il 20% del valore del Sic. Quel limite, allora ritenuto troppo ampio e quindi troppo "pro-Mediaset", fu fra i motivi del richiamo di Ciampi. Il limite del 20% è però rimasto ed è passato, come detto, nel Tusmar unitamente a un altro vincolo contenuto nel comma 11 dell'articolo 43 oggetto dell'intervento della Corte Ue: il divieto di acquisto, per chi abbia una posizione di mercato prevalente nelle tlc (realizzando il 40% dei ricavi complessivi di tale settore), di acquisire ricavi superiori al 10% del Sic. È su questa norma che il Biscione fece leva a fine 2016 nel rivolgersi ad Agcom contro Vivendi. Erano i giorni della "scalata" di Vivendi a Mediaset, seguita al gran rifiuto da parte dei francesi di acquisire, come da accordi, Mediaset Premium e all'immediato contenzioso. Dopo qualche mese Agcom è intervenuta per vietare a Vivendi di mantenere tutte le sue quote contemporaneamente in Tim (dove è primo azionista col 23,9%) e in Mediaset (dove è il secondo con il 28,8% e il 29,9% dei diritti di voto). Il gruppo francese ha cosi parcheggiato il 19,19% di Mediaset in Simon Fiduciaria. L'impatto è stato non da poco anche perché Mediaset, facendo leva su decisioni giudiziarie, ha sempre negato accesso e voto nelle assemblee a Simon. Vivendi ha fatto ricorso contro la delibera Agcom al Tar che a sua volta si è rivolto alla Corte Ue con un "rinvio pregiudiziale". Ora il responso, favorevole a Vivendi assistita dallo studio Cleary Gottlieb con gli avvocati Giuseppe Scassellati, Ferdinando Emanuele, Marco D'Ostuni e Gianluca Faella. La bocciatura della Corte Ue «L'articolo 49 TFUE - si legge in un comunicato della Corte - osta a qualsiasi provvedimento nazionale che possa ostacolare o scoraggiare l'esercizio della libertà di stabilimento garantita dal TFUE. È questo il caso della normativa italiana che vieta a Vivendi di mantenere le partecipazioni che essa aveva acquisito in Mediaset o che deteneva in Telecom». La Corte Ue ha puntato l'indice su tre aspetti: la definizione restrittiva del settore delle comunicazioni elettroniche che esclude nuovi mercati (i servizi al dettaglio di telefonia mobile e altri servizi collegati ad Internet); la sproporzionalità nel calcolare i ricavi delle società «collegate» come se fossero «controllate», vietando anche alle prime gli incroci azionari; l'irrilevanza del limite del 10% dei ricavi del Sic che «non è di per sé indicativo di un rischio di influenza sul pluralismo dei media». Dal gruppo francese «grande soddisfazione» per la decisione. «Vivendi - si legge in una nota - ha sempre agito nel rigoroso rispetto della legge italiana ed è stata costretta a difendere i propri interessi in sede giudiziaria dopo che Mediaset ha presentato reclamo all'Agcom nell'unico desiderio di impedirle di partecipare alle proprie assemblee».
Gli scenari. Gli occhi sono puntati su Agcom, il cui prossimo Consiglio si terrà il 9 settembre, che potrebbe in autotutela annullare la delibera 178/17/CONS. Se questo non accadesse, sarebbe il Tar a doversi esprimere e i pareri legali ascoltati dal Sole 24 Ore considerano obbligata la strada della bocciatura della delibera. «Non c'è alcuna "cancellazione" da parte della Corte Ue: ora sarà il Tar del Lazio a riprendere in mano la vicenda e a decidere, dopodiché sono sempre possibili ricorsi», afferma Gian Michele Roberti, uno dei legali di Mediaset. Ferdinando Emanuele, fra i legali di Vivendi, evidenzia invece che «per il principio del primato del diritto comunitario sul diritto nazionale, più volte ribadito dalla Corte di Giustizia, i giudici italiani non potrebbero disattendere questa sentenza della Corte Ue e quanto affermato sul Tusmar». A ogni modo, se Vivendi potrà far valere il suo peso azionario in Mediaset (ieri il titolo del Biscione è salito del 5,18%), da Cologno rilanciano dicendosi pronti a guardare al dossier della rete unica (si veda a lato), dopo che la Corte Ue ha nei fatti affossato l'impossibilità di controlli incrociati tra gruppi tlc e operatori Tv. Al di là delle schermaglie, senza interventi normativi la bagarre legale sarebbe inevitabile. In questa situazione, infatti, come escludere a priori che qualcuno che ricade in uno degli altri divieti anti-concentrazione del Tusmar possa cercare di forzare la mano, magari contando su ricorsi legali? L'articolo 43 comma 12 del Tusmar prevede per esempio un divieto per «soggetti che esercitano l'attività televisiva in ambito nazionale su qualunque piattaforma» con ricavi superiori all'8% del Sic di «acquisire partecipazioni in imprese editrici di giornali quotidiani o partecipare alla costituzione di nuove imprese editrici di giornali quotidiani». Mediaset, solo per fare un esempio paradossale, potrebbe anche puntare ad acquisire Rcs.
Estratto dall'articolo di Stefano Cingolani per ''Il Foglio'' il 6 luglio 2020. (…) Berlusconi è rimasto l' ultimo tra i "condottieri" degli anni Ottanta, l' unico nella sua generazione a non aver venduto l' azienda che ha fondato. Anzi, sta provando a rilanciarla addirittura su scala europea. L' arcinemico Carlo De Benedetti che allora sfidava il Gotha del capitalismo europeo ha ridotto la sua Cir a poca cosa e ha ceduto persino Repubblica, ultimo vero gioiello al quale sembrava più attaccato che alla stessa famiglia. Ci riprova con un nuovo giornale, chiamato Domani, una scommessa sul futuro, per ora su scala ridotta. Leonardo Del Vecchio ha piazzato la sua Luxottica a Parigi; non è chiaro se sarà al sicuro nelle mani della Essilor, e forse non ne è certo nemmeno lui; intanto prova a scalare Mediobanca anche se la creatura di Enrico Cuccia non tiene più in mano le sorti del capitalismo italiano, quella dei Pesenti, dei Pirelli, Lucchini, Merloni, Orlando, Marzotto, Ligresti, per non parlare della Montedison nella quale tanto denaro privato e pubblico è stato bruciato. Problemi di eredità, intrighi familiari e spirito imprenditoriale, quella sindrome dei Buddenbrooks che ha colpito le grandi famiglie, l' apertura dei mercati, la globalizzazione, la scarsità di capitali, insomma chi più ne ha più ne metta, i fattori del declino sono davvero molti. Berlusconi ha risolto la successione con un equilibrio tra le sue due famiglie, che si rispecchia anche nel consiglio di amministrazione della Fininvest. L' ultima assemblea ha confermato Marina Berlusconi (presidente), Danilo Pellegrino (amministratore delegato), Barbara Berlusconi, Luigi Berlusconi, Pier Silvio Berlusconi e Salvatore Sciascia, consiglieri. Assieme a loro, ha nominato Adriano Galliani e Niccolò Ghedini. L' azionariato di Fininvest vede le holding personali di Silvio Berlusconi detenere il 63 per cento circa del capitale, i primi due figli (Marina e Pier Silvio) con oltre il 7 per cento ciascuno, mentre la società comune di Barbara, Eleonora e Luigi ha poco più del 21 per cento. Ai soci andrà l'intero utile 2019 della capogruppo pari a un ammontare complessivo di 84,2 milioni di euro. La Fininvest ha registrato l' anno scorso un utile consolidato di 220,3 milioni di euro, in crescita rispetto ai 203 milioni di euro di un anno prima. Tutto a gonfie vele? Non proprio: i ricavi si sono ridotti del 12,3 per cento e ammontano a 3.886 miliardi di euro, colpa della flessione della pubblicità Mediaset. Gli investimenti strategici effettuati, in particolare da Mediaset in Prosiebensat, hanno determinato un peggioramento della posizione finanziaria netta: l'indebitamento a fine 2019 è di 1,3 miliardi da 878,8 milioni di fine 2018. E qui veniamo alla scommessa sul futuro. Un anno fa nasce ad Amsterdam una holding chiamata Mfe, Media for Europe, che fonde la società italiana e quella spagnola e controlla il 20 per cento della tedesca ProsiebenSat. L' obiettivo è creare il nocciolo di una televisione davvero europea. Un progetto che Silvio Berlusconi aveva coltivato fin dagli anni Ottanta, quando entrò in Spagna grazie ai buoni uffici di Felipe Gonzalez, primo ministro socialista, e cercò di stabilire un presidio in Francia con il sostegno dell' allora presidente, anche lui socialista, François Mitterrand che aveva deciso di privatizzare parte della televisione di stato. Come lo stesso Berlusconi ha più volte raccontato, l' amicizia con Bettino Craxi lo ha aiutato a far breccia tra i socialisti. Ma se a Madrid le cose sono filate lisce, a Parigi s' è messo di mezzo l' allora sindaco Jacques Chirac, gaullista, che poi diventerà presidente delle Repubblica. Con una ordinanza, la mairie, il municipio, proibisce a La Cinq (così si chiamava la rete di Berlusconi alla cui guida era stato nominato Carlo Freccero) di collocare un' antenna sulla torre Eiffel. Un duro colpo che limitò moltissimo la capacità di trasmissione mentre cominciava una martellante campagna contro "la télé Coca Cola". L' avventura durò sei anni e si concluse nel 1992 mentre in Italia scoppiava Tangentopoli. Adesso ci riprovano i figli Marina e Piersilvio, ancora una volta gli avversari parlano francese con l' aggravante che oggi sono nemici interni guidati da Vincent Bolloré il quale, attraverso Vivendi, detiene il 28,8 per cento di Mediaset. Una volta fuse le attività italiane e spagnole in Media for Europe e dopo che saranno state assegnate le azioni a voto speciale A, Fininvest deterrà il 47,88 per cento dei diritti di voto della nuova holding, Vivendi il 10,42 per cento, mentre Simon Fiduciaria (dove il gruppo francese ha parcheggiato la sua quota principale per non incappare nella legge Gasparri visto che è anche il maggior azionista di Tim) ne avrà il 20,81 per cento. Il calcolo fatto da Mediaset si basa sui proposti rapporti di cambio e assume che gli azionisti mantengano inalterata la propria partecipazione nel capitale sociale, che attualmente vede Fininvest al 44,18 per cento (con il 45,89 per cento dei diritti di voto) e Vivendi al 28,80 per cento, con diritti di voto che le spettano direttamente per il 9,98 per cento, mentre Simon Fiduciaria può esercitarne il 19,94 per cento. L' operazione Mfe viene vissuta da Bolloré come un tentativo di aggirarlo mettendolo con le spalle al muro. Di qui le denunce e i ricorsi giudiziari. La vicenda è degna dei migliori azzeccagarbugli, infatti spopolano nei tribunali di Amsterdam e di Milano che hanno dato ragione a Mediaset, come in quello di Madrid la cui decisione è attesa forse la prossima settimana. La fiduciaria Simon, sotto la pressione delle autorità italiane, ha immobilizzato il più importante pacchetto di Vivendi che potrebbe essere scongelato solo se cambiassero gli equilibri in Tim dove i francesi, un tempo dominanti, sono ridotti a socio finanziario che deve contrattare ogni mossa con il fondo Elliott e la Cassa depositi e prestiti. Una doppia gabbia dalla quale Vivendi non riesce a uscire, tuttavia lo scenario è più che mai in movimento. In ProsiebenSat è entrato (con il 12 per cento) il miliardario della Repubblica ceca Daniel Ketínský, che a Parigi possiede il settimanale Marianne e una quota rilevante del Monde. Il sospetto francese che possa agire di concerto con Mediaset non è stato fugato nemmeno dalle smentite ufficiali. Si è rafforzato nel capitale del gruppo tedesco anche il fondo KKR il quale spunta nella vicenda parallela che riguarda Tim e la sorte della rete fissa. (…) Secondo indiscrezioni riportate dal quotidiano finanziario francese Les Echos, Bolloré sarebbe pronto a vendere almeno il 20 per cento del Biscione, sopportando una perdita di 200 milioni, ormai prevista da tempo. Se i lettori sono riusciti a seguirci in queste intricate battaglie giuridico-finanziarie a cavallo delle Alpi, possiamo introdurre quella che molti considerano la partita decisiva, per la quale è sceso in campo anche Beppe Grillo. Nel suo blog ha prefigurato un aumento della presa su Tim da parte della Cassa depositi e prestiti più qualche azionista privato italiano, in modo da liquidare Vivendi e sbarrare la strada all' espansionismo di fondi internazionali: KKR disponibile a intervenire in una società nella quale Tim collochi la sua rete insieme a quella di Open Fiber; Macquerie pronto a rilevare la quota dell' Enel in Open Fiber ed Elliott azionista di Tim che attende il momento buono per incassare e intanto si libera del Milan vendendolo ad Arnault. Chi paga? E quanto costa? Ci vuole un bel pacco di euro per "liquidare" tutti questi soggetti, soprattutto Vivendi. A questo punto voci dal sen fuggite suggeriscono di riaprire un dossier che non era stato mai distrutto, ma soltanto riposto in un cassetto: il matrimonio tra Tim e Mediaset, realizzando quella convergenza tra contenitore e contenuti, araba fenice dell' era digitale. Se ne era parlato nel 2006, poi nel 2014, nel 2016 e ancora nel 2018. Ogni volta la politica si era messa di traverso, però i tempi cambiano. Un Berlusconi europeista che può votare sì al Mes, ammiratore di Angela Merkel un tempo chiamata (secondo la leggenda) "culona inchiavabile", garante del Partito popolare, desideroso di raddrizzare lo squilibrio con Salvini, pronto a entrare a governo "con una nuova maggioranza" (parole sue), insomma il Berlusconi che potrebbe farsi chiamare di nuovo Cavaliere, diventa tutta un' altra cosa. Sul versante degli affari potrebbe significare un accordo con Vivendi, sistemando nel reciproco interesse le partecipazioni che finora hanno prodotto perdite e grattacapi. Come? Trovando un compromesso. Vivendi può restare come azionista di minoranza, in Tim, in Mediaset e in Mfe, aspettando il decollo della tv europea che valorizzerebbe anche la sua quota. La grande tregua giuridico-finanziaria farebbe da pendant alla grande tregua politica: un' ampia maggioranza per affrontare la crisi, una coalizione all' italiana nelle forme che la fantasia tricolore consentiranno. Troppe cose sono incagliate, troppi quattrini congelati, troppi destini politici in bilico. Scenari da solleone, sogni di una notte di mezza estate. O no?
Mario Ajello per “il Messaggero” il 29 giugno 2020. Non è una fine, è un nuovo inizio. Almeno così lo vede Berlusconi. E nella risistemazione personale e politica di tutto - «Il Covid è uno spartiacque», ripete lui - rientra, nell'ottica del Cavaliere, la scelta di eliminare certe spese. E alcuni doppioni. Ovvero - come si sta chiedendo l'ex premier in questi giorni - ha ancora senso stare in affitto a Palazzo Grazioli, ormai non usato quasi più, quando s'è liberata la bella villa tra Appia Antica e Appia Pignatelli dove abitava e dove è morto lo scorso anno Franco Zeffirelli? Il maestro grande amico di Silvio - e infatti la dimora era piena di immagini dell'ex premier anche in formato matrioska e pure in compagnia di Dudù, mentre si chiama Dolly il Jack Russel che fu adorato da Zaffirelli - non stava neppure in affitto. Nel 2001, il Cavaliere comprò quella bella casa dove viveva scespirianamente Zeffirelli, soprannominato non a caso Scespirelli, la pagò 3 miliardi e 775 milioni di lire e la prestò per sempre al grande regista ed ex parlamentare forzista che ha sempre ripetuto: «Silvio è la persona più generosa al mondo». Certo, il luogo è decentrato ma la bellezza della dimora in un grande comprensorio che risale agli anni 30 è assoluta e soprattutto saranno sempre più sporadiche, come dicono i suoi, le visite dell'ex premier a Roma. Dopo l'estate dovrebbe cominciare il trasloco da Palazzo Grazioli, che di affitto costa 40mila euro al mese, e entro la fine dell'anno si chiuderà la lunga storia, dal 96, che lega il Cavaliere e la politica italiana dall'inizio della Seconda Repubblica a questo edificio. La cui grandezza è stata nell'ossimoro: un edificio monarchico e anarchico, esattamente come il Cavaliere. Ora ci sono soltanto quattro segretarie, un autista, alcuni uffici (quello di Valentino Valentini, quello di Sestino Giacomoni, la cosiddetta zona Letta), le stanze a disposizione di Confalonieri e Paolo Berlusconi quando pernottano a Roma, le sale riunioni, la sala da pranzo (soprannominata «lo scannatoio» considerando le litigate tra maggiorenti forzisti che lì si sono svolte sulle candidature), la cucina dove troneggiava il cuoco Michele (per i pranzi e cene tricolori che facevano dire a Bossi: «Qui si mangia poco e male») e i salotti, i salottini, i corridoi damascati del piano nobile in cui Putin lanciava la pallina a Dudù e tutto il resto. Compresi i divanetti in cui s'addormentava Paolo Bonaiuti quando Silvio lavorava fino alle 3 del mattino. O la grande stanza con la tivvù in cui si vedevano le partite ma anche dove capitava che il sovrano desse da mangiare al cagnolino reale e qui ha sempre troneggiato tutto l'anno, insieme a un plastico del Colosseo, l'albero di Natale alto oltre due metri e forte della preziosità di essere Swarowski. Naturalmente in tutte queste stanze oltre a decidersi le liste elettorali e a stabilire chi comandava - una volta due super-big azzurri s'accapigliarono a colpi di dossier giudiziari e Verdini li dovette dividere: «Ma proprio qui dentro si fa il peggior giustizialismo? Ma siete impazziti?!» - si svolgevano feste e divertimenti. Come quando, per restare nella sfera politica, si affollarono di bella gente questi saloni, con i palloncini che volavano, per esempio per celebrare la vittoria del 2008. E chi non ricorda il vecchio parlamentino forzista nel palazzo? E l'ammezzato in cui si sfornava il Mattinale? E l'ansia bonaria di Berlusconi quando Tatarella andava in bagno: «Lo lascia sempre in disordine»? E la spending review della Pascale contro i leggendari fagiolini («Troppo carestosi!», esclamava in slang napoletano) a 80 euro al chilo? Ma questi sono i fasti di un tempo. Quando in piena notte se Silvio leggeva sui giornali freschi di stampa qualcosa che non gli garbava, chiamava l'Ansa. Gli passavano i dimafoni e lui: «Sono Silvio Berlusconi». E loro, per nulla colpiti dal calibro dell'interlocutore: «Va bene, titolo?». Ora è tutto un po' crepuscolare. E siccome Silvio non viene quasi più, il partito lavora nella sede di Piazza in Lucina. Nel sintonizzarsi sul nuovo, nell'esigenza di andare all'essenziale, che riguarda anche un tipo sensibile come Berlusconi agli stati d'animo collettivi, rinunciare a Palazzo Grazioli è nelle cose. E come molti strappi sentimentali può fungere anche questo come una spinta verso il futuro. Tra Arcore, la villa di Marina in Provenza dove Silvio si trova benissimo e la voglia di frequentare Bruxelles come padre nobile del popolarismo europeista, per Berlusconi Palazzo Grazioli è una spesa non più essenziale come un tempo. E la ex villa di Zeffirelli, svuotata purtroppo di tutti i cimeli che sono andati nella Fondazione intitolata al maestro, è un posto magico dove recarsi quando serve, anche per lavorare con più concentrazione.
Tommaso Labate per corriere.it il 30 giugno 2020. Da quello che anni dopo sarebbe diventato lo studio di Silvio Berlusconi – e che si sarebbe trasformato nel reparto di ostetricia per eccellenza della Seconda Repubblica, che ha visto nascere governi, alleanze politiche di ogni ordine e grado, trame nazionali e internazionali, nomine per le aziende di Stato, inchieste della magistratura, sceneggiature di film, in ordine rigorosamente sparso – il giorno di San Valentino del 1978, il figlio del proprietario di casa alza il telefono e chiede di farsi passare il settore “annunci pubblicitari” de «Il Tempo». Davanti a sé, proprio sulla scrivania che poi sarebbe stata ereditata del Cavaliere, un foglietto di carta con una frase che l’uomo sta per dettare al telefono perché venga pubblicata sugli annunci del quotidiano romano. «Gambero rosso tutte le specialità marinare, pranzo a prezzo fisso, lire 1500». L’uomo si chiama Giulio Grazioli ed è il figlio del duca Massimiliano Grazioli Lante, che da poco più di tre mesi - per la precisione dal 7 novembre del 1977 - si trova nelle mani della Banda della Magliana. Non c’è nessun gambero, nessuna specialità marinara, nessun pranzo, dietro quel messaggio. C’è però un prezzo fisso, quello sì: un miliardo e mezzo di lire (lire 1500 voleva dire questo) che la famiglia pagherà per riavere il duca. Che però, ma questo lo si sarebbe scoperto dopo, al momento in cui avviene la telefonata è già stato ucciso. Senza quel clamoroso fatto di cronaca, e l’incredibile scia di sangue a cui avrebbe dato origine, visto che il miliardo è mezzo della famiglia Grazioli furono il capitale sociale versato alla fondazione della Banda della Magliana, probabilmente la storia di quel Palazzo e Silvio Berlusconi non si sarebbero mai incrociati. Sarebbe stato proprio Giulio Grazioli a cedere in affitto il piano nobile dello stabile al presidente di Forza Italia, l’inventore della Seconda Repubblica che nel 1995 – qualche mese dopo il ribaltone che l’aveva estromesso da Palazzo Chigi – prende quindi dimora nel triangolo delle Bermude dell’amata-odiata Prima. Centosessanta metri dagli scheletri della dc di Piazza del Gesù, duecentoquaranta dai fantasmi dei comunisti di Botteghe Oscure, quattrocento dal luogo in cui le Br avevano fatto trovare il cadavere di Aldo Moro. Quando entra da affittuario nel piano nobile di Palazzo Grazioli, Berlusconi viene considerato un uomo politicamente finito. E invece da lì, nel giro di qualche anno, demolirà la bicamerale di Massimo D’Alema, riannoderà il fili dell’alleanza con Umberto Bossi, tornerà al governo nel 2001 e dopo ancora nel 2008. Tutte tappe preparate nel corso di riunioni infinite, col tempo scandito dalle penne tricolori del cuoco Michele e dalle mozzarelle di bufala, con un angoletto destinato a fare da “magazzino” di cravatte e foulard griffati Marinella (oggi ha cambiato fornitore), omaggi per i gentili visitatori della casa. La decadenza dei selfie in bagno e le incursioni di Patrizia d’Addario sarebbero arrivati dopo, molto dopo. Come molto dopo, anno 2009, sarebbe arrivata la convivenza condominiale con la tv satellitare messa in piedi dall’associazione Red di Massimo D’Alema. Anche la storica rimozione della fermata dell’autobus di fronte all’ingresso di via del Plebiscito sarebbe arrivata tardi, 26 dicembre 2009, motivata da un asettico comunicato dell’Atac, la municipalizzata del trasporto urbano capitolino: «Da questa mattina sarà soppressa in via del Plebiscito la fermata delle liee bus 30, 62, 63, 64… L’intervento ha l’obiettivo di fluidificare il traffico per ragioni di sicurezza, legate alla vicinanza della residenza del Presidente del Consiglio». Prima, inizio anni Duemila, Grazioli diventa l’incubo di Gianfranco Fini, all’epoca fumatore accanito, che sperimenta la ritrosia del padrone di casa nei confronti delle sigarette accese dentro casa. Rivelerà anni dopo l’ex presidente della Camera di essere piombato furibondo «a casa di Berlusconi in piena notte e di aver acceso una sigaretta; la cenere mi cadde sul tappeto e tutti gli altri, Berlusconi compreso, la fissavano terrorizzati, come se quello di cui parlavamo avesse meno importanza». Non si contano gli addetti ai call center delle televendite di Mediaset che l’allora premier prendeva d’assalto quando di notte, insonne, si innamorava di un set di coltelli visto in tv e chiamava per comprarlo. «Lei è il signor? Dove li spediamo?». «Berlusconi Silvio, via del Plebiscito, Roma». E dall’altra parte del telefono, soprattutto le prime volte: «Ma cos’è, uno scherzo?». L’inerme Palazzo Grazioli scrive anche capitoli decisivi della storia, come dire, più contemporanea. Il 3 agosto del 2013, quando riceve la notizia della condanna in via definitiva, Berlusconi si trova là dentro. Sotto casa, il gruppetto di ultras noto alle cronache come «L’Esercito di Silvio» aspettava la sentenza trepidante. Leggendario l’errore in cui incorre lo sparuto gruppo di sostenitori, che ascolta alla radio la lettura del dispositivo della Cassazione e lo scambia per una sentenza di assoluzione. «Andate a festeggiare più in là», scandiscono i vigili. Da festeggiare c’era ben poco. Tempo qualche ora e Berlusconi si sarebbe affacciato a benedire la rabbia dei sostenitori di Forza Italia, che accorrono sotto Palazzo Grazioli chiedendo a gran voce l’uscita degli azzurri dal patto col Pd e quindi dal governo Letta. Scena che si ripete dopo l’estate, quando il Senato vota la decadenza dell’ex premier e si innesca un meccanismo che porta all’arrivo di Matteo Renzi a Palazzo Chigi. Ora tutto si sposta più in là, sull’Appia antica, dove Berlusconi abiterà nella villa di Franco Zeffirelli acquistata vent’anni fa. Portandovi cravatte, foulard, coccarde di Forza Italia, gadget impolverati, bandiere, coltelli. E cappelli pieni di ricordi, come nella canzone di De Gregori.
Concita De Gregorio per "l'Unità" il 2 luglio 2020. Tempo fa ho conosciuto una giovane procuratrice legale che lavora in un celebre studio di avvocati della capitale. Precaria, molto volitiva, piuttosto bella. Lamentandosi degli incerti del mestiere ed elencandoli ne ha enumerato ad un certo punto uno non censito finora tra i disagi classici dei lavoratori flessibili. «E poi anche alle feste del Presidente ormai ti trovi in compagnia di chiunque. Le prime volte c'erano deputate, attrici, manager. Insomma persone con una professione. Adesso sono soprattutto escort e la mosca bianca sei tu che lavori». Ho osservato, per prendere tempo, che anche le escort (accompagnatrici da catalogo, ultimamente autrici di libri editi da prestigiose case editrici su «come renderlo schiavo in perpetuo», testimoni di eccezione a certi processi di risonanza transoceanica, ospiti nei talk show a giorni alterni per illustrare le caratteristiche del loro tipo di part time) sono professioniste, lavorano eccome. Lei scuoteva la testa mirando l'oliva con lo stuzzicadenti, sembrava avvilita davvero allora mostrando comprensione ho domandato: ma poi quali feste, scusi? «La festa di compleanno, per esempio». L'ultima volta alla festa di compleanno del Presidente c'erano quasi solo escort e lei si era sentita sola. È ovvio che a questa storia non ho creduto e non ci credo, si sa che certa gente le spara per darsi un tono, tuttavia per non deluderla le ho chiesto: e cosa avete fatto, alla festa? Brindato, ballato? «Un po' di tutto, le solite cose per divertirsi, le cose che piacciono a lui, spettacolini». Così, col diminutivo. «Poi ci ha regalato la solita farfalla, le disegna lui. Eccola è questa qui. Ogni tanto incontro una che non conosco con la farfalla al collo e penso ma guarda, anche lei. Una volta, con una, ce lo siamo anche dette: anche tu?». La farfalla l'ho vista, la portava al collo: ha un bordo d'oro e le ali trasparenti tempestate di piccoli strass. Forse brillanti, può essere. La procuratrice mi ha detto che ne sono state fatte fare centinaia. Che storia inattendibile, no? Certamente falsa però per assonanza mi è tornato in mente quel primario che regalava una Cinquecento a ogni infermiera con cui aveva una relazione, il parcheggio dell'ospedale pieno di macchine uguali e di ostili sguardi obliqui. Così, siccome mi dispiaceva che pensasse che non le credevo, gliel'ho raccontata. «A me una macchina mi avrebbe fatto più comodo», mi ha risposto seria e con un sospiro ha infilzato l'oliva.
18 giugno 2009 – PATRIZIA D'ADDARIO, LA DONNA AL CENTRO DELLO SCANDALO. Antonio Massari per La Stampa. Una vita piena di scossoni, insomma, quella di Patrizia d'Addario, nata il 17 febbraio 1967. Fino al tentativo, immediatamente naufragato, d'entrare in politica con il Pdl. Alle ultime elezioni amministrative, candidata con la «Puglia prima di tutto», lista guidata dal ministro Raffaele Fitto, ha collezionato appena sette voti. I suoi rapporti con la giustizia, molto spesso, l'hanno vista «parte offesa». Spesso minacciata o duramente percossa. Nelle carte giudiziarie, risalenti al biennio 2004 - 2006, viene registrata la sua attività da prostituta: un suo convivente «more uxorio» la «induceva alla prostituzione. Una relazione burrascosa, tra i due, nella quale lo sfruttatore la convinceva a prostituirsi in diversi alberghi, le procacciava i clienti mediante annunci pubblicati su un quotidiano locale e si faceva consegnare parte dei guadagni percepiti con il meretricio. Con l'aggravante di averla picchiata tutte le volte in cui, quest'ultima, manifestava il desiderio di interrompere l'attività». Un carattere imprevedibile e sanguigno, se è vero che nel dicembre 2006 è nuovamente interrogata in procura. Dopo aver inseguito l'ex convivente, con la propria auto, in autostrada, l'avrebbe spinto fuori dalla carreggiata. L'inseguimento si conclude con un tamponamento all'altezza di Bitonto. Il procedimento giudiziario, invece, si conclude con un'assoluzione: il suo «ex» ritira la querela. Ma ancora nell'estate 2008, a quanto pare, i due si frequentavano. E l'uomo avrebbe cercato di farla prostituire, ancora una volta, addirittura in giro per l'Europa.
18 giugno 2009 - UNA SQUILLO DA 2 MILA EURO PER IL PRESIDENTE DEL CONSIGLIO. Fiorenza Sarzanini per il Corriere della Sera. Ci sono almeno tre ragazze che hanno confermato di aver preso soldi per partecipare alle feste a Palazzo Grazioli e a Villa Certosa. Due sono state interrogate dal pubblico ministero a Bari, l'altra a Roma. Hanno raccontato i dettagli, tanto che una di loro ha chiesto e ottenuto il permesso di poter andare all'estero «per un po'» sostenendo di «temere per la mia sicurezza». Anche Patrizia D'Addario è stata ascoltata per oltre cinque ore dal magistrato Pino Scelsi. La candidata alle elezioni comunali con la lista «La Puglia prima di tutto», che ha rivelato le due serate che avrebbe trascorso con il premier nella residenza capitolina, ha poi depositato le registrazioni audio dei suoi incontri e un video dove lei stessa si sarebbe ripresa con un telefonino. «L'ho fatto - ha fatto mettere a verbale - perché così nessuno potrà smentire che sono stata lì».
Tarantini e le squillo. A gestire le ragazze sarebbe stato Giampaolo Tarantini, l'imprenditore pugliese di 35 anni titolare insieme al fratello Claudio, 40 anni, di un'azienda - la Tecnohospital - che si occupa di tecnologie ospedaliere. Per questo è stato iscritto nel registro degli indagati per induzione alla prostituzione e la scorsa settimana è stato interrogato alla presenza di un avvocato. Sono gli stessi vertici della Procura di Bari a confermare che «è in corso un'indagine su questo reato in luoghi esclusivi di Roma e della Sardegna», nata da alcune conversazioni telefoniche durante le quali lo stesso Tarantini avrebbe trattato con le ragazze le trasferte e i compensi.
Il patto con Patrizia. È proprio Tarantini il mediatore che avrebbe portato Patrizia D'Addario alle due feste con Berlusconi. Le era stato presentato da un amico comune che si chiama Max e le disse di chiamarsi Giampi.
Di fronte al pubblico ministero la donna ha confermato che «per la prima serata l'accordo prevedeva un versamento di 2.000 euro, ma ne ho presi soltanto 1.000 perché non avevo accettato di rimanere. La seconda volta - era la notte dell'elezione di Barack Obama - sono rimasta e dunque ho lasciato palazzo Grazioli la mattina successiva. Quando sono arrivata in albergo la mia amica che aveva partecipato con me alla serata mi ha chiesto se avevo ricevuto la busta, ma io le ho risposto che non avevo ricevuto nulla. Il mio obiettivo era ricevere un aiuto per portare avanti un progetto immobiliare e Berlusconi mi aveva assicurato che lo avrebbe fatto. Giampaolo mi disse che se lui aveva fatto una promessa, l'avrebbe rispettata ». Il racconto della D'Addario sulle modalità degli incontri coincide con quello verbalizzato dalle altre tre ragazze. Tutte avrebbero specificato di essere state «contattate da Giampaolo che ci chiedeva se eravamo disponibili a partire. Talvolta accadeva poche ore prima e in quel caso i biglietti aerei erano prepagati». Le verifiche della procura riguardano adesso gli spostamenti successivi. Le testimoni avrebbero infatti riferito che le modalità concordate prevedevano che, una volta giunte a Roma, loro arrivassero in taxi fino all'albergo indicato e da lì dovevano attendere l'autista di Giampaolo che le prelevava e le portava a palazzo Grazioli. «Poco prima dell'arrivo - ha sottolineato Patrizia -, ci facevano tirare su i finestrini che erano sempre oscurati. Quando arrivavamo negli hotel ci veniva detto come dovevamo vestirci: abiti eleganti e poco trucco». La candidata alle comunali ha depositato nella segreteria del pubblico ministero cinque o sei cassette audio e un video che la ritrae davanti a uno specchio e poi mostra una camera da letto. In un fotogramma c'è una cornice con una foto di Veronica Lario. Il magistrato dovrà adesso verificare l'attendibilità di questo materiale con una perizia che accerti se la voce incisa sul nastro è davvero quella del premier e se gli ambienti sono effettivamente interni a Palazzo Grazioli. La decisione di convocare le ragazze in Procura è stata presa dopo aver ascoltato le intercettazioni telefoniche di Tarantini. Dopo aver verbalizzato la loro versione, sono stati programmati nuovi interrogatori per le prossime settimane. Nella lista del pubblico ministero ci sarebbero diversi nomi: altre giovani che sarebbero state contattate dall'imprenditore e persone che potrebbero aver avuto un ruolo in questa vicenda. L'elenco comprende i collaboratori dello stesso Tarantini, ma anche i politici che avrebbero deciso di mettere la D'Addario in lista per le comunali. Lei ha specificato che non le fu mai proposto di andare a Villa Certosa, in Sardegna, «però Giampaolo mi disse che c'era la possibilità di andare in vacanza all'estero, mi pare alle Bermuda ». Altre si sarebbero invece accordate per partecipare a feste nella residenza presidenziale di Porto Rotondo.
19 Giugno 2009 - SABINA BEGAN "È LEI ANELLO CRUCIALE DELLA CATENA CHE ANNODA L'IMPRENDITORE TARANTINI A BERLUSCONI". Carlo Bonini per la Repubblica. In un'indagine per sfruttamento della prostituzione che somiglia sempre di più a una matrioska, ballano ora una storia di cocaina e tre nuovi nomi di donne. Sabina Began, Angela Sozio, la deputata Elvira Savino. Due di loro, la Sozio (ex ragazza Grande Fratello, catturata dall'obiettivo di Antonello Zappadu in grembo al Presidente del Consiglio già nel 2007 nel Parco di Villa Certosa) e la Savino, non è chiaro in che contesto e in quale veste. Se cioè perché oggetto delle conversazioni intercettate di Gianpaolo Tarantini o perché indicate da testimoni che frequentavano le feste del premier. La Began, al contrario, perché anello cruciale della catena che annoda l'imprenditore barese al Presidente del Consiglio. Showgirl di origini slave che ha tatuate sul corpo le iniziali S. B., "l'uomo che mi ha cambiato la vita", la Began è accompagnata ormai da una letteratura che l'ha battezzata "l'ape regina" del premier. Nella sera della vittoria elettorale del centro-destra - si è letto nelle scorse settimane - è a palazzo Grazioli, sulle gambe di Silvio Berlusconi che canta "Malafemmena". Ma, a stare alle acquisizioni dell'inchiesta barese, ricorre ora con costanza nelle conversazioni intercettate di Gianpaolo Tarantini. Frequenta le ville sarde dell'uno (la notte di Ferragosto 2008, è tra i 400 ospiti della festa che dà Tarantini) e dell'altro (fonti qualificate riferiscono che sia stata lei a introdurre a Villa Certosa la showgirl Belen Rodriguez). Lavora da vaso comunicante tra le ragazze del giro dell'imprenditore e quelle ammesse al cospetto del Presidente del Consiglio. E' il relé che, in Sardegna, trasforma Gianpaolo in "Giampi" e la sua villa in un indirizzo - un set sarebbe più corretto dire - che conta. Anche per questo, nel lavoro istruttorio della Procura di Bari, Roma pesa quanto la Sardegna e Palazzo Grazioli quanto la villa di Capriccioli, a Porto Cervo, il luccicante retiro che Tarantino sceglie come piedistallo per guadagnare la benevolenza del premier. Un gioiello incastrato nelle rocce e avvolto dalla macchia che si aprono su Cala Volpe. Non troppo lontano da Villa Certosa. Un angolo di straordinaria bellezza dove - ne sono convinti gli inquirenti - l'imprenditore costruisce un suo nuovo pantheon. L'affitto della villa - riferisce una fonte che ha frequentato la casa - ha un prezzo spettacolare, 100 mila euro al mese, perché spettacolare deve essere il trampolino di lancio di quel "ragazzo" di 35 anni barese che nessuno conosce e che, improvvisamente, a Porto Cervo diventa per tutti "Giampi". In un'estate - quella del 2008 - che deve appunto segnare il suo passaggio definitivo dall'orbita redditizia, ma defilata, dagli appalti e forniture ospedaliere, a quello della consulenza nel business che conta e che ha bisogno della politica per camminare. E che diventa - ecco l'altra novità dell'inchiesta - cornice di una storia di cocaina.
Concita De Gregorio per "L'Unità". La storia dell'imprenditore Giampaolo Tarantini merita un momento di attenzione. Produce protesi, la sua ditta ha sede a Bari, attraversa un cattivo momento. «E' in crisi di liquidità», ci racconta Massimo Solani. Dunque cosa fa un imprenditore in crisi di liquidità? È evidente, quello che farebbero tutti: affitta una villa in Costa Smeralda vicino a quella di Berlusconi. Spera, si vede, di piazzare le sue protesi. Frequentando i lidi e i locali della costa, quelli animati dal via vai di ragazze che arrivano dal cielo e dal mare - i motoscafi dove le fanciulle prendono il sole sorvegliati dai Carabinieri, tanto per la sicurezza dei sudditi ci sono le ronde - insomma girando con l'asciugamano in spalla Tarantini conosce l'Ape regina, la favorita del Presidente, quella che si dice voli con Apicella sull'Air force One e che male c'è, non è mica reato. L'Ape regina, al secolo Sabina Began sembrerebbe essere - dalle intercettazioni baresi, e non solo - la coordinatrice, per usare l'appropriato termine politico, delle centinaia di candidate all'harem del sultano. L'Ape e Tarantini diventano amici. Tarantini ha accesso alla villa. In breve la sua crisi di liquidità si risolve. Fioccano commesse e nuovi appalti. Le tristi vicende giudiziarie di cui era stato in passato oggetto si sciolgono come neve al sole sardo. Chi non vorrebbe avere come amico il presidente?, direbbe la professoressa del liceo di Noemi. Chi non vorrebbe vendere protesi agli emissari di Putin e di Topolanek? Una vicenda fine impero che si cerca di liquidare come gossip (il Tg1, per esempio, dall'alto della sua autorevolezza parla d'altro) e che è invece diventata un problema per la sicurezza nazionale. Ricordate le parole della moglie? «Ho pregato chi gli sta vicino di aiutarlo come si fa con un uomo malato». Malato della sua ossessione senile per l'eterna giovinezza, la virilità. Anche Chirac lo racconta. L'ossessione di Berlusconi per le ragazze è da anni la prima occupazione di chi lo circonda. Gli procurano book e numeri di telefono, gli organizzano feste a pizze e champagne come quelle dell'argentino Menem. Qualunque escort di provincia può esibire una registrazione sul telefonino, l'abito blu di Monica Lewinski è preistoria. Ghedini è nel panico. Gianni Letta con il prefetto De Gennaro sono convocati al Comitato per la sicurezza, la prossima settimana, a spiegare cosa intenda Berlusconi quando dice «strategie oscure in cui sono coinvolti spezzoni dell'intelligence nazionale con parti deviate dei servizi stranieri». L'intelligence nazionale? La Cia? Di chi è la manina che diffonde le foto? C'entrano Obama, Putin, il gas, Gheddafi? Possibile che a monte della slavina ci sia Patrizia? Riprendiamo da dove ci eravamo lasciati ieri. Fini gelido cita il Deserto dei Tartari. Gli amici se ne vanno. Veronica aveva ragione: non l'hanno aiutato, anzi. Come si fa a farsi governare da un uomo che qualunque adolescente può inchiodare con una foto? Come può un uomo così ricattabile essere affidabile? Il presidente-utilizzatore ha una possibilità di uscirne, questo dicono i suoi stessi alleati. Ribaltare l'antico adagio. «Utilizzare» è meglio che comandare. Potrebbe essere d'accordo, in fondo.
DAGOREPORT il 30 giugno 2020. L’inizio della fine dell’epopea smutandata di Palazzo Grazioli risale ai primi mesi del 2009. Gianni Letta, eterna “eminenza azzurrina”, a quell’epoca era sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con delega ai Servizi. Il suo orecchio incappa in una delle tante vocine informate sulle serate pazze di Palazzo Grazioli. Quel che apprende - e che poi tutto il mondo verrà a scoprire - non lascia spazio a dubbi: la residenza del Cavaliere è un porto di mare di sgallettate, prostitute, personaggi pieni di ombre e iene in tacco 12 che scattano foto, girano video, conservano informazioni. Il rischio sputtanamento è altissimo. Quello di essere esposti a ricatti, idem. Allora Letta s’attiva: incontra Berlusconi, lo mette in guardia, tenta la carta della “moral suasion”. Sua Emittenza però ha l’antenna dritta: non riesce a chiudere il suo personalissimo parco giochi. Quell’andirivieni di bonazze compiacenti lo esalta. Il tentativo di Letta è un buco nell’acqua. Scatta allora il piano B: bloccare le chiamate in entrata a Palazzo Grazioli dai numeri di telefono delle signorine ospiti del Cav - a ogni fanciulla Silvio aveva dedicato un telefonino. Una mannaia sulle comunicazioni “eleganti” che, all’improvviso, innesca la valanga. Patrizia D’Addario, a differenza di altre beneficate dal Cav, in quel momento non è a Roma né Milano. E’ tornata a vivere in Puglia, dopo aver ricevuto da Berlusconi mille promesse di aiuto per un “progetto edilizio” che voleva realizzare. Lo stop alle comunicazioni piomba sulla sua testa come un macigno. Si sente raggirata, è furiosa. Quando la rabbia prende il sopravvento scatta la vendetta. Contatta una giornalista del “Corriere del Mezzogiorno” dicendosi disposta a rivelare verità scottanti. L’odore dello scoop viaggia veloce fino a via Solferino, dove Fiorenza Sarzanini accalappia la storia e la srotola nell’intervista pubblicata il 17 giugno 2009, che qui ripubblichiamo...
Fiorenza Sarzanini per corriere.it il 17 giugno 2009 (ultima modifica: 16 luglio 2011). Patrizia D’Addario è candidata nelle liste di «La Puglia prima di tutto», schieramento inserito nel Popolo della Libertà alle ultime elezioni comunali a Bari. Ha partecipato alle prime settimane di campagna elettorale al fianco del ministro per i Rapporti con le Regioni Raffaele Fitto e degli altri politici in corsa per il Pdl. Ma adesso ha deciso di rinunciare perché vuole raccontare un’altra verità. La D’Addario ha cercato il Corriere e registriamo, con la massima cautela e il beneficio d’inventario, la sua versione, trattandosi di una candidata alle amministrative. «Mi hanno messo in lista — afferma — perché ho partecipato a due feste a palazzo Grazioli. Ho le prove di quello che dico e voglio raccontare che cosa è successo prima che decidessi di tirarmi indietro. Il mio nome è ancora lì, ma io non ci sono più».
Cominciamo dall’inizio. Quando sarebbe andata a palazzo Grazioli?
«La prima volta è stato a metà dello scorso ottobre».
Chi l’ha invitata?
«Un mio amico di Bari mi ha detto che voleva farmi parlare con una persona che conosceva, per partecipare a una cena che si sarebbe svolta a Roma. Io gli ho spiegato che per muovermi avrebbero dovuto pagarmi e ci siamo accordati per 2.000 euro. Allora mi ha presentato un certo Giampaolo».
Qual era la proposta?
«Avrei dovuto prendere un aereo per Roma e lì mi avrebbe aspettato un autista. Mi dissero subito che si trattava di una festa organizzata da Silvio Berlusconi».
E lei non ha pensato a uno scherzo?
«Il mio amico è una persona di cui mi fido ciecamente. Ho capito che era vero quando mi hanno consegnato il biglietto dell’aereo».
Quindi è partita?
«Sì. Sono arrivata a Roma e sono andata in taxi in un albergo di via Margutta, come concordato. Un autista è venuto a prendermi e mi ha portato all’Hotel de Russie da Giampaolo. Con lui e altre due ragazze siamo entrati a palazzo Grazioli in una macchina con i vetri oscurati. Mi avevano detto che il mio nome era Alessia».
E poi?
«Siamo state portate in un grande salone e lì abbiamo trovato altre ragazze. Saranno state una ventina. Come antipasto c’erano pezzi di pizza e champagne. Dopo poco è arrivato Silvio Berlusconi».
Lei lo aveva mai incontrato prima?
«No, mai. Ha salutato tutte e poi si è fermato a parlare con me. Ho capito di averlo colpito perché mi ha chiesto che lavoro facessi e io gli ho parlato subito di un residence che voglio costruire su un terreno della mia famiglia. Ci ha mostrato i video del suo incontro con Bush, le foto delle sue ville, ha cantato e raccontato barzellette.
Lei è tornata subito a Bari?
«Era notte, quindi sono andata in albergo e Giampaolo mi ha detto che mi avrebbe dato soltanto mille euro perché non ero rimasta».
C’è qualcuno che può confermare questa storia?
«Io ho le prove».
Che vuole dire?
«Che quella non è stata l’unica volta. Sono tornata a palazzo Grazioli dopo un paio di settimane, esattamente la sera dell’elezione di Barack Obama».
Vuol dire che la notte delle presidenziali degli Stati Uniti lei era con Berlusconi?
«Sì. Nessuno potrà smentirmi. Ci sono i biglietti aerei. Anche quella volta sono stata in un albergo, il Valadier. Con me c’erano altre due ragazze. Una la conoscevo bene. È stato sempre Giampaolo a organizzare tutto».
E che cosa è accaduto?
«Con l’autista ci ha portato nella residenza del presidente, ma quella sera non c’erano altre ospiti. Abbiamo trovato un buffet di dolci e il solito pianista. Quando mi ha visto, Berlusconi si è ricordato subito del progetto edilizio che volevo realizzare. Poi mi ha chiesto di rimanere».
Si rende conto che lei sostiene di aver trascorso una notte a palazzo Grazioli?
«Ho le registrazioni dei due incontri».
E come fa a dimostrare che siano reali?
«Si sente la sua voce e poi c’erano molti testimoni, persone che non potranno negare di avermi vista».
Scusi, ma lei va agli incontri con il registratore?
«In passato ho avuto problemi seri con un uomo e da allora quando vado a incontri importanti lo porto sempre con me».
E lei vuol far credere che non è stata controllata prima di entrare nella residenza romana del premier?
«È così, forse sono stata abile. Ma posso assicurare che è così».
E può anche provarlo?
«Berlusconi mi ha telefonato la sera stessa, appena sono arrivata a Bari. E qualche giorno dopo Giampaolo mi ha invitata a tornare. Ma io ho rifiutato».
A noi la sua versione sembra poco credibile...
«Lo dicono i fatti. Berlusconi mi aveva promesso che avrebbe mandato due persone di sua fiducia a Bari per sbloccare la mia pratica. Non ha mantenuto i patti ed è da quel momento che non sono più voluta andare a Roma, nonostante i ripetuti inviti da parte di Giampaolo. Loro sapevano che avevo le prove dei miei due precedenti viaggi».
E non si rende conto che questo è un ricatto?
«Lei dice? Io posso dire che qualche giorno dopo Giampaolo ha voluto il mio curriculum perché mi disse che volevano candidarmi alle Europee».
Però lei non era in quella lista?
«Quando sono cominciate le polemiche sulle veline, il segretario di Giampaolo mi ha chiamata per dirmi che non era più possibile».
Quindi la candidatura alle Comunali è stata un ripiego?
«A fine marzo mi ha cercato Tato Greco, il nipote di Matarrese che conosco da tanto tempo. Mi ha chiesto un incontro e mi ha proposto la lista 'La Puglia prima di tutto' di cui era capolista lo zio. Io ho accettato subito, ma pochi giorni dopo ho capito che forse avevo commesso un errore».
Perché?
«La mia casa è stata completamente svaligiata. Mi hanno portato via cd, computer, vestiti, biancheria intima. È stato un furto molto strano».
Addirittura? Ma ha presentato denuncia?
«Certamente. Ma ho continuato la campagna elettorale. È andato tutto bene fino al giorno in cui Berlusconi è arrivato a Bari per la presentazione dei candidati del Pdl. Io lo aspettavo all’ingresso dell’Hotel Palace. Lui mi ha guardata, mi ha stretto la mano ed è entrato nella sala piena. Io ero in lista, quindi l’ho seguito. Ma all’ingresso della sala sono stata bloccata dagli uomini della sicurezza e del partito che mi hanno impedito di partecipare all’evento».
È il motivo che adesso la spinge a raccontare questa storia?
«No, avrei potuto continuare a fare campagna elettorale e trattare con loro nell’ombra. La racconto perché ho capito che mi hanno ingannata. Avevo chiesto soltanto un aiuto per un progetto al quale tengo molto e invece mi hanno usata».
Liberoquotidiano.it il 17 settembre 2020. Parla il presunto smacchiatore di giaguari, Pier Luigi Bersani, il segretario Pd della storica non-vittoria. Il giaguaro da smacchiare, ovviamente, era Silvio Berlusconi. Lo smacchiato fu Bersani. Ma questa è storia. Giorni che in un certo senso Pier Luigi sembra rimpiangere. Ed è quanto emerge da un suo intervento a L'aria che tira di Myrta Merlino, su La7, dove l'attuale esponente di Articolo Uno si lascia andare a riflessioni toccanti sul rivale di sempre, sul Cav, il leader di Forza Italia. "Non riesco a considerare Berlusconi uno statista, è un arcitaliano un po' nella caricatura che si è fatto gli affari suoi", premette. Poi, però, come detto si scioglie: "Berlusconi esprime generosità, simpatia, si è fatto gli affari suoi trasmettendo generosità, quindi alla fine puoi essergli avversario ma volergli male è impossibile. Quindi gli faccio gli auguri di cuore, lo chiamerò", conclude. E Marco Travaglio che dice?
Berlusconi, l’aneddoto su Bersani: “Mi tenne la mano in ospedale”. Antonino Paviglianiti il 15/04/2020 su Notizie.it. Silvio Berlusconi ha voluto salutare Pierluigi Bersani ricordando un piacevole aneddoto: "Mi venne a trovare in ospedale". Silvio Berlusconi e Pierluigi Bersani sono stati rivali politici per moltissimi anni. Il culmine di questo scontro giunse nel 2013 nel corso delle elezioni politiche che portarono a un nulla di fatto: Bersani, allora capo politico del Partito Democratico, non riuscì a raggiungere la maggioranza che gli avrebbe consentito di andare al Governo; Berlusconi, nonostante un periodo non proprio felicissimo, riuscì a pareggiare ottenendo una sorta di vittoria. Il 2013 è un anno politico importante perché è il risultato del quadro odierno con l’entrata in gioco di Movimento 5 Stelle, Salvini e Renzi tra i principali soggetti politici. Ed è per questo, forse, che adesso i rapporti tra Silvio Berlusconi e Pierluigi Bersani sembrano essere quelli di due avversari politici che si sono rispettati sul campo di battaglia. A testimoniarlo è anche un aneddoto raccontato dal Cavaliere negli studi di Floris, a DiMartedì. L’aneddoto di Berlusconi e Bersani risale al 2009, quando il Cavaliere subì un attentato il 14 dicembre 2009 con un manifestante che gli lanciò contro una statuina che rappresenta il Duomo e lo ferì. Venne ricoverato al San Raffaele di Milano dove, proprio in quei giorni, andò a fargli visita l’allora capo dei Dem, Pierluigi Bersani. “Mi saluti Bersani, per favore. – ha raccomandato Berlusconi al giornalista Giovanni Floris – Io mi ricordo sempre di quando dopo l’attentato ebbi a subire in Piazza Duomo a Milano venne a trovarmi in ospedale e rimase con me tenendomi la mano tra la sua per mezz’ora. Una persona perbene e generosa, davvero me lo saluti tanto”. Un gesto ricambiato, qualche anno dopo, dallo stesso Silvio Berlusconi allorquando Bersani subì un ictus nel 2014. “Ho appreso con addolorato stupore del malore che questa mattina ha colpito l’onorevole Pier Luigi Bersani. Gli auguro di tutto cuore che possa superare al più presto questo momento difficile per tornare alla sua attività politica e dai suoi cari”, aveva scritto Berlusconi in un messaggio affidato alle agenzie di stampa che si concludeva con “abbraccio affettuoso ad un avversario leale”. Intanto, per quanto concerne la politica odierna, Silvio Berlusconi è intervenuto in merito alla questione Mes attaccando i suoi alleati di centrodestra, Matteo Salvini e Giorgia Meloni: “Questo non è il momento delle polemiche politiche. A tempo debito daremo un governo rappresentativo agli italiani. Adesso, però, c’è bisogno di sostenere Conte. E a lui dico di accettare il Mes, sarebbe un errore dire all’Europa che siamo capaci di fare da soli”.
Carmelo Lopapa per “la Repubblica” il 2 gennaio 2020. Silvio Berlusconi, 83 anni, resta saldamente alla guida di Forza Italia. Da Arcore, dove ha trascorso in famiglia le feste di fine anno, parla con Repubblica del suo 2020. Smentisce qualsiasi indiscrezione sul passaggio di testimone, nonostante la crisi di consensi e gli addii al partito. Si propone come garante in Europa della leadership e dell' eventuale premiership di Matteo Salvini. Giudica il governo Conte «tra i peggiori della storia».
Presidente Berlusconi, che anno è stato il 2019 che ha segnato il suo ritorno nelle istituzioni, approdando per altro per la prima volta nel Parlamento europeo?
«Considero molto importante l' esperienza in Europa, dove sono stato accolto con grande affetto dai colleghi e amici leader dei principali paesi europei. Il mio proposito è condividere con loro la visione di un' Europa profondamente diversa, unita nella politica estera e di difesa, dotata di forze armate comuni, basata su forti radici giudaico-cristiane e sui principi liberali. Solo un' Europa di questo tipo può affrontare la sfida di civiltà che viene dalla Cina e contenere il rischio di immigrazioni di massa dall' Africa ormai colonizzata dal colosso cinese. Per l' Italia non è stato un anno positivo: si sono susseguiti due governi non scelti dagli italiani e oggettivamente inadeguati a far uscire il Paese dalla crisi. Infatti siamo ancora fra gli ultimi in Europa per quanto riguarda la crescita, la disoccupazione e il debito pubblico».
E come immagina il 2020? Ancora saldamente alla guida di Forza Italia? Tornano ciclicamente le voci di un passaggio di testimone, magari in famiglia.
«Un passaggio di testimone in Forza Italia non è all' ordine del giorno. Dobbiamo riportare al voto i 7 milioni di italiani che oggi non votano ma che, a domanda, si definiscono liberali, moderati, conservatori. Questo non significa naturalmente che Forza Italia non possa e non debba rinnovarsi ed allargarsi, anche per risalire da un livello di consenso elettorale non soddisfacente, ma comunque rilevante dopo i quattro colpi di stato subiti e le molteplici aggressioni giudiziarie di cui è stato vittima il suo leader».
Ci sono stati processi e condanne passate in giudicato. Parliamo del premier Conte: ha in programma un' Agenda 2023. Questo esecutivo secondo lei ha davvero una gittata così lunga?
«Questo governo è nato per evitare le elezioni e per non consentire alla maggioranza degli italiani, che è di centrodestra, di guidare il Paese. Dal loro punto di vista è logico tentare di durare in tutti i modi. Ovviamente tutto ciò ha un prezzo salato che pagano gli italiani in termini di tasse, di disoccupazione, di mancanza di sviluppo. Questo per non parlare dell' inciviltà giudiziaria voluta dai grillini, il cui simbolo è l' abrogazione della prescrizione, così grave che neppure il Pd riesce ad accettarla».
Il centrodestra ha un leader e candidato premier conclamato, Matteo Salvini. Lei pensa che sia realmente in grado di guidare il Paese?
«Ma sa, in democrazia questo lo decidono gli elettori. E in Italia hanno dato un messaggio molto chiaro. Del resto, Salvini è un leader avveduto. Sì, talvolta usa toni da comizio, ma lo fa perché sono graditi ai suoi sostenitori».
In Europa però attorno a Salvini e al sovranismo è stato eretto una sorta di cordone sanitario. Come pensa di rassicurare i partner europei del Ppe?
«La nostra presenza come colonna portante del centrodestra è assoluta garanzia del fatto che il prossimo governo avrà una politica costruttiva sull' Europa e non verrà meno a quei principi di democrazia liberale e di solidarietà europea e occidentale che d' altronde i nostri alleati hanno detto molte volte di condividere. In ogni caso saremo noi, che siamo parte del Partito popolare europeo, a vigilare sulla coerenza con questi valori«.
Voi garanti, ma con problemi al vostro interno: in queste settimane, dal Trentino alla Sicilia, si registrano esodi in direzione Lega o Fdi. Forza Italia ha ancora un futuro? Come pensa di rilanciare il partito che oggi i sondaggi danno a una sola cifra e di evitare nuove fughe?
«In verità gli episodi ai quali lei allude, assolutamente marginali, sono la dimostrazione del fatto che è in atto un profondo rinnovamento: quando si cambia, qualcuno rimane scontento e può reagire in modo sbagliato. Devo dire che invece ho particolarmente apprezzato i nostri dirigenti che hanno accettato e favorito il cambiamento, anche perché noi non rottamiamo nessuno: l' esperienza va valorizzata quanto il rinnovamento».
Di quale cambiamento sta parlando?
«Stiamo coinvolgendo nella gestione di Forza Italia sul territorio dei bravi sindaci e amministratori locali. Nei giorni prima di Natale abbiamo raccolto nelle piazze delle città italiane moltissime firme a sostegno della proposta di fissare in Costituzione un limite massimo accettabile della pressione fiscale, oggi intollerabile. Questo grande impegno organizzativo e di militanza conferma che Forza Italia è viva e continua a dialogare con gli italiani».
Salvini non ha escluso che tra due anni possa essere Mario Draghi il nuovo capo dello Stato. È una soluzione che approva anche lei?
«Sono stato io ad imporre Mario Draghi alla signora Merkel come guida della Bce. Tuttavia mi sembra inelegante parlare ora della successione al Presidente Mattarella, che è in carica nella pienezza dei suoi poteri e che svolge il suo compito con ammirevole equilibrio e prudenza istituzionale».
Il Presidente Conte si considera a pieno titolo un attore politica: ha dichiarato al nostro giornale che non si ritirerà a vita privata, a fine mandato. Che giudizio esprime, dopo 18 mesi a Palazzo Chigi?
«Conte ha guidato e guida due fra i peggiori governi della storia della Repubblica. Quello attuale è il più a sinistra in assoluto ed è la nostra antitesi. In Italia noi siamo gli unici continuatori ed eredi della cultura politica liberale, cattolica e garantista, su cui si fondano le società libere dell' Occidente».
Silvio Berlusconi è risorto, e smentisce la sua sempre annunciata fine. Paolo Guzzanti il 5 Febbraio 2020 su Il Riformista. Sono più di dieci anni che il giornalismo in pompa magna e anche quello più logoro si esercita su un tema di scuola: il dopo Berlusconi. Ora, è vero che Forza Italia passeggia da un bel po’ sul viale del tramonto, ma Berlusconi è una variabile indipendente dal partito/movimento che ha creato. È come l’eterna storia del mancato successore: Berlusconi, hanno scritto tutti, «non ha creato un successore». Come se i successori si creassero. Quello che è accaduto con la vittoria della forzista storica Jole Santelli in Calabria resterà nella storia della letteratura, oltre che della politica. La sua vittoria ha sfondato le più rosee previsioni e di conseguenza tutti hanno potuto vedere che Berlusconi è non soltanto risorto, ma si è anche assunto in cielo con una sua definita collocazione che non ci sembra proprio identica a quella che gli abbiamo sentito raccontare condividendo il palco con don Matteo Salvini e Giorgia Meloni. Come sempre accade con quest’uomo unico e irripetibile, si è assistito ancora una volta al trionfo del “fattore umano” che è un elemento non calcolabile e che ogni volta scompagina le file di quelli col paraocchi. Ma oltre al fattore umano c’è stato un colpo di reni ideologico e politico che probabilmente stagnava e che non sarebbe riemerso in modo così netto, senza la vittoria calabrese, così travolgente e con il ben visibile marchio di fabbrica, quello di Forza Italia, che sembrava avviato al museo delle cere. Certo, la vittoria calabrese va intestata prima di tutto a Jole Santelli che ha danzato poi tutta la notte senza voce e senza scarpe come una baccante felice. Non c’è dubbio ed è certamente vero che sulla candidata di Forza Italia (che si era anche presentata con una propria lista personale) si sono chiamati a raccolta i voti anche della Lega e di Fratelli d’Italia. Tutto vero, ma la riemersione calabrese della Forza Italia berlusconiana e del suo fondatore, padre, figlio e spirito santo di se stesso, è stata l’ennesima smentita della sempre annunciata fine di Berlusconi. Il quale, come abbiamo visto e letto, si è divertito ad essere sfrontato, a sfidare il politicamente corretto arrivando a dire che a lui, Jole che conosce da un quarto di secolo «non gliel’ha mai data». È strano, pensateci: Berlusconi lo può dire, gli altri no. Fa sempre un effetto elettrico una frase del genere, ma Berlusconi è l’unico politico italiano che sia stato portato in tribunale con tutte le sue storie private vere e false, la sua vita immaginata e immaginaria dominata dalla sessualità, come ha confermato sarcasticamente complimentandosi con la Santelli. Solo lui. A nessuno importa scoprire che cosa fanno a letto, e con chi, gli altri politici, ma nel suo caso, poiché la santa inquisizione è entrata sotto le sue coperte e fra le lenzuola, a caccia del satiro, il paradosso diventa politica. Ecco dunque Berlusconi che nella sua lunga ed emozionata telefonata in Calabria ha trovato il modo di far intervenire anche Lulù, cagnetto disturbatore, ma più che altro ha messo in scena il lo spettacolo popolare del leader vittorioso, il rinato, se non l’immortale, almeno quello che tutti danno per spacciato e che invece riemerge, spariglia, spiazza e scompiglia. Gli ingredienti dello spettacolo politico del nuovo Berlusconi trionfante contenevano gli elementi topici: la dedica la sua vittoria alla memoria dei suoi genitori «e ai miei nipotini che come tutti i bambini e i ragazzi della Calabria devono avere la speranza di poter tornare a vivere in questa terra e all’uomo che mi ha consentito di fare della politica la mia vita». Come si vede, siamo molto oltre il Berlusconi «sceso in campo» per risolvere un’emergenza un quarto di secolo fa perché ci troviamo – in un panorama totalmente cambiato e devastato – di fronte a un ex antipolitico che riconosce di essere prima di tutto proprio un politico e anzi uno che rivendica l’onore di aver fatto della politica la ragione della sua vita. Sono parole nuove, accompagnate da una rivendicazione di campo: Forza Italia, dice, è l’unico partito che esprima la tradizione liberale, cattolica e garantista. Ci sarebbe da dire forza Silvio, facci vedere chi sei alla guida di quel mondo di mezzo sfuggito di mano e che ha prima sbandato per Renzi, poi per Salvini e Di Maio, impazzendo come la maionese. Questo è stato, ci sembra, l’elemento che fa notizia: non tanto e non solo la vitalità personale e il carattere spiazzante, ma la rivendicazione di un’area in via di estinzione. La Calabria è una strana Regione il cui elettorato ha dato sempre prova di libertinaggio. Ma sta di fatto che la vittoria di Jole Santelli archivia un lungo predominio dei Partito democratico calabrese sfasciato e in conflitto con se stesso. La nuova governatrice promette di far scintille e vedremo se lo saprà fare e come. Ma di sicuro la sua folgorante vittoria sotto le bandiere berlusconiane ha dato modo al leader fondatore di rivendicare non soltanto la sua leadership di partito, ma anche quella di un’Italia – per usare le sue parole – liberale, cattolica e garantista. Ed è evidente che oggi il mainstream italiano non sappia più che cosa significhi la parola liberale, confonde il cattolicesimo con le madonnine portachiavi e quanto al garantismo, con la riforma della persecuzione a vita voluta dai pentastellati non tira proprio buona aria. Si dovrebbe chiedere a questo punto a Berlusconi che intenzioni ha per il futuro, dopo aver digerito la gioia per la vittoria calabrese. Il suo amico Bossi sostiene che con la sconfitta emiliana il sovranismo leghista ha iniziato la sua parabola discendente. E lui? Che cosa farà, dopo aver incoronato la Santelli (che non gliel’ha mai data)? Rivendicherà la leadership, tenterà come ha annunciato di accreditarsela di nuovo? Silvio Berlusconi è nelle condizioni di battere in colpo a livello nazionale e sarebbe un buon colpo per la politica italiana che sempre più balla sull’abisso.
· Berlusconi e la Famiglia.
Da ilmessaggero.it l'1 agosto 2020. Luigi Berlusconi, ultimogenito dell'ex premier Silvio, sposerà la storica fidanzata Federica Fumagalli a Milano. La comunicazione - rivela il Giorno - è stata pubblicata nell'albo pretorio del Comune di Milano. Trentadue anni ancora da compiere lui, impegnato nel mondo della finanza, un anno in meno lei, di professione Pr, Luigi e Federica si sono conosciuti quando entrambi frequentavano l'università Bocconi e da nove anni sono una coppia. Si era inizialmente parlato di un matrimonio estivo dopo che Chi aveva rivelato della proposta di matrimonio fatta il giorno di Natale da Luigi Berlusconi. Ora, con le restrizioni per il Coronavirus che stanno lentamente rientrando, c'è l'ufficialità delle nozze, un matrimonio che si annuncia blindato considerando l'indole riservata della coppia.
Da corriere.it l'8 ottobre 2020. Silvio Berlusconi potrebbe uscire oggi dalla quarantena. Il leader di Forza Italia è risultato ieri negativo a un tampone, e oggi ne eseguirà un secondo. Se l’esito fosse ancora negativo, l’ex premier potrà considerarsi definitivamente guarito dal Covid, che l’ha colpito a inizio settembre. In questo caso, inoltre, Berlusconi potrà partecipare, questa sera, al ricevimento delle nozze del figlio Luigi e della fidanzata Federica Fumagalli, a Macherio. Impossibile però, per il fondatore di Forza Italia, partecipare alla cerimonia, che si svolgerà oggi, in chiesa, a Milano, in forma strettamente privata. Berlusconi, 84 anni, era risultato positivo al coronavirus il 2 settembre scorso. Il peggioramento delle sue condizioni di salute — e in particolare, l’insorgere di una polmonite bilaterale — lo aveva costretto al ricovero all’ospedale San Raffaele. Dopo le dimissioni, il 14 settembre, il fondatore di Mediaset era rimasto in isolamento domiciliare, poiché ancora positivo al Sars-CoV-2: e così, in quarantena, aveva trascorso, il 29 settembre, il suo compleanno, che aveva descritto come «il mio peggiore». Come raccontato dal suo medico, Alberto Zangrillo, Berlusconi, durante il ricovero, era apparso molto provato, anche perché «una delle caratteristiche veramente negative del Covid-19: ti obbliga alla solitudine e ad affrontare la malattia da solo». Il leader di Forza Italia aveva parlato, all’uscita dall’ospedale, del Covid come della «prova più pericolosa della mia vita», e in una intervista al Corriere aveva spiegato di essere stato «in angoscia per i figli e i nipoti». Luigi stesso — l’ultimo figlio — era risultato positivo al Covid, così come Barbara e Marina. Barbara Berlusconi aveva commentato la notizia della sua positività — e quelle che la individuavano come una delle possibili cause della malattia del padre — con un’intervista al Corriere, nella quale spiegava di non essere «un’untrice: contro di me [è stato messo in atto] un trattamento disumano». Luigi Berlusconi, 32 anni, non aveva mai commentato le notizie relative al suo stato di salute. Estremamente riservato, è a capo della cassa di famiglia — la Holding Italiana Quattordicesima — che custodisce il patrimonio suo, di Barbara e di Eleonora. La notizia delle nozze con Federica Fumagalli — laureata all’università Bocconi di Milano, una carriera nella comunicazione e nell’organizzazione di eventi — era emersa solo dopo le pubblicazioni sull’Albo pretorio del Comune di Milano, il 1 agosto scorso.
Luigi Berlusconi e Federica Fumagalli, nozze a Sant'Ambrogio: chi è la pr che ha sposato l'ultimogenito dell'ex premier. Pubblicato mercoledì, 07 ottobre 2020 da Brunella Giovara su La Repubblica.it. Luigi e Federica Fumagalli sposi in una delle chiese più belle di Milano. Dopo la cerimonia per pochi intimi, a Macherio la cena con la famiglia riunita. Si sono conosciuti da studenti, all'Università Bocconi, e sono una coppia da quasi nove anni. Oggi Luigi Berlusconi, ultimogenito del leader di Forza Italia, ha sposato la sua fidanzata Federica Fumagalli nella cappella dell'oratorio San Sigismondo della basilica di Sant'Ambrogio, uno dei luoghi più suggestivi di Milano. La sposa è arrivata dieci minuti prima delle 17 a bordo di un van con i vetri scuri, attraverso i quali si intravedeva il velo dell'abito bianco realizzato dall'amica stilista Alessandra Rich. All'ingresso il servizio di sicurezza controllava i nomi degli ospiti, circa quaranta secondo indiscrezioni, molti dei quali sono giunti a bordo di van o auto con vetri oscurati. Fra di loro, ovviamente, ci sono la mamma dello sposo, Veronica Lario, le sorelle Barbara ed Eleonora, e anche la primogenita di Berlusconi, la presidente di Fininvest e Mondadori, Marina Berlusconi. La cerimonia è celebrata da un padre domenicano. In serata, al ricevimento in programma nella tenuta brianzola di famiglia a Macherio, definito strettamente famigliare, Silvio Berlusconi è atteso con la fidanzata, la deputata di FI Marta Fascina, per fare gli auguri agli sposi. Federica Fumagalli ha 31 anni, uno in meno di Luigi, è originaria di Sirone, in provincia di Lecco, figlia di un imprenditore tessile della zona. A Milano, dopo la laurea in giurisprudenza, ha fondato con Manuel Bogliolo una società di comunicazione - la MB Projects -, si occupa di organizzazione di eventi e di diversi marchi di moda. I suoi profili social, Facebook e Instagram, mostrano foto di coppia, con amiche e in famiglia, sul lavoro, non patinate e con lo sfondo di una vita lontana, almeno finora, dall'attenzione mediatica a cui la famiglia Berlusconi è da sempre abituata. La coppia vive da tempo in via Rovani, nella prima casa (meglio dire villa) di Silvio e Veronica Lario, che hanno appena ristrutturato. Hanno due cani, due pastori tedeschi. L'inizio della loro storia dopo che Luigi aveva concluso una storia con Ginevra Rossini, la nipote di Salvatore Ligresti. Le pubblicazioni di matrimonio erano comparse sull'albo pretorio del Comune di Milano lo scorso agosto, ma la cerimonia - in forma privata e con una cena ristretta nella villa di Macherio - era stata già posticipata per l'emergenza Covid, ancor prima che diversi membri della famiglia, compreso lo stesso Luigi, fossero contagiati dal virus.
Claudia Guasco per “il Messaggero” l'8 ottobre 2020. La sposa è un guizzo di velo candido, una fugace visione a bordo di un van con i vetri scuri. I testimoni, con mascherina bianca e peonia all' occhiello, sono più rilassati ed escono dalla chiesa a piedi. In un' ora, comprese foto, firme e fuga precipitosa in auto, Luigi Berlusconi e Federica Fumagalli sono marito e moglie. Il matrimonio dell' anno, ai tempi del coronavirus, è un evento rapido ma ancora più esclusivo: non più di trenta persone, riunite prima nella cappella dell' oratorio San Sigismondo della basilica di Sant' Ambrogio, poi nella villa di Macherio, la casa dove Luigi e le sue sorelle sono cresciuti. Causa Covid, anche nozze senza padre dello sposo. Comunque per tutti è stata una giornata memorabile: dopo oltre un mese di malattia, Silvio Berlusconi è negativo al virus e ha brindato agli sposi duranti il ricevimento. Insieme alla compagna Marta Fascina era alla cena nella residenza brianzola, restituita dall' ex moglie Veronica Lario dopo il divorzio. Una breve partecipazione, considerato che è ancora convalescente, tuttavia significativa e non solo per le nozze del figlio. Per la famiglia Berlusconi in modalità allargata è la prima occasione di incontro dopo un' estate disastrosa, nella quale il buen retiro sardo dell' ex premier si è trasformato nel cluster di villa Certosa. Si sono ammalati Silvio Berlusconi, Luigi e Federica ai tempi ancora fidanzati, Barbara e due dei suoi tre figli, la primogenita Marina. Qui ad agosto tra famigliari, amici, amici degli amici, visite di Flavio Briatore, personale di servizio e la scorta, la barriera anti virus ha mostrato più di una crepa. I membri di Forza Italia che sbarcavano in villa per le riunioni politiche erano ammessi solo con il risultato negativo del tampone, ma il via vai estivo era ben più difficile da controllare. Così il 2 settembre l' ex Cavaliere, che trasferitosi nella residenza a sud della Francia pensava di aver messo chilometri a sufficienza tra sé e il Covid, ha annunciato la sua positività. E sui rapporti famigliari si sono addensati nubi di tempesta. Chi ha contagiato Berlusconi, 84 anni compiuti il 29 settembre e dunque paziente a rischio? Circolano foto di Barbara che balla a Capri, con un gruppo di amiche e senza mascherina, prima di approdare a villa Certosa.
Lei si indigna: «Nei giorni in cui vivo momenti di grande angoscia per la salute di mio padre penso sia disumano essermi trovata su tutti i media come l' untrice ufficiale della persona a cui voglio più bene. La caccia all' Untore è una cosa da Medioevo, e la trovo umanamente inaccettabile oltre che scientificamente indimostrabile». Passano le settimane, tutti guariscono compreso il patriarca che proprio ieri viene sottoposto all' ultimo test (negativo) e il matrimonio di Luigi è circondato da un' aura di riappacificazione. A Sant' Ambrogio, infilandosi dal passo carraio sul retro, arrivano Barbara con il figli, la sorella Eleonora, il compagno Guy Binns e il bebé seduto sul seggiolino, la presidente di Fininvest e Mondadori Marina Berlusconi, Veronica Lario a bordo di una Jaguar nera.
La sposa - una bella trentunenne laureata in legge alla Bocconi, appassionata di moda e con una società che organizza eventi - è arrivata poco prima delle cinque, in abito bianco con velo di pizzo realizzato dall' amica stilista Alessandra Rich, italiana naturalizzata inglese. È una delle firme preferite da Kate Middleton, suo l' iconico abito blu a pois bianchi che la duchessa di Cambridge ha indossato in due occasioni. Federica Fumagalli è originaria di Sirone, in provincia di Lecco, figlia di un imprenditore tessile della zona. Indipendente, riservata, rifugge tutto ciò che è appariscente tanto che non ha mai esibito l' anello di fidanzamento che Luigi le ha infilato al dito a Natale 2019, quando l' ha chiesta in sposa durante la vacanza in montagna. La coppia si è conosciuta in università tra il 2011 e il 2012, lui aveva appena concluso una storia con Ginevra Rossini, la nipote di Salvatore Ligresti, e da quel momento non si sono più lasciati. A unirli, affinità elettive e stile di vita: poca mondanità, amici fidati, viaggi e lavoro. Da tempo abitano nella villa milanese di via Rovani, la prima casa in cui Silvio e Veronica andarono a vivere insieme, con i loro pastori tedeschi Uno e Arturo. Qualche mese fa pareva che la famiglia dovesse crescere: «Ci piacerebbe molto, ma non è ancora il momento», ha smentito lui. Ora potrebbe essere arrivato.
Valerio Palmieri per ''Chi'' l'1 luglio 2020. Benedetta è stata la scelta, compiuta dieci anni fa, di far vivere la propria famiglia al mare, nel Golfo del Tigullio. Quando Pier Silvio Berlusconi e Silvia Toffanin hanno deciso di trasferirsi in Liguria non potevano, infatti, immaginare che un giorno sarebbero stati obbligati, come tutti, a trascorrere intere settimane isolati a causa del coronavirus. E la loro casa, il luogo dove hanno vissuto il lockdown, è appoggiata su uno scoglio con accesso diretto al mare. Trasferire la famiglia è stata una scelta non meditata, nata spontaneamente dopo la nascita di Lorenzo, il figlio maschio, e ispirata dalla voglia di tranquillità, di una vita normale in una cittadina abitata da gente semplice, tanto che i figli possono andare alle scuole pubbliche. Ma anche una scelta dettata dalla passione straordinaria per il mare che da sempre contraddistingue Pier Silvio che, in queste zone, ha trascorso la sua prima infanzia e dove, pare, sia stato concepito. Nuotare, manovrare fin da bambino le prime barche a remi e poi a motore, andare sott’acqua come un pesce, stare all’aperto. Un amore per il mare che ora Pier Silvio sta trasferendo al figlio, Lorenzo: i due escono insieme in acqua, alle prime ore del giorno e poi al tramonto, a nuotare, a remare sulle tavole Sup, a esplorare con la maschera i fondali. Da terra li guardano e sorridono: «Sono uguali e in simbiosi totale». Ora la vita di Pier Sil vio sta tornando alla normalità, ma con grande prudenza, sia a casa sia nel lavoro. La sua famiglia ha rispettato le norme di isolamento al 101% e la stessa attenzione ha voluto fosse applicata alla sua azienda. Nei primissimi giorni dell’emergenza, Pier Silvio ha voluto inviare una lettera a tutte le persone e agli artisti che lavorano con lui. «Come avrete capito» , ha scritto ai suoi, «Mediaset ha agito tempestivamente, mettendo in atto una serie di misure straordinarie per garantire la sicurezza di tutti noi. Ma, allo stesso tempo, abbiamo lavorato per continuare a fare gli editori a pieno regime anche in queste circostanze così difficili. Abbiamo garantito un vero e proprio servizio sociale all’Italia intera. E di questo dobbiamo essere fieri». E, in effetti, il momento per le imprese è davvero complicato, soprattutto per quelle che hanno dovuto continuare a lavorare giorno e notte anche nei momenti più duri, a ranghi ridotti e con tutti gli impedimenti che sappiamo, senza la certezza di raccogliere gli investimenti pubblicitari che, nel caso delle televisioni commerciali come Mediaset, che offrono tutto gratuitamente, sono l’unica fonte di vita. Eppure, anche in quei giorni difficilissimi, tra video-riunioni e conference call, Pier Silvio ha avuto vicina come mai la sua famiglia: Silvia, il suo amore da vent’anni, la piccola Sofia, che mai si era goduta il papà così a lungo, e Lorenzo, che non andava a scuola, ma faceva scuola di mare. Il mare sempre davanti agli occhi ha avuto un ruolo purificatore anche per l’amministratore delegato di Mediaset: «Io nel mare mi rispecchio», ha detto a chi l’ha sentito negli ultimi giorni, «il mare mi fa guardare al futuro in maniera più lucida. Sono stato ancora più concentrato sul lavoro, senza distrazioni. Non ho sofferto l’isolamento perché non mi sentivo isolato. Ero focalizzato». Pier Silvio in Liguria sta bene, potesse lavorerebbe sempre da lì. Del Tigullio ama i luoghi, la natura, le persone: marinai, pescatori, negozianti, pensionati, che ora tornerà a frequentare come d’abitudine. E anche loro provano affetto per lui. Il Comune di Portofino lo ha da poco nominato cittadino onorario. E lui ha trovato un modo per dare un po’ d’allegria a tutti, anche in giorni strani come questi. Il 10 giugno era una data importante per il figlio Lorenzo, il giorno dei suoi 10 anni. «Non potevamo fare nessuna festa», ha spiegato Pier Silvio agli amici, «ma volevo si ricordasse questo compleanno così “speciale” e allora ho fatto una piccola follia. Con una sorpresa, abbiamo organizzato uno spettacolo di fuochi d’artificio su una piattaforma in mezzo al mare. Lorenzo è rimasto stupefatto e felice». E anche per la comunità, che ha visto quelle luci nella notte dopo tanti mesi di buio, quello spettacolo è stato un segnale di ritorno alla vita.
N.Sun. per “Libero quotidiano” il 27 giugno 2020. Utili boom e nuovo consiglio d'amministrazione per Fininvest con l'ingresso di Adriano Galliani e Niccolò Ghedini. Prendono il posto di tre professionisti che hanno brillato molto nella costellazione del Cavaliere: Bruno Ermolli (il maestro di Marina), Roberto Poli (commercialista di grido) e Pasquale Cannatelli, l'uomo della finanza che il Cavaliere ha portato in Parlamento due anni fa. Le nomine sono avvenute al termine di un'assemblea dei soci non certo avara di soddisfazioni per la cassaforte della famiglia Berlusconi. Fininvest, ancora una volta, si è dimostrata fonte di grande ricchezza per la dinastia. Silvio e i suoi ragazzi si sono divisi una torta di dividendi da 84 milioni a valere su un utile consolidato di 220 milioni. Un risultato in forte crescita rispetto ai 202,8 milioni del 2018. Escludendo le partite non ricorrenti, il risultato è positivo per circa 213 milioni di euro, in significativo miglioramento rispetto ai 117 milioni realizzato nell'esercizio precedente, sempre escludendo le partite straordinarie. A questo punto, però, occorre fare una piccola focalizzazione di natura contabile per capire esattamente come sono andate le cose. I 220 milioni sono l'utile di gruppo. Quello che conta, a fini del dividendo, è il risultato della sola Fininvest che nel 2019 è stato esattamente di 84 milioni. Vuol dire che la famiglia si è divisa tutti i guadagni di Fininvest dell'anno scorso. Nel 2018 aveva fatto ancora di più: si era assegnata un dividendo di 92 milioni a fronte di un risultato netto di 57,8 milioni. La differenza era arrivata utilizzando le riserve. L'azionariato di Fininvest vede le holding personali di Silvio Berlusconi detenere il 63% circa del capitale, i primi due figli (Marina e Pier Silvio) con oltre il 7% ciascuno, mentre la società comune di Barbara, Eleonora e Luigi ha poco più del 21%. In base a queste quote il Cavaliere si è portato a casa più di cinquanta milioni. Poco più di sei milioni a testa Marina e Pier Silvio. I tre ragazzi di Veronica Lario si sono divisi all'incirca 16 milioni. Il 2020 potrebbe essere molto meno generoso. I risultati, si legge nella relazione di bilancio «saranno inevitabilmente condizionati dalla crisi generata dal Covid-19, crisi di cui ad oggi non è possibile stimare con precisione l'evoluzione. Tuttavia, la solidità strategica, economica e patrimoniale evidenziata ha permesso a tutte le aziende del Gruppo di attivarsi efficacemente per affrontare l'emergenza e per mitigarne al massimo gli effetti negativi sui rispettivi business». C'è anche da dire che, nonostante i brillanti risultati neanche il 2019 è andato esente da difficoltà. Il fatturato, per esempio è sceso a 3.886,4 milioni di euro rispetto ai 4.429,5 milioni del 2018 (-12,3%). «Una flessione da attribuire in gran parte al venir meno per Mediaset dei ricavi pubblicitari legati ai Mondiali di calcio e alla cessazione dell'attività di pay-tv» scrive Marina nella relazione di bilancio nella veste di presidente. L'indebitamento è salito a 1,305 miliardi rispetto agli 878,8 milioni del 2018. Il peggioramento di 426 milioni è riconducibile agli investimenti di natura strategica effettuati nel corso dell'esercizio. In particolare da parte di Mediaset con la scalata a Prosienbensat. In ogni caso il gruppo è ancora in grado di generare una cassa di 330 milioni. Silvio e suoi ragazzi possono dormire tranquilli.
MR. per “il Giornale” il 27 giugno 2020. Sia investitori finanziari sia gruppi media hanno contattato «nelle ultime settimane» Mediaset, mostrando interesse per i progetti del Biscione in particolare basati su MediaForEurope e sulla creazione di un nuovo polo televisivo europeo. Ad annunciarlo è stato il presidente di Mediaset, Fedele Confalonieri, nel suo discorso all'assemblea degli azionisti, svoltasi a distanza per le regole del Covid, che ha approvato il bilancio: l'utile di 190 milioni è stato messo a riserva. «Nelle ultime settimane - anche durante l'emergenza sanitaria - abbiamo ricevuto molto interesse da parte di investitori finanziari e partner industriali, per le prospettive che questa nuova dimensione potrebbe aprire», ha sottolineato Confalonieri. In sostanza il mercato promuove la strategia europea e quindi il riassetto del gruppo guidato da Pier Silvio Berlusconi imperniato su Mfe. Gli occhi degli analisti restano poi puntati sul destino del broadcaster tedesco ProsiebenSat, di cui Mediaset è il primo socio con poco meno del 25% e che ha visto il finanziere ceco Daniel Kretinsky e i suoi partner limare la propria quota sotto il 10 per cento. Dal punto di vista degli equilibri assembleari il cda di Mediaset ha ammesso al voto Vivendi, secondo socio dietro a Fininvest, ma non Simon Fiduciaria. E, sempre Confalonieri ha prima bollato il tentativo di scalata di Vivendi come «un esempio negativo di campagna malriuscita per la conquista ostile di un'azienda». Ma anche lo stesso progetto Mfe, considerato da Mediaset ancora più necessario e strategico dopo la pandemia, viene rallentato -ha proseguito Confalonieri - «dall'atteggiamento ostruzionistico di Vivendi. Ieri, inoltre, si è svolta l'assemblea di Fininvest, presieduta da Marina Berlusconi, che ha approvato il bilancio 2019 chiuso con un utile consolidato di 220,3 milioni, in crescita rispetto ai 203 milioni dell'anno precedente. Nel 2019 il gruppo ha effettuato investimenti per 1,166 miliardi, sostanzialmente stabili rispetto al 2018. Gli investimenti strategici effettuati, in particolare da Mediaset in ProsiebenSat, hanno determinato un incremento dell'indebitamento a fine 2019 (1,3 miliardi). «I risultati 2020 saranno inevitabilmente condizionati dalla crisi generata dalla pandemia da Covid-19, crisi di cui ad oggi non è possibile stimare con precisione l'evoluzione», si legge in una nota che precisa come «la solidità strategica, economica e patrimoniale evidenziata ha permesso a tutte le aziende del gruppo di attivarsi efficacemente per affrontare l'emergenza e per mitigarne al massimo gli effetti negativi». L'assise ha deliberato di distribuire ai soci l'intero utile 2019 della capogruppo pari a 84,2 milioni di euro. L'assemblea di Fininvest ha infine rinnovato il cda. Confermati Marina Berlusconi, Danilo Pellegrino (ad), Barbara Berlusconi, Luigi Berlusconi, Pier Silvio Berlusconi e Salvatore Sciascia. Assieme a loro sono stati nominati Adriano Galliani e Niccolò Ghedini in luogo di Pasquale Cannatelli, Bruno Ermolli e Roberto Poli.
Marina Berlusconi replica a Repubblica: "L'amore per papà non mi acceca". Libero Quotidiano il 21 Gennaio 2020. Le vecchie ossessioni sono dure a morire, come quella che nutre Repubblica nei confronti di Silvio Berlusconi e la sua intera famiglia. Tanto che oggi, martedì 21 gennaio, il quotidiano ha pubblicato un commento di Francesco Merlo, il quale accusa Marina Berlusconi, in estrema sintesi, di essere come da titolo una delle "figlie guardiane dallo sguardo un po' miope". Merlo, insieme ad altre figlie di padri celebri, le contesta quello che la stessa Marina, in una lettera inviata a Repubblica, definisce "un eccesso di amore che, accecandole, condizionerebbe inesorabilmente la loro difesa militante dei padri". Secondo Merlo, tra le varie, Marina "da tempo porta sulle spalle papà Silvio come Enea portò Anchise". E ancora, dopo aver analizzato il ruolo di diverse figure femminili, sentenzia: "Tutto bello dunque? No, la medaglia ha una faccia sporca: la custodia di queste italianissime figlie femmine, spesso arcigna e severa come un tribunale speciale, è quasi sempre anche l'imprigionamento del padre, soprattutto quando le sua grandi qualità lo hanno reso protagonista del tempo". E ancora: "Le occhiute e cocciute figlie-guardiane rischiano infatti di impedire o solo rallentare la verità storica su uomini che appartengono all'Italia e non a loro. Anche perché guardandoli troppo da vicino le figlie vedono male i padri per i quali stravedono", conclude. Parole pesanti, per le quali la figlia del Cav passa al contrattacco: "È sicuro Merlo che l’amore di una figlia accechi più dell’odio a testa bassa dell’avversario politico?". E ancora: "Conosco molto da vicino mio padre, l’uomo che è, l’energia e la generosità con cui ha affrontato i problemi del Paese, conoscendo tutto questo ho potuto soppesare bene, senza mi pare eccessive miopie, quanto assurdi fossero e siano gli attacchi contro di lui, quanto lontane dal vero le valutazioni sul suo agire politico, quanto persecutorie e strumentali certe inchieste della magistratura", rimarca Marina Berlusconi. "E non credo - riprende nella lettera -, per usare le parole di Merlo, che il mio comportamento rischi di impedire o solo di rallentare la verità storica. Il desiderio che mi anima è esattamente l’opposto: quello - lo sostengo senza alcuna velleità e presunzione - di dare il mio piccolo, piccolissimo contributo perché verità e storia non camminino più su strade divergenti, perché la verità storica cominci finalmente ad essere letta senza le lenti deformanti del pregiudizio e dell’odio". Infine, Marina Berlusconi sottolinea come "certi giudizi politici mi pare inizino a riscoprire un poco di obiettività, mi pare che a fronte di un desolante presente anche molti avversari inizino a rendersi conto dei meriti di chi da più di vent'anni si impegna per cercare di migliorare le cose in questo Paese. Dopo tanti veleni, sarebbe un bel passo avanti", conclude.
Berlusconi-Lario, accordo sul divorzio: entrambi rinunciano ai crediti. Il leader di Forza Italia non chiederà i 46 milioni del contenzioso, l'ex moglie non rivendicherà la cifra di 18 milioni. La Repubblica il 06 febbraio 2020. Silvio Berlusconi e Veronica Lario hanno raggiunto un accordo, ratificato dal Tribunale di Monza, che mette la parola fine alla battaglia legale sui profili economici del divorzio, chiudendo tutte le pendenze. Il leader di Forza Italia, assistito dagli avvocati Valeria De Vellis e Pier Filippo Giuggioli, ha rinunciato a chiedere i circa 46 milioni di euro che l'ex moglie gli doveva sulla base della sentenza della Cassazione che confermò la revoca dell'assegno di divorzio. Lario, dal canto suo, ha rinunciato a chiedere 18 milioni. In sostanza, da quanto si è saputo, i giudici del Tribunale di Monza (presidente del collegio Laura Gaggiotti) hanno dato il via libera all'intesa raggiunta dalle due parti. Un accordo che passa appunto per la rinuncia reciproca dei crediti e che chiude tutte le pendenze giudiziarie e, in particolare, la 'partita' sui pignoramenti reciproci che erano stati disposti nell'ambito del contenzioso. Sempre sulla base dell'intesa, Berlusconi, a questo punto, dovrà versare soltanto una somma 'una tantum' all'ex moglie, che allo stesso tempo, però, contribuirà in parte a pagare le spese legali. Il punto importante dell'accordo, però, è che, da un lato, l'ex premier rinuncia ai circa 46 milioni che Lario gli doveva e, dall'altro, l'ex consorte, assistita dal legale Cristina Morelli, non chiederà più circa 18 milioni. A fine agosto scorso, la Suprema Corte aveva stabilito che Veronica Lario vive una condizione di "assoluta agiatezza", che la ripaga del "sacrificio delle aspettative professionali" da ex attrice, e che quindi non ha diritto all'assegno di divorzio, come già deciso dalla Corte d'Appello milanese (il tribunale lo aveva inizialmente quantificato in 1,4 milioni al mese). L'effetto di questa sentenza era che Lario avrebbe dovuto restituire appunto circa 46 milioni all'ex marito. Nel frattempo, Berlusconi, attraverso i suoi legali, aveva ottenuto anche dai giudici di Monza un decreto ingiuntivo per i pignoramenti di beni della ex moglie, oltre a quelli già pignorati a partire dal 4 settembre scorso, ossia i conti correnti a lui intestati in 19 banche su cui erano depositati somme di denaro, titoli, obbligazioni e altro. Conti che erano stati, a sua volta bloccati, da Veronica nell'aprile del 2017. L'accordo siglato stamani chiude ogni pendenza, compresi i procedimenti sui reciproci pignoramenti.
Accordo con Veronica sul divorzio: Berlusconi rinuncia a 46 milioni. Pubblicato giovedì, 06 febbraio 2020 da Corriere.it. Silvio Berlusconi e Veronica Lario hanno raggiunto un accordo, ratificato dal Tribunale di Monza, che mette la parola fine alla battaglia legale sui profili economici del divorzio, chiudendo tutte le pendenze. Il leader di Forza Italia , assistito dagli avvocati Valeria De Vellis e Pier Filippo Giuggioli, ha rinunciato a chiedere i circa 46 milioni di euro che l’ex moglie gli doveva sulla base della Cassazione che confermò la revoca dell’assegno di divorzio. Lario, dal canto suo, ha rinunciato a chiedere 18 milioni. In prima istanza, il tribunale civile di Monza aveva stabilito che l’ex moglie di Berlusconi avesse diritto a un assegno di mantenimento mensile di 1,4 milioni di euro; beneficio che aveva fin da subito fatto scalpore e revocato prima dalla Corte d’Appello e poi dalla cassazione con una sentenza dell’agosto 2019: Berlusconi aveva sostenuto di aver già provveduto al sostegno economico di Veronica mediante la donazione di immobili, gioielli, società; i giudici dal canto loro avevano applicato il principio che alla fine di un matrimonio la moglie (o il marito) perde il diritto a mantenere lo stesso tenore di vita garantito in precedenza. Per effetto di questa sentenza Veronica Lario avrebbe dovuto restituire al Cavaliere tutti gli arretrati, pari a 46 milioni di euro. Il matrimonio tra Silvio e Veronica è durato dal 15 dicembre 1990 al 2014; dalla relazione la coppia ha avuto tre figli, Barbara, Eleonora e Luigi.
· Berlusconi e le Donne.
Dagospia il 3 dicembre 2020. Estratto dall'intervista di Andrea Sparaciari per il “Fatto quotidiano”. "Il 21 dicembre vado in aula e racconto tutto!". È un fiume in piena, Barbara Guerra, l' ex olgettina tornata al centro delle cronache per quel "Io lo ricatto di brutto" scritto in una chat alla collega di "cene eleganti", Aris Espinosa, riemerso all' ultima udienza del processo Ruby Ter, il 30 novembre. Un' udienza sospesa perché i giudici hanno rivisto verso l' alto il valore delle due ville di Bernareggio (da 900 mila a 1,1 milioni di euro), nelle quali abitano Barbara Guerra e Alessandra Sorcinelli (…).
Questa è casa sua o è di Berlusconi? Chi paga le bollette lei, o, come dicono i pm, Silvio?
«Questa non è casa mia. Non ho alcun documento, sono un' abusiva. Non ho neanche il domicilio qui e col Covid rischiavo di essere multata ogni volta che uscivo. Silvio mi ospita, è casa sua e paga tutto lui».
Quindi il dubbio che sia frutto di un ricatto è lecito.
«Ho avuto le chiavi della villa un anno e mezzo prima di venirci ad abitare. Se lo avessi ricattato ci sarei venuta subito. E se avessi avuto i soldi, ora sarei in America».
E perché allora le ha dato una villa gratis?
«Ero una testimone, quando scoppiò lo scandalo, mi licenziai, avevamo sempre i giornalisti sotto casa, mi seguivano anche i maniaci. Silvio nel 2011 mi diede le chiavi e io sono entrata nel 2013. Mi fece scegliere 100 quadri che poi trovai in casa. Nel 2015 poi aveva promesso di intestarmi questa casa, ma non l' ha fatto. Silvio fa così: promette e non mantiene mai. (…) Mi ha usata e raggirata. (…) Era lui che invitava a cena le minorenni e le ragazze. (…) Nel "periodo delle olgettine" ricevevo un sussidio da 2.500 euro al mese, una miseria. Nel 2015, ci ha convocato tutte e ci ha liquidato: 25 mila euro ognuna. Poi per due anni è scomparso. C' era la fila davanti al cancello di Arcore, eravamo tutte lì. (…) Ho provato più volte a denunciarlo per violenza e maltrattamenti psicologici, ma nessun carabiniere ha voluto verbalizzare la denuncia. (…) Quel giro c' è ancora tutto. Fino a febbraio scorso sicuramente. Alcune sono ragazze degli anni passati, altre new entry e poi ci sono soubrette della tv. C' è anche un giro romano. Ma non è mai venuto fuori».
Silvio Berlusconi, Lele Mora sulle cene ad Arcore: "Qual era la sua mania. E ciò che non ha mai osato chiedermi". Libero Quotidiano il 21 luglio 2020. Si racconta. E racconta tutto, Lele Mora, l'ex agente dei vip super-star. Si parte dai cinque anni dai gesuiti e si passa per l'amicizia col cardinale Parolin. Poi il bisnonno, che a Verona aprì il primo locale gay d'Italia. Ovviamente Fabrizio Corona, "molto furbo. Non intelligente, ma brillante. Affetto da smania di protagonismo e bramosia di denaro". E nell'intervista firmata da Stefano Lorenzetto e pubblicata su Italia Oggi, ovviamente, si arriva anche a Silvio Berlusconi. Sul quale snocciola dettagli peculiare e alcune riflessioni: "Berlusconi aveva la mania delle cene tricolori - premette Lele Mora -. Dall'antipasto pomodoro, mozzarella, basilico al gelato pistacchio, limone, fragola. Mai il secondo". Dunque, una battuta sulle celeberrime e mitologiche (soprattutto per i magistrati) cene di Arcore: "Si rideva e si scherzava. Andati via i cortigiani, il re si ritrovava da solo con i suoi soldi. Mi pare umano che cercasse di svagarsi. Ma non si è mai permesso di chiedermi il numero di cellulare di una ragazza", conclude Lele Mora, tratteggiando un ritratto del Cavaliere ben differente rispetto a quello che la magistratura, per anni, ha provato a proporci.
Valerio Palmieri per "Chi" il 13 luglio 2020. Era il primo volto femminile della tv commerciale. Capelli biondi e ricci, voce squillante. Scelta come valletta da Mike Bongiorno fra mille pretendenti, Fabrizia Carminati si impose all'attenzione del pubblico e, di conseguenza, a quella dei giornali. Allora, come oggi, due gossip la presero di mira: quello di una sua storia con Silvio Berlusconi e quello di un flirt con Beppe Grillo, con tanto di foto. «Uno è verissimo, l'altro è falsissimo», ci racconta subito, divertita. L'abbiamo rintracciata a Torino, dove vive con la famiglia ed è la star di PrimAntenna. La Carminati, in tempi non sospetti, è stata vicina a due leader, che dominano la scena politica italiana. «Mi sembra ieri e sono passati un casino di anni, ma vaffanbagno! (ride, ndr). Però, devo dire che la cosa mi emoziona molto, perché sono figlia di un vigile e sono arrivata a conoscere questi due grandi personaggi. Di Silvio sapevo che sarebbe diventato uno degli uomini più importanti d'Italia, mentre Beppe non avrei mai immaginato. Quando l'ho visto sul palco mi sono detta: "Madonna santa, guarda cosa combina!"».
Domanda. Partiamo da Grillo, il più enigmatico.
Risposta. «L'ho conosciuto che era agli esordi come me. Era una persona molto simpatica, disponibile, un ragazzo carino, gentile. Aveva voglia di riuscire, di esplodere, si dava parecchio da fare. Io avevo iniziato a lavorare con Mike, lui era stato lanciato da Pippo Baudo, eravamo due ragazzi come tanti di quel periodo in cui lo spettacolo concedeva grandi opportunità, l'offerta si era raddoppiata, avevamo il futuro in mano e credevamo in quello che facevamo. Beppe è rimasto un po' utopista ma, glielo dico subito, io non l'ho votato. Perché sono sempre stata molto legata all'altro, a Silvio. È uno concreto, un motivatore instancabile: ricordo quando agli inizi, a Cologno Monzese, lavoravamo anche di notte per registrare i programmi da mandare in onda e lui li vedeva in bassa frequenza, pronto a farci rifare tutto se non andava bene».
D. Grillo, per come lo conosce, è attaccato ai soldi?
R. «Lo è come tutti, e poi è genovese (ride, ndr). Ma non credo che faccia politica per arricchirsi, lui è già ricco di suo, lo ha fatto anche perché ha visto l'enorme consenso che lo inseguiva, il suo è stato un megaspettacolo elettorale».
D. Ha recitato una parte?
R. «Beppe crede a quello che dice, non è un cretino».
D. Abbiamo delle foto d'epoca di un suo flirt con Grillo.
R. «Questa "storiella" fu inventata ai tempi dai giornali quando io, Beppe e altri volti della tv eravamo a Giardini-Naxos per il Premio regia televisiva. Non c'è stato niente, giuro».
D. Vi siete frequentati?
R. «Ci siamo visti quella settimana in Sicilia e ci vedevamo nelle varie trasmissioni, ma poi ognuno aveva la sua vita».
D. Che cosa ricorda di quel periodo?
R. «Ricordo proprio quell'episodio, cioè che dicevano che Beppe si era innamorato di me».
D. Ed era vero?
R. «Le ripeto che non è vero nel modo più assoluto, ai tempi avevamo altro per la testa».
D. Il vero flirt, allora, fu con Berlusconi.
R. «Ormai lo sa tutto il mondo (ride, ndr), ma poi lui ha scelto Veronica. La vide per la prima volta a teatro, ci eravamo andati insieme. Fui proprio io a dirgli: "Guarda che bella quell'attrice, alla fine vai a farle i complimenti!". Ho portato fortuna».
D. Tanto lei aveva Mimmo, l'uomo che ora è suo marito.
R. «Sì, e Silvio mi ha apprezzato perché ho scelto l'amore di una vita, un'altra si sarebbe approfittata della situazione».
D. Facciamo un confronto fra i leader: chi è il più sincero?
R. «Sono sinceri tutti e due, ma Grillo sta commettendo dei gravi errori sottraendosi al dovere morale di garantire stabilità al Paese, è capace solo di criticare e di dire no. Per questo in tanti lo hanno votato, per protestare, ma ora deve mettere questo patrimonio di consensi al servizio della politica. Anche per fare le cose giuste che dice, cioè tagliare i costi della "casta", evitare gli sprechi di soldi pubblici: da spettatrice sono curiosa di vedere che cosa farà».
Fabrizia Carminati, le confessioni-terremoto: "Ho avuto una storia con Silvio Berlusconi. E quella volta in cui, con Veronica Lario..." Giovanni Terzi su Libero Quotidiano il 13 luglio 2020. Era l'inverno del 1985 quando venni selezionato per partecipare ad un gioco-quiz su Canale 5. Il nome di quel programma era Help tutto per denaro e a condurlo c'erano Fabrizia Carminati e i Gatti di Vicolo Miracoli. Aspettai quasi venti giorni di registrazioni, ma davanti a me c'era il super campione che vinceva sempre, così che non si aprirono mai le porte del gioco a premi. Disdetta! Così arrivò il Natale e, alla ripresa delle registrazioni, non andai più negli studi di Cologno Monzese per partecipare a quella trasmissione; gli esami in università mi reclamavano. Ma quell'esperienza mi rimase impressa, così come la conduttrice: bergamasca, tosta e spigliata, quella Fabrizia Carminati che improvvisamente era scomparsa dalle reti nazionali.
E così ho chiesto al mio amico Giorgio Restelli il suo numero di telefono perché desideravo intervistarla per conoscere qualcosa in più di lei.
«Non sono abituata a rilasciare interviste perché ho la mia vita più che appagante, ma per Libero accetto perché mi piace molto Vittorio Feltri; dice ciò che pensa ed è bergamasco come me». Così iniziamo la nostra chiacchierata, all'inizio della quale immediatamente porto in dote quel mio ricordo di quella divertentissima trasmissione a cui non riuscii mai a partecipare. «Erano anni meravigliosi ed io sono stata veramente fortunata ad averli vissuti professionalmente».
Ma adesso cosa fa Fabrizia Carminati? Ho un sacco di cose da fare anche se non lavoro, può sembrare una contraddizione ma è così». Mi spieghi.
«Innanzitutto mi occupo di mio marito, che per troppo tempo ho trascurato, e di mio figlio Massimiliano; entrambe le cose mi danno enormi soddisfazioni. Due anni fa ho smesso di lavorare per Primantenna una rete privata, dove facevo un programma di cucina».
Perché ha smesso?
«Gli sponsor iniziavano a mancare ed ho così deciso di chiudere e dedicarmi alla mia famiglia ed a me».
Cosa significa che si dedica a se stessa?
«Vado in palestra e cerco di mantenermi in forma. Alla mia età è importante. Anzi le consiglio questa nuova pratica la "crioterapia (011CRYO)" dove, attraverso l'azoto, si arriva a meno 160 gradi in tre minuti. La faccio tre volte alla settimana e devo dire che è straordinaria. Me l'ha consigliata mio figlio».
Anche lui usa questa questa pratica innovativa?
«Massimiliano ha quarantotto anni ed è un super atleta, fa Triathlon e l'anno scorso è stato Finisher all'Ironman di Cervia con un suo primo ottimo risultato... ed è solo all'inizio. Io e mio marito siamo andati a vederlo».
Mi diceva che gli anni '80 sono stati straordinari. Lei come incominciò?
«Per caso. Facevo la modella perché, nonostante non fossi altissima, ero molto proporzionata. Mi chiamarono, quelli della mia agenzia, per fare da valletta a Zingonia, una località in provincia di Bergamo. Li c'era Mike Buongiorno che presentava e quando mi vide disse "Ma sei americana?". Forse perché ero bionda è piena di efelidi. La serata finì così. Poi, sempre nel 1979, la mia agenzia mi chiamò per dirmi se volevo fare un provino per Canale58. Accettai».
E come andò?
«Andai a Milano 2 e mi accolse Sancrotti, assistente di studio, ero in un piano interrato insieme a trenta bellissime ragazze. Sancrotti entrò e mi disse "Mike Buongiorno vuole te". Rimasi senza parole».
Non se lo aspettava per niente?
«Ero arrivata a Milano 2 con la mia 500 e non avrei mai immaginato di firmare il mio contratto con Silvio Berlusconi».
Fu lui in persona a firmare il contratto?
«Sì. E tengo ancora una copia di quella meravigliosa esperienza».
Ma lei ebbe una relazione con Silvio Berlusconi?
«Assolutamente sì. È un uomo affascinante ed galante. Veniva sempre ad ogni registrazione che facevo e poi ci portava tutti fuori a mangiare allo Sporting di Milano 2 alla sera. Era piacevole, intelligente e si metteva a cantare e suonare al pianoforte. Furono anni irripetibili».
E poi come finì?
«Ad un certo punto dissi che ero innamorata di un uomo (oggi il mio marito) e così una sera mi portò a vedere al Teatro Manzoni di Milano. In quella occasione c'era una bellissima donna come protagonista che di nome faceva Veronica Lario».
La futura moglie?
«Alla fine dello spettacolo dissi a Berlusconi di andare in camerino a complimentarsi con l'attrice protagonista e lui naturalmente lo fece».
Possiamo dire che fu lei Fabrizia a gettarlo tra le braccia della futura Berlusconi?
«Non abbiamo la prova contraria e comunque quella sera andò dalla Lario».
E lei, Fabrizia?
«Io il 15 dicembre 1990 mi sposai con Mimmo ... non le dice niente questa data?». No, perché? «Perché sempre il 15 dicembre del 1990 si sposò anche Berlusconi con Veronica. Senza dircelo ci siamo sposati nello stesso momento e lui fece un gesto davvero affettuoso».
Quale?
«Il giorno dopo mi arrivò un telegramma con scritto "Scusa il ritardo, ma ero quel giorno molto impegnato anche io", firmato Silvio».
Parla di Berlusconi con grande amore.
«Certo, se ho una relazione è perché c'è amore, di lui ho un bellissimo ricordo».
Lei ha lavorato con tanti grandi partendo da Mike Bongiorno. Che rapporto avevate?
«Lo devo ringraziare perché mi ha insegnato la professione. Ho imparato tutto da lui. Umanamente non abbiamo mai avuto rapporti di amicizia».
E con Dorelli, Scotti, Columbro?
«Con Marco Columbro forse ho mantenuto un minimo di amicizia. Con tutti gli altri ho sempre tenuto separata la mia vita provata da quella pubblica. Anche con i Gatti di Vicolo Miracoli si lavorava benissimo ma poi io scappavo da mio figlio. A vent' anni ero già mamma ...».
Oltre che a Mediaset lavorò anche in Rai?
«Sì, con Raffaella Carrà nel 1990, la trasmissione era Venerdì, sabato, domenica Raffaella».
Come si trovò?
«La Carrà è una primadonna e da star si è sempre comportata anche con me. Commentava gli abiti che indossavo e se, per caso, la mia gonna era più corta della sua mi faceva cambiare».
Poi improvvisamente lei scomparì dalle scene televisive. Come mai?
«Non l'ho mai capito! Iniziavo a chiamare la Ruffini e altre persone di Mediaset ma tutte mi rispondevano nello stesso modo...».
E come?
«Non ci sono programmi... Allora iniziarono a chiamarmi per qualche ospitata ma a parte Il gioco dei nove ho preferito uscire dalle scene».
Ha sofferto per questo?
«Se non mi è venuto un esaurimento nervoso in due anni è olo perché amo la vita e la mia famiglia mi è stata sempre accanto. Però penso che la mia storia sia simile a tante altre nel mondo dello spettacolo».
Da ilfattoquotidiano.it il 23 gennaio 2020. Silvio Berlusconi è in Calabria per tirare la volata alla candidata del centrodestra, Jole Santelli, in vista delle Regionali. Questa mattina, a Tropea, ha presentato dal palco la deputata cosentina di Forza Italia con una delle consuete battute a sfondo sessuale: “Alla mia sinistra c’è una signora, Jole Santelli. L’ha conosco da 26 anni, non me l’ha mai data”.
Adelaide Pierucci per “il Messaggero” il 29 aprile 2020. Da Signorina Buonasera, amata dagli italiani, a stalker indefessa. La parabola della vita di Virginia Sanjust di Teulada, conduttrice tv e figlia d’arte, indicata anni fa come presunta amica del cuore di Silvio Berlusconi, tocca uno dei punti più dolorosi. Da qualche giorno l’ex presentatrice romana, di casa a PonteMilvio, è finita agli arresti domiciliari in una casa di cura. Sopraffatta da un disagio psicologico ha perseguitato per mesi una ex fiamma, un quarantenne come lei che dopo qualche giorno d’intesa ha preferito non avviare una relazione. Un rifiuto che la Sanjust avrebbe ripagato, appunto, con molestie e persecuzioni: da pedinamenti a intrusioni in casa, conditi con minacce e dall’ossessione di suonare a ripetizione il campanello di casa di lui.
L’OSSESSIONE. Più di sei mesi di tormenti che alla fine hanno spinto l’uomo a denunciare l’innamorata respinta. Gli episodi più gravi, ricostruiti a piazzale Clodio, risalgono a un anno fa, i primi di maggio. L’ex annunciatrice Rai forza una finestra, e in assenza del padrone di casa, si piazza in salone. «Punta su una convivenza con la forza», denuncia lui, «E’ instabile». Passano pochi giorni e l’uomo viene schiaffeggiato. A settembre scene analoghe. L’allontanamento da casa non basta: Virginia Sanjust di Teulada utilizzando un vaso di terracotta infrange la finestra e rientra in casa dell’uomo. A dicembre la strategia si affina. Pochi giorni prima di Natale induce i vigili del fuoco a fare un intervento per rientrare nell’appartamento (che però si rivela appunto non il suo). Serviranno poi altre forze dell’ordine per allontanarla. Lo scorso fine gennaio altra aggressione. L’ex presentatrice si intrufola di nuovo nell’appartamento e cerca di allontanare lui. «Se vuoi vattene tu. Non ne posso più». Tra scampanelii, pedinamenti, tentativi di irruzione i blitz della Sanjust si sarebbero prolungati fino a un paio di mesi fa.
L’EPILOGO. La perizia disposta dai magistrati esclude l’incapacità della donna, figlia dell’attrice Antonella Interlenghi e del nobile sardo Giovanni Sanjust di Teulada, ma ne evidenzia le fragilità. Così gli arresti domiciliari in casa di cura, per i reati di stalking e violazione di domicilio, è stato applicato su richiesta del pm Antonio Verdi.
4 giugno 2009 – Donatella Briganti per Oggi……Eh sì, Virginia conosce bene Berlusconi. Era stata proprio lei ad annunciare un discorso del premier a reti unificate. Lui era rimasto colpito al punto da mandarle un mazzo di fiori con un bigliettino: «Un debutto a reti unificate: evviva e complimenti!». Lei aveva telefonato per ringraziare e da lì la loro «affinità elettiva» era proseguita. Lui l'aveva anche invitata a colazione a Palazzo Chigi. «È vero», ammette, ma senza aggiungere altro. Si erano comunque frequentati per tutti i mesi in cui lei lavorava in Rai. Si sentivano, si vedevano, e pare che lui si aprisse molto con lei. «Mi ha anche insegnato molto, ma il nostro è rimasto, tutto sommato, un rapporto superficiale. Niente di significativo, diciamo così». Ma il suo ex marito, Federico Armati, come viveva questo rapporto? «Mi diceva: dai che così svoltiamo. Per lui era un'occasione da non perdere. Anche lui è un po' troppo materialista. Poi, nel tempo, ha cominciato a crearmi seri problemi, a fare denunce, fino a farmi togliere l'affido di mio figlio. Che è la cosa peggiore che mi potesse capitare». Nei confronti dell'ex marito dice di provare sempre un senso di protezione materna, senza nemmeno sapere il perché. Di Berlusconi parla invece come di un amico che ha bisogno di aiuto. «Lui ora è in grande difficoltà. È circondato da persone che dimostrano una falsa riverenza verso il potere. Attorno a lui c'è un ambiente troppo ruffiano. Lui, invece, ha un grande cuore, un equilibrio fuori dal comune e sa essere molto paterno come era stato con me. Quando mi telefonava mi raccontava tutto quello che stava facendo, mi chiedeva se avevo bisogno di qualcosa, era molto gentile. Ma senza mai andare oltre. "Potrei essere tuo nonno" mi diceva. Io sono sicura di averlo aiutato, anche se l'impatto con il suo mondo poi mi ha fatto male. Lui è vittima della sua troppa intelligenza, vorrebbe farcela e lotta con tutto se stesso per riuscirci. Ma ha sempre ricevuto troppi attacchi, anche dalla medicina che lo convince della necessità di curare all'estremo la sua immagine. È circondato da persone peggiori di lui, questo è il problema. E non ha il tempo nemmeno di rendersene conto. Così, purtroppo, non emergono le sue vere qualità». Aggiunge: «Io invito il presidente a ritrovare se stesso e la fede. Perché proprio una delle prime cose che mi disse era questa. "Sai Virginia", mi confidò da subito, "io ho un po' perso la fede". Per forza, sei attorniato da un mare di vampiri che vogliono sempre qualcosa in cambio o vogliono solo i tuoi soldi! Ci credo che te ne allontani. Forse dovrebbe ammettere di aver sbagliato, di essersi fatto travolgere dal potere dei soldi. Ma alla sua età, dopo una vita, è molto più difficile». L'ex marito di Virginia aveva testimoniato delle lunghe telefonate, dei regali e degli appuntamenti della sua ex moglie con il presidente. «Non ho letto il libro Intrigo di Stato, dove ho capito c'è lo zampino del mio ex marito. Ma in ogni caso lui ha esagerato e io ho fatto anche cinque denunce nei suoi confronti». Sembra non avere peli sulla lingua. Si vede, però, che preferisce parlare di ciò che è spirituale. «Io mi sento vecchia, anzitempo», dice piano guardandosi e accarezzandosi il braccio. «Tutto quello che ho passato mi ha fatto invecchiare. Adesso non penso che alla mia anima. Ho già dato per ciò che riguarda il carnale. Ho vissuto il sesso e per me è ormai è passato, è solo un ricordo. Il mio corpo adesso è un oracolo, un altare sacro. È molto più importante l'amore platonico, come quello che avevo per Berlusconi. Posso fare una provocazione? Berlusconi è l'uomo più impotente del mondo. È Ratu Bagus, invece, quello più potente. Perché il potere che ha il presidente è un falso potere se non accompagnato dalla fede. Quello spirituale, divino, è il potere vero. Quello che ha Ratu Bagus, che mi insegna a comunicare proprio con il divino. Dove non ci sono soldi, non c'è sfarzo, dove non c'è lusso, non c'è la bella vita ma la buona vita. Quella vera».
Silvio Berlusconi, Eva Robin's a la confessione: "Cosa c'era in ogni suo bagno ad Arcore". Libero Quotidiano il 31 Gennaio 2020. Parole clamorose, pesantissime, quelle pronunciate da Eva Robin's a La Confessione, il programma di Peter Gomez in onda sul Nove. Nella puntata di venerdì 31 gennaio, l'artista bolognese si spende su Silvio Berlusconi. E afferma: "Mi dispiace che Berlusconi abbia avuto a che fare con delle dilettanti, come tutte quelle di cui si è circondato e che lo hanno sputtanato". La Robin's ammette di non conoscere di persona il leader di Forza Italia, ma lo considera "troppo simpatico". La conoscenza, semmai, arriva da parte di alcune sue frequentazioni: "Ho delle amiche transessuali che sono state in villa da lui e che mi hanno detto che è veramente un uomo d'altri tempi, molto galante, come non ne esistono più". Perché mai amico di altri tempi? Presto detto, ecco alcuni esempi: "Le mie amiche mi hanno detto solo che in ogni bagno c'era un fondotinta... e non era per le ragazze”, rivela. E ancora: "Ha fatto tanto bene a queste ragazze, irriconoscenti per altro", conclude Eva Robin's.
Benedetta Paravia per “la Stampa” il 29 marzo 2020. Apro il portone, lei è di fronte. Non un filo di trucco. Ci salutiamo con naturalezza, come se ci fossimo viste ogni giorno per una vita, ma non è così: l' ultima volta è stata cinque anni fa in un ristorante chiacchierato di Via Giulia dove lei era spesso ospite gradita del proprietario. Proprio in quel ristorante mi raccontò di aver abbracciato l' Islam, dopo tante peripezie, e mi parlò della necessità di amare il prossimo incondizionatamente e di non addossare agli altri la responsabilità dei propri errori. Svoltiamo l' angolo e ci sediamo in un locale del centro di questa Roma decadente, ma che lei ama tanto. Penso a come faccia ad amare una Roma ridotta a brandelli dopo averne vissuto la versione dei fasti smisurati. Scopro il perché fin da subito, parlandole. Sabina Beganovi, Began per molti, "Ape regina" per altri, oggi vive in giro per il mondo. È ormai completamente distaccata dalla materia e dal proprio ego. «È il tuo ego che ti dice che sei bella, o che sei brutta, o che stai invecchiando o che sei troppo magra o grassa. È sempre l' ego che ti fa credere di aver bisogno di soldi, o di più soldi, o di un uomo accanto, o di una bella macchina, o di gioielli. L' ego ti fa offendere, ti fa inorgoglire: è lui il vero demone. Il nostro più grande nemico. Dobbiamo combatterlo sempre. Deve stare zitto!», mi dice. È una sufista, dell' ordine del Gran Maestro mistico Naqshbandi. Il sufismo è il ramo spirituale dell' Islam. Prega prestissimo al mattino, dopo le abluzioni, prega cinque volte al giorno ma se può anche di più. In realtà prega in ogni momento possibile, anche prima di bere la sua centrifuga di cavolo dice: «Bismillah» («nel nome di Dio»). Mi racconta che le sembra di aver vissuto un' altra vita quando, imbottita di ormoni, tornò dalla clinica di Madrid dal "suo" Silvio a Roma, dopo aver perduto il loro bimbo. Volevano un figlio insieme, ma lei era ormai stanca e spossata dalle cure per la fecondazione assistita. Lui le disse di riposarsi per qualche mese e di riprovare in seguito, ma Dio si "interpose" tra loro, o forse proprio Silvio e l' amore per lui, durato ben nove anni, la prepararono a Dio. Partì per la Thailandia, a quel tempo era buddista e provetta contorsionista dello yoga. Andò a trovare la sua amica principessa thailandese e rimase lì fino a quando il capo guardie del palazzo le diede in dono un Corano per sua madre. I genitori di Sabina sono infatti entrambi musulmani. Sabina comincia a pensare a quel libro. Torna da Silvio ma poi ecco la gran decisione: andrà a studiare il Corano a Sarajevo. Quel giorno Silvio l' accompagna all' ascensore e prima di chiudere la porta le dà uno schiaffo, poi le fa segno «Ok» con la mano. È l' ultima volta che lo vede. «Non ho mai compreso il perché di quell' Ok», afferma ridendo. «Silvio non ha mai ostacolato il mio amore crescente per Dio, mi ha sempre detto di saper bene quanto fossi spirituale, nel bene e nel male. Prima ero una furia, mi arrabbiavo tantissimo, lo minacciavo e gli gridavo le cose più atroci. Ad un tratto mi guardava, senza scomporsi, dicendomi che tutta quella passione gli piaceva tanto - ed io crollavo. Mi ha sempre saputa prendere, lui». Era un' altra vita, un' altra Sabina. Per depurarsi da quel periodo di eccessi, dalle invidie di innumerevoli concubine bramanti di un attimo al sole, da quel periodo di glorie, di dolori, di alti e bassi tipici di chi frequenta una corte del potere, Sabina ha affrontato quattro anni di preghiera ed isolamento. «Se oggi sono così è solo perché ho saputo stare da sola tanto tempo, ci vuole forza per trovarsi con sé stessi in buona compagnia». Conosco Sabina da quando avevo 18 anni, ero fidanzata con il fratello del suo compagno di allora. Quando questo suo compagno, un bellissimo principe della nobiltà romana morì anni dopo che si erano lasciati, lei era l' unica a piangere in silenzio nella stanza adiacente alla bara, nel giorno del funerale a Pratica di Mare. Unica, tra le ex fidanzate del principe, ad essersi presentata nel dolore. Non vidi Anna, né Elenoire né altre che grazie al principe erano state a turno sulle copertine di molti settimanali. C' era una certa Angelica che rideva. Ricordo bene quella Sabina di "un' altra vita" che piangeva silente in un salone da sola. Prima di cenare mi chiede scusa e si alza, va a pregare e ritorna. In quel momento penso a questo racconto, la sua vera storia merita di essere raccontata. Quando andiamo via il proprietario ha lasciato disposizioni affinché il conto non le sia portato. Lei mi dice: «Sono due giorni che mi offre colazioni e pranzi, stasera non posso permettere che lo faccia di nuovo». Provo a offrire io ma me lo impedisce. Sabina è cambiata, ma la gente intorno a lei fa sempre a gara per ospitarla. Domani mattina torna in treno da sua madre in Germania con tre valigie.
Repubblica.it il 13 febbraio 2020. Il pubblico ministero di Siena Valentina Magnini ha chiesto 4 anni e 2 mesi di reclusione per Silvio Berlusconi, che è imputato per corruzione in atti giudiziari nell'ambito del processo Ruby ter in corso nella città toscana. L'accusa ritiene che Berlusconi abbia pagato un pianista senese, Danilo Mariani, per spingerlo a fare falsa testimonianza sul caso Olgettine. Anche Mariani è a processo e per lui la richiesta è di 4 anni e 6 mesi di reclusione, anche per il reato di falsa testimonianza oltre a quello di corruzione in atti giudiziari. I difensori di Berlusconi sono gli avvocati Federico Cecconi ed Enrico De Martino, il giudice è giudice Ottavio Mosti. Questo stralcio del processo Olgettine era stato trasferito a Siena per decisione dal gup di Milano nell'aprile 2016. Il filone principale resta nel capoluogo lombardo mentre altre posizioni, con sempre l'ex premier imputato, sono state trasferite a Torino, Pescara, Treviso, Roma e Monza.
Da ilfattoquotidiano.it il 17 febbraio 2020. Su conti esteri, tra Lugano e Francoforte, riconducibili a Luca Risso, l’ex compagno di Ruby, sarebbero transitati, tra il 2013 e il 2014, oltre 400mila euro. Di questi, circa 300mila euro, stando ad un’indicazione “manoscritta” dello stesso Risso, sarebbero dovuti arrivare ad una filiale di una banca a Playa del Carmen in Messico. Così un’investigatrice di polizia giudiziaria, testimoniando in aula nel processo milanese ‘Ruby ter‘ a carico di Silvio Berlusconi e altri 28 imputati, ha riassunto l’esito di alcune rogatorie effettuate nelle indagini e i cui contenuti erano già emersi nei mesi scorsi. Nel corso della sua deposizione la testimone di polizia giudiziaria ha parlato di molti altri dettagli dell’inchiesta già emersi come, ad esempio, un messaggio rintracciato nei telefoni sequestrati nel quale Risso diceva “mia figlia deve crescere bene, non con una che sa solo spendere soldi sputtano tutto”. L’investigatrice ha dato conto anche di “una serie di chiamate” in quel periodo “dal numero di Risso a quello di villa San Martino“, ossia la residenza dell’ex premier. L’ufficiale di polizia giudiziaria ha parlato di due bonifici da 25mila e 20mila euro partiti da Genova e arrivati su un conto di Francoforte riconducibile a Risso e di “altri due bonifici” verso la Germania partiti da un conto svizzero, “aperto nel marzo 2011”, dell’ex compagno di Karima, uno da 300mila euro e l’altro da 60mila euro. Poco prima l’investigatrice aveva anche ricostruito i “viaggi tra il Messico e Dubai” di Ruby, Risso e dei familiari di quest’ultimo. Il 10 dicembre 2012, ad esempio, Karima avrebbe dovuto testimoniare nel processo milanese sul caso Ruby a carico di Berlusconi (poi finito con un’assoluzione definitiva), ma la ragazza assieme all’allora compagno e ai genitori di quest’ultimo “era partita per il Messico il primo dicembre”. Il teste ha citato, tra gli altri, anche un messaggio nel quale la madre di Risso diceva al padre “fai quello che devi e vieni via”. Secondo le indagini del procuratore aggiunto Tiziana Siciliano e del pm Luca Gaglio, infatti, parte dei milioni di euro intascati dalla marocchina per stare zitta sarebbe servita per l’acquisto di un ristorante con annesso pastificio e di due edifici con mini-alloggi per operatori del settore turistico a Playa del Carmen. Attraverso una rogatoria in Messico, tra l’altro, gli investigatori hanno accertato “la costituzione di una società” a nome di Risso, Ruby e altre due persone. Il testimone ha ricordato, poi, un altro dettaglio emerso nell’inchiesta, ossia una lettera firmata da Risso e trovata su un suo pc in cui l’uomo si rivolgeva al “presidente” Berlusconi. E ancora una “dichiarazione di debito” del marzo 2014 nella quale Karima avrebbe fatto riferimento ad un prestito a favore del suo compagno di 160mila euro. In quel periodo, ha spiegato la teste, Ruby si lamentava con la famiglia di Risso dicendo “non sono una mucca da mungere”. Tra gli elementi ricostruiti nella testimonianza dell’agente anche un contratto di consulenza da 75mila euro per Marysthell Polanco, “secondo il quale lei avrebbe dovuto fare consulenze sulla produzione di programmi su Milan Channel”. Tuttavia, “non è stata trovata documentazione sulle prestazioni effettuate”. Lei, come altre olgettine, secondo i pm, sarebbe stata pagata da Berlusconi per il silenzio sulle serate ad Arcore.
Da corriere.it il 13 gennaio 2020. Ad Arcore in «una stanza buia a turno le ragazze “cavalcavano” il presidente». Così Francesco Chiesa Soprani, agente dello spettacolo, ha raccontato in aula nel processo milanese «Ruby ter» (per corruzione in atti giudiziari a carico, tra gli altri, dell’ex premier Silvio Berlusconi) le confidenze che dice di aver raccolto soprattutto da Barbara Guerra, ma anche da altre «Olgettine» sui presunti rapporti sessuali tra Berlusconi e le giovani, spiegando anche che le giovani venivano «remunerate per mentire nei processi». Secondo la testimonianza di Chiesa Soprani ai giudici della settima sezione penale del Tribunale di Milano, anche Ruby, Karima El Mahroug, gli disse di aver avuto rapporti sessuali con l’allora premier. Chiesa Soprani ha riferito in aula che Marysthell Polanco, imputata per corruzione in atti giudiziari, «vuole venire a dire la verità». «All’epoca, lei mi spiegò che veniva pagata mensilmente, che non aveva chiesto altro e le andava bene così. Non mi va di dire che anche lei mi parlò di avere rapporti sessuali con Berlusconi perché non lo ricordo, ma è molto probabile che fosse così. Di recente — ha spiegato — ho parlato con lei di Imane Fadil (la teste dell’accusa morta per una malattia rara, ndr), voleva che anche io, come lei, andassi ospite alla trasmissione di Giletti. Mi ha detto, anche attraverso diversi vocali di WhatsApp, che sta bene con la sua vita e che dirà la verità quando verrà in aula, cioè che era stata pagata e che sapeva dei rapporti sessuali durante quelle cene e che venivano pagati soldi, case e altro. Abbiamo parlato della mia testimonianza e convenuto che abbiamo le stesse idee».
Ruby Ter, un teste in aula: "Berlusconi aveva rapporti a turno con le ragazze in una stanza buia". L'agente dello spettacolo Chiesa Soprani al processo riferisce le presunte confidenze di Barbara Guerra e di altre ragazze coinvolte nelle "cene eleganti" di Arcore. I giudici: "Dichiarazioni autoindizianti". La Repubblica il 13 gennaio 2020. Ad Arcore in "una stanza buia a turno le ragazze 'incontravano' il presidente": così Francesco Chiesa Soprani, agente dello spettacolo, ha raccontato in aula nel processo milanese 'Ruby ter' le confidenze soprattutto di Barbara Guerra, ma anche di altre olgettine sui rapporti sessuali tra Silvio Berlusconi e le giovani, spiegando anche che queste ultime, aveva saputo, venivano "remunerate per mentire nei processi". Seconda la testimonianza di Chiesa Soprani, anche Ruby gli disse che aveva avuto rapporti con l'allora premier. Parole, quelle dell'agente dello spettacolo, che hanno portato i giudici a decidere di affiancargli un avvocato durante la deposizione, visto che alcune parti sarebbero "autoindizianti".
Il processo per le cene eleganti di Berlusconi: le rivelazioni dell'agente di spettacolo. Sul banco dei testi, infatti, nel processo a carico di Berlusconi e di altri 28 imputati, e con al centro i versamenti alle olgettine per il silenzio o la reticenza negli altri due procedimenti sul caso Ruby, è salito Chiesa Soprani, già sentito nelle indagini e più volte intervistato sulla vicenda delle cene ad Arcore, anche perché fu l'agente di alcune delle ragazze ospiti a villa San Martino e ha conosciuto nel suo lavoro anche Lele Mora, Emilio Fede e Fabrizio Corona. Guerra, ha raccontato il testimone rispondendo alle domande del pm Luca Gaglio, "mi disse di aver partecipato a queste cene, mi ha parlato di rapporti sessuali con Berlusconi e di essere stata pagata per non dire la verità sul sesso e poi di rapporti a turno in una stanza buia, perché lui forse non voleva farsi vedere".
Le olgettine e Berlusconi: i racconti delle soubrette. E ancora: "Mi disse la Trevaini (anche lei imputata, ndr) ha preso 1,8 milioni, la Minetti 5 milioni' e quindi lei voleva più soldi di quei 2.500 euro al mese che riceveva e avrebbe chiesto tramite un avvocato 500mila euro più una casa e c'era stata la disponibilità di Berlusconi, ma poi non so se li abbia ricevuti". Quando Guerra ("venne messa al reality 'la Fattoria' su decisione di Berlusconi") gli faceva queste confidenze "poco prima del 2013", c'era anche Alessandra Sorcinelli, anche lei imputata per falsa testimonianza e corruzione in atti giudiziari, "che ascoltava e confermava".
"Soldi e case per mentire sugli incontri con Silvio Berlusconi". Il teste, che fu anche arrestato e poi prosciolto nel caso Vallettopoli nel 2007, ha spiegato ancora di aver raccolto racconti di questo tenore anche da "Cinzia Molena e Nadia Macrì". E ha aggiunto: "Non mi fu mai detto di orge o minorenni, ma di rapporti sessuali". Ha spiegato ancora, poi, di aver parlato, anche dopo la morte di Imane Fadil, con Marysthell Polanco: "Mi ha detto 'dirò la verità sui rapporti sessuali nelle cene e che venivamo pagate per mentire con soldi e case', non so se cambierà idea (anche lei è imputata, ndr)". Poi, le "due occasioni" in cui avrebbe incontrato Ruby ("di lei se ne occupava Mora e Berlusconi la manteneva") quando era ancora minorenne, non lontano dall'ufficio di Mora. "Anche lei mi disse di avere fatto sesso 'col Presidente', io sapevo già che le gemelle Ferrera e altre ragazze erano amanti del presidente e quindi non mi stupivo". E dei rapporti tra Ruby e il leader di FI avrebbe avuto conferma "anche da Corona". Trevaini, infine, stando sempre alla versione di Chiesa Soprani, gli disse che "sapeva che in quelle cene c'erano rapporti sessuali e che proprio di conseguenza faceva la giornalista, ossia per questo aveva avuto un contratto".
Processo Ruby Ter, le dichiarazioni su Berlusconi. Ma le parole di Chiesa Soprani potrebbero avere conseguenze: "Dichiarazioni autoindizianti, per le quali potrebbero sorgere problemi su eventuali responsabilità penali del teste". E' così che il presidente del collegio della settima penale di Milano, Marco Tremolada, ha definito un passaggio della testimonianza dell'agente. In particolare, per il punto della deposizione in cui il testimone ha detto di aver chiesto ad un avvocato, in passato, di poter "collaborare" con Mediaset, visto che lui era a conoscenza di ciò che accadeva nelle serate ad Arcore. I giudici, dunque, decidendo sulla questione posta dalla difesa di Silvio Berlusconi, con l'avvocato Federico Cecconi, hanno deciso di far proseguire la deposizione del testimone, affiancandogli, però, un legale (ossia da teste 'assistito'). A quell'avvocato che, a suo dire, avrebbe incontrato dopo un precedente colloquio anche con Emilio Fede, Chiesa Soprani, stando alla sua deposizione, avrebbe detto: "Parlai del fatto che conoscevo le 'meteorine', le storie che coinvolgevano Berlusconi, sapevo che queste ragazze erano quelle di cui pagava il silenzio con 2.500 euro e gli dissi 'mi piacerebbe collaborare con Mediaset, a livello autorale'. Non mi interessava un compenso economico, ma un aiuto professionale, fui congedato con una stretta di mano". E ancora: "Io mi sentivo preso in giro, visto che non temono quello che ho da dire, pensai, lo faccio io. Quindi, andai a fissare un appuntamento con la Boccassini, le mandai una mail, ma cadde nel vuoto". Proprio per queste dichiarazioni, che potrebbero presentare profili di istigazione alla corruzione o tentata estorsione, la deposizione è proseguita con l'assistenza di un legale. In particolare, dal controesame della difesa di Berlusconi, è emerso che Chiesa Soprani in passato è stato condannato per bancarotta fraudolenta per la sua attività di manager di personaggi della tv. "Ora ho un'altra vita", ha detto il teste, che in passato era già stato intervistato diverse volte sulle serate a villa San Martino.
(ANSA il 20 gennaio 2020) - Buste con soldi che passavano dall'avvocato Luca Giuliante, ex legale di Ruby e tra gli imputati nel processo “Ruby ter”, alla stessa Karima El Mahroug. E' il centro della testimonianza resa stamani nel dibattimento che vede tra i 29 imputati Silvio Berlusconi, accusato di corruzione in atti giudiziari, da un peruviano, custode di un palazzo a Milano in cui aveva lo studio il professionista. Il teste ha raccontato, rispondendo alle domande dell'aggiunto Tiziana Siciliano, di aver portato queste "buste", che gli aveva affidato l'avvocato Giuliante, due volte nel 2014, una volta alla stessa Karima e un'altra ad un amico di lei, sempre su indicazione di Ruby. "Una volta - ha spiegato - mi sembra che Giuliante mi abbia detto 'fai attenzione che ci sono soldi'". Ha detto anche di essere stato pagato per questo servizio "150 euro" e che in una delle due volte non gli era stato detto che ci fosse denaro dentro. Il portinaio ci ha tenuto a dire ai giudici: "Non ha fatto nulla di male, ringrazio questo Paese che mi ha dato tutto". "Prima mi chiamava lei, Ruby - ha chiarito il teste - e mi diceva di andare da Luca (Giuliante, ndr) a prendere delle buste per portarle a Genova da lei. L'avvocato mi consegnava la busta e io non mi sono mai permesso di chiedere cosa ci fosse dentro". Il procuratore aggiunto Tiziana Siciliano ha letto, però, alcuni messaggi WhatsApp dell'ottobre 2014 nei quali il portinaio parlava con Ruby, per tre giorni consecutivi, ed entrambi facevano riferimento ad una busta con "soldi". "Lei era diventata un po' pesante, perché pensava che io lavorassi per lei", ha aggiunto l'uomo, che ha spiegato, invece, di essere amico dell'avvocato Giuliante, anche lui accusato dai pm di corruzione in atti giudiziari, perché avrebbe fatto, secondo l'accusa, da intermediario nelle consegne di denaro da Berlusconi alla ragazza, il cui 'silenzio' sulle serate ad Arcore sarebbe stato pagato dal leader di FI, così come quello di altre 'olgettine'. Il testimone, in una fase della sua deposizione, si è commosso e ha voluto anche dire direttamente ai giudici della settima penale: "Io sono in un Paese che mi ha dato tutto, non sono abituato a queste cose, non ho fatto niente di male".
Leggo.it il 20 gennaio 2020. In tribunale ha testimoniato una giornalista inglese, Hannah Roberts, che nel 2013 ebbe due incontri con Marysthell Polanco: dopo quegli incontri pubblicò un articolo sul Mail Online. La showgirl dominicana, ha raccontato la testimone, «mi disse che Ruby aveva preso 6 milioni di euro da Berlusconi, che le aveva comprato anche una casa in Messico». La giornalista, sempre riferendo i racconti di Polanco, ha inoltre detto che Nicole Minetti avrebbe ricevuto da Berlusconi «un milione di dollari». La Roberts, rispondendo alle domande dell'aggiunto Tiziana Siciliano e del pm Luca Gaglio, ha riferito in aula ciò che le avrebbe detto Polanco in quei due colloqui nel gennaio del 2013, uno dei quali è stato anche registrato dalla cronista (l'audio è depositato agli atti del processo a Berlusconi e altri 28 imputati). E ha parlato, dunque, non solo dei soldi che avrebbero ricevuto Ruby e altre ragazze, ma anche della «formazione», ossia del «coaching», delle «istruzioni» che le 'olgettine' avrebbero ricevuto dagli «avvocati» del leader di FI per «non dire la verità nei processi» sulle serate a villa San Martino. «Polanco disse che Ghedini era il 'coach'», ha aggiunto la cronista, facendo riferimento allo storico legale dell'ex Cavaliere (la sua posizione è stata archiviata in fase di indagine). Stando alla deposizione, Polanco avrebbe riferito alla giornalista che l'ex premier «diede a Minetti un milione di dollari, in particolare il padre di Minetti era andato a casa di Berlusconi e aveva chiesto quei soldi e li aveva ricevuti». Minetti, stando alla versione di Polanco, «voleva continuare a fare politica, ma Berlusconi non voleva e dunque aveva chiesto quei soldi, anche perché lei sapeva la verità» sulle cene di Arcore. La stessa dominicana, poi, le ha parlato dei «6 milioni» a Ruby, «Ruby stessa credo che lo disse a Polanco, credo, non ricordo bene». Polanco, tra l'altro, le avrebbe raccontato anche che «Berlusconi scherzando le diceva 'io sono Satana', perché non dormiva molto, penso fosse per quello».
"PIERSILVIO NON VOLEVA LE OLGETTINE A MEDIASET". Ma oltre ai soldi a Ruby e Nicole Minetti, la Roberts parlando di Marysthell Polanco ha raccontato anche altro: la showgirl, ha detto la giornalista, «mi ha detto che il figlio di Berlusconi», ossia Pier Silvio, «non voleva che lei e le altre ragazze», coinvolte nello scandalo delle serate ad Arcore, «lavorassero a Mediaset». La stessa Polanco, infatti, le avrebbe riferito che «aveva un contratto con Mediaset, però non lavorava». E ancora: «Mi ha detto che lei sapeva dei rapporti sessuali di Ruby minorenne con Berlusconi, ma non sapeva se lui fosse a conoscenza della sua minore età».
POLANCO AVEVA CHIESTO 2 MILIONI. Nel «gruppo», sempre stando alla versione di Polanco riferita dalla cronista, «c'era anche un'altra minorenne, Iris Berardi». Il leader di FI, dopo lo scoppio dello scandalo, «aveva provveduto a far portare Iris in un luogo segreto, perché non avesse contatti con altre persone». La cronista ha spiegato davanti ai giudici che Polanco per un'intervista video aveva chiesto 2 milioni di euro, ma il Mail Online le avrebbe dato al massimo 30mila euro e, dunque, l'ex showgirl aveva rifiutato. La giornalista registrò comunque i colloqui, all'insaputa di Polanco, e pubblicò l'articolo, non nel 2013, ma nel 2015, due anni dopo, quando l'ex soubrette iniziò a dichiarare pubblicamente che avrebbe detto la «verità» sul «bunga-bunga».
IL VIDEO SU BALOTELLI. La «verità» di Polanco, ha specificato Roberts, era, in sostanza, il fatto che lei e le altre ragazze avevano detto il falso nei processi sul caso Ruby, parlando di «cene eleganti», e che per fare questo «erano state formate, istruite dagli avvocati di Berlusconi, in tre occasioni», anche a casa dell'ex premier. Polanco e la brasiliana Iris Berardi avrebbero avuto una «formazione maggiore, speciale» rispetto alle altre perché «Iris era minorenne e Polanco sapeva più cose». La dominicana avrebbe anche riferito alla cronista che «avevano le domande che sarebbero state poste nei processi e avevano anche le risposte» che avrebbero dovuto dare. La stessa Polanco le ha detto che «lei e Ruby avevano una stanza assieme ad Arcore, che condividevano» e che l'ex showgirl ad un certo punto «voleva vendere anche un video che aveva fatto a Berlusconi, in cui lui parlava male, con parole razziste di Balotelli». Il video è agli atti del procedimento.
(ANSA il 3 febbraio 2020) - Luca Risso, ex compagno di Ruby, "mi disse che l'operazione per incassare 3 o 4 milioni con lei era riuscita, la cifra finale ricevuta era sui 3 milioni" e con quei soldi arrivati "da Berlusconi" andò a "vivere in Messico" con lei e là fecero "investimenti immobiliari". Lo ha raccontato nel processo Ruby ter, a carico dell'ex premier ed altri, Antonio Matera, ex socio di Risso nella gestione della discoteca Albikokka a Genova. "Risso - ha detto - era innamorato dei soldi, gli interessava Ruby perché gli avrebbe portato soldi". Risso, ha raccontato il testimone coinvolto in un procedimento per bancarotta riguardante proprio la gestione della discoteca genovese, "mi diceva che sperava di recuperare dei soldi per andare a vivere in Sud America, diceva 'così non faccio niente, me ne sto tranquillo'". Secondo Matera, "Risso sapeva benissimo che Ruby era minorenne, si faceva forte di questo, perché così sarebbe riuscito a prendere i soldi della operazione con Ruby, operazione che gli riuscì perché si trasferirono in Messico". Parte del denaro incassato da Karima El Mahroug e dall'allora compagno, infatti, secondo i pm, sarebbe servito anche per l'acquisto di un ristorante con annesso pastificio e due edifici con mini-alloggi per operatori del settore turistico a Playa del Carmen, in Messico. Il teste ha raccontato che Risso gli aveva parlato di "3-4 milioni di euro da prendere, poi che la cifra finale fu di 3 milioni, prese soldi un po' alla volta, una parte subito e gli altri dilazionati". Sempre secondo la deposizione, Risso gli avrebbe detto che Luca Giuliante, all'epoca legale di Ruby, faceva da "tramite" per i soldi che arrivavano "da Berlusconi", "sempre nell'operazione dei 3 milioni". Risso gli raccontava ancora che "lui avrebbe gestito i soldi di Ruby, lei li prendeva e lui li gestiva, mi diceva che era il colpo della sua vita", ha detto ancora rispondendo alle domande dell'aggiunto Tiziana Siciliano e del pm Luca Gaglio. Già nella scorsa udienza, una giornalista inglese aveva raccontato in aula che Ruby per tacere sulle serate ad Arcore con Berlusconi avrebbe incassato dall'ex premier "6 milioni di euro", stando a quanto a lei riferito da Marysthell Polanco. A parlare di presunti versamenti milionari a Ruby e Risso era stato, prima di morire in una clinica svizzera, anche l'ex legale di Karima, l'avvocato Egidio Verzini. Ruby, disse ai media il legale, avrebbe ricevuto "un pagamento di 5 milioni di euro eseguito tramite la banca Antigua Commercial Bank di Antigua su un conto presso una banca in Messico" e in particolare 2 milioni "sono stati dati a Luca Risso" e tre "sono stati fatti transitare dal Messico a Dubai e sono esclusivamente di Ruby".
(ANSA il 3 febbraio 2020) - Imane Fadil, una delle testimoni chiave del caso Ruby, morta il primo marzo 2018 per una grave malattia, "mi parlò di due ragazze che l'avevano avvicinata fuori dal Tribunale, in un bar vicino, e da loro le era stata proposta una cifra, che non ricordo, per il silenzio" sulle serate ad Arcore. Lo ha raccontato, testimoniando nel processo Ruby ter a carico di Silvio Berlusconi e altri 28 imputati, un consulente immobiliare che ha detto di aver conosciuto e frequentato, specialmente nel 2012, quando erano in corso i processi Ruby e Ruby bis, la modella di origine marocchina. L'offerta di denaro, aveva già detto il teste in indagini, proveniva "da Berlusconi" attraverso le ragazze. Il teste, Alessandro Ravera, ha chiarito che ci sarebbe stato anche un altro "avvicinamento" a Fadil "in una discoteca", sempre da parte di una "ragazza, ma non ricordo chi" - una ragazza ospite delle serate a Villa San Martino, così come le altre due del primo "avvicinamento" - che "le disse che c'era la possibilità di avere fino a 500mila euro" per non parlare del bunga-bunga. Già nell'atto di richiesta di costituzione come parte civile nel processo Ruby ter, presentato dall'allora legale della modella, morta all'ospedale Humanitas per una forma di aplasia midollare il primo marzo 2019 (non 2018 come scritto in precedenza, ndr), si parlava di "minacce, tentativi corruttivi e pressioni per la revoca della costituzione di parte civile" e "da parte di soggetti imputati nel presente procedimento, Berardi Iris e Guerra Barbara". Il testimone, tuttavia, rispondendo alle domande del pm Luca Gaglio e dell'aggiunto Tiziana Siciliano ha spiegato di non ricordare quali fossero le ragazze che, stando ai racconti dell' epoca di Fadil, l'avevano avvicinata con proposte di soldi. Ha confermato, comunque, dopo che gli è stato riletto il verbale da lui reso in indagini, che il denaro proposto sarebbe dovuto arrivare "da Berlusconi". Soldi in cambio di silenzio, perché "quello che aveva visto ad Arcore doveva nasconderlo, ma lei disse che voleva andare per la sua strada e dire, invece, ciò che aveva visto". Le due ragazze che l'avevano avvicinata vicino al Tribunale "avevano ricevuto denaro, mi disse, erano testimoni dei processi". Fadil gli avrebbe anche riferito "che le erano stati proposti 5 mila euro per fermarsi a dormire" a Villa San Martino all'epoca delle serate del 'bunga-bunga', "ma lei aveva rifiutato e se ne era andata". Le cifre che le ragazze potevano aspirare ad avere per il silenzio come testimoni "erano grosse cifre, diceva lei, anche 100 mila euro e fino a 500 mila euro". La modella avrebbe anche raccontato all'amico, oggi teste, "che Ruby aveva ricevuto dei milioni". Gli parlò anche di "macchine, appartamenti" per le 'olgettine', "a qualcuna veniva pagata anche l'università". L'aggiunto Siciliano ha chiesto al testimone di fare da "tramite" su quello che raccontava Fadil, "che non c'è più purtroppo", e l'uomo ha detto: "Quando sentiva le testimonianze delle altre, che non dicevano la verità, la sua reazione era di rabbia assoluta, lei non aveva soldi, la sua famiglia non poteva aiutarla, si arrabattava con qualche serata in discoteca".
ESCORT: MAGGIORDOMO CAV, BERLUSCONI MAI PAGATO PER SESSO. (ANSA il 23 dicembre 2019) - "Il presidente non ha mai avuto bisogno di pagare qualcuno per fare del sesso". Lo dichiara, sotto giuramento, Alfredo Pezzotti, maggiordomo di Silvio Berlusconi. Pezzotti è il primo testimone citato dall'accusa nel processo in corso a Bari nel quale l'europarlamentare di Forza Italia ed ex presidente del Consiglio dei Ministri è imputato per induzione a mentire: Berlusconi - secondo l'accusa - avrebbe pagato Gianpaolo Tarantini per dire bugie nel corso delle indagini sulle escort. Pezzotti, rispondendo alle domande del pm Eugenia Pontassuglia, racconta di essere "alle dipendenze della famiglia Berlusconi dal 1991 come assistente alla persona, come maggiordomo, a Palazzo Grazioli". Era lui, spiega, ad organizzare le cene alle quali, tra il 2008 e il 2009, partecipava Tarantini accompagnato da "alcuni amici e signorine", le quali, stando alle dichiarazioni di Pezzotti, "non sono mai rimaste a dormire a Palazzo Grazioli, se fosse avvenuto io ne sarei stato al corrente. Il presidente - dice il maggiordomo - non ha mai pagato signorine per avere rapporti sessuali". Erano cene "con musica, dove si cantava, si ballava, ero lo sfogo del presidente nei fine settimana". Così Alfredo Pezzotti, maggiordomo di Silvio Berlusconi, descrive le serate a Palazzo Grazioli tra il 2008 e il 2009 con l'imprenditore barese Gianpaolo Tarantini. Pezzotti è stato citato come testimone nel processo in corso a Bari nel quale l'europarlamentare di Forza Italia, ex presidente del Consiglio dei Ministri, è imputato per induzione a mentire, per aver pagato le bugie dette da Tarantini ai pm baresi nelle indagini sulle escort. Pezzotti ricorda che dopo le cene "a un certo orario arrivava la sua compagna (di Berlusconi, ndr), Francesca Pascale, le signorine venivano accompagnate a casa e le serate terminavano così". A queste dichiarazioni, la pm Pontassuglia ha contestato che la presenza di Francesca Pascale già all'epoca "non è documentata" e "non era mai emersa prima". Al maggiordomo di Berlusconi la pm ha posto domande sui rapporti tra Berlusconi e Tarantini e Pezzotti ha spiegato che "c'è stato un periodo di frequentazione assidua", tra il 2008 e il 2009, "si vedevano spesso anche durante la settimana, a Palazzo Grazioli e in Sardegna a Villa Certosa". Poi qualcuno "consigliò al presidente di non frequentarlo più, per le signorine con cui si accompagnava, forse per come si vestivano, con minigonne e tacchi alti". "Il presidente mi raccontava che Tarantini chiedeva aiuto per la sua famiglia perché aveva problemi finanziari". Così Alfredo Pezzotti, maggiordomo dell'ex premier Silvio Berlusconi, racconta al Tribunale di Bari, citato come testimone nel processo per induzione a mentire, dei rapporti tra Berlusconi e Gianpaolo Tarantini. Il periodo di cui parla è quello tra il 2009 e il 2011, dopo le serate con le escort documentate dalle indagini della Procura di Bari e dopo l'arresto per droga dell'imprenditore barese eseguito nel settembre 2009. "Tarantini non frequentava più da tempo Palazzo Grazioli", ma Pezzotti ricorda che in una occasione fu sua moglie Nicla a contattarlo per consegnargli una lettera da recapitare a Berlusconi. "Non so cosa ci fosse scritto in quella lettera - spiega il maggiordomo - ma ricordo che dopo un po' di tempo richiamai Nicla e le consegnai una busta da parte del presidente". Nel racconto di Pezzotti ci sono molti "non ricordo". Al termine dell'audizione, dopo il controesame dei difensori di Berlusconi, gli avvocati Niccolò Ghedini e Francesco Paolo Sisto, su accordo delle parti è stato acquisito il verbale con le dichiarazioni rese da Pezzotti nel 2011 ai pm di Napoli sugli stessi fatti. Il processo è stato quindi aggiornato all'udienza del 31 gennaio quando saranno citati altri 5 testimoni, tra i quali l'allora segretaria di Berlusconi, Marinella Brambilla.
Bari, processo escort, maggiordomo Berlusconi: «Non ha mai pagato per il sesso». Parla Alfredo Pezzotti, secondo cui Gianpaolo Tarantini avrebbe chiesto soldi a Berlusconi. La Gazzetta del Mezzogiorno il 23 Dicembre 2019. «Il presidente non ha mai avuto bisogno di pagare qualcuno per fare del sesso». Lo dichiara, sotto giuramento, Alfredo Pezzotti, maggiordomo di Silvio Berlusconi. Pezzotti è il primo testimone citato dall’accusa nel processo in corso a Bari nel quale l’europarlamentare di Forza Italia ed ex presidente del Consiglio dei Ministri è imputato per induzione a mentire: Berlusconi - secondo l’accusa - avrebbe pagato Gianpaolo Tarantini per dire bugie nel corso delle indagini sulle escort. Pezzotti, rispondendo alle domande del pm Eugenia Pontassuglia, racconta di essere «alle dipendenze della famiglia Berlusconi dal 1991 come assistente alla persona, come maggiordomo, a Palazzo Grazioli». Era lui, spiega, ad organizzare le cene alle quali, tra il 2008 e il 2009, partecipava Tarantini accompagnato da «alcuni amici e signorine», le quali, stando alle dichiarazioni di Pezzotti, "non sono mai rimaste a dormire a Palazzo Grazioli, se fosse avvenuto io ne sarei stato al corrente. Il presidente - dice il maggiordomo - non ha mai pagato signorine per avere rapporti sessuali». Erano cene «con musica, dove si cantava, si ballava, ero lo sfogo del presidente nei fine settimana». Così Alfredo Pezzotti, maggiordomo di Silvio Berlusconi, descrive le serate a Palazzo Grazioli tra il 2008 e il 2009 con l’imprenditore barese Gianpaolo Tarantini. Pezzotti è stato citato come testimone nel processo in corso a Bari nel quale l’europarlamentare di Forza Italia, ex presidente del Consiglio dei Ministri, è imputato per induzione a mentire, per aver pagato le bugie dette da Tarantini ai pm baresi nelle indagini sulle escort. Pezzotti ricorda che dopo le cene «a un certo orario arrivava la sua compagna (di Berlusconi, ndr), Francesca Pascale, le signorine venivano accompagnate a casa e le serate terminavano così». A queste dichiarazioni, la pm Pontassuglia ha contestato che la presenza di Francesca Pascale già all’epoca «non è documentata» e «non era mai emersa prima». Al maggiordomo di Berlusconi la pm ha posto domande sui rapporti tra Berlusconi e Tarantini e Pezzotti ha spiegato che «c'è stato un periodo di frequentazione assidua», tra il 2008 e il 2009, «si vedevano spesso anche durante la settimana, a Palazzo Grazioli e in Sardegna a Villa Certosa». Poi qualcuno «consigliò al presidente di non frequentarlo più, per le signorine con cui si accompagnava, forse per come si vestivano, con minigonne e tacchi alti». «Il presidente mi raccontava che Tarantini chiedeva aiuto per la sua famiglia perché aveva problemi finanziari». Così Alfredo Pezzotti, maggiordomo dell’ex premier Silvio Berlusconi, racconta al Tribunale di Bari, citato come testimone nel processo per induzione a mentire, dei rapporti tra Berlusconi e Gianpaolo Tarantini. Il periodo di cui parla è quello tra il 2009 e il 2011, dopo le serate con le escort documentate dalle indagini della Procura di Bari e dopo l'arresto per droga dell’imprenditore barese eseguito nel settembre 2009. «Tarantini non frequentava più da tempo Palazzo Grazioli», ma Pezzotti ricorda che in una occasione fu sua moglie Nicla a contattarlo per consegnargli una lettera da recapitare a Berlusconi. «Non so cosa ci fosse scritto in quella lettera - spiega il maggiordomo - ma ricordo che dopo un pò di tempo richiamai Nicla e le consegnai una busta da parte del presidente». Nel racconto di Pezzotti ci sono molti «non ricordo». Al termine dell’audizione, dopo il controesame dei difensori di Berlusconi, gli avvocati Niccolò Ghedini e Francesco Paolo Sisto, su accordo delle parti è stato acquisito il verbale con le dichiarazioni rese da Pezzotti nel 2011 ai pm di Napoli sugli stessi fatti. Il processo è stato quindi aggiornato all’udienza del 31 gennaio quando saranno citati altri 5 testimoni, tra i quali l’allora segretaria di Berlusconi, Marinella Brambilla.
Da Oggi il 15 gennaio 2020. Attualmente protagonista del reality «The Real Housewives di Napoli» su RealTime, Noemi Letizia, celebre per la presenza di Berlusconi alla festa dei suoi 18 anni a Casoria, nel 2009, si confessa in una intervista esclusiva a OGGI, in edicola da domani. «Ho deciso di fare questo reality, per mostrare a tutti chi sono veramente. Per troppo tempo ho seguito un copione scritto da altri, da sanguisughe che si fingevano interessate alla mia carriera professionale, a finti consiglieri che poi spiattellavano bugie alla stampa. E poi dalla famiglia del mio ex marito, che voleva plasmarmi a modo suo», premette. E rivela per la prima volta cosa subì dopo le polemiche seguite alla clamorosa lettera di Veronica Lario e allo scandalo: «Ho trascorso mesi chiusa in casa, senza uscire, senza mangiare, senza voler vedere gente perché non mi fidavo più di nessuno…L’unica cosa che riuscivo a fare era piangere. Volevo morire, sparire per sempre, farla finita… Ho subito un bullismo mediatico che non auguro neanche al mio peggior nemico. Anoressia, e poi un ritorno della depressione, che iniziai a conoscere quando avevo appena dieci anni quando persi tragicamente mio fratello. Annegavo nel dolore, alternavo periodi di leggerezza a periodi di buio totale». Noemi Letizia racconta anche come sia stata aiutata dall’analisi e dall’amore per quello che sarebbe diventato suo marito (sette anni insieme e matrimonio invece naufragato dopo solo due mesi), la sua terza vita con l’attuale compagno e padre del suo terzo figlio e i suoi progetti imprenditoriali: con il lancio di un profumo e di un centro estetico.
Francesca Pascale sui rumors della storia tra Berlusconi e la Fascina: "Se c'è qualcosa tra loro, lo lascio". Libero Quotidiano il 16 Gennaio 2020. Di Marta Fascina, la deputata su cui si annidano gli ultimi rumors, è la stessa Francesca Pascale a parlare: "Dico solo che è stata messa al fianco del mio Presidente da Licia Ronzulli. La Ronzulli ha come assistente proprio Marta Fascina e ha deciso di metterla al fianco di Berlusconi ed è per questo che lei vive e dorme ad Arcore" ha confessato in un'intervista a Novella 2000 la compagna di Silvio Berlusconi. Da mesi, infatti, gira voce (smentita dall'amico fidato della Pascale, Alessandro Cecchi Paone) di una possibile relazione tra il Cav e la Fascina. I due, spesso impegnati in questioni lavorative come le Regionali in Umbria, vengono immortalati assieme. E questo a quanto pare basta alle malelingue, subito rimesse al loro posto dalla stessa Pascale: "Se scoprissi che in questa storia c'è qualcosa di vero, tra me e il Presidente finirebbe tutto".
Roberto Alessi per Novella 2000 il 15 Gennaio 2020. Leggo sul web un articolo su Ilsussidiario.net, il quotidiano approfondito, di Dario D’Angelo: «Cosa si cela dietro l’uscita pro-sardine di Francesca Pascale? Non un ragionamento politico da parte della compagna di Silvio Berlusconi, secondo Dagospia. Piuttosto quello che il sito di Roberto D’Agostino non esita a definire come uno “scorno” per l’arrivo ad Arcore di Marta Fascina, nuova “favorita” del leader di Forza Italia».
Che cosa era successo? Francesca tempo fa aveva detto: «Guardo con interesse alle Sardine, vi ritrovo elementi e quella libertà che furono propri della rivoluzione liberale di Berlusconi. Mi auguro non facciano come i grillini», e aveva anche aggiunto che stava valutando di scendere in piazza con loro.
Le Sardine avevano pure risposto attraverso il loro leader Mattia Santori: «La Pascale tra noi? Diamo il benvenuto a chiunque si discosti dal sovranismo». Già, perché la Pascale e Santori avrebbero in comune l’odio (la parola non è totalmente fuori luogo) per Matteo Salvini.
Ma torniamo all’articolo di Il sussidiario.net: «Stando a molti retroscena,l’originaria di Portici (Marta Fascina), a differenza della corregionale Pascale, oltre ad aver ottenuto un posto da deputata (fu inserita in due posti bloccati nei collegi plurinominali di Napoli Sud e Napoli Nord come fosse una big di livello nazionale) ha anche conquistato le simpatie dei figli di primo letto di Berlusconi, Marina e Piersilvio, impresa a quanto pare mai riuscita alla first lady di Arcore».
Vero? Falso? Possibile che Silvio abbia archiviato una storia d’amore lunga 15 anni con Francesca Pascale? Possibile che il leader di Forza Italia a 83 anni abbia voglia di rimettersi in gioco anche da un punto di vista affettivo con quella che un sito autorevole come Affaritaliani.it chiama già Lady Marta, la nuova Mara Carfagna? Silvio tace, ma abbiamo chiamato al telefono Francesca Pascale, una donna diretta, chiara, che può piacere o non piacere, ma che non le manda certo a dire, una delle rarissime a permettersi il lusso della schiettezza in un mondo dove l’ipocrisia impera. E che ci risponde senza intermediari di comodo.
Allora, signora Pascale, che ci dice di quello che si legge sui media del Web?
«Dico che anch’io ho appreso la cosa attraverso i siti, in primis attraverso Dagospia».
Ma dell’onorevole Marta Fascina, che pure lei si trova al centro dei “si dice”?
«Dico solo che è stata messa al fianco del mio Presidente da Licia Ronzulli».
La senatrice di Forza Italia.
«La Ronzulli ha come assistente proprio Marta Fascina e ha deciso di metterla al fianco di Berlusconi ed è per questo che lei vive e dorme ad Arcore».
Inusuale.
«Non per Silvio, che lavora sempre e che da sempre ha i suoi collaboratori in casa».
Una casa enorme, certo, ma rimane soprattutto casa di Berlusconi.
«Certo, con la differenza che Silvio dorme sempre da me, nella casa dove vivo, a pochi chilometri con i nostri cani».
I pettegoli ci sguazzano comunque.
«Fatti loro».
Lei come vive queste voci?
«Dico solo una cosa: quello che so è quello che ho letto, come mi riferisce lei, altro non ho da dire. Per ora».
Questo “per ora” fa tremare i polsi?
«Già perché se scoprissi che in questa storia c’è qualcosa di vero, tra me e il Presidente finirebbe tutto».
Signora, non esageri, è solo un rumor.
«Sarà così... dopo 15 anni».
Silvio Berlusconi, ecco chi è la sua nuova donna: Marta Fascina, colpaccio in Parlamento. Libero Quotidiano il 04 marzo 2020. Addirittura con una nota ufficiale, Forza Italia ha comunicato che Silvio Berlusconi e Francesca Pascale non stanno più insieme. La coppia è scoppiata, insomma, anche se da parecchio tempo apparivano lontani e, soprattutto, non apparivano insieme in pubblico. Una nota stampa diffusa dal partito proprio in corrispondenza dello scoop di Diva e Donna, che sbatte in prima pagina "una nuova dama bionda", quella che sarebbe la nuova "fiamma" del Cavaliere. Di chi si tratta? Lei è la deputata (ovviamente di Forza Italia) Marta Fascina, che secondo il rotocalco vivrebbe già ad Arcore. Silvio e Marta, definita "la bionda stellare", sono stati paparazzati insieme in Svizzera, a Bad Ragaz, all'uscita di un resort di lusso con barboncini al seguito, poco prima di salire a bordo del loro elicottero privato. O meglio, dell'elicottero di Silvio.
Liberoquotidiano.it il 6 marzo 2020. Ormai è cosa ben nota. Silvio Berlusconi e Francesca Pascale si sono lasciati. A mettersi in mezzo la bellissima bionda, nonché deputata di Forza Italia, Marta Fascina. A commentare la notizia confermata dalla segreteria dell'ex premier, anche l'ex azzurra Nunzia De Girolamo: "Questa è una cosa che non c'entra nulla - esordisce da Myrta Merlino a L'Aria Che Tira -, ma oggi ho scoperto che il mio seggio sicuro è stato utilizzato per far trovare l'amore a Berlusconi, sono felice. L'amore vince su tutto". Una frase del tutto ironica quella della De Girolamo che, nel lontano 2018, vide cedere la candidatura in Campania alla "sconosciuta del Milan" che le "soffiò" il posto. Ora, con il senno del poi, si potrebbe ipotizzare qualcosa in più su quella vicenda....
Dagospia il 6 marzo 2020. Da “la Zanzara - Radio 24”. “Berlusconi e la Pascale si sono lasciati? Lo sapevo da dieci giorni. Mi ha chiamato lui dalla Svizzera. Lei è una ragazza mite, che secondo me aveva già trovato un’intesa con lui da almeno un anno, un anno e mezzo. Quando andavo ad Arcore la Pascale ormai stava a casa sua perché lui le aveva preso la casa, mentre in casa nascosta in cucina c’era questa ragazza. La quale essendo timida, non si affacciava. Probabilmente lui è passato - per quanto lui abbia la mania di fissarsi su una, molto meglio lasciar perdere ed essere vaganti come il virus - da una prepotente e sadica, a una invece sottomessa. Questa probabilmente quando lo guarda gli dice come sei bravo, come sei bello. Ad un certo punto non ha voglia di fare competizioni, la Pascale era piuttosto tosta. Veramente credo sia l’ideale per lui”. “La Fascina – dice Sgarbi - in tempo di femminismo sembra una figura negativa. Ma mentre la prepotente si scopre, la sottomessa è veramente dominante. Perché ti domina fingendo di essere sottomessa. Infatti ha vinto contro la Pascale. Ha vinto perché gli dice: caro, sono qui, vieni, come sei tenero, come sei buono…e questo c’è cascato”. Ma questa non l’hai timbrata prima tu?: “No, sai, mi guardava con un’aria estatica, sembrava la Santa Cecilia di Raffaello con gli occhi al cielo, si sentiva come colpita dal mio sguardo. Ma era già nel virus Berlusconi”. Certo che tutte le ex di Berlusconi hanno un culo pazzesco, escono milionarie: “Lui è generoso. Dobbiamo rimpiangere che non sia omosessuale, sarebbe stato perfetto anche per noi”.
Tra il Cav e Pascale è rottura. Ma la notizia arriva da Fi. Il Dubbio il 4 marzo 2020. Gli azzurri parlano di “profonda amicizia senza alcuna relazione”. Lei: “Stupita dal comunicato, ma vorrò sempre bene a Silvio”. “Dopo l’articolo di Diva e Donna di questa mattina si sono scatenati i soliti pettegolezzi intorno al Presidente Silvio Berlusconi e alla Signora Francesca Pascale. Appare quindi opportuno riconfermare che continua a sussistere un rapporto di affetto e di vera e profonda amicizia fra il Presidente Silvio Berlusconi e la signora Francesca Pascale, ma che non vi è fra loro alcuna relazione sentimentale o di coppia. È quindi di ogni evidenza che tutte le illazioni che vengono prospettate al riguardo sono fuorvianti e del tutto inesistenti”. E’ l’unico commento ufficiale che arriva dalla segreteria di Forza Italia dopo la diffusione della notizia della rottura tra lui e Francesca Pascale. Da parte sua Pascale si è detta stupita per il “comunicato di Fi” e poi: “Vorrò sempre bene a Silvio”. Ma cosa c’è dietro la clamorosa nota dell’ufficio stampa di Forza Italia, diramata in serata, che ribadisce ‘il rapporto di affetto e di vera e profonda amicizia fra il presidente Silvio Berlusconi e la signora Francesca Pascale, ma che non vi è fra loro alcuna relazione sentimentale o di coppia”? E cosa c’è dietro la risposta piccata di Francesca Pascale all’ Adnkronos? C’è la consacrazione di un rapporto finito. Di cui in Forza Italia si aveva sentore già da tempo con i commenti e nervosismo che circolavano alla Camera fra i parlamentari azzurri e non solo. Colpa dello scoop del settimanale di gossip Diva e Donna, rilanciato dal sito Dagospia, che riguarda Silvio Berlusconi e la deputata azzurra Marta Fascina, da un po’ di tempo presenza fissa ad Arcore paparazzati dal settimanale ‘Diva e Donna’ in Svizzera, che ritraggono il Cav oltreconfine per un periodo di relax in compagnia della giovane onorevole forzista campana: classe 1990, originaria di Melito di Porto Salvo, in provincia di Reggio Calabria, eletta nel collegio blindato Campania 1 alle ultime politiche del 2018.
Berlusconi-Pascale «non sono più una coppia». Pubblicato mercoledì, 04 marzo 2020 da Corriere.it. ROMA — Galeotto è stato un servizio fotografico sul settimanale «Diva e Donna». Silvio Berlusconi e la deputata azzurra Marta Fascina all’uscita del «Grand Resort» di Bad Ragaz, nel canton San Gallo, prima di salire sull’elicottero del Cavaliere. Con cagnolini al seguito. «In Svizzera con Marta: dov’è Francesca?», si chiede il periodico. Lo scoop ha riportato alla memoria le dichiarazioni del gennaio scorso dell’ormai ex compagna di Berlusconi, Francesca Pascale, che aveva confermato la presenza della deputata, 30 anni, di Melito Porto Salvo (Reggio Calabria), segretario della commissione Difesa della Camera, a Villa San Martino, ad Arcore, come stretta collaboratrice del presidente. In serata una nota ufficiale di Forza Italia ha cercato di chiarire cosa è accaduto adesso, ribadendo «il rapporto di affetto e di vera e profonda amicizia fra il presidente Silvio Berlusconi e la signora Francesca Pascale», precisando anche che «non vi è fra loro alcuna relazione sentimentale o di coppia. È quindi di ogni evidenza che tutte le illazioni che vengono prospettate al riguardo sono fuorvianti e del tutto inesistenti». La replica di Francesca Pascale non si è fatta attendere: «Sono stupita, l’unica cosa che posso dire è che al mio presidente vorrò sempre bene infinito. Gli auguro tutta la felicità del mondo e spero che possa trovare una persona che si prenda cura di lui come ho fatto io», ha detto all’Adn Kronos. Aggiungendo poi, sulla presenza di Dudù: «Mi fa simpatia vedere un deputato della Repubblica portare a spasso il mio cagnolino».
FLASH DI DAGOSPIA ALLE 20.19 il 4 marzo 2020. - Stamattina nelle chat e poi a voce i parlamentari di Forza Italia scatenati contro il Cav che, in questo bordello di coronavirus, con la scusa di curarsi una vertebra, si sollazza in Svizzera con la nuova fiamma Marta Fascina, deputata di Forza Italia, amica e complice di Licia Ronzulli. Visto il servizio fotografico su “diva e donna”, la Pascale fuori dalla grazia di dio (ditele che oggi i piccioni di Arcore sono in Provenza nella villa di Marina). ‘’Dopo l’articolo di “Diva e Donna” di questa mattina si sono scatenati i soliti pettegolezzi intorno al Presidente Silvio Berlusconi e alla Signora Francesca Pascale. Appare quindi opportuno riconfermare che continua a sussistere un rapporto di affetto e di vera e profonda amicizia fra il Presidente Silvio Berlusconi e la Signora Francesca Pascale, ma che non vi è fra loro alcuna relazione sentimentale o di coppia. È quindi di ogni evidenza che tutte le illazioni che vengono prospettate al riguardo sono fuorvianti e del tutto inesistenti’’.
(Adnkronos di Vittorio Amato il 5 marzo 2020). "Sono stupita... L'unica cosa che posso dire è che al mio presidente vorrò sempre un infinito bene''. Francesca PASCALE commenta così all'Adnkronos la nota diffusa da Forza Italia in serata che parla di un ''rapporto di amicizia e affetto" non più di ''una relazione di coppia'' tra lei e Silvio Berlusconi alla luce delle foto apparse su Diva e Donna che ritraggono il Cav in Svizzera con la deputata di Fi Marta Fascina. Il comunicato di fatto ufficializza la fine della loro storia d'amore e PASCALE non mostra rancore: ''Auguro al presidente tutta la felicità del mondo. E spero che possa trovare una persona che si prenda cura di lui come ho fatto io con lui". PASCALE si dice ancora sorpresa da quanto successo e guardando le foto del settimanale ironizza: "Mi fa simpatia vedere un deputato della Repubblica portare a spasso il mio cagnolino... Va bene così". Ma cosa c'è dietro la clamorosa nota dell'ufficio stampa di Forza Italia, diramata in serata, che ribadisce "il rapporto di affetto e di vera e profonda amicizia fra il presidente Silvio Berlusconi e la signora Francesca Pascale, ma che non vi è fra loro alcuna relazione sentimentale o di coppia"? E cosa c'è dietro la risposta piccata di Francesca Pascale all'Adnkronos? C'è la consacrazione di un rapporto finito. Di cui in Forza Italia si aveva sentore già da stamattina con i commenti e nervosismo che circolavano alla Camera fra i parlamentari azzurri e non solo. Colpa uno 'scoop' del settimanale di gossip Diva e Donna, rilanciato dal sito Dagospia, e riguarda per l'appunto Silvio Berlusconi e la deputata azzurra Marta Fascina, da un po’ di tempo presenza fissa ad Arcore paparazzati dal settimanale 'Diva e Donna' in Svizzera, che ritraggono il Cav oltreconfine per un periodo di relax in compagnia della giovane onorevole forzista campana: classe 1990, originaria di Melito di Porto Salvo, in provincia di Reggio Calabria, eletta nel collegio blindato Campania 1 alle ultime politiche del 2018. Stamattina nei capannelli dei parlamentari azzurri non si parlava d'altro. Ma nessuno ha rilasciato dichiarazioni. Di buon ora c'è chi sorride, chi (svariati parlamentari) storce il naso perchè con la priorità è l'emergenza coronavirus che preoccupa tutti, c'è chi si dice amareggiato per la piega che ha preso il partito e chi invita a non prendere in considerazione delle 'foto rubate', che violano la privacy del leader forzista. A mezza bocca un big azzurro dice: ''Lasciamo stare il presidente, questa è la sua vita privata''. Gli scatti, raccontano, avrebbero riacceso i riflettori sui rapporti tra il vecchio e il nuovo cerchio magico, facendo riemergere antichi dissapori. Torna, dunque, ancora una volta alla ribalta la vita privata del capo. E molti azzurri si chiedevano quale fosse stata la reazione di Francesca Pascale, compagna dell'ex premier. Già nel gennaio scorso Pascale, in un colloquio con 'Novella 2000', aveva smentito voci di una relazione tra Fascina e il leader forzista, pur ammettendo la presenza della deputata a Villa San Martino in qualità di stretta collaboratrice del presidente. Allo stato, Fascina è anche segretario della commissione Difesa della Camera. In Svizzera con Marta: dov'è Francesca?, titola Diva nel suo servizio di 4 pagine corredato da foto esclusive. Tra queste, quella con il Cav che si prepara a salire in elicottero per lasciare il Grand Resort di Bad Ragaz, località del Canton San Gallo con una lunga tradizione di centro di cura, dove ha soggiornato nei giorni scorsi. Dietro al Cav non c'è Pascale ma la Fascina, che indossa un vestito con stelle. ''In queste immagini -scrive Diva- ecco Silvio e Marta in Svizzera a Bad Ragaz: escono da un resort e con gli amati barboncini di casa Berlusconi al seguito (tenuti al guinzaglio dalla Fascina) vanno via in elicottero''.
Berlusconi, Pascale e quel comunicato per dirsi addio. Pubblicato giovedì, 05 marzo 2020 su Corriere.it da Paola Di Caro e Simona Ravizza. «Il privato è politico» si diceva negli anni d’oro della contestazione, e forse rovesciando i piani e dopo tanti lustri l’ufficio stampa di Silvio Berlusconi ha chiuso il cerchio e un’epoca, arrivando dove ancora nessuno era mai giunto, annunciando con una nota ufficiale la fine della storia tra il Cavaliere e Francesca Pascale. Perché il comunicato diffuso nella cupa serata di mercoledì, sotto forma di smentita forse non ha precedenti. Ci si lascia ormai per mail, per sms, per messaggio privato, ci si lascia smettendo di seguire/rsi su Instagram — dando ai followers la possibilità di essere aggiornati in diretta — ma forse mai si era arrivati a farlo per comunicato stampa, subito dopo la nota sulla riunione del coordinamento di Forza Italia e quella sulle misure da prendere in sede di Consiglio Ue. Un amore — la cui durata quasi decennale è coincisa con un periodo anche duro e difficile per Berlusconi — passa a «rapporto di affetto e profonda amicizia» nel breve volgere di 20 righe. Più breve ancora perfino la replica romantica e amara della Pascale: «Gli vorrò sempre un infinito bene». Con frecciata finale però a quella che sembra essere la nuova compagna del Cavaliere, Marta Fascina: «Mi fa simpatia vedere un deputato della Repubblica che porta a spasso il cane...». Per le rotture tra il Cavaliere e Fini, e Alfano, e perfino Fitto e Toti ce ne vollero migliaia di righe, che l’odio tira più dell’amore. Pure in un comunicato stampa.
Berlusconi: finito l’amore con Pascale. Ha un flirt con una deputata azzurra. Il Corriere del Giorno il 5 Marzo 2020. Silvio Berlusconi “paparazzato” in Svizzera con la deputata Marta Fascina. L’ex Francesca Pascale compagna: “Spero che qualcuno si prenda cura di lui. Mi fa simpatia vedere un deputato della Repubblica portare a spasso il mio cagnolino… Va bene così”. ROMA – Incredibile la circostanza che per rendere pubblica la rottura sia stata addirittura diffusa una nota della segreteria di Berlusconi per mettere a tacere “i soliti pettegolezzi“. “Appare quindi opportuno riconfermare che continua a sussistere un rapporto di affetto e di vera e profonda amicizia fra il Presidente Silvio Berlusconi e la Signora Francesca Pascale, ma che non vi è fra loro alcuna relazione sentimentale o di coppia. È quindi di ogni evidenza che tutte le illazioni che vengono prospettate al riguardo sono fuorvianti e del tutto inesistenti”. Un comunicato che ha ufficializzato quello che si diceva e mormorava da tempo : l’amore tra Silvio Berlusconi e Francesca Pascale è finito. L’ex premier e leader di Forza Italia ha un’altra fiamma, e anche questo gossip va avanti da diversi mesi, come mostra un servizio del settimanale “Diva e Donna” che ha pubblicato foto che ritraggono Berlusconi in Svizzera con la deputata azzurra Marta Fascina, ormai presenza fissa ad Arcore, nata nel 1990, originaria di Melito di Porto Salvo, in provincia di Reggio Calabria, e paradossalmente eletta nel collegio “blindato” Campania 1 (la regione della Pascale) alle ultime elezioni politiche del 2018. Silvio e Marta, definita “la bionda stellare”, sono stati paparazzati insieme in Svizzera, a Bad Ragaz, all’uscita di un resort di lusso con barboncini al seguito, poco prima di salire a bordo del loro elicottero privato. Per la precisione l’elicottero di Silvio B. Quindi si tratta di certezze più che illazioni . Del resto che la loro lunga storia fosse arrivata al capolinea si era capito quando Berlusconi aveva comprato una villa alla Pascale a pochi chilometri da quella di Arcore. Il “padre-padrone” di Forza Italia all’inizio andava a trovarla, ma le sue visite si sono sempre più ridotte. Ad Arcore è rimasto il barboncino Dudù che adesso va a spasso con la deputata Fascina. Ed è proprio sulla fotografia che la ritrae con il cagnolino che la napoletana Francesca Pascale si lascia andare ad un commento denso d’ironia. “Mi fa simpatia vedere un deputato della Repubblica portare a spasso il mio cagnolino… Va bene così“. Imbarazzanti sono le fotografie circolanti sul passato della “bionda stellare” entrata nel cuore di Berlusconi, fra cui un nuovo “frequentatore” delle aule giudiziarie Giacomo Urtis ed un affezionato “ospite” delle carceri italiane come Stefano Ricucci. Un importante parlamentare azzurro bene informato dice: ”Lasciamo stare il presidente, questa è la sua vita privata". Gli scatti, raccontano, avrebbero riacceso i riflettori sui rapporti tra il vecchio e il nuovo cerchio magico, facendo riemergere antichi dissapori. Torna, dunque, ancora una volta alla ribalta la vita privata del capo.
Perchè il cerchio magico del Cav ha licenziato Francesca Pascale. Giulia Merlo su Il Dubbio il 6 marzo 2020. Ritratto dell’ex eterna fidanzata di Silvio Berlusconi, dal suo sostegno al Gay Pride a quando disse “non stimo l’uomo Salvini e nemmeno la sua politica”. Il suo profilo instagram ha come biografia una citazione di Alda Merini: “Le donne sono frivole perché sono intelligenti a oltranza”. La sua prima fotografia condivisa è di lei, su una panchina color arcobaleno e un augurio “a tutte le famiglie”, perché amore è amore. Segue lei sul divano, che legge “Educare al femminismo”, della spagnola Iriate Maranon. Poi la foto di un poster dei radicali e un messaggio di solidarietà a Radio Radicale nei giorni in cui si parlava della chiusura. Una foto in t-shirt con stampa del muro di Berlino per celebrare i trent’anni dalla caduta. Una scarpa rossa, per celebrare la giornata contro il femminicidio. Da ultimo, il video dell’incontro dopo trent’anni della performer Marina Abramovic con l’ex compagno, scomparso nei giorni scorsi. Eccolo, il profilo di Francesca Pascale. L’ex regina di Arcore scacciata dal trono e dal cuore del presidente Silvio Berlusconi dopo 12 anni di relazione. A prendere il suo posto sarebbe già arrivata Marta Fascina, deputata forzista con il 50% di assenze in Parlamento e una carriera lampo in politica grazie all’elezione in un collegio blindassimo della Campania da appena trentenne, cinque in meno di Pascale. Se i social significano qualcosa – e lo fanno – nel suo profilo instagram compaiono solo cartelloni di Forza Italia, video del Berlusconi oratore e screenshot dei suoi editoriali sul Giornale. Massima espressione di sé: una foto con il pullman del Milan, società nella quale ha lavorato come pr e attraverso la quale si sarebbe avvicinata al Cav. Il gossip, come sempre nella politica, si tinge di giallo. Soprattutto in una corte in disarmo come quella dell’ex maggiore partito del centrodestra. I giornali scrivono di veleni incrociati, di lotta per ricostruire un cordone di sicurezza intorno al presidente, per salvare il salvabile o accaparrarsi le ultime spoglie di Forza Italia, ormai beccheggiante sulla soglia del 5%. L’addio si consuma nel modo dei rotocalchi: a gennaio spuntano le prime foto di Berlusconi con una certa Marta Fascina, deputata azzurra appena trentenne (cinque in meno di Pascale) ed ex assistente della potente senatrice Licia Ronzulli, che da tempo avrebbe preso il controllo dell’agenda del Cav. Pascale, interpellata sulla possibile liason e sul perché la giovane vivesse ad Arcore, conferma che lo facesse perché “messa a fianco del Presidente da Licia Ronzulli” ma che “Se scoprissi che in questa storia c’è qualcosa di vero, tra me e il presidente finirebbe tutto”. Martedì scorso, nuovi scatti ritraggono l’ottantatreenne ex premier che esce da un resort con Fascina, che porta a guinzaglio il cagnolino Dudù. Il giorno dopo, un freddo comunicato pubblicato dall’ufficio stampa di Forza Italia conferma che il Cav e Pascale non sono più una coppia ma che – in perfetta tradizione da rotocalco – provano l’uno per l’altra immutato affetto. Nemmeno a dirlo, le dietrologie si sprecano e in tutte c’è un grammo di verità, che porta alla stessa pista: il cordone sanitario intorno al Cavaliere ha voluto togliere di torno quella fidanzata a modo suo ingombrante, per sostituirla con un genere che più si addice ad un ex premier che ora deve calcolare bene i suoi passi, per non bruciare la sua eredità politica. Troppo autonoma, Francesca. Napoletana e fumantina: gelosissima delle frequentazioni di Berlusconi tanto da non risparmiagli scenate in pubblico ma anche decisa a tutelarne la vita e ad allontanare da lui quella scia di cortigiani invadenti, Olgettine e sfruttatori della sua ormai nota bontà (proverbiale il racconto di lei che blocca le derrate alimentari ad Arcore: «Dovevo intervenire. Pagavano i fagiolini 80 euro al chilo. Vi pare possibile?»). Ironica e diretta, poco incline ai compromessi e al silenziatore di chi la avrebbe voluta bella statuina al braccio dell’attempato leader. Somigliante, in un certo senso, a quella Veronica Lario che lasciò Berlusconi proprio all’alba dello scandalo Bunga Bunga, quando aveva scoperto che il marito era corso a Portici, al compleanno di una giovanissima Noemi Letizia (era l’epoca del “ciarpame senza pudore”, come scriveva lei in un editoriale su Repubblica). Portici, la stessa cittadina dove è cresciuta anche Fascina. Pascale in questi anni è intervenuta nel dibattito pubblico e tutte le volte che lo ha fatto ha marcato una netta differenza tra lei e l’ortodossia forzista. Prima ha fatto strabuzzare gli occhi ai più conservatori sostenendo pubblicamente il Gay Pride e le unioni civili.
Poi, presa di mira dalla comica Virginia Raffaele che ne aveva fatto l’imitazione proprio nel salotto del nemico Michele Santoro, aveva zittito il coro di critiche provenienti dall’allora Popolo delle Libertà. “Non trovo affatto offensiva, né tantomeno razzista l’imitazione che Virginia Raffaele…. Anzi, mi dispiace che qualcuno all’interno del Pdl l’abbia criticata”. E ancora era intervenuta con un editoriale sulla prima pagina del Fatto Quotidiano, per replicare alle illazioni sul presunto malore di Silvio davanti ad una sua richiesta di matrimonio. «Personalmente non credo che il matrimonio possa ridursi a una mera firma o mero rito: quello civile mi intristisce e quello religioso mi fa simpatia. Pur rispettando il matrimonio come istituzione o scelta individuale, non ritengo però che esso sia tra le cifre fondamentali di un amore e né tra le condizioni che rendono nobile e autentico il più puro dei sentimenti». Da ultimo, e questa è stata la goccia che probabilmente ha fatto traboccare un vaso già colmo fino all’orlo, non ha mai nascosto la sua antipatia nei confronti del nuovo leader del centrodestra, Matteo Salvini. A fine gennaio, alla conclusione della campagna elettorale alle regionali, ai giornalisti che le chiedevano dell’esito negativo in Emilia, ha risposto con un lapidario: “Sapete quel che penso di Salvini, non stimo l’uomo Salvini e nemmeno la sua politica…”. Ed ecco servita una piccola crisi diplomatica sulla quale è dovuto intervenire Berlusconi, per scusarsi con l’alleato. Del resto, tutti i giornalisti che abbiano il suo numero in rubrica sanno dei suoi status su whatsapp in cui attacca frontalmente il leader della Lega: “Omofobi” e “Pagliacci senza gloria” sull’immagine di lui con Marine Le Pen. Poi anche una vignetta di Vauro che ritrae Salvini e la didascalia: “È contro i diritti civili e le droghe… ma vuoi vedere che…”. Troppo, evidentemente. Ora, Francesca Pascale è chiusa nella sua Villa Maria a Casatelnovo in Brianza, poco lontano da Arcore. Dopo il comunicato di “licenziamento” pubblicato da Forza Italia ha risposto pesando le parole. Affetto per Berlusconi (“Vorrò sempre un infinito bene al mio presidente. Gli auguro tutta la felicità del mondo. Spero che trovi una persona che si prenda cura di lui come ho fatto io”) ma anche sferzante ironia: “Mi fa simpatia vedere una deputata portare a spasso il mio cagnolino. Ma va bene così”. Il day after, però, è sempre il più duro. Per parlare, l’ormai ex Lady B. ha scelto un quotidiano storicamente poco amato dal centrodestra. “Chi ha fatto uscire la notizia non ha fatto un buon servizio al presidente e al partito”, ha detto a Repubblica, allontanando da sé una delle voci che ieri erano state messe in giro: che sarebbe stata proprio lei a passare lo scoop a Diva e Donna della fuga romantica tra Berlusconi e la deputata. “Mi rammarica e mi addolora sentire questa calunnia. Non avrei potuto fare una tale bassezza, nemmeno se avessi voluto, perché non conoscevo i dettagli del soggiorno”. E a chi le ha sempre affibbiato l’etichetta della scalatrice sociale, compagna per interesse e non per amore di un uomo tanto più anziano, risponde con amarezza: “Mi ritrovo tradita a 35 anni e liquidata da un compagno così amato che ne ha 83. Eppure lo rivendico, a costo di qualunque sfottò: ho sempre avuto un sentimento sincero per lui, e rispetto per la famiglia e i figli”. Si chiude così, da umiliata e offesa, la parabola di Francesca Pascale. Ma si sa, una regola del gossip è che nulla è mai finito davvero.
Pascale e l’addio a Berlusconi: «Non siamo più la coppia più bella del mondo, ma l’amore non può sparire». Pubblicato giovedì, 05 marzo 2020 su Corriere.it da Tommaso Labate. «Il mio rapporto con il Presidente non si spegnerà così. Anche se è un legame che si è evoluto nel tempo e non è più catalogabile come relazione di coppia. L’amore può modificarsi, non può sparire». È come nella celebre canzone di Umberto Bindi, che si intitolava Arrivederci ma che era la storia di un addio. Nelle poche parole affidate agli amici più stretti, anche Francesca Pascale traccia il solco tra sé e l’ormai ex fidanzato Silvio Berlusconi. Non sono le dieci righe asettiche della nota ufficiale dell’ufficio stampa di Forza Italia, riversate ieri l’altro in una chat di WhatsApp proprio mentre l’Italia pensava alla chiusura delle scuole. Ma il senso è lo stesso. Qualcosa rimane, certo. Quell’affetto «riconfermato» dal presidente, che nella lettura di lei è «qualcosa di ancor più profondo» dell’amore svanito. Ma il sipario su un decennio — iniziato con Berlusconi a Palazzo Chigi, proseguito con Berlusconi condannato in via definitiva per frode fiscale e quindi decaduto dalla carica di senatore, poi leader riabilitato e quindi sconfitto nella contesa per la leadership del centrodestra dall’avanzata di Salvini — è definitivamente calato. Nessuno, nemmeno quelli che dentro Forza Italia lamentano che «sembriamo una puntata di Dinasty mentre il mondo ha paura del coronavirus», può fare a meno di sottolineare il passaggio comunque epocale, la fine di un’era. Esce di scena Pascale, la compagna del «ridate al presidente l’agibilità politica», la pasionaria dell’apertura alla causa Lgbt, la nemica giurata del salvinismo imperante; entra Marta Fascina, accento sulla penultima (si pronuncia Fascìna), silenziosa custode dell’ortodossia della nouvelle vague del Cavaliere, che vive di fatto a Palazzo Grazioli quando è Roma e a Villa San Martino quando si trova ad Arcore. Classe 90, nata in Calabria ma cresciuta a Portici, la nuova première dame del berlusconismo si fa vedere poco e sentire molto. Gli ultimi due anni di pezzi ospitati su il Giornale le sono valsi la fama di colei che separa l’autentica interpretazione del pensiero del «Presidente» da quello che autentico non è. Dalle stoccate ai quarantenni del partito che rivendicano il rinnovamento di Forza Italia («Il rinnovamento c’è già») alla sciabola usata contro Mara Carfagna, passando dai fendenti rivolti — all’epoca del governo gialloverde — sempre al M5S e mai a Salvini. Potrebbe essere un dettaglio non da poco, nel futuro prossimo. Difficile dire se lo status ufficiale dell’onorevole Fascina, deputata alla prima legislatura grazie a quel collegio sicuro sottratto in extremis a Nunzia de Girolamo, sarà quello di «fidanzata» oppure no. Lo dirà solo il tempo. Lo stesso tempo che, finora, ha premiato la corsa a fari spenti di questa ragazza che, alle frequentazioni di colleghi giovani, ha preferito le ore a parlare di politica con veterani del calibro di Elio Vito e Andrea Orsini. Ex del Partito radicale il primo, ex del Partito liberale il secondo. In fondo è grazie a costoro, forse, che Fascina riesce a cimentarsi in avventurose riletture dialettiche della storia recente del berlusconismo. Come quella volta che, a proposito del cambio della guardia Berlusconi-Monti del 2011, evocò «quello che il filosofo tedesco Habermas definì a quiet coupe d’etat». Proprio così, testualmente.
Marta Fascina, chi è la nuova fidanzata di Berlusconi dopo Francesca Pascale. Calabrese di trent'anni, ma cresciuta in Campania, è stata eletta alla Camera in un collegio blindato del Napoletano dopo un'esperienza nell'ufficio stampa del Milan. Galeotte, raccontano le sue colleghe onorevoli, sarebbero state prima del 2018 alcune appassionate lettere inviate al Cavaliere. Carmelo Lopapa il 05 marzo 2020 su La Repubblica. Adesso sono tornati ad Arcore. Da Villa San Martino, Silvio Berlusconi e Marta Fascina si erano allontanati solo per qualche giorno di riservato relax nel Gran Resort di Bad Ragaz, nel cantone svizzero di San Gallo. Riservato finché i fotografi di Diva e Donna non li hanno immortalati insieme costringendo la "real" casa del Cavaliere - che poi ormai coincide con quel che resta di Forza Italia - a dare spiegazioni. E soprattutto a rendere ufficiale quel che da mesi era risaputo dai più: Francesca Pascale è stata "licenziata", dopo quasi dieci anni di amorevole "cura", come la chiama ora lei. Per andare tuttavia alle origini della storia, nel backstage di questa deputata calabrese di Melito di Porto Salvo, in provincia di Reggio Calabria, trentenne (classe 1990), ma di origini e vissuto campano (è di Portici, come la fatidica Noemi Letizia), bisogna tornare alla notte di fine gennaio del 2018. Quando, come per incanto, fior di maggiorenti del Napoletano e deputati uscenti si videro scavalcati nel collegio blindato Campania 1 dall'ignota Marta Antonia Fascina (è il nome completo), allora nemmeno 28enne. Ma prima che scoppiasse la rivolta - ricordano ora i maggiorenti di Napoli e dintorni - fu sufficiente spiegare ai più che la ragazza proveniva da un'esperienza nell'ufficio stampa del Milan e quanto fosse particolarmente gradita dal Presidente, perché ogni insofferenza venisse soffocata, ogni brusio tacitato. Galeotte, raccontano le sue colleghe onorevoli, sarebbero state prima del 2018 alcune appassionate lettere inviate al capo dalla addetta stampa, milanista per professione, berlusconiana per passione. Laureata in Lettere e Filosofia, "addetta stampa" e "public relation specialist" nella biografia sul sito della Camera, la neo deputata - chissà se consapevole del suo ruolo da "predestinata" alla successione della Pascale - in questi due anni si è ben guardata, non dal sovraesporsi, ma dall'esporsi affatto. Non è passato agli onori della cronaca un suo discorso in aula, una sua dichiarazione, una polemica. Si è limitata a solcare la corsia rossa del Transatlantico con passo deciso, a testa alta, sempre elegantissima, giusto con quell'acconciatura verticale un po' anni Ottanta a darle un tocco originale. Più Francesca faceva parlare di sé con la iscrizione all'Arcigay, con le battaglie in favore degli omosessuali, delle coppie di fatto e le rasoiate contro Salvini, più la corregionale Fascina si inabissava. E si avvicinava alla residenza di Arcore. Proprio quella dalla quale la fidanzata ufficiale si era ormai allontanata per rifugiarsi nella splendida Villa Maria, a Casatenovo, fatta costruire appositamente per lei in Brianza, a dieci km da Villa San Martino. Una separazione di fatto, mai dichiarata. Periodicamente smentita da una nuova foto della coppia sul magazine di famiglia "Chi", con tanto di Dudù in braccio. Il tutto, mentre la giovane Fascina conquistava spazi e fiducia nella "Casa". E soprattutto l'amicizia del vero braccio destro operativo dell'anziano leader: la senatrice Licia Ronzulli. Rivelazione, questa, fatta nelle scorse settimane proprio dalla Pascale, quando tutto ormai per lei era perduto, al punto da decidersi a raccontare al magazine "avversario" Novella 2000 quel che stava accadendo: "Marta Fascina? Dico solo che è stata messa al fianco del mio Presidente da Licia Ronzulli, che ha come assistente proprio lei ed è per questo che vive e dorme ad Arcore". Inusuale? "Non per Silvio, che lavora sempre e che da sempre ha i suoi collaboratori in casa. Se scoprissi che in questa storia c'è qualcosa di vero, tra me e il presidente finirebbe tutto", era stata la profetica chiosa. Ecco, adesso è finito tutto. Con un servizio fotografico - ancora una volta - e una nota del partito. E con sospiro di sollievo dei figli, racconta chi frequenta Arcore. Troppi clamori, troppe polemiche politiche negli ultimi mesi, anche contro il nuovo leader del centrodestra Salvini, col Cavaliere costretto di tanto in tanto a chiamarlo e spiegare. Adesso serve più discrezione, al fianco del Cavaliere alla guida di un partitino del 5 per cento, servono i silenzi di Marta.
Marco Galluzzo per il ''Corriere della Sera'' il 23 luglio 2020. Per tutti all'inizio era soltanto una delle tante fan di «Forza Silvio». Appariva a tutte le manifestazioni, era sempre in prima fila, esile ma decisa a non fare mai un passo indietro. La sua t-shirt con un gigantesco logo pro Berlusconi era la sua seconda pelle, sino al giorno in cui fu notata dal presidente e spiccò il volo: da fan costretta a fare ore di marciapiede a fidanzata del suo mito politico. Ora dopo quasi dieci anni di relazione - sempre avvolta da uno stretto riserbo - dopo l'annuncio a marzo della fine della storia, emergono anche i dettagli economici: Francesca Pascale ha ricevuto un assegno di venti milioni di euro e firmato un accordo di mantenimento da un milione l'anno. La notizia, pubblicata dal settimanale Oggi non è stata smentita dallo staff dell'ex presidente del Consiglio. Appena quattro mesi fa un comunicato di Forza Italia conferma la fine della relazione tra Silvio Berlusconi (84 anni a settembre) e Francesca Pascale: «Continua a sussistere un rapporto di affetto e di vera e profonda amicizia fra il presidente e la signora, ma non vi è fra loro alcuna relazione sentimentale o di coppia». Un comunicato asciutto, concordato fra le parti, che in poche righe mette fine a un rapporto cominciato intorno al 2011 e confermato con la prima uscita pubblica, allo stadio in occasione del derby Inter-Milan. Ora per la 36enne Pascale sembra essere arrivato davvero il momento di voltare pagina. Stando alle indiscrezioni pubblicate sul settimanale Oggi , la ex valletta di Telecafone approdata al Pdl, avrebbe firmato un accordo che prevede appunto una ricca «buonuscita» e una sorta di mantenimento di un milione di euro l'anno. «Il mio rapporto con il presidente non si spegnerà così. Anche se è un legame che si è evoluto nel tempo e non è più catalogabile come relazione di coppia. L'amore può modificarsi, non può sparire»: queste furono le parole della Pascale qualche settimane dopo il comunicato sull'addio. Di recente la ex compagna di Berlusconi - sempre secondo le rivelazioni di Oggi - è stata in più di una occasione fotografata in compagnia della cantante Paola Turci, alla quale sarebbe legata da una «inseparabile amicizia» e con la quale «condivide l'impegno a favore di gay e lesbiche». Il leader di Forza Italia è legato adesso a Marta Fascina, classe '90, nativa calabrese di Melito Porto Salvo ma cresciuta a Portici, deputata di Forza Italia alla prima legislatura. Pur senza smentire la notizia della buonuscita, ieri lo staff di Silvio Berlusconi ha solo aggiunto che si tratta di una questione privata, che ha avuto una sua risoluzione consensuale, anche dal punto di vista finanziario, aggiungendo che il rapporto fra Berlusconi e la Pascale resta di profonda amicizia.
"Buonuscita" di venti milioni e un assegno annuale: separazione fatta tra Berlusconi e Pascale. Pubblicato giovedì, 23 luglio 2020 su La Repubblica.it da Conchita Sannino. Lontanissimo, com'è ovvio, dal riconoscimento economico garantito alla ex moglie Veronica, quasi un milione e mezzo al mese. Ma più solido degli "incentivi" al silenzio da 5 milioni una tantum attribuiti alle frequentatrici del genere Ruby Rubacuori. Francesca Pascale, l'ex first lady più longeva tra le fidanzate berlusconiane, ha portato a caso una buonuscita di 20 milioni, oltre ad un assegno di un milione annuo. Tra il leader di Forza Italia e l'ex consigliera di Fi nella Provincia di Napoli era finita nel marzo scorso, in piena depressione da lockdown. Con la Pascale rimasta sola nella sua villa della Brianza, mentre scopriva dalle solite foto rubate ad arte, che l'ex premier era volato in montagna con un'altra fiamma, la deputata Marta Fascina (anche lei originaria del napoletano). Il presidente aveva liquidato tutto con quattro paroline, per Francesca insopportabilmente cortesi: "Le vorrò sempre bene". Di contro, Francesca lo aveva avvertito, tra una zampata e una lacrimuccia. Lui, aveva precisato, cioè Silvio Berlusconi, "mi ha sempre trattato come una regina". Ergo: adesso voglio lo stesso tenore di vita. E così sia, o quasi, stando alla ricostruzione annunciata da Oggi. "Adesso non potrò certo tornarmene a casa, alla mia vecchia vita, ho dedicato al presidente i miei migliori anni, da quando ero una ragazzina", è quello che ha confidato ai suoi più stretti collaboratori, e legali. Così Pascale ha strappato quasi 2 milioni all'anno, per ciascuno dei dieci anni di convivenza ufficiale. Più quell'assegno che le verrà versato annualmente. Più, a quanto sembra, ancora per molto tempo il domicilio in quella dimora con giardino - battezzata Villa Maria - a Casatenovo in Brianza, fatta realizzare apposta secondo i gusti dell'allora fidanzata, con palestra, saloni, prato inglese dove far scorrazzare i suoi cani. Un secondo indirizzo che segnava già, in tempi in cui questa parola custodiva solo implicazioni sentimentali e non sanitarie, un "distanziamento" graduale dalla vulcanica ex ragazza napoletana. Pascale infatti, a differenza paradossalmente della deputata Fascina, non era silente nelle discussioni politiche, anzi amava intervenire con posizioni a volte spiazzanti per l'ex premier (l'apertura immediata sui diritti e le battaglie Lgbt, i duelli con Salvini allora in ascesa), e non disdegnava neanche scenate di gelosia. Ma quante stagioni aveva attraversato Silvio, con Francesca al fianco, più o meno esibita, più o meno fidanzata ufficiale. Prima la tempesta del caso Noemi Letizia nel 2009, poi il divorzio da Veronica, poi precipitare del suo governo fino alla crisi del 2011, poi l'esplosione dei processi milanesi fino al Ruby ter, con Berlusconi accusato di aver corrotto le testimoni con continue dazioni di denaro e Francesca che confermava a beneficio dei magazine che le cene "erano eleganti". Fino al tramonto di Forza Italia da grande partito di massa a movimento che si fa fagocitare dalle ali a destra che avanzano: Salvini e Meloni. A quante scene, a quanti incontri ha assistito, quella ex determinatissima sua ammiratrice: nata in una famiglia modesta della periferia occidentale del capoluogo partenopeo. "L'ho sempre difeso, ho coltivato la sua stessa passione politica, condiviso la sua passione per il Paese", diceva lei a marzo. Insomma, sa di lui vizi e virtù, e tante cose. Venti milioni valgono bene una pace.
Antonio Massari per il Fatto - Articolo del 18 maggio 2014 – ESTRATTO. La regista e attrice Michelle Bonev è nella procura di Roma per un motivo preciso: la Pascale l'ha querelata dopo l'intervista a Servizio Pubblico, dove la Bonev dichiara che la Pascale è lesbica, che la sua relazione con Berlusconi è fittizia, che l'ex Cavaliere in un'occasione ha picchiato Francesca con un telefono. La Bonev racconta che Berlusconi le parlò della Pascale nel gennaio 2012: "Mi disse: 'Conosco questa ragazza, ha una storia molto particolare... ama stare solo con le donne, questo parte dalla sua infanzia, quando andava a scuola ha avuto un rapporto con la sua insegnante per molto tempo... non ha mai avuto rapporti con gli uomini. Te la vorrei far conoscere...'". "Chiesi a Licia Nunez di farmi incontrare Berlusconi... sono andata a Palazzo Grazioli per la prima volta a marzo 2009... le ragazze... una per una andavano a chiedere le cose che gli servivano per lavoro, per soldi, per pagare la luce, il gas... mi sembrava di stare a una specie di padrino... baciamano...". Bonev racconta che il contatto con Berlusconi avviene attraverso Licia Nunez - spiegando che quest'ultima ha avuto una relazione con Imma Battaglia, storica leader del movimento LGBT, ndr - e dice che grazie a un regalo di compleanno - "una statua di marmo... della Madonna di Milo ... molto alta, molto bella" - Berlusconi le fissò il primo appuntamento. La prima notte non vi fu alcun rapporto sessuale - arriverà in seguito, quando la Bonev intuisce che è l'unico modo per ottenere un contratto …"Ci sono due gruppi di ragazze - dice la Bonev - quelle di Milano e quelle di Roma, non si mischiano molto i gruppi, perché poi sono gelose tra loro... Lui fa: 'Sai lei (la Pascale, ndr) è venuta così perché vuole essere lei al mio fianco, però sai io non voglio che mi fa casini, te la voglio far conoscere perché potremmo fare qualcosa insieme, è una ragazza che ha bisogno di una guida, aveva sempre avuto una storia con una donna molto più grande, è molto simpatica, mi porta le sue amiche e ci divertiamo'. Il giorno dopo mi invita a pranzo per conoscerla. Eravamo io, Francesca, Berlusconi, una delle segretarie e la senatrice Rossi... "La Rossi - continua Bonev - è quella che mi ha accolto e mi ha dato la stanza ad Arcore, mi dicevano che fa la logistica delle ragazze... possono chiamare lei per qualsiasi bisogno, dal succo di frutta al medico... faceva ... le buste per le ragazze, tutto quello che serve perché non parlino, che non facciano casino...". "Ci siamo messi a fare il bagno nella vasca idromassaggio... entriamo io e Francesca, le altre due amiche stavano là, poi improvvisamente si presenta Berlusconi completamente nudo, entra nella vasca, io e Francesca cominciamo a baciarci... lui stava lì a guardare... io e Francesca è la prima volta che abbiamo avuto un rapporto... dopo di che... è stato un rapporto d'amore... da tutto il 2012 fino a febbraio 2013... ci vedevamo tutti i giorni... l'ultimo messaggio prima di dormire... il primo quando si svegliava ... non conoscevo Whatsapp, l'ho conosciuto con lei..."
Dal “Fatto quotidiano” - ARTICOLO DEL 13 NOVEMBRE 2019. “Una storia d’amore bellissima! Grazie #renault”. Così sul suo profilo Instagram Francesca Pascale, compagna di Silvio Berlusconi, commenta lo spot della casa automobilistica francese sulla Clio, ripreso dal sito gay.it e rilanciato sui social dall’ex deputata Paola Concia, ispirato a una storia d’amore tra due donne. La Concia aveva appena twittato: “Cara @renaultitalia mandate questo spot sulle reti italiane, sì? Coraggio, un po’ di coraggio, forza! È bellissimo”. Il tweet della fidanzata dell’ultraottuagenario B. non meraviglia. Proprio in un’intervista a Francesca Fagnani per il Fatto d’inizio novembre, la first lady del mondo berlusconiano ha dichiarato: “Non ho mai usato paletti per definirmi, non ho mai detto né di essere eterosessuale né gay. Nelle amicizie come nell’amore non seguo stereotipi. Dieci anni fa mi sono innamorata di un uomo straordinario, domani chissà. Combattere a favore dei diritti Lgbt va a tutela anche della mia persona: e se domani io scegliessi di vivere in una famiglia arcobaleno? Perché dovrei vivere in uno Stato che mi odia a prescindere?”
Francesca Pascale e Paola Turci "amiche speciali". Che beffa per Berlusconi: è la paparazzata dell'anno? Libero Quotidiano il 17 giugno 2020. Paparazzata clamorosa per Francesca Pascale. Dopo mesi di silenzio e riservatezza, in seguito alla dolorosa rottura con SIlvio Berlusconi lo scorso marzo, la bionda napoletana è stata pizzicata dai paparazzi di Diva e donna in compagnia di un'amica decisamente speciale: Paola Turci. Insieme sul litorale laziale, divertite ed evidentemente serene, la Pascale (tatuaggi sulle braccia sorriso) e la cantante ( che è di casa lì) passeggiano con i rispettivi cagnolini, ridono e si rilassano. In comune, hanno le battaglie per i diritti di gay, lesbiche e trans e per le cosiddette famiglie arcobaleno. Quando la Pascale affrontò il tema ("Non ho mai usato paletti per definirmi, non ho mai detto né di essere eterosessuale né gay. Nelle amicizie come nell’amore non seguo stereotipi. Dieci anni fa mi sono innamorata di un uomo straordinario, domani chissà...") era ancora la compagna del Cav e creò un qualche imbarazzo nell'alleanza di centrodestra. Ora, evidentemente, può concedersi tutte le libertà che vuole. Anche quella di frequentare una anti-berlusconiana agguerrita come la Turchi, che come ricorda Dagospia nel 2011, quando Berlusconi era ancora premier, dedicò al Cav una canzone dal titolo più che esplicito, Devi andartene!.
Andrea Greco per “Oggi” il 6 agosto 2020. Questa volta a essere travolte da un insolito destino nell'azzurro mare d'agosto sono Francesca Pascale e Paola Turci. A vederle che si baciano e si scambiano affettuosità sul superyacht affittato per la loro "vacanza speciale", appare immediatamente evidente che non hanno nessuna intenzione di nascondersi (e fanno bene, perché dovrebbero?) confermando che tra loro c'è quella che noi di Oggi avevamo definito, prudentemente, una "amicizia molto speciale". Certo, anche solo immaginare, prima che accadesse, l'incrocio tra le traiettorie di vita della cantautrice impegnata e segnata dalla vita e della bella ragazza napoletana diventata compagna del miliardario sarebbe sembrata una follia. E invece dopo che la relazione con Silvio Berlusconi è stata archiviata con signorile praticità le due ora sono inseparabili e festeggiano, nelle acque del Cilento, sul lussuoso Lucky, uno yacht di 25 metri con tre uomini d'equipaggio, varato questa primavera, che si noleggia con circa 60 mila euro la settimana: tanti, è vero, ma anche pochi se, come avevamo anticipato con uno scoop sul numero 30, si è appena chiusa una relazione con un uomo ricchissimo ricevendo una "buonuscita" di 20 milioni di euro, rinforzata da una rendita di un milioncino l'anno. Del resto Francesca Pascale, con sincerità, aveva commentato: «Dopo aver dedicato i miei anni migliori a Silvio Berlusconi non potevo tornare a fare la vita di prima». E infatti di quella ragazza napoletana sostenitrice sfegatata del leader di Forza Italia è rimasto poco: si è emancipata dal suo Pigmalione, ha preso consapevolezza, si è lanciata nell'impegno pubblico per i diritti dei gay, e ora un nuovo amore sorprendente. E se ci si sofferma a riflettere sulla parabola di Francesca Pascale, dalle reminescenze del liceo si fa strada il fantasma di Eraclito: «Chi non si aspetta l'inaspettato non scoprirà la verità».
Da liberoquotidiano.it il 6 agosto 2020. La Pascale era stata già immortalata in compagnia dell'amica, anche lei paladina dei diritti di gay, lesbiche e trans ed entrambe strenue sostenitrici delle cosiddette famiglie arcobaleno. L'ex compagna di Berlusconi non ha mai confermato la presunta liaison, ma in passato aveva confessato di "non aver mai usato paletti per definirmi, non ho mai detto né di essere eterosessuale né gay. Nelle amicizie come nell’amore non seguo stereotipi. Dieci anni fa mi sono innamorata di un uomo straordinario, domani chissà". E oggi che la sua storia d'amore con il Cav è finita, pare che la Pascale si sia concessa tutte le libertà, anche quella di frequentare la Turci, da sempre anti-berlusconiana. E non è un caso che la cantante dedicò al Cav una canzone dal titolo più che esplicito, Devi andartene!.
IL TESTO DI ''DEVI ANDARTENE''
Devi andartene, devi andartene via
Perché il tempo passa, passa, passa e va a stringere
Ora basta devi andartene più lontano che puoi
Con la tua luce amara, fuori dai denti (devi andartene)
Perché a giocare col fuoco si richischia di bruciare
E non ci sono promesse che possano guarire
Solo parole che tacciono per non dispiacere
Se penso a tutto il tempo dato in pasto a ferire
Cercando una risposta che non sapesse tradire
Smarriti dentro un mondo che lascia a cader
Che non conosce il senso della parola impedire
Devi andartene, devi andartene via
Perché il trucco si scioglie
E si scopre l'inganno (devi andartene)
Perché con la tua musica hai fatto il tuo tempo
E non ci sono incantesimi che riescano a stupire
Nessuna confessione per piangere un dolore
Ma solo un Dio che parlano sempre basso
Non girano sue foto ma solo ipotesi ma tante ipotesi a favore
Perché ogni tempo ha il suo vento
Ogni stagione ha il suo aprile
Davanti a questo astuto arsenale di burattini
Di astuti poeti al loro finale
Dove l'imbarazzante gioco delle parti diventa
Il solito dantesco girone infernale
Con il monarca sgargiante di cipria
Che perde la testa tra cosce, bracciali e culi di bottiglia
E una scialuppa di derelitti gli battono il sedere
Ma l'applauso osannante è diventato ormai ostile
Perché ogni tempo ha il suo vento
Ogni stagione il suo aprile
Perché ogni tempo ha il suo vento
Ogni stagione il suo aprile
Devi andartene
Devi andartene
Devi andartene
Laura Bogliolo per ''Il Messaggero'' il 7 agosto 2020. «La libertà è sinonimo di felicità». È il re del fashion, ma anche un po' psicologo, amatissimo da tutte le donne: vip, modelle, ma anche casalinghe di Anzio. Tra le sue clienti c'è la nuova coppia dell'estate, Paola Turci e Francesca Pascale, paparazzate mentre si baciano su uno yacht. «Sono loro amico, non ne sapevo nulla, se è come si vede dalle foto sono felice per loro». La lista delle sue fan stellate è lunghissima. Se Valeria Marini chiama di notte, la raggiunge per sistemarle la piega. «È la mia musa, oltre che la madrina di mia figlia Sophie Maelle». Promette che non abbandonerà mai le sue clienti di Anzio dove è nato e vive, anche se è richiestissimo dalle vip. Da bimbo giocava con i capelli della mamma che ha subito compreso il guizzo creativo di quel piccolo. A 15 anni ha messo piede per la prima volta in un salone da barbiere: «Facevo gli shampoo». Oggi, a 30 anni, Federico Lauri (il Federico Fashion style della tv) è riuscito a trasformare il comune di Anzio, vicino Roma, nel regno del beauty della Penisola. Ha aperto un salone a Milano («era un mio sogno, ce l'ho fatta»), altri due a Roma, a piazza di Spagna e dentro l'esclusivo store La Rinascente. È il protagonista del programma Il Salone delle Meraviglie (Real Time), ma già prima era una star di Instagram: ha un milione di followers. Insomma, Federico, appassionato di abiti coloratissimi e pieni di paillettes, è il più amato dalle donne. Il segreto del suo successo? «Fai il tuo lavoro con amore e passione». «Teso'», «troppo top», «no vabbé», i jingle di Federico che riecheggiano nel suo locale e che fanno impazzire le clienti che vengono da ogni parte d'Italia per provare tecniche da sogno: il Fly to sky (Federico crea diverse nuance di colore sostenendo le ciocche con palloncini all'elio), lo shampo con la nutella per riflessi naturali, il ferro che fa le onde. Ama l'oro e il bianco, i suoi saloni, così come i suoi vestiti e i suoi occhi brillano. «Una politica di Anzio ha definito il mio negozio stile Casamonica, ma come si permette?» sbotta. Federico Lauri, 30 anni, dagli shampoo in una bottega di Anzio, a Re del fashion. Ma come ha fatto? «Lavoro, lavoro, lavoro» Niente altro? «La passione, l'amore che si mette in ciò che si fa» Lei ama il suo lavoro, e tutte le donne amano lei. «Ogni donna va ascoltata con attenzione, dietro le loro richieste c'è una motivazione profonda, devi capire perché ti stia chiedendo quel taglio...o quel colore». Molto fashion, ma anche un po' psicologo? «Forse» Valeria Marini, è stata la sua prima cliente vip, è la sua preferita? «Sì, Valeria è nel mio cuore, siamo grandi amici ed è la madrina di mia figlia. È molto esigente, ma Valeria è Valeria: è top! L'adoravo anche prima di conoscerla, lei è stata molto gentile perché ha parlato bene del mio lavoro e così c'è stato il boom» Un boom che dura... ma quante clienti ha? «Non lo so, tantissime, non c'è una vip alla quale non abbia fatto i capelli». Qualche nome? «Aida Yespica, Giulia De Lellis, Alba Parietti, Laura Pausini, Paola Turci, Wanda Icardi, Francesca Pascale» Va bene...va bene... proprio tutte insomma. Com' è la cliente Francesca Pascale? Capricciosa? «No, è una bellissima persona, una ragazza semplice» So che è riuscito in una grande impresa con Paola Turci «Sì è fidata di me, a Sanremo due anni fa le ho consigliato di scoprire il viso, di non coprire le cicatrici con i capelli, sei bellissima le ho detto» Anzio, Milano, Roma: e Dubai? «Devo ancora studiare bene la situazione, come potrei aprire un salone se le donne devono portare il velo?» Un salto negli States? «No, voglio consolidare la situazione in Italia, aprirò un salone a Firenze, stiamo registrando le puntate della quarta stagione de Il Salone delle Meraviglie. Insomma tanta roba. Ho confermato il salone di Anzio come location della trasmissione, perché adoro la mia città, ho contribuito a farla conoscere, ma l'amministrazione non mi è vicina, anzi» Cosa le hanno fatto? «È una lotta per tutto e poi quell'offesa..., il mio salone stile Casamonica. Li querelo...» Le polemiche sui prezzi stellari? Digitando il suo nome su Google, ai primi posti nelle ricerche fatte c'è proprio prezzi. «Il listino è ben visibile, per le extension facciamo un preventivo, il nostro è un lavoro di altissima qualità»
Stefano Filippi per “la Verità” il 17 agosto 2020.
Roberto D'Agostino, fondatore e anima del sito Dagospia, che stagione è questa estate post Covid?
«C'è tensione nell'aria, sono vacanze con le nubi e minacce di temporali, dove la gente se ne va a Ibiza o in Croazia inconsapevole di rischiare la vita». Tu dove ti trovi? «Al mare a Sabaudia».
E mantieni le distanze?
«Più che la vita rischio il girovita, perché mangio sempre. E posso anche permettermi di non frequentare troppo le discoteche».
La gente cerca sempre l'evasione del gossip?
«Si considera il pettegolezzo come un qualcosa "extra vita" mentre, come dicevano i moralisti di una volta, è sempre stato una finestra sul porcile».
Anziché sul cortile.
«Per qualcuno, sotto l'ombrellone bisognerebbe passare le ore a leggere Proust, piuttosto che inseguire Casalino e i suoi amanti, le badanti di Berlusconi e le peripezie di Conte. Il gossip invece attiene all'essere umano».
Addirittura.
«Omero è pieno di pettegolezzi sugli dei dell'Olimpo. Tacito, Svetonio e i grandi storici dell'antica Roma erano i Signorini e i Dagospia dell'epoca. Chi vive senza pettegolezzo non vive nella contemporaneità. Anche la maldicenza più trucibalda può essere una forma di partecipazione e di coinvolgimento in ciò che capita. In qualche modo il pettegolezzo ricostruisce ciò che rimane in sospeso della percezione dei fatti. Il gossip è una bugia che dice la verità, come dicono gli americani. In fondo, la questione è sempre che cos' è la verità».
Parlare delle donne di Berlusconi è raccontare la vera politica?
«Con Berlusconi i partiti hanno cominciato a identificarsi con il loro leader. Comunque un presidente del Consiglio è una personalità istituzionale che rappresenta i cittadini, i quali hanno diritto di sapere per valutare, giudicare, sbertucciare».
Se il Cavaliere fosse rimasto un semplice imprenditore brianzolo, le olgettine non sarebbero interessate a nessuno?
«Se sei un premier è fondamentale sapere chi frequenti. Negli anni Sessanta a Londra scoppiò lo scandalo Profumo, il ministro della Difesa che ebbe una storiella con questa Christine Keeler al soldo dell'Unione sovietica. La mafia portava le donne a John Kennedy per soddisfare il suo satrapismo, e queste tenevano i contatti con i boss. Certe scappatelle possono diventare forme di ricatto: se sei un impiegato delle poste non ce ne frega niente; se sei il presidente degli Stati Uniti, sì».
Ma la stampa dell'epoca taceva.
«Anche di Anja Pieroni si seppe soltanto dopo che l'aereo di Bettino Craxi atterrò in Tunisia. Era tutto segreto. Quand'ero a Panorama ci toccò mandare al macero migliaia di copie perché nella rubrica "Periscopio" c'era una foto di Gabriella di Savoia con Cesare Romiti».
Il Covid ha cambiato il gossip?
«Stare chiusi in quarantena ha disastrato la voglia di evasione. Si parlava solo di mezze calzette della tv. Poi ho tirato fuori quel quartetto delle corna formato da Belen, la Marcuzzi, suo marito e De Martino: una specie di valzerotto, un rondò direbbero a Vienna. Era una cosa divertente ed è stato in qualche modo il via al post quarantena».
Il pettegolezzo accompagna sempre i cambiamenti sociali?
«È un indicatore a volte più significativo di tanti editoriali. Bisognerebbe dire al professor De Rita e al Censis di tenerne più conto».
Ma Berlusconi che passa da Francesca Pascale a Marta Fascina che cosa ci dice?
«È il tramonto del patriarca, anche se finisce sempre con la partita doppia».
Dare e avere.
«L'accordo con la Pascale è scritto ma non ancora firmato. L'avvocato Ghedini, che è il mastino di Berlusconi, non è così favorevole a concederle tutti quei soldi, anche perché lei faceva una vita splendida a spese del Cav. Ecco perché quelle sue paparazzate lesbo con Paola Turci mi puzzano di bruciato: in passato la Calippo-girl non si è mai fatta pizzicare dai teleobiettivi. Ma il tempo delle vacche grasse è finito. Ma non dimentichiamo un lato importante della storia di Berlusconi».
Cioè?
«La stagione delle olgettine e del bunga bunga nasce dopo uno psico-dramma profondo. Berlusconi fu colpito dal tumore alla prostata, erezione addio, ma riuscì a superarlo. Con la “pompetta”…».
Parliamo di Giuseppe Conte fotografato in spiaggia con la compagna bella, triste e silenziosa.
«A dire il vero mi domando perché nessuno riesce a intervistare la moglie separata di Conte».
Magari lei non vuole.
«Si va a rompere i coglioni a tutti, bisognerebbe romperli un po' anche a lei».
E Olivia Paladino?
«È una donna che pone molte domande. Sua figlia porta il cognome della madre, ma chi è il padre? E poi c'è il fatto che Conte è andato ad abitare a Palazzo Chigi, ma vive con lei in un altro appartamento dalle parti di via del Corso. Saranno anche cazzi suoi, ma quando uno diventa premier diventano cazzi di tutti».
Paola Di Caro per Corriere.it il 16 agosto 2020. «Je ne regrette rien» è la canzone che ama di più. E per un uomo che di amori ne ha avuti tanti e di esperienze in ogni campo anche di più, è quella giusta per raccontare e raccontarsi. «Non mi pento di nulla, né del bene che mi è stato fatto, né del male: è lo stesso per me. Viene pagato, spazzato via, dimenticato... Amori spazzati via, con i loro tremolii, torno a zero... Perché la mia vita, le mie gioie, oggi iniziano con te» intonava Edith Piaf. E quante volte Silvio Berlusconi l’ha cantata accompagnandosi al piano, come un inno che ha scandito i suoi pienissimi 83 anni. Sì, perché il rapporto tra il Cavaliere e le donne della sua vita — quelle ufficiali, quelle ufficiose, quelle lecite, quelle proibite — da un primo bilancio è stato davvero da «nessun rimpianto», una sequela di spazzare via, ricominciare. Ma pagando. In sentimenti, certo, come capita a tutti. Ma anche in denaro, come raccontano le cronache delle ultime settimane, con il cadeau di 20 milioni (lievitato rispetto all’offerta iniziale che sembra fosse molto, ma molto più bassa, cinque milioni dicono i bene informati) più una sorta di argent de poche da un milione l’anno per l’ultima ex compagna, Francesca Pascale, con la quale il rapporto si è chiuso ufficialmente a marzo (con un comunicato stampa ufficiale di Forza Italia). Ed è chiaro che per chi se lo può permettere fa meno rumore sia il modo in cui ci si lascia sia il quanto si lascia. Ma non c’è dubbio che l’ex premier — almeno a quanto risulta — ha sempre lasciato un civile ricordo di sé e un lauto riconoscimento economico per il pezzo di vita — lungo o breve che fosse — passato assieme.
«Scrivici quello che vuoi». Forse a fare abbastanza eccezione alla regola è proprio la prima moglie, la riservatissima Carla Elvira dall’Oglio, sposata nel 1965 dopo un anno di fidanzamento e madre dei suoi figli Marina e Pier Silvio. Un matrimonio vissuto ancora poco sotto i riflettori, in tempi in cui già era tanto il successo e altrettanto la ricchezza ma meno la grande fama, tanto che Berlusconi potè vivere in clandestinità dal 1980 la storia parallela con Veronica Lario, nome d’arte di Miriam Raffaella Bartolini, bellissima attrice che recitava nel di lui teatro Teatro Manzoni di Milano e che lo folgorò («Ho sentito un fulmine» disse lui «ma non era un temporale») durante la rappresentazione del Magnifico Cornuto, perché il destino se vuole mette malizia in certi istanti. Per Veronica, 20 anni più giovane, si trasferì a villa Borletti di via Rovani e chiuse il matrimonio con Elvira, nell’85. Da lei, nessuna polemica pubblica, nessuna esternazione, di lei pochissime fotografie, ma un rapporto che — complici i figli — è continuato civilmente e senza scosse, nonostante si racconti che il lascito dopo il divorzio sia stato abbastanza contenuto, che la signora non abbia mai lottato per ottenere di più. Sull’assegno di separazione sembra che abbia dato all’ex marito una sola indicazione: «Scrivici quello che vuoi». Poi, sono stati i figli a provvedere nel tempo a ogni eventuale bisogno, anche passando con lei estati nelle ville dell’ex premier, come quella alle Bermuda.
La seconda vita con la «first lady». Con Veronica comunque inizia la seconda vita di Berlusconi. Sposata nel 1990, quando già erano nati i loro tre figli, Barbara, Eleonora e Luigi, con lei accanto Berlusconi diventa il personaggio conosciuto a tutti quale è. Le tivù, il calcio, le immagini bucoliche della villa di Macherio, una miliardaria famiglia felice sulla quale punterà, e molto, nella campagna elettorale che lo portò nel ‘94 a diventare premier. E se sugli anni che precedettero quel salto lui stesso ogni tanto si lasciava andare a confidenze allegre — le donne gli sono sempre piaciute tanto, troppo — da quel momento in poi Veronica è la first lady. Che si concedeva poco, lo strettissimo necessario, che non parlava, che viveva nel suo mondo privato. Improvvisamente squassato in pubblico quando nel 2007 viene alla luce, come un lunghissimo spettacolo di fuochi d’artificio, la terza vita di Berlusconi.
La terza vita: complimenti e ossessioni. Da tempo il Cavaliere — che pure a volte ancora corteggiava la moglie, per esempio regalandole una romanticissima vacanza a sorpresa a Marrakech per i suoi 50 anni con tanto di travestimento da guerriero berbero — si è fatto sempre più «galante», se non decisamente inopportuno, nel suo lessico. Veronica si vede sempre meno, non lo accompagna, non c’è, mentre ci sono accanto al leader deputate, amiche, attrici, elettrici spasimanti, giovani, bellissime. E Lele Mora racconta di lui «che aveva perso la testa» per Francesca Dellera, e Daniela Santanché che scherza «giuro, è ossessionato da me», e qualcuno che sussurra di una passione a senso unico per Belen, e altre una sorta di stordimento per Mara Carfagna, alla quale disse ridendo alle tivù: «Ti sposerei!». Non c’è occasione in cui l’ex premier non lesini complimenti, finché — avendo lui esagerato alla cerimonia dei Telegatti mandata in tivù — Veronica non si tiene più. E a Repubblica scrive che ha letto di affermazioni «lesive della mia dignità», chiede se debba considerarsi come il personaggio di Catherine Dunne «l’altra metà di niente», vuole proteggere la propria «dignità» e chiede «pubbliche scuse». Che arrivano a stretto giro di posta, presentate come «atto d’amore».
D’Addario «nel lettone di Putin». Non basterà a impedire il precipizio. Perché è vero che il tacito patto tra i coniugi è lasciarsi libertà, ciascuno di vivere separatamente la propria vita e seguire i propri interessi, ma Berlusconi imbocca una via senza ritorno, e sono ormai entrate nella sua vita pubblica e privata troppe donne che porteranno alla deflagrazione, del suo matrimonio e di una parte della sua vita politica. La notizia della sua partecipazione alla festa dei 18 anni della sconosciuta Noemi Letizia, che arriva dopo mesi di frequentazioni anomale con ragazze giovanissime, veline, aspiranti tali in cerca di fortuna, escort professioniste come Patrizia D’Addario con le registrazioni della sua notte nel «lettone di Putin», porta Veronica alla denuncia clamorosa proprio mentre si stanno definendo le liste delle Europee del 2009 nelle quali l’ex premier vuole inserire tante «amiche» che i suoi uomini cercano di depennare. È tutto un «ciarpame senza pudore, tutto in nome del potere», scandito da immagini di «vergini che si offrono al Drago», scrive la Lario, in una lettera aperta che il marito prese malissimo. «È come se mi avesse sparato in bocca», confidò agli amici.
Ruby e i party di villa Certosa. Arriva la richiesta di divorzio, in un clima tesissimo che accompagna mesi tormentati, quelli dei party di villa Certosa tra donne e premier (quello ceco) nudi in piscina, quelli in cui si consuma e diventa poi un clamoroso processo il caso Ruby. Stuoli di ragazze reclutate, pagate, in seguito ancora generosamente mantenute per anni, per allietare le «cene eleganti» del premier. Venne assolto Berlusconi, ma lo scandalo non ha riabilitazione. E la dura battaglia legale con Veronica terminerà solo nel 2019, con un accordo ultra-milionario (46 quelli concessi, più averi, case, azioni), ma almeno una pace siglata, e oggi un rapporto non più conflittuale (dopo l’ultimo accordo sul divorzio ndr, leggi qui) tra i due ex coniugi che sono tornarti occasionalmente a parlarsi, perfino a vedersi di rado. Ha calcolato Tommaso Labate sul Corriere della Sera che tra risarcimenti, assegni di divorzio, donazioni e prestiti senza restituzioni a tantissime donne famose e no (fra le quali la moglie di Marcello Dell’Utri, condannato per mafia, con la formula di un prestito infruttifero, o Nicole Minetti, la consigliera regionale protagonista del caso Ruby), per amore o giustizia, per interesse e quieto vivere o per garantirsi la riservatezza su una vita spesso al limite, dal 2010 a oggi il Cavaliere abbia speso oltre 75 milioni di euro. Fra i quali i 20 per Francesca Pascale, penultima fidanzata ufficiale, conosciuta proprio negli anni più scapigliati.
«Questo è il mio numero...» Napoletana, 35 anni, un passato diviso tra l’amore per la politica e quello per lo spettacolo, la Pascale conosce Berlusconi nel 2009, lo approccia — così lei stessa ha raccontato — a un comizio: «”Questo è il mio numero”, gli dissi allungandogli un pezzetto di carta. “Aspetto una tua telefonata”. (...) Qualche giorno dopo, a mezzanotte, squilla il mio cellulare. (...) Restammo al telefono per due ore filate». Lo frequenta assiduamente e di fatto si trasferisce ad Arcore, ma la storia viene ufficializzata solo nel 2012. Da allora, per anni, il suo ruolo si trasforma: da giovanissima fidanzata a ispiratrice di alcune passioni di Berlusconi, da quelle per i cagnolini (primo della lista, il famoso Dudù) all’apertura sul tema dei diritti in particolar modo per le unioni civili e le famiglie Arcobaleno. E soprattutto, con un malcelato scontento sia della famiglia che dell’entourage del partito, diventa una sorta di “filtro” per il Cavaliere, con un ruolo politico: le frequentazioni, le decisioni, le candidature, le telefonate, su tutto o quasi la sua presenza si fa sentire. Fino al graduale allontanamento negli ultimi due anni e la separazione annunciata addirittura in un comunicato ufficiale del partito nel marzo scorso.
La quarta vita con Marta. E d’altronde la crisi arriva quando un’altra donna entra in quella che può essere considerata la quarta vita di Berlusconi. Più appartata, riservata, tranquilla e accanto a una compagna ancora più giovane delle precedenti, la deputata calabrese Marta Fascina. Trent’anni, nata a Melito di Porto Salvo (Reggio Calabria) ma cresciuta in Campania, la giovane deputata (eletta a 28 anni) ha un passato di collaboratrice di prima fila nell’ufficio stampa del Milan, stimata da Adriano Galliani, graditissima a Berlusconi che ne apprezzò subito le doti di passione vera, ma assieme di low profile. Mai una polemica, mai una dichiarazione fuori posto, mai foto compromettenti, mai moine, mai nulla che non fosse la pubblica adorazione del capo: il suo profilo Instagram riproduce esclusivamente interventi e fotografie del Cavaliere, più un paio di sue immagini che sono diventate praticamente le uniche in circolazione. Perché Marta Fascina vive all’ombra di Berlusconi, nelle sue case, ha passato il lockdown senza separarsi un attimo dal compagno, in religioso silenzio.
Il «passaggio di consegne». Non facile il “passaggio di consegne” tra le due compagne, quella con cui il rapporto finiva e quella con cui cominciava. In un 2018 difficile, nel quale la Pascale appariva sempre più lontana da Arcore e la Fascina sempre più inserita con un ruolo di collaboratrice aggiunta. La Pascale se la prese anche con la responsabile di tutta la comunicazione e i rapporti esterni del Cavaliere, Licia Ronzulli, considerata troppo amica della rivale. Poi avvertì: «Se scoprissi che in questa storia c’è qualcosa di vero, tra me e il presidente finirebbe tutto». È andata così. La silenziosa Fascina ha preso il posto che era della Pascale, sempre più saldamente. Oggi non frequenta più la Camera se non sporadicamente e, se accade, non si lascia sfuggire una parola. Ha anche incontrato i figli del Cavaliere, a villa Certosa, e perfino Veronica per un fugace aperitivo. È lei la first lady. Come la prima, riservatissima. Per quanto, lo dirà il tempo.
Candida Morvillo per corriere.it il 12 agosto 2020. Francesca Pascale è stata per quasi nove anni con Silvio Berlusconi. La cantante Paola Turci ha avuto un marito, ha divorziato e, dopo, ha avuto un fidanzato. La prima ha 35 anni, la seconda 55. Lo scoop dell’estate 2020 sono loro che si baciano su uno yacht di 25 metri al largo del Cilento, travolte da un insolito destino nell’azzurro mare d’agosto. Ma per capire quelle foto pubblicate dal settimanale Oggi bisognerebbe sgombrare il campo dagli annessi di denaro e di potere. Per molti che commentano sui social, sono la prova che Pascale si era finta etero ed è stata con Berlusconi solo per i soldi. Addirittura, che la Turci, è diventata lesbica per godersi i soldi di Berlusconi. Rendiamoci conto. È evidente che, sui pregiudizi e omofobia, c’è ancora un tantino da lavorare. Vero è che nel 2011 in cui Pascale e Berlusconi si fidanzano, lui ha 49 anni più di lei, un patrimonio da 7,8 miliardi di dollari stando ai calcoli di Forbes, una reputazione ai minimi storici causa processi vari e «cene eleganti». Francesca, ventiseienne, napoletana verace, comparirà al suo fianco a un pranzo di Natale, di bianco vestita. Lì ad Arcore, la speranza è che si stia scrivendo la parola «fine» sulla boccaccesca stagione delle olgettine, dei lettoni di Putin o, per dirla con l’espressione della moglie tradita Veronica Lario, delle «vergini che si offrono al drago». Dubbi e veleni sono immediati. Tale Dragomira Bonev, in arte Michelle Bonev, attrice e produttrice, va in Tv da Michele Santoro e accusa Francesca: «È lesbica, io sono stata con lei». Racconta che la ragazza sta alla corte di Berlusconi per «fare pulizia delle altre e diventare first lady». Seguono querele, smentite e, per Francesca, anni vissuti lussuosamente e sfrontatamente. Lei stessa ammetterà con candore di aver inseguito Berlusconi per sei anni. Le foto in cui, ragazzina, esibisce striscioni tipo «Silvio ci manchi» e «Meno male che Silvio c’è» testimoniano la precoce infatuazione perlomeno politica. Nelle interviste ai giornali di famiglia confessa, poi, la marcatura a uomo: apoteosi nel giorno in cui, a un comizio, riesce ad allungargli il suo numero di telefono; mortificazioni negli anni in cui spasima e sgomita per far fuori le altre. Nel 2013, racconta al settimanale Chi: «Prima, mi limitavo a stargli vicino, a condividerlo, a mandare giù rospi, ma il mio amore mi ha portato all’esclusività e alla felicità di oggi. L’ho cercato, l’ho corteggiato, l’ho fatto innamorare e l’ho fatto fidanzare». Ormai, l’«operazione pulizia» è conclusa, un saldo cerchio magico gestisce con regole ferree l’accesso al corpo del capo. Per lei, sono tempi non più sospetti e, nel 2014, appare squisitamente politica la mossa di prendere la tessera di Arcigay e GayLib con un bagno di folla in quel di Borgo Marinari a Napoli. La foto con Alessandro Cecchi Paone e magliette gemelle con logo arcobaleno sancisce semmai una discesa in campo da first lady decisa a intestarsi una sua battaglia e a prendersi una sua visibilità. Non desta interpretazioni maliziose, semmai parecchi malumori interni a Forza Italia. Cecchi Paone ricorda: «Si beccò attacchi durissimi. Daniela Santanchè e Maurizio Gasparri la accusavano di spostare il partito a sinistra». Siamo a dicembre scorso, Francesca Pascale dice all’Huffington Post: «Non amo le definizioni né le categorie. Ora amo Silvio Berlusconi, ma se domani mi innamorassi di una donna, che male ci sarebbe? In amore, tutto è possibile». I più pensano a una frase a effetto per promuovere la battaglia per i diritti Lgbt, ma, col senno di poi, è probabile che l’amore con Silvio fosse già finito e che altri orizzonti sentimentali fossero già aperti, agli occhi della ragazza. Il comunicato che annuncia la separazione dal presidente di Forza Italia è di marzo. Le foto in cui lei bacia Paola Turci, è di fine luglio. Non giova alla causa del libero amore il fatto che, nel mezzo, sempre Oggi pubblichi i dettagli dell’accordo che pone fine alla relazione col tycoon: un’una tantum da venti milioni di euro, un milione all’anno di mantenimento e l’uso di Villa Maria, magione in Brianza con 40mila metri quadrati di parco. Sul punto, i follower di Pascale sprecano commenti del tipo: «Hai fatto il colpaccio e ora ti godi il malloppo». Insomma, il contesto da corte dei Borgia svia assai l’attenzione dal nocciolo della storia. Come spiega Chiara Simonelli, docente di Sessuologia alla Sapienza e presidente dell’Istituto di Sessuologia Italiana di Roma, «oggi, l’orientamento sessuale è sempre più fluido, specie nella generazione dei Millenial, che fatica a incasellarsi fra omosessuali e eterosessuali. Lo dimostrano molto ricerche. C’è meno moralismo e uno, giustamente, non si fa cruccio di nascondersi». Alessandro Cecchi Paone, che in un’altra vita ebbe una moglie e il cui coming out suonò clamoroso in quel 2004 in cui era candidato alle Europee per Forza Italia, è stato vicino a Francesca nel suo impegno per la causa Lgbt dal primo momento e, ora, testimonia al Corriere: «Io l’ho sempre vista innamoratissima di Berlusconi. Non ho mai avuto dubbi sulla sua sincerità. Come insegna la scuola radicale, Francesca metteva insieme il sacrosanto principio di libertà e l’impegno di sentimenti e corpi affinché il privato fosse politico e il politico privato. Mi ha sempre detto: se capitasse a me, come è capitato a te di innamorarmi di una persona del mio sesso, non ci troverei nulla di male». Ricorda: «Mi cercò lei per riflettere sul fatto che il centrodestra non poteva essere appannaggio del mondo post clerico fascista, dei Giovanardi, dei Formigoni, delle Roccella. Da attivista di Forza Italia soprattutto in Campania, voleva tenere viva l’anima libertaria del partito. Aveva aperto i canali con Antonello Sannino dell’Arcigay e con Daniele Priori di GayLib e mi coinvolse in molti incontri, per il ruolo che ho sempre avuto nel partito e in azienda, a Mediaset, come divulgatore. Un giorno, mi trovai a pranzo da solo con lei e con Berlusconi, e lui stesso mi chiese di starle vicino e anche di aiutarla a individuare un progetto di Legge per le Unioni Civili che potesse essere accettato dal centrodestra. Poi, vollero conoscere il mio fidanzato. Ci invitarono al matrimonio della sorella di Francesca a Ravello». Oggi, Cecchi Paone non è stupito dalla svolta di Francesca: «Non perché sia stato testimone di sue inclinazioni saffiche, ma perché abbiamo parlato tanto della sessualità che non è codificata una volta per tutte. Le ho mandato un messaggio affettuoso e mi ha ringraziato. Che viva la sua storia alla luce del sole è enormemente importante: l’accettazione dell’omosessualità maschile è passata, quella dell’omosessualità femminile no. Ci sono donne famose che fanno politica o spettacolo e ancora si nascondono». Intanto, nessuna conferma e nessuna smentita da Francesca e Paola. Se c’è un segno dell’evoluzione del costume è che sempre meno si senta il bisogno di un coming out solenne. La nuova normalità è quella inaugurata dall’asso del volley Paola Egonu, che con semplicità buttò lì, in un’intervista al Corriere: «Dopo la partita, ho telefonato alla mia fidanzata». Ne vennero fuori, su tutti i giornali, paginate di editoriali. Tutti a scrivere della «Generazione Egonu», ma forse i Millenial convinti che l’orientamento sessuale non faccia la differenza sono solo gli apripista di un diverso spirito dei tempi.
Anticipazione da “Oggi” il 12 agosto 2020. Intervistata da OGGI, che la scorsa settimana aveva pubblicato le foto di Francesca Pascale in barca e in intimità con Paola Turci, Vladimir Luxuria svela: «Ho scambiato una serie di messaggi con Francesca, non era arrabbiata per niente. Dopo essere stata tradita e lasciata da Silvio Berlusconi per la sua ultima fiamma, Marta Fascina, Francesca aveva sofferto molto. Questo suo nuovo amore le ha ridato la serenità, e io le ho fatto gli auguri». Aggiunge Alessandro Cecchi Paone: «Le polemiche nate su quello che era un semplice servizio fotografico dimostrano che anche in un rapporto gay le donne pagano il conto due volte: per la loro omosessualità e per il fatto stesso di essere donne. Credo che Silvio Berlusconi dopo la pubblicazione di quelle foto abbia semplicemente sorriso. Del resto le mie battaglie per la libertà e quelle di Francesca a fianco dei movimenti Lgbt avevano sempre il placet di Silvio».
Luxuria: «Francesca Pascale? Una donna senza schemi. Ora è felice ma con Berlusconi è stato amore vero». Giovanna Cavalli il 14 agosto 2020 su Il Corriere della Sera. L’attivista e l’amicizia con la ex del presidente di Forza Italia.
«Ci siamo conosciute nel 2014, quando a sorpresa prese la tessera dell’Arcigay».
L’ultima volta che vi siete sentite?
«Stamattina».
E di che umore era Francesca?
«Mmm... non buono».
Questioni di cuore o di bilancio?
«Era preoccupata, punto. Non posso dirle altro sennò si arrabbia. Non mi faccia rompere un’amicizia», invoca accorta Vladimir Luxuria, da sei anni grande confidente dell’ex prima dama di Palazzo Grazioli, ormai abbandonato pure quello. Secondo il sito Dagospia, dopo le foto del primo bacio in barca con Paola Turci, puntualmente paparazzato, Francesca Pascale sarebbe in comprensibile ansia per la buonuscita da venti milioni accordata, ma non ancora firmata dal suo ex Silvio Berlusconi che, irritato dal nuovo corso sentimentale, potrebbe ripensarci e sforbiciarla, non sia mai».
Quando e come vi siete conosciute?
«A luglio del 2014, quando a sorpresa Francesca prese la tessera dell’Arcigay. I giornali mi chiesero un commento, sperando fosse velenoso, io invece le diedi il benvenuto. A quei tempi si discuteva di unioni civili e adozioni e al Senato i numeri erano ballerini, perciò avere dalla nostra parte la compagna del leader di Forza Italia non poteva che farmi piacere».
Finì che la invitò alla serata finale del Gay Village.
«Me lo aveva proposto lei, pensavo scherzasse, invece si presentò sul serio. Elegantissima, in giacca e pantaloni bianchi, ballammo, brindammo, ci fu un tripudio di foto. L’indomani ci sommersero di critiche. L’ala più retrograda del partito se la prese con lei, la Sinistra accusò me di flirtare con la fidanzata del nemico».
Poi ci fu la famosa cena ad Arcore.
«Berlusconi, che a quei tempi era ai domiciliari, mi mandò a prendere dall’autista. Parlammo del suo cane Dudù: era preoccupato che le volpi potessero aggredirlo nel parco di Villa San Martino, scambiandolo per una pecorella».
Scattaste una foto di gruppo, voi tre insieme in posa con Dudù.
«Come no. I forzisti però erano preoccupati. Tant’è che a mezzanotte, mandata a controllare, si presentò Maria Stella Gelmini, con la scusa di prendere un tè. E io l’indomani venni di nuovo subissata di critiche».
La vostra sorellanza però ha resistito.
«Ci siamo sempre sentite. A volte in videochiamata per parlare di vestiti, borse e scarpe. O di dispiaceri amorosi. Come quando Francesca ha scoperto di essere stata piantata».
Già, per l’onorevole Marta Fascina. Con comunicato stampa.
«Lei se n’era già accorta, ma Berlusconi all’inizio negava, smentiva, sviava. Poi sono uscite le prime foto rubate. Quando si sono lasciati, Francesca ha sofferto molto, era arrabbiata, delusa. Tutti hanno sempre pensato che stesse con lui solo per soldi, invece lo amava davvero e della differenza di età non le importava nulla. Perciò si è sentita tradita».
Della rivale che cosa diceva?
«Beh, non è che potrà farle tanta simpatia, no? Il sospetto che, dietro quel tradimento, ci fosse una manovra politica per allontanarla da Silvio, ci è venuto, mica no. Qualcuno potrebbe aver favorito quella nuova relazione».
Ora però Francesca sta con Paola Turci, così pare.
«Oh, ma lei lo aveva già detto da quel dì: “Se fossi lesbica vorrei esserlo liberamente”. Credo sia sempre stata gender fluid, senza schemi, come molti giovani d’oggi. Del resto, ridendo, mi raccontava di quando suo padre, trovandola un po’ maschiaccio, le dicesse in dialetto: “Francè, tu sì nu masculone”».
È rimasta scottata.
«Sì, ma non è mica per questo che adesso va con le donne. La sento felice, spero che il chiacchiericcio non rovini un rapporto appena iniziato. So che Paola ci è rimasta molto male per le foto del bacio... che poi il servizio non era concordato, sono state davvero paparazzate».
Con Berlusconi si sono sentiti negli ultimi giorni?
«Penso di no. Ma dubito che lui sia arrabbiato per le foto».
E Francesca non teme di averlo contrariato, pregiudicando la buonuscita? Di qui forse a un pizzico del suo malumore?
«Beh, certo anche questo elemento potrebbe influire... Ma sono affari suoi, io non ci metto bocca, che vuole farci litigare? Arrivedeerciii».
Alberto Dandolo per Dagospia il 12 agosto 2020. Il mio rapporto con Francesca Pascale è partito a suon di verbali delle forze dell'ordine e carte bollate. Anni or sono la allora primadonna di Arcore mi querelò per diffamazione poiché scrissi, proprio su questo disgraziato sito, di una sua furibonda lite con una ex assistente di Berlusconi, tal Alessia Ardesi, avvenuta in un supermercato brianzolo. Querela ritirata pochi giorni dopo a seguito di un nostro indimenticabile, divertentissimo incontro. Ci vedemmo il giorno del mio compleanno a casa di comuni amici e da quel momento tra me e Francesca è nato un rapporto assai profondo pur nella sue instabilità e intermittenze. E' stato assai naturale intenderci e poi volerci bene. Parliamo la stessa lingua. Siamo entrambi napoletani. E abbiamo anche uno stesso vocabolario emotivo ed affettivo. Francesca è stato uno dei rapporti di amicizia più complessi, enigmatici, trasparenti e belli che io abbia mai attraversato e in cui mi sia mai tuffato. Un rapporto affamato di parole, incontri, scambi di emozioni ma anche solcato da lunghi, interminabili silenzi e da fughe improvvise e immotivate. Mi chiese di scrivere un libro insieme. Un libro che la raccontasse. Aveva sete di sé. Di far sentire al mondo e prima ancora ricordare a sé stessa che era anche un passato, una storia, un cervello autonomo. Non voleva essere solo un ornamento del potere. Potere, che mi crediate o no, dal quale non era minimamente attratta se non per bilanciare la sua atavica, compulsiva e assai tenera insicurezza. Lei ha amato forsennatamente, disperatamente e forse anche incautamente Silvio Berlusconi. Per lei era un padre, un consigliere, un datore di lavoro, un amante e un complice. Ogni suo singolo istante, in ogni singolo giorno il suo Presidente era il suo tutto. Il suo fine era renderlo felice e non deluderlo. Il Pompetta è stato il suo primo e unico uomo. Francesca non ha mai conosciuto nessun altro nell'intimità del talamo. Con lui aveva un legame profondissimo e complesso. E il loro livello di intimità è conoscenza è straordinariamente profondo quanto potenzialmente pericoloso. Francesca sa tutto, ma proprio tutto della vita, gli affari e i segreti di colui che è e resterà il solo uomo nella sua travagliata e fortunata esistenza. Ma lei non si lascerà pagare il silenzio. Con lei non sarà facile. Non amando veramente il denaro (lei non è vittima) darà la priorità alla sua libertà. Perché lei è una persona libera. Con il sottoscritto e con il resto del mondo Francesca nel privato non ha mai nascosto le sue inclinazioni sessuali. E' stata sin da subito trasparente e chiara. Lei è una donna coraggiosa e incosciente, volubile e generosissima. Ma è anche attraversata da dolori e traumi che spesso la rendono dura e anaffettiva. Silvio sapeva tutto. Sin dall'inizio e ha amato sinceramente Francesca condividendo con lei l'amore per le donne. E molto altro. Nessuno sa che i due si sono anche sposati. Con una cerimonia simbolica si sono detti si è scambiati promessa di amore eterno. Una cerimonia intensa, intima e sul finale anche molto ludica. Francesca amava profondamente anche la famiglia del suo compagno. Era in realtà accettata da tutti, fino a qualche tempo fa anche da Marina. Ecco, Marina... la vera spina nel cuore della Pascale. Negli ultimi tempi, forse anche a causa di troppe persone poco chiare che le circondavano, il loro rapporto era naufragato in un assordante silenzio. Francesca ci piangeva, si disperava. Non riusciva a farsene una ragione della fine del loro legame. Mi chiese, esattamente un anno fa, di correggerle una lettera indirizzata a Marina in occasione del suo compleanno. Una missiva che non spedii mai, forse non per sua volontà. Credo che sia giusto che Marina la legga ora. Perché quelle parole uscivano dal cuore di Francesca. Eccola: "Cara Marina, le parole hanno un peso e sono "cose", sono macigni che hanno il potere di deviare, a volte, il corso degli eventi e il flusso degli affetti. E' per questa ragione che oggi ho preferito scriverti. In virtù del rispetto che in ogni singola parola ho il dovere di infondere. Ti voglio bene. Questo lo sai già. Marina, il bene vero è la cosa più semplice e insieme complessa che esista. Volere bene è un impulso del cuore. Ma è di quello stesso cuore anche una scelta. E la mia stima e il mio sentimento d'affetto per te è istinto e ragione. Non potrei non amarti. Non amare chi con me e come me ama e amerà per sempre lo stesso uomo. Un uomo che per entrambe è un faro. Un riferimento insostituibile. Un padre. Un compagno. Un consigliere. Una guida. Un amore vero. Mi manchi. Mi manca la verità del nostro affetto sincero. Ti chiedo perdono se ti ho ferito o deluso. Sappi però che sono sempre stata in buona fede. A volte è complesso assai rispettare ruoli, aspettative, giudizi, rimbrotti. A volte si sbaglia. Per leggerezza, inesperienza o consigli pretestuosi. Ti chiedo dal profondo del mio cuore e della mia pancia di dare al nostro affetto una seconda possibilità. Ti imploro di non ascoltare voci che, forse, per interesse o smania di potere hanno come unico obiettivo quello di separarci e di metterci l'una contro l'altra. AUGURI Marina. Che sia un giorno di gioia. E che per noi sia l'inizio di un percorso senza filtri, senza terzi, senza parole lasciate macerare nel buco nero del "non detto". Con tutta la stima e la voglia di riabbracciarti. Nuovamente. Con tutta la forza che ho. Con l'amore di sempre. Buon compleanno. Ti voglio bene. Francesca". Dalla rottura con Marina è iniziato un periodo di inquietudine per Francesca. Era addolorata per non sentirsi accettata, compresa. Spesso fuggiva da sola in Spagna o in Olanda e si concedeva lunghi momenti di solitudine e anonimato. Forse anche per staccare la spina da una vita che in realtà era, seppur dotata, una prigione piena di loschi figuri di seconda fila che hanno approfittato della buona fede di questa ragazza di Fuorigrotta che in realtà non ha mai veramente vissuto la spensieratezza dei suoi anni migliori. Francesca era anche spesso attraversata da pensieri cupi. Era terrorizzata all'idea che suo compagno stesse invecchiando. Con me spesso piangeva disperatamente all'idea di sopravvivere al suo Presidente. La sua vita ruotava totalmente intorno a lui tanto da farle non di rado pensare a un gesto estremo una volta che il Pompetta avesse abbandonato la carnale esistenza. Poi l'arrivo di Marta Fascina nella vita del Banana. In realtà la parlamentare che batte ogni record per assenteismo i due già la conoscevano intimamente bene. Ma "Marta la Muta" (in Forza Italia così la chiamano segretamente) è perfetta per questa fetta di vita del Cavaliere. Non parla, non fiata, non emette suoni. Annuisce e asserisce. Una panacea per la corte dei miracoli e dei miracolati da cui il Berlusca è circondato. Per Francesca è invece arrivata la Turci. In realtà la loro amicizia risale a un anno fa. Nel giugno scorso lei chiese proprio a me il numero di Paola. Io non lo avevo. Credo si vogliano bene e si stimiamo assai. Ma lasciamo all'esperto d'amore e permanenti Federico Fashon style concedere interviste e spendere parole sul loro legame. Qualche giorno fa Francesca mi ha bloccato sul cellulare. Proprio nelle ore in cui uscivano su “Oggi”, il settimanale su cui scrivo, le ormai note foto del bacio con la cantante, rilanciate poi da questo e ogni altro sito. Forse doveva trovare nel sottoscritto il capro espiatorio da sacrificare. Lei sa che non sono stato certo io a chiamare i paparazzi o scrivere gli articoli sulle due testate. Ma so anche che non mi ha bloccato dal suo cuore. Lo so di certo. E volevo anche dirle che se la trattativa milionaria malauguratamente non dovesse andare in porto, ho sempre quell'icona russa che Putin regalò 15 anni fa a Lele Mora e che io prontamente "trafugai" (col suo indispettito assenso) dalla sua vecchia casa di Viale Monza. Proprio ieri me la sono fatta valutare: potremmo ricavarne quasi 4mila euro. Non saranno 30 milioni, ma è pur sempre un inizio! Suerte chica. Alberto
Francesca Pascale e l'amico intimo Dandolo: "Ecco la lettera che non ha mai avuto il coraggio di spedire a Marina Berlusconi". Libero Quotidiano il 12 agosto 2020. Dopo la paparazzata killer in barca con Paola Turci (topless e bacio molto intimo), la lettera mai spedita a Marina Berlusconi. Per Francesca Pascale è in arrivo un'altra bomba. La sgancia Alberto Dandolo, piccantissimo reporter di gossip di Oggi (che ha pubblicato le foto) e di Dagospia, assai addentro al mondo LGBT di cui la Pascale farebbe parte. "Il mio rapporto con Francesca Pascale è partito a suon di verbali delle forze dell'ordine e carte bollate - ricorda -. Anni or sono la allora primadonna di Arcore mi querelò per diffamazione poiché scrissi, proprio su questo disgraziato sito, di una sua furibonda lite con una ex assistente di Berlusconi, tal Alessia Ardesi, avvenuta in un supermercato brianzolo. Querela ritirata pochi giorni dopo a seguito di un nostro indimenticabile, divertentissimo incontro". L'ex lady Berlusconi e Dandolo, entrambi napoletani, si incontrarono e da quel momento "è nato un rapporto assai profondo pur nella sue instabilità e intermittenze". Diventato quasi un suo consigliere, ne rivela il lato segreto ("Con il sottoscritto e con il resto del mondo Francesca nel privato non ha mai nascosto le sue inclinazioni sessuali") ma soprattutto regala ai lettori di Dago un succoso retroscena. "Francesca amava profondamente anche la famiglia del suo compagno. Era in realtà accettata da tutti, fino a qualche tempo fa anche da Marina. Ecco, Marina... la vera spina nel cuore della Pascale. Negli ultimi tempi, forse anche a causa di troppe persone poco chiare che le circondavano, il loro rapporto era naufragato in un assordante silenzio". La Pascale, scrive Dandolo, "ci piangeva, si disperava. Non riusciva a farsene una ragione della fine del loro legame. Mi chiese, esattamente un anno fa, di correggerle una lettera indirizzata a Marina in occasione del suo compleanno. Una missiva che non spedii mai, forse non per sua volontà. Credo che sia giusto che Marina la legga ora. Perché quelle parole uscivano dal cuore di Francesca. "Cara Marina - recitava quella lettera vergata dal duo Pascale-Dandolo -, le parole hanno un peso e sono "cose", sono macigni che hanno il potere di deviare, a volte, il corso degli eventi e il flusso degli affetti. E' per questa ragione che oggi ho preferito scriverti. In virtù del rispetto che in ogni singola parola ho il dovere di infondere. Ti voglio bene. Questo lo sai già. Marina, il bene vero e' la cosa più semplice e insieme complessa che esista. Volere bene è un impulso del cuore. Ma è di quello stesso cuore anche una scelta. E la mia stima e il mio sentimento d'affetto per te e' istinto e ragione. Non potrei non amarti. Non amare chi con me e come me ama e amerà per sempre lo stesso uomo. Un uomo che per entrambe è un faro. Un riferimento insostituibile. Un padre. Un compagno. Un consigliere. Una guida. Un amore vero. Mi manchi. Mi manca la verità del nostro affetto sincero. Ti chiedo perdono se ti ho ferito o deluso. Sappi però che sono sempre stata in buona fede. A volte è complesso assai rispettare ruoli, aspettative, giudizi, rimbrotti. A volte si sbaglia. Per leggerezza, inesperienza o consigli pretestuosi. Ti chiedo dal profondo del mio cuore e della mia pancia di dare al nostro affetto una seconda possibilità. Ti imploro di non ascoltare voci che, forse, per interesse o smania di potere hanno come unico obiettivo quello di separarci e di metterci l'una contro l'altra. AUGURI Marina. Che sia un giorno di gioia. E che per noi sia l'inizio di un percorso senza filtri, senza terzi, senza parole lasciate macerare nel buco nero del "non detto". Con tutta la stima e la voglia di riabbracciarti. Nuovamente. Con tutta la forza che ho. Con l'amore di sempre. Buon compleanno. Ti voglio bene. Francesca".
DAGOREPORT il 13 agosto 2020. Fa caldo ma la signorina Francesca Pascale suda freddo. E da parecchio mesi. Il motivo? Il contratto di buonuscita da 20 milioni (ma lei ne aveva richiesti 10 in più), più un assegno annuale di “mantenimento” da un altro milione di euro, non è ancora stato firmato da Silvio Berlusconi (che era intenzionato a liquidarla con 5 milioni). Il Dracula del Banana, l’esimio avvocato Niccolò Ghedini, non è per nulla convinto del TFR da elargire all’ex protagonista dello spot del “Calippo” (unica sua performance artistica). Nel comunicato dello scorso 4 marzo, firmato dall’ufficio stampa di Forza Italia (!), Ghedini ha tenuto a precisare quanto segue: “Continua a sussistere un rapporto di affetto e di vera e profonda amicizia fra il presidente Silvio Berlusconi e la signora Francesca Pascale, ma non vi è fra loro alcuna relazione sentimentale o di coppia.” Traduzione dell’ultima riga: per evitare una eventuale causa legale della Pascale al fine di ottenere un risarcimento per la convivenza more uxorio (cioè, senza vincolo matrimoniale), Ghedini si è cautelato di far piazza pulita di qualsiasi ipotesi di riconoscimento di “coppia di fatto”, dopo un fidanzamento durato 10 anni. Nell’attesa di trovare un accordo, Ghedini si è portato avanti con il lavoro: pur lasciandole Villa Maria in comodato d’uso (con una coppia di domestici filippini e spese di gestione pagate), alla Pascale sono stati tolti gli autisti che aveva sempre a disposizione e la possibilità di viaggiare con gli aerei privati messi a disposizione dal Cavalier Pompetta. Del resto, non è difficile in questo periodo vederla personalmente guidare la sua automobile tra Villa Maria (locata a Rogoredo di Casatenovo) e Milano o all’aeroporto intruppata col biglietto in mano a far la fila al checkin, come una qualunque mortale. Intanto, i rapporti tra l’ex Calippa e il satrapo di Arcore si sono raffreddati, ridotti a rare e sbrigative telefonate. Molto attenta a non fargli perdere la santa pazienza prima di raggiungere l’agognato accordo economico. Tant’è che evita accuratamente di rilasciare qualunque tipo di intervista sul loro rapporto passato e presente o sulla nuova liason di Silvietto con la deputata (per mancanza di prove) Marta Fascina - fino a poco tempo fa sua intima amica nonché ospite fissa ad Arcore. Infine, il feeling tra i due ex piccioni non è migliorato con la pubblicazione delle immagini della storia sentimentale esibita della Pascale con Paola Turci, nota per aver interpretato “Devi andartene”, una rovente canzone contro il Banana.
Berlusconi e le conseguenze (economiche) dell’amore. Paola Di Caro il 15/8/2020 su Il Corriere della Sera. Fra risarcimenti, assegni di divorzio, donazioni per quieto vivere o per garantirsi riservatezza, dal 2010 a oggi il Cavaliere avrebbe speso oltre 75 milioni. Dalla prima moglie all’attuale compagna, breve storia di una vita sentimentale affollata. «Je ne regret rien» è la canzone che ama di più. E per un uomo che di amori ne ha avuti tanti e di esperienze in ogni campo anche di più, è quella giusta per raccontare e raccontarsi. «Non mi pento di nulla, né del bene che mi è stato fatto, né del male: è lo stesso per me. Viene pagato, spazzato via, dimenticato... Amori spazzati via, con i loro tremolii, torno a zero... Perché la mia vita, le mie gioie, oggi iniziano con te» intonava Edith Piaf. E quante volte Silvio Berlusconi l’ha cantata accompagnandosi al piano, come un inno che ha scandito i suoi pienissimi 83 anni. Sì, perché il rapporto tra il Cavaliere e le donne della sua vita — quelle ufficiali, quelle ufficiose, quelle lecite, quelle proibite — da un primo bilancio è stato davvero da «nessun rimpianto», una sequela di spazzare via, ricominciare. Ma pagando. In sentimenti, certo, come capita a tutti. Ma anche in denaro, come raccontano le cronache delle ultime settimane, con il cadeau di 20 milioni (lievitato rispetto all’offerta iniziale che sembra fosse molto, ma molto più bassa, cinque milioni dicono i bene informati) più una sorta di argent de poche da un milione l’anno per l’ultima ex compagna, Francesca Pascale, con la quale il rapporto si è chiuso ufficialmente a marzo (c0n un comunicato stampa ufficiale di Forza Italia, leggi qui). Ed è chiaro che per chi se lo può permettere fa meno rumore sia il modo in cui ci si lascia sia il quanto si lascia. Ma non c’è dubbio che l’ex premier — almeno a quanto risulta — ha sempre lasciato un civile ricordo di sé e un lauto riconoscimento economico per il pezzo di vita — lungo o breve che fosse — passato assieme. Forse a fare abbastanza eccezione alla regola è proprio la prima moglie, la riservatissima Carla Elvira dall’Oglio, sposata nel 1965 dopo un anno di fidanzamento e madre dei suoi figli Marina e Pier Silvio. Un matrimonio vissuto ancora poco sotto i riflettori, in tempi in cui già era tanto il successo e altrettanto la ricchezza ma meno la grande fama, tanto che Berlusconi potè vivere in clandestinità dal 1980 la storia parallela con Veronica Lario, nome d’arte di Miriam Raffaella Bartolini, bellissima attrice che recitava nel di lui teatro Teatro Manzoni di Milano e che lo folgorò («Ho sentito un fulmine» disse lui «ma non era un temporale») durante la rappresentazione del Magnifico Cornuto, perché il destino se vuole mette malizia in certi istanti. Per Veronica, 20 anni più giovane, si trasferì a villa Borletti di via Rovani e chiuse il matrimonio con Elvira, nell’85. Da lei, nessuna polemica pubblica, nessuna esternazione, di lei pochissime fotografie, ma un rapporto che — complici i figli — è continuato civilmente e senza scosse, nonostante si racconti che il lascito dopo il divorzio sia stato abbastanza contenuto, che la signora non abbia mai lottato per ottenere di più. Sull’assegno di separazione sembra che abbia dato all’ex marito una sola indicazione: «Scrivici quello che vuoi». Poi, sono stati i figli a provvedere nel tempo a ogni eventuale bisogno, anche passando con lei estati nelle ville dell’ex premier, come quella alle Bermuda.
La seconda vita con la «first lady». Con Veronica comunque inizia la seconda vita di Berlusconi. Sposata nel 1990, quando già erano nati i loro tre figli, Barbara, Eleonora e Luigi, con lei accanto Berlusconi diventa il personaggio conosciuto a tutti quale è. Le tivù, il calcio, le immagini bucoliche della villa di Macherio, una miliardaria famiglia felice sulla quale punterà, e molto, nella campagna elettorale che lo portò nel ‘94 a diventare premier. E se sugli anni che precedettero quel salto lui stesso ogni tanto si lasciava andare a confidenze allegre — le donne gli sono sempre piaciute tanto, troppo — da quel momento in poi Veronica è la first lady. Che si concedeva poco, lo strettissimo necessario, che non parlava, che viveva nel suo mondo privato. Improvvisamente squassato in pubblico quando nel 2007 viene alla luce, come un lunghissimo spettacolo di fuochi d’artificio, la terza vita di Berlusconi.
La terza vita: complimenti e ossessioni. Da tempo il Cavaliere — che pure a volte ancora corteggiava la moglie, per esempio regalandole una romanticissima vacanza a sorpresa a Marrakech per i suoi 50 anni con tanto di travestimento da guerriero berbero — si è fatto sempre più «galante», se non decisamente inopportuno, nel suo lessico. Veronica si vede sempre meno, non lo accompagna, non c’è, mentre ci sono accanto al leader deputate, amiche, attrici, elettrici spasimanti, giovani, bellissime. E Lele Mora racconta di lui «che aveva perso la testa» per Francesca Dellera, e Daniela Santanché che scherza «giuro, è ossessionato da me», e qualcuno che sussurra di una passione a senso unico per Belen, e altre una sorta di stordimento per Mara Carfagna, alla quale disse ridendo alle tivù: «Ti sposerei!». Non c’è occasione in cui l’ex premier non lesini complimenti, finché — avendo lui esagerato alla cerimonia dei Telegatti mandata in tivù — Veronica non si tiene più. E a Repubblica scrive che ha letto di affermazioni «lesive della mia dignità», chiede se debba considerarsi come il personaggio di Catherine Dunne «l’altra metà di niente», vuole proteggere la propria «dignità» e chiede «pubbliche scuse». Che arrivano a stretto giro di posta, presentate come «atto d’amore».
D’Addario «nel lettone di Putin». Non basterà a impedire il precipizio. Perché è vero che il tacito patto tra i coniugi è lasciarsi libertà, ciascuno di vivere separatamente la propria vita e seguire i propri interessi, ma Berlusconi imbocca una via senza ritorno, e sono ormai entrate nella sua vita pubblica e privata troppe donne che porteranno alla deflagrazione, del suo matrimonio e di una parte della sua vita politica. La notizia della sua partecipazione alla festa dei 18 anni della sconosciuta Noemi Letizia, che arriva dopo mesi di frequentazioni anomale con ragazze giovanissime, veline, aspiranti tali in cerca di fortuna, escort professioniste come Patrizia D’Addario con le registrazioni della sua notte nel «lettone di Putin», porta Veronica alla denuncia clamorosa proprio mentre si stanno definendo le liste delle Europee del 2009 nelle quali l’ex premier vuole inserire tante «amiche» che i suoi uomini cercano di depennare. È tutto un «ciarpame senza pudore, tutto in nome del potere», scandito da immagini di «vergini che si offrono al Drago», scrive la Lario, in una lettera aperta che il marito prese malissimo. «È come se mi avesse sparato in bocca», confidò agli amici.
Ruby e i party di villa Certosa. Arriva la richiesta di divorzio, in un clima tesissimo che accompagna mesi tormentati, quelli dei party di villa Certosa tra donne e premier (quello ceco) nudi in piscina, quelli in cui si consuma e diventa poi un clamoroso processo il caso Ruby. Stuoli di ragazze reclutate, pagate, in seguito ancora generosamente mantenute per anni, per allietare le «cene eleganti» del premier. Venne assolto Berlusconi, ma lo scandalo non ha riabilitazione. E la dura battaglia legale con Veronica terminerà solo nel 2019, con un accordo ultra-milionario (46 quelli concessi, più averi, case, azioni), ma almeno una pace siglata, e oggi un rapporto non più conflittuale (dopo l’ultimo accordo sul divorzio ndr, leggi qui) tra i due ex coniugi che sono tornarti occasionalmente a parlarsi, perfino a vedersi di rado. Ha calcolato Tommaso Labate sul Corriere della Sera che tra risarcimenti, assegni di divorzio, donazioni e prestiti senza restituzioni a tantissime donne famose e no (fra le quali la moglie di Marcello Dell’Utri, condannato per mafia, con la formula di un prestito infruttifero, o Nicole Minetti, la consigliera regionale protagonista del caso Ruby), per amore o giustizia, per interesse e quieto vivere o per garantirsi la riservatezza su una vita spesso al limite, dal 2010 a oggi il Cavaliere abbia speso oltre 75 milioni di euro. Fra i quali i 20 per Francesca Pascale, penultima fidanzata ufficiale, conosciuta proprio negli anni più scapigliati.
«Questo è il mio numero...». Napoletana, 35 anni, un passato diviso tra l’amore per la politica e quello per lo spettacolo, la Pascale conosce Berlusconi nel 2009, lo approccia — così lei stessa ha raccontato — a un comizio: «”Questo è il mio numero”, gli dissi allungandogli un pezzetto di carta. “Aspetto una tua telefonata”. (...) Qualche giorno dopo, a mezzanotte, squilla il mio cellulare. (...) Restammo al telefono per due ore filate». Lo frequenta assiduamente e di fatto si trasferisce ad Arcore, ma la storia viene ufficializzata solo nel 2012. Da allora, per anni, il suo ruolo si trasforma: da giovanissima fidanzata a ispiratrice di alcune passioni di Berlusconi, da quelle per i cagnolini (primo della lista, il famoso Dudù) all’apertura sul tema dei diritti in particolar modo per le unioni civili e le famiglie Arcobaleno. E soprattutto, con un malcelato scontento sia della famiglia che dell’entourage del partito, diventa una sorta di “filtro” per il Cavaliere, con un ruolo politico: le frequentazioni, le decisioni, le candidature, le telefonate, su tutto o quasi la sua presenza si fa sentire. Fino al graduale allontanamento negli ultimi due anni e la separazione annunciata addirittura in un comunicato ufficiale del partito nel marzo scorso.
La quarta vita con Marta. E d’altronde la crisi arriva quando un’altra donna entra in quella che può essere considerata la quarta vita di Berlusconi. Più appartata, riservata, tranquilla e accanto a una compagna ancora più giovane delle precedenti, la deputata calabrese Marta Fascina. Trent’anni, nata a Melito di Porto Salvo (Reggio Calabria) ma cresciuta in Campania, la giovane deputata (eletta a 28 anni) ha un passato di collaboratrice di prima fila nell’ufficio stampa del Milan, stimata da Adriano Galliani, graditissima a Berlusconi che ne apprezzò subito le doti di passione vera, ma assieme di low profile. Mai una polemica, mai una dichiarazione fuori posto, mai foto compromettenti, mai moine, mai nulla che non fosse la pubblica adorazione del capo: il suo profilo Instagram riproduce esclusivamente interventi e fotografie del Cavaliere, più un paio di sue immagini che sono diventate praticamente le uniche in circolazione. Perché Marta Fascina vive all’ombra di Berlusconi, nelle sue case, ha passato il lockdown senza separarsi un attimo dal compagno, in religioso silenzio.
Il «passaggio di consegne». Non facile il “passaggio di consegne” tra le due compagne, quella con cui il rapporto finiva e quella con cui cominciava. In un 2018 difficile, nel quale la Pascale appariva sempre più lontana da Arcore e la Fascina sempre più inserita con un ruolo di collaboratrice aggiunta. La Pascale se la prese anche con la responsabile di tutta la comunicazione e i rapporti esterni del Cavaliere, Licia Ronzulli, considerata troppo amica della rivale. Poi avvertì: «Se scoprissi che in questa storia c’è qualcosa di vero, tra me e il presidente finirebbe tutto». È andata così. La silenziosa Fascina ha preso il posto che era della Pascale, sempre più saldamente. Oggi non frequenta più la Camera se non sporadicamente e, se accade, non si lascia sfuggire una parola. Ha anche incontrato i figli del Cavaliere, a villa Certosa, e perfino Veronica per un fugace aperitivo. È lei la first lady. Come la prima, riservatissima. Per quanto, lo dirà il tempo.
Non solo Pascale. Berlusconi e le separazioni: prestiti, aiuti e una cascata di milioni. Tommaso Labate 24/7/2020 su Il Corriere della Sera. Adesso che si è aggiunta anche Francesca Pascale, con l’accordo che prevederebbe un viaggio di sola andata di venti milioni di euro (più un altro milione l’anno) dal conto di Silvio Berlusconi al suo, il club dei sei zeri raggiunge il quinto socio. Quantomeno certificato. Per l’appunto lei, l’ex fidanzata del Cavaliere, che si ritrova anche la possibilità di continuare a vivere nella nuovissima Villa Maria di Casatenovo; oltre ovviamente al «bene che le vorrò sempre», che vale quel che vale, sussurrato in privato dall’ex premier all’indomani del gelido comunicato di Forza Italia che in piena emergenza Covid sanciva la fine di una love story durata anni. Dal 2010 a oggi, tra sentenze del tribunale poi cancellate e «prestiti infruttiferi», sono cinque le persone a cui Berlusconi ha elargito assegni con un importo superiore ai sei zeri. Dalla seconda moglie Veronica Lario, rispetto a cui l’ex premier ha rinunciato a un credito di 46 milioni di euro figlio di una sentenza di divorzio poi smontata dalla Cassazione (va detto che Lario, nell’accordo finale, ha rinunciato a chiedere un credito di 18 milioni nei confronti della controparte), a un nome sconosciuto al grande pubblico, la signora Miranda Anna Ratti. Trattasi della moglie del fondatore di Forza Italia Marcello Dell’Utri, condannato in via definitiva a sette anni per concorso esterno in associazione mafiosa. Alla famiglia dell’ex senatore, mentre quest’ultimo si trova rinchiuso nel carcere di Parma, tra il novembre del 2016 e il febbraio del 2017 Berlusconi fa avere dai propri conti correnti una cifra superiore ai tre milioni di euro. La dicitura è quella che ricorre sempre, «prestiti infruttiferi», fratello gemello di quel «fondo perduto» che abbiamo imparato a maneggiare nei giorni dell’accordo sul Recovery fund. Sono i soldi che presti e che sai che non rivedrai mai. Come capitò con i primi due iscritti al club dei sei zeri finanziato da Berlusconi con assegni superiore al milione: l’ex agente delle star Lele Mora e il fu direttore del Tg4 Emilio Fede, premiati all’inizio del decennio scorso con la bellezza di 2,8 milioni di euro. Era l’alba del 2010 e il duo Fede&Mora, presentandosi ad Arcore, inizia a raccontare all’allora presidente del Consiglio delle difficoltà in cui si trova l’agenzia dell’ultimo. Berlusconi, l’avrebbe ricostruito lui stesso testimoniando al processo per concorso in bancarotta a carico del giornalista, stacca tre assegni: un milione all’inizio dell’anno, un milione e mezzo in primavera e 300 mila euro in autunno. Com’è noto, Fede tratterrà praticamente un terzo della cifra; e la villa in Sardegna con la cui vendita Mora avrebbe dovuto restituire i soldi ad Arcore, nel frattempo, sparisce dalla sua disponibilità. «Prestito infruttifero». Ma non c’è soltanto il club dei sei zeri, che negli ultimi anni alleggerisce il portafoglio berlusconiano di una cifra superiore ai 70 milioni di euro. Ci sono anche i prestiti, diciamo così, più leggeri. «La persona più generosa del mondo», come l’ha chiamato la sua storica segretaria Marinella Brambilla testimoniando nel febbraio scorso al tribunale di Bari, ha prestato nel 2011 30 mila euro all’imprenditore Gianpaolo Tarantini tramite Valter Lavitola. Dieci volte tanto porta a casa, sempre dai conti correnti berlusconiani, l’ex consigliere regionale Nicole Minetti, arrivando a incassare per parecchi mesi (dal 2014 al 2016) una specie di stipendio mensile di 15 mila euro. Più 65 mila euro che arrivano alla fine del 2015. Soldi che vanno ad aggiungersi ai quasi trecentomila euro versati alle olgettine (guidava la classifica Alessandra Sorcinelli con 130 mila euro in tre bonifici). La cifra totale censita viaggia verso i 75 milioni e forse li supera anche di slancio. La riservatezza dell’accordo seguito alla separazione consensuale tra Berlusconi e la prima moglie Carla Dall’Oglio del 1985, per esempio, non è mai stata violata dalle parti.
Vittorio Feltri per “Libero quotidiano” il 25 luglio 2020. Leggo qua e là articoli e interventi sui social nei quali si deplora Silvio Berlusconi perché ha liquidato la ex fidanzata, Pascale, con la bellezza di venti milioni di euro e con un bonus di un milione all'anno. Nella maggior parte dei commenti negativi colgo sentimenti di invidia sia verso la ragazza che ha riscosso sia verso l'uomo potente che ha sborsato. L'odio sociale in effetti è alimentato quasi sempre dal denaro: chi ne ha tanto è detestato da chi ne ha poco e deve combattere ogni giorno per sopravvivere. Il guaio dei poveri è che invece di imitare i ricchi, cercando di diventare come loro, cioè abbienti, li disprezzano e combattono quali nemici. Siamo alla follia pura. Il Cavaliere è diventato ciò che è in quanto è bravo, ha lavorato come un matto fin da giovanissimo, ha realizzato progetti che sembravano proibitivi, costruito città, aperto televisioni e banche, insomma ha messo in piedi un impero con le sue mani d'oro e il suo cervello fino, e in politica ha battuto avversari fortissimi. Ovvio che abbia accumulato un patrimonio mostruoso, di cui è padrone di disporre come gli garba. Se ha deciso di rendere serena l'esistenza di una fanciulla che lo ha allietato per alcuni anni, versandole un cospicuo appannaggio, sono affari rigorosamente suoi. A noi con le pezze sul sedere le sue donazioni generose non riguardano. Per usare una espressione poco elegante: sono cazzi suoi. Dobbiamo smetterla di farci il sangue amaro nel constatare che gli uomini non sono tutti mediocri: alcuni di essi, per esempio Silvio, sono più bravi e intelligenti di altri e dispongono di una liquidità che noi ci sogniamo. È chiaro il concetto o necessita di ulteriori delucidazioni? Mettiamoci in testa che Berlusconi è Berlusconi mentre noi non siamo un tubo. Beato lui, possiamo solo stimarlo e lodarlo, altro che biasimarlo poiché si è scopato ogni donna scopabile di questo mondo. Qualcuno lo ha sgridato perché si era addirittura dotato di un condominio pieno zeppo di signore compiacenti che gli rallegravano le serate. Ma dove è il problema? Il desiderio di qualsiasi italiano è avere un parco di belle dame a disposizione, è assurdo condannare chi tale desiderio è riuscito a trasformare in realtà. Ora c'è chi arriccia il naso a causa del fatto che la stupenda Francesca incamera una indennità di fine servizio lauta. Non ci trovo nulla di disdicevole. Ciascuno del proprio denaro fa ciò che vuole e chi lo intasca è soltanto fortunato, non va vituperato, semmai applaudito. Prima di chiudere, vorrei spendere qualche riga in difesa di Maria Elena Boschi, presa di mira dai bacchettoni di sinistra e di destra perché si è fatta fotografare in bikini a bordo di una barca. Chissà per quale ragione l'onorevole non sarebbe abilitata a indossare i due pezzi, cosa che fanno varie donne al mare d'estate, in vacanza. A me piace pure vestita di tutto punto, figuriamoci mezza biotta, è uno spettacolo, l'unico che gradisco fornito dal ceto politico. Piantiamola di essere bigotti e rimbambiti. Viva la libertà.
· Berlusconi e la Giustizia.
Quando con una telefonata all’alba iniziò la caccia a Berlusconi. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 20 Luglio 2020. Mille giorni dopo Tangentopoli e Mani Pulite mi capitò di venir svegliata di notte. O forse era l’alba del 22 novembre 1994. Senza capire che ora fosse né dove io mi trovassi, risposi al telefono con l’immediata sensazione che qualcosa di grave fosse accaduto o stesse per accadere. Appresi così, dalla voce del mio amico Memmo Contestabile, sottosegretario alla giustizia, che il Corriere della sera sarebbe uscito a pagina piena con la notizia di un’informazione di garanzia al presidente del Consiglio Silvio Berlusconi. Ci risiamo, ho pensato subito. Benché non frequentassi più da due anni la sala stampa del Palazzo di Giustizia di Milano, rividi con lo sguardo del passato il quarto piano con gli uffici della procura, immaginai gli sguardi soddisfatti dei sostituti procuratori che incedevano nel corridoio con il consueto codazzo dei cronisti giudiziari. Ebbi l’immagine plastica dell’ufficio da cui era partita la notizia in esclusiva per il Corriere e la faccia del giornalista prescelto per lo scoop. E la mente geniale di chi aveva scelto la data adatta. Ero andata a Napoli in compagnia del ministro guardasigilli Alfredo Biondi e il sottosegretario Contestabile, i quali con me, che ero Presidente della Commissione giustizia della Camera, avevano formato il primo gruppo dei garantisti ai tempi del governo Berlusconi. L’appuntamento era di quelli destinati a diventare storici. Se poi lo fu, sarà per motivi opposti a quelli sperati. La mattina in cui Berlusconi, e sarà la prima volta per un presidente del Consiglio in carica, riceverà un mandato di comparizione firmato dal pm Antonio Di Pietro, si sarebbe inaugurata la prima Conferenza mondiale sulla giustizia. E si inaugurò, davanti alla faccia sgomenta di personalità del mondo politico e giudiziario provenienti da tutto il mondo. E noi relatori costretti a sfilare in una passerella accecante di fotografi e televisioni. Tutti avevano visto il Corriere. Seppi da subito che il governo non sarebbe durato a lungo. La mia esperienza degli anni precedenti, prima ancora di Tangentopoli e fin dai tempi della Duomo Connection, mi aveva insegnato che una notizia di cronaca giudiziaria, se va a toccare la politica, non è mai frutto solo di attività giornalistica. E il Corriere non era l’Unità, ma era Confindustria e Mediobanca. Avevo negli occhi il percorso con cui si erano salvati i proprietari di grandi testate, chinando la testa davanti alle Procure ed evitando il carcere. Gli industriali della carta insieme ai propri giornalisti avevano svolto il ruolo di tricoteuses mentre i procuratori alzavano le ghigliottine. Il “matrimonio” non si era mai sciolto, fin dal giorno in cui il procuratore Borrelli aveva ammonito: «Chi ha scheletri nell’armadio non si candidi». Quell’armadio, nelle sue parole, stazionava in una stanza di casa Berlusconi. Che non solo si era candidato, ma aveva anche vinto le elezioni. Il primo conto lo aveva già pagato, nell’estate del 1994, quando era stato costretto a ritirare il famoso “decreto Biondi”, che aveva tentato di mettere ordine nei principi della custodia cautelare. Il provvedimento era stato da subito ribattezzato “salvaladri” e i pm di Milano avevano sfilato davanti alle telecamere con le barbe lunghe e gli occhi arrossati minacciando dimissioni di massa. Il decreto non sarà riconvertito, ma quegli stessi magistrati che, dicevano, con quelle scarcerazioni non potevano più lavorare, non riarrestarono quasi più nessuno. La manette erano dunque così indispensabili? La mattina del 22 novembre 1994 era stata anticipata da strani movimenti nei giorni precedenti, al quarto piano del palazzaccio di Milano. Numerosi cronisti avevano notato il passaggio di alti ufficiali dei carabinieri e un andirivieni di pm che scappavano via dai giornalisti con l’aria sorniona del gatto che si lecca i baffi dopo un buon pranzo. Quelli del Corriere sono stati più bravi degli altri? Mavalà. Certo, ci fu un cronista del quotidiano Avvenire che aveva qualche rapporto con ambienti in divisa e che ebbe l’intuizione (chiamiamola così) prima degli altri. Ma l’intrusione si risolse con la sua assunzione al primo quotidiano d’Italia. E lo scoop ebbe inizio, con troppi particolari perché si potesse sostenere che i cronisti non avevano in mano il pezzo di carta dell’invito a comparire. Qualche anno dopo lo confermò, gridandolo in faccia a Di Pietro durante una trasmissione tv, Sandro Sallusti, che era stato capocronista del Corriere. Da allora fu una slavina. I particolari dell’inchiesta, tutti i giorni, inonderanno ogni quotidiano, ogni televisione. Berlusconi apprenderà a mezzo stampa di essere indagato per una corruzione alla Guardia di Finanza, da cui sarà in seguito prosciolto. In seguito, appunto. Dopo che il suo governo sarà caduto. È particolarmente urticante, anche a rileggere dopo tanti anni, quel che scrivevano nei giorni successivi i giornali sulla “riservatezza” dello loro fonti. Roba da ridere, per chi come me aveva frequentato quegli uffici e quei corridoi, a volte partecipando al banchetto. Sentite questa: «Borrelli si chiude nel suo ufficio. Davigo, Colombo e Greco continuano a marciare nei corridoi con documenti e cartelle sottobraccio: sorridono, si guardano intorno, passano oltre. Senza parlare». Senza parlare? Ahah. Ho dichiarato diverse volte pubblicamente che le notizie coperte dal segreto me le avevano sempre date i magistrati e nessuno mi ha mai smentito. Non potrebbero. Intanto ogni giorno, sempre più smarrito e arrabbiato, Berlusconi apprendeva che un po’ tutte le Procure italiane gli avevano messo gli occhi addosso, che a Palermo pensavano lui fosse il mandante delle stragi di mafia. Fin da allora, ma certe toghe c’erano già, da quelle parti. Il ribaltone era nell’aria. Alla faccia di quello che avrebbe dovuto essere il controllore delle televisioni italiane, l’ultima parola sui media l’avevano sempre i procuratori. Ogni quotidiano, non solo il Corriere ma anche Repubblica, la Stampa e l’Unità erano i megafoni di Borrelli e i suoi sostituti. La loro parola era sempre d’oro. «Noi ci limitiamo ad applicare il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale», sussurrava con voce flautata il procuratore capo. Tra virgolette. Ma quando le virgolette si chiudevano arrivava la polpa e si parlava di sedici interrogatori, di ampia documentazione di un sistema di conti bancari, e anche di una fiamma gialla in veste di pentito. Tutto falso, tutto inventato, perché Berlusconi verrà prosciolto. Dopo. Ogni giorno leggevo i quotidiani, guardavo le firme sotto le indiscrezioni e riconoscevo le impronte digitali del magistrato che aveva cantato sotto ogni notizia. I matrimoni tra pm e cronisti erano sempre indissolubili. Il terreno ormai era arato. Ormai anche alcuni di coloro che parteciparono fin dalla semina – parlo di ex cronisti giudiziari – ammettono che senza la complicità della stampa probabilmente non ci sarebbero stati (per lo meno non in quelle dimensioni) né Tangentopoli, né la caccia a Craxi né la fine del primo governo Berlusconi. E anche, dice qualcuno, non sarebbe successo niente senza la violazione di qualche regola. Ma intanto la storia è andata avanti in quel modo tutto politico, pieno di complicità e di imbrogli. In cui i giornalisti sono stati solo i cicisbei di qualcuno che contava più di loro. Quanto al primo governo Berlusconi, il colpetto finale lo diede, nel suo discorso di Capodanno, Oscar Luigi Scalfaro. Il peggior Presidente della Repubblica italiana. Ma i mandanti erano altri.
Silvio Berlusconi, dal 1994 a oggi storia di una persecuzione italiana. Tiziana Maiolo su Il Riformista l'1 Luglio 2020. Il plotone d’esecuzione che il primo agosto del 2013 puntò le armi e portò a termine l’esecuzione contro l’innocente Silvio Berlusconi, non è stato il primo né l’unico. Anche se quella pronunciata dalla cassazione presieduta da Antonio Esposito, oggi amicone di Marco Travaglio, è stata l’unica sentenza di condanna. Ma ci hanno provato in tanti, almeno una settantina di volte. All’inizio, la palma del vincitore, per costanza e impegno, andò , in una gara senza concorrenti, al procuratore capo di Milano, il dottor Francesco Saverio Borrelli. Berlusconi, dopo l’ultimo defatigante vano tentativo per convincere Mino Martinazzoli a impugnare le redini del defunto pentapartito e candidarsi contro Achille Occhetto alle elezioni del 1994, stava cogitando. E intanto che lui cogitava se buttarsi in politica e impedire l’arrivo dei “comunisti” a Palazzo Chigi, Borrelli già sentenziava: chi ha scheletri nell’armadio, non si candidi. Intanto che lui sentenziava (benché dovesse sapere che i procuratori indagano, solo i giudici emettono sentenze) , i suoi uffici già lavoravano con il codice penale tra le mani. Era il 12 febbraio (le elezioni saranno il 28 marzo) e al Circolo della stampa il Polo delle libertà presentava le sue liste, quando in Procura volevano già arrestare Berlusconi junior, e ancora Borrelli sentenziava: il voto non ci può fermare, la giustizia è un juke-box, se il gettone è buono la canzone va suonata. Era già partita l’inchiesta sul Milan, la Procura stava già indagando a 360 gradi anche su Standa e Publitalia. Gli uomini della procura della repubblica di Milano, dal palcoscenico dei trionfi dei due anni precedenti, quelli di Mani Pulite in cui ogni regola era saltata ma loro si ritenevano invincibili, avevano affondato i denti nel collo di Silvio Berlusconi e non lo molleranno più. Salvo poi portare a casa anche un bel numero di sconfitte, dal caso Sme fino al processo Ruby, come si vedrà. Ma nel 1994, se il governo Berlusconi durerà solo otto mesi, il partito dei piemme ebbe sicuramente il suo peso. Dopo la vittoria elettorale del 28 marzo, quando il presidente Scalfaro darà al leader di Forza Italia l’incarico di formare il nuovo governo, ecco che da Milano si leverà di nuovo la voce del dottor Borrelli: se il presidente ci chiama, non potremo dire di no. Peccato fosse stato già chiamato un altro. Così parte la prima raffica di arresti di uomini Fininvest. Mentre i primi mesi di governo scorrono, ecco i due grandi inciampi. Il decreto Biondi sarà ucciso in culla, nel mese di luglio, dall’immagine scarmigliata e scomposta dei procuratori milanesi che dichiaravano senza pudore alcuno di non poter più lavorare in assenza del potere di manetta continua. E poi arrivò novembre, e il presidente del consiglio era a Napoli a presiedere un convegno internazionale sulla criminalità davanti agli alti rappresentanti di 140 Paesi, quando il Corriere amico del Pool dei procuratori sparò tutte le colonne di piombo (o di quel che era) della prima pagina per annunciare che Berlusconi era indagato e convocato da Di Pietro per corruzione della Guardia di finanza. Fu l’inizio della fine. Quel primo plotone d’esecuzione che si esercitò quell’anno seppe lavorare bene e ancor meglio seppe colpire. Un mese dopo, il primo governo Berlusconi, il primo della seconda repubblica, il primo presieduto da un non politico, era affondato. La storia dirà però quanto pretestuose e politiche fossero quelle accuse di corruzione della Guardia di finanza che avevano acceso un faro di discredito del presidente del consiglio in tutto il mondo. Per tutti e quattro i capi d’accusa la cassazione assolse Silvio Berlusconi “per non aver commesso il fatto”. Ma siamo alla fine del 2001, lui ha vinto di nuovo le elezioni, ma sono passati sette anni e quattro governi in cui il leader di Forza Italia è stato costretto all’opposizione anche grazie a quelle inchieste giudiziarie. Anni in cui la magistratura milanese aveva lavorato a tempo pieno sul proprio indagato preferito. Iniziano nel 1998 le indagini sul processo forse più politico di tutti, per la caratura e i nomi di quelli che ne furono i protagonisti, quello che riguardava la vicenda Sme, la Società Meridionale di Elettricità che nel lontano 1985 il presidente dell’Iri Romano Prodi (l’unico a scampare a Mani Pulite) voleva vendere in via privilegiata all’imprenditore Carlo de Benedetti, ignorando la presenza di altre cordate concorrenziali, tra cui quella di Barilla, Ferrero e la Fininvest di Berlusconi. Finì che la Sme non fu venduta, ma De Benedetti intentò una causa civile e la perse. Anni dopo qualcuno, in una intricata vicenda di storie politiche e personali, risollevò la storia dal dimenticatoio e la magistratura milanese fu lesta a indagare e fare processare Berlusconi, accusandolo di aver “aggiustato” la causa civile. Anche questa volta, di processo in processo, si arriverà alla cassazione del 2007. Assoluzione con formula piena. Se vogliamo completare il quadro di una storia che non è ancora finita e che dura da trentasei anni e ha al centro un uomo che si chiama Silvio come nome di battesimo, ma anche Imputato come nome acquisito e non ancora abbandonato, non possiamo trascurare, prima di arrivare alla vicenda del plotone di esecuzione del primo agosto 2013, il “caso Ruby”. Qui c’entra forse poco Borrelli (anche perché nel frattempo era arrivato Edmondo Bruti Liberati a presiedere la procura milanese), ma molto una pm, Ilda Boccassini, che in tutta la vicenda ha saputo mettere insieme tutte le sue pulsioni di donna -non tanto nei confronti dell’Imputato, quanto nei confronti di una serie di ragazze belle e ambiziose- con lo stile investigativo degli uomini della procura della repubblica di Milano. Quello stile noncurante nei confronti di regole come la competenza territoriale. Oppure, come nel caso Ruby, di interrogare in una certa data la ragazza, di avere, secondo l’ipotesi accusatoria, già elementi per iscrivere Berlusconi nel registro degli indagati, ma di aspettare, indugiare, come se non si fosse sicuri. Ma intanto l’orologio dei termini processuali va a rilento, anzi è fermo e non scade mai. Se l’orologio è fermo i termini non scadono e la prescrizione non arriva mai. Si può indagare all’infinito, spiare, controllare la casa, gli ospiti, le abitudini. Così da luglio si arriva a dicembre, si iscrive l’indagato, e poi d’un tratto è febbraio. E quando il Parlamento nega al procuratore la possibilità di perquisire casa e ufficio del dottor Spinelli, ragioniere di Berlusconi, ecco che l’Imputato viene scaraventato di peso nella gogna mediatica di un processo celebrato con rito immediato, quindi direttamente in aula. La giustizia non avrà le vesti delle tre componenti del tribunale di primo grado, quelle che Berlusconi chiamerà “comuniste e femministe”, che forse non erano neanche dispiaciute della definizione, ma che si distinsero, come un po’ tutti in questi processi, anche i giudici che poi assolsero, per la loro misoginia e il loro moralismo. Ogni ragazza che aveva frequentato la casa di Arcore non era altro che una puttana. Donne che odiano le altre donne, potremmo dire. Comunque l’altalena delle sentenze andò così: condanna in primo grado, assoluzione in appello e cassazione. Naturalmente non è finita qui, perché da cosa nasce cosa. E Rubi bis e poi ter, e poi chissà. Così come la parte più infamante (e ridicola, se Silvio l’Imputato me lo permette) che, oltre che corrotto e puttaniere vuol vedere in Berlusconi un mandante di stragi mafiose. Il combinato disposto tra la procura di Palermo e quella di Firenze fa aprire tre volte il fascicolo. Ecco la cadenza. Indagato nel 1996, archiviato nel 1998. Indagato nel 2009, archiviato nel 2013. Indagato nel 2019, ancora indagato. Ma aspettiamo l’inevitabile terza archiviazione. Che barba, che noia. Questa è una parte della storia giudiziaria, cioè politica, di Silvio Berlusconi. Certo, insieme alle tante assoluzioni e proscioglimenti, ci sono le cause andate in prescrizione. Ma questo non è un problema dell’Imputato, ma della magistratura. Quella stessa che passa il tempo a occuparsi della propria carriera, dei propri guadagni e degli intrallazzi politici. La storia dell’Imputato Berlusconi finisce qui. Poi c’è quella del condannato. Che è politica nella sua parte penale, anche se è un tribunale civile a dirci che non ci furono imbrogli né opacità nella compravendita di diritti di film Usa. Ed è politica perché uno di quei giudici che condannarono Berlusconi in Cassazione ce lo ha detto chiaramente. Ma è ancor più politica la coda che seguì quella sentenza, cioè l’interdizione dai pubblici uffici, la legge Severino dai risvolti assurdi, la sua applicazione retroattiva benché i maggiori costituzionalisti del Paese fossero più che perplessi sulla sua applicabilità a Berlusconi. E un signore che era il segretario del Pd e che si chiama Matteo Renzi, che oggi si dice solidale con il Berlusconi che fu vittima di un plotone di esecuzione. Ma che allora ne preparò uno suo personale, di plotoni, stimolando i suoi senatori a votare in fretta per cacciare Silvio il Condannato dal Senato. Anche questo fa parte delle ingiustizie politiche che Silvio patisce da trentasei anni.
Magistratopoli, parla Corrado Carnevale: “Nessun politico perseguitato quanto Berlusconi”. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 5 Luglio 2020. «Una cosa è certa: l’accanimento subito da Berlusconi non è stato mai esercitato nei confronti di nessun altro uomo politico. E io dico che qualunque forma di accanimento, nei confronti di qualunque cittadino, è inaccettabile. E chi non tratta tutti alla stessa maniera, non è un magistrato». Corrado Carnevale è uno che si intende di persecuzioni, avendone subite tante, e anche di magistrati, molti dei quali non godono della sua stima. Ha compiuto da poco novant’anni e non è cambiato, il presidente Carnevale. Vive da solo nella sua casa romana, risponde sempre personalmente al telefono, gode di buona memoria e non dimentica. Non dimentica il fatto che gli abbiano impedito di diventare primo presidente della Corte di Cassazione. Ed è stata veramente un’ingiustizia. Proprio verso di lui che era stato sempre il primo della classe: maturità classica a 17 anni con il massimo dei voti, laureato in giurisprudenza a 23 con lode e pubblicazione della tesi, arrivato primo al concorso di magistratura e a tutti quelli cui aveva partecipato, fino a diventare a 55 anni il più giovane presidente di una sezione di Cassazione, la prima. Con una giurisprudenza colta e impeccabile. Una lama sottile che usava come un bisturi quando non erano rispettate tutte le regole processuali, quando la valutazione delle prove non era sorretta da motivazioni chiare e logiche. Altro che “ammazzasentenze”. Faceva le pulci alle decisioni dei colleghi perché ne rilevava la sciatteria, il non amore per il proprio mestiere, la superficialità e il disprezzo per il cittadino. Così lui ne disprezza tanti, di quei magistrati. Gli chiedo se abbia mai ricevuto pressioni. «Mai», dice in modo risoluto, a sottintendere che nessuno avrebbe mai osato. Con un pizzico di malizia però ricorda di un certo presidente di Corte d’appello che alla vigilia della seduta di Cassazione che doveva occuparsi della sentenza da lui comminata, faceva il giro delle telefonate al presidente, al relatore e al pm, sollecitandoli a confermare la sua decisione. Gli chiedo se sia vero che fu lui a introdurre in Cassazione la Camera di Consiglio. «Certo, perché prima che io arrivassi, le cose funzionavano così: si mettevano d’accordo il relatore, il presidente e il pubblico ministero. Gli altri non conoscevano le carte, e spesso neanche il presidente. Ci sono aneddoti molto realistici di quei magistrati che alla vigilia della Camera di Consiglio, per fare gli spiritosi, dicevano sempre di aver assunto un certo farmaco antivomito, e poi esclamavano: “vado, rigetto e torno”. Non vivevano neanche a Roma, vi si recavano solo per la sentenza, che spesso era un pro forma. Io ho introdotto la Camera di Consiglio, in cui si discuteva, e a volte io che ero il presidente sono anche stato messo in minoranza. Ma i cittadini avevano la garanzia che i processi venissero presi sul serio». Viene un dubbio: chissà se dopo di lui i suoi colleghi abbiano continuato così o invece tutto non sia tornato come prima. «Le dico solo una cosa, l’altro giorno sono andato in Cassazione perché ho mantenuto lì il conto in banca e ho incontrato un famoso avvocato (fa anche il nome, ndr). Sa che cosa mi ha detto? Da quando non c’è più lei siamo tornati alla solita mediocrità. Questo mi ha detto. Dobbiamo quindi stupirci se succede quel che succede?» Quando gli chiedo che cosa pensi di certi suoi colleghi, ha quasi un moto di stizza, di cui un po’ si scusa, con la consueta gentilezza: «La prego, non dica che sono miei colleghi». Non conosce personalmente i tanti personaggi della magistratura i cui nomi popolano le prime pagine dei giornali. Di Palamara conosceva il padre, di Antonio Esposito il fratello maggiore Vitaliano. Anche di Francesco Saverio Borrelli aveva conosciuto il padre, presidente di Corte d’Appello, che lo aveva introdotto nel sindacato. «A 24 anni avevo già svolto il ruolo di segretario al congresso dell’Anm. Poi Borrelli disse che poiché ero bravo bisognava retribuirmi, così me ne andai sdegnato e non mi sono più iscritto. Del resto, nel sindacato dei magistrati non si parla di altro se non di soldi e di carriera. Lo scandalo che è scoppiato ora poteva esplodere tranquillamente trent’anni fa. Né ieri né oggi esiste un dirigente che non sia stato promosso tramite la corrente di appartenenza. E ci sono tanti posti immeritati, gente mediocre». I suoi ricordi dovrebbero esser trasformati in dispense per gli studenti di giurisprudenza. Come quello di una Camera di Consiglio, cui lui partecipò come uditore, in cui «i giudici prima parlarono per venti minuti delle pensioni dei magistrati in Svizzera, molto più soddisfacenti di quelle italiane. Poi il Presidente, alludendo all’unico imputato, un parrucchiere accusato di rapina, disse in stretto siciliano, quanto gli diamo? Avendo il giovane uditore osato chiedere come mai non ci fosse discussione, visto che la testimonianza della vittima gli pareva debole, si sentì rispondere: ma lo sai che il fatto è accaduto di lunedi? E lo sai che il lunedi i parrucchieri sono chiusi?» Qualcuno ci restituisca Corrado Carnevale, per favore. E ci faccia uscire da questa mediocrità.
Caselli ricorda Falcone attaccando Carnevale, che però è stato assolto da tutto…Iuri Maria Prado su Il Riformista il 23 Maggio 2020. Ciascuno ricorda Giovanni Falcone come vuole, per carità. Lo si può fare, per esempio, secondo la scelta del Fatto Quotidiano: che ieri, sull’argomento, ha messo in pagina un articolo poco grammaticato di un suo noto collaboratore, il dottor Gian Carlo Caselli. Il quale ha celebrato la memoria del magistrato ucciso lasciando intendere, in buona sostanza, che nei processi antimafia la Corte di cassazione ha fatto bene il suo lavoro quando ha accolto la tesi dell’accusa e invece mica tanto quando l’ha respinta, perché ha fondato la decisione sul rilievo di “minuscoli vizi di forma” o esercitandosi nell’”acrobazia giuridica”. Con il corollario che la giurisprudenza onora il ricordo di Falcone se condivide le prospettazioni del pubblico ministero mentre lo sfregia se ritiene che siano infondate. Va benissimo celebrare la perfezione della sentenza «che portò alla conferma della quasi totalità dell’impianto accusatorio e quindi delle pesanti condanne comminate nel “maxi”», come Gian Carlo Caselli chiama il famoso processo antimafia (per favore però il correttore di bozze non sia intimidito e la prossima volta spieghi all’articolista che si dice “irrogate”, non “comminate”): ma non va bene lasciare intendere che l’impostazione dell’accusa, altrimenti incensurabile, trova semmai ostacolo soltanto nelle acrobazie del giudice che ammazza le sentenze nobili col ricorso al bieco pretesto che manda assolto il criminale. Perché è questo, dottor Caselli, il succo del suo articolo, che non a caso si prende due colonne per opporre alla specchiatezza di Giovanni Falcone l’indifendibilità di Corrado Carnevale, appunto il giudice cosiddetto “ammazzasentenze”: accusato, ma assolto dall’accusa, di aver lavorato in favore della mafia rilevando i “minuscoli vizi di forma” di cui lei scrive, e cioè i difetti che affliggevano sentenze buone per forza perché avevano il contrassegno dell’antimafia. Ripeto: ciascuno ricorda Falcone come gli pare. Ricordarlo con il recupero delle vociferazioni sulla presunta mafiosità di un cittadino assolto non è, a nostro giudizio, il modo migliore.
La porcata contro Berlusconi, dall’udienza illegale alle balle di Travaglio. Piero Sansonetti su Il Riformista il 23 Luglio 2020. L’udienza della sezione feriale della Cassazione, presieduta dall’ormai famosissimo presidente Antonio Esposito, che il primo agosto del 2013 condannò Berlusconi a quattro anni di prigione per frode fiscale, fu una udienza illegale. E su questo c’è poco da discutere: ci sono le carte, delle quali ora vi parlerò (e che in parte riproduciamo fotograficamente su questa pagina) che parlano in modo chiarissimo e non smentibile. La domanda che ora dovremo farci è questa: fu un errore involontario (e gravissimo) della Cassazione, la convocazione illegale di quella udienza, o fu un errore voluto, cioè doloso, cioè frutto di un disegno? A questa domanda io non so rispondere. Mi auguro che lo faranno al più presto le autorità competenti, come si dice in questi casi. Perché la domanda che faccio è drammatica e riguarda la legalità, da una parte, e la storia della Repubblica dall’altra. Quella condanna – l’unica ricevuta nella sua vita da Berlusconi dopo circa 70 procedimenti giudiziari – cambiò la storia del nostro paese, cambiò i rapporti tra destra e sinistra, consegnò a Salvini le chiavi della destra che fino a quel momento erano state nelle mani dei moderati, favorì l’avanzata travolgente del movimento di Grillo. Quello che posso fare io, ora, è provare ad illustrarvi i fatti nel modo più semplice possibile.
Premessa: Berlusconi viene giudicato dalla sezione feriale della Cassazione, presieduta da Antonio Esposito, il 31 luglio del 2013. Molti giuristi sostengono che la scelta di questa sezione lo danneggiò, perché non era una sezione specializzata. Recentemente questo giornale ha pubblicato una dichiarazione di uno dei giudici che parteciparono alla sentenza, e più precisamente il relatore – il dottor Amedeo Franco – il quale sosteneva che quella sezione fu scelta perché si sapeva che era “un plotone di esecuzione”. Testuale: “un plotone di esecuzione”, detto da uno dei magistrati che giudicarono. La decisione di affidare l’udienza e la sentenza alla feriale di Esposito, secondo chi difende questa scelta, avvenne perché la prescrizione scadeva il 1 agosto. Marco Travaglio ha scritto questa cosa decine di volte sul suo giornale, anche con toni un pochino saputelli, come qualche volta gli capita. Noi invece, che avevamo dato un occhio ai documenti, sostenevamo che la prescrizione per una parte del reato sarebbe scattata solo a settembre, e per l’altra metà, addirittura, a settembre dell’anno successivo. E quindi che non c’era nessun bisogno di ricorrere alla sezione feriale. Ora però aggiungiamo un particolare più grave, che non conoscevamo. I difensori di Berlusconi vengono avvertiti il 10 luglio della convocazione dell’udienza. In teoria la difesa avrebbe diritto a 30 giorni di tempo, dal momento della convocazione, per prepararsi. Quindi l’udienza si sarebbe dovuta tenere non prima del 10 agosto, e comunque non sarebbe toccata alla feriale di Esposito, e ragionevolmente si sarebbe potuta svolgere a settembre ed essere affidata alla sezione specializzata. C’è, in termini di legge, la possibilità di ridurre i termini (e dunque i diritti) della difesa (cioè i 30 giorni per prepararsi), solo se rispettare quei termini farebbe scattare la prescrizione. Dice Travaglio (e dicono i suoi): ho le carte (e le pubblica anche sul Fatto) la prescrizione scattava il 1 agosto. Beh, le carte di Travaglio sono sbagliate. Perché il 5 luglio, e cioè cinque giorni prima che scatti la convocazione di Berlusconi, la seconda sezione penale della Corte d’Appello di Milano trasmette alla Cancelleria centrale penale della Cassazione una comunicazione urgente. Ricopio qui il testo, senza cambiare una virgola: “Facendo seguito agli atti già trasmessi, inoltro per le determinazioni di Vostra competenza ai fini della fissazione dell’udienza il prospetto aggiornato del calcolo della prescrizione… in rettifica di quello già inviato”. Firmato, il Presidente di sezione dott. Flavio Lapertosa. E qual è questo termine della prescrizione? 14 settembre 2013 per la prima parte del processo, 14 settembre 2014 per la seconda parte. Capito? Questa lettera è del 5 luglio. Quindi il 10 luglio, quando viene convocato Berlusconi con la riduzione a 20 giorni dei termini di difesa, la Cassazione sapeva che non sarebbe scattata la prescrizione. Dunque commette una gravissima irregolarità. E’ molto probabile che questa irregolarità, e questa violazione dei diritti della difesa, sia stata determinante nella condanna di Berlusconi, nella sua destinazione ai servizi sociali per un anno, nella sua espulsione dal Parlamento con le conseguenze politiche abbastanza conosciute e che hanno riguardato tutto il Paese. Fu un errore? Fu una mascalzonata?
P.S. Quando io ho sostenuto, un paio di settimane fa, che la prescrizione sarebbe scattata solo a metà settembre, Marco Travaglio mi ha molto severamente bacchettato. Ha detto che non sapevo scrivere (cosa pare già acclarata attraverso una consulenza col giudice Esposito) e che non sapevo neanche leggere. Perché – diceva Marco – ci sono le carte che dimostrano che la prescrizione sarebbe scattata il 1 agosto. Vedi, Marco, la questione non è quella di saper leggere. E’ che se dai ascolto al primo magistratello che viene a offrirti una notizia o una consulenza, e non verifichi con accuratezza, poi scrivi le stupidaggini. Magari le scrivi anche benino, questo non si discute, ma sempre stupidaggini restano.
Silvio Berlusconi condannato ingiustamente? Per la Rai "è un caso marginale". Libero Quotidiano il 05 luglio 2020. Nulla più di un caso trascurabile. Ecco come qualcuno dalle parte di viale Mazzini sta trattando l'audio choc del giudice Amedeo Franco sulla sentenza del 2013 ai danni di Silvio Berlusconi per la vicenda dei diritti tv Mediset. Certo il nostro servizio pubblico ha sicuramente dato ampio spazio, e in diverse trasmissioni, allo scoop degli ultimi giorni che ha svelato il complotto delle toghe nei confronti del leader di Forza Italia, ma per il programma "Radio anch'io" di Rai Radio1 si tratta precisamente di «un aspetto molto trascurabile, tra decine di inchieste, condanne, prescrizioni». Questo è quello che emerge da un "carteggio" via whatsapp tra un ascoltatore e lettore di Libero e chi è addetto all'interno della Rai a rispondere ai messaggi social che si possono inviare direttamente alla trasmissione. «Aspetto gravissimo degno dei soviet con la complicità dall'alto. Altro che marginale. Berlusconi mai condannato e la prescrizione è orientata dalla magistratura per non essere sconfitta. Girerò la risposta a Porro, Feltri, Sallusti e Sansonetti» risponde per le rime il lettore già incattivito. Passa solo qualche minuto e secca arriva la replica di colui che parla per conto della Rai (noi non sappiamo esattamente chi risponde se si tratti dello stesso conduttore Giorgio Zanchini o qualche suo collaboratore, apprendiamo solo che costui ha un passato da avvocato): «Ma lei conosce le sentenze e le vicende giudiziarie o parla per sentito dire? Se la vada a leggere, Berlusconi è stato condannato con sentenza passata in giudicato e altre volte si è salvato per sopravvenuta prescrizione o per norme approvate da parlamenti a maggioranza di centrodestra. Sono fatti, non opinioni, si informi, io facevo l'avvocato. Non c'entra nulla la politica qui, sono fatti». Piccata e precisa ecco arrivare a distanza di qualche minuto l'ennesima replica dell'ascoltatore: «Conosco perfettamente tutto. Forse è lei che non conosce bene la storia del nostro Paese. Quali sentenze lo condannano, forse quelle guidate dall'alto? Sulla prescrizione le ho già risposto. Siccome voi non vincete mai con le elezioni cercate l'aiutino da parte di un sistema che ha tratteggiato ierri sera (lunedì 29 giugno, ndr) l'onorevole di Forza Italia da Porro (all'interno della trasmissione di Rete4 "Quarta Repubblica", ndr) e Sgarbi in Parlamento. Sbaglio o siamo una Repubblica parlamentare e le leggi le fa il Parlamento? O il Parlamento deve legiferare come volete voi?». Messaggi a parte ciò che stranisce di questo dialogo è sia avvenuto la mattina del 30 giugno, ossia il giorno dopo la trasmissione tv di Nicola Porro e che proprio quel giorno l'apertura del quotidiano Il Giornale era dedicata a questo fatto. Come mai non si è fatto il minimo accenno di tutta questa vicenda all'interno di "Radio anch' io"? Al di là di come la si pensi, era forse così poco rilevante da non inserirla affatto tra le notizie del giorno?
Magistratopoli, l’Ue deve intervenire a tutela della legalità della giustizia in Italia. Alessandro Butticé, Giornalista, su Il Riformista l'1 Luglio 2020. Le dichiarazioni dell’ex Presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati (ANM), Luca Palamara, e la registrazione della clamorosa “confessione” del relatore della sentenza di condanna da parte della Corte di Cassazione di Silvio Berlusconi, ha provocato grande attenzione e sconcerto anche fuori dell’Italia, e nell’ambito delle Istituzioni Ue. Ue che, va ricordato, è sinora stata ed è un sicuro argine a potenziali derive autoritarie nei singoli stati membri. Deriva che alcuni, come chi scrive, hanno temuto negli anni di tangentopoli. Perché tra i benefici dell’Ue, al di là degli zero virgola dei vincoli economici, non dobbiamo mai dimenticarlo, vi sono anche quelli di legalità, democrazia, e rispetto delle libertà fondamentali, che legano tutti gli stati membri dell’Ue. In altri termini, lo stare all’interno dell’Ue è anche un antidoto ai demoni antidemocratici e anti-libertari che, a seconda del momento storico, possono risvegliarsi nei singoli paesi a seguito di situazioni contingenti. Siano essi incarnati nell’uso della forza delle armi che delle sentenze manettare. È quello di cui sono convinto, avendo vissuto dall’osservatorio europeo, con grande preoccupazione per la stabilità democratica del nostro paese, il periodo di tangentopoli, e la deriva giudiziaria e giustizialista che ne è seguita. E che nulla ha a che fare con la Giustizia. Quella con la G maiuscola. Perché penso che, se non ci fosse stata l’Unione Europea che non l’avrebbe mai permesso, il rischio che a qualcuno saltassero i nervi, trascinando il Paese in pericolose avventure, è stato in qualche momento tutt’altro che teorico. L’Ue è sempre stata, e rimane, un faro del rispetto dei diritti umani e delle libertà democratiche all’interno dei suoi Stati membri e nel mondo. E lo è ben prima ancora di essere un mercato unico. Ed è per questo che Antonio Tajani, nella sua qualità di Vicepresidente del Partito Popolare Europeo, si è rivolto alle istituzioni europee chiedendone l’intervento di vigilanza della singolare situazione in cui si è trovato l’ex presidente del consiglio italiano. Per alcuni vittima di un golpe giudiziario e mediatico, del quale hanno forse beneficiato altri paesi, ma che ha compromesso non solo i diritti della persona e della famiglia di Silvio Berlusconi ma, ed è ben più grave, pure le sorti politiche ed istituzionali del Paese, in un significativo e delicatissimo momento storico. In una lettera inviata oggi alla presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, ed agli altri vertici delle istituzioni Ue, Tajani ricorda che “molte volte, negli ultimi anni, le Istituzione europee si sono espresse per tutelare lo Stato di diritto nei Paesi membri dell’Unione europea”. Riferendosi alla sentenza di condanna per frode fiscale, nel 2013, del leader di Forza Italia, Silvio Berlusconi, precisa che “negli ultimi giorni, sono emersi nuovi elementi inquietanti: i quotidiani italiani pubblicano frasi del magistrato relatore della sentenza che definisce il Collegio giudicante “un plotone d’esecuzione” e quella sentenza “già scritta e ordinata dall’alto”. Inoltre, una recente sentenza del tribunale civile di Milano ribalta quanto già deciso e smonta la vecchia accusa, dichiarando che non ci fu frode fiscale.” “Quella del 2013, quindi”, prosegue Tajani, “è stata una sentenza politica che ha condannato il nostro partito e il nostro leader ad una forte campagna denigratoria che ha causato una evidente distorsione nei nostri processi democratici. Infatti, questa condanna che oggi scopriamo infondata, ha successivamente costretto Silvio Berlusconi, democraticamente eletto dagli italiani, ad abbandonare il Senato della Repubblica e gli ha impedito per anni di candidarsi a cariche pubbliche.” “Come già accaduto in passato”, continua l’ex presidente del Parlamento Europeo, “oggi, le Istituzioni europee devono valutare se in Italia la magistratura abbia adempiuto al proprio compito in maniera assolutamente imparziale.” L’utilizzo politico della giustizia contro gli avversari, secondo Tajani, “sarebbe una ferita profonda alla nostra democrazia e ai valori a cui ci ispiriamo. In un Paese sano non ci può essere spazio per giudizi basati su ragioni puramente ideologiche. Questa frangia di giudici fa danno a tutta la magistratura onesta e alla credibilità del sistema e delle Istituzioni italiane.” Tajani, impegnandosi a tenere informate le Istituzioni Ue sugli sviluppi che avrà la vicenda nelle prossime settimane, conclude sottolineando che quello che è emerso negli ultimi giorni è preoccupante non solo per il proprio partito, ma anche “per ogni cittadino italiano ed europeo”. E per questo motivo informa anche la von der Leyen ed i presidenti delle altre Istituzioni UE che, a livello nazionale, ha chiesto l’istituzione di una Commissione parlamentare d’inchiesta su quanto è accaduto a Silvio Berlusconi e sul cattivo funzionamento della giustizia penale in Italia.
Silvio Berlusconi, Vittorio Feltri: "Il documento che svela il complotto progressista. Questa storia non può finire qui". Libero Quotidiano il 02 luglio 2020. Non mi sorprende che i grandi (si fa per dire) giornali italiani non abbiano dato particolare rilievo alla notizia che Silvio Berlusconi venne condannato senza motivo a 4 anni di reclusione, espulso dal Senato e privato dei diritti civili. Ieri e ieri l'altro è stata diffusa la registrazione di un intervento del giudice di Cassazione, Amedeo Franco, il quale affermava che il Cavaliere era stato punito non a causa di un reato, mai commesso, bensì poiché politicamente considerato un mascalzone. Si dà il caso che il citato magistrato, poi morto - crepano anche coloro che indossano la toga - non fosse un passante ma facesse parte del collegio giudicante, quindi degno di fede. Di qui lo scandalo meritevole della massima evidenza, eppure silenziato o minimizzato dalla stampa di sinistra, quasi tutta, la quale in sintonia con la politica di sinistra sognava da anni il siluramento, pure per via giudiziaria, del leader di Forza Italia. Tale stampa se ora accettasse la realtà, e cioè l'idea che Berlusconi sia stato cacciato in seguito a un complotto progressista in collaborazione con la magistratura alta, ammetterebbe di aver agito in modo schifoso. Ecco la ragione per cui tace o si limita a sussurrare tra mille dubbi espressi a denti stretti. Tuttavia ora c'è qualcosa di più della summenzionata registrazione. Oggi Libero pubblica la sentenza con la quale il Tribunale civile di Milano dichiara l'innocenza di Berlusconi a riguardo della presunta frode fiscale. È un documento decisivo che smonta l'impalcatura accusatoria in base alla quale fu compiuto l'arbitrio giudiziario. C'è poco da discutere. Basta leggere l'atto che vi offriamo in omaggio alla verità. Silvio era protagonista della vita pubblica italiana, guidava il partito più importante, era stato tre volte presidente del Consiglio e continuava a menare il torrone a Roma. Ovvio che fosse odiato dagli avversari i quali non avevano argomenti per farlo secco. Da qui il proposito di chiedere aiuto al potere giudiziario che infatti si prestò, lo si evince dalle carte, per organizzare l'espulsione del Cavaliere mediante un processo manovrato come un'arma da fuoco. La vittima venne addirittura radiata dal Parlamento in applicazione retrospettiva (grave scorrettezza) della legge Severino. Nel frattempo Forza Italia perse consensi e compattezza, mentre gli altri partiti ebbero l'opportunità di approfittare della situazione onde rivitalizzassi. In sintesi la vicenda è tutta qui, una porcata che turba le coscienze facendoci comprendere che il Paese è nelle mani sporche di soggetti poco raccomandabili. La nostra tenue speranza è che il capo dello Stato, rendendosi conto di quanto accaduto, si scusi a nome dei cittadini della ingiustizia perpetrata ai danni del Cavaliere e si affretti a risarcirlo nominandolo senatore a vita. Lo abbiamo proclamato e lo ripetiamo. Questa vicenda non può finire qui.
Silvio Berlusconi, sospetto sui giudici che lo condannarono: "Amedeo Franco beccato a registrarli, ma loro non fecero nulla". Libero Quotidiano il 23 luglio 2020. Altro materiale sulla sentenza Mediaset che condannò Silvio Berlusconi per frode fiscale. Altri audio del giudice Amedeo Franco, lo stesso che confessò al leader di Forza Italia che quella particolare sentenza "era pilotata dall'alto". Repubblica riporta un avvenimento che risale a sette anni fa, quando si riunì la sezione feriale a causa dell'imminente scadenza del termine di prescrizione nei confronti del Cav. Qui c'erano cinque giudici al lavoro per sette ore di camera di consiglio che finiranno per confermare le condanne a carico dell'ex Cavaliere e dei dirigenti Mediaset per frode fiscale. Nel collegio guidato da Antonio Esposito siedono appunto, oltre a Franco giudice relatore, Claudio D'Isa, Ercole Aprile e Giuseppe De Marzo. Ad un tratto - è quello riporta il quotidiano di Molinari - si sentono rumori di fondo. Una toga racconta: "Dopo qualche secondo, quel gracchiare assume un suono più nitido: sembrano proprio le loro voci, di poco prima, registrate. Il giudice Franco si alza di scatto, mette le mani in tasca come a chiudere qualcosa, a premere un tasto. Imbarazzato, così apparirebbe ai colleghi, esce, va in bagno. Torna dopo poco. Dice che è tutto a posto. I colleghi sono interdetti. Un altro di loro si stacca e va in bagno. E scopre, in un angolo, un dispositivo o un cellulare nascosto: lo prende, lo riporta in camera. E non so altro. Spiegazioni? Non mi risulta che Franco ne abbia date, di plausibili". Ma non finisce qui, perché subentra un'altra testimonianza. Anche in questo caso si tratta di un magistrato: È lo stesso racconto, per sommi capi, che raccolsi anche io. Questa storia provocò molto turbamento e amarezza tra i quattro giudici. Un gesto equivoco. Ma senza certezze". E ancora: "Il fatto non fu denunciato perché si ritenne che si fosse sfiorato il rischio di una eventuale divulgazione, forse bloccata in tempo". Insomma, Esposito e gli altri rimasero zitti. Un dettaglio che solleva qualche sospetto su come andarono realmente le cose.
Processo Mediaset, Berlusconi e il giudice Amedeo Franco: il testo del colloquio. Il Corriere della Sera il 30/6/2020. La conversazione tra il giudice Amedeo Franco e Silvio Berlusconi, ora all’origine del nuovo scontro tra centrodestra e magistratura , è stata registrata nel corso di un incontro casuale tra l’ex premier e l’ex «toga», che faceva parte del collegio della Cassazione che condanno Berlusconi a 4 anni. La registrazione fu effettuata da un componente dello staff del Cavaliere ed è allegata al dossier inviato a Strasburgo per chiedere la riabilitazione di Berlusconi medesimo. Il giudice Franco è deceduto un anno fa. Ecco il testo del colloquio, trasmesso dalla trasmissione «Quarta repubblica» e pubblicato dal quotidiano «Il riformista». Il testo della conversazione:
Amedeo Franco: «Il presidente della repubblica (ndr. Giorgio Napolitano all’epoca) sa benissimo questa cosa..»
Berlusconi: «Ma cosa sa il presidente...?»
Franco: «Lo sa che è stata una porcheria (ndr.: la condanna di Berlusconi). Io ho detto a Lupo (ndr., altro magistrato) “Guarda, mi hanno coinvolto in questa faccenda maledetta...se avessi saputo...io mi sarei dimesso, mi sarei dato malato, sarei andato in ospedale perché non volevo essere coinvolto in ‘sta cosa, in ‘sto affare”. A questo punto (Lupo) ha cambiato discorso, non lo vogliono sentire...questa è la cosa che sento negli altri, fanno finta che non è successo . È destino, Berlusconi deve essere condannato a priori, è un mascalzone, questa è la realtà...»
Franco: «Non tutti, ma la gran parte appena si sa che Coppi (ndr, Franco Coppi, avvocato di Berlusconi) l’ha difesa...”Ah, ecco, Coppi è stato corrotto!”, sono tutti corrotti quelli che hanno a che fare con lei. A mio parere è stato trattato ingiustamente e ha subito una grave ingiustizia...abbiamo avuto il sospetto, diverse persone che mi condividevano, colleghi che non sono suoi supporti, suoi ammiratori politici, anzi sono avversari politici che però sono persone corrette, hanno avuto l’impressione che la vicenda sia stata guidata...»
Berlusconi: «Dall’alto?»
Franco: «...dall’alto! La vicenda processuale è molto strana, molte persone, anche in pensione, mi vengono a dire “certo là è stata fatta una porcheria perché che senso ha mandarla alla feriale (ndr, la sezione feriale della Cassazione)? Ci vuole un minimo di apertura mentale per capire una questione così delicata , va alla sezione competente, non va alla sezione dove stanno cinque che poi uno solo capisce. La sezione feriale è stata fatta con gli ultimi arrivati, ragazzini... è stata una decisione traumatizzante, ha avuto pressioni e così via. Ho detto: “Io questa sentenza non la scrivo, se volete posso firmare perché io faccio soltanto l’antefatto ma qua firmate tutti perché io da solo sennò non la firmo”...»
Berlusconi: «...e loro erano determinatissimi, invece...»
Franco: «Loro determinati...malafede, forse . malafede del presidente sicuramente...»
Berlusconi: «La malafede del presidente c’è! Dicono che lui andava...»
Franco: «...dalla procura di Milano perché c’è il figlio...I pregiudizi per forza che ci stavano...si poteva evitare che andasse a finire in mano a questo plotone d’esecuzione, come è capitato».
Franco: «Dall’inizio sono sempre stato un suo ammiratore, tutti quanti, sono sempre stato...non dell’ultima ora, diciamo, anche se devo stare zitto perché in quell’ambiente è meglio non parlare. Questa cosa mi ha deluso profondamente perché ho trascorso tutta la mia vita in questo ambiente e mi ha fatto schifo, dico la verità... perché io allora facevo il concorso e continuavo a fare il professore universitario, non mi mettevo a fare il magistrato se questo è il modo di fare per...colpire le persone, gli avversari politici...io ho opinioni diverse della giustizia giuridica, quindi...vada a quel paese, va’».
Le accuse e la sentenza. Berlusconi era stato condannato il primo agosto 2013 a 4 anni (tre dei quali cancellati dall’indulto) per frode fiscale. Era accusato di aver evaso 7 milioni di euro nell’ambito di una compravendita di film americani da trasmettere sulle reti Mediaset. Frode avvenuto attraverso società off shore. La cassazione aveva confermato la sentenza di primo e secondo grado. Tutti i giudici, non solo il presidente, avevano firmato le motivazioni depositate il 29 agosto dello stesso anno.
Le motivazioni della condanna. Nelle motivazioni della sentenza della Suprema Corte si legge che Berlusconi «non era uno sprovveduto». E ancora: «Ad agire era una ristrettissima cerchia di persone che non erano affatto alla periferia del gruppo, ma che erano vicine, tanto da frequentarlo tutti personalmente, al sostanziale proprietario, l’odierno imputato Berlusconi». Personaggi che «sono stati mantenuti sostanzialmente nelle posizioni cruciali anche dopo la dismissione delle cariche sociali da parte di Berlusconi e in continuativo contatto diretto con lui, di modo che la mancanza in capo a Berlusconi di poteri gestori e di posizioni di garanzia nella società non è un dato ostativo al riconoscimento della sua responsabilità». Per i giudici è inoltre «inverosimile» l’ipotesi alternativa «che vorrebbe tratteggiare una sorta di colossale truffa ordita per anni ai danni di Berlusconi».
"La condanna a Berlusconi? Un plotone d'esecuzione". Libero Quotidiano il 29 giugno 2020. Colpo di scena sul processo Mediaset. La condanna inflitta nel 2013 a Silvio Berlusconi per frode fiscale (che fu all'origine della decadenza da senatore per il Cav) fu "una grave ingiustizia", perpetrata da un autentico "plotone di esecuzione" e comminata perché "Berlusconi deve essere condannato a priori". Parole pronunciate da Amedeo Franco, magistrato che di quel processo fu relatore in Cassazione. Le dichiarazioni risalgono ad un incontro tra lo stesso Berlusconi e Franco, che avvenne dopo la sentenza. I due non erano soli, e qualcuno dei presenti registrò la conversazione: "Berlusconi deve essere condannato a priori perché è un mascalzone! Questa è la realtà… a mio parere è stato trattato ingiustamente e ha subito una grave ingiustizia… l’impressione che tutta questa vicenda sia stata guidata dall’alto… In effetti hanno fatto una porcheria perché che senso ha mandarla alla sezione feriale? … Voglio per sgravarmi la coscienza, perché mi porto questo peso del… ci continuo a pensare. Non mi libero… Io gli stavo dicendo che la sentenza faceva schifo…". Non solo: "I pregiudizi per forza che ci stavano… si potesse fare…si potesse scegliere… si potesse… si poteva cercare di evitare che andasse a finire in mano a questo plotone di esecuzione, come è capitato, perché di peggio non poteva capitare…Questo mi ha deluso profondamente, questo… perché ho trascorso tutta la mia vita in questo ambiente e mi ha fatto… schifo, le dico la verità, perché non… non… non è questo, perché io … allora facevo il concorso universitario, vincevo il concorso e continuavo a fare il professore. Non mi mettevo a fare il magistrato se questo è il modo di fare, per… colpire le persone, gli avversari politici. Non è così. Io ho opinioni diverse della… della giustizia giuridica. Quindi… va a quel paese…". Le registrazioni, in possesso degli avvocati del Cavaliere, sono rimaste fino ad oggi nel cassetto per rispetto del magistrato, ancora in attività. Franco, però, è venuto a mancare lo scorso anno. E allora i legali dell'ex premier hanno deciso di utilizzare quei nastri, allegandoli come prove al ricorso presentato alla Cedu contro la condanna. Da qui lo scoop del Riformista di Piero Sansonetti, che le ha ottenute e messe in pagina nel numero in edicola. Ma la storia, c'è da starne sicuri, non finisce qui.
L'audio del giudice sul Cav: "Condannato ingiustamente". A Quarta Repubblica vengono fatti ascoltare gli audio choc del magistrato che 7 anni fa si accanì contro Berlusconi. Giovanna Stella, Lunedì 29/06/2020 su Il Giornale. E adesso ci sono le prove che la sentenza che condannò Silvio Berlusconi al carcere, nel 2013, era una sentenza assolutamente sbagliata e faziosa. Addirittura orchestrata dall'alto. Per capire di cosa stiamo parlando bisogna fare un passo indietro, a sette anni fa. Berlusconi, il primo agosto del 2013, è stato condannato, come spiega bene Il Riformista (che possiede tutte le carte), e allora Forza Italia era sopra al 21 per cento dei voti. La sezione feriale della Cassazione che nel 2013 ha emesso la sentenza di condanna era presieduta dal magistrato Antonio Esposito, mentre relatore era il magistrato Amedeo Franco. A sette anni di distanza emergono delle novità sconcertanti, contenute in un supplemento di ricorso alla Corte Europea (contro la sentenza della Cassazione) presentato dagli avvocati del Cav Andrea Saccucci, Bruno Nascimbene, Franco Coppi e Niccolò Ghedini, in mano a Il Riformista. Le novità sono: una sentenza del tribunale civile di Milano che ribalta la sentenza penale e "una dichiarazione - scrive il Riformista - del dottor Amedeo Franco che racconta come la sentenza di condanna di Berlusconi da parte della Cassazione fu decisa a priori e probabilmente teleguidata. Per questa ragione era una sentenza molto lacunosa dal punto di vista giuridico".
I fatti. La sentenza di condanna di Berlusconi per frode fiscale si basava sul presupposto che Mediaset avesse comprato dei film americani attraverso la finta mediazione di un certo Farouk Agrama, pagandoli molto meno di quello che Agrama fece risultare. La differenza tra prezzo vero e "prezzo falso" dicevano che venne equamente spartita. La metà la avrebbe usata Mediaset per abbassarsi le tasse, l’altra metà Farouk Agrama la avrebbe depositata in un conto svizzero. I magistrati, quindi, sequestrarono il conto svizzero di Agrama. Berlusconi cercò di spiegare che in quel periodo, siccome faceva il presidente del Consiglio, non si occupava dell’acquisto dei film e tantomeno della dichiarazione dei redditi di Mediaset. Ma i giudici di primo, secondo e terzo grado non gli credettero.
Il processo fu rapidissimo. In primo grado, nel giugno del 2012, il pm chiese 3 anni e otto mesi. La Corte portò tutto a quattro. L’appello si concluse nel maggio dell’anno successivo, confermando la pena, e tre mesi dopo, ad agosto, arrivò la sentenza della Cassazione. Incassata la condanna e scontata ai servizi sociali, e incassata anche l’esclusione dal Senato sulla base della Legge Severino, approvata in tempi successivi all’ipotesi di reato e dunque, per la prima volta nella storia della Repubblica e anche del Regno, con l’attuazione retroattiva di una legge, preso tutto questo, Berlusconi si rivolse a un tribunale civile in virtù di un ragionamento molto semplice. Il Riformista lo esplifica al massimo: se davvero, come dite voi, Agrama mi ha fregato tre o quattro milioni, me li ridia. C’è stata appropriazione indebita. Il tribunale civile di Milano, con una recente sentenza, dopo aver esaminato tutte le carte e ascoltato tutti i testimoni, e preso in considerazione tutti gli atti dei processi penali, compresa la sentenza della Cassazione, ha escluso che ci fosse appropriazione indebita, ha stabilito che l’intermediazione non era fittizia, che la società di Agrama (che le sentenze penali avevano dichiarato fosse un’invenzione) è una società vera e propria e ben funzionante, e ha anche stabilito che non solo non ci fu maggiorazione nelle fatture, ma che il prezzo al quale Mediaset comprò era un ottimo prezzo. Smontata in toto la sentenza di condanna di Berlusconi.
Gli audio shock. Questa sera, a Quarta Repubblica condotta da Nicola Porro, dopo le carte scoperte da Il Riformista sono stati fatti sentire al pubblico gli audio choc del magistrato Amedeo Franco. "Berlusconi deve essere condannato a priori perché è un mascalzone! Questa è la realtà, a mio parere è stato trattato ingiustamente e ha subito una grave ingiustizia… l’impressione che tutta questa vicenda sia stata guidata dall’alto. In effetti hanno fatto una porcheria perché che senso ha mandarla alla sezione feriale? Voglio per sgravarmi la coscienza, perché mi porto questo peso del… ci continuo a pensare. Non mi libero. Io gli stavo dicendo che la sentenza faceva schifo", dice Amedeo Franco. In una seconda conversazione (il Cav dopo la sentenza sentì il magistrato Franco e con lui c'erano dei testimoni così registrarono tutto), Amedeo Franco sosteneva che "sussiste una malafede del presidente del Consiglio, sicuramente, lui lo sapeva". Nella conversazione il Cav chiede "cosa sa il Presidente". Risposta: "Sa che è una porcheria". E riferiva voci secondo le quali il presidente Esposito sarebbe stato "pressato" per il fatto che il figlio, anch’egli magistrato, era indagato dalla Procura di Milano per "essere stato beccato con droga a casa di...". E poi: "I pregiudizi per forza che ci stavano… si potesse fare…si potesse scegliere… si potesse… si poteva cercare di evitare che andasse a finire in mano a questo plotone di esecuzione, come è capitato, perché di peggio non poteva capitare…Questo mi ha deluso profondamente, questo… perché ho trascorso tutta la mia vita in questo ambiente e mi ha fatto… schifo, le dico la verità, perché non… non… non è questo, perché io … allora facevo il concorso universitario, vincevo il concorso e continuavo a fare il professore. Non mi mettevo a fare il magistrato se questo è il modo di fare, per… colpire le persone, gli avversari politici. Non è così. Io ho opinioni diverse della… della giustizia giuridica".
Nelle intercettazioni ambientali del 2013, Amedeo Franco dice che se avesse saputo di questa storia, di questa "porcheria", "mi sarei dimesso, mi sarei dato malato. Non volevo essere coinvolto in questa cosa". Franco - si sente nell'intercettazione - dice al Cav che quando ha fatto notare le sue perplessità tutti hanno fatto finta di nulla: "E' destino che Berlusconi debba essere condannato a priori. Purtroppo c'è una situazione che è veramente vergognosa". E sempre rivolgendosi a Berlusconi, Amedeo Franco dice chiaramente: "A mio parere è stato trattato ingiustamente e ha subito una grave ingiustizia". Franco nel corso dell'intercettazione fa una rivelazione choc: "Tutti i miei colleghi e anche i suoi che pure non la supportano sono convinti che questa cosa sia stata guidata dall'alto".
In pieno caos della magistratura dopo le dichiarazioni di Palamara spuntano anche queste carte e audio choc. La corruzione di alcuni magistrati e giudici, quindi, non è cosa nuova. Ma questa giustizia che non è giustizia rovina (e ha rovinato) la vita delle persone. E ha cambiato anche il corso della Storia.
Luca Fazzo per ''il Giornale'' il 30 giugno 2020. Due nuove prove per riscrivere la storia dei processi a Berlusconi. Chi se lo immaginava ormai pacificato con il suo passato giudiziario, accontentato della riabilitazione che gli ha restituito lo status di incensurato, deve ricredersi. Perché il Cavaliere riparte all' improvviso all' attacco sul fronte che per vent' anni lo ha visto in prima linea, quello della persecuzione giudiziaria di cui si sente vittima. Lo fa con un file audio e una sentenza inviati alla Corte europea dei diritti dell' Uomo, davanti alla quale è ancora pendente - da ben sei anni - il suo ricorso contro la condanna per la vicenda dei diritti tv. Sono, nella convinzione del Cavaliere e dello staff legale guidato da Niccolò Ghedini, documenti clamorosi, le prove fumanti della persecuzione. E i giudici di Strasburgo non potranno non tenerne conto. Entrambi dicono la stessa cosa: che la sentenza con cui la Cassazione nell' agosto 2013 rese definitiva la condanna dell' ex premier per frode fiscale fu una sentenza abnorme, senza basi sui fatti emersi durante la causa. E, dice il nastro, figlia di una manovra decisa a tavolino, prima ancora dell' udienza, per eliminare Berlusconi: «Un plotone di esecuzione». A parlare, nel nastro, è un giudice che quel giorno era in Cassazione, nella sezione chiamata a giudicare il leader azzurro: Amedeo Franco, relatore della causa, quello che di solito guida la discussione in camera di consiglio. Franco non voleva la condanna di Berlusconi, non voleva firmare le motivazioni. E un anno dopo, nel processo gemello per la vicenda Mediatrade, assolse Piersilvio Berlusconi scrivendo che la condanna di Berlusconi senior era stata «contraria alla assolutamente costante e pacifica giurisprudenza di questa corte ed al vigente sistema sanzionatorio». Ma ora si va ben più in là. Perché l' anno scorso Silvio Berlusconi, intervistato a Porta a Porta, rivela l' esistenza di una registrazione in cui il giudice Franco riferiva dettagli sconcertanti sul prima, il durante e il dopo dell' udienza in Cassazione. A partire dal dato che a presiedere la sezione non poteva essere il giudice Antonio Esposito: colpevolista accanito e ora divenuto editorialista del Fatto Quotidiano. Amedeo Franco, purtroppo, muore nel frattempo. Dopo la trasmissione, l' ex giudice Esposito fa causa per diffamazione alla Rai e a Berlusconi chiedendo un mega risarcimento. È agli atti di quella causa che ora finirà il file con le registrazioni delle frasi di Franco, che ieri sera vengono riportate dal Riformista e poi trasmesse a Quarta Repubblica. Il giudice parlando con Silvio Berlusconi parla di una «grave ingiustizia», di una «vicenda guidata dall' alto», di una sentenza emessa da un «plotone di esecuzione» che non era la sezione destinata a celebrare il processo. Esposito, infatti, presiedeva la sezione feriale», quella chiamata a sbrigare le urgenze estive. «Hanno fatto una porcheria, che senso ha mandarla alla sezione feriale? Una questione così delicata..». «Sussiste una malafede del presidente del collegio (Esposito, ndr) sicuramente». E la conclusione amara: «Non mi mettevo a fare il magistrato se questo è il modo... per colpire le persone, gli avversari politici». Chiama in causa Ernesto Lupo, allora primo presidente della Cassazione: «Gli dissi mi hanno coinvolto in questa faccenda maledetta, avessi saputo mi sarei dato malato, a questo punto ha cambiato discorso... Berlusconi deve essere condannato a priori... è stata una decisione traumatizzante, ha avuto pressioni e così via... il Presidente della Repubblica lo sa benissimo che è stata una porcheria». Franco spiega a Berlusconi di voler sgravarsi la coscienza, dice di essere stato quasi costretto a firmare. E insieme alle rivelazioni di Amedeo Franco, parte per la Corte di Strasburgo anche il secondo documento. Sono le 39 pagine della recente sentenza con cui un giudice milanese, Damiano Spera, ha ribaltato completamente la ricostruzione degli affari televisivi di Mediaset compiuta dalla Procura di Milano e fatta propria dalla Cassazione presieduta da Esposito. Alla base dell' accusa di frode fiscale mossa a Berlusconi, un teorema di fondo: che Mediaset gonfiasse i prezzi dei film hollywoodiani che comprava da Frank Agrama, un intermediario americano, che in realtà sarebbe stato una specie di pupazzo, un «socio occulto» di Berlusconi. E i soldi in più fatturati da Agrama erano lo strumento di Mediaset per stornare utili dai bilanci frodando il fisco. Ma una volta che le condanne sono diventate definitive, proprio sulla base di esse Mediaset ha fatto causa ad Agrama: se quelli erano soldi non dovuti, devono tornare nelle casse dell' azienda. Sui conti svizzeri del mediatore vengono sequestrati circa 110 milioni di dollari mentre parte la causa milanese. Ed è qui che arriva il ribaltone. Nella sua sentenza il giudice Spera ripercorre i passaggi chiave della sentenza contro Berlusconi, secondo la quale «la fittizietà dell' intervento di Agrama e delle società a lui riconducibili è emersa in modo palese». Niente affatto, scrive Spera: «ritiene questo giudice che i convenuti (Agrama e gli altri, ndr) fossero effettivi acquirenti e poi rivenditori dei prodotti poi riacquistati dalle società Mediaset e Rti. Nella fattispecie concreta non è provata la interposizione fittizia, affermata invece nella sentenza Mediatrade». Secondo la Procura, la prova del delitto era che Mediaset si rivolgeva ad Agrama invece che trattare direttamente con le major, come avrebbe potuto tranquillamente fare. Invece per il tribunale di Milano «è stato provato che in più occasioni sia Paramount che Mediaset tentarono senza riuscirci di eliminare la ingombrante presenza di Agrama per poter avere mano più libera nella vendita dei prodotti». La svolta è così clamorosa che il giudice sceglie di usare il punto esclamativo: «Il fatto della interposizione fittizia contestato nei capi di imputazione non sussiste!». Agrama può tenersi i suoi soldi, dunque. Ma per Mediaset e il suo fondatore, questa sconfitta diventa ora l' arma per una vittoria ben più importante.
Audio shock del magistrato, l'ira di FI: "Chi ha deciso la condanna di Berlusconi?" Scoppia un altro scandalo nella magistratura. Forza Italia, indignata, insorge. Ora si vuole la verità sulla condanna a Silvio Berlusconi. Giovanna Stella, Martedì 30/06/2020 su Il Giornale. Un altro scandalo si abbatte sulla magistratura. Sui loro processi pilotati e su come abbiano contribuito al cambiamento della Storia. Dopo il trojan nel telefono di Palamara, spuntano altre intercettazioni. Risalgono a 7 anni fa e coinvolgono soggetti differenti: Silvio Berlusconi, il magistrato Antonio Esposito e il relatore-magistrato Amedeo Franco. Le intercettazioni ambientali riguardano un commento alla sentenza che condannò al carcere Silvio Berlusconi nel 2013. Amedeo Franco - durante una conversazione telefonica con il Cav - ammette che è stato condannato ingiustamente e che tutto "è stato pilotato dall'alto". La sentenza definitiva riguardava una presunta appropriazione indebita di diritti tv. Ma così - e ora lo dimostrano pure i documenti e gli audio - non è stato. Le carte oggi pubblicate in esclusiva da Il Riformista e gli audio choc mandati in onda a Quarta Repubblica fanno rabbividire. Il magistrato - a modo suo - chiede scusa a Silvio Berlusconi per quel processo così fazioso. "A mio parere è stato trattato ingiustamente e ha subito una grave ingiustizia - dice Amedeo Franco -. Tutti i miei colleghi e anche i suoi che pure non la supportano sono convinti che questa cosa sia stata guidata dall'alto. Lei doveva essere condannato a priori perché è un mascalzone".
Le reazioni di Forza Italia. "Ma chi è che dall'alto ha deciso che la Cassazione doveva condannare Berlusconi? Chi era il regista del complotto che ha cambiato la storia della politica italiana degli ultimi anni? Un vero colpo di Stato giudiziario", scrive Antonio Tajani su Twitter. E subito gli fa eco la vicepresidente del gruppo Forza Italia al Senato, Licia Ronzulli. "Quanto andato in onda stasera a Quarta Repubblica è semplicemente sconvolgente, doloroso. L'audio del dottor Franco sulla sentenza di condanna a Berlusconi, reso pubblico da Il Riformista, evidenzia che la democrazia è stata truccata, alterata al punto da cambiare il corso della storia politica italiana, nonchè da minare l'equilibrio tra i poteri dello Stato. E' semplicemente vergognoso che una certa magistratura utilizzi il proprio potere a fini di lotta politica, è un danno fatto non solo al presidente Berlusconi, alla sua famiglia e a Forza Italia, ma a tutti i cittadini che da stasera hanno la riprova che purtroppo esiste anche una giustizia non giusta. Ricordiamoci che se Berlusconi è fuori dal Senato è a causa di questa sentenza ingiusta e che oggi scopriamo essere pilotata". Anche la presidente dei senatori di Forza Italia, Anna Maria Bernini, ha immediatamente diramato una nota. "Le rivelazioni sul clima torbido in cui maturò la sentenza in Cassazione, che condannò Berlusconi in via definitiva per una frode fiscale mai avvenuta, sono la conferma di quanto purtroppo sapevamo da tempo: c'è stato un sistematico uso politico della giustizia per eliminare il leader del centrodestra dalla scena politica - si legge -. La sentenza del tribunale civile di Milano ristabilisce la verità, ma il danno è ormai fatto. Anche se Berlusconi è un gigante ed è riuscito a restare in piedi, il vulnus causato alla democrazia resta purtroppo irreparabile. Le notizie di oggi fanno impallidire perfino lo scandalo Palamara e confermano che è necessaria un'immediata, drastica riforma della giustizia".
Luca Palamara a La7: "I processi a Berlusconi un tema da approfondire". Sospetto legittimo: sapeva già tutto? Libero Quotidiano il 30 giugno 2020. "Un tema da sviluppare". Così Luca Palamara, lo scorso 22 giugno ospite di Omnibus, definiva con parole sibilline i processi a Silvio Berlusconi, lasciando intendere che gli intrecci tra magistratura, politica e carriere delle toghe potessero aver condizionato anche quelle condanne. Parole che oggi, alla luce dell'audio choc di Amedeo Franco, giudice relatore della Cassazione che condannò Berlusconi a 3 anni e 8 mesi di carcere per frode fiscale nel 2013 ("Una sentenza pilotata dall'alto, uno schifo") assumono un significato più chiaro. Considerato che Palamara, da anni e per anni dominatore di Anm e Csm e rivelatosi dalle intercettazioni della Procura di Perugia come uno dei magistrati più potenti e influenti d'Italia, il sospetto che sapesse qualcosa in più è legittimo.
Audio Silvio Berlusconi, Luca Palamara: "Conosco pezzi importanti di questa storia". Libero Quotidiano l'1 luglio 2020. "Con i miei avvocati riteniamo esistere un problema molto serio come l'utilizzazione di queste intercettazioni. In alcuni momenti della giornata è perfettamente funzionante, in altri no. Non lo dico io, lo dicono le carte". A dirlo, intervistato dal direttore Paolo Liguori nella rubrica di Tgcom24 Fatti e misfatti è il pm ed ex presidente dell'Associazione nazionale magistrati Luca Palamara. Quanto alle polemiche relativo alla condanna a Silvio Berlusconi in Cassazione per il processo Mediaset e agli audio shock diffusi dal Riformista ha detto; "Conosco dei pezzi importanti di questa storia", ha spiegato. Quanto alle intercettazioni ha spiegato che è un sistema "in alcuni momenti della giornata è perfettamente funzionante, in altri no. Non lo dico io, lo dicono le carte. Con i miei avvocati riteniamo esistere un problema molto serio. Il pubblico ministero, parlo per me stesso, pensa all'intercettazione come un mezzo di ricerca della prova. È fondamentale: il trojan ha segnato un salto di qualità nella lotta alla corruzione, alla mafia e al terrorismo. Però c'è un problema grandissimo del reale funzionamento di questi captatori informatici", ha aggiunto. Il trojan "ha una durata limitata, è nelle mani di persone che non sappiamo, gestisce una mole di dati di terze persone che risultano catapultate in questa vicenda che mi riguarda ma sono estranee", ha concluso Palamara. Poi è tornato a parlare del sistema giustizia che "va profondamente rimeditato e rivisto, è un sistema che fa fatica ad andare avanti". Secondo l'ex presidente di Anm ha "fallito il sistema delle correnti, ha fallito il sistema della spartizione tra correnti", aggiunge Palamara. E spiega: "Da un lato ha portato i migliori nei posti più importanti d'Italia ma ne ha penalizzati tanti altri esclusi da questo meccanismo ma avrei timore dell'introduzione del sorteggio" per la scelta dei componenti togati del Csm.
Silvio Berlusconi, le carriere "brillanti" dei magistrati che hanno indagato su di lui per i diritti tv. Libero Quotidiano il "Chi è il terzo uomo". Berlusconi e l'audio di Franco, più di un sospetto. Il testimone? Nome e cognome: clamoroso 02 luglio 2020. Un trampolino di lancio per la loro carriera per buona parte dei magistrati che si sono occupati dei procedimenti giudiziari contro Silvio Berlusconi. Tra le carriere più brillanti si segnala in prima luogo quella di Fabio De Pasquale, il pm milanese che per primo intravide l'ombra del delitto dietro gli affari televisivi di Berlusconi. Oggi De Pasquale è procuratore aggiunto della Repubblica nel capoluogo lombardo, con delega alle delicate indagini sui delitti economici transanzionali. Il presidente del tribunale che condannò Berlusconi, Edoardo D'Avossa è andato in pensione poco dopo, e le sue giudici a latere hanno proseguito senza sbalzi la loro carriera. Lo mette in evidenza il Giornale, in un articolo in cui vengono analizzate le carriere delle toghe che hanno attaccato il Cavaliere. Carriere spesso assai brillanti. E ancora. il magistrato che sostenne con successo l'accusa, Laura Bertolè Viale, fu nominata poco dopo avvocato generale. Il presidente della sezione, Antonio Esposito, è andato in pensione poco dopo senza ulteriori avanzamenti. Ma il relatore, Amedeo Franco nel 2016 venne nominato presidente di sezione in Cassazione. Un altro giudice del collegio, Ercole Aprile venne candidato da Magistratura Democratica al Consiglio superiore della magistratura, venne eletto con un profluvio di voti e sedette in Csm insieme a Luca Palamara.
Berlusconi, l’audio del giudice con l’ex premier: “Sentenza faceva schifo. Guidata dall’alto”. Ma fu (anche) lui a firmarla e al Csm negò pressioni. La Cassazione: “Nessun magistrato espresse dissenso”. La registrazione di un colloquio tra il leader di Forza Italia e Amedeo Franco, giudice di Cassazione e relatore del verdetto di condanna emesso dalla Suprema corte sullo stesso ex presidente del consiglio: "Si poteva cercare di evitare che andasse a finire in mano a questo plotone di esecuzione". La nota della Suprema corte: "Non risulta che il cons. Amedeo Franco abbia formalizzato alcuna nota di dissenso". E anzi davanti al consiglio superiore della magistratura dichiarò di non essersi sentito né condizionato né influenzato nel lavoro di redazione delle motivazioni della sentenza. Giuseppe Pipitone e Giovanna Trinchella il 30 giugno 2020 su Il Fatto Quotidiano. “Berlusconi deve essere condannato a priori perché è un mascalzone! Questa è la realtà… a mio parere è stato trattato ingiustamente e ha subito una grave ingiustizia… l’impressione che tutta questa vicenda sia stata guidata dall’alto“. E poi: “In effetti hanno fatto una porcheria perché che senso ha mandarla alla sezione feriale? … Voglio per sgravarmi la coscienza, perché mi porto questo peso del… ci continuo a pensare. Non mi libero… Io gli stavo dicendo che la sentenza faceva schifo“. E ancora: “Sussiste una malafede del presidente del Collegio, sicuramente…”. A parlare è Amedeo Franco, magistrato di Cassazione, giudice relatore e poi tra i firmatari del verdetto di condanna emesso dalla Suprema corte su Silvio Berlusconi. Nell’agosto del 2013, come è noto, l’ex premier fu condannato in via definitiva per frode fiscale. Una condanna che – è il caso di ricordarlo – confermava i verdetti del primo e del secondo grado. Qualche mese dopo la sentenza degli ermellini, ma sempre nel 2013, il magistrato avrebbe parlato con il leader di Forza Italia raccontando come quella sentenza fosse appunto un’ingiustizia. Quelle parole sarebbero state registrate da qualcuno che era presente a quel colloquio. E sono state diffuse ora, a circa un anno dalla morte del magistrato. Provocando una nota di smentita della Cassazione, che sottolinea come il processo Berlusconi fu celebrato “nel pieno rispetto del giudice naturale precostituito per legge“. E, soprattutto, “non risulta agli atti alcun dissenso da parte di nessuno dei 5 giudici“. Ma andiamo con ordine. Intanto va chiarito che i condizionali in questa vicenda sono obbligatori perché i punti da chiarire sono molteplici. Di sicuro, però, gli audio trasmessi da Quarta Repubblica, cioè la trasmissione in onda sulle reti Mediaset condotta da Nicola Porro, vicedirettore de Il Giornale della famiglia Berlusconi, hanno dato l’assist a tutto il centrodestra per tornare a tuonare contro il mai dimenticato “golpe politico giudiziario“. I virgolettati di quell’audio sono stati anticipati dal quotidiano Il Riformista, che sostiene anche come la stessa sentenza della Cassazione su Berlusconi sia smentita da verdetto del Tribunale civile di Milano. Una notizia che, come ha scritto ilfattoquotidiano.it, non corrisponde alla realtà. L’autore della sentenza – Diversa la questione delle registrazioni del giudice Franco, e per varie ragioni. La prima è una semplice questione di opportunità: perché il giudice relatore della sentenza su Berlusconi decide di parlare con lo stesso Berlusconi poco dopo aver reso definitiva la condanna per il leader di Forza Italia? In quel colloquio il magistrato, tra le altre cose, sostiene di aver detto probabilmente ai suoi colleghi: “Io questa sentenza non la scrivo, se volete posso firmare perché io faccio soltanto l’antefatto ma qua firmate tutti perché io da solo sennò non la firmo”. In effetti Amedeo Franco, per 20 anni magistrato in Cassazione, competente per i reati tributari, è indicato come giudice relatore del caso Berlusconi. Poi, dopo il deposito della sentenza, si scopre che tutti i cinque giudici del collegio firmano le motivazioni. E quindi pure Franco è tra gli autori di alcuni passaggi in cui Berlusconi viene definito “l’ideatore del sistema illecito. Dominus indiscusso” del sistema dei diritti gonfiati dei film comprati all’estero. Non si sa quanto scrisse di quella sentenza: se solo “l’antefatto” o altro. Di sicuro la firmò insieme a tutti gli altri componenti del collegio e cioè Claudio D’Isa, Ercole Aprile, Giuseppe De Marzo e il presidente Antonio Esposito. La nota della Cassazione: “Nessun dissenso tra i magistrati” – Ed è quello che fa notare la Suprema corte nella sua nota: “La motivazione della sentenza è stata sottoscritta da tutti e cinque i magistrati componenti del Collegio, quali co-estensori della decisione. Non risulta, altresì, che il cons. Amedeo Franco abbia formalizzato alcuna nota di dissenso ai sensi dell’art. 16 della legge n. 117 del 1988 (art. 125, comma 5, c.p.p.)”. Se Franco non fosse stato d’accordo – come sostiene lui stesso nell’audio – avrebbe avuto la possibilità, essendo in minoranza rispetto al collegio, di scrivere il suo dissenso e custodirlo. I magistrati ne hanno facoltà e già in passato e successo più volte. Anche con lo stesso Berlusconi come imputato: durante il processo Ruby, il presidente della Corte d’appello di Milano, Enrico Tranfa, si dimise dopo il verdetto di assoluzione per l’imputato, non condividendolo e ritenendo l’ex premier colpevole. Ma Franco non ha fatto nulla di tutto questo. Di più. Davanti al Csm, che giudicava disciplinarmente il presidente Esposito per aver rilasciato un’intervista, dichiarò di non essersi sentito né condizionato né influenzato nel lavoro di redazione delle motivazioni della sentenza su Berlusconi. Se avesse avuto dubbi, se avesse temuto che quella sentenza fosse stata pilotata perché invece ha dichiarato il contrario davanti all’organo d’autogoverno delle toghe? Dichiarazioni simili – nessun condizionamento nessuna influenza – erano arrivate anche dagli altri componenti del collegio d’Isa e Di Marzo.
Le tappe della vicenda: “Urgenza dovuta a incombente prescrizione”- Siccome nell’audio il magistrato contesta anche “una porcheria” cioè aver mandato il fascicolo su Berlusconi alla Sezione Feriale, nella sua nota la Suprema corte sottolinea che l’assegnazione avvenne nel “pieno rispetto del giudice naturale precostituito per legge”. “I ricorsi vennero iscritti presso la cancelleria centrale della Corte il 9.7.2013, dopo l’arrivo del relativo carteggio dalla Corte di appello di Milano che in data 8.5.2013 aveva pronunciato la sentenza oggetto di impugnazione – spiega la Suprema corte -. In ragione della rilevata urgenza dovuta all’imminente scadenza del termine di prescrizione dei reati durante il periodo feriale, il processo, in ossequio alle previsioni di cui alla legge n.742 del 1969 ed alle relative previsioni tabellari, venne assegnato alla Sezione feriale, e quindi ad un collegio già costituito in data anteriore all’arrivo del fascicolo alla Corte di cassazione, dunque nel pieno rispetto del giudice naturale precostituito per legge”.
Le accuse a Esposito, che smentisce: “Mai pressioni” – Ma non solo. Nell’audio il magistrato si esprime in maniera completamente opposta rispetto a quanto fatto davanti al Csm pure sul conto del presidente del collegio. Addirittura Franco riferisce a Berlusconi voci secondo le quali Antonio Esposito sarebbe stato “pressato” per il fatto che il figlio, anch’egli magistrato, fosse indagato dalla Procura di Milano per “essere stato beccato con droga a casa di...”. E poi diceva ancora: “I pregiudizi per forza che ci stavano… si potesse fare…si potesse scegliere… si potesse… si poteva cercare di evitare che andasse a finire in mano a questo plotone di esecuzione, come è capitato, perché di peggio non poteva capitare”. Gli Esposito, padre e figlio, smentiscono entrambi: “Non ho mai in alcun modo, subito pressioni né dall’alto né da qualsiasi altra direzione”, dice l’ex giudice Esposito, già finito sotto procedimento disciplinare per alcune sue dichiarazioni sul processo Berlusconi e poi assolto dal Csm in virtù delle dichiarazioni dello stesso Amedeo Franco. “Lo scrivente risulta totalmente estraneo, a qualunque titolo e sotto ogni profilo, alle gravissime e diffamatorie insinuazioni, prive di logica, che sono state fatte ai miei danni”, dice F. Esposito, figlio di Antonio e a sua volta magistrato che nell’audio del presunto dialogo tra Franco e Berlusconi viene dipinto come nei guai per una vicenda di droga a Milano. Circostanza che viene definitiva “semplicemente falsa, siccome del tutto inventata. La estrema gravità dell’affermazione del Franco comportava, prima che tale infamità venisse data in pasto all’opinione pubblica, la verifica della fondatezza di tale notizia“.
L’audio diffuso post mortem – Un altro dubbio insoluto è legato alla tempistica: perché un audio simile è stato reso pubblico solo sette anni dopo i fatti? Secondo Il Riformista perché gli “avvocati di Berlusconi hanno deciso di usare la registrazione e l’hanno depositata nel ricorso alla Cedu“. Ma di quale ricorso si parla? Alla Corte europea dei diritti dell’Uomo l’ex premier ha già fatto appello senza però aspettare alcuna decisione. Dopo aver incassato la riabilitazione da parte del tribunale di Milano, gli avvocati di Berlusconi hanno ritirato il ricorso perché un eventuale decisione “non avrebbe prodotto alcun effetto positivo” per il loro cliente. È stato l’ex cavaliere a non volere sapere se alla fine i suoi diritti fossero stati o meno violati. Bisogna dunque presumere che ci ha ripensato inviando nuovamente l’ennesimo carteggio a Strasburgo? Ma perché, allora, non ha reso già prima pubblico l’audio col giudice? Sempre il quotidiano di Piero Sansonetti sostiene che i legali dell’ex premier “in questi anni non hanno usato la registrazione per rispetto del magistrato, che era rimasto in attività”. Poi, l’anno scorso, il giudice Franco è morto. E da Arcore hanno deciso di far uscire i nastri: il rispetto valeva solo col magistrato vivo. E magari in grado di spiegare il senso di quelle sue parole, registrate con tutta probabilità senza che ne fosse a conoscenza.
Silvio Berlusconi, parla l'amico del giudice che condannò il Cav: "Disse che ci furono pressioni molto dall'alto". Libero Quotidiano il 24 luglio 2020. Giuseppe Moesch, amico fraterno di Renato Franco, il giudice di Cassazione morto nel 2019 e componente del collegio che il primo agosto 2013 condannò Silvio Berlusconi a quattro anni per frode fiscale e che poi confessò allo stesso Cavaliere quanto quella sentenza fu "pilotata da molto in alto", difende l'amico in una intervista al Giornale. "Ero accanto a Franco nei giorni della sentenza. Lui è sempre stato profondamente disgustato dalla giustizia politicizzata. Un paio di volte mi è capitato di accompagnarlo a votazioni per il Consiglio superiore della magistratura. Non era sereno, sapeva che la politicizzazione del Csm stava diventando sempre più pressante e invadente. Viveva tutto questo con grande irritazione, a volte addirittura sofferenza, perché non poteva essere una giustizia faziosa l'approdo per cui aveva rinunciato alla carriera universitaria". Della condanna di Berlusconi in primo e secondo grado che pensava? "Ben prima del suo coinvolgimento diretto nel processo, essendo lui un grande esperto di questioni tributarie, si era fatto l'idea che non ci fossero i presupposti per una sua condanna, cosa del resto poi confermata da una sentenza del tribunale civile di Milano. Ma soprattutto non c'era motivo di accelerare il giudizio della Cassazione incardinando il fascicolo nella sessione feriale di agosto invece che in quella naturale in autunno. Da subito gli sembrò un'anomalia, una forzatura sospetta". E quando cominciarono le udienze? "Da subito mi aveva confidato il dissenso con gli altri magistrati del collegio che sembravano prevenuti, come se la sentenza fosse già decisa da prima. Me lo disse con estrema chiarezza: ci sono pressioni molto forti, da più parti e alcune da molto in alto per chiudere velocemente la questione con una condanna. Mi disse che qualcuno lo stava spingendo a uniformarsi e non sollevare eccezioni". Ma alla fine ha firmato la sentenza. "Non esattamente. Lui come relatore avrebbe dovuto scriverla la sentenza, invece si limitò a scrivere la premessa e si rifiutò di scrivere il resto pur apponendoci la firma per quello che lui riteneva una ragione di stato, per quel senso del dovere di cui ho parlato. Fu il massimo del compromesso con sé stesso che trovò per lasciare un segno del suo disaccordo".
L'amico della toga "Franco mi parlò del plotone e di molto altro". "Di quel tentativo di registrare la discussione in camera di consiglio io non ho mai saputo nulla. Se Dedi l'ha fatto è la prova di quanto fosse turbato per trovarsi coinvolto in un plotone di esecuzione". Alessandro Sallusti, Venerdì 24/07/2020 su Il Giornale. «Di quel tentativo di registrare la discussione in camera di consiglio io non ho mai saputo nulla. Se Dedi l'ha fatto è la prova di quanto fosse turbato per trovarsi coinvolto in un plotone di esecuzione». Dedi è Amedeo Franco, il giudice di Cassazione, morto nel 2019, componente del collegio che il primo agosto 2013 condannò Silvio Berlusconi a quattro anni per frode fiscale e che poi confessò al Cavaliere quanto quella sentenza fu «pilotata da molto in alto». Chi parla è invece Giuseppe Moesch, amico fraterno di Franco, professore di Economia applicata, vasta esperienza all'estero, consulente di vari governi italiani, una passione per la cultura e la politica coltivata e maturata nella squadra di giovani talenti che affiancava Giovanni Spadolini presidente del Consiglio. Incontro il professore nella hall di un hotel romano.
«Non ci sto - esordisce - a fare passare Amedeo come un opportunista che prima firma una sentenza e poi si pente per chissà quale tornaconto. Io c'ero e so bene che le cose non sono andate come qualche scribacchino vuole fare intendere».
In che senso, professore, lei c'era?
«Io ero accanto a Franco nei giorni della sentenza, in verità sono stato accanto a lui negli ultimi cinquant'anni, ero con lui la sera prima che morisse e pure qualche minuto dopo. Ma questa storia di Franco e della sentenza Berlusconi non la si può capire se non si riavvolge il nastro della sua vita».
Riavvolgiamo. Che rapporto avevate?
«Lo definirei con un termine giuridico: commensali abituali. Lo conobbi agli inizi degli anni Settanta, faceva parte della compagnia pescarese della mia futura moglie che io conobbi a Napoli. Andammo al suo matrimonio e rimanemmo in contatto quando lui iniziò la sua carriera a Milano. Poi dal '78 ci siamo ritrovati entrambi a Roma e la nostra amicizia si è cementata, tanto che fu il testimone di nozze, rimasto io vedovo, della mia seconda moglie. Da allora almeno una volta alla settimana ci trovavamo a cena a discutere e confrontarci».
Che uomo era il giudice?
«Colto, sensibile, gran lavoratore e profondo conoscitore del diritto. Sul campo mosse i primi passi a Milano con il giudice Alessandrini di cui divenne grande amico. La sua barbara uccisione a opera delle Brigate Rosse, credo fosse il 1978, è un trauma che si è portato dietro tutta la vita e che ha rafforzato il suo senso del dovere, della giustizia come missione».
E che giudice era l'uomo?
«Era tra i grandi esperto di diritto pubblico e costituzionale, studiò con il professor Franco Modugno, oggi giudice costituzionale e ritenuto una vera autorità, di cui divenne allievo e poi amico e collaboratore. Fu proprio Modugno a spingerlo inutilmente per ben due volte verso la carriera universitaria».
Inutilmente?
«Sì, per ben due volte vinse il concorso, e per due volte rinunciò alla cattedra, pur continuando a insegnare come esterno. Fu per lui una scelta per certi versi dolorosa. Avrebbe voluto fare il professore ma non poteva fare a meno di fare il magistrato e questo rebus lo tormentò a lungo, il senso del dovere verso la toga che portava, il rispetto assoluto per l'istituzione giustizia alla fine vinse».
Era convinto che la magistratura meritasse tanto rispetto?
«Lui sì, assolutamente. Ma non è che non vedesse ciò che accadeva nel suo mondo. Era profondamente turbato e infastidito quando in qualche suo collega questo rispetto veniva meno, su questo ebbi modo di assistere ad alcune sue discussioni con un altro grande giudice costituzionale, il professore di Diritto Carlo Mezzanotte. I due erano amici e si stimavano».
Vi capitò mai di parlare della giustizia politicizzata?
«Certo, ne parlavamo spesso e lui, come del resto io, era profondamente disgustato. Un paio di volte mi è capitato di accompagnarlo a votazioni per il Consiglio superiore della magistratura. Non era sereno, sapeva che la politicizzazione del Csm stava diventando sempre più pressante e invadente. Viveva tutto questo con grande irritazione, a volte addirittura sofferenza, perché non poteva essere una giustizia faziosa l'approdo per cui aveva rinunciato alla carriera universitaria».
Di politica parlavate mai?
«Certo, ma non creda. Franco non aveva una visione settaria della politica. Non l'ho mai sentito criticare o difendere un partito o un politico a prescindere dal merito. Veniva da una famiglia profondamente cattolica, anche se lui era sostanzialmente laico, e i suoi valori erano quelli della morale cattolica, della giustizia giusta e eguale per tutti. Può essere, immagino, che votasse per partiti di centro, certo non ha mai avuto idee estremiste né era affascinato da ideologie marxiste».
E della condanna di Berlusconi in primo e secondo grado che pensava?
«Guardi, serve una premessa. Il tormento di Franco era che dalle sue decisioni potevano discendere conseguenze molto importanti per le persone coinvolte e anche per la collettività intera. Per questo era uno che studiava i casi in modo maniacale. Credo che sia l'unico testimone di nozze che prima di firmare l'atto lo ha letto tutto, in ogni dettaglio. Glielo ho visto fare al mio matrimonio tra lo stupore dei presenti».
E quindi, tornando a Berlusconi?
«Quindi, ben prima del suo coinvolgimento diretto nel processo, essendo lui un grande esperto di questioni tributarie, si era fatto l'idea che non ci fossero i presupposti per una sua condanna, cosa del resto poi confermata da una sentenza del tribunale civile di Milano. Ma soprattutto».
Soprattutto?
«Soprattutto non c'era motivo di accelerare il giudizio della Cassazione incardinando il fascicolo nella sessione feriale di agosto invece che in quella naturale in autunno. Da subito gli sembrò un'anomalia, una forzatura sospetta».
Eppure finì proprio in quel collegio.
«Un caso. Lui, giudice anziano, si trovò a fare parte di quella corte solo perché era sua abitudine lavorare a Roma d'estate con l'aria condizionata e prendersi le vacanze in altri periodi dell'anno. Si figuri che anche io non potevo partire prima dell'8 agosto, giorno del suo compleanno, entrambi ci tenevamo a passarlo insieme».
Quindi iniziano le udienze.
«Già, e da subito mi aveva confidato il dissenso con gli altri magistrati del collegio che sembravano prevenuti, come se la sentenza fosse già decisa da prima. E che...».
E che?
«Me lo disse con estrema chiarezza: ci sono pressioni molto forti, da più parti e alcune da molto in alto per chiudere velocemente la questione con una condanna. Mi disse che qualcuno lo stava spingendo a uniformarsi e non sollevare eccezioni».
Nomi?
«Non me ne fece, né io osai chiedere. Ho solo insistito più volte sul fatto che se il suo disagio era così forte non doveva tenerlo dentro, doveva manifestarlo, che il suo rispetto per le istituzioni doveva portarlo necessariamente a prendere una posizione di dissenso ufficiale rispetto a quello che stava accadendo».
In che modo avrebbe potuto farlo?
«Su questo abbiamo avuto discussioni molto accese, io gli consigliavo di fare una relazione di minoranza o di non firmare la sentenza».
E lui?
«Mi ribatteva che un singolo magistrato non può permettersi di sfasciare l'istituzione giustizia. Mi ripeteva: Se faccio una cosa del genere viene a galla tutto, non posso essere io a sfasciare il mio mondo. Era prigioniero della sua rigidità, ha soffocato il suo senso di giustizia per rispetto della giustizia. Una cosa difficile da capire se non conosci l'uomo».
Già, perché alla fine ha firmato la sentenza.
«Non esattamente. Lui come relatore avrebbe dovuto scriverla la sentenza, invece si limitò a scrivere la premessa e si rifiutò di scrivere il resto pur apponendoci la firma per quello che lui riteneva una ragione di stato, per quel senso del dovere di cui ho parlato. Fu il massimo del compromesso con sé stesso che trovò per lasciare un segno del suo disaccordo».
Ma non bastò ...
«Certo, tra l'altro anche se avesse scelto nettamente rispetto alla sentenza poco sarebbe cambiato, in camera di consiglio sarebbero stati sempre quattro contro uno. Ma almeno si sarebbe ufficializzato che nel merito poteva esistere un'altra verità. Mi ricorda Sophie».
Sophie?
«La protagonista del romanzo La scelta di Sophie, la donna che rinchiusa in un campo di concentramento ha la possibilità di salvare solo uno dei suoi due figli ma non riesce a decidere quale e questa maledizione la perseguiterà per tutta la vita».
E il giorno della sentenza?
«Quando in tv lo vidi apparire in aula, guardandolo in volto capii che non aveva seguito i miei consigli. L'ho incontrato nelle ore e nei giorni successivi, sono stato anche cattivo con lui, e oggi un po' me ne dispiace».
E lui?
«Un giorno stavamo a cena e all'ennesima critica si inalberò e scappò di casa. Non voleva sentirsi dire che aveva sbagliato, e forse andò poi a colloquio da Berlusconi per liberarsi di questo peso».
In che senso?
«Quando lui si è sentito rimproverare dai suoi pochi amici la cosa gli ha fatto male perché sapeva che gli dicevamo la verità. E qui probabilmente venne fuori la sua anima cattolica e liberale: andare a confessarsi dalla vittima, espiare il peccato».
Addirittura?
«Ci sta, chi l'ha conosciuto davvero non può stupirsi. Era il suo piccolo risarcimento personale al fatto di aver fatto parte suo malgrado a quello che lui stesso ebbe a definire un plotone di esecuzione».
Questa cosa ha incrinato la vostra amicizia?
«Per niente, e le dirò neppure la stima. Franco è un giudice che si è battuto da sempre contro la malagiustizia, lo ha fatto a modo suo, con le sue paure e le sue indecisioni proprio perché era un uomo probo, onesto e profondamente rispettoso delle istituzioni».
Silvio Berlusconi, il giudice Ercole Aprile: "Condanna Mediaset, in camera di consiglio ho visto cose inimmaginabili". Libero Quotidiano il 25 luglio 2020. "Ho visto cose che voi umani non potreste immaginarvi...". La citazione da Blade Runner è di Ercole Aprile che si riferiva al periodo di quando era giudice nella sezione Feriale della Cassazione, quella sezione che il primo agosto 2013 condannò definitivamente Silvio Berlusconi per frode fiscale. Aprile si riferiva a quel che vide e sentì nel segreto della camera di Consiglio, quella in cui secondo fonti non identificate di Repubblica, il relatore Amedeo Franco (scomparso un anno fa) sarebbe stato scoperto dagli altri quattro componenti a registrare la loro conversazione di nascosto. Avrebbe nascosto in bagno un cellulare o altro dispositivo e lì l'avrebbe trovato un collega del collegio andato a controllare subito dopo. "Quando insistevo per sapere qualcosa su come si arrivò al verdetto su Berlusconi un po' si apriva e tra le righe mi lasciò capire che in mezzo alle cose che non poteva raccontare c'era addirittura il fatto che, in spregio a tutte le regole, qualcuno sarebbe entrato in quella camera di Consiglio, racconta un ex compone te del Csm, collega di Aprile nello stesso periodo in cui il giudici finì a Palazzo Marescialli. Aprile interrogato da Repubblica si trincera dietro il segreto della camera di Consiglio, ma è l'unico a non chiudere completamente la porta: "Rispetto il lavoro d'inchiesta, ma non posso affermare né smentire nulla. Potrei essere liberato dal mio dovere di totale riserbo solo se venissi interrogato, da un organo giudiziario o amministrativo".
Truffato tutto il Paese. Viene giù un tassello alla volta, ma l'intonaco steso da magistrati, politici e giornalisti per coprire la verità sulla condanna di Berlusconi del 2013 piano piano si sta sfaldando. Alessandro Sallusti, Sabato 25/07/2020 su Il Giornale. Viene giù un tassello alla volta, ma l'intonaco steso da magistrati, politici e giornalisti per coprire la verità sulla condanna di Berlusconi del 2013 piano piano si sta sfaldando. E il quadro sottostante, di cui si cominciano a delineare i contorni, appare come il più grande falso prodotto dalla storia repubblicana. A dirlo non sono opinionisti di parte ma i protagonisti stessi, cioè alcuni di quei magistrati che emisero la famosa sentenza. Uno di loro, il giudice Franco oggi morto, lo confessò al diretto interessato Berlusconi e la sua voce imbarazzata, e registrata, oggi è pubblica. Ma anche altri due componenti di quel «plotone di esecuzione» raggiunti da Repubblica, che per ora garantisce loro l'anonimato chiamandoli «giudice uno» e «giudice due», ammettono che in quelle ore decisive in camera di consiglio avvennero cose molto gravi e strane. E ora spunta, ve lo raccontiamo oggi, un altro elemento inquietante. Più di un magistrato ha infatti sentito dire a un altro giudice di quel collegio: «La sentenza Berlusconi? Sono successe cose inimmaginabili». E allora noi vorremmo che qualcuno c'è le dicesse queste «cose inimmaginabili», perché non riguardano solo la dignità di Silvio Berlusconi, riguardano la storia del Paese e la sua credibilità visto che quella sentenza estromise dall'arena politica il capo dell'opposizione. «Ora la strada maestra è il rispetto della magistratura», commentò a caldo la sentenza l'allora Presidente della repubblica Giorgio Napolitano, seguito a ruota dal premier Enrico Letta e dal segretario del Pd del tempo Guglielmo Epifani che evocò addirittura le manette subito: «La sentenza va rispettata, eseguita ed applicata». C'era insomma tanta fretta da parte del Quirinale e della sinistra, quel primo agosto del 2013, di chiudere la vicenda immediatamente e in modo tombale. Ma si sa che la fretta a volte è cattiva consigliera, fa lasciare tracce indelebili che magari al momento non sono visibili e uno pensa così di averla sfangata per sempre. Ma soprattutto vale la regola secondo la quale le prime galline che cantano di solito sono quelle che hanno fatto l'uovo.
Alessandro Sallusti, i sospetti su Giorgio Napolitano per la condanna a Berlusconi: "Tanta fretta da parte del Quirinale è sospetta". Libero Quotidiano il 25 luglio 2020. "Truffato tutto il Paese". Questo il titolo dell'editoriale di Alessandro Sallusti sul Giornale di sabato 25 luglio, un fondo dedicato ancora alla condanna Mediaset subita da Silvio Berlusconi e su cui giorno dopo giorno i dubbi e gli interrogativi si moltiplicano. "Viene giù un tassello alla volta, ma l'intonaco steso da magistrati, politici e giornalisti per coprire la verità sulla condanna di Berlusconi del 2013 piano piano si sta sfaldando", attacca Sallusti, che poi ricorda tutte le ultime novità controverse su quella condanna. E al termine dell'elenco, ecco che punta il dito: "E allora noi vorremmo che qualcuno c'è le dicesse queste cose inimmaginabili, perché non riguardano solo la dignità di Silvio Berlusconi, riguardano la storia del Paese e la sua credibilità". Sallusti, poi, mette nel mirino l'allora presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. "Ora la strada maestra è il rispetto della magistratura, commentò a caldo la sentenza l'allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, seguito a ruota dal premier Enrico Letta e dal segretario del Pd del tempo Guglielmo Epifani". Insomma, secondo il direttore c'era "tanta fretta da parte del Quirinale e della sinistra, quel primo agosto del 2013, di chiudere la vicenda immediatamente e in modo tombale". Una fretta, va da sé, sospetta. "Ma si sa che la fretta a volte è cattiva consigliera, fa lasciare tracce indelebili che magari al momento non sono visibili e uno pensa così di averla sfangata per sempre. Ma soprattutto vale la regola secondo la quale le prime galline che cantano di solito sono quelle che hanno fatto l'uovo", conclude un durissimo Sallusti, che esplicita in modo piuttosto inequivocabile i suoi dubbi sul Quirinale di allora. E dunque su Napolitano.
Anna Maria Greco per ''il Giornale'' il 24 luglio 2020. Che cosa successe davvero nel segreto della Camera di Consiglio della Cassazione che il primo agosto 2013 arrivò alla condanna definitiva di Silvio Berlusconi per frode fiscale? L'ultima tessera del puzzle l'aggiunge l'articolo di Repubblica sul fatto che il relatore Amedeo Franco (quello che pochi mesi dopo fu registrato mentre confessava al leader di Forza Italia che la sentenza era stata manipolata) avrebbe a sua volta cercato di registrare il confronto con i quattro colleghi e sarebbe stato scoperto. Solo che, secondo il racconto di due magistrati identificati solo come Toga1 e Toga2, si sarebbe deciso a questo punto di non denunciare il fatto ma di andare avanti come se nulla fosse. Per arrivare comunque al verdetto di colpevolezza, evitando di incappare nella prescrizione. Una ricostruzione clamorosa che conterrebbe gli elementi per invalidare quella sentenza, ma non viene confermata né smentita dagli interessati, Franco è morto e gli altri, il presidente Antonio Esposito, i giudici Giuseppe Di Marco ed Ercole Aprile, manca solo la voce di Claudio D'Isa, si trincerano dietro il segreto della camera di consiglio. Ma quel segreto tutela la decisione in sé, non i fatti che la circondano, o no? Scrive Repubblica che, durante la discussione, i componenti della sezione Feriale sentirono uno strano rumore: «Dopo qualche secondo, quel gracchiare assume un suono più nitido: sembrano proprio le loro voci, di poco prima, registrate. Il giudice Franco si alza di scatto, mette le mani in tasca come a chiudere qualcosa, a premere un tasto. Imbarazzato, così apparirebbe ai colleghi, esce, va in bagno. Torna dopo poco. Dice che è tutto a posto. I colleghi sono interdetti. Un altro di loro si stacca e va in bagno. E scopre, in un angolo, un dispositivo o un cellulare nascosto: lo prende, lo riporta in camera. E non so altro. Spiegazioni? Non mi risulta che Franco ne abbia date, di plausibili». Versione confermata anche dalla seconda fonte: «È lo stesso racconto, per sommi capi, che raccolsi anche io. Questa storia provocò molto turbamento e amarezza tra i quattro giudici. Un gesto equivoco. Ma senza certezze». Perché la vicenda non fu denunciata? Il ragionamento fu che «il rischio di una eventuale divulgazione» era stato bloccato in tempo. Come potevano essere sicuri di questo i quattro ermellini non si capisce e neppure perché, di fronte a un fatto così pesante, si presero la responsabilità di tacere, di coprire il comportamento così gravemente sospetto del relatore? Nessuno disse niente e anche tre anni dopo, quando Franco fu promosso presidente di sezione al Csm, Aprile che ne faceva parte non votò a favore ma neppure spiegò il perché. E, ultima o forse prima domanda, perché Franco voleva registrare la seduta? Secondo la difesa di Berlusconi, che si prepara a inviare a Strasburgo l'articolo di Repubblica con altri documenti per il ricorso fatto alla Corte europea dei diritti dell'uomo, se il fatto fosse vero confermerebbe la tesi di un relatore così preoccupato da cercare di precostituirsi la prova che stava succedendo qualcosa di gravissimo in quella camera di consiglio. Il professor Franco Coppi e l'avvocato Niccolò Ghedini si sono consultati ieri sulle ultime notizie che, ne sono convinti, avvalorano l'idea che quel collegio fosse, come lo definì Franco, «un plotone d'esecuzione» per Berlusconi. Che non si fermò neppure di fronte all'obbligo di sospendere la seduta, avvertire le forze dell'ordine, far sequestrare cellulari o altri dispositivi per accertare se qualcosa era stato trasmesso all'esterno e poi almeno denunciare al Csm Franco per un comportamento deontologicamente scorretto. Ma così, la decisione sul processo Mediaset sarebbe passata ad un altro collegio e forse era proprio questo che si voleva evitare. Il rischio prescrizione, a quanto sembra, non era così impellente da imporre l'attribuzione alla sezione Feriale. Coppi e Ghedini hanno ricostruito lo scambio di comunicazioni tra uffici giudiziari: il 5 luglio la presidente della Corte d'appello di Milano, Alessandra Galli, inviò alla Cassazione una email urgente segnalando che la mannaia della prescrizione sarebbe caduta non ad agosto ma, almeno, il 14 settembre oppure il 21 o il 28, in base ai calcoli da fare. Ma il 9 luglio la Suprema Corte notificò alla difesa di Berlusconi che l'udienza era fissata il 30 luglio e, asserendo che la prescrizione sarebbe scattata il primo agosto, abbreviò i termini di difesa da 30 a 20 giorni. Per la Cassazione tutto regolare, ma per Coppi e Ghedini così il Cavaliere fu privato del suo «giudice naturale» e affidato alla sezione Feriale, su cui pesano tanti sospetti. I legali ora pretendono accertamenti dalla Corte di Strasburgo e anche dal ministro della Giustizia. Alfonso Bonafede, quando uscì l'audio di Franco disse che non poteva indagare sui morti, ma ora potrebbe accertare se gli altri quattro membri della Feriale si comportarono secondo la legge e le regole.
Carlo Nordio, dubbio sulla sentenza che condannò Silvio Berlusconi: "Quella volta che il maresciallo origliò tutto". Cristiana Lodi su Libero Quotidiano il 26 luglio 2020.
Dottor Nordio, da magistrato le è mai capitato di vedere un fatto simile?
«La sentenza Mediaset e l'estromissione di Berlusconi dalla politica attiva?»
È stato detto e ripetuto che bisognava processarlo il 31 luglio 2013 perché i reati a suo carico si sarebbero prescritti il primo agosto di quell'anno, e invece questo non era vero. Una balla. Com' è stato possibile?
«Le dico subito che lo scandalo di quella vicenda non sta tanto nella fissazione anticipata del processo e nella costituzione di un Collegio giudicante quantomeno discutibile. Sta in quello che è emerso dalle dichiarazioni del giudice relatore e soprattutto dall'applicazione della Legge Severino». Scusi, emerge che Berlusconi sia stato a dire poco imbrogliato sui termini di prescrizione. Sarebbe stato commesso un falso. «Il conteggio della prescrizione è complesso, perché i termini possono essere continuamente sospesi per mille ragioni, ad esempio gli impegni dell'imputato o del suo difensore. Le date vengono grossolanamente scritte sul frontespizio del fascicolo all'inizio delle indagini, e devono esser continuamente aggiornate, speso con scarabocchi illeggibili. L'errore è quindi sempre possibile. Va da sé che tanto maggiore è l'importanza del reato e del suo presunto autore, tanto maggiore dovrebbe essere l'attenzione in questo conteggio. La legge è uguale per tutti, ma un furto in un supermercato non è come un reato tributario che può far cadere un governo. Se questi calcoli sono stati sbagliati non è difficile ricostruirli. Alcuni giornali lo hanno fatto, e pare che effettivamente siano errati: però non parlerei di falsi. Il falso indica la malafede, e non arrivo a sospettare tanto da parte di colleghi».
Eh no, qui il punto è un altro. La Cassazione riceve dalla Corte d'Appello di Milano la comunicazione, scritta e firmata dallo stesso giudice che ha condannato Berlusconi, che la prescrizione scatta il 14 settembre o il 21 o il 30. E la Cassazione, con la carta in mano cosa fa? Aspetta quattro giorni e il 9 luglio dice a Berlusconi: «Ti processiamo il 31 perché tutto si prescrive il primo agosto».
È buonafede questa?
«Continuo a pensare a un errore. Lo spero per carità di patria».
Il diritto della difesa ad avere i famosi 30 giorni di tempo per prepararsi, dato che non c'è la circostanza della prescrizione immediata, intanto però va a farsi benedire? «Secondo me no. Il giudizio di Cassazione si forma su ricorsi scritti e molto articolati. Le difese sanno già tutto e hanno già detto tutto».
È dunque a suo parere legale avere portato in aula il Cavaliere il 31 luglio?
«L'impressione che ho avuto allora è che ci fosse stata una accelerazione inusuale, con un "cronoprogramma" ben diverso da quello degli altri processi».
Quale peso può avere, oggi, questo fatto davanti alla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo a cui Silvio Berlusconi si è rivolto già nel 2014?
«Credo che ne avrà molto di più la dichiarazione postuma del relatore Amedeo Franco che parla di plotone di esecuzione e sentenza già scritta» .
Il relatore Amedeo Franco avrebbe tentato di registrare la camera di consiglio. I giudici del collegio non lo hanno denunciato. Tutti zitti. Cosa ne pensa?
«L'uso disinvolto e talvolta spregiudicato delle registrazioni è stato inaugurato dalla stessa magistratura, talvolta con aspetti grotteschi. A metà degli anni '90 alcuni giudici romani, indagati dalla procura di Milano, erano sotto intercettazione mentre stavano in un bar vicino al Palazzaccio. La "cimice" si ruppe e il maresciallo, invece di lasciar perdere, si accostò al tavolino degli intercettandi, origliò, e trascrisse la conversazione su un tovagliolo. Invece di cestinarla, quella porcheria fu trascritta, ovviamente in modo scorretto. Si sarebbe dovuto aprire un'inchiesta, invece non successe quasi nulla, a parte che il povero collega Misiani mori di crepacuore. Come Loris D'Ambrosio qualche anno fa, per le intercettazioni sulla cosiddetta trattativa Stato Mafia. Con questi precedenti ignobili, è inevitabile che le regole siano saltate, proprio perché a violarle sono stati quelli che avrebbero dovuto farle rispettare. Il giudice Franco, visti i tempi, avrà voluto cautelarsi».
La segretezza della camera di consiglio vale anche se viene consumato un illecito?
«La legge prevede la "dissenting opinion", cioè il dissenso espresso in busta chiusa da parte del giudice che non concorda. Non si usa quasi mai. E posso dire che la riservatezza propria e altrui è stata violata così tante volte da parte di magistrati che il rispetto delle regole è ormai una opzione metafisica».
Adesso è tardi per denunciare?
«Il Relatore che ha provato a registrare è morto, quindi non c'è la materia del contendere. Da vivo, avrebbe potuto difendersi squadernando tutte le illegalità e le colpe in vigilando commesse da altri magistrati in altri processi, dove però non è accaduto nulla. Osservo che la notifica a Berlusconi dell'informazione di garanzia a Napoli nel 1994 attraverso un giornale era un reato, eppure nessuno ha indagato sull'autore della violazione del segreto istruttorio».
Dunque i precedenti ci sono ma tutto continua a passare sotto l'uscio. Alla faccia del Csm di cui qualche giudice che era in quell'aula e ha taciuto, ha fatto pure parte. «Penso che dopo la vicenda Palamara, che peraltro ha rivelato cose note a tutti, il Csm così com' è andrebbe soppresso, e sostituito da un organo costituito da membri sorteggiati tra i magistrati di Cassazione, i docenti universitari e i presidenti dei consigli forensi. Tutte persone, per definizione, intelligenti e preparate».
Perché cita la legge Severino?
«Quella è stata la pagina più vergognosa della vicenda che ha portato all'estromissione di Berlusconi dalla politica attiva. La legge prevede la rimozione del condannato ancor prima della sentenza definitiva, e questo è già grave. Ma può anche starci. Quello che è intollerabile è che sia stata applicata retroattivamente, cioè per fatti avvenuti prima della sua entrata in vigore. Qui l'atteggiamento della sinistra è stato addirittura goffo. Poiché la sanzione penale non può esser retroattiva, si è detto che quella era una sanzione amministrativa. Peggio che peggio, perché anche queste sanzioni seguono gli stessi criteri di quelle penali. Quando questi dilettanti hanno capito la gaffe, hanno sostenuto che si trattava "del venir meno dei presupposti di eleggibilità", formula vana e gesuitica che non significa nulla. In realtà cacciare via dal Parlamento un membro eletto è un provvedimento afflittivo, e come tale irretroattivo. Fui uno dei primi a sostenerlo. E il fatto che molti giuristi abbiano privilegiato la ragion politica all'elementare interpretazione della norma in senso garantista mi ha disgustato. Oggi vedo che quasi tutti ammettono l'errore. E speriamo che fosse solo un errore».
Così Csm e magistrati provarono a insabbiare la sentenza taroccata. I giudici che condannarono il Cav aiutati dai colleghi. Rischio disciplinare per Aprile. Anna Maria Greco, Domenica 26/07/2020 su Il Giornale. Il presidente della sezione Feriale che il primo agosto 2013 condannò in Cassazione Silvio Berlusconi, Antonio Esposito, fu assolto dal Csm il 15 dicembre del 2014 quando finì sotto processo disciplinare per l'intervista al Mattino del 5 agosto sulla sentenza Mediaset. Amedeo Franco, il relatore, nel 2016 fu «promosso» dal Csm presidente di sezione della Suprema Corte, dopo aver chiesto l'appoggio dell'ex primo presidente della Cassazione, Ernesto Lupo, allora consigliere giuridico al Quirinale. Che ne parlò con Ercole Aprile, altro componente del collegio che confermò la colpevolezza di frode fiscale al leader di Forza Italia, poi eletto al Csm nelle liste di Magistratura democratica. E a quel voto in plenum per la nomina di Franco, Aprile non si oppose ma scelse una formale astensione. Sembra quasi che si sia creato un cordone sanitario delle toghe attorno ai 5 ermellini che, con il loro verdetto, imposero un pesante stop alla vita politica del Cavaliere. E ora che vengono fuori le rivelazioni su «cose indicibili» successe nella camera di consiglio di quel primo agosto, il tentativo di Franco di registrare i colleghi e il silenzio degli altri, come voci di interferenze dirette sulla decisione, nasce il sospetto che gli interessati avessero un credito da riscuotere, una protezione da chiedere ai colleghi e che, soprattutto, altri li assecondassero per evitare che scoppiasse uno scandalo e fosse messa in discussione la regolarità della sentenza. Fosse scoperta, insomma, la «porcheria» che lo stesso Franco (registrato) confessò a Berlusconi pochi mesi dopo la condanna. Mettendo in fila fatti e indiscrezioni risultano evidenti due cose. Primo: il processo disciplinare del Csm guidato da Giovanni Legnini ad Esposito fu molto sofferto, in camera di consiglio si scontrarono posizioni diverse e in quel segreto, probabilmente, uscirono fuori particolari dell'altra camera di consiglio del 2013 che nessuno dei componenti poté rivelare. «Sono accaduti dei fatti rispetto ai quali deve essere interesse di tutti chiarire e comprendere che cosa è accaduto», ha detto sibillino Luca Palamara, allora componente della sezione disciplinare. Alla fine, forse prevalse anche la preoccupazione di non creare ombre sulla sentenza Mediaset e servirono 50 pagine di motivazioni per spiegare che Esposito (difeso nella prima fase da Piercamillo Davigo), anticipando di fatto il perché del verdetto, fu costretto a rompere l'obbligo di discrezione per difendersi dagli attacchi della stampa ostile. Qualcuno la definì «legittima difesa a mezzo stampa». Secondo: anche dalle chat del «caso Palamara» emerge il ruolo di Aprile nelle nomine, quando l'ex presidente dell'Anm parla con l'altra rappresentante della Cassazione al Csm, Maria Rosaria Sangiorgio e con Valerio Fracassi di Area. La «promozione» di Franco faceva parte di accordi tra correnti, un pacchetto di nomine per cui se si vuole che passi uno si vota su tutti. Questo era il sistema e Aprile, che non era convinto del merito di Franco, anche dopo l'intervento di Lupo che invece ha raccontato di stimarlo, scelse un'astensione che non pesò sul risultato finale. La domanda sarebbe: Aprile aveva dubbi sul collega perché in camera di consiglio aveva cercato di registrare o per altri motivi? Su quanto accadde quel primo agosto 2013 è possibile che il magistrato venga chiamato a rispondere al Csm, perché se sette anni dopo gli eventuali reati sono prescritti, per gli illeciti disciplinari, invece, si contano 10 anni. La violazione dell'obbligo di denuncia, anche se prescritta nel penale, integra comunque un illecito disciplinare, per omessa comunicazione al capo dell'ufficio di (presunte) interferenze. Con Aprile potrebbe finire sotto processo disciplinare Giuseppe Di Marzo, perché Franco è morto un anno fa e sono in pensione Esposito e Claudio D'Isa (anche lui incappato in un processo disciplinare che ha evitato lasciando la toga). Forse, a quel punto, qualcuno sarebbe costretto a buttar giù il muro del silenzio.
La procura di Roma apre un'inchiesta. Esposito e colleghi saranno chiamati a chiarire i misteri di quel verdetto. I pm non possono ascoltare Franco, che è morto. Ma verranno sentiti tutti i giudici della sezione feriale su quella camera di consiglio del 2013. Massimo Malpica, Sabato 25/07/2020 su Il Giornale. Sul giallo delle registrazioni prima e dopo la sentenza Mediaset che vide Silvio Berlusconi condannato, il primo agosto di sette anni fa, ora apre un fascicolo anche la procura di Roma. A piazzale Clodio il procuratore capo Michele Prestipino avrebbe già dato incarico di avviare «approfondimenti» dopo le rivelazioni di Repubblica, che ha raccontato come Amedeo Franco, relatore della sentenza, avrebbe quantomeno tentato di registrare le conversazioni con i colleghi di quel giorno in camera di consiglio. Violando il segreto «sacrale» che avvolge le decisioni collegiali e nasconde eventuali dissensi. Che Franco fosse dissenziente, pur avendo firmato la sentenza della quale era tra l'altro relatore, era già apparso evidente dagli audio registrati a Palazzo Grazioli in occasione della visita del giudice al «condannato» Berlusconi. E lo ha confermato, parlando con il direttore del Giornale, Sallusti, anche Giuseppe Moesch, storico amico della toga scomparsa nel 2019. A Repubblica, due anonimi giudici hanno detto che Franco, quel giorno, fece distrattamente partire l'audio di una registrazione fatta tra i presenti pochi istanti prima, gelando il collegio. E qualcuno degli altri quattro giudici avrebbe poi trovato un registratore, o forse un cellulare, che il giudice avrebbe lasciato in bagno dopo essere stato «scoperto». Che intenzioni aveva il defunto magistrato? Voleva testimoniare la propria posizione dissociata rispetto a quello che lui stesso avrebbe poi definito «plotone d'esecuzione»? E come mai in sette anni nessuno ha mai sollevato quell'episodio, nonostante il rumore e le polemiche e le conseguenze anche politiche di quella sentenza? A fare un po' di chiarezza, a rispondere a questi e ad altri interrogativi, proveranno ora i magistrati della procura di Roma. Che cercheranno di capire, ascoltando anche gli altri giudici di quel collegio, composto oltre che da Antonio Esposito e dallo stesso Franco anche da Ercole Aprile. Claudio D'Isa e Giuseppe De Marzo. Finora, i protagonisti superstiti, con Repubblica si sono trincerati dietro al riserbo, naturale complemento, appunto, di quel feticcio giudiziario che è la segretezza della camera di consiglio. Ma proprio per questo riesce complicato immaginare che, nel bel mezzo delle sette ore di discussione per una sentenza storica piovuta in piena estate, i quattro magistrati della sezione Feriale della Cassazione che stavano per condannare Berlusconi per frode fiscale non trovarono niente da obiettare di fronte alla sorpresa nel constatare che un loro collega - non uno qualsiasi, ma appunto il relatore - aveva provato a registrare quel momento violando un tabù sacrale del diritto. Di sicuro il nuovo elemento, ora al vaglio della procura, rinforza anche la validità di quelle registrazioni in cui Franco, parlando alla presenza di Berlusconi, prende le distanze dai colleghi e dalla stessa decisione di quel giorno di agosto: il fatto che già prima della sentenza il giudice dissenziente cercasse di procurarsi anche se in modo così poco ortodosso «testimonianze» di quella che a lui doveva sembrare l'anomalia di una decisione contraria al diritto non può che confermare che quelle parole registrate mesi dopo non erano certo un vuoto esercizio di opportunismo da parte di chi, su quella sentenza, aveva messo comunque la propria firma. Franco di quella storia non potrà più parlare, essendo scomparso a maggio dello scorso anno. I suoi colleghi, però, a cominciare dal presidente di quel collegio, Antonio Esposito, potrebbero sciogliere il riserbo, parlando non con un quotidiano ma con i magistrati romani. E aiutando così a sciogliere anche il giallo di quelle registrazioni, e della stessa sentenza di condanna a 4 anni per Berlusconi.
Bugie e illegalità, tutte le omissioni del giudice Esposito. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 25 Luglio 2020. Quella camera di consiglio della Cassazione che nel 2013 condannò Silvio Berlusconi e cambiò la storia del Paese somiglia molto a quell’Orient Express su cui fu commesso un assassinio e i colpevoli erano un po’ tutti, ma tutti si salvarono. L’avrebbe raccontata magistralmente Agatha Christie. Ed Hercule Poirot non avrebbe atteso sette anni per risolvere il caso. Salvo poi rinunciarvi. Come sta accadendo. Ma dopo la scoperta del Riformista di una documentazione che dimostra l’illegittimità di tutta la procedura che portò alla sentenza, e la scoperta di Repubblica di illeciti disciplinari e probabili reati che quel giorno i giudici omisero di denunciare, il quadro di totale illegalità di quel che accadde quel giorno è ormai chiarissimo. E oltre al Tribunale dei diritti dell’uomo dove è ormai consistente e arricchito di giorno in giorno il fascicolo inviato dai difensori di Berlusconi Franco Coppi e Niccolò Ghedini, chissà se la Procura di Roma o l’impegnatissimo Csm avranno voglia di metterci il naso. Prima di tutto qualche organo istituzionale dovrebbe investigare sulla questione delle date. Si era sempre detto che c’era urgenza di concludere quel processo, tanto che, cosa mai vista in Italia, nell’arco di un anno furono celebrati primo, secondo e terzo grado di giudizio. La Cassazione avrebbe dovuto emettere una sentenza tombale di condanna, una vera “porcata” costruita da un «plotone d’esecuzione». Così l’ha definita il giudice Amedeo Franco, che in quel processo fu relatore. Doveva essere tombale e doveva essere emessa in fretta perché si temeva la prescrizione. Oggi si scopre che, quando Berlusconi e i suoi difensori vengono avvertiti della fissazione dell’udienza, il 10 luglio, la Cancelleria penale centrale della Cassazione sa già che non c’è nessuna urgenza, perché i reati non scadono prima del 14 settembre, cioè due mesi dopo. La Cassazione è stata informata della data dalla Corte d’appello di Milano, ma si fa finta di niente. Tanto che si rubano anche dieci giorni dei trenta normalmente consentiti alla difesa per la preparazione della causa. Le date sono fondamentali, perché se fossero state osservate le regole, sarebbe stata un’altra sezione della Cassazione a giudicare Berlusconi, magari una sezione specializzata in reati tributari e magari non un «plotone d’esecuzione». Sempre secondo le parole del giudice Franco. Chi sono i “colpevoli” (o falsi innocenti che l’hanno fatta franca) di questo primo ordine di illeciti? Un cancelliere? Ma per favore. Si potrebbe già cominciare a fare un bell’elenco di togati. Si potrebbe persino evocare quel principio che a noi fa venire i brividi, quello del “non poteva non sapere”. Prendiamo il giudice Esposito, che della feriale fu il presidente: poteva non sapere? È credibile che nessuno lo avesse informato di una comunicazione importante pervenuta addirittura con la firma del presidente della seconda sezione della Corte d’appello di Milano? Certo, poteva non sapere. Ma poteva anche sapere. Ed è stato legittimo, secondo lui, che alla difesa di un imputato siano stati sottratti dieci giorni di tempo per la preparazione della causa usando un argomento falso, cioè l’urgenza per la temuta prescrizione? Ma, proprio come sul famoso Orient Express di Agatha Christie, i “colpevoli” furono tanti, e tante furono le anomalie in quella camera di consiglio. Perché, secondo il quotidiano Repubblica, accadde anche un altro fatto piuttosto grave, quel giorno. Pare che Amedeo Franco a un certo punto si sia messo a registrare la discussione, cosa vietatissima ai magistrati in camera di consiglio. Pare anche che sia stato scoperto, che poi sia scappato in bagno e che poi un altro giudice si sia precipitato alla toilette ed abbia sequestrato il cellulare che aveva indebitamente registrato le voci dei cinque giudici. Scene da film comico, altro che Agatha Crhistie! A questo punto chi sta leggendo penserà che i bravi giudici ligi alla legge abbiano immediatamente bloccato la seduta e investito del grave fatto il procuratore generale della Cassazione o il ministro guardasigilli, titolari dell’azione disciplinare nei confronti dei magistrati. Eventualmente anche la procura della Repubblica per le ipotesi di reato. Gli illeciti disciplinari del giudice Franco c’erano tutti, per la violazione del dovere di riservatezza nei confronti dei colleghi e della stessa camera di consiglio, la cui attività non può essere divulgata. Il che avrebbe potuto anche configurare un reato, qualora il giudice Franco avesse reso pubbliche le sue registrazioni. Nulla di tutto ciò accadde. C’era urgenza di commettere l’”assassinio dell’Orient Express” lì e quel giorno e con quei protagonisti. Perché è evidente che il lavoro della sezione feriale sarebbe stato interrotto e in seguito trasmesso ad altri giudici, se qualcuno avesse fatto il proprio dovere. La Repubblica ha anche intervistato tre dei cinque giudici presenti sul luogo del “delitto” quel giorno. Si sono avvalsi della facoltà di non rispondere. Ma non hanno negato l’episodio. Ci sono però due testimoni, pur se indiretti e che vengono chiamati, in stile giudiziario, Toga 1 e Toga 2, i quali confermano. Il fatto c’è stato. E a questo punto ci appelliamo a lei, presidente Esposito, che è uomo di vasta cultura giuridica: non le pare di aver mancato, quel giorno, lei e i suoi colleghi, di un dovere d’ufficio, quanto meno sul piano disciplinare? Certo, c’era l’urgenza. Ma c’era poi l’urgenza, visto che i termini della prescrizione sarebbero scattati un mese e mezzo dopo? Noi dobbiamo supporre che lei e i suoi colleghi non lo sapeste. Ma la domanda è: a un Craxi o a un Berlusconi sarebbe stato consentito, in un processo, difendersi dicendo che non sapevano? Noi vi crediamo innocenti. Non siamo Davighiani. Per noi del Riformista gli innocenti non sono colpevoli non ancora beccati. E in fondo anche sull’Orient Express alla fine è andata un po’ così: tutti colpevoli, ma tutti salvi.
Sentenza Berlusconi: la versione di Esposito, il giudice che condannò il Cavaliere. Redazione su Il Riformista il 28 Luglio 2020. Leggo gli articoli, a firma del direttore, pubblicati, su codesto giornale il 24 luglio, “LA PORCATA DELLA CASSAZIONE; LE BALLE DI TRAVAGLIO”; “BERLUSCONI-ESPOSITO: QUELL’UDIENZA FU ILLEGALE”. Si sostiene negli articoli che “esiste una comunicazione della Corte di Appello, datata 5 luglio 2013, che avverte la Cassazione che la prescrizione sarebbe scattata non prima del 14 settembre ….. dunque la convocazione per il 31 luglio fu illegale e l’udienza non spettava alla sezione di Esposito”. Ora, per dare una corretta informazione, è necessario che i documenti si leggano per intero e nel loro effettivo contenuto e se essi sono superati da altri documenti successivi, se ne deve necessariamente dar conto. Rettifico l’incompleta, distorta, fuorviante notizia da ritenersi diffamatoria:
a) Il fascicolo in questione mi venne consegnato alle h. 12 del 9 luglio 2013 negli uffici della 1^ sezione penale (che fungeva quell’anno da sezione feriale), proveniente dalla III sezione cui il processo era stato assegnato, con l’indicazione, da parte del magistrato delegato all’ufficio esame preliminare dei ricorsi di tale sezione: “URGENTISSIMO” “prescrizione 1/8/2013”;
b) Per chi non ne avesse conoscenza, l’ufficio esame preliminare dei ricorsi – esistente presso tutte le sezioni – ha il compito, tra l’altro, di individuare e segnare sulla copertina del fascicolo – ove esiste un’apposita voce – la data della prescrizione affinché il Presidente della sezione, cui il fascicolo viene trasmesso, possa individuare e fissare l’udienza utile ad evitare il verificarsi della prescrizione;
c) Questo è avvenuto, nel caso di specie, ove – tenuto conto che il fascicolo mi era stato consegnato il 9/7 e la prescrizione era stata individuata dall’ufficio competente per il 1°/8, non esisteva altra scelta che fissare il processo per l’udienza del 30/7 (udienza e collegio già predisposti con decreto del Primo Presidente della Corte del 22 maggio 2013). Nel fissare la data dell’udienza nominai, ed era una mia scelta discrezionale, relatore il cons. Amedeo Franco;
d) La nota datata 5/7/2013 (di cui si fa cenno nell’articolo e che indica, in rettifica, come data della prescrizione della 1^ annualità il 14/9/2013), venne inviata via fax dalla Corte di Appello di Milano “alla cancelleria centrale penale della Corte di Cassazione” ove fu protocollata al n° 650 di quel giorno: 5/7/2013, h. 12.45. Detta nota – ed è questo il “piccolo” particolare che è “forse” sfuggito di ricordare – venne erroneamente girata e trasmessa dalla cancelleria centrale alla VI sezione della Corte – (come si evince dalla stampigliatura sulla nota citata: “Corte Suprema di Cassazione VI sezione penale”) – sezione che non c’entrava nulla, tant’è che essa restituì la nota alla Corte di Appello, via fax in pari data (5/7), con la seguente dicitura: “non avendo questa sezione procedimenti pendenti (v. visualizzazione) non si capisce a quale procedimento ci si riferisce”.
e) Pertanto, alla data del 5/7/2013, né la III sezione né la sezione feriale erano a conoscenza di tale nota e non erano neanche in possesso del fascicolo processuale, essendo questo pervenuto, nella cancelleria della III sezione, la mattina del 9 luglio e, poi, trasmesso alle h. 12 di quel giorno alla sezione feriale.
f) Dimentica l’articolista di ricordare l’altro “piccolo” particolare e, cioè, che la nota del 5/7 fu superata da altra nota della Corte di Appello di Milano datata 8/7/2013. Con tale nota – preso atto che “la rettifica della prescrizione era stata già trasmessa a mezzo fax ed era stato restituito in pari data, stesso mezzo, assumendovi che non vi fossero procedimenti pendenti presso la sezione VI penale e, quindi, non si capisce a quale procedimento facesse riferimento” – la Corte di Appello di Milano inviava nuovamente il prospetto del calcolo della prescrizione. Tale ulteriore nota venne inviata “al Presidente della sezione III penale” e alla “sezione I penale” e pervenne alla III sezione penale, via fax, alle h. 9.34 dell’11/7/2013 e alla sezione I penale alle h. 9.35 dell’11/7/2013. Sulla nota così ricevuta, oltre l’indicazione del giorno e dell’ora del fax, vi è il timbro della I sezione penale dell’11 luglio 2013 “pervenuto in cancelleria per fax” nonché pervenuto “alla sez. feriale 11/7/2013”.
g) Pertanto, la nota della Corte di Appello pervenne alla sezione feriale dopo che il processo era stato già fissato il 9 luglio sicché “nessuna gravissima irregolarità” ci fu come, invece, si afferma nell’articolo; così come è del tutto infondata l’affermazione che l’udienza “si sarebbe potuta svolgere a settembre ed essere affidata alla sezione specializzata”.
h) La prescrizione alla data del 14 settembre 2013 non avrebbe mai potuto determinare l’assegnazione della causa alla sezione ordinaria giacché i processi in cui la prescrizione maturi nel periodo feriale (all’epoca: 1° agosto – 15 settembre) vanno, automaticamente alla sezione feriale (ove vanno addirittura “i procedimenti la cui prescrizione maturi nei successivi 45 giorni previa ordinanza con la quale è stata dichiarata l’urgenza del processo”: punto 5, lett. a) n° 2 decreto Presidente Corte di Cassazione del 22/5/2013, il che significa che debbono essere trattati in sezione feriale – entro la data del 14 settembre che era l’ultima udienza che tiene tale sezione – anche i processi in cui la prescrizione venga a maturare entro il 30 ottobre.
i) Nessuna istanza di rinvio fu avanzata dai difensori degli imdputati e, ove essa fosse stata presentata e ove fosse stata accolta, il processo sarebbe stato celebrato pur sempre entro il 14/9 e pur sempre in sezione feriale.
j) Atteso il carattere diffamatorio dei titoli e del contenuto degli articoli, sarà sporta formale querela all’A.G..
k) Tanto premesso, La invito a pubblicare la presente rettifica, con lo stesso rilievo, come previsto dalla legge sulla stampa, degli articoli in questione che risultano pubblicati in prima pagina e a piena pagina 6. Antonio Esposito
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Carissimo dottor Esposito, io la capisco benissimo: lei è finito al centro delle vicenda politico-giudiziaria forse più grande del trentennio, e ora si sente messo un po’ in mezzo. Persino dalle testimonianze postume di un suo collega il quale sosteneva che quella sezione feriale della Cassazione presieduta da lei, e che condannò Berlusconi con una sentenza considerata discutibile da molti giuristi, fosse in realtà un plotone di esecuzione. Non ha torto, nel ribellarsi: io stesso non credo affatto che le colpe di quella incredibile vicenda siano tutte sue. Però, dottor Esposito, le date sono date. È inutile che lei continui a sostenere che la comunicazione della Corte d’Appello di Milano che fissava la giusta data della prescrizione arrivò solo l’11 luglio. La comunicazione arrivò il 9 luglio alle 15 e 15. Ci sono i fax a provarlo, non si scappa. Lei chiede: ma cosa ci fu di irregolare? Niente, risponde. Io invece le faccio notare, senza nessuna polemica e assai pacatamente, che una irregolarità piuttosto grave ci fu: la difesa aveva diritto a 30 giorni di tempo per prepararsi, e gliene furono concessi solo 20 sostenendo che altrimenti sarebbe scattata la prescrizione. La prescrizione, dottor Esposito, non sarebbe scattata. lei me lo conferma in modo chiaro in questa sua lettera, e la ringrazio per la conferma. Quindi lei mi conferma che l’irregolarità ci fu. E che se non ci fosse stata non sarebbe toccato a lei giudicare Berlusconi ma ad altri giudici. Giusto? E mi conferma che quella decisione spostò il corso della politica italiana. Poi osserva: la difesa non chiese il rinvio. Già, dottore, ma la difesa non conosceva quella comunicazione della Corte d’Appello che spostava la prescrizione. Capisce che – almeno per noi giornalisti che abbiamo il compito di informare l’opinione pubblica – tutto questo non è una cosa da poco. Immagino che ne converrà. E immagino che converrà che non c’era nulla di diffamatorio nel ricordare queste date che purtroppo l’opinione pubblica non conosceva (conosceva le date sbagliate fornite dal Fatto Quotidiano). Lei dice che mi querelerà e che chiederà per me una pena detentiva. Lo hanno già fatto molti altri magistrati famosi : da Scarpinato, a Lo Forte, a Davigo, altri hanno chiesto invece solo risarcimento in soldi (da Gratteri a Di Matteo a De Magistris). Spesso i suoi ex colleghi fanno così. Usano l’arma della querela per intimidire i giornalisti. Pensano che il diritto di critica e di informazione dei giornalisti si fermi sulla soglia della Casta della magistratura. A noi giornalisti resta il compito di far finta di niente e tirare dritto per la nostra strada. Piero Sansonetti
Esposito “Non sapeva della nuova prescrizione”. Sansonetti: “L’hanno imbrogliata, denunci!” Redazione su Il Riformista il 31 Luglio 2020. Dal dottor Antonio Esposito, che alla fine di luglio del 2013 presiedette la sezione feriale della Corte di Cassazione che condannò Silvio Berlusconi a quattro anni di detenzione (sentenza sulla quale noi abbiamo molto polemizzato nei giorni scorsi) riceviamo una nuova lettera di rettifica che volentieri pubblichiamo (con una breve risposta).
Al Direttore de “Il Riformista”
Dott. Piero SANSONETTI.
Oggetto: rettifica titolo di prima pagina «Processo Berlusconi Il Giudice ESPOSITO ci scrive: “Ho saputo tardi del rinvio della prescrizione” però non è vero», e del commento a pag. 12: «No, arrivò in tempo», pubblicati su “Il Riformista” il 28 luglio 2020. Con la rettifica, che lei ha correttamente pubblicato in forma integrale, ritenevo di aver definitivamente “smontato la bufala” – perché di questo si tratta – pubblicata sul suo giornale secondo cui, alla data del 9.7.2013 io sarei stato a conoscenza della nota del 5.7.2013 di ricalcolo della prescrizione da parte della Corte di Appello di Milano ed avrei, nonostante ciò, egualmente fissato il processo per l’udienza del 30 luglio, privando così la difesa del termine di ulteriori giorni dieci. Per dare al pubblico la “bufala” si è omesso di dare il “piccolo” particolare che quella nota era finita erroneamente alla sesta sezione penale e da questa restituita alla Corte di Appello “perché non si capiva a quale procedimento facesse riferimento”. Pertanto non era assolutamente vero che io fossi venuto a conoscenza di tale nota come, in maniera non conforme al vero ed insinuante, si afferma nell’articolo, ove, quindi, non ci si è limitati, come lei vuol far credere, “a ricordare questa data”. Ma mi accorgo che la mia smentita è servita a poco, perché nel suo commento lei – come ha fatto nella trasmissione “Quarta Repubblica” del 27.7.2020 – ripiega sull’ulteriore nota della Corte di Appello di Milano dell’8.7.2013, (da me ricordata nella rettifica), per affermare che quella nota era pervenuta alle ore 15.15 del 9 luglio 2013 e l’ha mostrata fugacemente, per alcuni secondi, in trasmissione. Da qui, quindi, la persistente insinuazione che io, al momento della fissazione del processo, ero, comunque, a conoscenza della nota della Corte di Appello. Nulla di più inveritiero per due ordini di motivi:
il primo motivo è che quell’atto (per quello che si è potuto vedere nei pochi secondi in cui è stato mandato in onda e che sembrerebbe riportare una attestazione, a mano, indicante, cosa abbastanza insolita, anche l’orario, ore 15.15 ) appare in netto contrasto, per termini e modalità di ricezione, con la nota dell’8.7.2013 come ufficialmente protocollata in arrivo alla Prima Sezione Penale (che fungeva da sezione feriale) con timbratura-datario dell’ufficio che, nella stampigliatura e riquadro, (in alto a sinistra), così attesta: “CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE – SEZIONE PRIMA PENALE – 11 LUGLIO 2013 – PERVENUTO IN CANCELLERIA PER FAX”. Ed ancora, in basso a destra, il funzionario giudiziario R.C. attesta “Pervenuto alla sezione Feriale l’11.7.2013”. E questo è il solo, unico, atto portatomi a conoscenza dalla cancelleria.
Il secondo motivo è che chi le ha “passato” questo atto – dal quale risulterebbe essere la nota arrivata alla sezione feriale alle ore 15.15 del 9.7, con una scritta a mano di ricezione – si è dimenticato un altro “piccolo” particolare, che a quell’ora, le operazioni di notifica, a mezzo fax, degli avvisi ai difensori dell’udienza del 30.7.2013 – iniziate dopo che il fascicolo, alle ore 12 del 9.7.2018, mi era stato consegnato dalla Terza Sezione Penale con l’indicazione “URGENTISSIMO prescrizione 1’ agosto 2013” – erano state ultimate, come risulta dalle attestazioni degli orari sui fax. Ogni ulteriore commento sarebbe superfluo! Per quel che riguarda le date della prescrizione – su cui si ritiene di aver costruito uno “scoop” e si assume che la difesa nulla sapeva – sarebbe bastato leggere le decine di articoli di tutta la stampa nazionale del periodo 10 luglio-30 luglio 2013 , per capire che quella questione era stata ampiamente affrontata dalla difesa del Berlusconi. L’avvocato Ghedini riteneva che la prescrizione maturasse il 26.9 (così la “Repubblica” 28.7.2013; ed “Corriere della Sera” 29.7.2013, che faceva, anche, una sua stima della prescrizione alla data del 13.9) . L’avvocato Coppi, in una intervista a Repubblica del 10.7.2013, riteneva che “la prescrizione intermedia matura il 13 settembre” e “ribadiva sempre che il processo poteva essere fissato fino al 13 settembre”. E su questo punto – come riportato, di continuo, da tutti i giornali del tempo – i difensori studiarono una proposta di possibile richiesta di rinvio che mi fu esplicitata dall’avvocato Coppi che mi chiese un colloquio, avvenuto nel mio ufficio in un periodo, a quanto posso ricordare, tra il 25 ed il 29 luglio, nel corso del quale gli dissi : “Se viene presentata una istanza di rinvio e se il collegio dovesse accoglierla, il processo sarà pur sempre celebrato in Sezione Feriale entro il 14.9”; e ciò per la semplice ragione che tutti i processi in cui la prescrizione maturi non solo nel periodo feriale (all’epoca, 1’ agosto/15 settembre) ma anche nei 45 giorni successivi (cioè entro il 30 ottobre) dovevano essere trattati in Sezione Feriale, giusto decreto Primo Presidente della Corte di Cassazione del 22 maggio 2013, punto 5, lettera a), n.2 .
Nessuna istanza di rinvio venne presentata, come, peraltro, anticipato da “La Repubblica” del 30.7.2013: “MEDIASET, IL GIORNO DEL GIUDIZIO. BERLUSCONI: NON CHIEDERO’ RINVII”; e nell’occhiello : “la decisione ieri sera dopo che si era chiusa l’ipotesi di una riassegnazione alla terza Sezione”. Un ultima notazione: la mia rettifica non era affatto né “dura” nè “intimidatoria”, come lei afferma poichè, con essa, con riferimento a dati fattuali documentati, si contestava civilmente che “ “”nessuna gravissima irregolarità”” ci fu come, invece, si afferma nell’articolo; così come è del tutto infondata l’affermazione che l’udienza “” si sarebbe potuta svolgere a settembre ed essere affidata alla Sezione Specializzata “. Si è trattato, quindi, di un normale esercizio del diritto di rettifica previsto dalla legge. Così come l’annuncio di una querela non è diretto ad intimidire la libertà di stampa ma è legittimo esercizio del diritto costituzionalmente riconosciuto per la tutela dei diritti all’onore e alla reputazione che si ritengano lesi da una pubblicazione che non rispetti, come nella specie, veridicità e continenza (basti pensare all’espressione, in prima pagina, a caratteri cubitali “BERLUSCONI, LA PORCATA DELLA CASSAZIONE”). La invito pertanto a pubblicare la presente rettifica che riguarda non solo quanto pubblicato sul quotidiano del 28 luglio ma anche quanto da lei affermato, in proposito, nella trasmissione “Quarta Repubblica” trasmessa su Rete Quattro il 27 luglio 2020
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Carissimo dottor Esposito, Lei non sa con quanto piacere io pubblico le sue rettifiche. Sta diventando una graditissima abitudine. Spero solo che non se ne abbia a male il mio amico Travaglio, visto che ormai lei collabora più spesso con il Riformista che con Il Fatto, come faceva fino a qualche tempo fa…Mi pare di aver capito che lei vuole vedere la “carta” alla quale mi sono riferito l’ultima volta che abbiamo scambiato le nostre opinioni – reciprocamente polemiche – su queste colonne. Eccola qui: è un fax, glielo pubblico grande e chiaro (anche se, per scelta del nostro grafico, un po’ obliquo) e lei può constatare che in questo documento, firmato e controfirmato, timbrato e controtimbrato, si sostiene che la sezione feriale della Cassazione fu avvertita alle ore 15 e 25 del 9 luglio che non c’era nessuna fretta di processare Berlusconi perché la prescrizione (anzi: la parziale prescrizione) sarebbe scattata, tuttalpiù, il 14 settembre e forse anche più tardi. Qual è il problema che io pongo, non essendo come lei ed altri partecipanti a questa discussione esperto di diritto? E’ questo: a me risulta che la difesa ha diritto a 30 giorni di tempo dal momento in cui viene convocata l’udienza della Corte, per prepararsi alla discussione. Conferma? A memo che non ci sia un’urgenza, e l’urgenza potrebbe essere, appunto, la scadenza della prescrizione. Questa è la ragione – immagino – per la quale lei, essendo stato informato in un primo tempo che la prescrizione scattava il 1 agosto, ridusse di 10 giorni i termini della difesa. Ma quando si scoprì che la prescrizione scattava non prima del 14 settembre sarebbe stato doveroso restituire alla difesa il diritto ai 30 giorni e rinviare l’udienza, anche se in quel caso sarebbe toccata, forse, sempre a una sezione feriale, ma non più a quella presieduta da lei. Giusto? Beh, dalla sua lettera mi pare di capire che il motivo per il quale lei non ha rinviato l’udienza è semplicissimo: nessuno l’aveva informato dei nuovi termini della prescrizione. Lo ha scritto in neretto anche nella sua lettera: «E’ questo il solo, unico, atto portato a conoscenza dalla cancelleria». Si figuri se io dubito delle sue dichiarazioni. Però ne deduco che qualcuno le nascose quei fax nei quali la si informava della nuova prescrizione. E questo, ne converrà, è una cosa gravissima. Diciamo pure una “porcata”, realizzata ai danni suoi e dell’imputato (Berlusconi). Mi dia retta, dottore, si unisca alla mia battaglia per capire cosa successe in quei giorni di luglio e chi tramò – da quel che capisco – anche contro di lei.
Quel fax "sparito". A giudicare Berlusconi doveva essere Franco. Milano scrisse alla Cassazione per correggere i tempi di prescrizione. Il processo sarebbe spettato a un'altra sezione. Luca Fazzo, Sabato 01/08/2020 su Il Giornale. È un vero peccato che il giudice Antonio Esposito, quel giorno di luglio di sette anni fa, non abbia fatto in tempo a vedere quel fax che veniva dalla Corte d'appello di Milano. Perché se Esposito avesse fatto in tempo a leggere il fax, la storia del processo a Silvio Berlusconi per la storia dei diritti tv sarebbe stata diversa, almeno nella sua puntata finale. A processare il Cavaliere in Cassazione non sarebbe stato Esposito. A celebrare l'udienza e a decidere sul ricorso di Berlusconi contro la condanna per frode fiscale sarebbe stata una sezione della Cassazione presieduta da Amedeo Franco: un giudice che considerava Berlusconi innocente. E che dopo avere partecipato alla sua condanna confidò ad amici e allo stesso Berlusconi di essersi sentito parte di un «plotone di esecuzione» guidato dall'alto. Come sarebbe andato a finire, il processo per i diritti tv, se a presiedere il collegio della Cassazione al posto di Esposito ci fosse stato, come doveva essere, Franco? Che quel fascicolo dovesse approdare ad Amedeo Franco lo racconta un documento inequivocabile: la programmazione dei turni della sezione Feriale per il 2013, stilata dal primo presidente Giorgio Santacroce. Ma per capirne l'importanza bisogna ritornare a quel fax che purtroppo Esposito (e bisogna credergli) in una lunga lettera al Riformista giura di non avere letto in tempo. Siamo al 9 luglio 2013, Esposito ha ricevuto l'incarico di celebrare il processo il 30 luglio sulla base delle carte arrivate da Milano che indicavano come data di prescrizione l'1 agosto. Quindi il processo viene fissato d'urgenza, e - come è ammesso solo nei casi eccezionali - vengono accorciati i termini concessi ai difensori. Però il 5 luglio la Corte d'appello di Milano corregge i suoi calcoli, e scopre che la prescrizione scatta solo il 14 settembre, e ne avvisa con fax urgente la Cassazione. Quindi non c'è più motivo di ridurre i termini concessi ai difensori. E a quel punto la prima data utile per conciliare diritti alla difesa e scanso della prescrizione è l'udienza della sezione Feriale fissata per il 9 agosto. Era quella, la data naturale per il processo a Berlusconi. Ma in quel caso da chi sarebbe stato composto il collegio? Ecco l'importanza della tabella. Nella sezione del 9 agosto non è previsto Esposito, e nemmeno ci sono D'Isa, Aprile e De Marzo, i tre giudici che condivideranno con Esposito la condanna di Berlusconi. A presiedere il collegio con i colleghi Taddei, Mazzei, Paternò e Lignola, è previsto Amedeo Franco. E basta conoscere le sentenze precedenti e successive di Franco in materia fiscale per capire come sarebbe andata a finire. Ma il fax partito da Milano si perde per quattro giorni in Cassazione, e arriva alla Feriale solo il 9, nel pomeriggio. Se Esposito lo avesse visto per tempo si sarebbe trovato di fronte a un bel dilemma. Prendere atto della novità, concedere ai difensori i termini di legge, lasciare che a celebrare il processo fosse il collega Amedeo Franco e che il Cavaliere andasse incontro a una assoluzione quasi certa? O fare finta di niente, tenersi il processo e condannare l'ex capo del governo? La risposta è ovvia: Esposito avrebbe fatto il suo dovere, si sarebbe spogliato del fascicolo e lasciato che la giustizia facesse il suo corso. Ma il problema non si pone. Antonio Esposito dice che quel fax a lui non dice niente, e che comunque alle 15.25 ormai i giochi erano fatti, perché l'udienza del 30 luglio era ormai fissata. Qualcuno forse un giorno spiegherà perché il fax «urgente» della Corte d'appello di Milano alla cancelleria centrale della Cassazione il 5 luglio arrivi invece alla sesta sezione, e da lì rispunti solo quando è troppo tardi.
Carlo Nordio, condanna Berlusconi e il fax sparito: "Falso per occultamento? Primo passo per riaprire il processo". Libero Quotidiano il 2 agosto 2020. Un fax, misteriosamente sparito, che avrebbe potuto cambiare i destini di Silvio Berlusconi nel processo Mediaset, quello in cui fu condannato da Antonio Esposito per frode fiscale. Un fax che stabiliva che i tempi della prescrizione erano più lunghi rispetto a quelli calcolati dai pm. Una vicenda torbida, di cui vi abbiamo dato conto in questo articolo, che aggiunge ulteriori sospetti su quella condanna. E sulla vicenda del fax, intervistato dal Giornale, Carlo Nordio afferma: "È curioso che su quella storia continuino ad affiorare dettagli inediti e meritevoli di approfondimento. Ora scopriamo che, se Esposito avesse visto in tempo quel fax, avrebbe ceduto le carte di qual dibattimento ad un altro collegio della sezione feriale, guidato da Amedeo Franco". Lo stesso Amedeo Franco scomparso un anno fa e le cui registrazioni hanno fatto tornare d'attualità la condanna a Berlusconi. Carlo Nordio dunque aggiunge: "Può darsi che si sia trattato di un errore, di una dimenticanza, di un disguido, ma anche no". E ancora, l'ex magistrato aggiunge: "Capisco tutte le suggestioni e possiamo pure immaginare che una corte diversa avrebbe assolto Berlusconi, ma il passo da fare adesso è un altro". Ossia? "Indagare per capire se qualcuno nascose deliberatamente quel fax che cambiava i tempi della prescrizione e di conseguenza il ritmo di quel fascicolo. Dobbiamo capire insomma se qualcuno - un giudice, un cancelliere o chiunque altro - impedì a Esposito di leggere quel documento importantissimo in quei giorni cruciali dell'estate 2013". Secondo Nordio, "potrebbe esserci stato un falso per occultamento, insomma, un comportamento doloso, un reato commesso all'insaputa di Esposito per mandare avanti quel collegio". E ancora, Nordio aggiunge che "questa circostanza non può rimanere come un mistero che aleggia su una sentenza così delicata e controversa. Fra l'altro, la scoperta di un eventuale falso potrebbe essere un primo passo, e sottolineo solo un primo passo, almeno in teoria, per avviare la revisione di quel verdetto". Quando gli chiedono se, essendo Amedeo Franco morto, il caso sia chiuso, Nordio risponde: "No, per dirla con i francesci, siamo davanti al morto che afferra il vivo. Esiste una registrazione credibile con la sua voce, ci sono altre testimonianze indirete del suo disagio, anzi della sua angoscia" e dunquer "qualcuno dovrebbe accertare perché Franco si comportò in quel modo", conclude l'ex magistrato.
Silvio Berlusconi, Mediaset: i due articoli in base ai quali la Corte europea può riaprire il processo. Libero Quotidiano il 06 agosto 2020. Ancora lontana la riconsiderazione del caso Mediaset che ha visto Silvio Berlusconi condannato per frode fiscale. "Non è possibile fino a questo momento comunicare quando la Corte esaminerà il ricorso in oggetto", ha tenuto a precisare la Corte europea dei diritti dell'uomo riguardo la pratica 8683/14, "Silvio Berlusconi vs.Italy". Il leader di Forza Italia, secondo il magistrato Amedeo Franco, sarebbe stato punito ingiustamente, per una volontà che veniva dall'alto. Tra le armi dei legali del Cav, elenca Il Giornale, l'articolo 6 della convenzione europea, quello che garantisce il diritto a un equo processo, sotto l'aspetto della mancata imparzialità del giudice. Numerose infatti le testimonianze in grado di provare il pregiudizio colpevolista di Antonio Esposito, il presidente della sezione feriale della Cassazione che pronunciò il verdetto. Non solo, perché ad aggiungersi a questo la mancanza del rispetto dell'articolo 7, quello che garantisce a tutti un giudice "stabilito per legge". Secondo questo principio a giudicare Berlusconi sarebbe dovuto essere niente di meno di Franco, il giudice che denunciò al diretto interessato il "plotone d'esecuzione" contro di lui. Ma così non andò. Gli errori furono due, come riporta il quotidiano di Sallusti. Il primo, quello commesso dalla Corte d'Appello di Milano che in un primo momento aveva indicato nell'1 agosto la prescrizione dei reati, anziché nel 14 settembre; il secondo, di autore ignoto, che fece disperdere per quattro giorni nei meandri della Cassazione il fax della Corte d'Appello milanese che correggeva l'errore. Tutti motivi che fanno pensare a una riapertura del caso, magari questa volta rispettando le regole.
Ecco perché la Corte europea può riaprire il caso Berlusconi. Gli ultimi sviluppi hanno ampliato i dubbi sulla sentenza. Dall’equo processo al giudice, tutto quello che non torna. Luca Fazzo, Mercoledì 05/08/2020 su Il Giornale. Non è possibile fino a questo momento comunicare quando la Corte esaminerà il ricorso in oggetto». Giuseppe Conte e Alfonso Bonafede possono stare calmi: perché alle 16 di ieri la Corte europea dei diritti dell’uomo fa sapere che la pratica 8683/14, «Silvio Berlusconi vs.Italy», nonostante i sei anni trascorsi, non è ancora pronta ad essere affrontata. Ma prima o poi i giudici di Strasburgo dovranno decidersi ad esaminare il ricorso del Cavaliere. E a quel punto il capo del governo e il suo ministro della Giustizia, ammesso che per allora siano ancora in carica, dovranno uscire dal silenzio in cui in questi giorni si sono chiusi davanti alle novità sconcertanti emerse sulla sentenza della Cassazione che nell’agosto 2013 rese definitiva la condanna di Berlusconi per frode fiscale. Proprio quella sentenza è al centro del ricorso del leader di Forza Italia alla Corte europea. E davanti alla Corte il nostro governo per legge deve prendere posizione. Cosa faranno, Conte e Bonafede? Faranno finta di niente, e chiederanno la bocciatura del ricorso? O prenderanno atto che le ultime scoperte gettano un’ombra inquietante sulla correttezza di quella decisione? Gli sviluppi più recenti hanno ampliato in modo consistente gli elementi di dubbio che le difese del Cav potranno sottoporre a Strasburgo. Finora il piatto forte era la violazione dell’articolo 6 della convenzione europea, quello che garantisce il diritto a un equo processo, sotto l’aspetto della mancata imparzialità del giudice: e qui lo staff legale di Berlusconi puntava sulle numerose attestazioni del pregiudizio colpevolista di Antonio Esposito, il presidente della sezione feriale della Cassazione che pronunciò il verdetto, rafforzate da ultimo dalle rivelazioni da parte di Renato Franco, il membro dissidente della sezione, che parlava di un «plotone di esecuzione». Ma ora si sono aggiunte le tracce della violazione di un altro principio cardine della convenzione, che sempre all’articolo 7 stabilisce che il giudice deve essere «stabilito per legge». Esattamente il contrario di quanto accaduto a Berlusconi: il giudice stabilito per legge, in base ai turni della sezione feriale, doveva essere il collegio presieduto da Renato Franco. E solo due errori provvidenziali permisero che il fascicolo arrivasse all’udienza di Esposito. Il primo, quello commesso dalla Corte d’Appello di Milano che in un primo momento aveva indicato nell’1 agosto la prescrizione dei reati, anziché nel 14 settembre; il secondo, di autore ignoto, che fece disperdere per quattro giorni nei meandri della Cassazione il fax della Corte d’Appello milanese che correggeva l’errore. Quando il dispaccio arrivò a destinazione, ormai era tardi. Sarà interessante, quando Strasburgo finalmente aprirà il caso e inviterà l’Italia a dire la sua, vedere se e come il governo riuscirà a sostenere che Berlusconi non è stato sottratto al suo giudice naturale. Sarebbe un atto di coraggio e di trasparenza, da parte del governo, ammettere che qualcosa nell’estate 2013 in Cassazione non andò secondo le regole. A quel punto, la condanna dell’Italia per violazione dell’articolo 6 della Convenzione potrebbe essere a portata di mano. E non sarebbe una condanna solo simbolica: sulla base del verdetto europeo Berlusconi potrebbe chiedere la revisione del processo che portò alla sua estromissione dal Senato e a una condanna a un ingente risarcimento.
Silvio Berlusconi, gli audio del giudice morto a disposizione della Corte europea per i diritti dell’uomo e già noti ai magistrati dal 2015. Fu lo stesso ricorrente a chiedere che Strasburgo non si pronunciasse. Ma il collegio avrebbe avuto comunque la facoltà di proseguire l'esame del ricorso se avesse individuato una lesione dei suoi diritti e nonostante fosse a conoscenza delle registrazioni eliminò la causa dalla lista. Il Fatto Quotidiano l'1 luglio 2020. Gli audio del giudice di Cassazione, Amadeo Franco, estensore delle motivazioni della sentenza di condanna per frode fiscale di Silvio Berlusconi, in cui racconta che quel verdetto per l’affaire dei diritti Mediaset gonfiati da lui approvato “faceva schifo”, sono a disposizione della Corte europea per i diritti dell’uomo dal maggio scorso. Secondo quanto riporta l’Ansa, che cita fonti legali, i giudici di Strasburgo già nel 2015 erano stati informati dell’esistenza di queste registrazioni captate all’insaputa dell’ermellino morto l’anno scorso. I nuovi atti, inviati oltre un un mese fa, fanno parte di una nuova memoria difensiva che ha integrato il ricorso che era stato presentato alla Corte circa sei anni fa. Ricorso, che nessuno sembra ricordare, era stato archiviato su richiesta dell’ex premier. Dal punto di vista tecnico i magistrati europei potrebbero comunicare al governo italiano l’esistenza del ricorso e chiedere eventuali valutazioni. La Corte potrebbe, quindi, fissare una udienza pubblica o incardinare la vicenda in un mero scambio di carte ma comunque giungere ad una decisione finale. “I giudici – ribadiscono i difensori – potrebbero non annullare la sentenza ma individuare eventuali lesioni al diritto di difesa o offrire elementi per un eventuale revisione del processo”. Il 27 luglio 2018 Silvio Berlusconi, proprio tramite il collegio difensivo, chiese di interrompere l’iter ritenendosi soddisfatto per aver ottenuto la riabilitazione che gli ha permesso di candidarsi ed essere eletto al Parlamento europeo. Quattro mesi dopo la Cedu aveva chiuso il caso informando che non c’erano “circostanze speciali relative al rispetto per i diritti umani che richiedano di continuare l’esame” e quindi il ricorso del leader di Forza Italia era stato cancellato dalla sua lista. Ebbene i magistrati di Strasburgo – che avevano deciso a maggioranza e non all’unanimità come spesso accade – avevano fatto riferimento all’articolo 37.1 della Convenzione che prevede che “in ogni momento della procedura, la Corte può decidere di cancellare un ricorso dal ruolo quando le circostanze permettono di concludere: che il ricorrente non intende più mantenerlo; oppure che la controversia è stata risolta; oppure che per ogni altro motivo di cui la Corte accerta l’esistenza, la prosecuzione dell’esame del ricorso non sia più giustificata. Tuttavia la Corte – si leggeva – prosegue l’esame del ricorso qualora il rispetto dei diritti dell’uomo garantiti dalla Convenzione e dai suoi Protocolli lo imponga”. Quindi avrebbero avuto la facoltà di proseguire comunque l’esame del ricorso e lo avevano comunque archiviato pur essendo stati informati dell’esistenza di queste registrazioni. Potevano continuare l’iter se avessero individuato – al di là del parere del ricorrente – la lesioni dei suoi diritti umani. Una mossa, a sorpresa, quella di Berlusconi che pur aveva trovato attenzione da parte del collegio della Grande Camera e davanti a oltre 500 persone tra giornalisti, studenti e avvocati. I magistrati per esempio avevano chiesto conto ai rappresentanti del governo italiano sulle “discrepanze” tra il caso di Berlusconi e quello di Augusto Minzolini, salvato da uno schieramento bipartisan dalla decadenza inflitta invece all’ex Cavaliere. Il giudice islandese Robert Spano, per esempio, aveva chiesto se le regole potevano spiegare “se in un particolare caso può essere esercitato un potere discrezionale” da parte del Senato. Il magistrato portoghese Paulo Pinto de Albuquerque, aveva chiesto ragione di un altro punto sottolineato dai legali di Berlusconi: “La scelta di procedere al Senato con uno scrutinio pubblico malgrado il regolamento preveda un voto segreto in tutti i casi”. Insomma la corte era interessata all’argomento. Gli avvocati del governo avevano ribadito che la Convenzione era stata rispettata. Il punto però è un altro. Berlusconi presentò il primo ricorso a Strasburgo poco dopo la sua decadenza (27 novembre 2013) e ha dovuto attendere cinque anni per poter essere ascoltato. E la rinuncia ad avere una sentenza dove per una volta non era lui l’imputato sembrò strana. Il collegio difensivo si disse però certo che quel verdetto sarebbe stato favorevole. “Il presidente Berlusconi a seguito di una ingiusta sentenza di condanna era stato privato, con indebita applicazione retroattiva dalla cosiddetta legge Severino, dei suoi diritti politici con conseguente decadenza dal Senato. Nell’aprile di quest’anno l’intervenuta riabilitazione ha anticipatamente cancellato gli effetti della predetta legge. Non vi era dunque più alcun interesse di ottenere una decisione che riteniamo sarebbe stata favorevole – la nota dell’epoca degli avvocati Franco Coppi, Niccolò Ghedini, Andrea Saccucci e Bruno Nascimbene -. La Corte EDU a distanza di quasi 5 anni dalla proposizione del ricorso, a quella data, non aveva ancora provveduto. Ovviamente così come riconosciuto quest’oggi dalla stessa Corte, non vi era più necessità di proseguire nel ricorso essendo ritornato il Presidente Berlusconi nella pienezza dei propri diritti politici. Non vi era dunque più alcun interesse dopo oltre 5 anni di ottenere una decisione che riteniamo sarebbe stata favorevole alle ragioni del Presidente Berlusconi ma che non avrebbe avuto alcun effetto concreto o utile, essendo addirittura già terminata la passata legislatura. Una condanna dell’Italia avrebbe altresì comportato ulteriori tensioni nella già più che complessa vita del paese, circostanza che il Presidente Berlusconi ha inteso assolutamente evitare”. La domanda quindi è questa. Perché se non c’era più interesse allora – quando gli audio erano già in possesso di Berlusconi e l’esistenza nota ai magistrati europei – dovrebbe esserci oggi? E perché se l’intento era di non creare tensioni questo intento – in un momento molto delicato con gli effetti devastanti sull’economia a causa della pandemia – non perdura?
Nastro Lindo. Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano del 1 Luglio 2020: Per misurare il peso (nullo) delle “nuove prove” che dovrebbero cancellare la condanna di Silvio B. a 4 anni per frode fiscale, basta la credibilità (nulla) delle fonti: il suo impiegato Nicola Porro sulla sua Rete4, il suo Giornale e il Riformista vicediretto dalla sua ex portavoce Debora Bergamini. Ma anche la statura dei politici che le han prese sul serio: FI, Salvini, FdI e l’Innominabile. Tutto in famiglia. Casomai ciò non bastasse, ci sono i fatti: una recente sentenza del Tribunale civile di Milano e l’audio di una conversazione del 2013, poco dopo la condanna irrevocabile, fra il giudice relatore Amedeo Franco e il neocondannato B. davanti a misteriosi testimoni. Ora, anche uno studente al primo giorno di Giurisprudenza sa che: a) una sentenza civile di primo grado non può smentirne una penale di Cassazione e in ogni caso (vedi pag. 8) questa riguarda profili diversi dalla frode fiscale Mediaset; b) i processi si celebrano nelle aule di giustizia, non a casa dell’imputato col registratore più o meno nascosto. Ma la scena del giudice che firma con gli altri quattro colleghi la condanna di B. e poi corre da lui per dire che non voleva, non era d’accordo, è tutta colpa del presidente e degli altri tre cattivoni la dice lunga sulla sua serietà, correttezza e attendibilità. Tantopiù che nei tre mesi successivi il relatore Franco partecipò alla stesura delle 208 pagine di motivazione, che alla fine – caso raro – tutti e 5 i giudici (lui compreso) firmarono in calce e addirittura siglarono pagina per pagina (207 volte a testa). Il che dimostra che anche lui era d’accordo sulla condanna o, se dissentiva, a non innescare polemiche politiche. Altrimenti avrebbe potuto legittimamente non firmare (di solito le sentenze le firma solo il presidente). E, se davvero fosse stato convinto che si stava consumando “una grave ingiustizia” da “plotone di esecuzione”, con una condanna “a priori” e “guidata dall’alto”, frutto di “pregiudizio” per “colpire gli avversari politici”, una “porcheria” del presidente Antonio Esposito “pressato” per i guai giudiziari del figlio, cioè una serie di reati gravissimi, come poi disse a B. nella conversazione registrata, si sarebbe cautelato con uno strumento previsto dalla legge per i giudici in minoranza nei collegi giudicanti: motivare il suo dissenso in una busta chiusa allegata alla sentenza a futura memoria (come fece il presidente della Corte d’appello di Milano Enrico Tranfa, messo in minoranza dai due giudici a latere nella sentenza che assolse B. su Ruby). Invece Franco non solo non formalizzò alcun dissenso, ma espresse pieno consenso con la sua firma e 207 sigle. Noi ovviamente non sappiamo come si era comportato prima, in camera di consiglio. Infatti nessuno dovrebbe saperlo, tantomeno l’imputato. Chi viola il segreto della camera di consiglio commette reato e illecito disciplinare. Il che spiega perché B. abbia atteso 7 anni e la morte di Franco nel 2018 per divulgare il nastro: per risparmiargli un processo per rivelazione di segreto d’ufficio e omessa denuncia (il giudice non aveva mai segnalato ai pm i gravissimi reati spiattellati a B.), la cacciata dalla magistratura e una raffica di querele e cause per diffamazione dagli altri quattro colleghi (casomai non bastasse l’indagine per corruzione giudiziaria aperta su di lui nel 2017 per presunti scambi di favori col senatore forzista e re delle cliniche Antonio Angelucci). In ogni caso nulla di ciò che dice Franco può ribaltare la condanna di B. né interessare la Corte di Strasburgo (che, con buona pace del Giornale e di Sansonetti, ha archiviato il caso nel 2018 perché B. ritirò il ricorso in extremis). B. è stato condannato perché ritenuto colpevole, in base a una valanga di prove documentali e testimoniali, di una gigantesca frode fiscale da 368 milioni di dollari sui diritti tv di Mediaset: e non solo da Esposito e i suoi tre colleghi (o quattro, a prender sul serio le firme di Franco), ma anche dagli altri 9 magistrati che si sono occupati del caso: i pm De Pasquale e Robledo; il gup che lo rinviò a giudizio; i tre giudici di Tribunale e i tre di Appello che lo condannarono in primo e secondo grado. Giunto in Cassazione nell’estate 2013, il processo finì alla sezione Feriale (presieduta da Esposito e composta anche da Franco) perché la III sezione che l’aveva in carico scoprì che si sarebbe prescritto per metà il 1° agosto e in base alle sue regole la Corte doveva celebrarlo subito senz’attendere la ripresa ordinaria a settembre (la sentenza arrivò il 31 luglio). E sapete chi presiedeva la III sezione che lo girò alla Feriale come “urgente”? Amedeo Franco. Il quale poi andò a contar balle a B., tipo che “han fatto una porcheria perché che senso ha mandarlo alla sezione feriale?”. Ecco: non era una porcheria, era la regola; e la decisione fu della sua sezione. Quindi il nastro è il classico due di coppe quando a briscola comanda bastoni. E un clamoroso autogol. Perché dimostra vieppiù il coraggio del presidente Esposito e degli altri tre (o quattro), che condannarono il colpevole B. resistendo a indicibili pressioni politiche (che spingevano per l’assoluzione, al grido di “Salviamo il governo Letta-Napolitano!”). Ricorda ai tanti smemorati chi è davvero B.: un delinquente seriale che i giudici o li paga o li induce a delinquere. E riporta il dibattito sulla riforma della giustizia nei giusti binari: in Italia le uniche carriere da separare sono quelle degli imputati eccellenti da quelle dei giudici collusi.
Merdaset -di Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano del 4 Luglio 2020:
1996. Stefania Ariosto rivela a Ilda Boccassini che B. e gli avvocati Previti e Pacifico compravano giudici e sentenze. Giornale e Panorama accusano la Boccassini di aver offerto 500 milioni a un pentito per incastrare l’ex pm e deputata FI Tiziana Parenti in un traffico di droga: tutto falso. Allora Renato Farina, sul Giornale di Feltri, scrive che la Boccassini ha arrestato ingiustamente una somala, Sharifa, sottraendole il marito e due bambini (“Quella Procura che rapisce i bambini”): balle anche quelle.
1998. L’Avanti! pubblica un falso dossier sulla Ariosto agente dei servizi segreti. E i media berlusconiani la accusano di essere prezzolata dalla Finanza: altra maxi-balla, con le solite condanne per diffamazione. Ma ecco due nuove campagne sulle testate di B. (Rai inclusa) contro la Boccassini e Gherardo Colombo: i due pm avrebbero manipolato con lo Sco l’intercettazione dei giudici romani Renato Squillante e Francesco Misiani al bar Mandara (tutto falso, appurerà il gup di Perugia). E occultato le prove dell’innocenza di B. e Previti nel fascicolo segreto 9520/95, negato illegalmente ai difensori (tutte balle, stabilirà il gup di Brescia).
2001. Mentre il governo B. è impegnato ad abolire le rogatorie che incastrano il premier e Previti e a opporsi al mandato di arresto europeo, Panorama e Giornale pubblicano uno scoop di Lino Jannuzzi (“Il gioco dei quattro congiurati”) che racconta nei dettagli un incontro segreto in un hotel di Lugano fra la Boccassini e i colleghi Carlos Castresana, Carla Del Ponte ed Elena Paciotti per architettare l’arresto del presidente del Consiglio. Poi i congiurati dimostrano che quel giorno si trovavano in quattro città diverse e piuttosto lontane: Boccassini a Milano, Castresana a Madrid, Paciotti a Bruxelles, Del Ponte in Tanzania. Jannuzzi, anziché andare a nascondersi, giura di avere “le prove”. Il Cda di Panorama chiede lumi al direttore Carlo Rossella. Che difende Jannuzzi perché, vertice o non vertice, “il problema esiste”. Sarà condannato per diffamazione. Jannuzzi si farà eleggere al Senato e nominare al Consiglio d’Europa, con doppia immunità.
2003. La Cassazione sta per decidere sulla richiesta di B. di traslocare i processi a Brescia per “legittimo sospetto”. La triade Tg1-Studio Aperto-Giornale spara un nuovo scoop. In una bacheca della IV sezione del Tribunale di Milano, quella del processo Mondadori, i giudici avrebbero affisso foto di Previti sotto una frase di Platone contro i tiranni: la prova del nove che tutti i giudici milanesi sono prevenuti. Ma è una bufala. Le foto, ritagliate dai giornali, non sono nell’ufficio dei giudici, ma dietro una colonna della stanza di una cancelliera. E la frase di Platone non c’entra: è lì appesa da 12 anni e non è contro i tiranni, ma contro i governi troppo corrivi con i moti di piazza.
2009. Il giudice civile Raimondo Mesiano condanna la Fininvest e B. a risarcire con 750 milioni di euro Carlo De Benedetti per lo scippo della Mondadori col famoso verdetto comprato e definisce il premier “corresponsabile nella corruzione” del giudice Vittorio Metta. E viene linciato da tv e giornali berlusconiani e pedinato dalle telecamere di Mattino 5 dal barbiere e al parco zoomando sui suoi calzini turchesi. “Tra la stravaganza del personaggio e la promozione del Csm, qualcosa non funziona”, denuncia il direttore Claudio Brachino. E Sallusti: “Non è solo stravaganza fisica, ma anche professionale”. Brachino verrà sospeso dall’Ordine dei giornalisti per due mesi.
2011. B. è indagato per la prostituzione minorile di Ruby e le chiamate in Questura per farla rilasciare. Il Giornale di Sallusti contrattacca con “Gli amori privati della Boccassini”, che nel lontano 1981 fu sorpresa da un “addetto alle pulizie del tribunale” nientemeno che a “baciare un cronista di Lotta Continua”.
2013. Il processo Mediaset (B. condannato in I e II grado a 4 anni per frode fiscale) arriva in Cassazione. Il Giornale blandisce il presidente Esposito e i giudici Franco, D’Isa, Aprile e De Marzo: “toghe moderate e di lungo corso”. Ma, appena questi condannano B., per i suoi house organ diventano dei farabutti. Tranne Franco, risparmiato chissà perché dal linciaggio, sebbene abbia firmato la sentenza come gli altri. Il Giornale accusa Esposito di aver definito B. “grande corruttore” e “genio del male” in una cena privata a Verona nel lontano 2009. Lui smentisce. Libero e Panorama gli scagliano addosso le accuse più fantasiose: persino una cena con l’attore Franco Nero, oltre al solito fango su tutti i parenti fino al terzo grado. Anche i giornali “indipendenti”, Corriere, Sole 24 Ore, La Stampa e Messaggero, sdraiati sul governo Letta Pd-FI, attaccano la sentenza e invocano l’amnistia o la grazia. Il Mattino intervista Esposito, che risponde solo su questioni generali senza entrare nel processo, ma poi gli infilano una domanda mai fatta sulla condanna di B. Un assist al Pdl, che scatena il putiferio, ricorre a Strasburgo, chiede la testa del giudice e la revisione della sentenza. Esposito viene trascinato dinanzi al Csm, dove ovviamente sarà prosciolto da tutto. Intanto il suo collega Franco sta spifferando i segreti (peraltro falsi) della camera di consiglio al neopregiudicato armato di registratore. Ma questo ancora nessuno lo sa: se ne riparlerà soltanto sette anni dopo, su Rete4 e sul Giornale. Nella migliore tradizione della casa.
La pistola fumante di Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano del 8 Luglio 2020: Da quando, il 1° agosto 2013, la sezione Feriale della Cassazione da lui presieduta condannò definitivamente B. per frode fiscale a 4 anni, gli impiegati del pregiudicato – come da contratto – hanno svelato una raffica di particolari inquietanti della sua biografia, fino a quel momento immacolata. Una collezione da Guinness di scheletri nell’armadio scovati dai segugi del Giornale e degli altri fogli aziendali setacciando fascicoli, compulsando sentenze, auscultando portoni e fioriere, interrogando edicolanti, perlustrando bar, ristoranti, tavole calde, hotel e motel, importunando passanti, scoperchiando tombe e cassonetti, nella bizzarra convinzione che B. torni incensurato se si dimostra che uno degli 11 giudici che l’han condannato in primo, secondo e terzo grado è un poco di buono. Purtroppo, diversamente da quelle dei pm a B., le accuse degli house organ a Esposito si erano rivelate false.
Falso che avesse barattato la richiesta di archiviazione per suo figlio, scoperto a cena con la Minetti, in cambio della condanna di B. (la richiesta sul figlio era di sei mesi prima che il processo B. giungesse sul suo tavolo).
Falso che suo figlio parlasse con lo 007 La Motta in carcere (quello non era suo figlio, ma il figlio di suo fratello Vitaliano, allora Pg di Cassazione). Falso che a tavola Esposito alzi il gomito (è astemio).
Falso che tenesse lezioni a pagamento nella scuola della moglie all’insaputa del Csm (insegnava gratis con l’ok del Csm).
Falso che si appropriasse di processi altrui per finire sui giornali (sostituiva doverosamente colleghi assenti).
Falso che faccia vita da nababbo (la “prova”, una Mercedes, è un ferrovecchio del 1971 acquistato nel ’77 con 300mila km).
Falso che fosse odiato per la sua faziosità quand’era pretore a Sapri (lo odiavano solo i suoi imputati che, accertò il Csm, avevano ordito “un complotto contro l’Esposito”).
Falso che fosse stato trasferito per affari loschi (il Tar annullò il provvedimento perché le accuse erano fasulle).
Falso che abbia anticipato a cena la condanna di Wanna Marchi.
Falso che avesse raccontato in giro le telefonate sexy delle girl di Arcore (mai lette da nessuno e subito distrutte dai giudici di Napoli).
Falso che sia una toga rossa di estrema sinistra (il Giornale, prima della sentenza su B., definì lui e gli altri 4 “toghe moderate”).
Falso che una sera, a casa di un tizio di San Nicola Arcella (Cosenza), ospite d’onore insieme all’attore Franco Nero, ripetesse a cantilena per tutta la cena “Berlusconi mi sta sulle palle, gli faccio un mazzo così” (non l’aveva come imputato e si occupava di criminalità organizzata, mentre B. inspiegabilmente non aveva processi in materia).
Fin qui le panzane raccolte da Giornale, Libero e tv Mediaset a botta calda, quando si trattava di salvare il padrone dalla cacciata dal Senato in base a una legge, la Severino, che aveva votato pure lui con tutta FI.
Ora, sette anni dopo, la Banda B. ci riprova, nel tentativo disperato di riverginarlo in vista del governissimo che fa benissimo.
E, va detto, ci sta riuscendo grazie a nuovi testimoni di grande autorevolezza, terzietà e credibilità: un cameriere, un bagnino e uno chef dell’hotel di Ischia di proprietà del rascampàno di FI Mimmo De Siano, legatissimo al celebre Giggino ’à Purpetta, i quali giurano all’unisono che Esposito nei suoi soggiorni non faceva che ripetere: “Berlusconi è una chiavica” e “Berlusconi e De Siano li devono arrestare”. Così, come intercalare. “All’ingresso del ristorante – testimonia il cameriere – invece di dire "buonasera", Esposito era solito affermare: "Ancora li devono arrestare", riferendosi al dottor Berlusconi e al mio datore di lavoro”. Il fatto che i tre cantino tutti la stessa canzone e a Napoli si indaghi sulle loro testimonianze non deve ingannare. È più che credibile che un giudice di Cassazione, sapendo di albergare in un hotel del senatore De Siano, vada in giro per la hall preannunciando a chiunque incontri l’arresto del proprietario e del suo leader. “Scusi, cameriere: posto che Berlusconi è una chiavica, me lo farebbe un caffè corretto?”. “Salve, chef: siccome quelle chiaviche di Berlusconi e De Siano vanno arrestati, me lo porterebbe un antipastino di pesce?”. “Ehilà, bagnino: alla faccia di quelle chiaviche da arrestare del suo padrone e del premier, avrebbe un ombrellone, due lettini e un telo mare?”. Casomai le prove esibite dal giurista Porro e dal giureconsulto Sansonetti (quello che non distingue una Corte d’appello da un paracarro, figurarsi dalla Cassazione), non bastassero a convincere le Corti di Strasburgo, Lussemburgo, Magdeburgo, Brandeburgo e Cheesburger, il Fatto è in grado di rivelare le due nuove prove in possesso agli avvocati. La prima è il nastro di una seduta spiritica con Filumena Ciucciasangue, nota medium di Casamicciola e candidata di FI che, chiacchierando del più e del meno con l’anima del giudice Franco, gli udì scandire accuse molto circostanziate al giudice Esposito (la registrazione si sente “sbsazgrttt… bsdparttzz…”, ma l’on. avv. Ghedini la sta facendo tradurre da uno fidato). La seconda è il video di Ciruzzu Scannacristiani, detenuto all’Ucciardone al 41-bis, che confida al compagno di ora d’aria: “Chill’ curnutone scurnacchiate d’Esposito m’ha fatt’ carcerà! Cià raggione Belluscone: è tutt’ nu cumblott”. A questo punto, il ricorso in Europa è una pura formalità.
Il dossier - Tutte le bufale raccontate finora. Antonella Mascali e Valeria Pacelli su Il Fatto Quotidiano l'8 luglio 2020. - Da una settimana giornali e tv si occupano del caso dell’audio di Amedeo Franco, giudice relatore della sentenza di Cassazione che nel 2013 ha condannato Silvio Berlusconi a 4 anni per frode fiscale nell’ambito del processo sui diritti tv di Mediaset. Davanti all’ex premier, dopo aver anche lui firmato quel verdetto, Franco parla di “porcheria” e “condanna a priori”. Le sue parole sono state registrate e poi depositate dalla difesa di Berlusconi nell’integrazione al ricorso davanti alla Corte europea dei diritti dell’Uomo. Tanto è bastato ad una certa stampa per gridare al complotto. “Le carte del golpe”, ha titolato nei giorni scorsi Il Giornale, diretto da Alessandro Sallustri. L’audio del giudice Franco è stato pubblicato direttamente in casa Mediaset dalla trasmissione di Nicola Porro Quarta Repubblica (Rete 4), che anche lunedì ha dedicato un’oretta del programma al caso per introdurre un altro “scoop”. Ossia il video di tre testimoni, i quali riferiscono di parole offensive contro Berlusconi pronunciate dal giudice Antonio Esposito (presidente del collegio feriale di Cassazione, che parla di “grave diffamazione” e annuncia querele anche contro la trasmissione). E così le tre testimonianze, con l’audio del giudice e altro ancora, come una sentenza civile che poco c’entra con il processo Mediaset, per alcuni sono le prove per dimostrare che quello che ha giudicato Berlusconi è stato un “plotone di esecuzione”, per usare le parole di Franco. Tanto prove però non sono. Ecco perché.
I testimoni e l’hotel di ischia. Partiamo dunque dall’ultimo “scoop”. Si tratta della testimonianza di tre dipendenti di un albergo di Lacco Ameno sull’isola d’Ischia, di proprietà della famiglia del senatore di Forza Italia Domenico De Siano, dove il giudice Esposito in passato ha trascorso alcuni giorni di vacanza. “Esposito spesso chiedeva di chi fosse la struttura alberghiera ed io rispondevo di De Siano (…). La sua risposta in napoletano era: ‘Ah sta con quella chiavica di Berlusconi’”. In un’altra occasione, “(…) nell’incontrarmi (…) affermava che prima o poi avrebbero arrestato sia il mio datore di lavoro che il Berlusconi”, racconta uno dei testimoni. Esposito ha sempre negato di aver pronunciato quelle frasi. Piccolo particolare, i verbali dei tre lavoratori sono stati raccolti nell’aprile 2014 attraverso le indagini difensive di un legale di Berlusconi e sono stati allegati al ricorso a Strasburgo. Come ha rivelato Il Fatto, poi, su quei verbali è stata aperta un’indagine della procura di Napoli, nata proprio dopo un esposto di Esposito, il quale, tra le altre cose, ha chiesto anche di accertare se nei confronti dei tre testimoni “sia ravvisabile l’ipotesi di false informazioni al pubblico ministero”. Richiesta ribadita anche in un’integrazione di memoria presentata qualche giorno fa a Napoli. Sul procedimento incombe la prescrizione.
La sezione feriale e la prescrizione. Da giorni si discute anche della prescrizione e sul perché il processo sia stato affidato alla sezione feriale della Cassazione. Che la prescrizione scattasse il primo agosto 2013 non è una data inventata, bensì è quella riportata sul frontespizio del fascicolo della III sezione penale della Cassazione, quella del giudice Franco, che il 9 luglio 2013 invia il fascicolo alla sezione feriale con la scritta tutta maiuscola “URGENTISSIMO”. Nei giorni scorsi un altro giudice di quel collegio, Claudio D’Isa, ha fugato ogni dubbio: “Le tabelle stabiliscono le assegnazioni, in automatico. Non c’è discrezionalità. Chi parla di una scelta di giudici fatta apposta per far condannare Berlusconi, dice un falso eclatante”.
La decisione del tribunale civile. Il tormentone dei berluscones è che ci sia una sentenza del tribunale civile di Milano, mandata a Strasburgo ad aprile, che “ha demolito”, “raso al suolo” la condanna di Berlusconi. Non è affatto così. Quella sentenza, del giudice Damiano Spera, decima sezione civile del tribunale di Milano, non parla del processo Mediaset ma di un altro: Mediatrade, da cui Berlusconi esce in udienza preliminare con un proscioglimento poi confermato dalla Cassazione nel 2012, mentre per il filone romano ne esce definitivamente nel 2013. Mediatrade è il processo che ha esaminato le compravendite di diritti cinematografici, per l’accusa fittizie, attraverso il produttore Frank Agrama, dal 2000 al 2005. Invece, il processo Mediaset sopravvissuto alla prescrizione, riguardava fatti fino al 1999, con dichiarazioni fraudolente 2002-2003, da qui la condanna definitiva di Berlusconi per frode fiscale da 7 milioni e 300 mila.
Il verdetto di Franco nel 2014. Chi vuol far passare Berlusconi per una vittima di un complotto politico-giudiziario sostiene che, tra le varie prove, c’è una sentenza del 2014 della terza sezione penale della Cassazione, relatore proprio Amedeo Franco. È una sentenza in cui si stabilisce che, in caso di dimissioni dalla carica di amministratore delegato, prima della compilazione della dichiarazione dei redditi, un soggetto non possa essere perseguito se privo di cariche societarie al momento dei fatti, come Berlusconi. Ma il processo Mediaset è tutt’altra cosa, come evidenziato dalla stessa Cassazione costretta, dalle polemiche già all’epoca, a emettere un comunicato tecnico per specificarlo. In sostanza, si tratta di due fattispecie diverse. Il processo Mediaset è caratterizzato dalle cosiddette frodi carosello. Per Berlusconi non era una questione di cariche societarie. Secondo i giudici di merito di Milano, confortati dalla Cassazione, è stato Berlusconi, anche da presidente del Consiglio, “a perpetuare il meccanismo dei costi gonfiati, durante la compravendita dei diritti Tv, per costituire fondi neri all’estero di cui era l’unico beneficiario”. Per non parlare della prescrizione, accorciata grazie a una delle leggi ad personam, la ex Cirielli, che ha cancellato dal processo il falso in bilancio e l’appropriazione indebita. Dei 368 milioni occultati al fisco negli anni ne “sopravvivono” per la condanna soltanto 7,3.
L’intervista al mattino, Esposito assolto. “Mai visto in 35 anni un giudice che anticipa le motivazioni di una sentenza”, ha detto in tv l’avvocato Gian Domenico Caiazza a proposito di un’intervista del 2013 a Il Mattino del giudice Esposito dal titolo “Berlusconi condannato perché sapeva non perché non poteva non sapere”, come se il giudice avesse anticipato le motivazioni. La procura generale della Cassazione lo sottopose a un processo disciplinare di “violazione del dovere generale di riserbo”, ma Esposito ne è uscito con un’assoluzione, a dicembre 2014, della sezione disciplinare del Csm. Nelle motivazioni si legge che in quella intervista non disse nulla di più di quanto già risultasse dal dispositivo della sentenza e per di più l’intervista, rilasciata al giornalista Antonio Manzo, fu manipolata: “L’alterazione emerge in tutta la sua gravità se si considera che il testo era stato trasmesso via fax al dott. Esposito per una verifica preliminare” ma “non conteneva la domanda relativa al motivo della condanna” di Berlusconi. Da una settimana giornali e tv si occupano del caso dell’audio di Amedeo Franco, giudice relatore della sentenza di Cassazione che nel 2013 ha condannato Silvio Berlusconi a 4 anni per frode fiscale nell’ambito del processo sui diritti tv di Mediaset. Davanti all’ex premier, dopo aver anche lu...
Chi tace acconsente - di Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano del 9 Luglio 2020: Molti lettori ci scrivono sull’Operazione Rivergination avviata dalle tv e dei giornali di B. sull’unico suo processo scampato (finora) alla prescrizione, quello per frode fiscale sui diritti Mediaset: perché proprio ora, quando ormai nessuno – nemmeno lui – si ricordava più della sua condanna? Perché un ampio schieramento affaristico e politico, dunque editoriale, che spinge per rovesciare il governo Conte e rimpiazzarlo con uno di larghe intese&imprese che sbarchi i 5Stelle e imbarchi Pd, Iv, FI, Lega e i soliti trasformisti all’asta. Ma, prima di riesumare il pregiudicato, bisogna candeggiarlo di fresco. I trombettieri di Arcore, linciando il giudice Esposito e chi osa ricordare che B. fu condannato perché era colpevole, fanno il loro sporco mestiere. L’anomalia è il silenzio di chi sa come andarono le cose e l’ha più volte raccontato, ma ora tace per non disturbare i manovratori (anzi, intervista B. senza far domande). Noi continueremo a disturbarli facendo l’unica cosa che sappiamo fare: raccontare i fatti.
Nel 2006 il gup di Milano accoglie le richieste dei pm Robledo e De Pasquale e rinvia a giudizio B. e altri top manager Mediaset per falso in bilancio, frode fiscale e appropriazione indebita. La Procura ha scoperto che il Cavaliere, prima e dopo l’ingresso in politica nel ’94, dispose una serie di operazioni finanziarie per acquistare i diritti tv di film dalle major Usa con vorticosi passaggi fra società estere (tutte sue) per farne lievitare artificiosamente i prezzi: così rubò a Mediaset, tramite due offshore intestate ai figli, almeno 170 milioni di dollari e se li intascò in nero, sottraendo al fisco almeno 139 miliardi di lire e falsificando i bilanci anche durante la quotazione in Borsa nel ’96. Parte delle accuse, per i fatti più vecchi, già nell’udienza preliminare è coperta dalla prescrizione (abbreviata nel 2005 dalla legge ex Cirielli). In Tribunale la prescrizione falcidia pure i falsi in bilancio più recenti: resta in piedi parte delle appropriazioni indebite e delle frodi fiscali (fino al 2003). Il processo viene sospeso dal 2008 al 2010 per il Lodo Alfano e riprende quando la Consulta lo dichiara incostituzionale. Il 26 ottobre 2012, dopo ben 6 anni di corsa a ostacoli a base di leggi ad personam, ricusazioni, istanze di rimessione e legittimi impedimenti, arriva finalmente la sentenza di primo grado: condanne per frode fiscale a B. (4 anni), a due manager e al produttore-prestanome Agrama, assolto Confalonieri. Tutte prescritte anche le residue appropriazioni indebite e gran parte delle frodi. Le motivazioni descrivono un’“evasione fiscale notevolissima” (368 milioni di dollari) e un “disegno criminoso” di cui B. fu “l’ideatore” e poi il “dominus indiscusso”. “Non è sostenibile – secondo il Tribunale – che Mediaset abbia subito truffe per oltre un ventennio senza neanche accorgersene”. Infatti faceva tutto il padrone, che “rimase al vertice della gestione dei diritti” e del meccanismo fraudolento anche “dopo la discesa in campo” del ’94. Non a caso la Cassazione ha già accertato che fu lui a fine anni 90 a far versare la tangente all’avvocato David Mills, creatore negli anni 80 delle società estere e occulte della Fininvest, perché testimoniasse il falso e lo salvasse da condanne certe nei processi per le mazzette alla Guardia di Finanza e i falsi in bilancio All Iberian.
L’8 maggio 2013 la II Corte d’Appello di Milano conferma in pieno la sentenza di primo grado: “vi è la prova, orale e documentale, che Silvio Berlusconi abbia direttamente gestito la fase iniziale del gruppo B (sistema di società offshore) e, quindi, dell’enorme evasione fiscale realizzata con le offshore”. Anche dopo l’entrata in politica, “almeno fino al 1998 vi erano state le riunioni per decidere le strategie del gruppo con il proprietario Silvio Berlusconi”: “Non solo si creavano costi fittizi destinati a diminuire gli utili del gruppo e quindi le imposte da versare all’erario italiano, ma si costituivano ingenti disponibilità finanziarie all’estero”. E “non è verosimile che qualche dirigente di Fininvest o Mediaset abbia organizzato un sistema come quello accertato e, soprattutto, che la società abbia subito per 20 anni truffe per milioni di euro senza accorgersene”.
La Cassazione, dopo i due giudizi di merito, deve solo valutare la legittimità della sentenza d’appello, perfettamente coerente con la giurisprudenza della III sezione (quella del giudice Amedeo Franco, specializzata in reati fiscali) sulle “frodi carosello”. E il 1° agosto 2013, appena in tempo per scongiurare la prescrizione delle ultime due frodi superstiti (4,9 milioni sugli ammortamenti del 2002, che si estingono proprio quel giorno; e 2,4 milioni su quelli del 2003, che si estinguono il 1° agosto 2014), arriva la sentenza, firmata dal presidente della sezione Feriale Antonio Esposito e dagli altri quattro giudici (fra cui Franco). Da allora nasce la leggenda di un “processo sprint” per negare a B. la prescrizione, che lui ritiene un diritto acquisito e che invece la Corte ha l’obbligo di evitare a ogni costo. Cosa ci sia di “sprint” in un dibattimento iniziato nel 2006 e concluso nel 2013 e di “anomalo” nell’assegnazione di un processo a rischio di prescrizione alla sezione Feriale della Cassazione (com’era accaduto nel 2011 per 219 processi e nel 2012 per 243), lo sanno solo i falsari pagati da B. E, se qualche beota casca nella trappola, è per il silenzio di tutti quelli che sanno.
Ghedini e le bugie delle toghe: "Registrazioni già depositate". L'avvocato Niccolò Ghedini svela: "Il materiale era a disposizione anche dell'autorità italiana perché il governo italiano viene informato sempre delle carte depositate". Luca Sablone, Domenica 05/07/2020 su Il Giornale. "La vicenda delle confessioni postume del giudice Amedeo Franco al suo imputato ha profili torbidi e inquietanti". Questa è una parte del comunicato diramato dalle toghe progressiste di Area, in cui viene denunciato come la registrazione sia stata divulgata a molti anni di distanza, dopo la morte del giudice Franco, "in un contesto che appare favorevole ad accreditare qualsiasi ignominia per screditare e delegittimare i magistrati e la giurisdizione". Una narrazione che ha lasciato esterrefatto l'avvocato di Silvio Berlusconi. Niccolò Ghedini, nell'intervista rilasciata a La Verità, non ha usato giri di parole per attaccare chi è convinto della tesi in questione: "Non sanno neanche cosa dicono". Anche perché bisogna partire da un principio: la Corte europea per i diritti dell'uomo stabilirà se quella registrazione è falsa, "mica loro". Ma perché dovrebbe esserlo? Il difensore del Cav ha sottolineato che quelli di Area stanno commettendo un errore di fondo, in quanto le registrazioni di Franco sono nella disponibilità della Corte europea da cinque anni: "È una cosa gravissima che la magistratura italiana voglia intervenire su un atto procedimentale di un'autorità sovranazionale". In molti sostengono che abbia approfittato del clima anti-toghe creato dal caso Palamara per fare la denuncia: "Non c'entra un tubo. Glielo ripeto, quella cosa lì era depositata da cinque anni".
"Insinuazioni? Una follia". Ghedini è del parere che la realtà dei fatti sia la seguente: in un momento particolarmente attento alle questioni legate alla magistratura, un giornalista ha semplicemente recuperato gli atti del procedimento considerando che le carte depositate alla Corte europea sono tutte pubbliche. "Per questo le insinuazioni di Area sono una follia. Hanno sempre detto che Berlusconi non voleva farsi processare e Berlusconi è stato processato", ha aggiunto. Poi ha svelato che a quell'epoca avrebbero potuto tirare fuori le registrazioni quando il presidente di Forza Italia era in affidamento in prova ai servizi sociali, ma lui non ha voluto: "Così le abbiamo prodotte davanti alla Corte europea e Franco era ancora vivissimo quando gli atti sono andati alla Cedu. Adesso abbiamo depositato l'audio". Continua a tenere banco la questione relativa al possibile golpe giudiziario ai danni di Berlusconi, dopo lo scandalo scoppiato sull'intercettazione telefonica mandata in onda dalla trasmissione Quarta Repubblica. Ghedini ha fatto sapere che fin dall'inizio è stata data la disponibilità delle trascrizioni e alla Corte europea era stato detto che, volendo, le registrazioni erano a disposizione: "La memoria aggiuntiva di aprile riguardava al 90% la sentenza civile che ci ha dato recentemente ragione". Successivamente è stato ricordato che la vicenda del giudice Franco non era stata mai sentita: "E a questo punto gli abbiamo dato anche l'audio. Certo se l'avessero convocato prima avrebbero potuto ascoltare la sua versione dalla sua viva voce". Dunque la Corte europea per i diritti dell'uomo aveva da anni la possibilità di visionare questo materiale? "Avevamo solo chiesto che le trascrizioni non fossero rese pubbliche, ma erano narrate all'interno dell'atto a disposizione del giudice naturale precostituito per legge, che poteva quindi in qualsiasi momento prenderne visione". Infine ha concluso ribadendo che era a disposizione anche dell'autorità italiana "perché il governo italiano viene informato sempre delle carte depositate".
Silvio Berlusconi, le carte in mano a Ghedini: "Esposito e Franco, perché il Cav non andava condannato". Libero Quotidiano il 16 luglio 2020. Nelle loro memorie difensive sulla condanna per frode fiscale, Niccolò Ghedini e il suo staff di legali che segue Berlusconi partono da un dato incontrovertibile: "la plateale sconfessione delle tesi giuridiche alla base della condanna da parte della stessa Cassazione, dove pochi mesi dopo la terza sezione, quella specializzata in reati tributari, decise un caso analogo in senso opposto, accusando esplicitamente la sentenza Esposito di essere basata su plateali errori di diritto", scrive il Giornale. E portano anche le dichiarazioni rese allo stesso Berlusconi dal giudice, oggi deceduto, Amedeo Franco che denunciava all'ex premier la prevenzione dei giudici contro il Cav. Ma soprattutto ricordano che il processo Berlusconi non doveva andare alla sezione feriale presieduta da Anrtonio Esposito, perché la prescrizione dei reati, data per imminente dalla Corte d'appello di Milano in realtà non lo era affatto. Cosa accadde davvero nel luglio 2013 e chi e perché indicò sul fascicolo una data sbagliata? Secondo i legali del Cav, quell'errore fu decisivo nel permettere che la causa arrivasse a Esposito (che nel frattempo ha fatto anche causa a Berlusconi per una richiesta danni di oltre duecento mila euro). Lo stesso giudice che prima della sentenza manifestava al ristorante il suo odio verso Berlusconi, secondo il racconto di tre camerieri. E che, concludono i legali, appena andato in pensione è divenuto editorialista del Fatto, "dove si produce in sferzanti giudizi sui governi del Cav e sulle sue leggi sulla giustizia".
Silvio Berlusconi, Minzolini e la "scoreggia" di Travaglio: "Sarebbe il capo SS di un regime togato". Libero Quotidiano il 03 luglio 2020. Silvio Berlusconi e la registrazione audio della conversazione con Amedeo Franco, giudice della sentenza Mediaset del 2013, sono finiti su tutti i giornali negli ultimi giorni. Persino Repubblica ha dedicato spazio alla vicenda che riguarda la riabilitazione del Cav, ma ovviamente Il Fatto Quotidiano continua a screditarlo senza alcuna pietà. Nell’edizione odierna in prima pagina il titolo principale è dedicato proprio all’ex premier, con il Fatto che si vanta di avere “le prove della bufala pro Caimano”. E ovviamente Marco Travaglio ci mette il carico nel suo editoriale, definendo l’odiato Berlusconi un “vecchio malvissuto” che è ancora a piede libero grazie alle “balle a reti ed edicole unificate” che nell’ultimo quarto di secolo il Cav avrebbe sfornato “non per provare la sua onestà ma almeno per tentare di sputtanare i suoi giudici”. Pronta la replica di Augusto Minzolini tramite social: “Faccia di c. Travaglio produce il solito articolo-scoreggia contro il giudice che definì la sentenza contro Berlusconi un plotone d’esecuzione. Comprensibile: se la storia fosse riletta sulla base dell’uso politico della giustizia, lui sarebbe l’Himmler, capo SS, di un ipotetico regime togato”.
Piero Sansonetti a Quarta Repubblica contro il giudice Esposito: "Per Berlusconi plotone d'esecuzione, lui scrive per il Fatto". Libero Quotidiano il 30 giugno 2020. "È un complotto e non c'è dubbio". Piero Sansonetti, direttore del Riformista, spiega a Nicola Porro a Quarta Repubblica i dettagli dello scoop del suo giornale, che ha anticipato le carte in mano alla difesa di Silvio Berlusconi che proverebbero come la sentenza di condanna del 2013 nel processo Mediaset-Agrama per frode fiscale sia stata "pilotata dall'alto". Parole, queste, pronunciate in una intercettazione choc dal giudice Amedeo Franco, che era relatore della Cassazione in quella sentenza. "Il reato fu inventato, ma non ci credo che è stato Napolitano - chiarisce Sansonetti -. La magistratura è un potere autonomo che agisce fuori dalla legalità! Migliaia di sentenze sono false e la giustizia in Italia è una truffa!", tuona il direttore, che punta il dito contro Antonio Esposito, il giudice-capo di allora: "Quella sezione era un plotone d'esecuzione, l'operazione è stata tutta lì. Il Presidente di quella sezione è un editorialista del Fatto Quotidiano!".
Dagospia il 6 luglio 2020. TRAVAGLIO VEDE LA PAGLIUZZA E SCORDA LA TRAVE - IL DIRETTORE DEL "FATTO" ACCUSA NICOLA PORRO DI ESSERE UN ''IMPIEGATO DI BERLUSCONI'' E FA FINTA DI NON RICORDARE CHE ANCHE VERONICA GENTILI, CHE AL "FATTO" E' DI CASA, E' UNA DIPENDENTE DEL CAV, VISTO CHE HA UN RICCO CONTRATTO CON RETE4 (E GLI REGGE PURE IL MOCCOLO COMPIACIUTA MENTRE BERLUSCONI SI AUTOELOGIA IN DIRETTA A "STASERA ITALIA")
Da liberoquotidiano.it il 6 luglio 2020. Come ogni giorno, Marco Travaglio sparge livore. Questa volta nel mirino ci finisce Nicola Porro. La sua "colpa"? Difendere Silvio Berlusconi, o meglio: parlare delle intercettazioni di Amedeo Franco, il magistrato scomparso che esprimeva dubbi per la condanna nel processo Mediaset per frode fiscale, in modo critico. Tutto il contrario di Travaglio, il cui unico approccio è quello acritico: dar sempre e comunque contro il Cavaliere (sul Fatto Quotidiano ha iniziato a macinare chilometri la macchina del fango contro Franco). E insomma, Travaglio derubrica Porro a "impiegato di Berlusconi". Parole che vengono riprese e rilanciate da Vittorio Feltri, che su Twitter si scaglia contro il direttore del Fatto: "Travaglio dice che Nicola Porro è un impiegato di Berlusconi. Esattamente come lo è stato per anni Marco avendo lavorato al Giornale del Cavaliere", conclude il direttore di Libero.
Condannò Berlusconi alla prigione ora spara sentenze sul Fatto Quotidiano. Redazione de Il Riformista il 7 Febbraio 2020. Se vi andate a leggere il Fatto Quotidiano di ieri troverete diversi articoli sulla prescrizione. Tutti naturalmente favorevoli alla riforma Bonafede, che la sospende dopo il primo grado di giudizio. Tutti in linea e a sostegno dei 5 Stelle. E questo è molto logico, perché Il Fatto Quotidiano, in modo quasi ufficiale, è il giornale dei 5 Stelle. Colpisce però che l’articolo più feroce contro avvocati e magistrati che criticano la riforma Bonafede sia stato firmato da un ex magistrato. Si chiama Antonio Esposito ed è stato un alto magistrato di Cassazione. Poi qualche anno fa è andato in pensione per raggiunti limiti di età e si è messo a fare il polemista, sempre a sostegno dei 5 Stelle. Lo ha fatto con molti articoli sul Fatto Quotidiano. Nell’articolo di ieri, tra le altre cose, sostiene che l’articolo 111 della Costituzione, quello che garantisce la ragionevole durata del processo, non c’entra niente con la prescrizione (che è stata inventata per evitare processi troppo lunghi) e che poi quell’articolo non stabilisce misure tassative, più che altro è un suggerimento. Per fortuna Esposito non ha mai fatto parte della Corte Costituzionale. Ve l’immaginate a giudicare la costituzionalità di una legge con questa idea che in fondo ‘sta Costituzione è lì per fare un po’ da stimolo, ma non va presa troppo alla lettera. Però, come dicevamo, Esposito il giudice Costituzionale lo ha fatto. E anche ad alto livello. È stato presidente di una delle sezioni penali della Cassazione, e in questa veste, il primo agosto del 2013, ha giudicato l’ex presidente del Consiglio, Berlusconi, che era accusato per un’evasione fiscale (di modesta entità: circa il 2 per cento del dichiarato) compiuta dalla Fininvest. Gli avvocati sostenevano che Berlusconi, quando fu depositata quella dichiarazione fiscale, era presidente del Consiglio, e ovviamente non si occupava direttamente delle questioni che riguardavano i suoi commercialisti. I giudici non gli credettero e alla fine la sezione presieduta da questo Esposito decretò quattro anni e qualche mese di prigione. Definitivo. Berlusconi fu affidato ai servizi sociali, Forza Italia in pochi mesi dimezzò i suoi voti. Ora uno, magari perché è troppo malizioso, dice: ma è tutto regolare se un giudice, che poi si scopre essere un tifoso acceso dei 5 Stelle viene chiamato a giudicare il capo del partito che si oppone ferocemente ai 5 Stelle? Ti rispondono: ma allora non si sapeva che Esposito fosse amico dei 5 Stelle. Va bene, facciamo che è così davvero. Ma poi? Quando scopri che quella sentenza fu evidentemente una sentenza politica ci resti male, no? Non aumenta la tua fiducia nella giustizia. E la prossima volta certo non dirai: “Io ho piena fiducia nella giustizia”. Eh no, se è giustizia di partito no. Fiducia zero.
Travaglio difende disperatamente il suo "dipendente" Antonio Esposito, tutte le balle per blindare il giudice. Piero Sansonetti su Il Riformista il 2 Luglio 2020. Marco Travaglio, credo, è un bravissimo ragazzo. Non è in malafede. È che le cose, in genere, non le sa. Ha la faccia del secchione ma studia poco. Si fida del primo Pm di passaggio. E così, non di rado, scrive delle fesserie sesquipedali sul suo giornale. Ieri sull’affare Berlusconi-Esposito si è superato. Ha impostato tutto il giornale e il suo stesso lungo e scombiccherato editoriale su due verità assolute. False. La prima è che Berlusconi non può chiedere alla Corte Europea di pronunciarsi sulla sua condanna per frode fiscale (quella, appunto, firmata dal giudice Antonio Esposito) perché il ricorso lo ha ritirato ormai da due anni, e non si può far rivivere un ricorso concluso solo perché c’è una nuova testimonianza e una nuova sentenza. La seconda è che il processo per frode fiscale, nel luglio del 2013, stava per andare in prescrizione, sarebbe andato in prescrizione il primo agosto ed è questo il motivo della fretta della Cassazione e della decisione di affidarsi alla sezione feriale – che emise la sentenza il 31 luglio – invece che a una sezione competente che magari capiva anche qualcosa del processo. Beh, sono due balle. Ora si dice fake. Berlusconi non ha mai ritirato il ricorso contro la sentenza. E giorni fa ha presentato un supplemento di documentazione nel quale sono contenute le prove della sua innocenza e il sospetto che quella sentenza sia stata decisa in malafede. Travaglio si confonde, probabilmente, col ricorso contro l’espulsione dal Parlamento di Berlusconi (realizzata con una legge che per la prima volta dall’unità d’Italia a oggi fu fatta valere in forma retroattiva). Quel ricorso Berlusconi lo aveva ritirato perché era stato riabilitato e dunque non aveva senso chiedere il recupero dei diritti civili se già gli erano stati restituiti. ma non c’entra niente con la condanna a quattro anni di prigione. Vabbé, dirà Travaglio, non state tanto a sottilizzare…La seconda balla è quella della prescrizione. ‘Sta storia della prescrizione che scattava il primo agosto non si sa chi se l’è inventata. L’hanno ripetuta in un solenne e pomposo comunicato, l’altro giorno, anche quei geni dell’Anm (l’associazione delle correnti dei magistrati). Il primo agosto? Ma andatevi a vedere le carte e imparate a contare: la prescrizione (solo per una parte del processo e quindi senza estinguere il reato in nessun modo) sarebbe scattata solo per una parte dell’accusa – frode per l’anno 2002 – il 25 settembre. La corte competente sarebbe tornata in piena funzione il primo settembre e ci sarebbero stati 25 giorni per giudicare (la Corte feriale ha giudicato Berlusconi in 24 ore…). Poi ci sarebbe stato un altro anno di tempo per giudicare la presunta frode del 2003. Pensa tu… Capite come si fa giornalismo? Dico di più: come si fa giustizia visto che l’Anm, che spesso fa il copia incolla con gli articoli del Fatto, è caduta nello stesso errore, e l’Anm è una associazione non di idraulici ma di magistrati? (Del resto sono sicuro che gli idraulici prima di dire simili sciocchezze avrebbero controllato). Ora cosa può fare Travaglio per riparare al danno? La cosa più semplice del mondo: convochi il suo dipendente Antonio Esposito, editorialista del Fatto (che sarebbe, appunto, il Presidente della sezione della Cassazione che condannò Berlusconi) e lo interroghi in modo stringente. Si faccia dire da lui se le accuse sanguinose del suo collega Amedeo Franco fossero o no infondate. Gli chieda se per caso lui avesse mai avuto pregiudizi contro Berlusconi. Gli chieda anche di quella ipotesi di una decisione – la condanna – presa altrove e preconfezionata. Gli chieda cosa pensa di quella sentenza così ponderata e dettagliata presa dal tribunale civile e che scagiona Berlusconi. Chissà, magari qualcosa ne cava. Il giudice Esposito da parte sua ci ha scritto una bella lettera nella quale smentisce tutte le accuse del suo collega (non smentisce la sentenza del Tribunale civile che smonta la sua sentenza, ma questo non può farlo). Dice di essersi comportato solo rispondendo alla sua coscienza. Noi ne prendiamo atto, per carità. Però è giusto anche far conoscere ai lettori le parole del giudice Franco, no? Oppure bisogna dare un qualche credito solo ai giudici travaglini travaglini e un po’ davighisti?
P.S. Travaglio se la prende con Nicola Porro perché è dipendente di Berlusconi, e con Deborah Bergamini perché è la sua ex portavoce. Vabbé. Io faccio solo due osservazioni. La prima è che se una notizia è vera è vera. Non è che non vale perché la dice una persona che ci sta antipatica. Giusto? La seconda è questa. Se lo faccia dire da me, che non sono stato mai mai mai mai dipendente di Berlusconi: guarda, Marco, che sono pochi in Italia i giornalisti che non hanno preso lo stipendio da lui. Tu, per esempio, l’hai preso per tanti anni. Pensa se ogni volta che parlo di te dovessi scrivere: l’ex dipendente di Berlusconi Marco Travaglio… Dai, dai, non ti offendere: la mettiamo a ridere, vecchio reazionario!
Marco Travaglio, la foto di Berlusconi che piange e l'insulto nel titolo: l'ultima vergogna sul Fatto Quotidiano. Libero Quotidiano il 13 luglio 2020. Per comprendere l'ossessione che nutre Marco Travaglio nei confronti di Silvio Berlusconi - qualora qualcuno avesse ancora bisogno di comprendere tale ossessione, imbarazzante - basti pensare che oggi il direttore ha vergato un editoriale dal titolo: "Una vita da Caimano \ 4", ovvero parte quarta. Il quarto consecutivo. Articoli pieni zeppi di livore sul Fatto Quotidiano per cercare di depotenziare lo scandalo-magistratura relativo alla condanna nel processo Mediaset aperto dalle parole del giudice Amedeo Franco. Ma tant'è, oltre agli articoli vergati da Travaglio, ci sono anche le pagine del suo giornale. E a pagina 19 del Fatto Quotidiano di lunedì 13 luglio appare la porcheria che potete vedere qui sotto. Una paginona tutta dedicata al giorno della condanna, in cui si vede anche Berlusconi piangere. Ma a mettere i brividi è il titolo: "B. delinquente ufficiale e la piazza amica lo assolse". La prova provata di un'ossessione e un'inclinazione manettara, quella di Travaglio, che con discreta approssimazione non si risolverà mai.
Vittorio Feltri contro Marco Travaglio: "Lui un angelo e Nicola Porro un peto? Giù le mani..." Libero Quotidiano il 09 luglio 2020. Non nutro alcuna antipatia per Marco Travaglio, attuale direttore del Fatto Quotidiano. A mio modesto giudizio costui ha una eccellente scrittura seppure un po' pesante, molto diluita. Infarcisce la sua prosa di insulti rivolti agli avversari politici, e questo a me non disturba. Sono favorevole alla libertà di linguaggio e detesto i cretini che per fare i fighi hanno dichiarato guerra al vocabolario, ignorando che le parole nascono e si propagano ad opera del popolo. Ciò che è popolare è vitale e appartiene a tutti. Sono stupito di una cosa che vi segnalo senza spirito polemico e per amore di verità. Travaglio, in una recente disputa sulla condanna subita da Berlusconi per frode fiscale, si è scagliato contro Nicola Porro, conduttore di Quarta Repubblica, in onda su Rete 4, in quanto questi ha dato fiato a chi pensa, in base a una documentazione, che la sentenza in questione sia stata frutto di manovre giudiziarie alimentate da antipatia nei confronti del capo di Forza Italia. Vero o no che sia, importa poco. Non mi straccio le vesti. La disonestà è caratteristica diffusa nell'umanità e non risparmia né i magistrati né i geometri e neppure giornalisti di vario livello. Il punto non è questo. Non capisco però perché l'opinione di Porro debba essere liquidata come un peto, mentre quella di Travaglio sia considerata il canto di un angelo. Il quale Travaglio in tutto questo groviglio di idee contrapposte ha espresso un pensiero che somiglia ad un autogol. Ha detto che il televisivo Nicola sta dalla parte di Silvio poiché è un suo impiegato. In effetti, Porro oltre a lavorare per una emittente del Biscione è vicedirettore del Giornale che indegnamente ho diretto perfino io - aggiungo, con successo - e al quale per anni ha dato il proprio apporto anche Travaglio. Questi di conseguenza, a sua volta, è stato a lungo un dipendente di Berlusconi, dato che questi forniva mensilmente lo stipendio a lui oltre che allo stesso Montanelli per alcuni lustri. Nulla di male, ovvio, ma se non è assurdo che Travaglio sia stato un impiegato del Cavaliere perché mai dovrebbe essere scandalosa la circostanza che Porro lo sia tuttora? Come si evince da tale racconto, pure io sono stato al soldo di Silvio, tuttavia, a differenza di Marco, non me ne vergogno giacché grazie a questo grande editore sono diventato ricco nonostante gli attacchi insensati dell'Ordine dei Giornalisti che perseguita me, dal momento che non sono di sinistra, e lascia in pace te perché sei integrato nel mucchio selvaggio. Per favore, giù le mani da Porro, capace di fare bene il suo mestiere.
Marco Travaglio e la macchina del fango contro il giudice Amedeo Franco: torna l’anima di Farinacci. Piero Sansonetti su Il Riformista il 4 Luglio 2020. Certo è proprio un ciuccio: gli spieghi le cose, chiare chiare, poi gli dici: “ripeti”, e lui ripete tutto sbagliato. Sto parlando di Marco Travaglio, l’avete capito, no? C’è un argomento che proprio non gli entra in testa (nemmeno con le martellate, diceva il mio maestro in quinta): il Diritto. Magari è anche preparato in altre materie, tipo la biografia di Berlusconi, la storia della famiglia Renzi da nonno Giuseppetto in giù, le formazioni del Torino dal 1947 (anche quella con Dennis Law), ma di questioni giuridiche e giudiziarie, niente. Manette, manette, manette, e basta. Tutto il resto lo trova troppo complicato. Così l’altro giorno, con grande gentilezza, gli avevamo spiegato che non è vero che il primo agosto del 2013 sarebbe scattata la prescrizione e il processo a Berlusconi per frode fiscale sarebbe morto lì, e che per questo motivo i giudici della Cassazione si spicciarono e scelsero la sezione feriale, che non sapeva niente in argomento, invece della sezione competente. Beh, tutto questo non è vero: la prescrizione non sarebbe scattata il primo agosto. Lui niente. Ieri ha fatto tutta intera, o quasi, la prima pagina del suo giornale polemizzando con noi e ripetendo la sciocchezza. Il primo agosto, il primo agosto! E ha pure pubblicato la foto di un foglio di carta, che viene dalla Corte d’Appello di Milano, con scritto: “Urgentissimo, la prescrizione scatta il primo agosto”. Lo conoscevamo anche noi, Marco, quel documento, ma era sbagliato. Tu non ci crederai, ma nei Palazzi di Giustizia spesso si commettono degli errori. Pensa che ogni giorno entrano in carcere alcune centinaia di innocenti (cioè persone che poi saranno prosciolte o assolte). E nessuno ne risponde. E nessuno si stupisce. Quello di sbagliare una data è l’errore più piccolo e indolore che si possa commettere. A me due mesi fa – dai, ti faccio ridere un po’…- mi hanno convocato per l’udienza preliminare di un processo e hanno scritto nello spazio riservato alla data: giugno 2020 ore 9. Giugno? E che faccio, vengo alle 9 tutte le mattine? Quando il mio avvocato gliel’ha fatto notare hanno rinviato tutto di 16 mesi. Vabbè. Dunque, Marco, ora cerca di capire bene: quel documento che ti hanno dato conteneva un errore. Era una sòla, dicono qui a Roma. Dell’errore, la sezione feriale che ha giudicato Berlusconi, peraltro, ha preso atto a inizio seduta. Capito? La prescrizione scattava in parte (e cioè per la parte del reato che riguardava l’anno fiscale 2002) il 25 agosto. Per un’altra parte del processo (quella che riguardava il 2003) scattava il 25 settembre dell’anno successivo. C’era tutto il tempo per giudicare tranquillamente Berlusconi per frode nella sezione competente. Ed è molto, molto probabile che la sezione competente, che sapeva di cosa si stava parlando, l’avrebbe assolto, giungendo alla stessa conclusione alla quale è giunto qualche mese fa il tribunale civile di Milano. Il tribunale civile di Milano, Marco, non è un pericoloso covo di libertari o di garantisti: è un serissimo tribunale della Repubblica. È entrato nel merito della vicenda, ha esaminato documenti e testimonianze e ha accertato che non ci fu nessun reato né da parte di Agrama né da parte di Berlusconi. Ora la questione vera, per un giornalista giudiziario, sarebbe questa: l’errore nel fissare la data della prescrizione, che determinò l’assegnazione del processo alla sezione feriale e di conseguenza la condanna di Berlusconi, fu un “errore di sbaglio” (come dicevamo sempre in quinta) o fu un errore voluto? Qualche manina si inventò forse quella data per evitare un processo giusto? Io, che sono un tipo pochissimo sospettoso, non ci credo. Tu magari, che in genere ai sospetti credi parecchio…Insomma, lo avrai capito: per difenderti dall’accusa – che peraltro molto gentilmente ti avevamo mosso – di avere scritto due balle, ne hai scritta una terza. Del resto non è difficile intuire, dal tono che ha assunto il tuo giornale, che in queste ore sei un po’ in difficoltà. È normale. Ho visto che hai scritto un editoriale sapido riferendoti ad alcuni fatti recenti: del 1994. In sostanza sostieni questa tesi: sì, magari su ‘sto fatto di Berlusconi ed Esposito abbiamo scritto un po’ di fregnacce, però 25 anni fa anche Feltri e Sallusti scrissero delle cose inesatte… Beh, è un argomento forte. Dopodiché c’è il colpo del maestro. Il linciaggio del giudice Amedeo Franco. Il tentativo di trovare cadaveri nel suo armadio, di accusarlo di cose orribili senza che possa difendersi, di demolirlo moralmente con l’idea che se riesci a riempire ben bene di fango una persona poi le sue parole valgono meno. Fin qui ho scritto scherzando un po’, perché poi io sono convinto che in fondo in fondo Marco Travaglio non sia molto istruito ma sia in buona fede. Ora però smetto di scherzare. Il metodo di riempire di fango, è vero, è il metodo tipico di forcaioli e anche di molti Pm d’assalto. Però finora non si era superato un certo limite. Con Amedeo Franco accusato di aver fatto operare una sua amica al seno, e contro il quale non esiste l’ombra dell’ombra di una condanna, o di una prova, o altro, si è superato il limite di tutti i limiti. Una fascistata in piena regola. Manganello, olio di ricino e Fatto. Torna sempre la stessa anima del giornalista: Farinacci.
Affaire Berlusconi, la lapidazione post-mortem delle toghe contro Amedeo Franco. Gian Domenico Caiazza su Il Riformista il 4 Luglio 2020. Che un giudice di Cassazione, relatore ed estensore di una sentenza confermativa della condanna, abbia voluto insistentemente incontrare l’imputato, per dirgli quanto ingiusta fu la sentenza da lui stesso scritta (ed in verità inusitatamente vergata da tutti i componenti del Collegio in ogni sua pagina), è obiettivamente un fatto anomalo ed eccezionale. Sono dunque legittime, ed anzi doverose, cautela e prudenza nella valutazione di questa vicenda molto, molto particolare. Ma pretendere che questa anomalia debba essere valutata solo nel senso che quel giudice, che certo ora non può più chiarire, fosse sotto ricatto, o altrimenti corrotto, e non anche che abbia potuto raccontare una clamorosa verità, è tipico della più testarda autoreferenzialità che connota ormai da tempo la voce politica della magistratura italiana. Lasciamo perdere il circo Barnum politico-mediatico che scatta appena pronunci le prime lettere della parola “Berlusconi”: si tratta di un circuito politico-editoriale che ha costruito le sue fortune su ogni possibile forma di colpevolezza del Cavaliere, non potremmo aspettarci altro. Ma è davvero sorprendente come i vertici politici della magistratura italiana non siano capaci di comprendere ciò che questa vicenda -i cui esatti termini saranno valutati da chi è funzionalmente deputato a farlo- evidenzia già in modo inequivocabile. E cioè che questa storia di una vicenda giudiziaria pesantemente orientata alla eliminazione politica di un protagonista della vita pubblica, nessuno ancora sa se sia vera, ma siamo tutti, ma proprio tutti certi che sia almeno verosimile. Non c’è una sola persona di buon senso, sia tra gli addetti ai lavori che tra la gente comune che, ascoltata la voce (spregiudicatamente registrata) di quel giudice da tutti apprezzato e stimato, possa sinceramente trasecolare di fronte al quadro ed al contesto politico-giudiziario che il giudice Franco ha delineato, e dire: ma di quale assurda follia costui sta parlando? È ben ovvio che il Presidente e gli altri componenti quel Collegio rivendichino orgogliosamente la piena correttezza, indipendenza e libertà del proprio operato; ed anche che l’Anm difenda, fino a prova contraria, la onorabilità di quei giudici. Ma intanto, anche il giudice Amedeo Franco ha diritto a veder rispettata la sua persona ed il tormento che egli dichiara averlo portato a compiere un gesto così inusitato e grave, prima di essere crocefisso e lapidato post mortem. E soprattutto, dalla voce politica della magistratura associata ti aspetteresti almeno qualche riflessione in più, nella consapevolezza del generale sentimento di verosimiglianza che suscita quel racconto, in attesa che ne sia appurata con certezza la verità. Cioè una riflessione sullo stato della credibilità della giurisdizione agli occhi della pubblica opinione, con particolare riferimento alle sue due connotazioni fondamentali: l’indipendenza dalla politica, e l’indipendenza della magistratura giudicante dalla magistratura inquirente (che è poi, se andiamo a stringere, il caso che ci occupa). Mi chiedo a chi possa essere utile ignorare con tanta iattanza la diffusa ed anzi crescente sfiducia della pubblica opinione, confermata senza eccezioni da ogni possibile sondaggio, nella tenuta di questi due requisiti fondativi della credibilità della giurisdizione. E invece, la presa di posizione inutilmente tonitruante di Anm sulla vicenda sembra né più né meno che la premessa in fatto delle querele già legittimamente annunciate dal Presidente di quel Collegio. Atteggiamento ancora più allarmante, viste le acque procellose nelle quali già da tempo naviga la magistratura italiana, e dalle quali non credo potrà trarsi in salvo né riducendo la cosiddetta “vicenda Palamara” ad un fenomeno di scarsa etica professionale di un gruppetto di magistrati deviati, né adoperandosi per quella che già si annuncia come la più gattopardesca ed inutile delle riforme ordinamentali. Naturalmente, non occorre per forza pensarla come noi penalisti. Noi, lo sapete, siamo persuasi che l’indipendenza politica e culturale della giurisdizione non possa e non debba essere rimessa né alle virtù etiche e professionali del singolo magistrato, né alla fantomatica “cultura della giurisdizione” (che è poi il minimo sindacale che devi pretendere da un magistrato). Quanto sia illusoria questa strada è oggi sotto gli occhi di tutti. Noi pensiamo che quella indipendenza debba essere scritta negli assetti ordinamentali: indipendenza della Magistratura dal potere esecutivo, indipendenza del Giudice dagli Uffici di Procura. Non siete d’accordo? Proponete delle alternative serie con le quali confrontarsi, ma abbandonate una volta per tutte abiure e faziosità, e soprattutto aprite gli occhi sulla realtà, ascoltate cosa pensa di voi la pubblica opinione, anche in parte ingiustamente ed ingenerosamente, come sempre accade tuttavia nel giudizio popolare. A noi sta a cuore la credibilità della giurisdizione almeno quanto sta a cuore a voi. Vogliamo che il nostro giudice non solo sia indipendente dalla Politica e dal peso condizionante della Pubblica Accusa, ma che soprattutto lo appaia, restandone garantito ed anzi blindato dall’assetto ordinamentale, perché nessuno possa mai dubitarne. La voce registrata del giudice Amedeo Franco racconta fatti la cui veridicità dovrà necessariamente essere accertata: ma se pensate che basti un fiume di indignazione e di ostentato stupore a renderla inverosimile, ho davvero l’impressione che stiate da tempo -come si suol dire- guardando un altro film.
Golpe contro il Cav, ira delle toghe "smascherate": adesso "processano" Franco. I giudici della Suprema Corte provano a difendersi dalle accuse: "Tutto è avvenuto nel pieno rispetto del giudice naturale precostituito per legge". Michele Di Lollo, Martedì 30/06/2020 su Il Giornale. I giudici provano a difendersi. Lo scoop de Il Riformista ha fatto rumore: Silvio Berlusconi vittima di un golpe giudiziario. E ora ci sono le prove. Nella serata di ieri, lunedì, sono state rese note le intercettazioni. Il direttore del quotidiano, Piero Sansonetti, ha partecipato alla puntata di Quarta Repubblica, che ha mandato in onda un servizio in cui il magistrato, Amedeo Franco, ora scomparso, diceva: "Berlusconi deve essere condannato a priori perché è un mascalzone! Questa è la realtà, a mio parere è stato trattato ingiustamente e ha subito una grave ingiustizia. L’impressione che tutta questa vicenda sia stata guidata dall’alto". Boom. Un rumore assordante, come un albero millenario che cade durante una tempesta. Il centrodestra unito ha gridato allo scandalo con Forza Italia impegnata in primo piano per richiedere la configurazione di una commissione parlamentare d’inchiesta su questi fatti. Ora, a quasi 24 ore, arrivano le scuse o meglio la difesa della Corte di Cassazione, protagonista nell’estate del 2013, della sentenza di condanna a Berlusconi per frode fiscale. "La motivazione della sentenza è stata sottoscritta da tutti e cinque i magistrati componenti del collegio, quali co-estensori della decisione", precisa in una nota la Cassazione, ripercorrendo le tappe del processo Mediaset, che nel 2013 si concluse con la condanna a quattro anni all’ex presidente del Consiglio. "Non risulta che il consigliere Amedeo Franco abbia formalizzato alcuna nota di dissenso". L’assegnazione del fascicolo del processo Mediaset alla sezione feriale avvenne nel pieno rispetto del giudice naturale precostituito per legge. "I ricorsi - si legge nella nota della Suprema Corte - vennero iscritti presso la cancelleria centrale della Corte il 9.7.2013, dopo l’arrivo del relativo carteggio dalla Corte di appello di Milano che in data 8.5.2013 aveva pronunciato la sentenza oggetto di impugnazione". Quindi, "in ragione della rilevata urgenza dovuta all’imminente scadenza del termine di prescrizione dei reati durante il periodo feriale - ricorda la Corte - il processo, in ossequio alle previsioni di cui alla legge n. 742 del 1969 e alle relative previsioni tabellari, venne assegnato alla sezione feriale. E quindi a un collegio già costituito in data anteriore all’arrivo del fascicolo alla Corte di Cassazione". Interviene sul punto anche l’Anm. I magistrati fanno quadrato. "Affermazioni gravissime che non soltanto attribuiscono gravi reati ai giudici autori della sentenza, ma attaccano violentemente e irresponsabilmente la Suprema Corte di Cassazione, pilastro della giurisdizione della Repubblica, e l’intero ordine giudiziario, accreditato come gruppo che opera fuori dalla legalita". La Giunta dell’Anm parla degli articoli di stampa e servizi televisivi che "hanno oggi fornito all’opinione pubblica una ricostruzione della vicenda processuale, sfociata nella condanna dell’allora senatore Berlusconi, basata su gravi e plurime distorsioni di dati di fatto, oltre che sull’utilizzo della registrazione delle presunte dichiarazioni di un ex magistrato, nel frattempo deceduto". "Alterando evidenti dati della realtà (la prescrizione era imminente, dal che l’assegnazione del processo alla sezione feriale. La decisione fu unanime e sottoscritta anche dal giudice poi intervistato, come risulta dal comunicato della Corte) - osservano i vertici dell’Anm - si attribuisce alla Corte di Cassazione e alla Magistratura intera un preordinato disegno di persecuzione di un imputato, disegno coerente con ordini superiori, individuati da taluno, in modo del tutto arbitrario, nella regia di componenti del Csm". Secondo il sindacato delle toghe, "si commenta da sé un tale metodo, che trascina nella contesa politico-mediatica una persona che non potrà smentire, precisare, spiegare tali pretese dichiarazioni, pur risultando il suo contributo processuale all'adozione della decisione e persino alla sua motivazione, da giudice esperto della materia oggetto del processo". I togati esprimono profonda vicinanza ai colleghi della Corte di Cassazione e respingono con fermezza attacchi che, ben lontani dall’essere legittime critiche a decisioni giudiziarie, muovono da un evidente intento di delegittimazione della giurisdizione. Poi continuano: "Il parallelismo col cosiddetto caso Palamara, che non ha evidenziato alcun uso strumentale della giurisdizione, bensì il diverso fenomeno delle indebite interferenze della politica, parlamentare ed associativa, nell’attività consiliare, è del tutto improprio. E risponde alla logica di travolgere ogni vicenda processuale da una generica accusa di parzialità del giudice, sempre più ricorrente in questi giorni proprio sulla base di analoghe, faziose operazioni mediatiche". Una macchinazione ordita per allontanare il Cav dal Parlamento? Ora arriva la difesa della Cassazione e "l'arrocco" dell'Anm. Ma le parole di Franco pesano come un macigno sulla credibilità di una parte della Giustizia. 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Silvio Berlusconi, Ernesto Lupo: "Franco provò a dirmelo, ma cambiai discorso. E su Napolitano..." Libero Quotidiano il 02 luglio 2020. Nella registrazione della conversazione tra Silvio Berlusconi e Amedeo Franco, il giudice sosteneva che anche l’allora presidente Giorgio Napolitano aveva definito la sentenza Mediaset “una porcheria”. “Con me non ha mai usato quel termine - svela al Corriere della Sera Ernesto Lupo, che dal 2010 al 2013 è stato presidente della Cassazione -. Franco diceva che stava male per le polemiche sulla decisione. Comunque con il presidente (del quale era consigliere per gli affari di giustizia, ndr) non abbiamo mai parlato della sentenza. Seguivamo quello che succedeva. Era un fatto politico importante”. Lupo chiarisce anche il passaggio dell’audio che lo riguarda, quello in cui Franco riferisce a Berlusconi che tentò di dire che la sentenza era una “porcheria” anche a Lupo, il quale però lasciò cadere: “Sì, ma c’è un motivo - spiega l’ex presidente della Cassazione - la camera di consiglio è segreta. Sarebbe stata una scorrettezza grave per lui violare quel segreto e anche per me se lo avessi indotto a farlo. E la mia correttezza è famosa. Per questo cambiavo argomento e tornavo sul motivo delle chiamate ripetute: la sua promozione”. Secondo Lupo, il giudice Franco telefonava infatti per lamentarsi del fatto che “il Csm non voleva promuoverlo presidente di sezione e chiedeva a me, che avevo lavorato con lui per 5 anni, di testimoniare che era tecnicamente preparato”.
Audio Berlusconi, Lupo: «Sì, il giudice Franco provò a parlarmi della sentenza. Ma lo fermai». Virginia Piccolillo l'1 luglio 2020 su Il Corriere della Sera. Parla l’ex primo presidente di Cassazione: ma se Franco era in disaccordo poteva non firmare. «Si aspetta la morte di una persona per tirar fuori sue dichiarazioni di cui non potrà più rendere conto. Siamo all’inciviltà più totale». Ernesto Lupo, 82 anni, fu primo presidente della Cassazione dal 2010 al 12 maggio 2013. Tre mesi prima che Silvio Berlusconi venisse condannato dalla Suprema Corte per frode fiscale, andò in pensione. Nel giugno il presidente Giorgio Napolitano lo volle consigliere per gli Affari di Giustizia. Era al Quirinale quando Amedeo Franco, relatore pentito della sentenza Mediaset, non sapendo di essere registrato dallo staff di Berlusconi si lamentò col Cavaliere della sentenza «porcheria» e del collega, al Quirinale, che non aveva voluto ascoltare il suo turbamento. Ed è «molto seccato».
Di cosa?
«Mi trovo in seria difficoltà. Perché non posso dire nulla».
Perché?
«Perché Amedeo Franco è morto. E non posso più fornire il riscontro a ciò che dico».
Ma è vero che Franco la chiamò per lamentarsi della «condanna a priori»?
«Telefonava per tutt’altro».
Ovvero?
«Si lamentava che il Csm non voleva promuoverlo presidente di sezione e chiedeva a me, che avevo lavorato con lui per 5 anni, di testimoniare che era tecnicamente preparato».
E lo era?
«Molto. Lavorava tanto e bene. Era preciso, pignolo».
Nella registrazione si sente invece Franco riferire a Berlusconi che tentò di dirle che la sentenza era una «porcheria», ma lei lasciò cadere. È così?
«Sì. Ma c’è un motivo».
Quale?
«La camera di consiglio è segreta. Sarebbe stata una scorrettezza grave per lui violare quel segreto e anche per me se lo avessi indotto a farlo. E la mia correttezza è famosa. Per questo cambiavo argomento e tornavo sul motivo delle chiamate ripetute: la sua promozione. Non per sviare».
Assegnò lei il processo alla sezione feriale?
«No, avevo già lasciato il mio posto a Santacroce».
Si meravigliò di quella scelta che secondo Franco fu voluta «dall’alto» per sottrarre Berlusconi al suo giudice, la terza sezione penale?
«No,i processi per cui la prescrizione è imminente si assegnano sempre alla sezione feriale».
Ma non è affidata agli ultimi arrivati, «ragazzini», come diceva Franco?
«Dipende. Cambia di anno in anno. Può essere che in quell’anno lo fosse. Io avevo lasciato e non sono in grado di dire chi vi partecipasse».
Non fu lei a suggerirlo, come sostiene Berlusconi in quel colloquio?
«Addirittura? (ride) Questa è davvero è una barzelletta! E come? A maggio, quando ci fu l’assegnazione, ero a casa pensionato. Non avevo più contatti. Non avevo neanche un ufficio. Al Quirinale venni chiamato a giugno».
Franco ipotizza che fu «riaperto tutto e cambiata la sentenza». È possibile?
«Che significa? Il collegio si riunisce lì e decide. Dovrei sentire esattamente il testo. Ma se lui non era d’accordo avrebbe potuto non firmare la sentenza».
Dice anche che il presidente Napolitano sapeva che quella sentenza era «una porcheria». È così?
«Con me non ha mai usato quel termine. Franco diceva che stava male per le polemiche sulla decisione. Comunque con il Presidente non abbiamo mai parlato della sentenza. Seguivamo quello che succedeva. Era un fatto politico importante. Poi il professor Coppi mi telefonò per parlare della possibilità di Grazia e della sua procedura. Dissi che bisognava esaminare la domanda. Non mi ricordo nemmeno se fu presentata».
C’è chi ritiene il colloquio con Berlusconi un’anomalia. Lei?
«E certo! Non è che il giudice parla con l’imputato, sia pure dopo la sentenza, e dice che quella che ha firmato è una schifezza. Se Franco fosse vivo io per primo lo interpellerei su questo. Invece mi è impedito dalla tardività delle rivelazioni. Una cosa veramente assurda».
Antonio Esposito e le sentenze pilotate contro Berlusconi: "Il vero fatto grave è che il giudice Amedeo Franco abbia parlato con lui". Libero Quotidiano l'1 luglio 2020. Smentisce tutto, Antonio Esposito, e minaccia querele. Sceglie ovviamente il Fatto quotidiano, di cui è editorialista, per difendersi. Il giudice di Cassazione che condannò Silvio Berlusconi per frode fiscale nel 2013 nel processo Mediaset Agrama è tirato pesantemente in ballo dal collega Amedeo Franco, morto nel 2019: Franco nel 2013 era relatore, Esposito il presidente di sezione, e quella sentenza sarebbe stata "pilotata dall'alto". Il Cav "incastrato", insomma, da toghe e politica, con Esposito "pressato" perché nel frattempo suo figlio era invischiato in una storia di droga. "Falso. Mio figlio non è mai stato coinvolto in storie di droga. E io non sono stato 'pressato' da nessuno. Se Franco è giunto al punto di inventarsi una circostanza mia avvenuta, di fronte al soggetto che lui stesso aveva condannato, è lecito chiedersi il perché", spiega Esposito rovesciando le accuse su Franco, la cui intercettazione ambientale (pubblicata dal Riformista) risale proprio al 2013, quando decise di sfogarsi e sgravarsi la coscienza per quello "schifo" proprio con Berlusconi, alla presenza di testimoni. "Chiariamo subito un fatto: la decisione di confermare la sentenza d'appello è stata presa da un collegio di cinque giudici. Il collega Amedeo Franco era il giudice relatore e, come tutti noi, non solo ha discusso il caso, ha accettato la sentenza di cui è stato anche estensore insieme agli altri componenti, e ne ha anche approvato la motivazione, in tutte le sue parti, firmando ogni pagina - sottolinea Esposito -. A distanza di sette anni si continua a provare a delegittimare una sentenza passata in giudicato, dopo che 11 magistrati hanno convenuto sulla responsabilità di Berlusconi, prendendomi di mira in quanto presidente del collegio. Io invece mi chiedo perché il relatore senta il bisogno di incontrare il suo imputato per giustificarsi dell'esito del processo. Ritengo che sia questo il vero fatto gravissimo e inquietante di tutta la vicenda. E mi devo chiedere: dove avvenne quell'incontro, o quegli incontri? Quando? In che circostanze? Da chi fu sollecitato?". Quella registrazione "potrebbe anche essere stata concordata; una cosa è certa: che si è aspettato la sua morte per divulgare il contenuto della registrazione, rendendo impossibile contestare al giudice Franco la falsità delle affermazioni".
Sentenza Berlusconi, attacco frontale dell’Anm al Riformista: “Solo noi possiamo distribuire intercettazioni”. Piero Sansonetti su Il Riformista l'1 Luglio 2020. Ho sentito centinaia di volte, centinaia di politici, inquisiti, ripetere la stessa frase: «Ho piena fiducia nella magistratura». Beh, spero di non doverla più sentire. È una frase insensata. Insensata da sempre, secondo me; sicuramente da quando è scoppiato il caso Palamara e ancor più sicuramente ora che si è saputo che la sentenza di condanna di Silvio Berlusconi del 2013 era una sentenza sbagliata e forse pilotata. Perché mai qualcuno dovrebbe avere piena fiducia nella magistratura organizzata per correnti, dove i Procuratori sono scelti non per meriti ma per appartenenza a correnti e camarille, dove il potere dei Pm sui magistrati giudicanti è quasi assoluto, dove le sentenze rispondono a criteri lontanissimi da quello dell’accertamento della verità. Perché qualcuno dovrebbe avere fiducia in una magistratura che funziona così? Al massimo una persona inquisita potrebbe dichiarare: «Ho una certa speranza di capitare nelle mani di qualche giudice onesto». Esistono i giudici onesti, non c’è dubbio. Persino esistono i Pm onesti. Purtroppo non sono tantissimi, e auguro a chiunque dovesse finire sotto processo (compreso me stesso che son stato processato e lo sarò di nuovo almeno altre tre volte su querela di magistrati famosi) di trovare uno di questi giudici o Pm. Mi ricordo quella famosa frase pronunciata da Enzo Tortora a conclusione del processo d’appello contro di lui. Disse, rivolto alla Corte: «Io sono innocente, spero dal profondo del cuore che lo siate anche voi». Ebbe fortuna, Tortora: i giudici erano innocenti e non avevano niente a che fare coi giudici istruttori e i Pm che lo avevano perseguitato (non perseguito: perseguitato). Fu assolto. Ieri sera l’Anm ha diffuso un comunicato di attacco frontale alla stampa indipendente. In particolare, credo, al Riformista. Non ha importanza se l’Anm è una associazione, probabilmente illegale, che riunisce correnti e gruppi di potere che, violando tutti i giorni la Costituzione, si spartiscono Procure e Tribunali. Voglio rispondere lo stesso a questo comunicato. Prima accusa dell’Anm: «Utilizzo della registrazione delle presunte dichiarazioni di un ex magistrato nel frattempo deceduto». Viene un po’ da ridere. L’Anm, che è l’associazione dei magistrati che da trent’anni, in modo illegale, distribuiscono brandelli di intercettazioni ai giornalisti, impedendo qualunque verifica, spiegazione, interpretazione, risposta, si indigna perché vengono pubblicate – legittimissimamente – le registrazioni di un colloquio tra un ex imputato e un giudice indignato. Bisogna veramente avere la faccia come…beh, lasciamo stare. Seconda accusa: «Alterando evidenti dati di realtà (la prescrizione era imminente, dal che l’assegnazione del processo alla sezione feriale)». Innanzitutto è una pura menzogna. La prescrizione sarebbe scattata dopo 55 giorni per una parte del reato e dopo un anno e 55 giorni per un’altra parte. Si poteva tranquillamente aspettare settembre. L’Anm dà nel suo comunicato una notizia non vera. Forse perché sono ignoranti, forse perché vogliono esserlo. Non è una bella cosa. In secondo luogo vorrei capire questo: se c’è una prescrizione imminente lo Stato di Diritto suggerisce il processo sommario? Il principio “pro reo”, che vige da un po’ meno di 2500 anni, è scomparso da quando esistono le correnti nella magistratura? Terza accusa: «Si attribuisce alla Corte di Cassazione e alla Magistratura intera un preordinato disegno di persecuzione di un imputato». Falso. È evidente che il disegno di persecuzione viene attribuito a un pezzetto di magistratura. E a un pezzetto della Cassazione. Tanto è vero che si protesta per l’assegnazione del processo a una sezione non competente. Tutti immaginano che se fosse stata assegnata a una sezione competente, cioè al giudice naturale, la sentenza sarebbe stata di assoluzione. La sentenza della Cassazione è arrivata due mesi e mezzo dopo la sentenza di appello. Questo tempo è in media con i tempi delle sentenze di Cassazione? Di solito passano meno di due mesi tra appello e Cassazione? Poi ci sono altre due contestazioni, nel comunicato dei Pm. La prima è la condanna dell’attacco «violento e irresponsabile alla Suprema Corte di Cassazione, pilastro della giurisdizione della Repubblica». Il secondo è la negazione di un collegamento tra questo caso e il caso Palamara che – secondo l’Anm – riguarderebbe solo le relazioni improprie tra pochi magistrati e politica. E così apprendiamo che dire «apriremo il Parlamento come una scatola di tonno» non è una cosa grave, perché il Parlamento non è un pilastro della Repubblica ma anzi – come pensa, credo, l’ex capo Anm Davigo, una accolita di ladri che l’hanno fatta franca. La Cassazione invece è incriticabile. Come era anche il governo ai tempi di Mussolini. E quindi immaginiamo, è stato molto grave, appena un anno fa, chiedere le dimissioni del Procuratore generale coinvolto – appunto – nel caso Palamara. Fu un atto eversivo, se capisco bene. E apprendiamo anche che il caso Palamara è importante solo perché qualcuno aveva parlato con Lotti, mentre il fatto, per esempio, che si barattassero le nomine dei Procuratori e che Pm e giudici – magari nello stesso processo – andassero a cena insieme, è un fatto di nessuna rilevanza. Gran parte del comunicato dell’Anm sembra copiato dall’articolo pubblicato dal Fatto online, che interviene giustamente a difesa del suo editorialista, cioè del giudice Esposito (non ci credete? Beh, invece è così: il giudice che ha condannato Berlusconi è un editorialista del Fatto Quotidiano. Una roba tipo Corea del Nord…).
Nicola Porro contro Repubblica: "Neppure una riga sull'audio del magistrato su Berlusconi". Libero Quotidiano l'1 luglio 2020. Nicola Porro nella sua Zuppa di Porro affronta le reazioni dell’opinione pubblica sul caso di Silvio Berlusconi. Condannato nel 2013 per frode fiscale, il Cav a distanza di sette anni viene scagionato dal magistrato Franco, che in una registrazione audio parla di “plotone d’esecuzione” nonostante fosse stato proprio lui a scrivere la sentenza contro l’ex premier. Porro si sofferma soprattutto sulla reazione de La Repubblica: “È stata il vero partito che ha condannato Berlusconi dal punto di vista mediatico, ma in prima pagina ha trovato lo spazio per il Cirque du Soleil in bancarotta ma non ha dedicato neanche una riga al fatto che un magistrato ha detto che la sentenza Mediaset è stata un plotone d’esecuzione. Eppure - chiosa Porro - è un giornale di politica…”. Il giornalista di Rete 4 punta il dito anche contro Marco Travaglio, definito il portavoce di Conte, del M5s e del ministro della Giustizia: “Non può che dileggiare i giornalisti che hanno fatto lo scoop, sono nella sua lista dei totalmente inattendibili”.
Sentenza Berlusconi pilotata, analisi social dello scoop del Riformista. Redazione su Il Riformista il 1 Luglio 2020. Il Riformista è stato protagonista del dibattito social degli ultimi giorni grazie allo scoop sulla sentenza che condannò Berlusconi per evasione fiscale che trae origine dalla registrazione del magistrato Amedeo Franco nella quale parlava di una sentenza già scritta in anticipo. In un momento dove è emerso lo scandalo di Magistratopoli, la notizia del complotto di alcuni magistrati ordita ai danni del fondatore di Forza Italia ha dell’incredibile. L’audio del giudice Amedeo Franco, diffuso dal direttore Piero Sansonetti, è oramai di dominio pubblico e sono tante le polemiche sfociate dopo l’intervento del direttore del Riformista nella trasmissione Quarta Repubblica di Nicola Porro. Ed ecco, come rilevato dal data journalist Livio Varriale, che si è acceso il dibattito su Twitter e ha generato in un solo giorno 8.500 tweets circa con 95.997 like, 26.396 condivisioni, 13.278 risposte e 2.168 citazioni di tweets. Un numero impegnativo se consideriamo che l’analisi è stata svolta dalle 21 del 30 giugno fino alle 12 del 1 luglio sulle seguenti parole chiave: Quarta Repubblica, Riformista, Sansonetti e Berlusconi. A regnare nella classifica dei consensi con il numero di like raccolti dal pubblico figurano Matteo Salvini, Quarta Repubblica, Guido Crosetto, Vittorio Feltri, Daniele Capezzone e Piero Sansonetti. Da notare come la ‘stampa di destra’ sia stata notevolmente impegnata nel diffondere la notizia, ma quello che sorprende è l’unica presenza nella top 20 di un politico di Forza Italia e precisamente Antonio Tajani.
Gli Argomenti più discussi. Nella classifica degli argomenti più utilizzati per monitorare la vicenda figurano in testa #quartarepubblica che ha dato la notizia con ospite il direttore Sansonetti, #berlusconi #salvini #drittorovescio che si è inserita nel dibattito il giorno dopo e #magistratura. L’hashtag veritaperberlusconi ha raccolto più citazioni della stessa forzaitalia.
Menzioni. I profili più menzionati nel dibattito pubblico sulla sentenza di condanna per Berlusconi sono stati quello di Quarta Repubblica, Berlusconi, Salvini, Porro e Capezzone con al seguito Giorgia Meloni, Forza Italia e Piero Sansonetti.
I più commentati. Ad aver ricevuto più commenti di tutti troviamo Quarta Repubblica, Guido Crosetto e Piero Sansonetti. La presenza del Fatto Quotidiano in quinta posizione dopo Salvini, fa comprendere che i commenti ricevuti dal giornale di Travaglio non sono stati molto teneri. Antonio Tajani e Nicola Porro precedono Silvio Berlusconi.
I più condivisi. Nella classifica dei più condivisi dal pubblico troviamo Guido Crosetto, Matteo Salvini e Piero Sansonetti. Presente anche il Riformista e figura anche Giulio Occhionero autore di battaglie personali che viaggiano parallelamente con Magistratopoli per via dell’inchiesta Eye Pyramid che l’ha coinvolto con una condanna in primo grado ed ha generato una serie di ricorsi contro molti PM chiacchierati nello scandalo Palamara.
Le città più connesse. Le città italiane più attive nel commentare la notizia sono state Roma, Milano, Torino e Como. Taranto è la prima città del sud a cui segue più in basso Napoli.
Sentenza Berlusconi pilotata: Pd tace, Iv chiede chiarezza. M5S in imbarazzo. Angela Stella su Il Riformista l'1 Luglio 2020. Il giorno dopo lo scoop del nostro giornale sull’audio del magistrato Amedeo Franco, relatore in Cassazione nel processo Mediaset nel quale Silvio Berlusconi fu condannato nel 2013, non si sono lasciate attendere numerose reazioni politiche, soprattutto del centro-destra; mentre gli unici a farsi sentire nella maggioranza del Conte bis sono stati quelli di Italia Viva. Forza Italia ha ovviamente intrapreso ieri un’iniziativa forte, chiedendo nel corso di una conferenza stampa al Senato l’istituzione di una commissione d’inchiesta parlamentare. «Chiediamo – ha affermato il vicepresidente del partito Antonio Tajani – che ci sia una commissione parlamentare di inchiesta per accertare tutte le disfunzioni del sistema giudiziario nel nostro Paese, compresa la vicenda che ha portato alla condanna di Berlusconi. Vorremmo sapere – ha continuato – chi è che ha pilotato questa sentenza. Una sentenza che ha provocato danni enormi al Paese e alla democrazia, ha condannato di fatto un innocente. È stato un vero e proprio colpo di Stato giudiziario». Ha parlato invece di golpe l’onorevole di FI Stefania Prestigiacomo: «Solo adesso, dopo sette anni, emerge finalmente la verità che noi di Forza Italia abbiamo gridato e siamo stati accusati di essere eversivi perché denunciavamo una strategia politico-giudiziaria contro Berlusconi. Ai danni del presidente Berlusconi e delle istituzioni del nostro Paese è stato ordito un golpe». Intanto da ieri sui social i forzisti stanno spingendo gli hashtag #veritaperBerlusconi e #nousopoliticogiustizia dopo che in Aula della Camera avevano issato dei cartelli in solidarietà al loro leader politico, portando alla breve sospensione della seduta. Per la capogruppo di FI al Senato Anna Maria Bernini, «Berlusconi dovrebbe essere subito nominato senatore a vita, e non basterebbe come risarcimento. Berlusconi è un gigante, sarebbe una parte di riabilitazione che gli è dovuta». Per l’onorevole di FI Mara Carfagna, vicepresidente della Camera, «adesso è necessario che emerga tutta la verità per tutelare il giudizio storico sulla persona e su un leader politico che ha dato tanto al Paese, ma anche tutti i cittadini che hanno a che fare con la giustizia e i tanti magistrati che compiono il loro dovere in maniera integerrima». All’indignazione del gruppo dirigente azzurro si è aggiunta quella della leader di Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni, per la quale «quello che è stato documentato da Quarta Repubblica sulla sentenza di condanna di Silvio Berlusconi è l’ennesima prova che in Italia esiste un pezzo di magistratura che fa politica e attacca avversari politici, invece di cercare la giustizia e dare risposte ai cittadini. Fa rabbrividire – ha proseguito – l’idea che la legge non sia uguale per tutti e che ci siano giudici che utilizzino il loro potere per colpire qualcuno”. Per il leader leghista Matteo Salvini «dopo le intercettazioni di Palamara contro il sottoscritto, spunta un altro audio di un magistrato che ammette l’uso politico della Giustizia: solidarietà a Silvio Berlusconi per il processo farsa di cui è stato vittima. È l’ennesimo episodio che ci ricorda la necessità di una riforma profonda». Ma perplessità e preoccupazioni rispetto alla vicenda sono state partecipate anche se con cautela dal leader di Italia Viva Matteo Renzi, da tempo in pressing sul governo per una riforma della giustizia, soprattutto dopo la vicenda Palamara: «Non so quanto ci sia di vero in ciò che è uscito a Quarta Repubblica: un magistrato della Cassazione che ha firmato quella sentenza espone dubbi molto forti sulla fondatezza giuridica di quella decisione. Non so dove sia la verità ma so che un Paese serio su una vicenda del genere – legata a un ex Presidente del Consiglio – non può far finta di nulla. Non ho mai appoggiato i Governi Berlusconi e Berlusconi non ha mai votato la fiducia al Governo Renzi (a differenza di altri governi anche di centrosinistra): quindi, per me Berlusconi è un avversario politico. Ma, proprio per questo, è doveroso fare chiarezza su ciò che esce dagli audio di quella trasmissione e nessuno può permettersi il lusso di far finta di niente». Un lusso che sembra si stiano concedendo quelli del Partito democratico e del Movimento 5 Stelle che hanno deciso di tacere su una questione così spinosa, almeno fino al momento in cui chiudiamo questo giornale. Invece Roberto Giachetti ha annunciato che firmerà “a titolo personale” la proposta di legge di Forza Italia per l’istituzione di una Commissione di inchiesta sull’uso politico della giustizia negli ultimi 25 anni. D’accordo sulla commissione di inchiesta anche il gruppo Cambiamo! con Toti, Benigni, Gagliardi, Pedrazzini, Sorte e Silli che in una nota scrivono: «Ora è il momento di sapere se la giustizia è sempre stata ligia alle regole o ha deviato per interessi differenti. Siamo d’accordo sulla costituzione di una commissione d’inchiesta parlamentare che faccia luce sulle ombre di quanto accaduto negli ultimi decenni, chi ha sbagliato risponda per gli errori commessi: è l’occasione per una riforma del sistema giudiziario che il Paese aspetta da anni». «Sono sempre stato sorpreso da quella sentenza. Una decisione che andava contro la giurisprudenza» è stato invece il commento dell’avvocato Franco Coppi, uno dei difensori di Silvio Berlusconi.
Il complotto contro Berlusconi e il silenzio colpevole di 5s e Pd. Il governo giallorosso, con l'eccezione di Italia Viva, tace sul golpe giudiziario del 2013 contro Silvio Berlusconi. Perché? Alberto Giorgi, Martedì 30/06/2020 su Il Giornale. Nel giorno in cui scoppia e fa tanto rumore il caso politico e giudiziario dell’audio del magistrato Amedeo Franco, relatore in Cassazione nel processo Mediaset nel quale Silvio Berlusconi fu condannato nel 2013 – condanna che sancì in seguito nel suo allontanamento dal Parlamento – stride il silenzio del governo giallorosso. Già, perché la maggioranza del Conte-bis, eccezion fatta per Italia Viva, non commenta quella che è una vicenda spinosissima, che merita di essere approfondita. Forza Italia quest’oggi ha protestato veementemente, sia con uno striscione in aula, sia con una conferenza stampa degli esponenti di punta del partito: Antonio Tajani, Anna Maria Bernini e Mariastella Gelmini, infatti, hanno invocato una commissione d’inchiesta parlamentare per fare lumi sul caso. Un caso che non può ora finire in soffitta. Il centrodestra si è stretto attorno al Cavaliere e sia Fratelli d’Italia e la Lega hanno espresso solidarietà all’ex tre volte premier, gridando allo scandalo. E non può essere definito altrimenti il contenuto dell’intercettazione ambientale del togato, portata a galla da Il Riformista di Piero Sansonetti e rilanciata da Quarta Repubblica. "Berlusconi deve essere condannato a priori perché è un mascalzone! Questa è la realtà, a mio parere è stato trattato ingiustamente e ha subito una grave ingiustizia. L’impressione che tutta questa vicenda sia stata guidata dall’alto. In effetti hanno fatto una porcheria perché che senso ha mandarla alla sezione feriale? Voglio per sgravarmi la coscienza, perché mi porto questo peso, ci continuo a pensare. Non mi libero. Io gli stavo dicendo che la sentenza faceva schifo", diceva il magistrato. Ecco, a quanto pare per i giallorossi tali parole non meritano neanche un commento. Infatti l’unico che ha commentato il fattaccio è stato per il momento Matteo Renzi. Luigi Di Maio? Vito Crimi? Nicola Zingaretti? Niente di niente, da Movimento 5 Stelle e Partito Democratico, neanche una parola. Perché? "Ieri Nicola Porro ha trasmesso uno scoop sul processo a Berlusconi. Non so quanto ci sia di vero in ciò che ieri è uscito a Quarta Repubblica: un magistrato della Cassazione che ha firmato quella sentenza espone dubbi molto forti sulla fondatezza giuridica di quella decisione. Non so dove sia la verità ma so che un Paese serio su una vicenda del genere - legata a un ex Presidente del Consiglio - non può far finta di nulla", invece le parole del leader di Italia Viva, che ha infine concluso: "Non ho mai appoggiato i Governi Berlusconi e Berlusconi non ha mai votato la fiducia al Governo Renzi (a differenza di altri governi anche di centrosinistra): quindi, per me Berlusconi è un avversario politico. Ma, proprio per questo, è doveroso fare chiarezza su ciò che esce dagli audio di quella trasmissione e nessuno può permettersi il lusso di far finta di niente".
Quando Di Battista voleva il sangue di Berlusconi. Deborah Bergamini su Il Riformista il 2 Luglio 2020. «La storia è la memoria di un popolo, e senza una memoria, l’uomo è ridotto al rango di animale inferiore”, disse Malcolm X. Ebbene rinfrescarla è un dovere per contrastare chi la Storia vorrebbe ribaltarla». Queste sono le premesse con cui il passionario grillino, Alessandro Di Battista, introduce una serie di accuse infamanti ai danni di Silvio Berlusconi. Non entrerò nel merito delle accuse a Berlusconi perché non spetta a me né a Di Battista il ruolo di giudice del popolo. Ciò che però occorre ricordare, per contestualizzare al meglio le parole di Di Battista, è ricordare una vicenda che riguarda direttamente il grillino e che fino ad oggi non era mai venuta alla luce. Era il 9 novembre 2011 e di lì a poco Berlusconi si sarebbe dimesso. L’Italia era sotto l’attacco della finanza internazionale nonostante i fondamentali dell’economia fossero migliori di oggi, lo spread era alle stelle, e Mario Monti veniva nominato senatore a vita. In quel periodo il grillino Di Battista viaggiava per il Sud America occupandosi dell’impatto sulla popolazione dei progetti Enel in Cile e Guatemala e sempre nel 2011 iniziava a collaborare con il blog di Grillo. Alle 21:10 del 9 novembre 2011, una signora di nome Eva Aymerich Mas, scrive sul profilo Facebook del pentastellato: «Alessandro, se va Berlusconi!!!!!» (Alessandro, se ne va Berlusconi!!!). La risposta che Di Battista dà alla signora Eva di lì a poco è agghiacciante: «si pero el problema es el sistema…se habla de amato, viejo ladron hijo de puta que pagava craxi con la plata de berlusconi! estamos jodidos… la sangre es la solucion!» (Sì ma il problema è il sistema…si parla di Amato, vecchio ladrone figlio di puttana che pagava Craxi con i soldi di Berlusconi! Siamo fregati…il SANGUE è la soluzione!). “Il sangue è la soluzione” per il grillino. E se grazie al cielo non si sono registrati versamenti di sangue nel nostro Paese, viene da chiedersi cosa fosse disposto a fare l’esponente del Movimento per far arrivare i 5 Stelle al potere. Chi pensa che il sangue sia la soluzione non dovrebbe avere problemi a considerare come una soluzione più che legittima il sostegno economico di dittature straniere o il supporto tecnologico e logistico di altri Stati. Il Di Battista che ieri inneggiava al sangue è lo stesso che oggi accosta Berlusconi a Cosa Nostra senza menzionare che i governi presieduti dal presidente di Forza Italia ottennero risultati strepitosi nella lotta alla mafia. Dal 2008 al 2011 vennero arrestati mediamente 8 mafiosi al giorno (un record), vennero presi quasi tutti i superlatitanti e vennero sequestrati e confiscati beni per oltre 25 miliardi di euro. Il successo di Berlusconi nella lotta alla mafia fu così evidente che nel 2012 il procuratore nazionale antimafia, Pietro Grasso, dichiarò pubblicamente (ci sono le registrazioni) che il governo Berlusconi meritava “un premio speciale” per la lotta alla criminalità organizzata. Ecco: oggi che la vicenda dell’esclusione politica per via giudiziaria di Berlusconi emerge in tutta la sua forza, le parole di Di Battista sull’importanza della storia sono un monito per tutti quegli italiani che hanno sempre saputo quale ingiustizia si fosse consumata ai danni di Berlusconi, ma ancora di più ai danni della democrazia italiana. Malcom X aveva ragione: «La storia è la memoria di un popolo, e senza una memoria, l’uomo è ridotto al rango di animale inferiore». E Il Riformista continuerà a battersi per far sì che la verità storica, politica e giudiziaria venga alla luce.
Così la sinistra pianificò l'assalto al Cavaliere. Era l'estate di sette anni fa, quella del 2013, e in un pomeriggio afoso, la berlina presidenziale, si fermò davanti al civico di via Bruno Buozzi ai Parioli, dove ha lo studio il noto penalista, Franco Coppi, che assisteva Silvio Berlusconi. Augusto Minzolini, Mercoledì 01/07/2020 su Il Giornale. Era l'estate di sette anni fa, quella del 2013, e in un pomeriggio afoso, nella Roma agostana semideserta, la berlina presidenziale, con al seguito auto di scorta e corazzieri motociclisti, si fermò davanti al civico di via Bruno Buozzi ai Parioli, dove ha lo studio il noto penalista, Franco Coppi, che assisteva Silvio Berlusconi nel processo per frode fiscale in cui è stato condannato e che provocò la sua decadenza da senatore. Erano le giornate che seguirono la sentenza. Dall'auto scese proprio l'allora capo dello Stato, Giorgio Napolitano, che salì al piano dello studio del principe del Foro. L'argomento da trattare era alquanto delicato: l'ipotesi della grazia per l'ex premier e leader di Forza Italia, nonché in quel momento uno dei garanti del governo di Enrico Letta. Ci fu una discussione in punta di diritto tra il presidente e il legale, addirittura fu esaminato anche il testo di una possibile richiesta di grazia. Ma già in quell'occasione si materializzò un macigno, che avrebbe bloccato la trattativa: Napolitano era pronto a concedere la grazia, ma pretendeva da Berlusconi un ritiro ufficiale dalla politica. Così quel provvedimento di clemenza che, normalmente, è esaminato sulla base di una valutazione giuridica, fu analizzato con le logiche della politica e presentato con le sembianze di una resa. Più o meno come il «vae victis», il guai ai vinti, pronunciato da Brenno ai romani sconfitti. Di fatto, una parola «fine» sulla presenza del Cav nella vita pubblica del Paese, naturalmente, per «disdoro», che l'ex premier, per storia e per carattere, non avrebbe mai potuto accettare. Tanto che, come Marco Furio Camillo si ribellò ai barbari, Berlusconi si oppose a quella fine ingloriosa, una vera e propria pietra tombale per silenziare la congiura di cui era stato vittima, e preferì alla fine scontare la pena ai servizi sociali come volontario a Cesano Boscone. Forse per capire quanto avvenne sette anni fa, prendendo a prestito il metodo «induttivo» della filosofia antica, bisogna proprio partire da qui, da questa singolare trattativa, tra un capo dello Stato, che avrebbe dovuto essere il garante nello scontro tra «politica» e giustizia e, invece, si rivelò come il capo di una delle fazioni in campo. Perché in quell'occasione, la giustizia per come è amministrata nel Belpaese, si rivelò nella realtà per ciò che era: l'arma con cui si combatte la politica in Italia. Solo così si può capire perché un provvedimento di clemenza sia stato utilizzato come strumento di pressione nel tentativo di strappare al «nemico» una dichiarazione di resa incondizionata. In questa luce si comprendono meglio anche le dichiarazioni del giudice Amedeo Franco, relatore nel giudizio di Cassazione contro l'ex premier, contenute in una registrazione resa nota dal Riformista, in cui il personaggio parla «di sentenza che faceva schifo... di vicenda guidata dall'alto». Del resto questo fu l'epilogo di una guerra iniziata molti anni prima, con l'«operazione» che portò alla crisi del governo Berlusconi, argomento di una ricca bibliografia internazionale (basta leggere gli scritti dell'ex segretario di Stato di Obama, Timothy Geithner, o dell'ex premier spagnolo Zapatero). Ma a parte le cancellerie europee, le grandi lobby, la vera battaglia, la guerra, fu combattuta nelle procure e nelle aule dei tribunali. Berlusconi, infatti, è stato il bersaglio più illustre di quel triangolo delle Bermuda - che mette insieme il carrierismo dei magistrati, la politica e i processi, simbolizzato dal Csm che ingoia le sue vittime, insieme allo Stato di diritto e alla democrazia. Un meccanismo che va avanti da quarant'anni e che solo oggi ha portato Ernesto Galli della Loggia a puntare l'indice contro le logiche politiche della magistratura o il dott. Luca Palamara, appena espulso dall'Anm, ad esprimere qualche dubbio sulla correttezza dei processi al Cav: «È un tema da approfondire». Perché si può pensarla come si vuole ma la Storia politica del nostro Paese negli ultimi trent'anni è stata cadenzata da avvisi di garanzia, Pm, azzeccagarbugli, processi e sentenze. Ed è un conto essere sconfitti in guerra come Napoleone a Waterloo e da un Referendum come il Re d'Italia, un altro da carte bollate, toghe e sentenze: questo avviene solo nei regimi, comunisti o fascisti poco importa. Un «triangolo» che dà luogo ad una perversione: un pezzo di politica utilizza un pezzo di magistratura, e viceversa, per governare o condizionare il Paese. Una verità, a questo punto, talmente plateale, per cui anche la Commissione d'inchiesta sull'uso politico della giustizia avrebbe un compito facile, visto che c'è ben poco da scavare. «C'è già la prova osserva Guido Crosetto, di Fratelli d'Italia che una parte della magistratura italiana utilizza gli strumenti spropositati che gli abbiamo dato, per uccidere politicamente i suoi nemici o di qualcuno più in alto». «È una situazione spiega il vicesegretario della Lega, Fontana per cui il Parlamento è diventato un postaccio, le elezioni contano niente e ancor meno la democrazia». Fin qui l'opposizione, ma anche sul versante della maggioranza c'è chi ammette che la misura è colma. «Non si può far finta di niente dichiara Matteo Renzi -, bisogna capire quanto è avvenuto. Lo dico anche da solo nella maggioranza, anche se Zingaretti, che sente Berlusconi due volte al giorno, non dice niente». «Se non si mette in discussione il principio dell'autogoverno della magistratura confida il piddino, Piero Fassino non se ne esce: quelli governano me e si governano in quel modo». Appunto, la misura è colma. Anche perché tutti, prima o poi, si tratti di Berlusconi, di Salvini, di Renzi, possono diventare bersagli. Nei giorni scorsi c'era un parlamentare del Pd che raccontava addirittura le voci sui guai giudiziari di Zingaretti. Come pure si parla di inchieste sul rapporto tra 5stelle e Cina. «A quel punto osserva uno dei dominus della politica di oggi anche loro capiranno». Già, perché ormai la politica si fa con l'arma della «giustizia». E quel che avvenne in quegli anni è un monito per tutti. «Ma vi pare ricorda oggi Giorgio Mulè - che un capo dello Stato possa commentare una sentenza come fece all'epoca Napolitano: Ritengo che ora il Parlamento possa affrontare i problemi dell'amministrazione della giustizia. Come dire: fatto fuori il Cav, possiamo diventare garantisti». «L'unico che cedette alle lusinghe del Nap ricorda oggi Fabio Rampelli fu Fini. Sapeva che il Cav sarebbe stato fatto fuori dai giudici. E mi propose di passare con lui per un posto di sottogoverno. Ma poi Napolitano fregò pure lui». Non c'è niente da fare: l'Italia è il Paese dei paradossi. Ne sa qualcosa pure il sottoscritto che a giudizio del Senato è «un perseguitato» mentre una sentenza della magistratura considera «un pregiudicato»: una contraddizione che chi dovrebbe regolare i rapporti tra i due Poteri ha lasciato correre. Eh sì, per paura o per interesse, si fa finta di niente, con il risultato che la democrazia è sconfitta e il «triangolo» perverso (carrierismo-magistrati, politica e processi) governa il Paese. «Io confida oggi Berlusconi, raccontando la sua esperienza ho avuto 96 processi, 105 avvocati e ho gettato un miliardo e mezzo di euro in spese legali. La verità è che quel processo ha portato le sinistre al governo e cambiato la storia del Paese. Spero che gli italiani lo capiscano, anche se nelle ultime elezioni politiche sono stati fin troppo sciocchi».
La gioia di Napolitano per quel verdetto. Nei nastri di Franco il ruolo del Quirinale nella sentenza contro Berlusconi. Luca Fazzo, Mercoledì 01/07/2020 su Il Giornale. Ecco i principali passaggi dei colloqui tra Silvio Berlusconi e il giudice Amedeo Franco.
F: «Anche colleghi che non sono suoi ammiratori anzi sono avversari politici che però son persone corrette hanno avuto l'impressione che tutta questa vicenda sia stata guidata (..) sia stata guidata dall'alto alla Procura generale e al primo presidente (...) Berlusconi deve essere condannato a priori perché è un mascalzone, questa è la realtà».
Il passaggio cruciale, nel racconto, è la decisione di anticipare l'udienza affidandola alla sezione feriale, presieduta da Antonio Esposito. «Molti anche in pensione vengono a dirmi in effetti là hanno fatto una porcheria, che senso ha mandarla alla feriale? Una questione così delicata va alla sezione competente, non va dove stano cinque, che poi uno solo per necessità capisce di questa cosa e gli altri quattro non capiscono niente. Poi una sezione feriale è sempre fatta con gli ultimi arrivati, ragazzini». Franco parla di un incontro su questo tema dei legali di Berlusconi con il primo presidente della Cassazione, Giorgio Santacroce, prima dell'udienza, dove però arriva anche il segretario della Corte, Franco Ippolito, toga di Magistratura democratica considerato assai vicino a Giorgio Napolitano: «Il fatto che venga ricevuto il suo avvocato e il presidente Letta dal primo presidente insieme al segretario generale è una cosa che non è mai capitata. Che c'entra il segretario generale con una decisione di questo genere?». E ancora: «Gianni Letta è andato da Santacroce che si è rivolto a lui, che ha avuto l'appoggio per essere nominato presidente, e si meraviglia quando Santacroce lo riceve con Ippolito, esponente storico dei democratici. Che ci stava a fare Ippolito lì, di chi era portavoce?»
Franco parla a Berlusconi del suo dissenso verso la sentenza e della decisione, alla fine, di firmarla: «Io per me se trovo un modo, per sgravare la coscienza, perché mi porto questo peso, ci continuo a pensare, non mi libero. Mi hanno coinvolto in una cosa...».
B: «Ma scusi le hanno praticamente imposto di firmare?».
F: «No, io potevo rifiutarmi, è stata una questione di dieci minuti, ero già andato con tutta la cosa per dire non firmo, il presidente mi dice ma se tu non firmi, fai quello che ti pare, ti attaccheranno da destra e da sinistra». E anche dopo la sentenza rispunta l'ombra del Quirinale: «Poi dopo anche il primo presidente dice ah, hai visto, anche il presidente della Repubblica ha fatto sapere che è contento del fatto che avete deciso uniformemente a quello che ha detto il procuratore generale (...), insomma ci sono troppe cose che non vanno».
B: «Loro erano determinatissimi?».
F: «Malafede non lo so, malafede del presidente sicuramente».
B: «Cioè ha deciso tutto Esposito?».
F: «Il collegio che si è trovato è un collegio raffazzonato, è una cosa che non si doveva fare, io ancora oggi sto pensando se io avessi immaginato mi facevo ricoverare in ospedale e risolvevo il problema (...) è stato un processo non giusto, perché ormai se la difesa chiede un rinvio la prescrizione è sospesa, cosi non si prescriveva più, poteva tornare a chi è competente (...) i pregiudizi per forza che ci stavano, si poteva cercare di evitare che andasse a finire in mano a questo plotone di esecuzione, come è capitato, perché di peggio non poteva capitare».
Giorgio Napolitano, il "golpe" contro Berlusconi: la domanda a cui non può non rispondere. Libero Quotidiano il 4 luglio 2020. C'è un grande convitato di pietra, nella storia assurda del complotto giudiziario che nel 2013 avrebbe tolto di mezzo Silvio Berlusconi tramite una sentenza pilotata di condanna a 3 anni e 8 mesi per frode fiscale nel processo Mediaset Agrama. Questo convitato risponde al nome di Giorgio Napolitano, presidente emerito della Repubblica che allora risiedeva al Quirinale per il suo secondo mandato e da lì sorvegliava le sorti del governo di larghe intese guidato da Enrico Letta. Ora, mentre il Cavaliere denuncia la ferita inferta alla democrazia diffondendo come prova l'audioconfessione scioccante ricevuta in limine mortis dal giudice Amedeo Franco (relatore della Corte di Cassazione), ulteriori indiscrezioni di parte berlusconiana rimettono nel cono di luce proprio Napolitano, il quale all'epoca avrebbe addirittura trattato con il legale dell'ex premier una exit strategy per evitare al condannato l'onta dei servizi sociali e l'estromissione per indegnità dal consesso politico convalidata da un voto parlamentare sull'utilizzo in forma retroattiva della famigerata legge Severino. Nella circostanza, come del resto avevano adombrato anche i retroscena politici dell'epoca, il capo dello Stato si sarebbe spinto fino al punto di offrire un provvedimento di grazia in cambio di un'uscita dalla scena politica volontaria e ufficiale da parte del Cavaliere. L'offerta fu dichiarata irricevibile e, dal lavoro obbligato nel centro anziani di Cesano Boscone fino alla clamorosa rivelazione di oggi passando per altre infinite vicissitudini, sappiamo tutti come è andata a finire. Pur avendo smentito ufficiosamente sia l'ipotesi della trattativa sulla grazia - «queste speculazioni su provvedimenti di competenza del capo dello Stato in un futuro indeterminato sono un segno di analfabetismo e sguaiatezza istituzionale» - sia il suo ruolo di congiurato alfa nella precedente caduta del governo berlusconiano nel 2011 - «non ci fu nessun complotto sarebbe stato strano, se ci fosse stato un colpo di mano, che poi Berlusconi votasse a favore del governo Monti» - Napolitano è sempre stato indicato come il regista nemmeno occulto di ogni trama finalizzata all'abbattimento del signore di Arcore (che peraltro nel 2013 l'aveva appena rieletto al Colle). È noto da sempre come l'ex dirigente migliorista del Pci abbia saputo navigare per decenni dietro le quinte della politica, senza mai esporsi in forma audace (lo stemma nobiliare immaginario affibbiatogli da amici e avversari era «coniglio bianco in campo bianco»), salvo poi stupire tutti per il decisionismo e l'assunzione integrale delle prerogative assegnate all'inquilino del Quirinale. L'apice di questo contegno fu raggiunto nel momento più difficile del mandato, si era sul finire del 2014, quando Napolitano si trovò costretto a deporre davanti ai giudici quale testimone della trattativa Stato-mafia. Il che avvenne dopo oltre un anno di accesissime polemiche intorno alla sua apparente indisponibilità a farsi ascoltare dagli inquirenti, e su insistente sollecitazione delle parti civili rappresentate da Salvatore Borsellino, fratello del giudice ucciso nella strage di via D'Amelio, e Sonia Alfano, presidente dell'associazione familiari vittime di mafia. Al centro della contesa finirono anche i nastri contenenti alcune telefonate tra Napolitano e l'ex ministro dell'Interno Nicola Mancino, distrutte nel vecchio carcere dell'Ucciardone nell'aprile 2013 su ordine della Corte Costituzionale, ma sulle quali è gravata a lungo una caligine di sospetti ricattatori. Adesso, a distanza di quasi un decennio, Giorgio Napolitano è un privato cittadino novantacinquenne, insignito dalla Costituzione del laticlavio a vita avendo spalle una carriera onorata nelle istituzioni repubblicane. Ancorché ammaccato dalle ingiurie del tempo (un malanno cardiaco lo costrinse a un'operazione d'urgenza nel 2018), l'ex presidente conserva una lucidità sufficiente per non rimanere insensibile alle rivelazioni confidate dal giudice Franco al Cavaliere, fra le quali spicca questo virgolettato: «anche il presidente della Repubblica ha fatto sapere che è contento del fatto che avete deciso uniformemente a quello che ha detto il procuratore generale». Se all'epoca della controversia sulla trattativa con la mafia in molti invocarono, non senza qualche ragione, la necessità che la ragion di Stato proteggesse la nostra più alta carica dal rischio di una vulnerazione fatale; oggi le cose stanno diversamente ed è lecito attendersi che Napolitano esca dal riserbo per rendere nota la sua versione dei fatti. Anche la più affilata delle smentite o delle precisazioni risulterebbe più gradita del silenzio.
Caso Berlusconi: tutti zitti sulle colpe di Napolitano. Marco Gervasoni, 2 luglio 2020, su Nicolaporro.it. Le trattative sono il fondamento della politica. Non però se sei Presidente della Repubblica, almeno del nostro ordinamento costituzionale. Qui tu dovresti rappresentare lo Stato non i partiti, e men che meno alcuni a discapito degli altri. Perciò i costituenti consigliavano che il ruolo di presidente dovesse essere ricoperto da figure estranee alle macchine di partito: ma non è quasi mai accaduto. Se sei il presidente delle trattative, qualcosa insomma non funziona. E Giorgio Napolitano rischia di passare alla storia come tale. Due almeno, le trattative a cui il suo nome è associato; la cosiddetta Stato-mafia che fu nobile, perché il presidente in quel caso avrebbe tutelato la Ragion di Stato, attorno ad eventi in cui non era coinvolto in prima persona (ai tempi della supposta trattativa era solo Presidente della Camera dei deputati). Non a caso 5 Stelle e il gregge travagliaesco, che capiscono di Ragion di Stato come il sottoscritto di astrofisica, hanno attaccato Napolitano soprattutto per questo. Ora però spunta una nuova trattativa, per certi aspetti più inquietante. Un cronista attento ed autorevole, come Augusto Minzolini, sul Giornale, scrive che, pochi mesi dopo essere stato rieletto, Napolitano in persona si sarebbe recato addirittura di persona presso lo studio dell’avvocato Coppi, legale di Berlusconi dopo la condanna della Corte di Cassazione, Napolitano – continua Minzolini – avrebbe concesso la grazia al Cavaliere solo se questi si fosse ritirato dalla vita politica. E in un’intervista alla Verità di oggi, Gaetano Quagliariello, allora ministro delle Riforme nel governo Letta e molto vicino al Capo dello Stato, conferma che ci fu una trattativa con il presidente della Repubblica. Il pezzo di Minzolini è stato pubblicato ieri mattina. Reazioni? Zero. Nessun giornale l’ha ripreso, solo La Verità ha affrontato questo argomento con Quagliariello. Nessuna smentita, almeno pubblica. Ma possibile che solo a me paia un’accusa gravissima, se confermata? – e ripetiamo che Minzolini non inventa le notizie. Il potere di grazia è una delle tante sopravvivenze monarchiche di cui i presidenti (non solo in Italia) sono dotati e come tale è una prerogativa che, però, non può essere sottoposta a mercanteggiamento, pena far perdere autorità al Presidente e senso stesso all’istituto della grazia. Nel caso specifico poi il «delinquente» da graziare era un tre volte presidente del Consiglio e leader di quella che dal 1994 al 2008 era stato sempre il primo partito del paese. Peraltro, il presidente della Repubblica «graziante» nei confronti del governo del Cavaliere nel 2011 non era stato affatto protettivo: anzi, assieme a Merkel, Sarkozy e Obama fu uno degli artefici della sua strana caduta – non a torto ancora oggi Berlusconi lo chiama «golpe». La grazia in cambio della uscita di scena del Cavaliere, che contrariamente alle previsioni, nelle Politiche 2013 era andato tanto bene da sfiorare la vittoria. E capo del partito, con il Pd, reggente il governo Letta. La sua dipartita, magari per lasciare tutto in mano al suo delfino Alfano, sarebbe stata una ghiotta occasione per normalizzare l’anomalia italiana, creare una sorta di patto consociativo stabile tra la cosiddetta sinistra e il cosiddetto centrodestra e instaurare un regime duraturo. In cui il dominio sarebbe stato esercitato dalla sinistra, a cui Napolitano apparteneva, con un centrodestra privo di Berlusconi ridotto a portatore d’acqua ai post comunisti. Era certamente questo il disegno del capo dello Stato. Ma Berlusconi, plebiscitato solo pochi mesi prima alle elezioni, avrebbe dovuto andarsene, tradendo cosi il mandato di milioni di elettori, in cambio della libertà personale? Non so se ci si rende conto della gravità della trattativa. L’operazione, per ragioni che forse sapremo più avanti, fallì. E diciamo fortunatamente, perché la normalizzazione dell’Italia avrebbe finito per renderla schiava ancor più di quello che non fecero Letta, Renzi e Gentiloni, alla Ue e alla Germania di Merkel. Cosi come fallimentare è stata tutta l’opera del Napolitano 2010-2015, il vero fondatore di questa sgangherata Terza Repubblica: le forzature provocarono solo la distruzione del sistema, senza che egli ebbe la forza, la volontà o il coraggio di portare a termine l’opera. Quando lasciò in anticipo sul suo secondo mandato, nel gennaio 2015, l’Italia era rimasta a metà del guado, per stare al titolo di un suo libro degli anni Settanta. Solo che, anche per responsabilità di Napolitano, ora rischia di affondare, tra i poteri abnormi del Quirinale, il parlamento trasformato in bivacco, i partiti ridotti a consorterie delegittimate di qualsiasi autorità. Il giudizio degli storici sul primo (e si spera ultimo) presidente di provenienza comunista, non potrà che essere molto severo. Marco Gervasoni, 2 luglio 2020.
Nel silenzio della sinistra il coraggio di Macaluso: “Processo a Berlusconi? Va fatta chiarezza”. Umberto De Giovannangeli su Il Riformista il 3 Luglio 2020. Il Riformista ha cercato esponenti della sinistra, in tutte le sue articolazioni politiche e partitiche, per discutere con loro le rivelazioni choc sul processo Mediaset a Silvio Berlusconi portate alla luce da questo giornale. La risposta? Un silenzio assordante. Evidentemente, la magistratura incute ancora timori. Ma c’è una eccezione. Una lezione di coraggio di chi in tutta la sua lunga e gloriosa vita politica non ha mai avuto paura di esporsi: Emanuele Macaluso. «Su questo processo a Berlusconi ci sono tante cose da chiarire, su come è stato condotto e sulla sentenza emessa. Ma la condizione fondamentale per provare a fare chiarezza è di liberarsi dal berlusconismo e dall’antiberlusconismo», dice a Il Riformista. Novantasei primavere di lucidità e coraggio. Emanuele Macaluso, grande vecchio della sinistra, mantiene intatte energia, lucidità, passione che l’hanno guidato in tutta la sua lunghissima esperienza politica. Una esperienza che ha attraversa il secolo scorso e si proietta, con articoli e riflessioni che lasciano ancora oggi il segno, ai giorni nostri: la Sicilia dei braccianti, (fu lui a parlare a Portella della Ginestra il Primo Maggio del 1948, l’anno dopo la strage mafiosa, e l’anno scorso, a 95 anni è voluto tornare a parlare nel luogo dove la banda di Salvatore Giuliano sparò contro la folla uccidendo 11 persone), Togliatti che lo chiamò a Roma, la Guerra Fredda, la direzione dell’Unità ai tempi di Enrico Berlinguer, una vita assieme a Giorgio Napolitano nella corrente migliorista.
Le rivelazioni di questo giornale sul processo-choc a Silvio Berlusconi, il processo Mediaset, hanno scatenato polemiche e imbarazzati silenzi. Che idea si è fatto in merito?
«Io penso che sono tante, pressoché tutte, le cose da chiarire, partendo dal fatto che uno dei protagonisti della conversazione registrata con Berlusconi, il giudice Amedeo Franco, è morto. E non può essere testimone una persona che non può essere sottoposta a contraddittorio. Detto questo, su tutta questa vicenda, sia sulla conduzione del processo che sulla sentenza, c’è molto da chiarire. E chiarezza va fatta. Ma per provaci davvero, c’è una condizione fondamentale…»
Quale?
«Liberarsi dal deleterio condizionamento del berlusconismo e dell’antiberlusconismo. Occorre uscire dalla propaganda e da posizioni precostituite che sono da ostacolo ad una seria ricerca della verità, politica e processuale».
Le rivelazioni sul processo a Berlusconi, e ancor prima il Palamara-gate. La magistratura è il dominus assoluto della vita pubblica?
«Non credo che sia questo il problema, cioè quello di una magistratura invadente. Penso, invece, che alla base vi sia l’estrema debolezza della politica. E quando la politica è debole, è chiaro che finiscono per prevalere altri poteri. Non è che c’è una prevaricazione della magistratura, ma quello che si manifesta, e non da oggi, è la debolezza della politica nel rapporto con la magistratura. Come non bastasse, abbiamo un ministro di Giustizia che è il vuoto assoluto, completamente privo di autorevolezza».
Il giustizialismo può avere legittimazione a sinistra?
«La sinistra ha avuto una componente giustizialista, come una componente liberale e garantista. Non è uno scandalo né una rivelazione, ma il punto, mi permetto di insistere, è un altro. Molti pensano che ci sia una forte prevaricazione della magistratura, ma è la politica che non ha autorità e dunque non ha ascendenza sulle masse. Il magistrato ha tanto più ascendenza quanto più il politico appare, come in realtà è, debole».
Una delle questioni che ciclicamente tornano a riproporsi, è quella della separazione delle carriere. Antica quaestio, che appare irrisolvibile, oltre a non essere stata risolta.
«Io sono stato sempre per la separazione delle carriere. Su questo tema, Ragioni del socialismo, la rivista che continuo a dirigere, ha dedicato spazio e sviluppato un dibattito prezioso. La separazione delle carriere non è una mortificazione per la magistratura e i magistrati. Tutt’altro. Credo sia un modo per valorizzare da un lato il ruolo dei giudici, e dall’altro quello dei pubblici ministeri. Se c’è confusione tra le due carriere, io credo che sia un errore. L’attività accusatoria è una cosa, quella giudicante un’altra. L’accusatore non può diventare giudice».
Da cosa dipende, a suo avviso, la reticenza che alberga a sinistra quando si devono prendere di petto i problemi della giustizia?
«Non sono mai stato iscritto al partito dei “reticenti”. Di una cosa sono convinto: una sinistra che non s’interessa fortemente dei problemi della giustizia, non è sinistra. I problemi della giustizia sono condizionanti in maniera determinante della democrazia».
L'intervista. Intervista a Luigi Berlinguer: “Sentenza Berlusconi, correnti alterano giustizia”. Angela Stella su Il Riformista il 4 Luglio 2020. Dalla convergenza Pd-5Stelle passando per la riscoperta del socialismo liberale fino alle misture troppo facili e nocive tra pm e giudici: Luigi Berlinguer, già ministro della Pubblica istruzione nei governi Prodi e D’Alema, membro del Csm dal 2002 al 2006 alla fine di questa intervista dà un consiglio alla ministra Azzolina: batti più forte i pugni al tavolo del Governo.
Ieri Massimo Cacciari su Repubblica ha firmato un editoriale in cui ha scritto del “socialismo liberale” come chance per l’Italia, ricostruendo il ceto medio. Cosa ne pensa?
«Massimo Cacciari è un eccellente pensatore. Non vorrei però imbarcarmi in definizioni che possono indurre in errore. L’idea è giusta: siamo di fronte al bisogno di una politica della massima equità sociale che però non assuma mai carattere autoritario di limitazione delle libertà. È una tradizione senz’altro vecchia l’idea che la giustizia sociale faccia a pugni con la libertà e che bisogna limitarla per affermare la giustizia sociale: sono sciocchezze madornali che talvolta hanno indotto il movimento progressista in gravi errori. È giusto che in Italia si persegua una politica di giustizia sociale ma rispettando sempre il regime libertario».
Qual è il suo giudizio in merito al lavoro svolto fino a questo momento dall’“alleanza” Movimento 5 Stelle-Partito Democratico?
«Il mio giudizio è complessivamente positivo: siamo di fronte a un incontro tra due formazioni politiche che hanno largamente in comune una base elettorale, anche se conservano forme diverse e diversità proprie. Non so se si possa parlare domani di una alleanza organica: certamente però la convergenza delle finalità politiche ha prodotto dei risultati importanti. Naturalmente ci possono essere tante obiezioni su tanti dettagli, ma la sostanza di fondo è positiva».
Che futuro vede per le prossime elezioni?
«Non sono un vate. Posso indicare una esigenza: affinché quella che Lei chiama “alleanza” e che io chiamerei “convergenza” tra Pd e Movimento 5 Stelle possa essere premiata alle prossime elezioni, occorre tenere ferma la barra sostanziale di questa operazione politica: ossia tutelare il mondo dei deboli ma in un clima ampiamente democratico».
Affrontiamo ora il tema giustizia: cosa ne pensa di quanto reso noto dal Riformista in merito alla conversazione tra Berlusconi e il giudice Amedeo Franco?
«Posso dire soltanto che il tema della giustizia nel nostro Paese non è considerato a sufficienza nella sua specificità, che consiste nell’assicurare una forte garanzia di indipendenza dei procedimenti giudiziari, evitando le interferenze che in questo campo sono profondamente negative. L’importante è che la giustizia sia sempre molto indipendente e che si garantisca una giustizia non influenzabile dalle diverse correnti e che non si lasci influenzare dal fatto che gli operatori di giustizia sono essere umani e cittadini democratici, pertanto con le loro opinioni politiche. Gli operatori di giustizia possono e devono avere le proprie opinioni politiche che possono manifestare ma non possono lasciarsi trascinare da scelte politiche nell’esercizio delle proprie funzioni. La distinzione tra l’obiettività e la neutralità della giustizia da un lato e la libertà di pensiero dei suoi operatori dall’altro va tenuta molto netta. Non sempre questo è stato fatto e non sempre anche all’interno della sinistra si ha questo estremo rigore sulla indipendenza e – politicamente parlando – “neutralità” della giustizia nelle vicende del Paese».
In questi giorni abbiamo provato a contattare diversi esponenti della sinistra per chiedere un commento sull’affaire Berlusconi ma nessuno si è voluto esporre, eccezion fatta per Emanuele Macaluso che ieri sul nostro giornale ha detto che “occorre fare chiarezza sulla vicenda, superando però la propaganda tra berlusconismo e anti-berlusconismo”. È d’accordo?
«Totalmente d’accordo con lui: però va detto che le esperienze che noi abbiamo avuto – il fatto che Berlusconi intervenga talvolta in materia di giustizia – sono profondamente negative. Bisogna su questo ribadire quando detto prima».
Un suo parere sulla crisi profonda che sta attraversando la magistratura.
«È vero che la magistratura sta attraversando tensioni drammatiche che spesso si riferiscono a quanto dicevo prima, al fatto che è molto difficile assicurare totale indipendenza di pensiero e politica alla magistratura. Però questa è una esigenza capitale della società, della società moderna. Bisogna sottolineare, sostenere l’assoluta indipendenza della magistratura dagli orientamenti politici. E quindi gli organi che all’interno della magistratura si occupano delle iniziative che vengono prese devono evitare in tutti i modi non solo una lottizzazione politica della magistratura ma anche una strumentalizzazione a questo proposito».
In una intervista al nostro giornale Sabino Cassese ha definito le Procure come un quarto potere ormai indipendente dalla magistratura. È così?
«L’attività di investigazione giudiziaria delle Procure è certamente parte del raggiungimento della giustizia ma non è assimilabile al ruolo dei giudici. La vera e totale indipendenza deve essere quella dei giudici. E qual è allora la funzione delle Procure? Che i membri delle Procure siano indipendenti persino dalla magistratura è giusto: la loro è una funzione diversa, non è quella di rendere giustizia all’atto della decisione ma di iniziare una procedura che si fondi originariamente sul sospetto della presenza di ipotesi di reato al fine di indagare per sapere cosa corrisponde al vero. In questa attività le Procure devono essere risolute nella ricerca della verità e quindi operare non come se fossero dei giudici ma in piena indipendenza della propria funzione. Non si devono modellare sulla decisione giudiziaria successiva».
Cosa ne pensa quindi della separazione delle carriere tra pm e giudici?
«La questione deve essere approfondita, accentuata anzi. Fino a oggi c’è stata una prassi nella quale v’è stata confusione tra la carriera di pm e quella successiva di giudice. C’è stata qualche mistura, passaggi troppo facili da una funzione all’altra. Bisogna accentuare la differenza tra Procure e magistratura propriamente detta, i giudici quindi. Carriere che creano una sorta di confusione interiore tra le due funzioni non giovano. Il membro della Procura deve essere totalmente libero di svolgere la sua azione prescindendo dai pareri dei giudici e di chiunque altro. La sua funzione è quella di mettere in moto meccanismi che accertino gli elementi di valutazione della verità; spetta poi a un terzo valutare se l’hanno accertata e se è valida. Quindi sono due funzioni che io sentirei di accentuare nella reciproca differenza, con l’introduzione di notevoli differenze anche nelle carriere delle singole attività. Altrimenti si potrebbe compromettere l’obiettivo che si ha dinanzi, e cioè che il giudice sia alla fine totalmente indipendente e che i membri delle procure lo siano altrettanto dal loro punto di vista».
Che consigli darebbe oggi alla ministra Azzolina, aspramente criticata?
«Il ministro Azzolina è una persona seria e come tale va rispettata. Vedo molta sufficienza in taluni che la valutano. Però faccio una obiezione al suo comportamento: non batte troppo i pugni sul tavolo, non si fa valere come ministro dell’Istruzione a sufficienza. Deve essere più risoluta e più energica. Deve far capire a tutto il Governo che la politica dell’istruzione è prioritaria e che il compito di insegnare ad imparare e a crescere intellettualmente è il fondamento di un Paese come il nostro, altrimenti resteremo indietro nel mondo. Il Ministro deve imporre l’idea che bisogna continuamente imparare: memento discere semper, memento audere semper».
Malagiustizia, la solidarietà a dondolo di Zingaretti e del Pd: a Ilaria Capua sì, a Silvio Berlusconi no…Deborah Bergamini su Il Riformista l'8 Luglio 2020. Qualche appunto su alcuni fatti degli ultimi giorni. Parliamo naturalmente del terremoto scatenato dal nostro giornale con la pubblicazione delle dichiarazioni di Amedeo Franco, il giudice “pentito” che in più occasioni affermò che la sentenza di colpevolezza per frode fiscale che di fatto nel 2013 estromise Berlusconi dalla politica italiana era stata pilotata dall’alto e che la sezione feriale della Cassazione che l’aveva pronunciata era un plotone d’esecuzione. Normale il caos che queste rivelazioni hanno prodotto, visto che quella sentenza ha cambiato la storia repubblicana, mettendo fuori gioco un leader politico e ribaltando, nei suoi effetti, la libera espressione della volontà popolare. Normale – e deprecabile – il silenzio ammutolito degli eroi del giustizialismo nazionale, i 5 Stelle, di fronte a queste rivelazioni. Meno normale il silenzio tombale delle sinistre tutte, a partire dal Pd. Ha aperto bocca solo Walter Verini, che ha parlato di «polemiche tossiche» e ha consigliato di «non alimentare campagne usando ancora la giustizia come terreno di scontro politico e propagandistico (sic!)». Poi ci sono state un paio di oneste interviste – sul nostro giornale – di due grandi vecchi della sinistra, Emanuele Macaluso e Luigi Berlinguer. Poi basta.
Il nulla: Zingaretti, Orlando, Cuppi (Presidente del Pd), Ascani, Serracchiani, la Segreteria nazionale tutta, i ministri, i capigruppo: non una parola. E perché questo silenzio è meno normale? Perché contestualmente proprio il Pd, per bocca del capogruppo al Senato Andrea Marcucci, ha rivolto le proprie solenni scuse ad Ilaria Capua, scienziata ed ex deputata di Scelta Civica, che si dimise dal Parlamento sull’onda di un’inchiesta in cui venne accusata di traffico internazionale di virus, sbattuta sui giornali e criminalizzata come il peggior mostro mai esistito e poi prosciolta perché il fatto non sussisteva. «Quando parliamo di malagiustizia – ha detto Marcucci – pensiamo a vicende come queste». Quindi il principio che sottende a quest’ultima affermazione è che se c’è o non c’è malagiustizia lo si decide, se va bene, su basi soggettive e variabili, se va male per convenienza politica. E qui sta il male di tutta la faccenda: quando l’Espresso pubblicò in copertina le accuse alla Capua, diversi partiti oggi al governo cavalcarono la tigre del giustizialismo senza riconoscerle né il beneficio del dubbio né quello della buonafede. Le invettive dei grillini furono violentissime. Anche allora non ci fu controcanto, con esclusione della “solita” Forza Italia, e la Capua entrò ingiustamente nel refugium peccatorum dei “macchiati”. Lo raccontò lei stessa in un’intervista rilasciata a Gaia Tortora nel 2017 per presentare il suo libro, con parole molto efficaci: «Ogni volta che in Parlamento provi a portare avanti qualunque cosa, ti viene detto: eh, però lei è accusata di essere una trafficante di virus, di avere rapporti con le aziende farmaceutiche, quindi non è che possiamo prendere in considerazione le sue proposte…». «Mi sono dimessa perché non potevo fare e non riuscivo a fare quello che volevo fare e per cui ero stata eletta…». «Ci sono tante persone che non hanno la mia visibilità e che non hanno la possibilità di gridare al mondo la loro innocenza. Se io riuscissi ad evitare anche ad una sola persona di passare quello che ho passato io, attraverso questo libro, io avrò raggiunto il mio obbiettivo». Quindi le scuse da parte del Pd, sebbene tardive, sono apprezzabili, così come è apprezzabile aver ammesso l’errore, quantomeno di valutazione. Resta però un problema di metodo. Sappiamo che diversi partiti italiani, tutti insieme oggi al governo, hanno sempre avuto, purtroppo, il gusto di iniziare a sbranare al primo avviso di garanzia o indagine, legittimando i media a scatenare la caccia grossa al pericoloso criminale. Quando andava bene, ma proprio bene, si limitavano ad un silenzio assenso. Così, in questi ultimi decenni, ci siamo abituati tutti a vivere il rapporto distorto fra politica, giustizia e media: gli avversari politici si abbattono per via prima mediatica poi giudiziaria, è pacifico, e l’elementare principio della presunzione di non colpevolezza viene regolarmente calpestato. Così, puntualmente, quell’errore viene ripetuto anche oggi, scuse o non scuse. Questo grave male italiano va saputo arrestare. Fin quando una vasta fetta della politica italiana non rinuncerà al riflesso condizionato di far salire sul patibolo il sospettato al primo indizio di colpevolezza o al primo articolo di giornale nell’auspicio di trarne qualche vantaggio, la situazione non è destinata a migliorare: né per la politica, né per la giustizia, né per i giornali. Perché allora le scuse alla Capua sì e a Berlusconi no? È questo il problema di metodo. Lasciamo stare il “plotone d’esecuzione” che ha rifilato la condanna a Berlusconi. Facciamo per un momento finta di nulla, come fanno le sinistre. Ma possibile che dopo l’ottantina di processi a cui Berlusconi è stato sottoposto, tutti scatenatisi da quando è sceso in politica, mai una volta il Pd abbia sentito l’impeto di scusarsi per le ingiuste accuse e le gogne mediatiche che ha subìto? E per tutte le volte in cui tante altre personalità sono state massacrate da inchieste giudiziarie mediatizzate, poi dissoltesi nel nulla? Se non vogliono scusarsi per l’unico processo in cui Berlusconi è stato condannato, si scusino per tutti quelli da cui è stato assolto. Le vittime della malagiustizia, come direbbe Parmenide, o sono o non sono. Non è che sono quando ci pare o quando ci conviene. Altrimenti abbandoniamo il senso di giustizia al campo della pura soggettività, con i danni immani che ciò produce. Se il garantismo deve essere un fondamento culturale irrinunciabile di una civiltà matura come la nostra, deve esserlo sempre, non in maniera selettiva. Prima la politica tutta si affranca e si prende la libertà di capirlo, prima ritornano a funzionare le cose.
Audio Silvio Berlusconi, Fabio Rampelli: "Gianfranco Fini mi propose di andare con lui. Napolitano lo aveva fregato". Libero Quotidiano l'1 luglio 2020. Le intercettazioni su Luca Palamara contro Matteo Salvini e la rivelazioni del giudice Amedeo Franco sulle "sentenze pilotate" contro Silvio Berlusconi hanno scoperchiato il vaso di Pandora. E oggi come oggi viene da chiedersi se la giustizia sia realmente giusta. Una cosa però è certa: la magistratura non guarda in faccia nessuno, "anche perché tutti - come ricorda Augusto Minzolini sul Giornale - prima o poi, si tratti di Berlusconi, di Salvini, di Renzi, possono diventare bersagli". Ma il caso Mediaset-Agrama che avrebbe visto condannato ingiustamente il leader di Forza Italia per frode fiscale sembra aggravarsi sempre più. Lo stesso Minzolini ha aggiunto un dettaglio compromettente alla vicenda: l'ultimatum di Giorgio Napolitano, all'epoca, nel 2013, capo di Stato. Napolitano avrebbe offerto, secondo il retroscenista, la grazia a Berlusconi in cambio del suo ritiro politico. Una notizia non immune da clamore: "Ma vi pare - ricorda il deputato azzurro Giorgio Mulè - che un capo dello Stato possa commentare una sentenza come fece all'epoca Napolitano: Ritengo che ora il Parlamento possa affrontare i problemi dell'amministrazione della giustizia. Come dire: fatto fuori il Cav, possiamo diventare garantisti". E ancora, lo sfogo di un altro forzista: "L'unico che cedette alle lusinghe del Nap - esordisce Fabio Rampelli - fu Gianfranco Fini. Sapeva che il Cav sarebbe stato fatto fuori dai giudici. E mi propose di passare con lui per un posto di sottogoverno. Ma poi Napolitano fregò pure lui". Il caso è ormai vecchio, si rifà al 2011 quando l'azzurro Amedeo Laboccetta dichiarò che dietro l'addio al Pdl di Gianfranco Fini ci fosse proprio Napolitano. Quest'ultimo interessato a far cadere Berlusconi.
Giorgio Napolitano, il retroscena: "Trattò con Berlusconi nell'ufficio dell'avvocato Coppi. Grazia in cambio del ritiro dalla politica". Libero Quotidiano l'1 luglio 2020. La grazia a Silvio Berlusconi in cambio del ritiro definitivo dalla politica. La trattativa tra Giorgio Napolitano e il leader di Forza Italia nell'estate 2013, subito dopo la sentenza di condanna a 3 anni e 8 mesi per frode fiscale del Cav nel processo Mediaset Agrama è nota. Ma prende tutt'altra una luce dopo la pubblicazione dell'intercettazione in cui il giudice Amedeo Franco, relatore della corte, in quegli stessi giorni ammetteva con l'ex premier che la condanna era stata "pilotata dall'alto", con tanto di "pressioni" sul presidente della Corte Antonio Esposito. "Uno schifo", per usare le parole del magistrato morto nel 2019. Una bomba che travolge magistratura e Quirinale, visto che molti in quel "dall'alto" hanno inteso proprio il Colle. Augusto Minzolini ricostruisce sul Giornale come avvenne quella trattativa: "In un pomeriggio afoso, nella Roma agostana semideserta, la berlina presidenziale, con al seguito auto di scorta e corazzieri motociclisti, si fermò davanti al civico di via Bruno Buozzi ai Parioli, dove ha lo studio il noto penalista, Franco Coppi, che assisteva Berlusconi nel processo per frode fiscale". Fu Napolitano in persona, non un suo collaboratore o consigliere, a gestire la trattativa. "Salì al piano dello studio del principe del Foro" per trattare la resa del Cav, che all'epoca sosteneva il governo di Enrico Letta. "Ci fu una discussione in punta di diritto tra il presidente e il legale, addirittura fu esaminato anche il testo di una possibile richiesta di grazia". Ma tutto si bloccò perché l'allora Capo dello Stato pretendeva da Berlusconi un ritiro ufficiale dalla politica. Silvio "si oppose a quella fine ingloriosa, una vera e propria pietra tombale per silenziare la congiura di cui era stato vittima, e preferì alla fine scontare la pena ai servizi sociali come volontario a Cesano Boscone". Giustizia e politica o giustizia politica? Il sospetto, riesaminando anche l'operato di Napolitano, che doveva essere garante e arbitro dei due poteri e che invece prese parte attiva nella partita, è più che legittimo.
Silvio Berlusconi, l'avvocato Coppi: "Franco? Un galantuomo, ma una sentenza come quella non mi era mai capitata". Libero Quotidiano il 30 giugno 2020. “Sono sempre stato sorpreso da quella sentenza. Una decisione che andava contro la giurisprudenza”. Anche l’avvocato Franco Coppi, uno dei difensori di Silvio Berlusconi, commenta all’Ansa le registrazioni audio riguardanti l’ex premier e Amedeo Franco (morto a maggio 2019), relatore in Cassazione che chiese l’assoluzione del leader di Fi nel 2013. Invece Berlusconi fu condannato per frode fiscale nell’ambito del processo Mediaset: il magistrato all’epoca definì il processo un “plotone d’esecuzione”, sostenendo che quella vicenda “sia stata guidata dall’alto”. “Franco è sempre stato considerato come un giudice preparato e un galantuomo - ha aggiunto Coppi all’Ansa - è evidente che si sia trovato in minoranza in camera di consiglio, dove non ci fu neanche discussione, a sentire lo stesso relatore. Non va sottovalutato che in calce a quella decisione c’era la firma di tutti i giudici”. Cos’ha spinto Franco a raccontare tutto allo stesso Berlusconi? “Questo non lo so - risponde l’avvocato - una cosa è certa: una cosa del genere nella mia carriera non mi era mai capitata”.
"Quel giudice in minoranza...". La verità dietro al complotto. Il penalista Coppi, difensore del Cav, commenta l’audio della toga: "Si è trovato in minoranza in camera di consiglio". Alberto Giorgi, Martedì 30/06/2020 su Il Giornale. "Il giudice Amedeo Franco ha detto cose gravi e non ci sono motivi per dubitare delle sue affermazioni". Così Franco Coppi commenta all’agenzia stampa Adnkronos gli audio di Amedeo Franco, il magistrato e giudice relatore della sezione feriale della Cassazione presieduta dal magistrato Antonio Esposito che emise la sentenza definitiva di condanna nel cosiddetto processo Mediaset nei confronti dell'ex premier, nell’agosto 2013. L’avvocato penalista, tra i difensori del Cavaliere, ha aggiunto: "L’impressione è che Franco si sia trovato in minoranza in camera di consiglio". Quindi non ha nascosto di essere da sempre rimasto sorpreso da quella sentenza contro l’ex tre volte presidente del consiglio arrivata sette anni fa. Una sentenza grazie alla quale, con l’entrata in vigore susseguente della controversa Legge Severino, il Cav è stato estromesso dal Parlamento. "Franco è sempre stato considerato come un giudice preparato e un galantuomo. È evidente che si sia trovato in minoranza in camera di consiglio, una camera di consiglio dove, a sentire lo stesso relatore, non ci fu neanche discussione. Non va sottovalutato che in calce a quella decisione c'era la firma di tutti i giudici", ha proseguito Coppi, che ha infine chiosato con la seguente considerazione: "Cosa abbia spinto Franco a raccontare tutto allo stesso Berlusconi, questo non lo so. Una cosa è certa: una cosa del genere nella mia carriera non mi era mai capitata...". L’audio di Franco su Berlusconi. Nella serata di lunedì è stato reso pubblico lo scoop de Il Riformista, il cui direttore Piero Sansonetti ha partecipato alla puntata di Quarta Repubblica, che ha mandato in onda l’intercettazione nella quale il magistrato, ora scomparso, diceva: "Berlusconi deve essere condannato a priori perché è un mascalzone! Questa è la realtà, a mio parere è stato trattato ingiustamente e ha subito una grave ingiustizia. L’impressione che tutta questa vicenda sia stata guidata dall’alto”. Per poi aggiungere: "In effetti hanno fatto una porcheria perché che senso ha mandarla alla sezione feriale? Voglio per sgravarmi la coscienza, perché mi porto questo peso, ci continuo a pensare. Non mi libero. Io gli stavo dicendo che la sentenza faceva schifo". Vedremo ora se la commissione parlamentare invocata da Forza Italia per fare luce sul caso si farà e se, dopo sette anni di gogna, verrà ristabilita la verità.
Silvio Berlusconi e l'audio di Amedeo Franco, il sospetto: "Chi è il terzo uomo, testimone". Nome e cognome: clamoroso. Libero Quotidiano il 2 luglio 2020. Insieme a Silvio Berlusconi e al giudice Amedeo Franco c'era un terzo uomo, testimone della confessione della toga. Quella che nelle trascrizioni dell'intercettazioni è indicata come VM2, "voce maschile 2" secondo il Giornale avrebbe un nome e un cognome, clamorosi: Cosimo Ferri. L'incontro è del 6 febbraio 2014 ed è lo stesso Franco a nominare un "Cosimo", più volte. Sarebbe proprio il magistrato in aspettativa, leader di Magistratura indipendente, finito nei guai per il caso Palamara, eletto in Parlamento con il Pd e oggi senatore di Italia Viva. Le prime indiscrezioni dalla difesa di Berlusconi riferivano di un magistrato, rimasto in silenzio in questi anni per paura di vedersi compromessa la carriera. Non a caso, anche l'intercettazione di Franco è stata resa divulgata dopo la morte dello stesso giudice della Cassazione, avvenuta nel 2019, 6 anni dopo quella "sentenza pilotata dall'alto", come definì lui stesso la condanna di Berlusconi per frode fiscale nel processo Mediaset Agrama. Nel 2014, ricorda il Giornale, "Ferri ricopre un ruolo istituzionale: è sottosegretario alla Giustizia nel governo di Enrico Letta, un gradino sotto il ministro Annamaria Cancellieri", Di fatto, "il vero uomo di collegamento tra ministero e magistratura diventa lui", accusato da Magistratura democratica "di essere entrato in un governo di sinistra in quota Pdl".
Tommaso Labate per “il Corriere della Sera” il 3 luglio 2020. «Presidente, il geco è in arrivo». Tra le mura semideserte di Palazzo Grazioli, dove il circo di Forza Italia è in via di smobilitazione causa trasloco imminente di Silvio Berlusconi, qualcuno ricorda i tempi del piccolo rettile notturno «geco», che era il nome in codice con cui - tra l'ironico e il misterioso - gli azzurri della cerchia ristretta del Capo avevano ribattezzato Cosimo Maria Ferri. E oggi è venuto fuori che proprio il deputato di Italia viva era il terzo uomo degli incontri tra l'ex presidente del Consiglio e il giudice di Cassazione Amedeo Franco - e il diretto interessato ha avuto il modo di confermare direttamente nel corso di un colloquio con La Verità - riemerge dalla naftalina quella rete di rapporti che l'ex consigliere del Csm, poi sottosegretario alla Giustizia in ben tre governi, incanalava nel rapporto diretto con il vertice indiscusso di Forza Italia. Lo schema, che ai piani alti del partito azzurro ancora ricordano bene, risale proprio all'anno in cui la sentenza di condanna definitiva nei confronti di Berlusconi venne seguita proprio dagli ormai celebri faccia a faccia tra l'ex premier e il giudice Franco, poi impressi su nastro a insaputa sia di Franco sia, giura il diretto interessato, di Ferri stesso. Nel racconto che ne fanno diversi testimoni oculari berlusconiani, l'allora sottosegretario alla Giustizia del governo guidato da Enrico Letta si presentava a Palazzo Grazioli sempre a mezzanotte. «O comunque dopo mezzanotte», raccontano. Il soprannome di «geco» se l'era guadagnato non tanto per la sua straordinaria attitudine alla riservatezza, soprattutto nei rapporti con Berlusconi; quanto perché l'attitudine medesima trovava sfogo nella sua scelta di aspettare nascosto dietro le piante alte dell'ingresso posteriore di Palazzo Grazioli che gli ospiti serali del Cavaliere se ne fossero andati. Poi, dopo aver incassato il «via libera» dalla segreteria, saliva in casa per conferire col numero uno di Forza Italia. Anticipato sempre dalla medesima frase: «Presidente, il geco è in arrivo». È in quel periodo che Ferri - già giovanissimo consigliere del Csm, che ha pure messo in palmares l'essere stato il recordman assoluto e mai battuto di preferenze alle elezioni dell'Anm - diventa una delle pedine della controstoria berlusconiana sulla giustizia, che in questi giorni sta scrivendo nuovi capitoli dopo l'uscita dell'audio del giudice Franco. Il «terzo uomo», come nel titolo del celeberrimo romanzo di Graham Greene, sembra effettivamente dotato dell'ubiquità politica. È stato spedito all'opposizione dell'Anm ma mantiene contatti costanti con Luca Palamara, è di nomina berlusconiana ma rimane nei governi del Pd anche quando Berlusconi richiama tutti indietro, coltiva la vicinanza a Matteo Renzi anche dopo la rottura del Patto del Nazareno e infatti alle elezioni del 2018 trova spazio nelle liste del centrosinistra e segue l'ex sindaco di Firenze dentro Italia viva. L'abilità del «geco» trasforma Cosimo Maria Ferri in una specie di inafferrabile uomo ovunque. La sua prudenza, forse, è quella che lo porta a mordersi la lingua quando serve. Il Trojan dei magistrati che indagano s' è già impossessato dell'accesso al telefonino di Luca Palamara quando, proprio in una conversazione con Ferri, l'ex presidente dell'Anm bollerà come «da evitare assolutamente» la nomina di Raffaele Cantone alla procura di Perugia. «Eh sì, però guardate bene le intercettazioni», sorride il parlamentare di Italia Viva tutte le volte che gli ricordano di quella chattata. «Se ci fate caso, la frase "da evitare assolutamente" riferita a Cantone la scrive Luca. Io non gli avevo risposto nulla». Chissà se questa serie di caratteristiche - nascondersi, mimetizzarsi, frenare - gli daranno una mano quando il 21 dovrà presentarsi davanti alla sezione disciplinare del Csm per rispondere, insieme a Palamara, di interferenze nelle decisioni del Csm in materia di nomine. Di jolly nel taschino dicono ne abbia parecchi. Non a caso, come ha detto qualche settimana fa al Corriere , coltiva moltissime certezze. Prima tra tutte che «Palamara sa molte più cose di quelle che ha iniziato a dire ».
Un geco ai Ferri - di Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano del 5 Luglio 2020: Ma che deve ancora fare Cosimo Maria Ferri per essere cacciato dalla magistratura? Nato nel 1971 a Pontremoli; figlio del ministro Enrico (quello del Psdi e dei 100 km all’ora, anche lui magistrato, poi eurodeputato FI); fratello di Jacopo, consigliere regionale FI condannato a 1 anno per tentata truffa, e di Filippo, ex poliziotto condannato a 3 anni e 8 mesi per falso aggravato nel processo per la mattanza alla scuola Diaz (G8 a Genova), dunque capo della sicurezza del Milan berlusconiano; giudice a Carrara. Grazie ai rapporti politico-clientelari ereditati dal padre, diventa il ras della corrente di destra MI e inizia a collezionare incarichi extragiudiziari. All’Ufficio vertenze economiche della Federcalcio, viene intercettato nel 2005 dai pm di Calciopoli mentre ringrazia il vicepresidente Figc Innocenzo Mazzini a nome dell’amico Claudio Lotito, patron della Lazio, per aver fatto designare un arbitro che ha favorito i biancazzurri: “Mi ha detto Claudio di ringraziarti. Sei un grande!”. Il Csm archivia e pochi mesi dopo si ritrova Ferri (a soli 35 anni) membro togato, eletto con ben 553 voti. La sua scalata di spicciafaccende fra politica, giustizia e affari prosegue nel 2009: B. tenta di far chiudere Annozero di Santoro e i pm di Trani intercettano Giancarlo Innocenzi, membro forzista dell’Agcom, che gli porta buone nuove: “Mi sono incontrato anche con Cosimo e abbiamo messo insieme un gruppo giuristi amici di Ferri, analizzato tutte e 5 le trasmissioni e riscontrato tutta una serie di infrazioni abbastanza gravi…”. Ben 15 membri del Csm chiedono di aprire una pratica su Ferri, ma il Comitato di presidenza (Mancino&C.) sorvola pure stavolta, sennò Ferri dovrebbe giudicarsi da solo. Così il Mister Wolf della Lunigiana continua a trafficare. E a farsi beccare. Nel 2010, indagando sulla P3, i pm romani scoprono che spinge le toghe protette dalla loggia: Alfonso Marra per la Corte d’appello di Milano e non solo lui. Pasqualino Lombardi, faccendiere irpino della P3, chiama la segretaria di Ferri: “(Al Csm, ndr) han fatto pure il pubblico ministero di Isernia?”. E quella: “Aspe’, chi ti interessava?”. Lombardi: “Paolo Albano, che è pure un amico!”. Lei lo richiama due ore dopo: “Ho chiesto a Cosimo di Albano… m’ha detto che non ci dovrebbero essere problemi”. Un’altra fulgida prova di indipendenza, che non gli impedisce di pontificare sul Riformista per la “trasparenza in magistratura” e i “criteri meritocratici” contro la nefasta “influenza correntizia” che porta certi colleghi (ce l’ha con Ingroia, mica con se stesso, ci mancherebbe) ad “apparire di parte”, creando “confusione fra i cittadini”. Nel 2010 il Csm scade e si libera di lui. Che però, con quel pedigree, diventa segretario di MI e nel 2012 è il magistrato più votato di sempre all’Anm (1199 preferenze). Nel 2013 FI lo impone sottosegretario alla Giustizia nel governo Letta. Lui si dà subito da fare per scongiurare la condanna di B. in Cassazione per frode fiscale: va a trovare il presidente Esposito per invitarlo al Premio Bancarella nella natia Pontremoli. Il giudice, per ovvi motivi, declina. B. viene condannato e decàde da senatore. Il 6 febbraio 2014 Ferri porta al neopregiudicato il giudice relatore della sentenza, Amedeo Franco, che viene registrato mentre viola (mentendo) il segreto della camera di consiglio. Pur essendo un magistrato, Cosimino non denuncia i presunti reati segnalati da Franco, nè il sicuro reato (violazione di segreto d’ufficio) commesso da Franco. Nel giro berlusconiano – rivela Tommaso Labate sul Corriere – lo chiamano “il Geco” perché “aspetta nascosto dietro le piante alte dell’ingresso posteriore di Palazzo Grazioli che gli ospiti serali se ne vadano. Poi, incassato il via libera dalla segreteria, sale in casa per conferire col n. 1”. Pochi giorni dopo, l’Innominabile lo conferma sottosegretario alla Giustizia, stavolta in quota Verdini (amico di famiglia). E Napolitano non fa una piega, anche se ha appena respinto Nicola Gratteri come ministro perché “Via Arenula non fa per i magistrati” (almeno per quelli perbene). Il 6 luglio si elegge il nuovo Csm e Ferri, dal ministero, invia sms agli ex colleghi di MI per far votare i suoi protegé Pontecorvo e Forteleoni (puntualmente eletti). Ormai è un conflitto d’interessi vivente: membro del governo, interferisce nell’“organo di autogoverno” dei magistrati. Che però continua a fregarsene. Come pure l’Innominabile e i partiti di destra, che fingono di combattere le toghe politicizzate e invece le vorrebbero tutta così. Ferri resta sottosegretario pure con Gentiloni. Poi nel 2018 viene eletto deputato del Pd per grazia renziana ricevuta (passerà presto a Iv). Lui, berlusconiano di ferro. Lui che, quando si candidarono Grasso e Ingroia, invocò “nuove regole per tutelare la credibilità della magistratura davanti ai cittadini”. Credibilità a cui continua a contribuire nei vertici notturni all’hotel Champagne con i due Luca, il togato-indagato del Csm Palamara e il deputato-imputato Lotti, per scegliere i procuratori di Roma, Perugia e Firenze più graditi al Giglio Magico nella triplice veste di politico, giudice e faccendiere. Che l’Innominabile se lo tenga stretto, si capisce: con tutti i guai che ha in famiglia, può sempre servire. Ma il Csm che aspetta a radiarlo dalla magistratura? Il Geco, con quella faccia, è capace pure di tornarci.
Audio Berlusconi, al colloquio ci sarebbe stato anche un altro magistrato. Il Corriere della Sera il 30/6/2020. Non era solo il giudice Amedeo Franco quando venne registrato mentre con Silvio Berlusconi «si sgravava la coscienza» sulla sentenza «porcheria»: la condanna per frode fiscale nel processo Mediaset della quale lui stesso era stato relatore. Ad ascoltare Franco riferire della sua impressione che la vicenda «fosse guidata dall’alto», c’erano altri testimoni. E uno di loro sarebbe stato un magistrato. Il particolare, non ancora emerso, allunga altre ombre sulla vicenda contenuta nelle carte consegnate dalla difesa di Berlusconi alla Corte europea dei diritti dell’uomo, nell’ultima delle istanze presentate (finora invano) per chiedere la fissazione dell’udienza di quel ricorso sul quale il Cavaliere puntava per avere una revisione del processo e una riabilitazione politica dopo la condanna ai servizi sociali. Ed è proprio questa la carta, finora segreta, che la difesa di Berlusconi, gli avvocati Niccolò Ghedini e Franco Coppi, vorrebbero giocare nella partita giudiziaria a Strasburgo.
L’attesa per la morte del giudice. La toga misteriosa che avrebbe assistito al colloquio, secondo quanto hanno anticipato nel ricorso alla Cedu, senza specificarne l’identità, sarebbe pronta a confermare il contenuto e le circostanze di quel colloquio tra il senatore decaduto e il giudice in crisi di coscienza. Quest’ultimo non può più, essendo deceduto. «Il giudice Amedeo Franco ha detto cose gravi. Non ci sono motivi per dubitare delle sue affermazioni», ha dichiarato all’Agi, ieri, Coppi. «Sono sempre stato sorpreso da quella sentenza. Una decisione che andava contro la giurisprudenza», ha aggiunto, esternando l’impressione da sempre avuta che il giudice si fosse «trovato in minoranza in camera di consiglio». Sensazione smentita ieri dalla Cassazione. «Invieremo gli audio e speriamo, a questo punto, che i giudici di Strasburgo fissino una udienza. I giudici potrebbero non annullare la sentenza ma individuare eventuali lesioni al diritto di difesa o offrire elementi per un eventuale revisione del processo», annuncia Coppi. Ma perché non farlo prima? Perché aspettare la morte del protagonista e continuare a tacere di quel colloquio anche successivamente? Dalla difesa di Berlusconi si sostiene che fu una scelta del Cavaliere, non voler rendere pubblico subito quell’audio.
Perché tacere con il Csm? Secondo quanto riferiscono i legali la cosa andò così. Il giudice Franco cominciò a cercare il leader di Forza Italia già pochi mesi dopo la sentenza di condanna, chiedendogli un incontro. Lui glielo avrebbe voluto concedere, ma loro lo sconsigliarono. Finché, vista l’insistenza del magistrato, venne loro l’idea di registrare le parole del giudice. Ad azionare il registratore sarebbe stato uno dei testimoni presenti. Gli avvocati se ne sarebbero ben guardati, per non rischiare, diventando testimoni, di dover rinunciare al ruolo di difensori. Una volta ottenuta l’intercettazione ambientale però, sempre secondo la ricostruzione della difesa, fu Berlusconi a non volerla utilizzare per «non mettere in croce» i magistrati. Dei tentativi di Franco di farsi ascoltare anche dal consigliere giuridico dell’allora presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ne parla lo stesso audio, mandato in onda martedì sera da «Quarta Repubblica». Resta tutta avvolta nel mistero però la reazione dell’altro presunto testimone togato. Perché non avrebbe riferito nulla al Consiglio Superiore della Magistratura? Secondo i legali di Berlusconi avrebbe avuto paura di compromettersi la carriera. Era in attesa di una nomina i Cassazione, che poi ottenne. Sarebbe ancora in servizio. Se la ricostruzione fosse esatta, sarebbe sicuramente interessante sentire la sua versione.
Silvio Berlusconi racconta l'incontro con Amedeo Franco: "Uomo tormentato, temeva le ritorsioni". Libero Quotidiano il 03 luglio 2020. “Quando mi hanno detto che voleva vedermi, la cosa mi ha stupito ed anzi contrariato”. Silvio Berlusconi scrive una lettera a Il Riformista per affrontare la questione della registrazione audio in cui Amedeo Franco, giudice nel processo Mediaset contro il Cav, definì la sentenza “un plotone d’esecuzione”. In realtà il leader di Forza Italia non desiderava riaprire “in nessun modo” una vicenda che “mi aveva profondamente ferito sul piano umano prima ancora che su quello pubblico”. E così l’incontro con il magistrato è avvenuto perché “alcuni amici e collaboratori mi convinsero a riceverlo: insistettero sul dovere che avevo di fare tutto il possibile per fare chiarezza su quella vicenda, nei confronti dei tanti che non avevano mai smesso di credere in me, nelle mie idee, nel mio onore di cittadino, di imprenditore e di politico”. Berlusconi ricorda di essere rimasto molto colpito da quell’incontro con Franco a Palazzo Grazioli: “Era una persona molto diversa da quella che mi aspettavo, era un uomo tormentato da una grave crisi di coscienza. Un uomo combattuto fra la sua onorabilità di magistrato, il dovere di servire la legge e le legittime preoccupazioni per le ritorsioni che avrebbe potuto subire da parte di qualche collega molto potente, che godeva di protezioni ancora più potenti. Per questo lo rassicurai sul fatto che non avrei reso pubblico il contenuto del nostro colloquio fino a quando quei rischi fossero stati reali”. Berlusconi non chiede risarcimenti ma verità e si rivolge direttamente all’Anm: “Sono convinto che l’Anm, se volesse veramente tutelare la magistratura italiana come merita, dovrebbe essere la prima a sostenere la nostra richiesta di verità”.
DAGONOTA il 2 luglio 2020. Perché l’audio dell’ex giudice di Cassazione Franco esce casualmente proprio adesso dopo molti anni? Perché qualcuno ha chiesto al Cavaliere il sostegno all’attuale Governo di sinistra ma questo sostegno deve essere “ripulito” da ogni “macchia” del passato. Il Cavaliere nero deve essere messo in “candeggina” e reso più bianco che non si può. Il solito codice Etico della solita sinistra italiana dal tic euro-catto-comunista : se non gli servi ti ghigliottina; se gli servi ti riabilita.
Gian Carlo Caselli per huffingtonpost.it. Il “caso Palamara” ha disvelato nella magistratura tendenze assai poco edificanti (eufemismo!). A fronte di una maggioranza certamente per bene, emerge una minoranza che calpestando ogni deontologia e correttezza brandisce senza scrupoli l’arma nefasta dell’appartenenza correntizia. La credibilità e la fiducia verso la magistratura sono ai minimi storici. In questo contesto avvocati e politici assortiti puntano con entusiasmo alla “separazione delle carriere”. Per ottenere questa “soluzione finale” si sta organizzando un vero e proprio assalto alla giustizia. Ora, va da sé che di tutto si può discutere, anche di questa opzione, ma ad una condizione: che sia sempre verificata quanto meno la plausibilità degli argomenti portati nell’uno o nell’altro senso. Si sostiene che sul corretto funzionamento del sistema incombe una promiscuità pericolosa fra PM e giudice, riscontrabile nel fatto che spesso prendono il caffè insieme al bar. Di qui la necessità di separare le due carriere. Tesi sostenibile ma fragile, se non altro perché coerenza imporrebbe di rescindere anche i rapporti fra giudici di primo grado e d’appello. Non si vede infatti come i sospetti derivanti dalla “colleganza” fra Pm e giudici non debbano estendersi anche ai giudici dei diversi gradi del processo. Ma questo richiamo alla coerenza è niente rispetto a quello che sta succedendo proprio in queste ore. Coloro che inorridiscono e si stracciano le vesti per la tazzina di caffè del Pm e del giudice, poi non hanno nulla da ridire se un giudice (Amedeo Franco) - avendo fatto parte del collegio che ha condannato un imputato senza che risulti neanche l’ombra di una “dissenting opinion” – si ritrova poi a colloquio “vis à vis” con l’imputato stesso (Silvio Berlusconi), presenti altre persone, per commentare la sentenza con parole sprezzanti che neanche i difensori dell’imputato si sarebbero mai sognati. Eccone un florilegio ( fonte “il Giornale” del 30 giugno”): mascalzonata; plotone di esecuzione; manovra decisa a tavolino prima ancora dell’udienza per eliminare l’imputato; vicenda guidata dall’alto; grave ingiustizia; porcheria in malafede e via così... In sostanza, si mena scandalo e si ravvisa materia per invocare la separazione delle carriere nel caffè che Pm e giudice sorbiscono insieme, mentre si accetta come un fatto normale che un magistrato, dopo la condanna pronunziata dal collegio di cui egli stesso faceva parte, la demolisca intrattenendosi amabilmente con l’imputato. Con una filippica che contiene accuse di gravi reati, commessi per arrivare alla sentenza, dei quali avrebbe prima di tutto dovuto obbligatoriamente riferire all’autorità giudiziaria. Non solo un comportamento siffatto non viene stigmatizzato, ma è addirittura assunto come paradigmatico. In ogni caso esso diventa un’opportunità per insistere sulla separazione delle carriere, che non c’entra niente, ma si sa: tutto fa brodo...E’ comunque innegabile che si tratta di una vicenda decisamente singolare e anomala, tanto più che la conversazione fra l’imputato ed il suo giudice è stata fonoregistrata (sembra all’insaputa del magistrato, nel frattempo deceduto) e “riesumata” sette anni dopo. Singolari potrebbero essere anche gli sviluppi della vicenda. In attesa che si pronunzi la giustizia europea investita dai difensori dell’imputato, c’è chi parla di nominare l’imputato senatore a vita o presidente della Repubblica per risarcirlo del danno patito, mentre si chiede a gran voce una commissione d’inchiesta sull’operato della magistratura in genere nel corso degli ultimi decenni. Non ho nulla da suggerire a nessuno, ma se mai commissione dovesse essere, credo che si dovrebbe cominciare dall’accertamento di un fatto di basilare importanza: come e perché il giudice Franco è arrivato al cospetto dell’imputato Berlusconi dopo la condanna? Forse per un caffè?
Giacomo Amadori per “la Verità” il 2 luglio 2020. Roma, Palazzo Grazioli, 6 febbraio 2014.
Silvio Berlusconi: «Mi sa che si è spento». Voce femminile 1: «È il mio? Il mio?». Voce femminile 2: «No, no! Sta andando, fermo!».
Voce femminile 1: «Di qua, di qua».
Voce femminile 2: «No, no, non si è spento».
Berlusconi: «Sentiamo se si sente...».
Voce femminile 2: «Mettilo in carica...».
Voce femminile 1: «Fai zero sei dodici».
Voce femminile 2: «E ce n'è un altro Presidente?».
Voce femminile 1: «Adesso vado a recuperare l'altro». Nasce in questo modo lo scoop sullo sfogo del giudice (...) della Cassazione Amedeo Franco, registrato, con ogni probabilità a sua insaputa, a casa di Berlusconi, da due diversi dispositivi. Al cospetto dell'ex premier, insieme con la toga che aveva firmato la sentenza di condanna dell'ex premier nel caso diritti tv Mediaset, c'era anche il magistrato Cosimo Ferri, oggi deputato di Italia viva e all'epoca sottosegretario alla Giustizia in quota Forza Italia nel governo di larghe intese guidato dal piddino Enrico Letta.
Ecco la versione di Ferri, ex consigliere del Csm e già leader della corrente conservatrice di Magistratura indipendente: «Io ero assolutamente ignaro della registrazione e non ho notato presenze femminili nei due appuntamenti di Palazzo Grazioli».
In effetti in un secondo audio, dopo che Franco e Ferri si erano allontanati, si sente bussare alla porta e una voce femminile dire: «Sono andati?».
Berlusconi: «Sì».
Voce femminile: «Pensavo avessero beccato il t».
Chiediamo a Ferri perché abbia accompagnato Franco da Berlusconi: «Io non avevo grandi rapporti con lui. Abitava vicino al ministero e un giorno lo incrocio. Era un po' agitato e mi chiede: "Sei in grado di prendermi un appuntamento con Berlusconi visto che sei sottosegretario?". Mi dice che ci teneva molto a incontrarlo. Gli rispondo affermativamente: "Sì sì, lo prendo, sento". Non mi ricordo neanche quanto ci abbia messo a fissare. Ci sono stati due incontri: uno velocissimo e un altro più lungo, dove li ho lasciati lì a parlare tra di loro. In quelle occasioni sono stato quasi spettatore e penso che si capisca dalle registrazioni. Non mi ricordo neanche di essere intervenuto».
Ha segnalato all'allora Guardasigilli Annamaria Cancellieri o agli uffici competenti della magistratura quanto aveva sentito?
«Come ho detto, ho ascoltato solo parte del loro colloquio e non ero tenuto a segnalarlo a nessuno, perché non avevo alcun obbligo giuridico non essendo nell'esercizio delle funzioni così come non avevo un obbligo di segnalazione neppure disciplinare. Non ero in alcun modo in grado di verificare la veridicità delle sue affermazioni. Per me, da un punto di vista tecnico, quello che ha detto Franco contrastava con il fatto che lui avesse condiviso e firmato la sentenza».
Ieri il giudice Antonio Esposito, il presidente della sezione feriale di cui faceva parte Franco e che condannò Berlusconi, ha dichiarato al Fatto Quotidiano di essere stato «invitato molto gentilmente da Cosimo Ferri a Pontremoli, al premio Bancarella» alla vigilia della sentenza: «Per motivi di opportunità declinai l'invito».
Ferri trasecola: «Quando c'è il Bancarella invito 2.000 magistrati con un messaggio versione "ciclostile". E qualche volta è venuto anche il figlio di Esposito».
Lo stesso Esposito ieri ha fatto sapere di essere intenzionato a chiedere alla magistratura di acquisire i due audio in cui si adombrano sospetti sulla decisione della corte da lui presieduta. Ferri è stato sottosegretario alla Giustizia oltre che con Letta anche con Matteo Renzi e Paolo Gentiloni. Poi, nel 2018, ha accettato le lusinghe di Renzi e si è candidato con il Pd, entrando in Parlamento. Nel 2019 è stato nuovamente intercettato, questa volta dai magistrati di Perugia e dagli investigatori del Gico, mentre partecipava insieme con un altro deputato renziano, Luca Lotti, a riunioni con alcuni consiglieri del Csm per la nomina del procuratore di Roma. Per questo il 21 luglio dovrà presentarsi davanti alla sezione disciplinare del Csm per rispondere di quella presunta interferenza nelle decisioni di un organo costituzionale qual è il parlamentino dei giudici.
Sarà alla sbarra insieme con Ferri anche Luca Palamara, che ieri in un'intervista a Tgcom 24 ha dichiarato: «Anche io conosco dei pezzi importanti di questa storia perché sono stato uno dei componenti della sezione disciplinare nei confronti del dottor F. Esposito (il figlio del giudice Antonio, ndr). Avendo rivestito quella carica posso rispondere nelle sedi istituzionalmente competenti. Oggi da osservatore esterno dico che sono accaduti dei fatti rispetto ai quali deve essere interesse di tutti chiarire e comprendere che cosa è accaduto».
Ieri è intervenuto in tv a sostegno di Berlusconi anche Renzi: «Stiamo parlando di un signore che è stato presidente del Consiglio. C'è un magistrato della corte di Cassazione che va da lui a dire certe cose: la notizia mi sorprende e ieri ho avvertito che questa cosa può essere tutto, non so valutare. C'è una cosa che ho il dovere di dire e cioè che una persona che è stata quattro volte premier non può essere ignorata nel momento in cui chiede che sia fatta chiarezza. Ho telefonato al presidente Berlusconi perché nella differenza delle parti riconosco che siamo in presenza di un fatto che se vero sarebbe gravissimo. Gli ho detto che l'Italia non può far finta di niente».
Ma torniamo alle intercettazioni. Nelle due chiacchierate Berlusconi si mostra interessato anche a sapere come sia andata una sentenza che ordinava alla Fininvest di risarcire con oltre 500 milioni la Cir di Carlo De Benedetti per il cosiddetto lodo Mondadori: «Noi abbiamo notizie che sia stato Lupo (consigliere giuridico di Giorgio Napolitano, ndr) mandato dal presidente della Repubblica, che sia andato da Santacroce e che Santacroce, di conseguenza, abbia costretto il presidente Trifone (Francesco, già a capo della terza sezione civile della Cassazione, ndr) a riaprire tutto e a cambiare la sentenza».
Ma Franco risponde di non saperne nulla. Il 25 novembre 2014, qualche mese dopo gli incontri di Palazzo Grazioli, la quinta commissione del Csm, quella per il conferimento degli incarichi direttivi e semidirettivi, candida a presidente di sezione della Cassazione Franco. La sua nomina fa parte del classico pacchetto: 9 presidenti di sezione di tutte le correnti. I candidati ottennero tutti l'unanimità nel plenum dell'11 febbraio 2015. Anche se nel caso di Franco ci furono due astensioni. Il primo ad alzare la mano fu Ercole Aprile, del cartello progressista di Area, uno dei cinque giudici che un anno e mezzo prima avevano firmato la sentenza Mediatrade. Si accodò anche Nicola Clivio, pure lui di Area. Votarono Franco tutti gli altri consiglieri togati, dalla corrente di Unicost (guidata da Palamara) ai conservatori di Magistratura indipendente, oltre ai laici di tutti gli schieramenti, compresi i due esponenti di Forza Italia Maria Elisabetta Alberti Casellati e Pierantonio Zanettin.
Golpe anti-Cav, ora Esposito ha paura: "Acquisite gli audio". Il giudice respinge le accuse emerse dalle "confessioni" di Franco e ora vuole sporgere querela alla Procura di Roma. Luca Sablone, Mercoledì 01/07/2020 su Il Giornale. "Lunedì presenterò in Procura a Roma una serie di querele per diffamazione e chiederò che si faccia luce su una storia che presenta molti lati oscuri". Questa la notizia annunciata in prima persona da Antonio Esposito, il presidente della III sezione feriale della Cassazione che il primo agosto del 2013 emise la sentenza di condanna a Silvio Berlusconi per frode fiscale nell'ambito del processo Mediaset. Il giudice ha inoltre aggiunto che non è da escludere la possibilità che faccia richiesta per l'acquisizione dell'audio del relatore della sentenza di condanna Amedeo Franco. La reazione della toga è arrivata dopo le accuse relative a quello che potrebbe essere un vero e proprio golpe giudiziario contro il Cav e Forza Italia: gli azzurri vogliono vederci chiaro e ora pretendono la ricerca della verità. A gettare pesantissime ombre sull'esito di quel processo è stata un'intercettazione telefonica mandata in onda nel corso della trasmissione Quarta Repubblica, condotta da Nicola Porro su Rete 4. Nell'audio si sente Franco che afferma: "Berlusconi deve essere condannato a priori perché è un mascalzone! Questa è la realtà, a mio parere è stato trattato ingiustamente e ha subito una grave ingiustizia. L’impressione che tutta questa vicenda sia stata guidata dall’alto. In effetti hanno fatto una porcheria perché che senso ha mandarla alla sezione feriale? Voglio per sgravarmi la coscienza, perché mi porto questo peso del… ci continuo a pensare. Non mi libero. Io gli stavo dicendo che la sentenza faceva schifo".
Golpe giudiziario contro il Cav. L'intercettazione ha innescato un effetto domino: adesso è guerra aperta tra le toghe. "Sussiste una malafede del presidente del Collegio, sicuramente", riporta Il Sole 24 Ore. Queste le parole di Franco riferendosi a delle voci secondo le quali Esposito sarebbe stato pressato per il fatto che il figlio era indagato dalla Procura di Milano per "essere stato beccato con droga a casa di...". Il giudice si è subito difeso: in una nota ha smentito di aver subito pressioni dalla Procura della Repubblica di Milano, con la quale "mai ebbe contatto alcuno".
Ad alzare la voce è stato Antonio Tajani, secondo cui la sentenza sarebbe stata pilotata poiché vi era l'intenzione di colpire Berlusconi per via giudiziaria visto che non lo si poteva sconfiggere con le elezioni: "In Italia non deve più accadere quello che è successo a Silvio Berlusconi". Il vicepresidente di Forza Italia, nel corso di una conferenza stampa con Mariastella Gelmini e Anna Maria Bernini, ha chiesto l'istituzione di una commissione d'inchiesta parlamentare per fare chiarezza sulla vicenda in questione. Intanto da Licia Ronzulli, vicepresidente del gruppo FI al Senato, è arrivata una proposta chiara: nominare immediatamente il Cavaliere senatore a vita.
Antonio Esposito, un'altra indagine. Lo accusano: "Diceva: quella chiavica di Berlusconi, gli devo fare un mazzo così". Libero Quotidiano il 2 luglio 2020. "Silvio Berlusconi? Una chiavica, gli devo fare un mazzo così". A pronunciare queste parole sarebbe stato Antonio Esposito, il giudice della Cassazione che qualche anno dopo, nel 2013, ha condannato il leader di Forza Italia a 3 anni e 8 mesi per frode fiscale nel processo Mediaset-Agrama. L'audio dell'altro giudice della corte, Amedeo Franco (relatore di quella sentenza) accuserebbe ora proprio Esposito di essere stato "pressato": quel verdetto sarebbe stato "pilotato dall'alto", e quella corte, rivelava Franco in una intercettazione ambientale con lo stesso Berlusconi, "un plotone d'esecuzione" contro l'ex premier. Il caso è devastante, Esposito ha smentito tutto annunciando querele rovesciano le accuse sul collega Franco, morto nel 2019. Ma c'è di più, spiega il Fatto quotidiano: c'è in corso un'altra indagine, questa volta a Napoli. I pm starebbero verificando la natura delle testimonianze di alcuni dipendenti dell'hotel Villa Svizzera di Lacco Ameno, chiamati in causa dalla difesa del Cav per confermare la "malafede" di Esposito di fronte alla Corte europea dei diritti dell'uomo. Le parole dei dipendenti dell'hotel (di proprietà di Domenico De Siano, senatore e coordinatore campano di Forza Italia) sono state rese il 3 aprile 2013 e se vere sarebbero devastanti. Esposito sarebbe stato ospite abituale dell'albergo: "Lo ricordo dal 2007 fino al 2010/2011, non so essere preciso", ha spiegato ai difensori di Berlusconi un cameriere. "Esposito spesso chiedeva di chi fosse la struttura alberghiera ed io rispondevo di De Siano, esponente politico di Forza Italia e all'epoca sindaco di Lacco Ameno. La sua risposta in napoletano era: 'Ah sta con quella chiavica di Berlusconi'. Nell'incontrarmi affermava che prima o poi avrebbero arrestato sia il mio datore di lavoro che il Berlusconi". E ancora: "All'ingresso del ristorante invece di dire buona sera, era solito affermare: 'Ancora li devono arrestare?', riferendosi a Berlusconi e al mio datore di lavoro". Un altro dipendente ricorda invece una frase del giudice: "A Berlusconi se mi capita l'occasione gli devo fare un mazzo così", Esposito ha chiesto alla Procura di Napoli di verificare se "sia ravvisabile l'ipotesi di false informazioni al pubblico ministero, disponendo tutti gli accertamenti al fine di acclarare l'eventuale concorso di altre persone (verificando in particolare chi ha segnalato all'avvocato Larosa i tre nominativi e l'eventuale ruolo nella vicenda dal De Siano)".
Così il Csm salvò il giudice Antonio Esposito con 50 pagine di motivazioni. Paolo Comi su Il Riformista il 3 Luglio 2020. Una sentenza che ha fatto e fa ancora discutere. Parliamo dell’assoluzione di Antonio Esposito davanti alla Sezione disciplinare del Csm per l’intervista rilasciata al Mattino all’indomani della lettura del dispositivo di condanna nel 2013 a carico di Silvio Berlusconi. Il Csm, in casi analoghi, pare abbia avuto un diverso orientamento, sanzionando l’incolpato. Ed infatti il procuratore generale aveva chiesto al termine della requisitoria la “censura” per Esposito. Di diverso avviso il Csm secondo cui l’intervista era stata “inopportuna” ma essendo “la valutazione di opportunità un giudizio di valore che deve restare fuori dall’iter logico-giuridico che fonda l’accertamento di responsabilità disciplinare”, Esposito doveva essere assolto. Ma non solo. “Escluso che la condotta posta in essere fosse finalizzata a ottenere pubblicità e che le dichiarazioni fossero state veicolate attraverso canali di comunicazione personali o privilegiati, qualunque possibilità di ravvisare una responsabilità disciplinare viene meno, anche in considerazione delle particolari circostanze in cui il fatto venne ad inserirsi”. Infatti, “un conto è auspicare che Esposito – che si era visto dare del bandito solo perché aveva fissato l’udienza nel pieno rispetto delle regole – mantenesse il più assoluto riserbo sulla vicenda, altro è pretenderlo, prescindendo dalla valutazione del contesto in cui la sua condotta venne ad inserirsi”. Occorre considerare la scriminante del dovere di “difendere la funzione svolta” e la “necessità di respingere il pericolo concreto ed attuale di un danno grave all’onore e alla dignità della sua persona, reiteratamente e gravemente aggredita prima e dopo la definizione del processo”. E poi non esiste “una chiara regola che riservi all’ufficio stampa della Cassazione l’esclusiva dei rapporti con i giornalisti e l’impossibilità di trovare nel solo dovere di riserbo un limite alla estensione del diritto costituzionalmente garantito di manifestazione del pensiero” in quanto “la violazione di tale canone di comportamento per ciascun magistrato è irrilevante come fonte di responsabilità disciplinare”. Ci vollero circa 50 pagine di motivazioni alla Sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura per assolvere, il 15 dicembre del 2014, Esposito. I rumors dell’epoca raccontano di una camera di consiglio alquanto turbolenta. L’ex presidente dell’Anm Luca Palamara, che era componente di quel collegio, intervistato sul punto questa settimana ha dichiarato sibillino che ci sono “dei fatti rispetto ai quali deve essere interesse di tutti chiarire e comprendere che cosa è accaduto”. Cosa accadde realmente? Pressioni esterne? Dei “condizionamenti” da ambienti istituzionali? Palamara è tenuto al segreto della camera di consiglio e non può parlare. Leggendo le motivazioni della sentenza non si può non percepire la difficoltà nel percorso argomentativo di arrivare ad un verdetto assolutorio nei confronti del magistrato che, con la sua decisione, aveva cambiato la storia del Paese. Il 5 agosto 2013, pochi giorni dopo aver definito con lettura del dispositivo il processo penale nei confronti di Berlusconi, Esposito aveva rilasciato un’intervista al quotidiano della sua città, Il Mattino di Napoli, in gran parte dedicata a ricostruire i passaggi essenziali del giudizio di legittimità. L’episodio scatenò immediatamente la polemica politica. Esposito venne accusato di aver violato il segreto della camera di consiglio e, indebitamente, anticipato il giudizio, descrivendo per sommi capi il contenuto della sentenza prima che questa fosse depositata. Un comportamento ritenuto gravemente scorretto sul piano deontologico dal momento che il giudice era venuto meno al dovere di riserbo che grava sui magistrati e al codice deontologico dell’Anm. La sua condotta venne giudicata fortemente imprudente e suscettibile di arrecare grave danno alla intera magistratura. L’allora primo presidente della Corte di Cassazione, Giorgio Santacroce, fu costretto a intervenire pubblicamente per stigmatizzare l’accaduto. Il processo iniziò il 25 febbraio 2014. Come spesso capita in questi casi, l’iter fu alquanto turbolento. Il collegio iniziale non riuscì a terminare l’istruttoria prima della scadenza della consiliatura e il dibattimento venne concluso dal nuovo consiglio. Esposito portò molti testimoni. Difendendosi da solo, nelle battute finali del processo ricusò anche i giudici che poi lo assolsero ma non senza averlo prima severamente redarguito. “La rilevanza della materia processuale e i prevedibili suoi riflessi sul quadro politico nazionale avrebbero lasciato prevedere tutto ciò che ne seguì, a cominciare dal fatto che le dichiarazioni rese potessero essere stravolte, adattate e strumentalizzate da un giornalista interessato ad enfatizzare una dichiarazione assolutamente scontata per montare un caso”, scrisse il collegio presieduto da Giovanni Legnini. Senza contare “gli effetti nefasti per la credibilità della magistratura derivanti dalla diffusione nell’opinione pubblica del convincimento o anche solo del sospetto che una grave irregolarità avesse accompagnato la definizione di un procedimento penale di tale rilevanza sotto ogni aspetto”. Insomma, va bene l’assoluzione ma “un magistrato dell’esperienza di Esposito doveva farsi carico di tutto ciò e astenersi in quel momento dal parlare”.
Fabio Amendolara per “la Verità” il 4 luglio 2020. L'accusa, rappresentata dal sostituto pg Ignazio Patrone, l'aveva incolpato, mandandolo alla disciplinare. Ma Giovanni Legnini, in quel momento vicepresidente del Csm, che presiedeva una delle sezioni rivelatasi in quel caso tra le più garantiste della storia della magistratura italiana, con accanto Nicola Clivio, relatore, e Luca Palamara nel ruolo di magistrato di merito, lo assolsero. E con 51 pagine fitte Legnini, Palamara & company motivarono una sentenza che, riletta oggi, sembra trasudare una difesa d'ufficio che non appare diretta solo a salvare il collega ma tutta la categoria, introducendo un principio nuovo: la legittima difesa della toga a mezzo stampa. «La casta è casta e va sì rispettata», ammoniva il principe Antonio De Curtis in arte Totò. E a rileggere la sentenza della Sezione disciplinare del Csm con la quale fu assolto il giudice Antonio Esposito, accusato dalla procura generale della Cassazione di aver propalato inopportunamente e prima ancora di aver scritto la sentenza la decisione su Silvio Berlusconi per l'affare dei diritti tv all'ex amico giornalista del Mattino Antonio Manzo che, così, tirò fuori uno scoop, sembra proprio che la casta si arroccò. Legnini & co. spiegarono che il collega (che presiedeva la sezione estiva della Cassazione che fissò immediatamente il processo) fu costretto a rilasciare l'intervista per difendersi dagli attacchi della stampa ostile, quella «apertamente schierata a favore dell'imputato». Esposito, quindi, non solo non commise un illecito, ma agì per tutelare la sua onorabilità: «L'antigiuridicità della condotta va, in ogni caso, esclusa in radice per avere l'incolpato commesso il fatto in presenza delle cause di giustificazione dello stato di necessità e dell'adempimento di un dovere». Legnini & co. non hanno indugiato a piazzare il principio della legittima difesa come pietra angolare su cui poggiare la motivazione: «L'accensione dei riflettori sulla sua persona gli aveva già (...) cagionato diversi dispiaceri e in quel momento non aveva cercato ulteriore notorietà, ma era intervenuto per ristabilire la verità dei fatti in un dibattito che aveva preso una piega oltraggiosa nei suoi confronti». I documenti confluiti nel fascicolo, valutano Legnini & co., «possono considerarsi solo esemplificativi della intensità e della virulenza con la quale questo argomento (l'avere fissato in tempi da record il giudizio) venne veicolato da alcuni organi di stampa». Secondo la Sezione disciplinare, insomma, Esposito era finito sulla graticola. «Vi erano stati attacchi da parte della stampa», scrissero in sentenza, «suscettibili di compromettere l'onore dell'odierno incolpato e questo fece ricorso alla intervista per ristabilirlo davanti alla opinione pubblica». Ma Esposito avrebbe potuto rivolgersi al Csm (per aprire una pratica a tutela), o sporgere querela. Pure per queste obiezioni Legnini & co. hanno trovato una pezza: «Attendere una risposta del Csm dai tempi e dagli esiti del tutto incerti risultava sostanzialmente inesigibile. Identiche considerazioni, per ovvie ragioni, vanno svolte con riguardo alla possibilità di ottenere adeguata difesa per mezzo dello strumento della querela per diffamazione a mezzo stampa, attesa la strutturale complessità dell'accertamento di responsabilità penale, la non urgenza dell'affare che sarebbe stato trattato senza alcun criterio preferenziale e la notoria difficoltà per gli uffici giudiziari di portare a compimento indagini e processo in tempi ragionevoli». La giustificazione la trovarono così: «Si era in agosto, in pieno periodo feriale, con la sostanziale impossibilità per il magistrato di ottenere qualsiasi forma di tutela perlomeno per un altro mese». Maledetti tempi lunghi della giustizia.
Stefano Zurlo per ''il Giornale'' il 6 luglio 2020. Un altro scoop, ma questa volta le rivelazioni di Quarta repubblica - in onda stasera su Rete 4 - riguardano direttamente Antonio Esposito, il presidente del collegio di cassazione che nel 2013 condannò Berlusconi in via definitiva. «Mostreremo - spiega Nicola Porro - tre documenti inediti» Di che si tratta? «Tre testimonianze raccolte dalla difesa di Berlusconi negli anni scorsi con regolari indagini difensive e consegnate a suo tempo alla Corte di Strasburgo, la stessa cui è stato affidato il famoso audio del giudice Amedeo Franco che abbiamo trasmesso la settimana scorsa». Nell'audio Franco confidava a Berlusconi che lui non avrebbe voluto firmare quella sentenza: la corte era un «plotone di esecuzione». Poi si adeguò a quel clima. «Ecco questa volta ci spostiamo sul plotone di esecuzione, per usare sempre le parole di Franco, e sul suo presidente Esposito».
I tre che c'entrano con il magistrato?
«Lavoravano con diverse mansioni in un hotel di Ischia dove Esposito andò in vacanza più volte, fra il 2007 e il 2010. Dunque, in epoca non sospetta. Anni prima della Cassazione, quando Esposito non sapeva assolutamente che si sarebbe occupato un giorno del Cavaliere».
Ma qual è la novità delle testimonianze?
«Tutti e tre - lo chef, il cameriere, l'addetto alla spiaggia - spiegano che Esposito definiva Berlusconi una chiavica. E uno dei tre, in particolare, riporta una frase che dovrebbe essere almeno valutata: Se mi capita, gli devo fare un mazzo così a Berlusconi».
Riaffiora il presunto pregiudizio contro il Cavaliere?
«Direi di sì. Siamo, grossomodo, in linea con quello che Franco dice dall'interno della Corte, solo che siamo in un'altra epoca. Precedente».
Difficile pesare quelle espressioni, sempre se confermate: forse Esposito scherzava?
«I telespettatori si faranno una loro idea e così, spero, i giudici di Strasburgo. Ma Esposito, a quanto riferito, non scherzava affatto. Era serio o, comunque, questo era quel pensava».
Che idea si è fatto Nicola Porro?
«Giornalisticamente mi sembra materiale molto interessante».
E sul piano giudiziario?
«Quel verdetto segna un vulnus gravissimo, direi pure irreparabile per Berlusconi. Quella sentenza fa il giro del mondo e porta alla sua espulsione dal Senato. Forse, quel che sta affiorando meriterebbe un supplemento di inchiesta».
Franco è morto. Capitolo chiuso?
«Non credo. Ci si concentra sul dettaglio dell'intercettazione, peraltro sostanzialmente consenziente, senza considerare quel che viene detto. È curioso, si sono montate inchieste su inchieste contro Forza Italia sulla base di morti. E di morti parlanti attraverso figli non proprio inappuntabili, come nel caso dei Ciancimino».
Diranno che si tenta di riscrivere la storia sulla base di mozziconi di frasi pronunciate fuori contesto. Una spiaggia può mettere in forse una camera di consiglio?
«L'hotel in questione apparteneva a un onorevole di Forza Italia. E a quanto sembra, Esposito ironizzava pesantemente sul partito, con frasi del tipo: Come si fa a stare con questi qua?».
Quell'epiteto, Berlusconi è una chiavica, viene confermato da tutti e tre i testi, nel corso degli interrogatori condotti dai legali di Berlusconi. I testi si sono esposti e potrebbero essere chiamati e interrogati a loro volta a Strasburgo. Se dovesse emergere che hanno affermato il falso, passerebbero guai penali. E quell'espressione sul «mazzo così» da fare a Berlusconi è pronunciata a freddo, in astratto, anni prima del processo. Poi certo, non spetta a Quarta repubblica emettere un'altra sentenza, ci mancherebbe. Ma quelle carte meritano un approfondimento, non possono essere cestinate con un'alzata di spalle».
I testi inchiodano il giudice Esposito: "Berlusconi è una chiavica. Gli farò il mazzo". A Quarta Repubblica le tre testimonianze choc che confermano la tesi del "plotone d'esecuzione" contro Berlusconi. Giovanna Stella, Lunedì 06/07/2020 su Il Giornale. Le carte presentate in esclusiva da Il Riformista e gli audio inediti di Quarta Repubblica della scorsa settimana hanno messo in discussione tutto.
"Contro di me vera lotta armata". Dalla giustizia alla Storia degli ultimi sette anni (almeno). La sentenza per la vicenda dei diritti tv che condannò Silvio Berlusconi al carcere nel 2013, infatti, si è scoperta essere una sentenza assolutamente sbagliata e faziosa. Addirittura orchestrata dall'alto. Lo dicono le intercettazioni ambientali e le registrazioni consegnate alla Corte di Strasburgo. In questa ultima settimana, tutto il centrodestra si è indignato per lo scandalo, mentre dalla sinistra non è arrivato neanche un timido messaggio se non da Matteo Renzi. Tutti in silenzio nonostante sia ormai chiaro che contro il Cav ci sia stato "un plotone di esecuzione". Negli audio fatti ascoltare in diretta da Quarta Repubblica si sente la voce dell'ormai defunto Amedeo Franco, relatore della causa, passata nella sezione feriale della Cassazione presieduta dal magistrato Antonio Esposito, dire cosa è successo in quei giorni. Amedeo Franco ammette chiaramente che non avrebbe voluto la condanna di Berlusconi, non voleva firmare le motivazioni. Ma c'è stata una pressione da colleghi e dall'alto. Il giudice, parlando con Silvio Berlusconi, definisce ciò che è accaduto come una "grave ingiustizia", di una "vicenda guidata dall'alto", di una sentenza emessa da un "plotone di esecuzione" che non era la sezione destinata a celebrare il processo. Esposito - ricordiamo - presiedeva la sezione feriale, quella chiamata a sbrigare le urgenze estive. "Hanno fatto una porcheria, che senso ha mandarla alla sezione feriale? Una questione così delicata...", si sente nell'audio. Nelle intercettazioni ambientali consegnate alla Corte di Strasburgo, il magistrato Franco definisce la sentenza di condanna "una porcheria" perché "Berlusconi doveva essere "condannato a priori. Il magistrato, quindi, ribadisce che se avesse saputo di "questo plotone di esecuzione mi sarei dimesso, mi sarei dato malato. Non volevo essere coinvolto in questa cosa". Le parole sono chiare. Ma ora c'è qualcosa in più.
Le tre testimonianze shock. Questa sera, infatti, a Quarta Repubblica sono spuntate altri documenti-video choc. Ma questa volta riguardano direttamente Antonio Esposito, il presidente del collegio di Cassazione che nel 2013 condannò Berlusconi in via definitiva. Si tratta di tre testimonianze raccolte dalla difesa di Berlusconi negli anni scorsi con regolari indagini difensive e consegnate a suo tempo alla Corte di Strasburgo. Le testimonianze sono di tre persone che lavoravano con diverse mansioni in un hotel di Ischia dove Esposito andò in vacanza più volte, fra il 2007 e il 2010. Quindi, anni prima della Cassazione e della "porcheria". Nei video mostrati in diretta da Nicola Porro - registrati durante l'interrogatorio difensivo del 3 aprile 2014 - si vede come tutti e tre - lo chef, il cameriere, l'addetto al bagno termale - raccontino come Esposito fosse solito definire Berlusconi "una chiavica", una fogna. Epiteto confermato da tutti e tre i testi. E nel video mostrato a Quarta Repubblica si vede (e sente) chiaramente. "Se mi capita, gli devo fare un mazzo così a Berlusconi", riferisce uno dei tre testimoni in merito a quanto detto da Esposito in un'altra occasione. E un altro commenta sempre nell'interrogatorio difensivo: "Poi lo ha fatto davvero".
Per correttezza, spieghiamo anche che l'hotel in questione apparteneva a un onorevole di Forza Italia. E a quanto sembra, Esposito ironizzava (noncurante del contesto) sul partito del Cav con frasi del tipo: "Come si fa a stare con questi qua?". Quindi, sembrava proprio essere convinto delle sue parole...
La testimonianza di Antonio Manzo. Ma i colpi di scena non finiscono qui. A Quarta Repubblica viene anche mostrata la testimonianza di Antonio Manzo, all'epoca dei fatti cronista de Il Mattino. Il giornalista racconta che il giudice Antonio Esposito gli concesse un'intervista esclusiva e proprio durante il botta e risposta gli anticipò quelle che sarebbero state le motivazioni della sentenza di condanna a Silvio Berlusconi. Motivazioni che non erano ancora state scritte al momento dell'intervista. "Non è troppo corretto", dice oggi Manzo. Capiamo meglio. Esposito, il primo agosto, 30/60 minuti dopo la condanna del Cav chiamò il giornalista Manzo, dicendogli di voler rilasciare un'intervista nei prossimi giorni. Cinque giorni dopo c'è l'intervista. "Ovviamente - continua Manzo - vista la delicatezza della materia e per mia abitudine, registrai la conversazione. Fatta l'intervista gli mando una copia e l'accetta". E cosa dice in questa telefonata? "Mi aveva detto: 'Noi andremo a scrivere nella sentenza che...'". Anticipa, quindi, le motivazioni della sentenza. Ma il giorno dopo l'uscita dell'intervista, Esposito provò a smentire tutto, "mi chiamò con un tono molto duro", parlò di una chiacchierata con un amico, disse che il contenuto dell'intervista non rispecchiava fedelmente quanto si erano detto, denunciò omissioni e aggiunte. Esposito, quindi, portò il quotidiano e Manzo in tribunale, chiese milioni di euro di danni. Ma fu sconfitto. Perché, tre anni fa, il presidente della quarta sezione civile del Tribunale di Napoli, Pietro Lupi, sbugiardò Esposito, confermando che né il Mattino né il giornalista Manzo avevano diffamato il giudice che ha condannato Berlusconi. Le obiezioni di Esposito erano prive di fondamento: l'intervista non era stata manipolata. Manzo a Quarta Repubblica rivela anche che aveva già avuto contatti con Esposito prima della condanna di Berlusconi. "Esposito aveva un giudizio prevenuto (nei confronti del Cav, ndr)?", chiede il giornalista del programma. "Qualcosa c'è, qualcosa potrebbe esserci andando a ripescare i giudizi pre-processo". "Giudizi che aveva nelle telefonate con te?", domanda ancora. "Sì", conclude lapidario.
Le parole di Claudio D'Isa, ex giudice di Cassazione. "La sentenza aveva la sua importanza, una rilevanza sul vivere sociale". Così Claudio D'Isa definisce la sentenza di condanna nei confronti di Silvio Berlusconi. Una sentenza fatta in fretta e furia durante la sezione feriale. D'Isa è uno dei cinque giudici che ha firmato la sentenza della condanna definitiva del Cav. "Solitamente c'è la firma di un presidente - dice il giornalista - come mai c'è la firma di tutti e cinque i giudici?" "Noi tutti del Collegio dovevamo andare in ferie. Quindi stabilimmo che per abbreviare i tempi ognuno di noi si sarebbe occupato della stesura di una parte della motivazione", risponde D'Isa. Fu un plotone d'esecuzione? "No guardi, sa quella frase che si dice a Napoli quando si scopre l'ovvio? - domanda ironico -. L'acqua è fresca? Vai a chiedere all'acquaiolo se l'acqua è fresca. Certamente l'acqua è fresca". Non c'è altro da aggiungere.
Parla Antonio Manzo, ecco cosa disse Antonio Esposito di Amedeo Franco. Francesco Lo Dico su Il Riformista il 17 Luglio 2020. È il primo agosto 2013. Silvio Berlusconi viene condannato in via definitiva a quattro anni di reclusione per frode fiscale nel processo sui diritti Mediaset. Come tutti i cronisti giudiziari d’Italia, Antonio Manzo, allora colonna portante della mitica Area globale del Mattino coordinata da Pietro Perone, assiste in diretta tv alla sentenza che ha visto piombare in Cassazione le troupe televisive di mezzo mondo, Cnn compresa. Ma Antonio Manzo, oggi direttore de La città di Salerno, è anche l’unico giornalista d’Italia che poco dopo la lettura della sentenza beneficia di un’inattesa telefonata. Quella del presidente del Collegio che ha appena letto la condanna per Berlusconi: il giudice Antonio Esposito. Fu la telefonata che si concluse con la promessa di una intervista sul processo appena celebrato, che lo stesso Esposito avrebbe dato nel corso di un’altra telefonata quattro giorni dopo. Fu una conversazione di 34 minuti che valse uno scoop al Mattino (“Berlusconi condannato perché sapeva”, era stata l’anticipazione clamorosa del quotidiano napoletano), ma anche una querela per diffamazione al giornale e a Manzo stesso. «Noi non andremo a dire quello non poteva non sapere, no tu, noi possiamo, potremo dire, diremo nella motivazione eventualmente… tu eri, tu venivi portato a conoscenza di quello che succedeva», svelò il giudice nell’intervista. Esposito parlò di una chiacchierata informale, di una manipolazione. Chiese un risarcimento di due milioni di euro. Ma fu sconfitto. Tre anni fa, il presidente della quarta sezione civile del Tribunale di Napoli, Pietro Lupi, diede torto al giudice e confermò come la rivelazione fosse «sostanzialmente corrispondente al contenuto dell’intervista, come si apprezza dall’ascolto della registrazione», corretto il lavoro di editing e prive di fondamento le obiezioni di Esposito. Che, pur in assenza di un’espressa domanda, aveva “incautamente fornito al giornalista” la rivelazione. Non l’unica, a dire il vero. Perché per la prima volta, Antonio Manzo racconta al Riformista molti contenuti inediti di quella lunga telefonata. Che anche stavolta non mancheranno di far discutere.
Sono passati sette anni, Antonio. Ricordi come andarono le cose?
«Esposito mi chiamò forse mezz’ora dopo la lettura della sentenza: saranno state le 18.30 o le 19 al massimo. Quando vidi sul display del telefonino il nome del giudice mi alzai in fretta e furia dalla scrivania e raggiunsi la stanza di Alessandro Barbano. Non bussai neppure. Il direttore era a colloquio con altre persone. Gli mostrai il telefonino senza dire una parola. Barbano trasecolò. Mi fece cenno di rispondere»».
Tu rispondi e il giudice ti anticipa le motivazioni della sentenza, che sarebbero state depositate dalla sezione feriale della Cassazione soltanto il 29 agosto.
«No. Nel corso di quella prima conversazione provo già a sottoporgli qualche domanda sulla sentenza, ma Esposito mi dice che in quel momento non ne vuole parlare. “Ok”, gli rispondo, “però facciamo patto e promessa che l’intervista la farai con me. Se non la fai con un amico, non puoi farla con nessun altro”. Esposito ride, concorda, riaggancia. Ci risentiamo per l’intervista tre giorni dopo, il 4 agosto».
Un amico? È per questo che ti chiamò?
«Conoscevo Esposito da trent’anni, sin dai tempi in cui era pretore a Sapri. Quella non era certo la prima telefonata che mi faceva. Né la prima sulla sentenza Berlusconi, né la prima in generale. Mi chiamò, ad esempio, anche per annunciarmi che era stato designato alla presidenza della Sezione feriale che avrebbe giudicato il Cavaliere. O per giudicare positivamente il comportamento composto di Totò Cuffaro, che lui aveva condannato per mafia».
Dunque ti telefonò per condividere la solennità di quel momento? Era stato il primo giudice a condannare definitivamente Berlusconi dopo 88 diversi processi.
«Esposito aveva appena letto la sentenza. Ben conoscendo il personaggio, avvertii in lui una comprensibile “accelerazione emotiva”».
Accelerazione emotiva, ma anche giudiziaria. La prescrizione, solo per una parte dell’accusa – frode per l’anno 2002 – sarebbe scattata a detta di autorevoli fonti il 25 settembre. Per la presunta frode del 2003 c’era tempo addirittura fino al 25 settembre dell’anno successivo. Ma sul fascicolo era segnata, sotto la dicitura “urgentissimo”, la data dell’1 agosto. Ti disse qualcosa a proposito di questa discrepanza?
«Hai ragione. Difatti gli chiesi anche io di questa accelerazione. Esposito rispose che la convocazione della feriale serviva a evitare la prescrizione. Che era, insomma, un atto dovuto. Doveva fissare l’udienza subito, il prima possibile».
Ma Esposito sapeva che in realtà sarebbe scattata solo a settembre?
«Mi rispose che dovevano agire sulla base dell’indicazione della sezione di provenienza, che indicava come scadenza il primo agosto. “Se si accorgono che il fascicolo sta per andare in prescrizione”, mi disse, “lo mandano alla feriale, capito?”»
Obiettasti qualcosa?
«Sì, gli dissi che quel termine oscillava, che la scadenza in realtà oscillasse. Sul Mattino del 21 luglio, poco prima della sentenza, avevo scritto infatti che da calcoli milanesi era emerso che la prescrizione sarebbe scattata il 13 settembre».
Esposito che ti rispose?
«Mi disse testualmente: “Questo non lo so”».
Non lo sapeva. Quindi si limitò a eseguire senza aver fatto i calcoli?
«Ribadì che doveva fissare l’udienza sulla base delle indicazioni della sezione di provenienza, che aveva affidato tutto alla feriale per evitare la prescrizione del primo agosto. Precisò che aveva fissato molte udienze oltre a quella di Berlusconi. Disse, alla lettera, di quei processi: “Li acchiappiamo per i capelli: di qua non si scappa, non esiste proprio”».
La condanna in appello era del maggio 2012. Dopo un anno e mezzo arrivò la sentenza definitiva in Cassazione. Un record.
«Glielo feci notare. “Hanno fatto le cose a tamburo battente, proprio per evitare la prescrizione”, commentò. “Per me il processo di Berlusconi era un processo come gli altri, ma che dovevo fare? Dovevo fare finta di non vederlo? Era una strada obbligata, hai capito insomma?”, si difese. “Certo”, aggiunse, “si potevano fare i calcoli dopo, ma io devo stare a quello che mi dice la sezione di provenienza. Io non lo posso sapere se Milano ha sbagliato oppure no, giusto?”».
Neanche lui sembrava troppo convinto delle date, o sbaglio?
«Rispose che a Milano avevano fatto i calcoli anche sulla base delle interruzioni perché il processo era stato interrotto diverse volte. “È andato due volte in Cassazione, due volte alla Corte costituzionale”, precisò».
Quindi conosceva bene l’iter processuale.
«Certamente. Semplicemente non aveva rifatto i calcoli. Ma io a quel punto della telefonata insisto: “Tutti d’accordo sulla data”?»
E cosa risponde il giudice?
«“No, quella spetta solo a me, va bene? Sono io che fisso i processi”».
Quindi avrebbe potuto spostare la data in avanti, in teoria.
«Sì, poteva farlo. Anche se l’indicazione era quella dell’1 agosto. Mi spiegò peraltro che dal 10 agosto in poi, in ragione dei turni e delle ferie concordate, avrebbe presieduto il collegio un altro collega, Marasca».
Se non avesse corso, sarebbe stato un altro collegio a emettere la sentenza. E non il suo. Chiaro.
«Abbastanza chiaro».
Da quello che si intuisce dalle conversazioni del giudice Franco con Berlusconi, arrivare alla sentenza non fu facile. Esposito te ne parlò?
«Mi disse che i membri del collegio erano stati in Camera di Consiglio per sette ore consecutive: ci fu solo una breve pausa per dei panini. Vennero analizzati tutti e 91 motivi di ricorso degli imputati, di cui 46 riguardavano il solo Berlusconi. “Ma questo non darlo, non darlo”, sottolineò».
Tra i colleghi di Esposito c’era anche il relatore della sentenza, il giudice Franco. Ti disse per caso se anche lui aveva condiviso la sentenza di condanna? Se il verdetto era stato unanime?
«“Questo non te lo posso dire”, mi risponde. Ma a questo punto aggiunge un dettaglio importante: “È uscita un’indiscrezione che mi indurrà a fare una segnalazione al Consiglio dell’ordine”».
E qual era l’indiscrezione?
«Mi rispose e ti rispondo: “L’indiscrezione era relativa alla linea morbida del relatore, che si era contrapposta alla rigida chiusura ermetica del presidente, hai capito?”. Si riferiva a un’indiscrezione apparsa su Il Giornale».
Capito benissimo, il relatore era Amedeo Franco. In pratica Esposito alluse al disaccordo sulla condanna che sarebbe emerso solo oggi nelle parole consegnate dal defunto relatore a Berlusconi. L’indiscrezione lo aveva preoccupato, sembra.
«Esattamente. E ti spiego perché».
Spiegami.
«Esposito parlò di questa indiscrezione con il primo presidente della Cassazione. “Ma ci siamo detti: vabbè, lasciamo stare”, mi racconta. “Io non ho alcun interesse ad accendere il fuoco”, conclude».
Molto chiaro. Non voleva che emergesse il disaccordo, altrimenti sarebbe saltato il processo. Corretto?
«Ciononostante, mandò una smentita al Giornale. Ma non approfondii oltre, perché in quel momento volevo arrivare alla sentenza».
Peraltro, pare che dei membri di quel collegio, Franco fosse l’unico specializzato in reati tributari. Sulla base della tua lunga conoscenza di Esposito, sai dirci se avesse avuto qualche familiarità professionale con la materia fiscale in passato?
«Che io sappia non se n’è mai occupato. Era sempre stato un “cane da presa”, se mi puoi passare l’espressione colorita, in materia di reati urbanistici».
Come ha documentato il nostro giornale, Franco andò da Berlusconi nel 2014 e gli parlò di un “plotone d’esecuzione”, di una sentenza vergognosa e calata dall’alto. Che firmò anche se non condivideva. Esposito ti fece mai cenno alle perplessità del giudice Franco, che molti stanno tentando di screditare post-mortem?
«No. Non mi disse nulla del genere. Fatto è che nei giorni precedenti la celebrazione del processo, Esposito mi chiamò».
E che cosa ti disse? Ricordi qualche dettaglio che potesse far sorgere il minimo sospetto di un giudizio pilotato?
«Nel corso di quelle telefonate cercai di capire qualcosa, innanzitutto, sul tipo di processo che avrebbe fatto. Ma per motivi di legittimo riserbo, mi astengo dal fare valutazioni che oggi potrebbero apparire come presunti pregiudizi».
Esposito presentò a tal proposito un esposto (rimasto senza reati né indagati e quasi archiviato) contro le dichiarazioni rese all’avvocato Bruno Larosa (al tempo tra i difensori di Silvio Berlusconi) da tre dipendenti dell’hotel di Lacco Ameno, dipendenti di Domenico De Siano, il coordinatore regionale di Forza Italia. I quali riferirono di aver sentito Esposito, nel 2014, definire Berlusconi “una chiavica”. Ne parlò mai in questi termini anche con te?
«Posso dirti che il suo giudizio era tutt’altro che equanime».
Dunque reputi anche tu che Esposito potesse insultare Berlusconi con questi epiteti?
«Non credo che Esposito si spingesse a tanto, nel pubblicizzare un sentimento politicamente negativo.
Lo odiava politicamente quindi?
«Non credo che gli fosse simpatico, dato umano. Ma ribadisco: oppongo il mio riserbo».
A febbraio scorso il tribunale civile ha messo in discussione, nella sostanza, quella sentenza definitiva della Cassazione. Che te ne pare?
«È la conferma che probabilmente un collegio composto anche da esperti in reati tributari e, quindi, con attitudini professionali più inclini alla valutazione di reati economico-fiscali avrebbe potuto decidere diversamente».
Torniamo alla telefonata. A questo punto arriva il momento clou. Quello in cui il giudice ti rivela il cuore del ragionamento che ha portato alla condanna di Berlusconi, che tutti apprenderanno soltanto il 29 agosto, una volta depositate le motivazioni. Come è andata di preciso?
«Io voglio sapere della sentenza. Perciò vado dritto al punto e gli chiedo: “Senti una cosa, in Italia negli ultimi 20 anni è passato un principio molto contestato: quello del «non poteva non sapere». È giuridicamente sostenibile”?, gli chiedo.
Ed Esposito?
«“Ma no, assolutamente no. Che significa non poteva non sapere? Bisogna vedere la valutazione di fatto. Bisogna vedere quale posizione occupi. Se hai portato un certo contributo a quello che ha portato all’evento. Non poteva non sapere può significare tutto o non significare niente”, fa lui».
E come arrivi a ottenere la rivelazione?
«“No, non mi portare su questo argomento”, dice lui. “Ma io, ma io. Ho capito”, rispondo. Poi il giudice fa una pausa e mi dice tutto: “Noi non andremo a dire quello non poteva non sapere. Noi possiamo, potremo, diremo nella motivazione: eventualmente tu venivi portato a conoscenza di quello che succedeva. Non è che non potevi non sapere perché tu eri il capo. Non è detto che devi sapere se tu sei il capo, o no? Tu non potevi non sapere, perché Tizio, Caio e Sempronio hanno detto che te lo hanno riferito, insomma. E allora è un po’ diverso questo fatto. Questo in sentenza noi lo diremo, va bene?”».
Sono parole piuttosto inequivocabili. Ma allora perché ti fece causa?
«Nell’intervista che pubblicai, anteposi a questa rivelazione una domanda. «Non è questo il motivo per cui si è giunti alla condanna? E qual è allora?». Esposito disse che nella conversazione non era stata formulata. Ma come spiegai io, come spiegò il Mattino, e come confermò il giudice della sezione civile del Tribunale di Napoli, si trattò di un’operazione di editing, che inframmezzava quella lunga risposta, e chiariva meglio ai lettori la relazione tra la risposta stessa e l’argomento trattato».
Cosa disse esattamente il Tribunale a proposito di quello scoop?
«Il tribunale spiegò che il giudice era consapevole di avermi rivelato la motivazione della condanna di Berlusconi e non poteva lagnarsene. «Il dottor Esposito – scrisse il Tribunale di Napoli – doveva necessariamente essere consapevole di ciò» e ricorda anche che il magistrato «non riesce a trattenersi ed in pochi secondi pronuncia quelle frasi che non possono che rivolgersi ai giudici che devono scrivere la motivazione del caso Mediaset»».
Esposito contestò anche che si trattasse di un’intervista. Parlò di una chiacchierata con un amico.
«Sai come cominciò quella conversazione?»
Mi butto. Ciao?
«Spiritoso (ride, ndr.). No, cominciò così: “L’unica persona con cui puoi fare un’intervista seria sono io”. Così gli dissi. E ci mettemmo a ridere».
L’indomani, quando pubblicasti l’intervista, non doveva essere altrettanto di buon’umore, immagino.
«Mi chiamò alle 9 del mattino. Era infuriato. “Hai scritto cose che non ti ho detto”, urlò. Poi attaccò».
Era già stato redarguito?
«Non ne ho certezza, ma penso proprio di sì. Dai vertici dello Stato e del Csm».
L’intervista fece subito scalpore. Finisti sotto il fuoco incrociato di alcuni colleghi. Un po’ come Franco oggi. Perché?
«Perché in molti lessero nella mia intervista, o meglio vollero leggere per motivi di “parrocchia”, un atto di sabotaggio. Una bomba scagliata contro il processo del secolo. La storia ha dimostrato che si trattò invece di una semplice operazione giornalistica. Raccolsi una rivelazione e la condivisi con i lettori. Puro e semplice giornalismo».
A farti la guerra, fu in particolare il Fatto quotidiano. Che ritagliò pezzi di conversazioni di quella intervista che potessero mettere in cattiva luce te, e in buona luce Esposito. Perché lo difesero a tuo modo di vedere?
«Perché Esposito aveva condannato Berlusconi. L’unico che ci era riuscito. Esposito si candidava così a diventare la punta avanzata dell’antiberlusconismo nazionale. A prescindere dal merito di quell’intervista, andava difeso. Da lì a breve sarebbe subentrata l’applicazione, peraltro retroattiva, della legge Severino che avrebbe segnato l’estromissione di Berlusconi dal Parlamento».
Fatto sta che a febbraio del 2014 il Csm aprì il processo contro Esposito, proprio per aver violato il dovere del riserbo con l’intervista che ti aveva concesso. Il Csm lo assolse dieci mesi dopo con motivazioni lunghe 50 pagine. Che idea ti sei fatto di quella sentenza, visto e considerato che il Tribunale tre anni dopo riconobbe invece le responsabilità del giudice nella causa intentata contro di te?
«Il Procuratore generale aveva chiesto per Esposito la censura. Ma il Csm lo salvò».
Quando il Csm salvò Esposito, pensasti: “cavolo, qui perdo la causa, i giudici non si fanno la guerra tra loro?” Eri preoccupato insomma?
«Preoccupato sì. Sospettoso no. “C’è un giudice a Berlino”, pensai. Nonostante le molte lezioni dal vivo che ebbi la fortuna di avere, in materia, dal presidente Francesco Cossiga, restai fiducioso».
Ha mai risentito Esposito dopo quella lite seguita all’intervista?
«No, mai più».
Ma in definitiva, reputi che il giudice Esposito provò umanamente soddisfazione in cuor suo, per aver condannato Berlusconi, o che in fondo ne fu in parte rammaricato come Franco?
«Ti rispondo con una citazione di Leonardo Sciascia: “I giudici che hanno un potere delegato dal popolo debbono soffrire il loro potere, invece di gustarlo”».
Fulvio Bufi per il ''Corriere della Sera'' il 7 luglio 2020. Nelle estati a cavallo tra il 2007 e il 2010 l'albergo Villa Svizzera di Lacco Ameno, sull'isola d'Ischia, era frequentato da un signor Esposito - Antonio Esposito - che in hotel tutti sapevano fosse un importante magistrato. Lo era. Il dottor Esposito era giudice di Cassazione, e visse un momento di grande notorietà perché nell'agosto del 2013 presiedeva la seconda sezione penale della Suprema Corte che confermò, rendendola definitiva, la condanna a quattro anni di reclusione nei confronti di Silvio Berlusconi nel cosiddetto processo Mediaset. Una sentenza che provocò anche l'espulsione di Berlusconi dal Senato. Quelle vacanze estive dell'alto magistrato, oggi in pensione, tornano d'attualità perché su alcune frasi a lui attribuite da tre dipendenti dell'albergo ischitano si basa in parte il ricorso che l'avvocato napoletano di Berlusconi, Bruno Larosa, ha depositato alla Corte europea dei diritti dell'uomo di Strasburgo. Nell'ambito di proprie indagini difensive, Larosa, il 3 aprile del 2014, ha ascoltato e fatto videoregistrare le deposizioni di due camerieri di sala e di un bagnino del Villa Svizzera. I tre concordano nel riferire che Esposito all'epoca era solito esprimere pesanti apprezzamenti nei confronti del fondatore di Forza Italia. In conseguenza di questa indagine, il magistrato ha presentato a sua volta un esposto alla Procura di Napoli, segnalando che i tre dipendenti dell'albergo avrebbero riferito cose non vere e commesso quindi il reato di false dichiarazioni al difensore. È stato aperto un fascicolo, destinato però a non andare lontano perché dopo sei anni l'eventuale reato sarebbe già prescritto, ma proprio ieri mattina Esposito è tornato in Procura per integrare la sua denuncia, quindi il pm dovrà valutare il nuovo materiale. La ricostruzione di quanto raccolto dall'avvocato Larosa da un lato e dell'esposto del magistrato dall'altro non può però non tener conto di un dato certo: l'hotel Villa Svizzera è di proprietà del senatore di Forza Italia Domenico De Siano, e quindi i camerieri Michele D'Ambrosio e Giovanni Fiorentino, e il bagnino Domenico Morgera - ossia le tre persone informate dei fatti ascoltate durante le indagini difensive - sono stipendiati da uno degli uomini più vicini a Berlusconi. Che cosa hanno riferito i tre? Frasi che certamente lascerebbero intendere una scarsa stima (per usare un eufemismo) da parte del magistrato verso l'ex premier. Ma soprattutto, secondo la difesa di Berlusconi, metterebbero in discussione la serenità di giudizio di chi fu chiamato a dire la parola definitiva sul processo Mediaset e sul destino giudiziario e di conseguenza politico di chi ne era il principale imputato. «Un giorno (Esposito, ndr ) mi chiese del mio datore di lavoro, all'epoca sindaco di Lacco Ameno», mette a verbale D'Ambrosio. «Quando gli dissi il nome - aggiunge- mi chiese se fosse di Forza Italia e alla mia risposta affermativa il dottor Esposito esclamava "Sta con quella chiavica di Berlusconi"». Il cameriere sostiene che in un'altra circostanza, invece, Esposito avrebbe detto: «A Berlusconi, se mi capita l'occasione, gli devo fare il mazzo così». Quasi in fotocopia la deposizione di Fiorentino: «Il dottor Esposito spesso chiedeva di chi fosse la struttura alberghiera e io rispondevo di De Siano, esponente politico di Forza Italia. La sua risposta in napoletano era "Ah, sta con quella chiavica di Berlusconi"». Fiorentino attribuisce a Esposito anche un'altra frase: «Affermava che prima o poi avrebbero arrestato sia il mio datore di lavoro che il Berlusconi. Ciò è avvenuto più volte. Era un continuo». Infine Morgera. Pure lui riferisce che una volta il giudice «riguardo a Berlusconi disse: "Che bella chiavica"».
Antonio Esposito querela Nicola Porro e Rete 4: "Magistratura marcia? Inqualificabile". Libero Quotidiano il 07 luglio 2020. L'avvocato Antonio Grieco, legale del giudice Antonio Esposito che condannò Silvio Berlusconi in via definitiva, ha diffuso una nota in cui spiega di aver ricevuto mandato dal giudice di "adire le vie legali nei confronti di tutti coloro che si siano resi responsabili della gravissima diffamazione". Per il legale durante la trasmissione televisiva Quarta Repubblica "si è giunti, in maniera inqualificabile, a consentire al giornalista Piero Sansonetti di affermare, tra l’altro, che la magistratura è marcia". Per il legale durante la trasmissione televisiva condotta da Nicola Porro “si è giunti, in maniera inqualificabile, a consentire a Sansonetti di affermare, tra l’altro che moltissimi processi sono truccati trame della magistratura italiana e quella del Giudice Esposito fa parte, sta dentro a questa storia, gridando "il Giudice Esposito è uno scandalo"". La trasmissione Mediaset infatti è tornata sulla vicenda della condanna di Berlusconi, mandando in onda le dichiarazioni rese a uno dei legali del Cav e poi allegate al suo ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo. Infine l’avvocato di Esposito ha chiesto a Retequattro di dare “integrale lettura del presente comunicato di rettifica e smentita” nel corso delle trasmissioni dell’emittente.
(ANSA l'8 luglio 2020) - "Sono radicalmente false" le dichiarazioni, anticipate da alcuni organi di stampa, rese dai dipendenti di un albergo di Ischia al difensore di Silvio Berlusconi nell'ambito di indagini difensive e che tirano in ballo il giudice Antonio Esposito, presidente della terza sezione feriale della Cassazione che nell'agosto del 2013 emise la sentenza di condanna nell'inchiesta Mediaset per frode fiscale. Lo sostiene in una nota l'avvocato Antonio Grieco, legale di Esposito. "Le tre persone assunte a verbale dal legale di Berlusconi - afferma la nota - sono tutti dipendenti (un bagnino termale, un cameriere, uno chef), dell'albergo di proprietà di Domenico Siano, già sindaco di Lacco Ameno, senatore di FI, coordinatore regionale di FI, molto legato a Silvio Berlusconi al punto da farsi delegare come ufficiale dello Stato Civile per celebrare le nozze della sorella della fidanzata del Berlusconi, con costui testimone di nozze" Il legale del giudice Esposito afferma, inoltre, che il suo assistito "venuto a conoscenza di tali dichiarazioni anni dopo nel corso di un giudizio civile da lui promosso nei confronti del Berlusconi dopo aver azionato la procedura di mediazione, ha sporto formale querela nei confronti dei dichiaranti presso la Procura della Repubblica di Napoli ove è pendente il procedimento". Nella querela si è evidenziata "l'assurdità e l'evidente inverosimiglianza di dichiarazioni secondo cui era "ricorrente"(testuale) che il giudice Esposito "all'ingresso del ristorante invece di dire buonasera, era solito affermare "ancora li devono arrestare?" riferendosi a Berlusconi ed al mio datore di lavoro"(testuale). In querela si evidenziava ancora l'assurdità di dichiarazioni secondo cui, in tutte le parti dell'albergo, "ristorante", "direzione", "patio", Esposito era solito pronunziare gravissime espressioni di estrema volgarità nei confronti del Berlusconi".
Antonio Esposito non molla contro Silvio Berlusconi: "Senatore a vita? Mai". Libero Quotidiano l'8 luglio 2020. "Silvio Berlusconi senatore a vita? No!". Non seppellisce l'ascia il giudice Antonio Esposito, il magistrato che il primo agosto 2013 presiedeva la sezione feriale della Cassazione incaricata di processare l'ex premier per frode fiscale che in un'intervista a Repubblica spiega che ha condanna al Cavaliere fu decisa all'unanimità. Esposito respinge l'accusa di malafede nei confronti dell'imputato a causa di problemi giudiziari che riguardavano il figlio a Milano. "L'affermazione di Franco (uno dei componenti del collegio, ormai scomparso, che in un audio getta ombre sul processo ndr) è radicalmente falsa. Non subii pressioni né da parte della Procura di Milano né da chiunque altro". Tornando sulla sentenza, Esposito sottolinea che "se Franco fosse stato in disaccordo con il verdetto avrebbe potuto esplicitarlo nelle forme di legge: in busta chiusa e sigillata. Ma non fu in disaccordo ed anzi redasse, come gli altri componenti, una parte della motivazione poi approvata collegialmente in apposita camera di consiglio, dove la motivazione fu letta parola per parola e fu da tutti sottoscritta, pagina per pagina, proprio perché tutti avevano concorso a formarla". Per il giudice "il comportamento di Franco che va a giustificarsi con il suo imputato che ha concorso a condannare e muove accuse totalmente false agli altri colleghi che non erano assolutamente prevenuti, è inqualificabile ed inquietante. Purtroppo non è più possibile denunciarlo". Quanto alle testimonianze dei tre dipendenti di un albergo a Ischia, secondo i quali Esposito pronunciò frasi offensive contro Berlusconi, il giudice è netto. "Come ebbi conoscenza di tali dichiarazioni, sporsi querela nei confronti dei tre camerieri chiedendone la punizione per le dichiarazioni rese (che sembravano fotocopie l'una dell'altra) evidenziando la loro palese falsità, inverosimiglianza e strumentalità ad un ben evidente scopo. Ho segnalato anche la significativa circostanza che i tre erano dipendenti di un albergo di proprietà di un politico vicinissimo a Berlusconi". Dopo aver sottolineato di tenere per sé i "giudizi politici su tutti, ivi compreso il Berlusconi", Esposito alla domanda se vede Berlusconi come senatore a vita è secco: "No", risponde.
Ora Esposito corre alla Cedu per difendere l'indifendibile. Il giudice che condannò Berlusconi giura: "Io sempre imparziale". Ma fu lui a dire: "Silvio è una chiavica. Gli farò il mazzo". Tutte le ombre sulla sentenza. Fabio Franchini, Giovedì 09/07/2020 su Il Giornale. Gli audio del giudice Amedeo Franco sulla sentenza contro Silvio Berlusconi del primo agosto 2013 hanno scoperchiato un vaso di Pandora, portando alla luce una verità lungamente celata. Ricapitoliamo. La scorsa settimana Quarta Repubblica di Nicola Porro ha mandato in onda in esclusiva un audio in cui Franco – la toga è venuta a mancare nel maggio 2019 –, in un incontro informale con il Cavaliere e alcuni testimoni, commentava l'"ingiusta" sentenza di condanna emessa contro il leader di Forza Italia dalla sezione feriale della Cassazione presieduta da Antonio Esposito.
Le carte del golpe e il silenzio dei complici. Una condanna per frode fiscale nell’ambito del processo Mediaset che, con la successiva entrata in vigore della Legge Severino, ha estromesso l’ex premier dal Senato e dunque dal Parlamento. Questo lunedì il programma ha portato alla luce un nuovo contributo: si tratta della testimonianza di tre dipendenti di un hotel di Ischia nel quale Esposito aveva soggiornato; i tre sostengono che Esposito avrebbe definito Berlusconi "una chiavica", aggiungendo che "se mi capita l’occasione, gli devo fare un mazzo così a Berlusconi". Frasi inequivocabili ("chiavica", "un mazzo così") che il giudice avrebbe pronunciato qualche anno prima del processo a Berlusconi. Una testimonianza che il giudice diretto interessato "palese falsità" ha bollato come "palese falsità". Ora Esposito, travolto dallo scandalo, prova a correre ai ripari, ricorrendo alla Corte europea dei diritti dell’uomo. La toga, infatti, ha rivolto un’istanza alla Cedu per essere autorizzato a intervenire nel procedimento "Berlusconi contro Italia" per "dimostrare la sua assoluta imparzialità e per argomentare, contrariamente a quanto sostenuto dai legali di Berlusconi, in merito alla totale regolarità e correttezza del processo". Insomma, "assoluta imparzialità" e "regolarità e correttezza del processo". Il contrario di quanto sostenuto invece da Franco. Sul collega scomparso, Esposito si è così espresso: "La sua affermazione di Franco è radicalmente falsa. Il comportamento di Franco che va a giustificarsi con il suo imputato che ha concorso a condannare e muove accuse totalmente false agli altri colleghi che non erano assolutamente prevenuti, è inqualificabile ed inquietante. Purtroppo non è più possibile denunciarlo".
L'audio di Franco su Berlusconi. L’audio che ha fatto scoppiare lo scandalo consiste in un’intercettazione ambientale durante l’incontro tra Franco, Berlusconi e alcuni testimoni, realizzata proprio da uno dei presenti. E stando al commento di Franco, il processo viene descritto come tutto fuorché imparziale. Queste le sue parole: "Berlusconi deve essere condannato a priori perché è un mascalzone! Questa è la realtà, a mio parere è stato trattato ingiustamente e ha subito una grave ingiustizia. L’impressione che tutta questa vicenda sia stata guidata dall’alto". E ancora: "In effetti hanno fatto una porcheria perché che senso ha mandarla alla sezione feriale? Voglio per sgravarmi la coscienza, perché mi porto questo peso, ci continuo a pensare. Non mi libero. Io gli stavo dicendo che la sentenza faceva schifo".
Esposito scrive alla Cedu. Oggi la notizia dell’istanza di Esposito, depositata a Strasburgo martedì scorso. I legali di Esposito, Antonio Grieco e Antonio Pagliano, nella nota, fanno sapere l’intenzione di agire legalmente con querele per "affermazioni gravemente diffamatorie espresse" nella puntata di Quarta Repubblica del 29 giugno.
Esposito chiede di parlare alla Cedu, “Uomo di parte, non giudice terzo”. Angela Stella su Il Riformista l'11 Luglio 2020. L’ex giudice Antonio Esposito – presidente del collegio di Cassazione che nel 2013 condannò in via definitiva Silvio Berlusconi – ha chiesto alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo di essere ascoltato per dimostrare la sua “assoluta imparzialità” e argomentare, contrariamente a quanto sostenuto dai legali di Berlusconi (Andrea Saccucci, Bruno Nascimbene, Franco Coppi e Niccolò Ghedini), sulla “totale regolarità e correttezza” del procedimento in cui il leader di Forza Italia era accusato di frode fiscale. Per quella condanna Berlusconi perse il suo seggio in Senato, peraltro sulla base della Legge Severino, approvata in tempi successivi all’ipotesi di reato. Esposito ha presentato istanza in tal senso martedì scorso nell’ambito del procedimento “Berlusconi contro Italia” presso la Cedu. Lo hanno reso noto tramite un documento i suoi legali Antonio Grieco e Antonio Pagliano. Dunque ora il giudice vuole andare a difendere il suo onore e il suo operato davanti ai colleghi di Strasburgo, dopo che il nostro giornale ha divulgato una dichiarazione registrata del dottor Amedeo Franco – relatore in Cassazione in quel procedimento – secondo cui la sentenza di condanna di Berlusconi da parte della Cassazione sarebbe stata decisa a priori e probabilmente teleguidata. Tecnicamente la richiesta di autorizzazione per essere ascoltato non comporta automaticamente la presa in carico della testimonianza di Esposito da parte dei giudici. In realtà, l’autorizzazione andrebbe richiesta ufficialmente solo dopo l’avvenuta comunicazione al Governo italiano del ricorso per l’apertura del contraddittorio, ma ancora non siamo in questa fase. E esiste anche l’ipotesi che la Corte decida solo in base alle carte che ha in mano senza sentire nessuno. I tempi, comunque, dovrebbero essere maturi se proprio in questo periodo a Strasburgo i giudici stanno vagliando le cause del periodo 2012-2013 che rientrano nella categoria delle ‘non urgenti’, anche se, come sappiamo, quella decisione della Cassazione ha cambiato le sorti politiche del nostro Paese. Se si iniziasse a discutere ora presso la Cedu, dovrebbero passare circa tre anni per la decisione: qualora fossero accolte le istanze dei legali di Berlusconi, si aprirebbe la strada per la revisione del processo, ma nulla accadrebbe ai giudici di quel collegio. A commentare la decisione di Esposito ci ha pensato il senatore di Forza Italia Maurizio Gasparri: «si conferma uomo di parte e non giudice terzo. Se avessimo usato il linguaggio veltroniano avremmo potuto definire l’ex magistrato Antonio Esposito, ‘il leader dello schieramento a noi avverso’. E già sarebbe una espressione fin troppo cortese nei confronti di un personaggio davvero a noi avverso. Testimonianze, fatti eclatanti, dichiarazioni di suoi ex colleghi lo inchiodano a una responsabilità evidente e gravissima, della quale prima o poi da qualche parte sarà chiamato a rispondere». Sempre da Forza Italia fanno sapere che i parlamentari Bergamini, Bernini, Fazzone, Floris e Rizzotti, membri della delegazione italiana al Consiglio D’Europa, hanno scritto una lettera al Presidente dell’Assemblea parlamentare di Strasburgo, Rik Daems, per sollecitare l’attenzione dell’Assemblea rispetto agli ultimi sviluppi in merito alla sentenza della Cassazione del 2013, «sviluppi che avrebbero determinato una deviazione della storia politica repubblicana, in sovvertimento della volontà popolare liberamente espressa dai cittadini». I membri della delegazione hanno altresì annunciato la presentazione di una mozione per una risoluzione volta a individuare strumenti di controllo che impediscano qualunque forma di uso politico della giustizia nei paesi membri dell’Assemblea.
Giudice Franco, nuove prove: "Forzato a firmare, ho paura". Subito dopo la sentenza anti-Berlusconi si confidò con due amici: "Pressioni per farlo condannare". Luca Fazzo, Giovedì 09/07/2020 su Il Giornale. Altro che pentimento a scoppio ritardato. Appena dopo avere condannato Silvio Berlusconi per frode fiscale, il giudice Amedeo Franco era così convinto di avere firmato una sentenza ingiusta, che sentì il bisogno di confidarsi. Non con Berlusconi, come avrebbe fatto solo qualche mese più tardi; ma con due volti amici, due persone di famiglia, lontane da ogni giro della politica. Due fratelli, Gianni e Carlo Glinni, nipoti di un magistrato importante: il presidente di sezione della Cassazione Paolo Glinni, membro del primo Consiglio superiore della magistratura. E oggi i fratelli Glinni escono allo scoperto, confermando e riempiendo di particolari il travaglio di Amedeo Franco. Che arrivò al punto di chiedere ospitalità in una loro casa in Brasile, per mettere più strada possibile tra sé e la Cassazione. Carlo e Gianni Glinni vengono intervistati dal Tg5 nell'edizione di martedì sera. Raccontano dello sfogo del loro amico Franco avvenuto a botta calda, dopo il deposito della sentenza: «Ricordo perfettamente - dice Carlo Glinni - che Amedeo mi accennò ad un grosso pressing fatto su questo collegio». Ovvero sulla sezione feriale della Cassazione, presieduta da Antonio Esposito, cui era stata assegnata all'ultimo momento il processo Berlusconi. Il pressing, dice Glinni, «veniva dall'alto». E «Amedeo era un giudice molto scrupoloso, per cui questa sentenza ingiusta, questa è la verità, l'aveva turbato molto». Ai due amici, il giudice descrive un processo finito prima ancora di cominciare: «Raccontò che si trovò di fronte ad un collegio completamente orientato, già orientato a condannare Berlusconi». Conclusione: «Berlusconi doveva essere condannato. E venne condannato». Aggiunge l'altro fratello, Gianni: «Ricordo che Amedeo era particolarmente turbato, mi disse Giovà, io ho firmato una cosa alla quale sono stato in qualche modo convinto ma non la ritengo giusta, una sentenza che ritengo sbagliata. Era veramente amareggiato». E Carlo Glinni: «Amedeo disse che se avesse saputo quello che sarebbe successo e la situazione nella quale si sarebbe andato a imbattere si sarebbe dato malato». È esattamente quanto qualche mese dopo Amedeo Franco va a raccontare a Berlusconi, con le confidenze che oggi vengono accusate di non essere genuine: e che invece coincidono con quanto a botta calda il giudice diceva ai due amici. Perché Gianni e Carlo Glinni parlano solo adesso: «Oggi riteniamo se ne possa parlare con tranquillità perché lui ce ne ha parlato con tranquillità. Fino a quando Amedeo era in vita non avevamo motivo di parlare di queste cose». A convincere i fratelli Glinni a raccontare tutto, è probabilmente anche la virulenza delle reazioni di questi giorni, in cui il giudice Franco - non più in grado di difendersi - è stato accusato sia di avere mentito, rivelando a Berlusconi un dissidio in camera di consiglio mai avvenuto, sia di averlo fatto per chissà quale fine recondito. Un trattamento che, secondo loro, la figura del giudice Franco non meritava. Ora anche le rivelazioni di Carlo e Gianni Glinni vanno ad aggiungersi ai numerosi riscontri arrivati in questi giorni alle rivelazioni di Franco. È importante il passaggio sulla sentenza che il giudice considerava tecnicamente sbagliata, giuridicamente infondata: e non a caso nel dicembre successivo, quando gli toccò occuparsi di un caso praticamente identico, Franco demolì con dovizia di argomenti la sentenza che aveva condannato Berlusconi. Ma ancora più importante è il passaggio in cui i due fratelli raccontano che la percezione del loro amico era quella di una decisione preconfezionata: «Berlusconi doveva essere condannato». Perché? Per ordine di chi? È questa la domanda che incombe sulla intera vicenda, e alla quale prima o poi andrà data una risposta.
L'intervista. “Amedeo Franco si voleva scusare con Berlusconi”, le rivelazioni di Michaela Biancofiore. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 7 Luglio 2020. Michaela Biancofiore, deputata di Forza Italia, è cresciuta a pane e Procura. Suo padre Donato veniva da San Giovanni Rotondo dove era amico del padre di Giuseppe Conte, che faceva il segretario comunale in Municipio. Poi Donato, detto Nino, diventa direttore nella cancelleria della Procura della Repubblica di Bolzano e la famiglia si sposta: è in quegli uffici che la futura parlamentare azzurra ha trascorso l’infanzia. Laureata in giurisprudenza con una tesi su Genesi e prospettive dello Spoil system in Italia, Michaela Biancofiore ci racconta un episodio fino ad oggi strettamente riservato. «L’audio che ha pubblicato Il Riformista lo conoscevo già. Ne sono testimone diretta. Perché le stesse cose Amedeo Franco le disse a me».
Andiamo con ordine. Come eravate in contatto?
«Avevo conosciuto all’università il giudice Amedeo Franco. O meglio il professor Amedeo Franco, che insegnava Diritto Costituzionale alla Libera Università del Mediterraneo, di Bari. È lì che mi sono laureata. Quando divenni sottosegretaria con il governo Letta, nel 2014, mi contattò e mi invitò a pranzo alla Casina Valadier, presso Villa Borghese a Roma».
Chi era presente?
«Eravamo in tre; oltre a me c’era Amedeo Franco e un noto avvocato romano che il professor Franco conosceva bene e che fu il tramite per invitarmi.
Come lo ha visto?
«Il professor Franco era un uomo mite, un buono. Forse perfino ingenuo, ma questo magari non lo scriva. Era un appassionato di diritto, un uomo dalla schiena dritta e dai principi morali rigorosi. Ma quella volta avevo davanti un uomo traumatizzato. Conosceva il mio rapporto di vicinanza con Berlusconi e mi aveva invitato per scusarsi con lui».
Ricorda le parole che usò?
«Sì, perché sono quasi identiche a quelle che ho risentito in quest’audio. Disse che Berlusconi non andava condannato, che aver apposto la firma in calce a una sentenza già scritta era stato un dolore immenso. Parlò di una regìa che pilotava le indagini e faceva pressioni sulle sentenza. Era stato condizionato in tutti i modi e se ne era fatta una malattia, ma sentiva l’esigenza di confidarsi con me e di liberarsi di un peso sulla coscienza».
Cosa altro le disse?
«Ricordo una frase in particolare che enunciò con gravità: «Tutti mi hanno contattato quando hanno saputo che ero nella commissione giudicante del processo Mediaset»».
Cosa intendeva secondo lei quando diceva: “Tutti”?
«Difficile dare l’interpretazione autentica di quella parola. Ma ripeté, guardandomi negli occhi, Tutti, mi hanno cercato tutti. E indicava con gli occhi verso l’alto».
Gli chiese perché alla fine firmò comunque la sentenza sui diritti Mediaset, e perché non abbia poi denunciato quelle pressioni?
«Mi disse che era in attesa di ottenere un incarico al Csm, che era troppo condizionato. Di aver eccepito dei rilievi ma di essere stato messo a tacere. Era timoroso nel fare nomi. A quel punto mi ha ripetuto quello che abbiamo sentito nell’audio: «Davanti a queste cose mi vergogno di essere magistrato». Così ho messo insieme qualche elemento e ho capito che c’è un filo conduttore, una cabina di regìa precisa».
Qual è il filo conduttore?
«Ricorda il fuorionda tra Fini e l’allora Procuratore capo di Pescara, Trifuoggi, su Berlusconi? Trifuoggi iniziò ad avere una attenzione selettiva che portò ad alcune indagini ben indirizzate. Nel 2012 ero una deputata tra le più vicine a Berlusconi, e mia madre che soffriva di Alzhaimer si ricoverò in una casa di cura in Abruzzo. Trifuoggi la fece indagare di gran carriera per averle trovato una svista sull’anagrafica di ricovero. “Truffa”. Mia madre aveva 77 anni e, appunto, un Alzahimer. Sbagliò nella compilazione dei dati del coniuge (conviveva con un compagno ma non erano sposati, ndr). Un atto gratuito e crudele che addolorò mia madre, morta poco tempo dopo. Ma che serviva».
A cosa?
«Ad accreditare Trifuoggi. Perché la vicenda andò su tutti i giornali, regionali e nazionali, come una sfida tra lui e me. Era il 2012. Trifuoggi dopo quella campagna mediatica si accreditò politicamente al punto che il sindaco Cialente, Pd, lo volle come vice Sindaco de L’Aquila. Poi la cosa passò nelle mani di Paolo Ielo, che da persona seria qual è, ha archiviato. Perché esistono fior di magistrati corretti, e va detto. Ma tra il 2010 e il 2012 ci furono diversi casi di toghe particolarmente zelanti verso una parte politica, come ammette Amedeo Franco nel suo audio».
Ci fu il caso di Parma, oggi archiviato anch’esso.
«Anche a Parma un Procuratore della Repubblica contro la giunta di centrodestra, tra il 2010 e il 2012. E appena il sindaco Vignali cade, quel Procuratore si candida al consiglio comunale con il Pd. I fatti parlano chiaro e sono sotto gli occhi di tutti. Anche a Matteo Renzi, ogni volta che alza il tiro sui magistrati, vanno a colpire la mamma o il papà, o tutti e due. Pur essendo di sinistra finisce anche lui nel tritacarne, perché è un garantista. La stessa logica perversa che colpisce Berlusconi può colpire chiunque si opponga al potere delle toghe».
Silvio Berlusconi, processo Mediaset: "Esposito mi chiamò mezz'ora dopo la sentenza", la testimonianza del cronista. Libero Quotidiano il 4 luglio 2020. "Il giudice Antonio Esposito bussò per un'intervista a sentenza ancora calda. Mi chiamò forse mezz' ora dopo la lettura della sentenza di Silvio Berlusconi. Avevo appena visto in tv la scena, saranno state le 18.30, le 19 al massimo. E fui così stupito, vedendo il suo nome apparire sullo schermo del mio cellulare, che mi alzai dal tavolo e uscii dalla mia stanza del settore Interni-Esteri per infilarmi nella stanza di fronte, che era lo studio di Alessandro Barbano, all'epoca direttore del Mattino". Racconta così Antonio Manzo ex giornalista del Il Mattino, oggi direttore del quotidiano La Città di Salerno, in un'intervista sulla pagine del Giornale. Un'intervista dal titolo "Berlusconi condannato perché sapeva" nella quale Esposito si dilungava, pochi giorni dopo il processo, ad anticipare quelle che sarebbero state le motivazioni della sentenza. Esposito provò a smentire tutto, parlò di una chiacchierata con un amico, disse che il contenuto dell'intervista non rispecchiava fedelmente quanto si erano detto, denunciò omissioni e aggiunte, in particolare, appunto, l'aggiunta della domanda sul fatto che "Berlusconi non poteva non sapere" (il titolo dell'intervista era appunto "Berlusconi condannato perché sapeva"). Portò quotidiano ed (ex) amico cronista in tribunale, chiese milioni di euro di danni. Una causa che si concluse in un nulla di fatto perché tre anni fa, il presidente della quarta sezione civile del Tribunale di Napoli, Pietro Lupi, negò le tesi di Esposito, confermando che né il Mattino né, tantomeno, Manzo, avevano diffamato il giudice che ha condannato Berlusconi. Oggi Manzo, nei giorni della polemica sulle intercettazione al giudice Amedeo Franco, è tornato a raccontare di quei giorni. "Avevo appena visto in tv la scena, saranno state le 18.30, le 19 al massimo. E fui così stupito, vedendo il suo nome apparire sullo schermo del mio cellulare, che mi alzai dal tavolo e uscii dalla mia stanza del settore Interni-Esteri per infilarmi nella stanza di fronte, che era lo studio di Alessandro Barbano, all'epoca direttore del Mattino. Entro e trovo Barbano in compagnia di Massimo Garzilli, allora direttore amministrativo. Barbano vede il nome del giudice che quel giorno era su tutte le tv del mondo e mi dice di rispondere. Lo faccio, e provo già a impostare qualche domanda racconta Manzo ma lui mi disse che in quel momento non voleva parlare, così gli dico ok, però facciamo patto e promessa che l'intervista la farai con me". Una conversazione che "vista la delicatezza della materia e per mia abitudine, registrai la conversazione. Il nastro dura 34 minuti, l'originale è nella cassaforte del Mattino, io ne ho una copia". Intervista che all'epoca Manzo inviò anche ad Esposito "non mosse una sola obiezione".
L’intervista. Il giudice Antonio Esposito: “Non sanno di cosa parlano. E il collega controfirmò tutto”. Gianni Barbacetto l'1 luglio 2020 su Il Fatto Quotidiano. Il giudice Antonio Esposito è stato il presidente della sezione feriale della Cassazione che il 1° agosto 2013 ha confermato e resa definitiva la condanna di Silvio Berlusconi a quattro anni per frode fiscale.
Ha ascoltato le registrazioni in cui il suo collega Amedeo Franco dice che lui non era d’accordo e che è stato tutto un complotto contro Berlusconi?
«Chiariamo subito un fatto: la decisione di confermare la sentenza d’appello è stata presa da un collegio di cinque giudici. Il collega Amedeo Franco era il giudice relatore e, come tutti noi, non solo ha discusso il caso, ha accettato la sentenza di cui è stato anche estensore insieme agli altri componenti, e ne ha anche approvato la motivazione, in tutte le sue parti, firmando ogni pagina».
Poi cosa è successo?
«A distanza di sette anni si continua a provare a delegittimare una sentenza passata in giudicato, dopo che 11 magistrati hanno convenuto sulla responsabilità di Berlusconi, prendendomi di mira in quanto presidente del collegio. Io invece mi chiedo perché il relatore senta il bisogno di incontrare il suo imputato per giustificarsi dell’esito del processo. Ritengo che sia questo il vero fatto gravissimo e inquietante di tutta la vicenda. E mi devo chiedere: dove avvenne quell’incontro, o quegli incontri? Quando? In che circostanze? Da chi fu sollecitato?»
La registrazione è stata fatta a insaputa del giudice, dunque è abusiva?
«Non lo so. Potrebbe anche essere stata concordata; una cosa è certa: che si è aspettato la sua morte per divulgare il contenuto della registrazione, rendendo impossibile contestare al giudice Franco la falsità delle affermazioni».
Lei sapeva di questa registrazione?
«Sì, ne aveva accennato Berlusconi nel 2017 nel programma di Bruno Vespa, dicendo che “aveva la prova” contenuta in una registrazione che la sentenza di Cassazione era a suo dire viziata. L’ho subito citato in sede civile; mi ero riservato di chiedere al giudice che ordinasse il deposito della registrazione».
Lei e gli altri quattro giudici del collegio subiste pressioni per condannare Berlusconi?
«Nessuna pressione per condannare, ricordo solo, e la questione potrebbe non avere alcun rilievo, che fui invitato molto gentilmente da Cosimo Ferri, a Pontremoli, al premio Bancarella. Mancavano due settimane alla sentenza e per motivi d’opportunità declinai l’invito».
Amedeo Franco nella registrazione mostra di essere in netto disaccordo con la sentenza.
«Franco dice che i precedenti della terza sezione erano di segno opposto alla nostra decisione. E questo non è vero: mente sapendo di mentire, perché nella sentenza abbiamo riportato per numerose pagine precedenti sentenze proprio della terza sezione, le cui decisioni sul sistema delle “frodi carosello” (lo stesso sistema contestato al Berlusconi) erano in linea con quanto abbiamo sostenuto nelle nostre motivazioni. Anzi dirò di più. Riportammo anche la sentenza, sempre della terza sezione, che aveva rigettato il ricorso di Agrama (per le precedenti annualità fiscali)».
Avete condannato senza prove?
«Negli atti del processo vi è un’imponente prova testimoniale e documentale, tra cui di fondamentale importanza la “lettera-confessione” di Agrama, scritta a Fininvest nel 2003».
È vero che, per far condannare l’imputato, la sentenza fu dirottata a voi della feriale, mentre doveva andare alla sezione reati fiscali?
«Nulla di più falso. Il processo da Milano arriva in Cassazione proprio alla terza sezione penale, quella di Amedeo Franco. E fu proprio la terza sezione ad investire la sezione feriale del processo in questione, inviando il fascicolo il 9 luglio 2013, con la scritta “URGENTISSIMO, prescrizione 1 agosto”. Una volta ricevuto, io ho l’obbligo di fissare l’udienza il 30 luglio, per evitare la prescrizione».
Il vostro collegio feriale è stato formato come un “plotone d’esecuzione” per condannare Berlusconi?
«Non sanno di che cosa parlano. O lo sanno e volutamente tacciono: la composizione dei collegi della sezione feriale del 2013 avvenne il 21 maggio con decreto del presidente della corte di cassazione. Gli atti del processo Berlusconi arrivano a Roma da Milano all’inizio di luglio: 40 giorni dopo che i collegi erano stati costituiti».
Il giudice Franco dice che lei era “pressato” dalla Procura di Milano perché suo figlio Ferdinando, pm a Milano, era coinvolto in storie di droga.
«Falso. Mio figlio non è mai stato coinvolto in storie di droga. E io non sono stato “pressato” da nessuno. Se Franco è giunto al punto di inventarsi una circostanza mia avvenuta, di fronte al soggetto che lui stesso aveva condannato, è lecito chiedersi il perché…»
Il giudice Antonio Esposito è stato il presidente della sezione feriale della Cassazione che il 1° agosto 2013 ha confermato e resa definitiva la condanna di Silvio Berlusconi a quattro anni per frode fiscale.
Antonio Esposito, il giudice che condannò Berlusconi accusato dal collega: "Pressato dall'alto, il figlio era stato beccato con la droga e..." Libero Quotidiano il 30 giugno 2020. Il giudice della Cassazione Antonio Esposito che nel 2013 condannò Silvio Berlusconi a 3 anni e 8 mesi di carcere per frode fiscale nella vicenda Mediaset-Agrama inguaiato, 7 anni dopo, dal collega Amedeo Franco. Il magistrato, morto nel maggio 2019, dopo quella sentenza (che decise di non firmare) incontrò Berlusconi alla presenza di testimoni e quell'audio, registrato, ora è finito nelle mani di Piero Sansonetti, direttore del Riformista, e pubblicato in parte da Nicola Porro a Quarta Repubblica. Si tratta di una bomba, perché Franco motivava quella condanna come frutto di "pressioni dall'alto" contro Berlusconi e sullo stesso Esposito. "Berlusconi deve essere condannato a priori perché è un mascalzone! Questa è la realtà, a mio parere è stato trattato ingiustamente e ha subito una grave ingiustizia… - spiegava Franco - L’impressione che tutta questa vicenda sia stata guidata dall’alto. In effetti hanno fatto una porcheria perché che senso ha mandarla alla sezione feriale? Voglio per sgravarmi la coscienza, perché mi porto questo peso del… ci continuo a pensare. Non mi libero. Io gli stavo dicendo che la sentenza faceva schifo". E qui il riferimento diretto a Esposito, presidente di sezione: il giudice secondo il collega sarebbe stato "pressato" per pilotare la sentenza perché suo figlio anch’egli magistrato era indagato dalla Procura di Milano per "essere stato beccato con droga a casa di...". Una storia nota e scomoda, ma che alla luce della ricostruzione di Franco va letta sotto un'altra e più inquietante luce.
Silvio Berlusconi, lo strano caso del figlio del magistrato Esposito: condannato, ma esercita ancora. Libero Quotidiano l'11 luglio 2020. Ferdinando, figlio del magistrato che condannò Berlusconi, fa egli stesso il magistrato a Torino non va al Csm per rispondere alla commissione disciplinare che lo giudica dopo la condanna ricevuta anni addietro. Mentre continua ad esercitare le sue delicate funzioni. Il padre è Antonino Esposito, che presiedette il collegio antiberlusconiano che spedì il fondatore del centrodestra - con i tanti dubbi emersi anche negli ultimi giorni - a svernare a Cesano Boscone, determinandone di fatto anche l'espulsione dal Senato. Lo ricorda il Tempo. Esposito junior, secondo la sentenza definitiva, aveva preso di petto una società operante in materia alimentare, competenza che ricopriva presso il sesto dipartimento della Procura della Repubblica di Milano. Il titolare della società era incappato in problemi giudiziari ed Esposito pretendeva il pagamento di un affitto pari a 32mila euro annui per un appartamento nei pressi di piazza Duomo. È una vicenda che è finita persino di fronte alla Corte Costituzionale, ma invano. Tutti gli espedienti che sono riservati di solito agli imputati, ora sono stati utilizzati da un magistrato per sottrarsi al verdetto di chi lo deve giudicare. Ma Ferdinando resta in tribunale. A Torino. Dove ora fa il giudice in Corte d'assise.
La "fortuna" del giudice Esposito: salvato dal Csm proprio come il padre. Piero Sansonetti su Il Riformista l'11 Luglio 2020. Il Consiglio nazionale della magistratura ha deciso di rinviare nuovamente il procedimento disciplinare contro Ferdinando che attualmente esercita la funzione di giudice a Torino. Esposito ha passato molti anni come sostituto nella Procura di Milano, ai tempi di Edmondo Bruti Liberati e di Ilda Boccassini, dal 2009 al 2013, e in quegli anni abitava in un appartamento pare molto bello, al centro di Milano, che gli veniva pagato da un signore che era imputato dalla stessa Procura di Milano. Pare che un magistrato non possa, in linea di principio e di diritto, farsi pagare la casa (32 mila euro all’anno) da un imputato. Né promettergli vantaggi. Così partì la denuncia, nel 2013, e – con calma – nel 2014 arrivò l’avviso di garanzia. Il reato ipotizzato era induzione indebita. Contemporaneamente partì il procedimento disciplinare. La causa penale si concluse in poco tempo con una condanna definitiva a 2 anni e 3 mesi (se fosse stato Formigoni ne avrebbe presi un po’ di più, forse….); il procedimento al Csm rinviato, rinviato, rinviato. Stesso metodo usato per suo padre, anche lui magistrato, Antonio (che deve essere quello stesso della condanna a Berlusconi per frode fiscale, se non è un omonimo…). Antonio ottenne anche lui parecchi rinvii e si decise a comparire davanti alla commissione giudicante solo dopo che era cambiata la composizione della commissione (addirittura ci sono dei maligni – non noi – che sospettano che la nuova commissione fosse più indulgente: infatti lo perdonò. Era accusato di avere anticipato a un giornale le motivazioni della sentenza Berlusconi, non era una bella cosa e non era molto perdonabile). Per il figlio Ferdinando si è arrivati al record: sei anni di rinvii fino a ieri. E ieri, di nuovo, fino a dicembre. Forse sarà rinviato ancora. Poi scatterà la prescrizione? Pare di no, al Csm la prescrizione non c’è (comunque se dovesse saltar fuori qualche codicillo che la preveda nei casi esposti, la scadenza esatta la faranno calcolare a Travaglio che è bravissimo…). E intanto? Intanto ci sono dei poveri cristi che finiscono per essere giudicati da Fernando Esposito. Magari per induzione indebita…
Esposito jr, il Pm figlio di Pm amico di Nicole Minetti e deluso da Berlusconi. Paolo Comi su Il Riformista l'1 Luglio 2020. È sicuramente uno dei procedimenti disciplinari più complessi che le mura di Palazzo dei Marescialli ricordino. Stiamo parlando di quello a carico dell’ex pm milanese, ora giudice a Torino, F. Esposito, magistrato dai natali importanti. Il padre, Antonio, è stato il presidente del collegio che in Cassazione mise il sigillo sulla condanna a quattro anni per frode fiscale nei confronti di Silvio Berlusconi, lo zio, Vitaliano, fino al 2012 è stato procuratore generale della Corte di Cassazione. A circa sei anni dall’inizio dell’azione disciplinare non si è ancora giunti ad una sentenza. Tutto inizia nel 2014 quando la Procura generale decide di avviare l’azione disciplinare nei confronti di Esposito. Il magistrato è in buoni rapporti con l’entourage berlusconiano. A parte le uscite serali immortalate dai fotografi con l’ex consigliere regionale forzista Nicole Minetti, Esposito si reca varie volte ad Arcore da Silvio Berlusconi. Incontri, come poi spiegò, in cui aveva espresso al leader di Forza Italia il desiderio di entrare in politica o di avere un posto in un Ministero a Roma. Uno di questi incontri avvenne il 22 maggio 2013 al termine di settimane incandescenti per Berlusconi. L’11 marzo c’era stata la maxi manifestazione dei deputati azzurri davanti al Palazzo di giustizia di Milano. Il 6 maggio il rigetto della Cassazione della richiesta di Berlusconi di spostare i processi da Milano. L’8 maggio la condanna in appello sui diritti tv. E il 13 maggio la requisitoria Ruby. Esposito ha sempre dichiarato di non aver mai discusso con Berlusconi dei suoi processi milanesi. Tornando al disciplinare, gli accertamenti istruttori durano molti mesi. La richiesta del procuratore generale della Cassazione di fissazione dell’udienza davanti alla Sezione disciplinare del Csm arriva solo il 20 luglio 2016. Vari i capi di incolpazione. «Ottenere direttamente o indirettamente prestiti o agevolazioni da soggetti che il magistrato sa essere indagati in procedimenti penali; l’uso della qualità di magistrato al fine di conseguire vantaggi ingiusti per se o per altri; comportamenti scorretti nei confronti di altri magistrati; comportamenti che arrecano ingiusto danno o indebito vantaggio delle parti». In particolare, c’è l’affitto di una casa nel centro di Milano. Esposito avrebbe cercato di spingere l’avvocato Michele Morenghi – prima suo amico e poi principale accusatore – a subentrare, con l’immobiliare amministrata da una terza persona, nell’affitto di 32 mila euro annui di un super attico dove l’allora pm viveva vicino al Duomo. Il tutto, secondo l’accusa, facendo delle pressioni indebite. E cioè prospettando a Morenghi, interessato a mettere in commercio un integratore alimentare, che altrimenti in Procura «può capitare di tutto alle aziende con l’inchiesta “sbagliata”». La vicenda determinò un procedimento penale a Brescia per tentata induzione indebita con la condanna di Esposito a 2 anni e 4 mesi in rito abbreviato in primo e secondo grado. Tentata induzione indebita confermata poi anche dalla Cassazione. Al Csm i difensori di Esposito sollevarono allora la questione di costituzionalità. Se, cioè, si dovesse applicare la sanzione della rimozione al magistrato che sia stato condannato in sede disciplinare per aver ottenuto, direttamente o indirettamente, prestiti o agevolazioni da determinati soggetti o che sia incorso nella interdizione dai pubblici uffici in seguito a condanna alla pena detentiva per delitto non inferiore a un anno di reclusione la cui esecuzione non sia stata sospesa. La Consulta nel novembre del 2018 dichiarò la legittimità costituzionale di tale norma. La consiliatura al Csm, quella di Luca Palamara, nel frattempo era terminata e il processo era stato incardinato nel nuovo collegio presieduto da David Ermini. Relatore è ora il togato di Unicost Marco Mancinetti. Difensore di Esposito, il presidente del Tribunale di Siena Roberto Carrelli Palombi. La prossima udienza è prevista il 7 luglio. Visto il clamore si preannuncia il pubblico delle grandi occasioni, distanziamento sociale permettendo.
LA FAMIGLIA ESPOSITO
Esposito, da Antonio a Vitaliano: una famiglia di toghe tra gaffe e scivoloni, scrive “Libero Quotidiano”. Una famiglia spesso in prima pagina, e non sempre in buona luce. Quella degli Esposito è una storia fatta di toghe, giustizia, scivoloni e gossip. Il più famoso è ormai Antonio Esposito, presidente della sezione feriale della Cassazione (nonché alla guida dell'Ispi) che lo scorso agosto condannò Silvio Berlusconi al processo sui diritti tv Mediaset e che, pochi giorni dopo, anticipò le motivazioni di quella sentenza in una improvvida conversazione con un abile cronista del Mattino. Inevitabili il polverone delle polemiche e le accuse di parzialità del collegio giudicante, anche perché un testimone riferì di presunti commenti contro Berlusconi rilasciati in libertà dal giudice durante una cena. Pare probabile che il Csm voglia archiviare il caso senza procedere a sanzioni disciplinari. La figuraccia, in ogni caso, resta, con tanto di richiamo del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, in quelle caldissime settimane di fine estate 2013, alla "continenza" per chi di mestiere fa il giudice. Le bucce di banana per la Esposito family non finiscono qui: l'ultimo a inciamparci è il figlio di Antonio, Ferdinando. Pubblico ministero a Milano, risulta indagato a Brescia e a Milano in seguito alle accuse di un suo amico avvocato, che sostiene di avergli prestato soldi e di essere stato "pressato" per pagargli l'affitto di casa. Prima ancora, era finito al centro del gossip per un incontro con Nicole Minetti (sotto processo per il Rubygate) avvenuto in un prestigioso ristorante milanese nel 2012. L'altro ramo della famiglia è altrettanto prestigioso: Vitaliano Esposito, fratello di Antonio, è stato Procuratore generale della Cassazione. Sempre sul finire dello scorso agosto è stato "paparazzato" in spiaggia nel suo stabilimento abituale ad Agropoli, nel Cilento. Piccolo particolare: lo stabilimento era abusivo. Foto imbarazzante, invece, per sua figlia Andreana Esposito, giudice alla Corte europea dei diritti dell'Uomo. Un po' di clamore aveva suscitato lo scatto da lei pubblicato sui social network (e poi cancellato in fretta e furia) in cui esibiva una maglietta decisamente inappropriata per una toga: "Beato chi crede nella giustizia perché verrà... giustiziato", slogan che aveva messo in allarme lo stesso Cavaliere, che di lì a qualche mese si sarebbe rivolto proprio alla Corte europea per vedere ribaltata la sentenza stabilita dallo zio di Andreana. Un corto circuito da barzelletta.
Andreana Esposito, napoletana, classe 1966, professore aggregato di diritto europeo e sistema penale alla facoltà di giurisprudenza alla seconda università di Napoli, componente dell’ufficio studi della Corte Costituzionale, e nipote di Antonio Esposito, il presidente della sezione feriale della Cassazione che ha condannato Berlusconi, è nell’elenco dei giudici ad hoc italiani applicati per il 2013 proprio alla Corte europea dei diritti umani. Lo è interrottamente dal 2010, quando Gianni Letta (all’epoca sottosegretario alla presidenza del Consiglio) si battè come un leone per farle avere questo incarico di consolazione. Lo stesso Letta, che aveva ottimi rapporti con il padre di Andreana, l’ex procuratore generale della Cassazione Vitaliano Esposito, aveva fatto inserire la giovane giurista (che dal 2004 al 2006 aveva già collaborato con il governo Berlusconi) nella terna di candidati italiani a sostituire a Strasburgo Vladimiro Zagrebelski. La sua nomina sembrava cosa quasi fatta, quando dal Vaticano partì una lettera indirizzata a Letta, al governo e ai membri italiani dell’assemblea del consiglio di Europa, in cui si manifestava forte disappunto per la scelta della Esposito, accusata di avere espresso in alcuni scritti posizioni assai radicali su valori sensibili per la Chiesa (come la bioetica e il diritto di famiglia)". Finì che alla prova del voto dell’assemblea del Consiglio di Europa la professoressa Andreana fu terza su tre, e il giudice italiano eletto (ed attuale vicepresidente della Corte) fu Guido Raimondi. La giovane Esposito fu però subito inserita nella lista dei giudici ad hoc che di tanto in tanto venivano applicati alle cause della Corte, e l’anno successivo divenne pure membro del comitato europeo per la prevenzione della tortura presso il Consiglio di Europa (vi resterà fino al 2015). Andreana dunque a Strasburgo è ormai di casa, e non è fatto improbabile che ancora una volta la vicenda giudiziaria di Berlusconi possa incocciare in un membro della famiglia Esposito. Non cambierà poi tanto, perché anche se dall’Italia ogni anno piovono ricorsi sulla Corte di Strasburgo, la regola costante e che quasi nessuno trovi soddisfazione. E anche nei rarissimi casi in cui questa arrivi, non è che cambi radicalmente la vita dei ricorrenti: basti pensare che il povero Bettino Craxi riuscì ad avere riconosciute le sue ragioni, e la Corte bacchettò l’Italia per non avergli assicurato un giusto processo. In quel caso furono per altro respinti due dei tre motivi di ricorso, e pure la richiesta di un risarcimento danni, perché la Corte stabilì che bastava ed avanzava la soddisfazione morale per l’unica decisione favorevole. Ecco, questo è un punto chiave: la Corte europea dei diritti dell’uomo non ribalta sentenze nazionali, in rarissimi casi stabilisce condanne politiche e morali dello Stato portato in giudizio e qualche risarcimento assai contenuto al ricorrente (nella maggiore parte dei casi inferiore ai 10 mila euro). Ma non accade quasi mai: nel 2012 su 128.100 ricorsi che arrivavano da tutta Europa, hanno trovato parziale soddisfazione solo 1.093 casi. Per l’Italia non sono stati bocciati solo 63 ricorsi, e solo in 36 di questi è stata ravvisata una violazione della convenzione europea dei diritti dell’uomo. Ma anche in questi casi si tratta di accoglimenti parziali dei ricorsi, con risarcimenti concessi poco più che simbolici. L’unico sostanzioso (10 milioni di euro più centomila di risarcimento spese) è stato ottenuto dalla società Europa 7 e dall’imprenditore Francescantonio Di Stefano il 7 giugno 2012. Sostanzialmente si trattava di un doppio ricorso proprio contro Berlusconi, nella sua qualità di imprenditore (Europa 7 lamentava di non avere avuto la frequenza tv per colpa di Rete 4) e di presidente del Consiglio. Ma anche quei 10 milioni Di Stefano li ha ottenuti per il rotto della cuffia: la Corte ha respinto quasi tutti i motivi del suo ricorso, dichiarandoli irricevibili, e sull’unico accolto che ha dato origine al risarcimento, i giudici si sono spaccati: 8 favorevoli e 7 contrari, con tanto di pubblicazione in allegato dei motivi di dissenso. Vale la pena di addentrarsi nelle clamorose bocciature della Corte: negli ultimi due anni a parte avere riconosciuto a qualche cittadino risarcimenti di mille o duemila euro a integrazione della legge Pinto per la durata eccessiva dei loro processi, da Strasburgo sono arrivati solo schiaffi in faccia ai poveri ricorrenti italiani. L’unico ad avere messo parzialmente in crisi quei giudici è stato il boss dei boss della mafia, Totò Riina. I giudici europei hanno bocciato infatti quasi integralmente il suo ricorso contro il 41 bis. Però hanno sospeso il giudizio e si sono presi tempo per riflettere se avere messo una telecamera nel wc della cella di Riina per riprendere anche i suoi bisogni, sia compatibile o meno con i diritti umani…
Sicuramente avrebbe preferito l’anonimato, nel quale ha tentato di rifugiarsi, continua “Libero”. Andreana Esposito, figlia di Vitaliano Esposito, ex procuratore generale della Cassazione e nipote di Antonio Esposito, presidente della sezione feriale della Cassazione che ha condannato Silvio Berlusconi, non ha gradito la rivelazione di Libero sulla sua applicazione nel 2013 come giudice ad hoc alla Corte europea dei diritti dell’uomo a cui il leader Pdl vorrebbe ricorrere. Così da ieri mattina la giurista ha oscurato tutte le sue foto da lei stessa postate sul social network Google + (anche quella dove indossa una maglietta con la scritta «Beato chi crede nella giustizia, perché verrà giustiziato») e allo stesso tempo ha oscurato e protetto anche tutti i tweet visibili a chiunque fino alla sera precedente. Non che ci fosse molto da nascondere: la professoressa Andreana (è professore aggregato di diritto europeo e sistema penale alla facoltà di giurisprudenza alla seconda università di Napoli) aveva cinguettato in tutto 150 volte, in gran parte per rilanciare video musicali o articoli del Fatto quotidiano. Da quelli si capisce che ama in particolare modo la cantante Malika Ayane (e le è piaciuta molto la canzone presentata all’ultimo festival di Sanremo , «E se poi»). La Esposito ha 18 seguaci e a sua volta segue 78 altri profili su Twitter. L’unico personaggio noto con cui ha vicendevole corrispondenza (si seguono a vicenda e quindi possono cinguettare in privato) è il leader di Sel, Nichi Vendola. Non risultano però loro discussioni nella bacheca pubblica, dove nelle ultime settimane ha naturalmente tenuto banco la vicenda del giudice Esposito. I commenti - tutti a difesa del magistrato - erano però quasi tutti di amici che frequentavano la bacheca. Lei si è limitata a diffondere un comunicato stampa dello zio sull’intervista al Mattino e una striscia satirica sulla famiglia Esposito pubblicata dal Fatto quotidiano.
Qualcuno potrebbe definirla una famiglia “particolare” scrive “Libero Quotidiano”. Al centro c'è Antonio Esposito, giudice della Corte di Cassazione che in una telefonata-intervista al Mattino anticipò le motivazioni della condanna inflitta a Silvio Berlusconi per frode fiscale nel processo Mediaset. E che in più occasioni è stato “pizzicato” da testimoni a pronunciare frasi non proprio di ammirazione nei confronti del Cavaliere. Poi c'è la nipote Andreana, che sta alla Corte europea dei diritti dell'uomo di Strasburgo, cui i legali di Berlusconi vorrebbero far ricorso contro la sentenza emessa dalla Cassazione. Paradosso: a passare al vaglio la sentenza pronunciata da Esposito potrebbe essere la nipote. Non bastassero loro, c'è il papà di Andreana, che come scrive, mercoledì 28 agosto, su Libero Peppe Rinaldi, è stato fotografato mentre prende il sole e fa il bagno presso il Lido Oasi di Agropoli, nel Cilento. Il problema è che il lido è abusivo ed è stato soggetto a indagini, interpellanze, ordinanze di abbattimento. In zona tutti sanno. Curioso che Vitaliano Esposito, ex procuratore generale della Cassazione, non sappia di mettersi a mollo in uno stabilimento balneare fuorilegge (abusivo a sua insaputa). Infine, della famiglia fa parte anche Ferdinando, Pubblico Ministero a Milano, che tempo fa finì sotto indagine del Csm (che poi archiviò) per le cene a lume di candela del giudice (ma va, anche lui?) in Porsche con Nicole Minetti, allora già imputata per istigazione alla prostituzione insieme a Lele Mora ed Emilio Fede.
Una famiglia, gli Esposito, una delle tante dinastie giudiziarie, che non fosse altro dimostra come la magistratura sia una vera, autentica, casta.
Ciononostante viviamo in un’Italia fatta così, con italiani fatti così, bisogna subire e tacere. Questo ti impone il “potere”. Ebbene, si faccia attenzione alle parole usate per prendersela con le ingiustizie, i soprusi e le sopraffazioni, le incapacità dei governati e l’oppressione della burocrazia, i disservizi, i vincoli, le tasse, le code e la scarsezza di opportunità del Belpaese. Perché sfogarsi con il classico "Italia paese di merda", per quanto liberatorio, non può essere tollerato dai boiardi di Stato. E' reato, in quanto vilipendio alla nazione. Lo ha certificato la Corte di cassazione - Sezione I penale - Sentenza 4 luglio 2013 n. 28730!!!
Ma non di solo della dinastia Esposito è piena la Magistratura.
I giudici Esposito e Berlusconi: il figlio gli chiedeva favori, il padre lo condannava, scrive "Articolo 3". Si torna a parlare degli anomali rapporti tra i giudici Esposito, padre e figlio, e l'ex premier Silvio Berlusconi. Il motivo è chiaro: nell'agosto del 2013, il collegio della Corte di Cassazione, presieduta da Antonio Esposito, aveva confermato la condanna di 4 anni per evasione fiscale nei confronti di Berlusconi, nell'ambito del processo Mediaset. Nello stesso periodo, però, il figlio di Antonio, Ferdinando, giudice a Brescia, aveva avuto rapporti con l'ex premier. E non solo: ci sarebbero state anche delle visite, ad Arcore, e regali. Il rapporto "sconveniente" è emerso nell'ambito di un altro processo, che con quello Mediaset non c'entra niente: Ferdinando è indagato per “tentata induzione indebita” e “tentata estorsione”. Secondo gli inquirenti, avrebbe fatto pressioni indebite per spingere un avvocato, oggi suo accusatore, a subentrare nell'affitto da 32mila euro annui della casa in cui il pm abitava. L'accusatore di Esposito, nel raccontare il tutto, aveva anche rivelato appunto i rapporti con Berlusconi. E il giudice, da parte sua, li ha confermati: ha rivelato di aver conosciuto l'ex premier attraverso la parlamentare di Forza Italia Michela Brambilla e, tra il 2009 e il 2013, vi furono anche delle visite ad Arcore che, secondo il pm, riguardavano una sua «possibile entrata in politica», cosa che poi non è avvenuta. "Io mai e poi mai nella maniera più assoluta ho trattato questioni che avessero a che fare con i processi Ruby e Mediaset”, ha precisato, pur confessando di aver anche ricevuto dei regali da Berlusconi: «Soltanto regalie d’uso che è solito dare a tutti quando si presentano lì», ossia cravatte.
PARLIAMO DI FERDINANDO.
Parliamo di quando Ferdinando, figlio di Antonio, stava per essere assassinato dai Servizi Segreti. Poi però……………, scrive Michele Imperio su “La Notte On Line”. Si fa molto parlare oggi del giudice Antonio Esposito il Magistrato che ha presieduto il collegio della Suprema Corte di Cassazione che ha condannato Silvio Berlusconi: Se ne parla perchè subito dopo la sentenza ha rilasciato un’intervista al quotidiano “Il mattino” di evidente valenza politica perché il Magistrato ha tenuto a precisare che Silvio Berlusconi non è stato condannato perchè non poteva non sapere che all’interno della sua azienda era stata consumata una frode fiscale ma è stato condannato perchè conosceva direttamente quella circostanza. Nel che è parso intravedere una certa soddisfazione per quella condanna che, unita alla celerità della fissazione del processo perchè potesse essere lui a giudicare, crea nel pubblico non poche perplessità. Quella degli Esposito è una famiglia di Magistrati. Magistrato è Antonio, Magistrato è suo fratello Vitaliano, magistrato è il figlio di Antonio, Ferdinando. E pochi sanno che Ferdinando alcuni anni fa è stato protagonista di uno degli episodi più torbidi della storia dei nostri servizi segreti deviati. divenendo depositario di segreti inconfessabili. Per i quali a momenti ci rimetteva la pelle. Ma procediamo con ordine. Nel dicembre 2007 IL PM Ferdinando figlio di Antonio Esposito esercita le funzioni di Pubblico Ministero presso il Tribunale di Potenza competente a occuparsi si tutti i misfatti dei Magistrati di Brindisi Tarato e Lecce mentre suo padre Antonio e suo zio Vitaliano sono due anonimi Magistrati della Suprema Corte di Cassazione. Ma nel 2007 Ferdinando a Potenza diventa assegnatario di un’indagine delicatissima. Questa indagine riguarda il rapporto fra l’ex GIP di Milano, Clementina Forleo, e due PM della Procura di Brindisi, Santacatterina e Negri, ed un tenente dei carabinieri, Ferrari. La Forleo li ha denunciati tutti e tre per aver indagato poco e male. Anzi, per non aver indagato affatto sulla morte dei suoi genitori, avvenuta nell’agosto del 2005, guarda caso, in uno stranissimo incidente stradale. Quella inchiesta è stata archiviata. Ma la Forleo non demorde. Sostiene che la morte dei suoi genitori è molto sospetta, perché preceduta da inquietanti segnali: lettere e telefonate anonime, danneggiamenti e soprattutto messaggi profetici. Per competenza la denuincia è finita a Potenza, nelle mani del PM Esposito. Esposito iscrive nel registro degli indagati uno dei PM brindisini, Alberto Santacatterina, ed il tenente dei carabinieri di Francavilla Fontana, Pasquale Ferrari e li carica di una serie di imputazioni pesantissime: frode processuale, induzione a commettere reati, calunnia, abuso d’ufficio, omissione di atti d’ufficio, associazione per delinquere per tutti e tre e in particolare a Santacatterina contesta anche il reato di falsità ideologica perché, nel chiedere l’archiviazione, «attestava falsamente» di avere «acquisito ed esaminato i tabulati» e di non aver trovato «telefonate utili alle indagini» quando ciò non era vero. Inoltre secondo una ricostruzione dei fatti contenuta in un’audiocassetta “esplosiva”, registrata dalla Forleo attraverso captazioni di conversazioni, i pm e il tenente avrebbero cercato di “rimediare” il papocchio querelando la Forleo e si sarebbero accordati per presentare la querela quando in Procura fosse stato di turno il pm Negro, amico dei due. Poi chiede per i due al g.i.p. due mandati di cattura.
Povero Ferdinando! ………….Voleva fare il giudice sul serio!…………. In Italia!……………….
Subito dopo aver depositato questa richiesta Ferdinando subisce il secondo di tre stranissimi incidenti stradali di questa macabra telenovela all’italiana (il primo è quello che ha provocato al morte dei genitori della Forleo due anni prima nel 2005) che ne ricomprende almeno un terzo, come vedremo. Mentre torna a casa dal lavoro in Procura una sera del dicembre 2007 Ferdinando Esposito esce rovinosamente fuori strada proprio in corrispondenza di una scarpata e precipita nel fondo alla scarpata stessa. Ma come fa una macchina a finire in una scarpata senza ragione? Speronato? Manomessa la vettura? Non si sa. il Magistrato riporta ferite gravissime per le quali sarebbe sicuramente morto se per puro caso un altro automobilista non si fosse accorto dell’incidente e della presenza della vettura nella scarpata e non avesse allertato i soccorsi. Sicuramente chi l’ha buttato lì dentro pensava che morisse. Sono così gravi le ferite che Ferdinando rimane in ospedale per mesi ed è costretto ad abbandonare l’inchiesta sul collega Alberto Santacatterina e su Pasquale Ferrari. Il mandato di cattura non viene più eseguito. L’inchiesta passa a una sua collega dell’Ufficio Cristina Correale e nel tempo tutte le accuse vengono smontate e archiviate. Anzi, Alberto Santacatterina verrà anche promosso sostituto procuratore distrettuale antimafia presso la Procura della Repubblica di Lecce. Intanto Ferdinando giace per mesi – come detto – in un letto d’Ospedale. Immaginiamo papà Antonio e zio Vitaliano al suo capezzale: Figlio mio! Ma che cosa hai fatto! Ti sei messo contro i Poteri Forti! Volevi arrestare un collega! Tu vuoi rovinare la famiglia! Fatto sta che Ferdinando non parla. Perchè la vettura è finita nella scarpata? Un caso! Ma quali erano i fatti che avevano dato origine a quella richiesta di mandati di cattura? Erano fatti relativi all’inchiesta Antonveneta uno dei filoni di indagine del caso che va sotto il nome di “scalate bancarie”, illeciti di varia natura di dirigenti di banche nostrane interessati ad acquisire a tutti i costi la BNL e l’Antonveneta con la privatizzazione e a superare la concorrenza – più forte – di banche straniere. L’azione della dott.sa Forleo è in quell’occasione particolarmente determinata: ravvisati gli illeciti, la dott.sa Forleo sequestra i titoli della Banca Antonveneta, arresta Fiorani, presidente della Banca di Lodi, mette sotto controllo il telefono del Governatore della Banca d’Italia Antonio Fazio, ne determina l’incriminazione e l’espulsione dai vertici della Banca, recupera 300 milioni, che sequestra e poi confisca. tutte queste iniziative giudiziarie stroncano però inesorabilmente il tentativo del Banco di Lodi e (ahimè;) della Banca d’Italia di acquisire con strumenti illeciti la Banca Antonveneta già Banca Antoniana del Veneto. Ma questo rigore in difesa della legge da parte della Forleo è una cosa che deve aver dato fastidio a qualcuno perché il 25 Agosto 2005 si verifica il primo stranissimo incidente stradale di questa storia. . L’incidente si verifica la sera alle ore 20.00 sulla provinciale Francavilla-Sava nel tratto che si trova in provincia di Brindisi. Un fuoristrada Toyota, condotto dal medico tarantino Salvatore De Bellis, impatta violentemente a un incrocio contro la Rover sulla quale viaggiavano Gaspare Forleo, di 77 anni, sua moglie Stella Bungaro, di 75, padre e madre del magistrato e il dott. Franzoso, marito della dott.sa Forleo. I primi due muoiono sul colpo, il terzo finisce in coma ma fortunatamente si riprende. Potrebbe essere un incidente come tanti altri. E invece è un sinistro sospetto perché è preceduto da inquietanti segnali, da lettere, da telefonate anonime, da danneggiamenti che si sviluppano secondo questo impressionante crescendo: 5 maggio 2005: viene distrutta una villa di campagna dei Forleo a Francavilla Fontana; 20 giugno 2005: viene incendiato l’intero raccolto di foraggio dell’azienda agricola di famiglia; 21 luglio 2005 la Forleo riceve una lettera in cui si dice: “Andrai dietro la bara dei tuoi genitori. E poi toccherà anche a te”. Il 25 agosto 2005, appena 34 giorni dopo, l’incidente stradale mortale, praticamente profetizzato. Il 30 agosto 2005 (quindi cinque giorni dopo il sinistro) la Forleo riceve un’altra lettera di “felicitazioni” per il grave lutto, accompagnata da un proiettile calibro 38. Il Magistrato però non si lascia intimidire. Fa una denuncia alla Procura della Repubblica di Brindisi e chiede che vengano fatte ricerche sui tabulati delle telefonate minatorie arrivate alla famiglia, prima del sinistro. Senza ipotizzare l’incidente doloso, la dott.sa Forleo chiede che si scoprano gli autori delle telefonate. Accertarlo è semplicissimo. Basterebbe acquisire i tabulati telefonici dei genitori e dei numeri chiamanti e poi intercettare questi ultimi. Le indagini vengono affidate dal Procuratore Capo Giuseppe Giannuzzi al giudice Alberto Santacatterina e da questi delegate al Tenente dei Carabinieri Pasquale Ferrari. Ma dopo due anni (2007) la Forleo scopre che le indagini non sono mai andate avanti. Non è stata infatti identificata alcuna utenza. Non è stato fatto alcun accertamento. Il PM titolare dell’inchiesta (Santacatterina) sostiene, contrariamente al vero, che dai tabulati non risultano telefonate indirizzate ai Forleo e quindi sta chiedendo l’archiviazione dell’esposto. Peraltro ai Carabinieri Santacatterina ha chiesto solo i tabulati. E i carabinieri hanno fatto ancora meno: si sono limitati ad acquisire i tabulati che partivano da casa Forleo, non quelli – fondamentali – delle chiamate in entrata. Cioè praticamente non hanno fatto nulla. Com’è normale che fosse fra la Forleo e il tenente Ferrari nasce un piccolo battibecco: “si vergogni di indossare la divisa” – dice la Forleo. E qui si verifica un secondo fatto inquietante. Perché a questo punto, Sattacaterina e Ferrari, colti in castagna, anziché colmare velocemente i vuoti dell’indagine, tentano di trasformare la Forleo da parte lesa a imputata. E soprattutto cercano di farla passare per una matta e per una visionaria. Il 14 agosto 2007, alla vigilia di Ferragosto, mentre il procuratore capo di Brindisi Giannuzzi , espulso dalla magistratura perchè su Brindisi aveva costituito uno studio di parenti avvocati, e tutti i giudici del Tribunale sono in ferie, il tenente Ferrari presenta una denuncia scritta contro la Forleo, per la telefonata (“si vergogni di indossare la divisa”) e guarda caso, proprio quand’è di turno il pm Antonino Negro, amico dell’ufficiale Ferrari e del pm Santacatterina. Questi assegna a se stesso il fascicolo. Non potrebbe farlo perchè non si tratta di una questione urgente. Il fascicolo dovrebbe essere assegnato successivamente ad altro magistrato secondo il sorteggio. Ma egli lo assegna ugualmente a se stesso. Ma il diavolo fa le pentole ma non i coperchi. Il gip di Brindisi respinge la richiesta di archiviazione della denuncia della Forleo e ordina a Santacaterina indagini più approfondite. Che però non vengono fatte. Perché il dott. Alberto Santacatterina di questo processo proprio non ne vuole sapere. Quei tabulati non li vuole acquisire. Santacatterina va da Giannuzzi per liberarsi del fascicolo. Ma Giannuzzi gli intima di mantenerlo e – ovviamente – di non fare indagini. E’ per questo che è nervoso Santacatterina. Quando lo contatta l’avvocato della Forleo lo manda a quel paese. “la Forleo ci sta rompendo i c……..!” – dice. Ma come! Una è parte lesa e il giudice cui si rivolge le dice: “Mi sta rompendo i c……..!” Intanto la dott.sa Forleo inoltra un esposto alla Procura della Repubblica di Potenza. Il fascicolo è assegnato a il dott. Ferdinando E., il quale ascolta tutta la trama e rimane scandalizzato dalla vicenda. Quindi – come abbiamo detto chiede a carico di uno dei due pm di Brindisi coinvolti (Alberto Santacatterina e del tenente dei Carabinieri Pasquale Ferrari il mandato di cattura. Insomma una bomba! Al Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Lecce la Forleo chiede intanto di avocare l’inchiesta di Negro. Il quale, per tutta risposta, continua a tenere il fascicolo presso di sè, chiude le indagini a tempo di record e la rinvia a giudizio per minacce al tenente Ferrari, reato dal quale la Forleo sarà poi assolta. Quindi su quella strana triangolazione Ferrari-Negro-Santacatterina stava facendo luce – come detto – il pm di Potenza Ferdinando E.. Ma qui avviene il secondo strano incidente stradale che abbiamo narrato e che mette fuori gioco Ferdinando. Ma non c’è due senza tre. In un o dei biglietti che profetizzavano l’incidente dei genitori era scritto “ E poi toccherà anche a te!”. E infatti il 3 dicembre 2009 l’auto della Forleo vien speronata in autostrada e finisce contro un guard rail. Se l’auto della Forleo non avesse avuto l’air bag anche la Forleo sarebbe morta. Però prima e dopo quella data gli Esposito ricevono benefici a più non osso. Il 21 novembre 2008 Vitaliano, lo zio di Ferdinando, viene nominato Procuratore generale della corte suprema di cassazione carica che ricopre fino al 13 aprile 2012. Nel gennaio 2013 però viene nominato dal governo Monti, su indicazione di Gianfranco Fini, Garante del Governo per l’esecuzione delle prescrizioni dell’autorizzazione integrata ambientale per l’Ilva di Taranto, un incarico da 200.000 euro l’anno. Ma che c’entra un magistrato che ha sempre fatto penale con il controllo prescrizioni tecniche che riguardano un’industria siderurgica? Antonio padre di Ferdinando viene nominato presidente della seconda Sezione. I fatti strani però non finiscono qui. Il nome di Ferdinando compare anche in intercettazioni scabrose che riguardano i servizi segreti. Nel motivare le esigenze cautelari dell’ex n. 2 dell’Aisi Francesco la Motta, arrestato per aver fatto sparire 10.000 milioni di euro dai fondi del Fec (fondi erp gli edifici del culto da lui amministrati dal 2003 al 2006), il gip parla di «attività persuasiva». «La Motta - scrive - a tutt’ oggi non si fa alcuno scrupolo a tentare di utilizzare le sue aderenze». Il magistrato riporta una conversazione del 23 maggio. L’ ex vice dell’ Aisi chiama tale Ferdinando E. che i militari identificano in un pm di Milano e dice: «Avevo bisogno solo… pigliarmi un caffè n’ attimo co’ papà per notiziarlo su alcune cose… me lo fai tu da ponte per favore?». Secondo la ricostruzione dei carabinieri, il padre è Antonio Esposito, presidente di Sezione in Cassazione. Secondo altra interpretazione si tratterebbe di suo cugino Fernando funzionario dell’ amministrazione penitenziaria, figlio di Vitaliano, ex procuratore generale della Cassazione e garante dell’ Aia per l’ Ilva di Taranto. Comunque o l’uno o l’altro………..L’ interlocutore risponde: «Sì, come no». Chiosa il gip: «Pur in assenza di ulteriori comunicazioni che possano indurre anche solo ad ipotizzare che il contatto sia andato a buon fine, occorre evidenziare le aderenze di La Motta con appartenenti ad apparati dello Stato e le più che concrete possibilità di inquinare le indagini». Quanto ha reso ala famiglia Esposito quel prezioso silenzio di Ferdinando su quello stranissimo incidente stradale del 2007?
Brindisi, giudici contro il procuratore, scrive Sonia Gioia su “La Repubblica”. Il procuratore Giuseppe Giannuzzi, oggetto di un pronunciamento di incompatibilità parentale da parte del Consiglio superiore della magistratura, che lo costringe ad abbandonare il ruolo rivestito nella procura brindisina, non potrà mai più dirigere un' altra procura. E' questo, a quanto pare, quello che stabilisce la legge. Sebbene a Giannuzzi resti la chance del ricorso al tribunale amministrativo contro il provvedimento adottato dall' organo di autogoverno dei magistrati. Incompatibilità sorta sulla base di un procedimento penale nel quale un figlio del magistrato, Riccardo Giannuzzi, avvocato iscritto all'albo forense di Lecce, assunse la difesa di alcuni indagati sulla base di una richiesta al gip controfirmata dallo stesso procuratore capo. Giannuzzi junior, raggiunto telefonicamente, si esime da qualsiasi commento: "Non parlo per una questione di correttezza nei confronti di mio padre. Senza il suo consenso non sarebbe giusto rilasciare alcuna dichiarazione". Ma la famiglia, coinvolta in una vicenda senza precedenti, almeno nella procura brindisina, è comprensibilmente provata. Sono stati i magistrati della città messapica i primi a far emergere il caso della presunta incompatibilità parentale. Gli stessi giudici difesi a spada tratta da Giannuzzi quando gli strali del gip Clementina Forleo, autrice della denuncia contro i pm Alberto Santacatterina e Antonio Negro, si sono abbattuti sulla procura di Brindisi. A settembre 2007 la sezione locale dell' associazione nazionale magistrati si riunì per discutere il caso, dopo che da tempo, nei corridoi del palazzo al civico 3 di via Lanzellotti, si mormorava insistentemente e non senza insofferenza. L' avvocato Giannuzzi, per quanto iscritto all'albo salentino dal 1999, figurava in qualità di difensore in diversi processi celebrati nel tribunale brindisino. Fino all'ultimo caso, esploso a seguito di un blitz per droga. Il legale assunse la difesa di uno degli indagati, arrestato a seguito dell'operazione, sulla base di una richiesta al gip controfirmata da Giuseppe Giannuzzi. A seguito della vicenda, i giudici tanto della procura quanto del tribunale, riuniti in consesso, insorsero siglando a maggioranza una delibera in cui si legge: "L' evidente caso di incompatibilità parentale mina il prestigio di cui la magistratura brindisina ha sempre goduto". Parole pesanti, che il procuratore capo Giuseppe Giannuzzi, di stanza a Brindisi dal settembre 2004, non ha mai voluto commentare. Poi, il pronunciamento del Csm: padre e figlio non possono convivere professionalmente nello stesso distretto giudiziario. Diciotto i voti a favore, sei i favorevoli a Giannuzzi, fra cui quello del presidente Nicola Mancino. La decisione è stata adottata sebbene l' avvocato Riccardo Giannuzzi abbia, a seguito del putiferio venutosi a creare, rinunciato a tutti i mandati che potevano vedere in qualche modo coinvolto il procuratore capo della Repubblica di Brindisi. La prima commissione del Csm si era già espressa all'unanimità a favore del trasferimento, sempre alla luce del fatto che Giannuzzi junior esercita la professione forense anche nel capoluogo messapico. Le conseguenze del procedimento, a quanto pare, non sortiranno effetti in tempi brevi: la decisione del plenum del Csm infatti, dopo la notifica potrà essere impugnata dal procuratore capo. La prassi prevede che a indicare le nuove, possibili sedi di destinazione sia ora la terza commissione del Consiglio superiore della magistratura. La scelta toccherà direttamente al giudice, che se non dovesse esprimersi, sarà trasferito d' ufficio. Ma in nessuna sede in cui Giuseppe Giannuzzi verrà destinato, lo prevede il regolamento, mai più potrà rivestire il ruolo di procuratore capo. A meno che non presenti ricorso al Tar e lo vinca.
Il 30 maggio davanti al gup l'avvocato Vincenzo Minasi, accusato di concorso esterno in associazione mafiosa, racconta degli incontri tra il magistrato di Milano e Giulio Giuseppe Lampada accusato di essere il braccio finanziario della 'ndrangheta. La replica: "Calunnie, non l'ho mai conosciuto", scrive Davide Milosa su “Il Fatto Quotidiano”. Prima erano le cene con Nicole Minetti, consigliera regionale del Pdl nonché imputata per induzione alla prostituzione nel Rubygate. Adesso sono i pranzi con il 40enne Giulio Giuseppe Lampada, presunto riciclatore della ‘ndrangheta. Per Ferdinando E., sostituto procuratore di Milano e nipote dell’ex pg della Suprema Corte, i guai proseguono e anzi, se possibile, si complicano. E così, dopo che i tête-à-tête con l’ex igienista dentale di Silvio Berlusconi sono atterrati sul tavolo del Csm, in seguito alla segnalazione del procuratore Edmondo Bruti Liberati, l’ultimo tassello sul caso del magistrato arriva dalle parole dell’avvocato Vincenzo Minasi accusato di concorso esterno in associazione mafiosa. Il legale, che ha scelto il processo con rito abbreviato, è stato sentito dal giudice per l’udienza preliminare. Qui, dopo sette ore di parole, Minasi fa una pausa, poi riprende. E a proposito della fuga di notizie a favore di Giulio Giuseppe Lampada, presunto braccio finanziario della cosca Condello, dice: “Non aveva più bisogno dell’avvocato Minasi, visto che aveva come amico Esposito qui della procura della Repubblica di Milano”. Il pm non ci sta e rispedisce le accuse al mittente: “Sono solo calunnie – dice – , mai conosciuto Lampada”. Posizione avvalorata da un dato: per oltre un anno e mezzo Lampada è stato monitorato 24 ore su 24 dagli investigatori e mai è stato osservato un incontro tra i due e nemmeno una telefonata. Il boss e il magistrato, dunque. Proseguiamo con il luogo degli incontri, uno dei ristoranti più noti del capoluogo lombardo. “Con lui Lampada andava a mangiare al Bolognese”. Quindi ribadisce il concetto: figuriamoci se aveva bisogno di me. Il colletto bianco dei clan, stando alla ricostruzione del legale, aveva ben altre entrature per andare a vedere le carte della procura antimafia che per tre anni ha indagato sugli intrecci politico-mafiosi in Lombardia. Nel novembre scorso, l’indagine ha fatto scattare le manette per dieci persone. Tra queste Franco Morelli, consigliere regionale calabrese e il giudice Vincenzo Giglio. Insomma, il cosiddetto secondo livello che si alimenta di rapporti opachi tra mafia e istituzioni. Il tutto sulla rotta Milano-Reggio Calabria. Il verbale prosegue. Minasi parla tanto. E aggiunge particolari sui rapporti tra il magistrato e il presunto boss. Spunta anche il nome di Lele Mora già condannato per bancarotta e, come la Minetti, imputato nel processo Ruby bis per induzione alla prostituzione (accusa che condivide anche con l’ex direttore del Tg4 Emilio Fede). Qual è il contesto? Minasi spiega che Esposito “venne presentato a Lampada da un tale Massimo, ex autista di Lele Mora”. Il colletto bianco dei clan e l’agente dei vip. Altri rapporti. Il punto di contatto è Paolo Martino, coinvolto nell’indagine Caposaldo e accusato di essere il referente per il nord Italia della potente cosca De Stefano. Giuseppe Lampada e Martino si conoscono da tempo. Di più: il fratello di Lampada fino al 2007 detiene il 50% della Lucky World srl assieme allo stesso Martino. Chiude il cerchio la figura di Stefano Trabucco, uomo di Mora, e per qualche tempo presente negli assetti societari della Lucky. Le parole di Minasi, poi, portano il carico da novanta: “La macchina che guida Lampada, cioè la Bentley Continental, in realtà prima era di Lele Mora”. Insomma, in questa storia, tutto sembra tenersi. A partire da Esposito che da un lato, come pm, si occupa di anti-contraffazione nel mondo dei locali e dall’altro ama la bella vita. E di quei locali, Hollywood in testa (la discoteca di corso Como per anni regno di Mora), è assiduo frequentatore. Nulla di male, naturalmente. Un po’ meno cenare con un imputato a processo nel tribunale dove lui stesso lavora come sostituto procuratore. Su questo il Csm si è già pronunciato archiviando la posizione perché risultano “già informati i titolari dell’azione disciplinare”, ovvero il pg della Corte di Cassazione e il Guardasigilli. E dunque, Palazzo dei Marescialli riprenderà in mano la questione solo se il procuratore Giuseppe Ciani e il ministro Paola Severino decideranno di portare avanti il caso. Ma a rimescolare le carte adesso arrivano le dichiarazioni dell’avvocato vicino alla ‘ndrangheta. Parole che, ad oggi, restano senza alcun risvolto giudiziario. Ferdinando E. non risulta indagato. Non solo, seguendo le vicende del processo Valle-Lampada si scopre che il padre di Esposito è presidente della seconda sezione della Cassazione, la stessa che ha confermato l’arresto di Lampada e del giudice Vincenzo Giglio con motivazioni pesantissime. E questo fa sorgere il dubbio che le parole dell’avvocato Minasi con Ferdinando altro non siano che una ritorsione nei confronti del padre. da Il Fatto Quotidiano dell’ 8 giugno 2012.
LA REPLICA DEL SOSTITUTO PROCURATORE ESPOSITO.
Dall’articolo pubblicato in data odierna sul “Il Fatto Quotidiano” a firma di Davide Milosa apprendo che tale avvocato Vincenzo Minasi – arrestato per concorso esterno in associazione mafiosa – avrebbe affermato innanzi al G.U.P. di Milano che io sarei amico di Giulio Giuseppe Lampada “presunto riciclatore della ‘ndrangheta. Poiché la notizia è completamente falsa, Le chiedo formalmente di pubblicare la seguente smentita: Non sono amico né frequentatore del Lampada, persona a me del tutto sconosciuta e della quale non ho alcun ricordo. Non ho mai conosciuto né letta una riga degli atti investigativi della inchiesta condotta dai magistrati della Dda. So soltanto – e credo che basti – che mio padre, dr. Antonio Esposito ha presieduto il Collegio che in Cassazione ha confermato le misure cautelari (e le ordinanze del Tribunale del riesame adottate nei confronti degli associati e dei fiancheggiatori); e so soltanto che le calunniose dichiarazioni del Minasi sono – guarda caso – di pochi giorni successivi al deposito delle decisioni adottate dalla Suprema Corte. Mi riservo ogni azione a tutela dei miei diritti gravemente lesi. Ferdinando E..
Nessuna punizione per il figlio del giudice che ha condannato il Cav. Archiviazione annunciata quando il processo Mediaset è finito al padre, scrive Anna Maria Greco su “Il Giornale”. Nessuna ombra doveva pesare sulla prevista e definitiva condanna di Silvio Berlusconi nel processo per i diritti tv Mediaset. Ma c'era la storia di quel giovane e intraprendente magistrato, Ferdinando , a creare qualche problema per la cena con l'imputata Nicole Minetti. Fastidioso avercela ancora tra i piedi mentre proprio il padre, Antonio, doveva presiedere la sezione feriale della Cassazione che avrebbe sferrato il colpo finale della vicenda giudiziaria iniziata dieci anni prima. Così, molto tempestivamente, si è provveduto a chiudere la faccenda. L'8 luglio viene fissata l'udienza del Cavaliere davanti alla Suprema corte per il 30 del mese e subito dopo, l'11 luglio, si fa sapere che il rampante pm di Milano non rischia nessuna azione disciplinare per la sua solo «inopportuna» cena al ristorante «Il Bolognese» del capoluogo meneghino con l'ex consigliera regionale che, all'epoca, doveva essere ancora giudicata nel processo Ruby bis, con Lele Mora ed Emilio Fede. Il procuratore generale, Gianfranco Ciani, dirama la notizia che sono state archiviate le accuse nate dalla segnalazione fatta a maggio del 2012 dal capo della procura di Milano, Edmondo Bruti Liberati. Quell'incontro, per il titolare dell'azione disciplinare, è stato solo «occasionale» e non riguardava un caso giudiziario di competenza di Esposito. Dunque, fin dal 30 gennaio si è chiusa la preistruttoria, dopo che nove mesi prima lo stesso Csm, nella prima commissione, aveva deciso di non aprire la pratica per un'eventuale incompatibilità in attesa, appunto, della decisione sul versante disciplinare del procuratore generale della Cassazione. Il bel Ferdinando, alto, palestrato ed elegante, quello che va in giro in Porsche e si è fatto per un po' irretire dal fascino pericoloso della sexy Nicole, non può con le sue leggerezze mettere nei guai il padre Antonio, che finirà nelle pagine dei libri di storia per aver guidato il collegio che ha relegato fuori dal campo politico il leader del Pdl. Viene da una famiglia napoletana di magistrati, il giovane Esposito, che ha anche uno zio ancor più importante del genitore e cioè quel Vitaliano fino a pochi mesi fa Procuratore generale della Cassazione, proprio al posto di Ciani che l'ha tirato fuori dai guai in un battibaleno, facendo attenzione a divulgare la notizia prima della data fatidica della sentenza Mediaset. Si è parlato molto della cena di Ferdinando con la Minetti nell'elegante ristorante milanese, commentata a Palazzo de' Marescialli con frizzi e lazzi dei consiglieri, tipo: «Beato lui!». Ma non si è più saputo nulla circa l'altro esposto al Csm per un episodio nella palestra milanese «Downtown» di piazza Diaz che, sembra, frequentavano sia il pm che la bella consigliera. Raccontano che in un'occasione particolare il rampollo in toga, si sia fatto «riconoscere», per così dire. Mentre si concentrava sui bilancieri, per gonfiarsi i muscoli, qualcuno nello spogliatoio gli avrebbe sottratto il portafoglio dalla sacca sportiva. E lui, invece di andare in un posto di polizia e fare la denuncia come chiunque, con una telefonata la polizia l'avrebbe fatta accorrere in palestra per un'immediata e completa perquisizione. Il portafoglio, poi, sarebbe saltato fuori, ma questo sfoggio di autorità a qualcuno sarebbe apparso un vero e proprio abuso. Tale da giustificare un esposto al Csm. Che sicuramente sarà stato archiviato come l'altro, anche se per fatti più insignificanti ci sono magistrati che hanno passato qualche guaio. Qui, però, c'era di mezzo ben altro. Il processo del secolo, che non doveva essere «chiacchierato» neanche per la sventatezza - vogliamo chiamarla così? - di un giovane pm con un padre importante in un ruolo-chiave.
Ed ancora. «Incompatibilità ambientale» Via da Milano il pm Esposito, scrive Luigi Ferrarella su “Il Corriere della Sera”. Stop come pm e via dalla Procura di Milano: la sezione disciplinare del Csm ha deciso in via cautelare il trasferimento a Torino di Ferdinando per «incompatibilità ambientale» (con la sede giudiziaria di Milano) e «funzionale» (con il ruolo inquirente) del pm della Procura di Milano, nipote dell?ex procuratore generale della Cassazione (Vitaliano) e figlio del magistrato (Antonio) che in Cassazione nell?estate 2013 presiedette il collegio di 5 giudici che condannarono Silvio Berlusconi per frode fiscale Mediaset. Tra i capi di «incolpazione» disciplinare (per cui ora proseguirà il procedimento di merito) c?erano la disponibilità per quasi 4 anni di un attico per il quale circa 150.000 euro di affitto furono saldati dalla società di un manager e da un banchiere all?epoca inquisito dalla Procura di Milano; i rapporti con l?avvocato ed ex amico Michele Morenghi, per i quali il pm è al momento indagato a Brescia; prestiti di denaro da più persone, tra le quali un consulente proposto a un collega pm; e la storia del bigliettino dato durante le indagini a questo collega pm per chiedergli «inventiamoci qualcosa?è una cazzata ma è importante che le versioni coincidano». Esposito impugnerà il trasferimento cautelare disciplinare alle Sezioni Unite civili della Cassazione.
Ferdinando, la casa a Milano pagata da due ditte, scrive Salvatore Garzillo su “Libero Quotidiano”. Etimologicamente Esposito significa “esposto”. Nel caso del pm Ferdinando basta leggere i giornali per averne conferma. Dopo la notizia delle sue due visite alla villa di Silvio Berlusconi ad Arcore a pochi giorni dalla requisitoria del processo Ruby (il 13 maggio 2013), e dopo l'iscrizione nel registro degli indagati da parte del tribunale di Brescia per presunti prestiti di soldi restituiti solo in parte, ora salta fuori che il pm avrebbe goduto per anni dell'affitto pagato da due società. Non per un monolocale in periferia, ma per un attico di 95 metri quadrati dietro il Duomo di Milano, il cui affitto è oscillato nel tempo tra i 22 e i 34mila euro l'anno. Il periodo sarebbe dal 2009 a fine 2013, quando poi ha deciso di prenderlo a proprio nome. Secondo quanto riporta il “Corriere”, Esposito sarebbe stato teorico beneficiario di un potenziale risparmio di oltre 100mila euro, poiché non avrebbe restituito somme alle società che in questi anni avrebbero pagato il canone. Figlio del giudice Antonio, il togato della Cassazione che ha presieduto il processo Mediaset e ha pronunciato la sentenza di condanna dell'ex premier, Ferdinando si è trasferito a Milano nel marzo del 2009, lasciando la Procura di Potenza e John Henry Woodcock. Per trovare casa chiede aiuto a un amico conosciuto nel 2007, durante le vacanze estive in Calabria. L'uomo gli offre un ottimo "appoggio logistico”, l'attico in centro, che la sua società Domo Consulting aveva preso in affitto nel 2004 dalla Maiga srl dell'immobiliarista genovese Giuseppe Luce. L'amico in questione è Claudio Calza, in ottimi rapporti con Cossiga e arrestato dal procuratore Woodcock nel 2002 nell'ambito di un'inchiesta sull'Inps. Calza è prosciolto nel 2004 ma quattro anni dopo finisce di nuovo in manette, stavolta a Milano, per l'inchiesta condotta dal pm Roberto Pellicano su una perdita di 700 milioni in derivati di Banca Italease. Questo stesso Calza negli anni dei suoi processi milanesi mette l'attico a disposizione del pm poiché vive a Roma e non lo utilizza quasi mai. Per uno scherzo del destino sarà poi giudicato in Cassazione dalla sezione presieduta da Esposito padre e condannato a 25 mesi per associazione a delinquere finalizzata all'appropriazione indebita, e alla restituzione di 10 milioni di euro. Ma questa è un'altra vicenda. Ora al centro c'è l'appartamento di lusso prestato a Esposito, che spiega di aver goduto solo di una stanza. A fine 2012, alla scadenza del contratto di Calza, l'attico è affittato da un altro amico del pm, Fabio Cauduro, consulente della società romana “Fai Marketing”, che sborsa 13mila euro per i primi mesi del 2013 nonostante l'inquilino resti il magistrato. Solo a fine 2013, quando anche alla Fai scade il contratto, Esposito si intesta l'affitto. Il suo legale Giampiero Biancolella (che lo difende assieme al collega Massimo Krogh), ha spiegato al Corriere che “si tratta di una casa affittata a uso foresteria da queste società, tant'è che nella disponibilità del dottor Esposito erano solo una stanza e un bagno, e l'utilizzo in comune di salotto e cucina". Del resto, "per quanto mi consta, con gli amministratori delle società c'erano rapporti di amicizia e cordialità assai risalenti nel tempo”.
Continuano ad emergere particolari sull'inchiesta della Procura di Brescia nei confronti del pm milanese Ferdinando, iscritto sul registro degli indagati dopo la denuncia di un avvocato piacentino, Michele Morenghi, che ha dichiarato di aver pagato l'affitto al giudice, di avergli prestato dei soldi e di averlo portato nel maggio del 2012 ad Arcore per incontrare Silvio Berlusconi dichiara “Libero Quotidiano”. Il Corriere della Sera scrive che i giudici adesso hanno acquisito conferme sia documentali che testimoniali circa due incontri tra il pm Esposito (figlio di Antonio il presidente di sezione che dopo qualche mese avrebbe poi, insieme ai suoi colleghi, condannato Berlusconi per frode fiscale). L'avvocato-accusatore, sentito dai pm di Brescia, ha ricostruito i dettagli della visita di Esposito-figlio ad Arcore: "Vidi arrivare Berlusconi a braccetto con il magistrato carico di scatole di cartone", dalle quali - sempre secondo il racconto di Morenghi . di ritorno a Milano il pm avrebbe tratto e regalato due cravatte numerate "Damiano Presta". Adesso gli inquirenti vogliono far luce sulle ragioni di questo incontro. Nel frattempo Ferdinando E., difeso dagli avvocati Giampiero Biancolella e Massimo Krogh, ha chiesto di essere interrogato. Al Corriere Biancolella ha spiegato che Esposito "intende fornire tutti i chiarimenti necessari a fugare ogni sospetto di condotte che possano essere ritenute di rilievo penale".
Esposito, un altro testimone lo accusa: "Mi deve 10mila euro", scrive “Libero Quotidiano”. Dopo l'avvocato piacentino Michele Morenghi, spunta un testimone che accusa il pm della Procura di Milano Ferdinando E.. "Mi deve diecimila euro", avrebbe detto ai magistrati di Brescia precisando che la richiesta di denaro sarebbe stata formulata due volte nell'ultimo anno e mezzo per un totale quindi di diecimila euro. Secondo quanto scrive il Corriere della Sera, il testimone è un commercialista, professore a contratto all'Università Bicocca che è rimasto molto colpito quando è stato convocato in Procura perché gli inquirenti volevano verificare alcune circostante sui sui rapporti con il pm milanese, figlio di Antonio, il presidente di sezione di Cassazione che con altri quattro colleghi ha confermato la sentenza di condanna per frode fiscale di Silvio Berlusconi. Il commercialista avrebbe detto di aver conosciuto il pm per motivi professionali e di esserne poi diventato amico e, stando a quanto riportato dal quotidiano di via Solferino, avrebbe aggiunto di aver prestato per due volte 5mila euro. Rispetto alle prime accuse, quelle dell'avvocato piacentino, Ferdinando E. ha sempre sostenuto di essere vittima di calunnie e di bugie e di non aver mai avuti rapporti patrimoniali con l'ex amico. Ma adesso a dare sostegno alle affermazioni del legale ci sarebbe un foglietto scritto dal magistrato che sarebbe stato lasciato dal pm nella busta con cui un mese fa gli aveva restituito 2mila euro in portineria. "Caro Michele seguirà nel giro di un paio di settimane l'importo rimanente in un'unica soluzione. Cordiali saluti e grazie". Un documento su cui gli inquirenti potrebbero chiedere un perizia calligrafica o per attribuirne la paternità al pm o, al contrario, per svelare che questo foglietto presentato dall'avvocato non è che un falso.
Ed ancora a proposito di avvocati.
Richieste di prestargli migliaia di euro non ancora tutti restituiti, pressanti insistenze di pagargli l’affitto di casa: è un avvocato lombardo con interessi nell’Est Europa a sostenere, di fronte alle Procure di Brescia e Milano, di aver subìto queste pretese dal sostituto procuratore milanese Ferdinando E., scrivono Luigi Ferrarella e Michele Focareta su “Il Corriere della Sera”. Un magistrato con il quale aggiunge di essere stato talmente in confidenza da averlo persino accompagnato ad Arcore ad un incontro con Silvio Berlusconi il pomeriggio del 22 maggio 2013, pochi giorni dopo la requisitoria del processo Ruby (13 maggio), la condanna dell’ex premier nell’Appello del processo sui diritti tv Mediaset (8 maggio), e il rigetto in Cassazione (6 maggio) dell’istanza di legittima suspicione con la quale Berlusconi aveva cercato di portar via da Milano a Brescia tutti i propri processi. Questo incontro nel 2013 appare, a posteriori, ancor più singolare perché Ferdinando E., oltre a essere pm a Milano nel pool reati ambientali e colpe mediche, e essere nipote dell’ex Procuratore generale della Cassazione (Vitaliano), è anche figlio del presidente di sezione di Cassazione (Antonio): cioè del magistrato che, nel successivo fine luglio 2013, si sarebbe ritrovato a comporre con altri quattro giudici il collegio feriale della Suprema Corte che confermò la condanna di Berlusconi a 4 anni per frode fiscale sui diritti tv Mediaset, accennandone poi le motivazioni in una contestata intervista a Il Mattino. Competente a indagare sui magistrati del distretto milanese è la Procura di Brescia. E qui il procuratore Tommaso Bonanno, appena è stato informato dalla Procura di Milano delle gravi accuse esplicitate dall’avvocato nella denuncia che il 10 febbraio ricalcava passi di una lettera invece anonima (e dunque priva di valore) indirizzata in precedenza al pm Ilda Boccassini, ha delegato ai colleghi di Milano il compito di svolgere quel minimo di atti urgenti necessari a soppesare il denunciante. Il segreto che da settimane avvolge la storia impedisce allo stato di capirne di più, ma all’esito di questi embrionali accertamenti, e dell’interrogatorio al quale il 12 febbraio il procuratore capo Edmondo Bruti Liberati e la sua vice Boccassini hanno sottoposto l’avvocato testimone, le carte sono subito state inviate alla Procura di Brescia e inquadrate dal pm Silvia Bonardi in un fascicolo che esplora ipotesi tra la concussione e il millantato credito, mentre l’esposto è al vaglio a Roma anche della Procura generale presso la Corte di Cassazione e del ministero della Giustizia per eventuali profili disciplinari L’avvocato-denunciante non è nuovo ad aspri e controversi rapporti con le forze dell’ordine; e suona certo peculiare che racconti di aver a un certo punto cominciato ad annotare il contenuto delle telefonate del pm quand’erano assieme. Ma afferma di poter dimostrare che Esposito — nel 2012 oggetto di gossip per aver incontrato Nicole Minetti (indagata dell’inchiesta Ruby) in un ristorante alla moda — gli avrebbe chiesto soldi in prestito, a dire del legale in relazione al tenore di vita del pm legato a una modella: solo che poi il magistrato, stando alla denuncia dell’avvocato, avrebbe fatto problemi a restituirgli 7.000 euro. Anzi avrebbe cominciato a chiedergli, in maniera percepita come pressante dall’avvocato, che costui gli pagasse l’affitto di casa. Da qui l’apparente origine della rottura tra i due, al punto che l’avvocato dice di aver dovuto due volte ingiungere il rimborso prima di vedersi restituire parte della somma, ad esempio il 6 febbraio una busta a mezzogiorno in portineria con 2.000 euro e un foglio scritto a mano a stampatello per assicurare il saldo entro 15 giorni. Stando all’avvocato, il pm non gli avrebbe ancora restituito 2.000 o 3.000 euro. Eppure prima i due sarebbero stati talmente amici che l’avvocato racconta di aver accompagnato Esposito (dando un passaggio in auto anche ad altri due pm) il giorno in cui i magistrati milanesi andavano in ospedale a trovare un collega gravemente malato; o di aver incontrato insieme a Esposito, in un hotel di lusso a Milano il giorno dopo la Befana 2013, la ex «miss Montenegro» Katarina Knezevic (e sua sorella Cristina), in passato autodefinitasi «la fidanzata» di Berlusconi. Ad Arcore dall’ex premier — rincara l’avvocato — il pm Esposito si sarebbe recato non solo il 22 maggio 2013 in sua compagnia, ma anche una volta precedente, in quel caso accompagnato da una persona indagata proprio dalla Procura di Milano, sebbene non in un fascicolo del pm Esposito. Il quale, interpellato nella tarda serata di ieri, smentisce tutte le accuse: «Questo avvocato purtroppo l’ho conosciuto, si è posto come amico, poi però ho capito chi era davvero e l’ho allontanato. Le sue sono tutte bugie e calunnie prive di fondamento.
Cene con la Minetti e bagni al mare abusivi: una famiglia barzelletta. Vitaliano, ex procuratore generale di cassazione, frequenta un lido fuorilegge in Salento. E Ferdinando è finito sotto indagine per le uscite a lume di candela con l'imputata Nicole, scrive “Libero Quotidiano”. Qualcuno potrebbe definirla una famiglia 'particolare'. Qualcun altro, un po' più cattivello, una famiglia 'barzelletta'. Al centro c'è Antonio Esposito, giudice della Corte di Cassazione che in una telefonata-intervista al Mattino anticipò le motivazioni della condanna inflitta a Silvio Berlusconi per frode fiscale nel processo Mediaset. E che in più occasioni è stato 'pizzicato' da testimoni a pronunciare frasi non proprio di ammirazione nei confronti del Cavaliere. Poi c'è la figlia Andreana, che sta alla Corte europea dei diritti dell'uomo di Strasburgo, cui i legali di Berlusconi vorrebbero far ricorso contro la sentenza emessa dalla Cassazione. Paradosso: a passare al vaglio la sentenza pronunciata da Esposito potrebbe essere la nipote. Non bastassero loro, c'è il papà di Andreana, che come scrive oggi, mercoldì 28 agosto, su Libero Peppe Rinaldi, è stato fotografato mentre prende il sole e fa il bagno presso il Lido Oasi di Agropoli, nel Cilento. Il problema è che il lido è abusivo ed è stato soggetto a indagini, interpellanze, ordinanze di abbattimento. In zona tutti sanno. Curioso che Vitaliano Esposito, da poco ex (è appena andato in pensione) procuratore generale della Cassazione, non sappia di mettersi a mollo in uno stabilimento balneare fuorilegge (abusivo a sua insaputa). Infine, della famiglia fa parte anche Ferdinando E., che tempo fa finì sotto indagine del Csm (che poi archiviò) per le cene a lume di candela del giudice (ma va, anche lui?) in Porsche con Nicole Minetti, allora già imputata per istigazione alla prostituzione insieme a Lele Mora ed Emilio fede. Una famiglia, gli Esposito, che non fosse altro dimostra come la magistratura sia una vera, autentica, casta.
L'esposto. Il magistrato Petrucci: «Io, vittima di ordinaria ingiustizia». L’ex Procuratore della Repubblica si rivolge al Csm, scrive “Taranto Buona Sera” il 22 aprile 2016. “Una storia di ordinaria ingiustizia”: così l’ex Procuratore della Repubblica di Taranto, Aldo Petrucci, ha voluto intitolare l’esposto inviato al Consiglio Superiore della Magistratura, al Ministro della Giustizia, al Procuratore Generale della Corte di Cassazione, al Procuratore Generale della Corte d’Appello di Potenza e al Presidente della Corte d’Appello di Potenza. Otto pagine nelle quali sono condensati anni di indagini e processi a suo carico, un polverone giudiziario e mediatico che poi si è dissolto con l’assoluzione da ogni accusa. Resta però l’ombra di una giustizia che non ha funzionato, l’ombra di quella che lo stesso dottor Petrucci definisce «pesante e triste vicenda giudiziaria di cui sono stato vittima per la superficialità e l’insipienza professionale di alcuni magistrati del Distretto di Potenza». Il suo è un vero e proprio atto d’accusa. Ma quando e perché tutto ha avuto inizio? «Tutto ha avuto inizio - scrive il dottor Petrucci - nel 2006 quando ero Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, un ufficio impegnato a tempo pieno in indagini complesse in materia ambientale ed in materia di illecita gestione delle risorse finanziarie pubbliche, dall’Asl al Comune capoluogo». È in quel momento che accadde qualcosa di inaspettato: la Procura di Potenza avvia una indagine nei confronti del dottor Petrucci sulla base di interrogazioni parlamentari dell’onorevole Giuseppe Lezza fatte pervenire in copia per due volte a quell’Ufficio. La prima volta il procedimento viene archiviato. La seconda volta il procedimento viene assegnato al p.m. Ferdinando E., «amico dell’on. Lezza» (scrive il dr. Petrucci nell’esposto) e poi finito alla ribalta delle cronache nazionali per le sue frequentazioni ad Arcore e per altre controverse vicende. «Sono stati tre anni di indagini condotte con metodi che non fanno onore né alla Magistratura italiana né all’Arma dei Carabinieri». Il dottor Petrucci parla di «testimoni intimiditi» e di «gravi violazioni di regole processuali». Nell’esposto dell’ex Procuratore sono riportate anche alcune confidenze, come quelle rese nel corso delle indagini da un carabiniere di Potenza a colleghi del Comando Provinciale di Taranto: “Sappiamo che il Procuratore sarà assolto, perché non c’è niente, ma egli deve andare a giudizio”. La storia via via si fa più pesante. Nel febbraio 2009 al dottor Petrucci viene notificato l’avviso di conclusione delle indagini, ma dall’accusa di abuso di ufficio si passa a quella di corruzione in atti giudiziari. «Negli atti – racconta l’ex Procuratore di Taranto – non vi era uno straccio di prova delle accuse formulate, non un indizio, nulla. Contava solo aver determinato un ampio clamore mediatico diretto a fini extraprocessuali». Nel corso dell’udienza preliminare è il p.m. a chiederne il proscioglimento “non avendo trovato negli atti (testualmente) né un provvedimento né un comportamento che potessero sorreggere tale accusa”. Ancora più netta la sentenza del Gup, che liquida le accuse formulate a carico del dottor Petrucci come “congetture facilmente confutabili alla luce di semplici e banali constatazioni di ordine logico”. «In sintesi - spiega il dottor Petrucci - la Procura ha chiesto il mio rinvio a giudizio con grande e grave clamore mediatico, la Procura stessa ha chiesto il proscioglimento in udienza, essa non ha impugnato la sentenza che censurava radicalmente il suo operato, ma intanto quel Procuratore è stato promosso Procuratore della Repubblica di Napoli». Da qui gli interrogativi che oggi, a conclusione della sua vicenda, pone il dottor Aldo Petrucci: «Quali garanzie offre al cittadino una Magistratura siffatta? Chi paga per il danno d’immagine provocatomi ingiustamente? Chi risarcisce il costo delle risorse umane e finanziarie impegnate per i tre anni di indagini volte alla ricerca spasmodica di un fatto-reato? Perché una vicenda che doveva chiudersi con un decreto di archiviazione è stata portata fino all’udienza preliminare, pur sapendo che negli atti non vi era nulla che giustificasse le imputazioni formulate?». Tutto finito? No, perché a carico del dottor Petrucci restava l’accusa di peculato per l’uso improprio delle utenze telefoniche d’ufficio. «Una perizia disposta dal Tribunale ha accertato che il costo delle telefonate contestatemi è stato di 25 euro nell’arco dei 20 mesi esaminati, cioè poco più di un euro al mese. E per questi 25 euro è stato portato avanti un processo durato tre anni, con 15 udienze ed una perizia tecnica costata oltre mille euro». La vicenda è andata avanti fino a quando la Corte d’Appello di Potenza ha messo definitivamente la parola fine, scrivendo che la condotta contestata al dr. Petrucci “neppure astrattamente” (cioè neppure per ipotesi) poteva avere rilievo penale. Anche qui, altre domande: «Si può celebrare un processo per ben 15 udienze per un danno patrimoniale complessivo di 25 euro in 20 mesi? (pari al costo di un caffè al mese) È comparabile tale danno al costo del processo in termini economici e di sofferenza umana? È compatibile questo modo di amministrare giustizia con l’esigenza di rendere spediti i procedimenti?» «Ho fatto il Magistrato per 45 anni - conclude amaramente il dottor Petrucci - e la mia storia professionale è sempre stata assolutamente corretta, come è dimostrato dalle valutazioni altamente positive che ho sempre avuto, poi è arrivata l’aggressione morale dell’ex on.le Lezza, che si è fatto scudo dell’immunità parlamentare, sino alle scelte di qualche Ufficio giudiziario di Potenza che ha fatto scempio in mio danno delle regole poste a tutela della civiltà giuridica». Adesso l’ex Procuratore chiede che vengano assunte «le iniziative che l’ordinamento prevede per censurare le gravi ingiustizie che ho patito e per impedire che analoghi episodi di “malagiustizia” si verifichino ulteriormente».
Il pm e l'imputata: Esposito jr "graziato" per la cena con Minetti. Nessuna punizione per il figlio del giudice che ha condannato il Cav. Archiviazione annunciata quando il processo Mediaset è finito al padre, scrive Anna Maria Greco Nessuna ombra doveva pesare sulla prevista e definitiva condanna di Silvio Berlusconi nel processo per i diritti tv Mediaset. Ma c'era la storia di quel giovane e intraprendente magistrato, Ferdinando E., a creare qualche problema per la cena con l'imputata Nicole Minetti. Fastidioso avercela ancora tra i piedi mentre proprio il padre, Antonio, doveva presiedere la sezione feriale della Cassazione che avrebbe sferrato il colpo finale della vicenda giudiziaria iniziata dieci anni prima. Così, molto tempestivamente, si è provveduto a chiudere la faccenda. L'8 luglio viene fissata l'udienza del Cavaliere davanti alla Suprema corte per il 30 del mese e subito dopo, l'11 luglio, si fa sapere che il rampante pm di Milano non rischia nessuna azione disciplinare per la sua solo «inopportuna» cena al ristorante «Il Bolognese» del capoluogo meneghino con l'ex consigliera regionale che, all'epoca, doveva essere ancora giudicata nel processo Ruby bis, con Lele Mora ed Emilio Fede. Il procuratore generale, Gianfranco Ciani, dirama la notizia che sono state archiviate le accuse nate dalla segnalazione fatta a maggio del 2012 dal capo della procura di Milano, Edmondo Bruti Liberati. Quell'incontro, per il titolare dell'azione disciplinare, è stato solo «occasionale» e non riguardava un caso giudiziario di competenza di Esposito. Dunque, fin dal 30 gennaio si è chiusa la preistruttoria, dopo che nove mesi prima lo stesso Csm, nella prima commissione, aveva deciso di non aprire la pratica per un'eventuale incompatibilità in attesa, appunto, della decisione sul versante disciplinare del procuratore generale della Cassazione. Il bel Ferdinando, alto, palestrato ed elegante, quello che va in giro in Porsche e si è fatto per un po' irretire dal fascino pericoloso della sexy Nicole, non può con le sue leggerezze mettere nei guai il padre Antonio, che finirà nelle pagine dei libri di storia per aver guidato il collegio che ha relegato fuori dal campo politico il leader del Pdl. Viene da una famiglia napoletana di magistrati, il giovane Esposito, che ha anche uno zio ancor più importante del genitore e cioè quel Vitaliano fino a pochi mesi fa Procuratore generale della Cassazione, proprio al posto di Ciani che l'ha tirato fuori dai guai in un battibaleno, facendo attenzione a divulgare la notizia prima della data fatidica della sentenza Mediaset. Si è parlato molto della cena di Ferdinando con la Minetti nell'elegante ristorante milanese, commentata a Palazzo de' Marescialli con frizzi e lazzi dei consiglieri, tipo: «Beato lui!». Ma non si è più saputo nulla circa l'altro esposto al Csm per un episodio nella palestra milanese «Downtown» di piazza Diaz che, sembra, frequentavano sia il pm che la bella consigliera. Raccontano che in un'occasione particolare il rampollo in toga, si sia fatto «riconoscere», per così dire. Mentre si concentrava sui bilancieri, per gonfiarsi i muscoli, qualcuno nello spogliatoio gli avrebbe sottratto il portafoglio dalla sacca sportiva. E lui, invece di andare in un posto di polizia e fare la denuncia come chiunque, con una telefonata la polizia l'avrebbe fatta accorrere in palestra per un'immediata e completa perquisizione. Il portafoglio, poi, sarebbe saltato fuori, ma questo sfoggio di autorità a qualcuno sarebbe apparso un vero e proprio abuso. Tale da giustificare un esposto al Csm. Che sicuramente sarà stato archiviato come l'altro, anche se per fatti più insignificanti ci sono magistrati che hanno passato qualche guaio. Qui, però, c'era di mezzo ben altro. Il processo del secolo, che non doveva essere «chiacchierato» neanche per la sventatezza - vogliamo chiamarla così? - di un giovane pm con un padre importante in un ruolo-chiave.
La Magistratura impegnata (nella strenua difesa di se stessa), scrive Achille Saletti il 22 ottobre 2015 su "Il Fatto Quotidiano". E dedicare qualche riga, oltre che alla politica rapace, a una Magistratura che difende se stessa con un piglio degno di cause migliori? Anche in questo caso sembra di sparare sul pianista: lo scontro ai vertici di una delle procure italiane più importanti si è ridotta ad un buffetto dato con grande delicatezza ai due protagonisti dell’affaire. Bruti Liberati, procuratore della Repubblica di Milano e Alfredo Robledo, sostituto della stessa Procura. Scontro di potere inaudito che ha fatto emergere dimenticanze, stranezze, stravaganze procedurali, insomma quell’insieme di comportamenti che nel retrobottega di un biscazziere, forse, sono normalità ma nel palazzo di vetro di una Procura, opacizzano anche quei colleghi che con serietà e dedizione si ostinano ad indossare il nobile abito di servitore dello Stato. Il Consiglio superiore della Magistratura ha sapientemente atteso la data di pensionamento di Bruti Liberati che, così facendo toglie le castagne dal fuoco. Per Robledo un bel trasferimento, nemmeno tanto lontano (Torino) e tutti giù per terra. Sempre in terra milanese, il giudice Ferdinando E. avrebbe abitato in un lussuoso appartamento pagato da amici. Trasferito anche lui a Torino, quasi che Torino fosse il rifugio degli scarti di Milano, o forse perché c’è l’alta velocità che permette di andare in 40 minuti e mantenere la residenza a Milano, chi lo sa? Vuoi mai che debbano dormire qualche notte fuori casa. Si chiude Milano e si apre Palermo: fatti noti e nemmeno sconosciuti tra chi aveva a che fare quotidianamente con confische e sequestri. Il magistrato che se ne occupava, la sapiente Saguto, si alimentava in un supermercato confiscato (da lei) senza pagare alcunché. Dispensava fraterni giudizi ai figli di uno dei magistrati che, tra i tanti, ha particolarmente onorato la professione pagando il prezzo della vita e chiudeva entrambi gli occhi su consulenze date al marito da curatori giudiziari da lei scelti. Sospesa in attesa di capirci qualche cosa? No, chiaramente, solamente trasferita. C’è insomma, sufficiente materiale da rendere la faccia del segretario della Associazione nazionale magistrati simile a quella di un ovale al cui interno campeggia un grande punto interrogativo. E questa, per alcuni, sarebbe la parte migliore del Paese e della Pubblica amministrazione. Parte che, se interessata a possibili riforme, si straccia le vesti prima ancora di comprendere in cosa consistano le riforme. Evidentemente a Rodolfo Sabelli, l’ipotetico punto interrogativo di cui sopra, questa Magistratura così feroce con se stessa piace assai perché si sente raramente alzare la voce affinché i suoi colleghi, quando coinvolti in situazioni poco limpide, prendano una sana aspettativa senza pretendere stipendio e incarichi in attesa degli auspicati chiarimenti. Poi, la ferocia si trova in altri settori della P.A quali quelli penitenziari che licenziano un’educatrice rea di avere un pensiero non esattamente ortodosso sulla Tav. Ma per gli educatori non c’è ordine, corporazione o altro che possa difenderli. Loro non sono considerati la parte migliore del Paese.
GIUDICE ANTONIO ESPOSITO: IMPARZIALE?
Quando la toga sparlava delle avventure piccanti del Cavaliere con le deputate Pdl, scrive “Libero Quotidiano”. Probabilmente non sapeva che il giornalista seduto tra lui e il giudice Ferdinando Imposimato fosse un cronista del Giornale. Del resto era una cena conviviale con il vincitore del premio Fair Play 2009 e lui, il giornalista, aveva appena consegnato il riconoscimento che negli anni passati aveva dato a Giulio Andreotti, Ferruccio De Bortoli, Pietro Mennea, Gianni Letta. Quell'anno era toccato a Imposimato che si era portato appresso il collega Antonio Esposito, il giudice della Suprema Corte che mercoledì scorso ha emesso il verdetto di condanna contro Silvio Berlusconi. Stefano Lorenzetto, questo il nome del giornalista, rivela oggi quella chiacchierata a tavola e il racconto ha davvero dell'incredibile. "Esposito nel bel mezzo del banchetto cominciò a malignare con palese compiacimento circa il contenuto di certe intercettazioni telefoniche riguardanti a suo dire il premier Berlusconi sulle quali vari organi di stampa avevano ricamato all'epoca della vicenda D'Addario salvo poi smentirsi". "Il presidente della seconda sezione penale della Cassazione", continua Lorenzetto, "dava segno di conoscerne a fondo il contenuto come se le avesse ascoltate. Si soffermò sulle presunte e specialissime doti erotiche che due deputate del Pdl, delle quali fece nome e cognome, avrebbero dispiegato con l'allora presidente del Consiglio. A sentire l'eminente magistrato nelle registrazione il Cav avrebbe persino assegnato un punteggio alle amanti. ' E indovini chi delle due vince la gara?', mi chiese retoricamente Esposito. Siccome non potevo, nè volevo replicare di diede da solo la risposta: 'La (omissis), caro mio! Chi l'avrebbe mai detto?". Lorenzetto quella sera del 2 marzo 2009 ancora non si era ripreso dal disgusto di quella conversazione che il giudice Esposito regalò ai commensali un altro scoop: rivelò quale sarebbe stato il verdetto definitivo che egli avrebbe pronunciato a carico della teleimbonitrice Vanna Marchi, la quale pareva stargli particolarmente antipatica: "Colpevole". Dopo meno di 48 ore un lancio dell'Ansa confermava ciò che il magistrato aveva anticipato durante la cena all'Hotel Due Torri di Verona. Di questo episodio Lorenzetto però ne aveva già parlato nel suo libro del 2011 "Visti da lontano": allora aveva "giustificato" lo sproloquio di Esposito con il troppo alcool circolato a tavola. Alla luce della sentenza di mercoledì Lorenzetto ha cambiato idea: "Era assolutamente lucido nei suoi proprositi. Fin troppo".
Così infangava Berlusconi il giudice che l'ha condannato. Antonio Esposito parlò di presunte gare erotiche del premier con due deputate del Pdl. E anticipò la condanna di Vanna Marchi che emise due giorni dopo, scrive Stefano Lorenzetto – su “Il Giornale”. Questo è l'articolo più difficile che mi sia capitato di scrivere in 40 anni di professione. Un amico magistrato, due avvocati, mia moglie e persino il giornalista Stefano Lorenzetto mi avevano caldamente dissuaso dal cimentarmi nell'impresa. Ma il cittadino italiano che, sia pure con crescente disagio, sopravvive in me, s'è ribellato: «Devi!».
Dunque eseguo per scrupolo di coscienza. In una nota diramata dal Quirinale dopo la condanna definitiva inflitta a Silvio Berlusconi, il capo dello Stato ci ha spiegato che «la strada maestra da seguire» è «quella della fiducia e del rispetto verso la magistratura». Ebbene, signor Presidente, qui devo dichiarare pubblicamente e motivatamente che fatico a nutrire questi due sentimenti - fiducia e rispetto - per uno dei giudici che hanno emesso il verdetto di terzo grado del processo Mediaset. Non un giudice qualunque, bensì Antonio Esposito, il presidente della seconda sezione della Corte suprema di Cassazione che ha letto la sentenza a beneficio delle telecamere convenute da ogni dove in quello che vorrei ostinarmi a chiamare Palazzo di Giustizia di Roma, e non, come fa la maggioranza degli italiani, Palazzaccio. Vado giù piatto: ritengo che il giudice Esposito fosse la persona meno adatta a presiedere quell'illustre consesso e a sanzionare in via definitiva l'ex premier. Ho infatti serie ragioni per sospettare che non fosse animato da equanimità e serenità nei confronti dell'imputato. Di più: che nutrisse una forte antipatia per il medesimo, come del resto ipotizzato da vari giornali. Di più ancora: che il giudice Esposito sia venuto meno in almeno due situazioni, di cui sono stato involontario spettatore, ai doveri di correttezza, imparzialità, riserbo e prudenza impostigli dall'alto ufficio che ricopre. Vengo al sodo. 2 marzo 2009, consegna del premio Fair play a Verona. L'avvocato Natale Callipari, presidente del Lions club Gallieno che lo patrocina, m'invita in veste di moderatore-intervistatore. È un'incombenza che mi capita tutti gli anni. In passato hanno ricevuto il riconoscimento Giulio Andreotti, Ferruccio de Bortoli, Pietro Mennea, Gianni Letta. Nel 2009 la scelta della giuria era caduta su Ferdinando Imposimato, presidente onorario aggiunto della Cassazione. Nell'occasione l'ex giudice istruttore dei processi per l'assassinio di Aldo Moro e per l'attentato a Giovanni Paolo II giunse da Roma accompagnato da un carissimo amico: Antonio Esposito. Proprio lui, l'uomo del giorno. Col quale condivisi il compito di presentare un libro sul caso Moro, Doveva morire (Chiarelettere), che Imposimato aveva appena pubblicato. Seguì un ricevimento all'hotel Due Torri. E qui accadde il fattaccio. Al tavolo d'onore ero seduto fra Imposimato ed Esposito. Presumo che quest'ultimo ignorasse per quale testata lavorassi, giacché nel bel mezzo del banchetto cominciò a malignare, con palese compiacimento, circa il contenuto di certe intercettazioni telefoniche riguardanti a suo dire il premier Berlusconi, sulle quali vari organi di stampa avevano ricamato all'epoca della vicenda D'Addario, salvo poi smentirsi. Il presidente della seconda sezione penale della Cassazione dava segno di conoscerne a fondo il contenuto, come se le avesse ascoltate. Si soffermò sulle presunte e specialissime doti erotiche che due deputate del Pdl, delle quali fece nome e cognome, avrebbero dispiegato con l'allora presidente del Consiglio. A sentire l'eminente magistrato, nella registrazione il Cavaliere avrebbe persino assegnato un punteggio alle amanti. «E indovini chi delle due vince la gara?», mi chiese retoricamente Esposito. Siccome non potevo né volevo replicare, si diede da solo la risposta: «La (omissis), caro mio! Chi l'avrebbe mai detto?». Io e un altro commensale, che sedeva alla sinistra del giudice della Cassazione, ci guardavamo increduli, sbigottiti. Ho rintracciato questa persona per essere certo che la memoria non mi giocasse brutti scherzi. Trattasi di uno stimato funzionario dello Stato, collocato in pensione pochi giorni fa. Non solo mi ha confermato che ricordavo bene, ma era ancora nauseato da quello sconcertante episodio. Per maggior sicurezza, ho interpellato un altro dei presenti a quella serata. Mi ha specificato che analoghe affermazioni su Berlusconi, reputato «un grande corruttore» e «il genio del male», le aveva udite dalla viva voce del giudice Esposito prima della consegna del premio. Non era ancora finita. Sempre lì, al ristorante del Due Torri, il giudice Esposito mi rivelò quale sarebbe stato il verdetto definitivo che egli avrebbe pronunciato a carico della teleimbonitrice Vanna Marchi, la quale pareva stargli particolarmente sui didimi: «Colpevole» (traduco in forma elegante, perché il commento del magistrato suonava assai più colorito). Infatti, meno di 48 ore dopo, un lancio dell'Ansa annunciava da Roma: «Gli amuleti non hanno salvato Vanna Marchi dalla condanna definitiva a 9 anni e 6 mesi di reclusione emessa dalla seconda sezione penale della Cassazione». Incredibile: la Suprema Corte, recependo in pieno quanto confidatomi due giorni prima da Esposito, aveva accolto la tesi accusatoria del sostituto procuratore generale Antonello Mura, lo stesso che l'altrieri ha chiesto e ottenuto la condanna per Berlusconi. Ma si può rivelare a degli sconosciuti, durante un allegro convivio, quale sarà l'esito di un processo e, con esso, la sorte di un cittadino che dovrebbe essere definita, teoricamente, solo nel chiuso di una camera di consiglio? Capisco che tutto ciò, pur supportato da conferme testimoniali che sono pronto a esibire in qualsiasi sede, scritto oggi sul Giornale di proprietà della famiglia Berlusconi possa lasciare perplessi. Ma, a parte che non mi pareva onesto influenzare i giudici della Suprema Corte alla vigilia dell'udienza, v'è da considerare un fatto dirimente: alcuni dettagli dell'avventura che m'è capitata a marzo del 2009 li avevo riferiti nel mio libro Visti da lontano (Marsilio), uscito nel settembre 2011, dunque in tempi non sospetti, considerato che la sentenza di primo grado a carico di Berlusconi è arrivata più di un anno dopo, il 26 ottobre 2012, ed è stata confermata dalla Corte d'appello l'8 maggio scorso. Senza contare che il collegio dei giudici di Cassazione che ha deliberato sul processo Mediaset è stato istituito con criteri casuali solo di recente. A pagina 52 di Visti da lontano, parlando di Imposimato (che non ha mai smentito le circostanze da me narrate), scrivevo: «Una sera andai a cena con lui dopo aver presentato un suo libro. Debbo riconoscere che sfoderò un'affabilità avvolgente, nonostante le critiche che gli avevo rivolto. Era accompagnato dal presidente di una sezione penale della Cassazione sommariamente abbigliato (cravatta impataccata, scarpe da jogging, camicia sbottonata sul ventre che lasciava intravedere la canottiera). Il quale, forse un po' brillo, mi anticipò lì a tavola, fra una portata e l'altra, quale sarebbe stato il verdetto del terzo grado di giudizio che poi effettivamente emise nei giorni seguenti a carico di una turlupinatrice di fama nazionale. Da rimanere trasecolati». Allora concessi al mio occasionale interlocutore togato una misericordiosa attenuante: quella d'aver ecceduto con l'Amarone. Da giovedì sera mi sono invece convinto che, mentre a cena sproloquiava su Silvio Berlusconi e Vanna Marchi, era assolutamente lucido nei suoi propositi. Fin troppo.
«Ho scritto con grande disagio interiore. Ma ho dovuto farlo. Non avevo scelta». Dice di essersi rigirato nel letto una notte intera, Stefano Lorenzetto, scrive Cristiano Lodi su “Libero Quotidiano”. Il giornalista scrittore, autore dell’articolo pubblicato ieri dal Giornale sul giudice che, prima di pronunciare il tombale verdetto di condanna, aveva infangato Silvio Berlusconi, adesso cerca di farsi coraggio. Prova a seguire il consiglio dei pochi che lo difendono dagli attacchi e dagli insulti dei molti. Soggetti che hanno gridato allo scandalo. Non perché il magistrato in ermellino che ha condannato il Cavaliere lo aveva già insultato pubblicamente al ristorante nel 2009 («venendo meno ai doveri di correttezza, imparzialità, riserbo e prudenza impostigli dall’alto ufficio che ricopre »), ma in quanto Lorenzetto ha osato scriverlo. Essendo stato testimone di un episodio che dovrebbe preoccupare chiunque. Il giornalista descrive il fatto (risalente al 2 marzo 2009) avvenuto alla presenza di testimoni autorevoli. In occasione di un pranzo a Verona, presente Antonio Esposito (presidente della sezione feriale della Cassazione che giovedì ha letto la sentenza), egli ha sentito pronunciare parole sprezzanti nei confronti di Berlusconi. «Un grande corruttore», «un genio del male », questi gli appellativi usati dall’alto magistrato; a dimostrazione della “imparzialità” e della “serenità” nei confronti dell’imputato. Stefano Lorenzetto racconta, con dettagli incontrovertibili, che durante quel ricevimento di inizio primavera 2009, alla presenza anche dell’ex giudice istruttore e presidente onorario aggiunto della Cassazione, Ferdinando Imposimato, il collega Antonio Esposito aveva cominciato «a malignare, con palese compiacimento, circa il contenuto di certe intercettazioni riguardanti l’allora premier, sulle quali vari organi di stampa avevano ricamato all’epoca della vicenda D’Adda - rio, salvo poi smentirsi». Il presidente Esposito, dice ancora lo scrittore: «Si soffermò sulle presunte e specialissime doti erotiche che due deputate del Pdl, delle quali fece nome e cognome, avrebbero dispiegato con l’allora premier». E a sentire l’eminente magistrato, nei brogliacci delle conversazioni «il Cavaliere avrebbe persino assegnato un punteggio alle amanti». Con tanto di indovinello, allo stesso Lorenzetto, su chi delle due donzelle vinse la gara. «Ma, siccome non potevo né volevo replicare », dice il giornalista, «Esposito si diede da solo la risposta: “La (omissis), caro mio! Chi l’avrebbe mai detto?». E non finisce qui, perché il giudice, in quella stessa occasione, avrebbe anche «anticipato la sentenza di condanna inflitta a Vanna Marchi solo due giorni dopo». Su richiesta di chi? Del pg Antonio Mura: lo stesso giudice che mercoledì, ha chiesto di condannare Berlusconi. Quando si dice il destino. Lorenzetto non nasconde il disagio, ma si sente sollevato e ricorda le parole che gli disse Enzo Biagi: «Quando la coscienza bussa alla tua porta, non puoi fare finta di non essere in casa». «La mia coscienza», ammette il giornalista, «ha martellato una notte intera, impedendomi il sonno. Così mi sono alzato e ho scritto quello che avevo visto e sentito dal giudice Esposito, quattro anni prima». In tempi non sospetti, tanto che lo scrittore cita l’episodio anche in Visti da lontano, edito da Marsilio nel 2011. «Alle 7 del mattino di venerdì ho cominciato a scrivere», racconta ancora Lorenzetto, «e alle 12 ho spedito tutto al direttore del Giornale, lasciandolo libero di cestinare». Alessandro Sallusti non lo ha fatto. E Lorenzetto non arretra di un millimetro: «Mi dicono che Antonio Esposito sia un giudice di grande linearità giuridica, un mostro del diritto nello stendere le sentenze. Non ne dubito. Ma io ritengo che avrebbe dovuto astenersi dal giudizio su Berlusconi». Sui network piovono attacchi feroci al giornalista che ha osato tanto. «Vengo accusato di avere difeso il padrone. In realtà sono un cassintegrato di Panorama, l'altro mio datore di lavoro, e penso di essere stato il primo e unico giornalista ad avere lasciato la vicedirezione del Giornale, rinunciando ai cinque sesti dello stipendio, per poter tornare a scrivere e a occuparmi, come faccio da 15 anni, solo di italiani qualunque ». Si definisce un «don Abbondio di campagna, che il coraggio se l'è dovuto dare, più dedito alla lettura dei Salmichenon dei giornali». Uno convinto che «i magistrati debbano fare i magistrati e i giornalisti i giornalisti: sarebbe così bello andare tutti d’amore e d’accordo, fidarsi gli uni degli altri. Invece...». Un amico magistrato, due avvocati e la moglie l’avevano sconsigliato di imbarcarsi in quest’avventura. «Mi sa che mi sono messo in un mare di guai. Ma non potevo sottrarmi. Del resto, come recita un proverbio talmudico, il male che un uomo è capace di fare a se stesso non sono capaci di farglielo dieci nemici». Ecco, dice Stefano Lorenzetto: «Questo vale per me e anche per il giudice Esposito».
IL PDL LICENZIO' SUO FRATELLO.
Il Pdl licenziò il fratello del giudice ammazza-Cav. Harakiri azzurro a poche ore della sentenza in Cassazione: tolto ad Esposito, parente del presidente della Corte, un posto da 200mila l'euro anno come garante Ilva, scrive Franco Bechis su “Libero Quotidiano”. Mezz’ora prima che Antonio Esposito riunisse in Camera di Consiglio la sezione feriale della Corte di Cassazione che avrebbe reso definitiva la condanna di Silvio Berlusconi, il Pdl al Senato votava il licenziamento in tronco di Vitaliano Esposito, fratello del magistrato che aveva nelle sue mani il destino del Cavaliere. L’incredibile scelta è stata svelata sul numero di Panorama in edicola oggi dal collaboratore Keyser Soze (uno pseudonimo) per commentare l’incredibile vocazione all’hara-kiri che contrassegna il centrodestra italiano, sempre pronto a fare la cosa sbagliata al momento sbagliato. Vitaliano Esposito, fratello di Antonio ed ex procuratore generale della Corte di Cassazione, è stato nominato il 15 gennaio scorso dal premier Mario Monti e dal ministro dell’Ambiente Corrado Clini, «garante dell’esecuzione delle prescrizioni contenute nell’autorizzazione integrata ambientale per l’Ilva di Taranto». Un incarico prestigioso -fondamentale per tranquillizzare la popolazione dell’area- e anche discretamente retribuito, visto che la legge stanziava per lui fino a un massimo di 200 mila euro l’anno. Sarebbe dovuto restare in carica per un triennio, ma all’improvviso il 2 luglio scorso sulla nuova professione di Vitaliano Esposito si sono addensate nubi minacciose. Quel giorno davanti alle commissioni congiunte della Camera che stavano esaminando il decreto sul commissariamento dell’Ilva (attività produttive e Ambiente) un deputato di Matera del Pdl, Cosimo Latronico, depositava l’emendamento 1.83 che stabiliva: «È soppressa la figura del Garante e le relative funzioni sono trasferite al commissario (Enrico Bondi)». Era il preavviso di licenziamento per il povero Esposito. Ed è diventato qualcosa di più serio quando quel testo è stato assorbito in un emendamento più ampio sottoscritto dai relatori delle due commissioni, Enrigo Borghi del Pd e Raffaele Fitto del Pdl, con voto positivo della maggioranza. Il licenziamento del fratello del presidente di sezione della Cassazione a quel punto da semplice ipotesi era divenuto il nuovo articolo 2 quater del decreto legge sull’Ilva. Approvato in commissione e poi dall’aula l’11 luglio scorso. Se in commissione però il licenziamento dell’altro Esposito poteva ancora essere inconsapevole, per il Pdl come per tutti gli italiani era invece chiaro dal 9 luglio che Antonio Esposito avrebbe avuto nelle sue mani poche settimane dopo (il 30 luglio) il destino giudiziario e forse anche politico di Berlusconi. Nessuno però nel partito del Cavaliere si è accorto di quanto stava avvenendo, e nemmeno nelle fila dell’esecutivo c’è stato qualcuno a cui è venuto il dubbio sull’opportunità di fare uno sgarbo di questo tipo alla famiglia Esposito. Così non solo l’hanno fatto, ma hanno difeso la bontà di quel licenziamento con i denti e con le unghie fino alle ore 11 e 55 del primo agosto, quando con il voto finale al decreto Pd , Pdl e governo Letta l’hanno reso immediatamente esecutivo. Eppure proprio nelle ultime ore c’è stata l’occasione per evitare il clamoroso sgarbo familiare al magistrato che stava decidendo il destino di Berlusconi. La ciambella di salvataggio è stata lanciata da Loredana De Petris (Sel) e da Paola Nugnes (M5s): entrambe hanno presentato un emendamento (quello di Sel firmato anche da Dario Stefano, presidente della giunta immunità del Senato) per fare rivivere il garante e conservate lavoro e 200 mila euro l’anno a Vitaliano Esposito. Niente da fare: i due relatori, Salvatore Tomaselli (Pd) e Francesco Bruni (Pdl) hanno bocciato l’idea: il fratello del giudice andava licenziato senza se e senza ma. Ultimo tentativo per non mettere ulteriormente nei guai Berlusconi in Cassazione l’hanno fatto in extremis ancora i senatori di Nichi Vendola: un ordine del giorno per impegnare il governo a riassumere subito dopo averlo licenziato il povero Vitaliano Esposito, di cui si apprezzava il gran lavoro fatto. Ma a dire no a questo impegno teorico che avrebbe potuto distendere gli animi è stato questa volta il governo Letta. Lavoro da kamikaze compiuto.
PROCESSO MEDIASET. LA CONDANNA DI SILVIO BERLUSCONI.
I tratti giovanili e insieme antichi del sostituto procuratore generale della Cassazione Antonello Mura non si scompongono nel momento del successo, scrive Giovanni Bianconi su “Il Corriere della Sera”. Professionale, s'intende. Quando il presidente della Corte Antonio Esposito la sera del 1 agosto 2013 legge nel dispositivo le parole «annulla limitatamente alla statuizione della condanna accessoria» e subito dopo «rigetta nel resto», è chiaro che ha vinto il rappresentante dell'accusa. Ma lui non lo dà a vedere. Non tradisce emozioni. Davanti a cinque giudici chiamati «supremi» perché oltre loro la giustizia umana non è previsto che vada, ha prevalso la tesi che Mura - per conto del suo intero ufficio, come ha ripetuto più volte nella requisitoria - ha sostenuto nella causa numero 27884/13 iscritta al ruolo con il numero 8, contro «Berlusconi Silvio +3». «Nessuno dei motivi di ricorso sulla configurazione del reato e sulla colpevolezza degli imputati ha fondamento giuridico» aveva detto con tono pacato in quattro ore di intervento, dopo l'ormai famosa premessa sulle «passioni e le aspettative di vario genere» che dovevano rimanere fuori dall'aula del «palazzaccio». Le ha lasciate fuori lui e le hanno lasciate fuori i giudici della sezione feriale della Cassazione, un collegio di magistrati istituito con criteri casuali nel mese di maggio, ancor prima che arrivasse il ricorso di Berlusconi contro la condanna a 4 anni di carcere nel processo chiamato «Mediaset». Dopodiché, di fronte alle carte di quella causa e alle ragioni esposte da accusa e difesa, i giudici hanno preso la loro decisione. Sulla base del dispositivo letto ieri sera dal presidente Esposito si può ben dire che hanno aderito quasi per intero all'impostazione della Procura generale. Tranne che su un punto: la rideterminazione dell'interdizione dai pubblici uffici, stabilita in cinque anni dalla Corte d'appello. Dovevano essere tre, aveva detto la Procura generale, perché deve applicarsi la legge speciale del 2000 anziché la norma generale; un ricalcolo che poteva fare direttamente la Cassazione, secondo il pg Mura, mentre la Corte ha ritenuto di non averne il potere. Perciò rispedirà il fascicolo a Milano, insieme alle motivazioni, affinché una nuova sezione della Corte d'appello si pronunci «limitatamente alla statuizione della pena accessoria». Per il resto le sentenze di primo e secondo grado, da considerarsi nel loro insieme, non presentavano vizi tali da farle annullare; l'aveva sostenuto l'accusa e l'ha ribadito la Corte, a dispetto dei 47 motivi di presunta nullità presentati dagli avvocati Franco Coppi e Niccolò Ghedini. Non sul piano della procedura, che è stata rispettata; non sul piano della efficacia probatoria, ché gli elementi a fondamento della condanna si sono rivelati coerenti e ben motivati; non sul piano del diritto, dal momento che i reati contestati erano quelli che bisognava contestare. Ogni altra valutazione non competeva ai giudici di legittimità. Il nocciolo del giudizio riguardava il secondo gruppo di lamentele avanzate dalla difesa: sotto il presunto «vizio di motivazioni» gli avvocati avevano ribadito che non c'era la prova che Berlusconi fosse colpevole di frode fiscale, poiché dal 1994 non riveste più cariche all'interno della Fininvest e di Mediaset e non si poteva condannarlo col criterio del «non poteva non sapere» ciò che facevano i suoi sottoposti. Anche il professor Coppi, aggregato dall'ex premier per quest'ultimo passaggio giudiziario, aveva insistito sulle «prove travisate» e mancanti, sul diritto di difesa negato, prima di immaginare un diverso tipo di reato. Ebbene, secondo i giudici tutto questo non è vero. I dibattimenti di primo e secondo grado si sono svolti nel rispetto delle regole del «giusto processo» e la responsabilità del proprietario di Fininvest e Mediaset non è legata al «non poteva non sapere», bensì al riscontro di una partecipazione diretta al sistema illecito individuato nelle sentenze di condanna. «Vi è la piena prova, orale e documentale che Berlusconi abbia direttamente gestito la fase iniziale dell'enorme evasione fiscale realizzata con le società off shore» aveva decretato la Corte d'appello. E dopo la cessazione dalle cariche sociali aveva affidato il sistema di cui continuava ad essere dominus, persone di sua stretta fiducia, che rispondevano solo a lui. Ora la Cassazione ha stabilito che i giudici di merito sono giunti a queste conclusioni senza violare alcuna norma di legge, senza contraddizioni o illogicità. Con «motivazioni solide», aveva detto il pg. Nemmeno il fatto che altri due giudici, a Roma e Milano, su questioni simili avessero prosciolto l'ex premier con sentenze confermate in Cassazione significa che in questo processo si dovesse giungere alle stesse conclusioni. «Sono decisioni che non toccavano la questione centrale di questo processo» secondo il pg e così deve aver ritenuto la corte. che non poteva sconfinare nella rivalutazione dei fatti. La sentenza è arrivata dopo oltre sette ore di discussione, nelle quali i cinque giudici «feriali» si sono confrontati per giungere a una conclusione che - vista con gli occhi della premessa condivisa anche dagli avvocati difensori, tranne Ghedini che non riusciva a staccarsi dalle «passioni» - sembra sancire una volta di più l a cosiddetta «autonomia della giurisdizione». E considerato chi l'ha pronunciata, si presta poco alle abituali letture sulla magistratura politicizzata, condizionata da questo o quel colore.
«Non farò la fine di Bettino Craxi». «Non mi faranno finire come Giulio Andreotti». Negli ultimi mesi, con frequenza significativa, Silvio Berlusconi esorcizzava il pantheon tragico dei suoi predecessori della Prima Repubblica tritati dalla macchina della giustizia, scrive Massimo Franco, sempre su “Il Corriere della Sera”. E senza volerlo, né saperlo, accostava la propria sorte alla loro. Il primo, ex premier socialista, morto contumace o esule, secondo i punti di vista, in Tunisia; il secondo, democristiano, assolto per alcuni reati e prescritto per altri dopo processi lunghi e tormentati. Ma comunque liquidato politicamente. Il ventennio berlusconiano cominciò all'inizio della loro fine. E adesso può essere archiviato da una sentenza della Corte di cassazione che conferma una condanna per frode fiscale e dilata il vuoto del sistema politico: un cratere di incertezza più profondo di quello lasciato dalla fine della Guerra Fredda. Puntellare la tregua politica sarà meno facile. Anche se tutti sanno che i problemi rimangono intatti e non esiste un'alternativa al governo di larghe intese di Enrico Letta. Il tentativo di stabilizzazione dell'Italia vacilla dopo un verdetto che riconsegna, irrisolto, il problema dei rapporti fra politica e magistratura. Mostra entrambe impantanate in una lotta che ha sfibrato il Paese; e che si conclude con una vittoria dei giudici dal sapore amaro: se non altro perché allunga un'ombra di precarietà su un'Italia bisognosa di normalità. E poi, una parte dell'opinione pubblica tende a percepire Berlusconi come una vittima e la sentenza rischia di accentuare questa sensazione: il tono del videomessaggio di ieri sera a «Porta a porta» è studiato e esemplare, in proposito. Certamente, non si tratta più del Cavaliere in auge che sugli attacchi e sugli errori altrui mieteva consensi e potere; che risorgeva da ogni sconfitta e sentenza sfavorevole per riemergere più agguerrito di prima, a farsi beffe della sinistra e dei «magistrati comunisti». Non è il Berlusconi del contratto con gli italiani stipulato davanti alle telecamere né il leader colpito in faccia da una statuetta scagliata da un fanatico nel dicembre del 2009 dopo un comizio in piazza Duomo, a Milano, che si issava sanguinante sul predellino dell'auto come per gridare: «Sono invincibile». Stavolta c'è un signore appesantito dagli anni, che ha perso oltre sei milioni di voti alle elezioni di febbraio e che lotta per la sopravvivenza. Continuando a inanellare sbagli, la sinistra gli ha dato un altro vantaggio nelle elezioni per il Quirinale. E non è escluso che la sentenza della Cassazione gli regali un ultimo, involontario aiuto. Ma la corsa è diventata affannosa da tempo. Da un paio d'anni, da quando l'illusione del berlusconismo «col sole in tasca» si è trasformato nell'incubo di un'Italia immersa nella crisi finanziaria e economica, la sua lotta ha velato il tentativo di salvarsi dai processi; e l'incapacità di liberarsi del passato e di preparare una nuova classe dirigente. Le immagini di Palazzo Grazioli, la sua residenza romana, ieri sera davano l'idea del bunker nel quale si discuteva l'ultima battaglia. Un'offensiva segnata stavolta dalla disperazione e dall'esasperazione, però, senza più certezze di vittoria. Il governo e la sua maggioranza anomala sono in attesa di sapere che cosa succederà: sebbene Berlusconi sappia che difficilmente potrebbe nascere una coalizione meno ostile al centrodestra; anzi, forse non ne potrebbe nascere nessuna. Fosse stato il 2008, anno della vittoria più trionfale, avrebbe messo in riga tutti in un amen. Ora non più: le tribù berlusconiane sono in lotta e lui fatica a tenerle unite. A frenare l'impatto della sentenza non basta l'annullamento della parte che riguarda la sua interdizione dai pubblici uffici, sulla quale dovrà pronunciarsi di nuovo la Corte d'appello di Milano. Né è stato sufficiente il capovolgimento della strategia processuale, attuato dal professor Franco Coppi: il tentativo tardivo di difendere Berlusconi nel processo e non dal processo, come avevano fatto i suoi legali eletti in Parlamento. L'impressione è che, accusando la magistratura di perseguitarlo, il Cavaliere abbia alimentato senza volerlo quello che chiama «l'accanimento» della Procura; e spinto la Cassazione a confermare le sue responsabilità senza grandi margini di interpretazione. Il contraccolpo che si teme è quello di radicalizzare le posizioni nel Pdl e nel Pd, nonostante i richiami del Quirinale a guardare avanti. Le opposizioni urlano di gioia, pregustando la destabilizzazione. Ma bisogna capire se nel centrodestra l'urto di chi vuole una crisi prevarrà davvero sul tentativo dell'ex premier di «tenere» su una linea di responsabilità. E, sul versante opposto, se il Pd resisterà o no alla pressione di quella sinistra che non ha mai digerito un'alleanza in nome dell'emergenza. Il videomessaggio diffuso da Berlusconi fornisce scarsi indizi. Sembra il sussulto drammatico di un leader che lega le vicende di Tangentopoli del 1992-93 alle proprie, additando una parte della magistratura come «soggetto irresponsabile». I fantasmi del passato lo tallonano, mettendogli in tasca non raggi di sole ma presagi di umiliazione. Lui reagisce promettendo il miracolo dell'ultima rivincita. Evoca Forza Italia e la ripropone per le elezioni europee del 2014. Ma è un ritorno al 1994: la parabola di un ventennio.
Vent'anni di persecuzione continua.
Cambiano accuse e processi, ma l'obiettivo della Procura di Milano è sempre lo stesso: il berlusconismo e l'impero del Cav, scrive Luca Fazzo su “Il Giornale”. E pensare che sarebbe bastato poco. Forse un po' di pazienza in più da parte di Silvio Berlusconi. Forse qualche oscillazione nei misteriosi, delicati equilibri di potere che governano la Procura milanese. Quattordici anni fa, la pace che avrebbe cambiato la storia del paese era a portata di mano: e non si sarebbe arrivati alla sentenza di oggi. Una domenica di maggio del 1999 Berlusconi salì nell'ufficio del pubblico ministero Francesco Greco e ci rimase tre ore. Con Greco e il suo collega Paolo Ielo si parlò ufficialmente di una accusa di falso in bilancio. Ma era chiaro a tutti - e il procuratore capo Gerardo D'Ambrosio lo rese esplicito - che quell'incontro era il segno di un tentativo di dialogo. Berlusconi faceva alcune ammissioni, concedeva - e lo mise per iscritto in una memoria - che l'«espansione impetuosa» del suo gruppo poteva avere creato «percorsi finanziari intricati». La Procura si impegnava ad evitare accanimenti, e a trattare Berlusconi alla stregua di qualunque altro imprenditore: con la possibilità di fuoriuscite soft come quelle concesse al gruppo Fiat. Sarebbe interessante capire ora, a distanza di tanti anni, dove si andò a intoppare il dialogo. Sta di fatto che rapida come era emersa, la strada si arenò. Il partito della trattativa si arrese. E riprese, violento come prima e più di prima, lo scontro senza quartiere. Da una parte un gruppo inquirente che ha dimostrato di considerare Berlusconi, nelle multiformi incarnazioni dei suoi reati, all'interno di quello che può in fondo essere letto come un unico grande processo, come la sintesi dei vizi peggiori dell'italiano irrispettoso delle leggi: il berlusconismo, insomma, come autobiografia giudiziaria della nazione. Dall'altra, il Cavaliere sempre più convinto di avere di fronte un potere fuori dalle regole, dalla cui riduzione ai binari della normalità dipende la sua stessa sopravvivenza. Da vent'anni Berlusconi e la Procura di Milano pensano che l'Italia sia troppo piccola per tutti e due. Ma da dove nasce, come nasce, questa contrapposizione insanabile? L'apertura formale delle ostilità ha, come è noto, una data precisa: 22 novembre 1994, data del primo avviso di garanzia a Berlusconi. Ma la marcia di avvicinamento inizia prima. Inizia fin dalla prima fase di Mani Pulite, quando il bersaglio grosso della Procura milanese è Bettino Craxi. E, passo dopo passo, i pm si convincono che Berlusconi - che pure con le sue televisioni tira la volata all'inchiesta - è la vera sponda del «Cinghialone», il suo finanziatore e beneficiario. Chi c'è dietro All Iberian, la misteriosa società che nell'ottobre 1991 versa quindici miliardi di lire a Craxi, e riesce anche a farsene restituire cinque? Dietro questa domanda, che diventa strada facendo una domanda retorica, i pm lavorano a dimostrare la saldatura tra Craxi e Berlusconi. Quando nell'aprile 1994 Berlusconi diventa presidente del Consiglio, per il pool la vicinanza Craxi-Berlusconi diventa anche continuità politica, perché da subito la battaglia craxiana contro il potere (o strapotere) giudiziario diventa uno dei cavalli di battaglia del nuovo premier. Dal Quirinale viene messo il veto alla nomina di Cesare Previti a ministro della Giustizia. Ma al ministero va Alfredo Biondi, che di lì a poco vara il decreto subito etichettato come «salva ladri», ritirato a furor di popolo dopo il pronunciamento del pool in diretta tv. È da quel momento che lo scontro compie il salto di qualità. Per la Procura milanese non c'è differenza sostanziale tra il Berlusconi imputato e il Berlusconi politico, perché il secondo è funzionale al primo: come dimostreranno poi le leggi ad personam, e, più di recente, la telefonata salva-Ruby alla questura di Milano. Le inchieste che si susseguono in questi vent'anni stanno tutte in questo solco, dentro la teoria della «capacità a delinquere» che diverrà uno dei passaggi chiave della sentenza per i diritti tv. Sotto l'avanzare degli avvisi di garanzia, Berlusconi si irrigidisce sempre di più, come ben racconta l'evoluzione delle strategie difensive: da un professore pacato come Ennio Amodio si passa all'ex sessantottardo Gaetano Pecorella, poi si approda alla coppia da ring, Niccolò Ghedini e Piero Longo. Le dichiarazioni di sfiducia di Berlusconi verso la serenità della giustizia milanese si fanno sempre più esplicite. Per due volte, nel 2003 e nel 2013, il Cavaliere chiede che i suoi processi siano spostati a Brescia, sotto un clima meno ostile. Per due volte la Cassazione gli dà torto. Eppure, fino alla condanna definitiva di oggi, nessuno dei processi era arrivato ad affossare Berlusconi. Assoluzioni con formula piena, prescrizioni, proscioglimenti. Il catalogo dei modi in cui l'asse Ghedini-Longo riesce a tenere l'eterno imputato al riparo da condanne definitive è ricco. Una parte nasce da leggi varate per l'occasione, ma altre assoluzioni danno atto dell'inconsistenza di accuse che la Procura riteneva granitiche. La si potrebbe leggere come una prova della tenuta di fondo del sistema giudiziario, dei contrappesi tra pubblici ministeri e giudici? Berlusconi non la pensa così. E la severità delle ultime sentenze, i giudizi sferzanti dei tribunali del caso Unipol, la batosta del risarcimento a De Benedetti, la decisione dei giudici del processo Ruby 2 di candidarlo a una nuova incriminazione per corruzione in atti giudiziari lo avevano già convinto definitivamente che la contiguità tra pm e giudici era arrivata livelli intollerabili. Guardia di finanza, All Iberian, Mills, Sme, Lodo Mondadori, diritti tv, Mediatrade, Ruby, il rosario delle pene giudiziarie del Cavaliere a Milano sembra interminabile. Cambiano i procuratori, cambiano alcuni dei pubblici ministeri, ma la linea non cambia. Eppure questa è la Procura dove due magistrati di spicco del pool, Antonio Di Pietro e Gerardo D'Ambrosio, hanno detto a posteriori di non avere condiviso la decisione dell'avviso di garanzia del 1994 (il procuratore Borrelli replicò a Di Pietro pacatamente, «Ha detto così? Beh, se si presenta in Procura lo butto giù dalle scale»). È la Procura dove, con Romano Prodi al governo, Francesco Greco andò a un convegno di Micromega ad accusare il centrosinistra, «questi fanno quello che neanche Forza Italia ha osato fare». È insomma la Procura dove la parte più pensante si rende conto che l'insofferenza di Berlusconi verso la magistratura è in fondo l'insofferenza di tutta la politica verso il potere giudiziario, e che non è affatto sicuro che il dopo Berlusconi porti alle toghe spazio e prebende. Ma per adesso lo scontro è con lui, con il Cavaliere. E i pochi giudici che in questi anni hanno disertato, in corridoio venivano guardati storto.
BERLUSCONI: CONFLITTO INTERESSI; INELEGGIBILITA’; ABITUALITA’ A DELINQUERE. MA IN CHE ITALIA VIVIAMO?
"Ci è stato negato il diritto di difenderci". L'avvocato Ghedini che assiste Berlusconi da 16 anni: "Superato ogni limite Ascoltati soltanto i testi dei pm, a noi ne hanno concessi appena 6", scrive Patricia Tagliaferri su “Il Giornale”. Avrebbe voluto parlare di più, almeno tre o quattro ore, ma l'invito del presidente Antonio Esposito a stringere i tempi lo ha spinto ad essere più breve. Veloce ma ugualmente efficace nel cercare di convincere i giudici della Cassazione che nel tessuto della sentenza della Corte d'Appello di Milano sui diritti Tv Mediaset «manca la prova che Berlusconi abbia partecipato al reato». Comincia da qui l'arringa dell'avvocato Niccolò Ghedini. Un processo che è diventato il «suo incubo notturno», senza un solo elemento probatorio contro il Cavaliere, condizionato dai tempi della prescrizione e dove sarebbero stati violati i diritti della difesa. E al pg Antonio Mura che martedì aveva chiesto di lasciare fuori dall'aula le passioni replica che è d'accordo con lui, ma che per gli avvocati non vale: «Nel nostro mestiere le passioni ci devono accompagnare». «Ci stato negato il diritto alla prova - attacca Ghedini - c'è un limite all'applicazione del codice ma in questa storia è stato ampiamente superato. Sono 16 anni che difendo il Cavaliere, sicuramente troppi, e da sempre sento dire che dobbiamo difenderci nel processo e non dal processo. Ma come facciamo a difenderci nel processo con il Tribunale che mi dice di concordare con il pm le domande per i testi?». Si sofferma a lungo sui testimoni negati, ridotti dai 171 richiesti inizialmente ai 6 effettivamente sentiti in 100 udienze, per di più comuni alle altre difese, mentre quelli della Procura sono stati citati dal primo all'ultimo. Ghedini ammette che inizialmente la loro lista testi fosse effettivamente «un po' entusiastica», ma poi quei nomi sono stati ridotti su invito dei giudici a 76. Eppure non è bastato. «Ce ne hanno concessi prima 22 - spiega il legale - poi 14, salvo dirci che erano lontani dal nucleo essenziale della questione. Ma come si fa a dire che David Mills o i dirigenti Mediaset che nel 2003 e nel 2004 si erano occupati degli ammortamenti fossero lontani dal nucleo dell'imputazione? E come è possibile non voler sentire i dirigenti della major? Gli unici testimoni ascoltati sulle asserite società fittizie hanno detto di aver sempre operato con il gruppo, quindi hanno smontato la tesi accusatoria e infatti non vengono neppure citati nelle sentenze». C'è poi il capitolo sulla responsabilità soggettiva di Berlusconi e qui la memoria deve tornare a quelle due sentenze «dimenticate», una proprio della Cassazione, in cui si esclude che l'ex premier avesse responsabilità nella gestione di Mediaset negli anni '90 e si afferma che fosse l'azienda a decidere gli ammortamenti. «Stavolta il concetto usato dall'accusa è stato più raffinato del non poteva non sapere - sostiene Ghedini - è stato detto che un buon imprenditore come Berlusconi non poteva non avvedersi che i ricavi erano gonfiati». La ricostruzione del Pg («Efficace e fantasiosa in alcune soluzioni tecnico giuridiche») viene contestata punto per punto. «Il pg - sostiene Ghedini - ha detto che per Berlusconi ci sarebbero state attività ulteriori oltre alla fatturazione. Quindi mi sarei aspettato delle integrazioni rispetto alle motivazioni della Corte d'Appello, in cui non c'è nulla a riguardo. Integrazioni che non ci sono state perché non ci sono attività ulteriori oltre la fatturazione». Le ultime parole sono per il ruolo di International Media Service, una delle società considerate scatole vuote. «Il pg non ha affrontato questo tema perché era il più debole. Ims era una società consolidata, che ha versato fino all'ultimo centesimo gli utili alla capogruppo e che aveva costi bassissimi. Faccio fatica a capire come possa essere considerata fittizia».
I fatti, così come li racconta Franco Coppi nell'aula Brancaccio della Cassazione, sono di una semplicità disarmante, scrive Anna Maria Greco su “Il Giornale”. Silvio Berlusconi non è colpevole di frode fiscale: il reato non c'è com'è stato configurato nelle due sentenze che lo hanno portato all'ultimo grado di giudizio, perché riguardano un comportamento «non penalmente rilevante». Con un'arringa che fa capire, anche ai più digiuni di diritto, perché merita appieno il titolo di principe dei cassazionisti, il legale del Cavaliere chiede l'annullamento della pronuncia d'appello, «frutto di un pregiudizio cementato dal collante del cui prodest» e di un «abnorme travisamento della prova», per descrivere il leader del Pdl come «il dominus di una catena truffaldina», mentre non gestiva più il suo impero dalla discesa in politica del '94 ( come dimostrerebbero altre sentenze, Mills e Mediatrade, mai acquisite). Solo in subordine, Coppi chiede l'annullamento con rinvio alla Corte d'appello: se la sua tesi non venisse accolta il reato di frode fiscale andrebbe derubricato in quello di false fatturazioni. La pena sarebbe più bassa e, per i termini ridotti di prescrizione, sarebbe già estinto o a rischio di estinzione. «Berlusconi doveva essere assolto già in primo grado - dice l'avvocato - le prove sono state travisate e i fatti che gli vengono contestati non sono di rilevanza penale». Il professore parla con uno tono sempre misurato e più che rispettoso della corte, spesso si scusa per le ripetizioni di tesi già espresse dagli altri legali. Comincia a parlare alle 17 e 30, dopo Niccolò Ghedini e per oltre due ore inaugura, nella difesa di Berlusconi, uno stile tutto nuovo: spiega con garbo, argomenta con rigore, analizza, documenta e smonta le accuse con motivazioni che appaiono più che convincenti. Premette, citando il giurista Francesco Carrara, che «quando la politica entra dalla porta del tempio, la giustizia fugge impaurita dalla finestra». È solo con le ragioni del diritto che Coppi vuole vincere. Così, se nella prima parte dell'arringa entra nel merito delle sentenze, sempre sul piano della legittimità, nella seconda tira fuori l'asso nella manica e, con il sorriso sulle labbra, distrugge alla radice la ragione stessa del processo. In punta di diritto, il professore afferma che per questi fatti si poteva parlare semmai di «abuso di diritto» con finalità di «elusione» delle tasse, cioè solo di un illecito amministrativo e tributario. Che potrebbe avere conseguenze penali in una precisa circostanza qui assente: il contrasto con una disposizione antielusiva. Per Coppi, della legge 74 del 2000 sui reati tributari, va preso in considerazione l'articolo 2 (dichiarazione infedele) e non il 4 ( dichiarazione fraudolenta), com'è stato fatto per la condanna di Berlusconi. «Siamo fuori - spiega - dall'ambito di applicazione dell'articolo 2 e della frode fiscale, che comporta fatture per operazioni inesistenti». Quelle per l'acquisto di diritti tv, sono invece operazioni reali, di società «non fittizie», con pagamenti «fatturati» e un rincaro di prezzo «giustificato». Cambia, dunque, la loro stessa «fisionomia». L'avvocato cita diverse sentenze della Cassazione civile, sezione tributaria, oltre a pronunce delle Sezioni Unite e verdetti come quello per gli stilisti Dolce e Gabbana. Alla sezione feriale, presieduta da Antonio Esposito che come gli altri segue con massima attenzione ogni sua parola, offre la possibilità di scrivere una pagina nuova nella giurisprudenza della Suprema Corte traendo conclusioni già implicite negli altri pronunciamenti.
L'avvertimento di Craxi a Berlusconi ai primi tempi dell'esilio ad Hammamet: "La macchina giudiziaria agirà anche contro di te", scrive Stefania Craxi su “Il Giornale”. L'avvertimento di mio padre a Berlusconi («La macchina giudiziaria agirà anche contro di te») risale ai primi tempi del suo esilio ad Hammamet. Craxi era rimasto molto impressionato dall'avviso di garanzia recapitato a Berlusconi, allora presidente del Consiglio, direttamente a Napoli dove stava presiedendo una conferenza internazionale sulla criminalità. Assurda l'accusa, ma ancora più straordinarie le modalità della consegna. L'avviso di garanzia fu infatti pubblicato a tutta pagina dal Corriere della Sera, e portato a conoscenza dell'allora capo dello Stato, Oscar Luigi Scalfaro, prima ancora di essere consegnato all'interessato. Craxi voleva capire. Voleva capire chi avesse dato il via alla Procura di Milano per l'attacco al Psi e agli altri partiti storici della democrazia italiana. Che Mani Pulite fosse una iniziativa del procuratore Borrelli, non lo credeva, e non lo avrebbe creduto nemmeno un bambino. Pensava che dietro alla Procura di Milano ci fossero i soldi che sempre accompagnano i sommovimenti politici. C'erano i soldi dietro Guglielmo Giannini e l'Uomo Qualunque, fin quando De Gasperi persuase l'allora presidente della Confindustria Cicogna a tagliare i finanziamenti; c'erano i soldi dietro Tambroni; recentemente, chissà se c'erano i soldi dietro il tentativo di Gianfranco Fini di disarcionare Berlusconi? Mio padre si arrovellava per capire l'origine dello tsunami che aveva distrutto la democrazia in Italia, e ora che la giustizia politicizzata si era rimessa in moto, avvertiva Berlusconi, facile profeta, dei guai che lo attendevano: «C'è un vero e proprio piano al massacro che procede con gradualità e per linee convergenti ma che ha al fondo un obiettivo, uno e uno solo, e cioè Silvio Berlusconi». È un vero scandalo che a più di vent'anni dai fasti di Mani Pulite non esista ancora non dico un libro, ma almeno un saggio che scavi a fondo la verità di Tangentopoli; è un vero scandalo che la giustizia politica imperversi ancora fino a condizionare lo svolgimento della vita politica del paese. È avvilente che la democrazia italiana debba ancora attendere con trepidazione un verdetto di giudici ormai impossibilitati ad essere imparziali. Ma io sono convinta che qualsiasi sia il verdetto della Cassazione, Berlusconi saprà dimostrarsi più forte dei suoi persecutori, un soggetto politico di primo piano pronto a mettere gli interessi della Nazione davanti ai suoi interessi personali.
Il Pd, prima Pci-Pds-Ds, che in questo ventennio ha fatto dell’antiberlusconismo il suo unico vero programma per tenere unite le anime più disparate. "Non si può pensare di eliminare l'avversario attraverso una legge": per battere Grillo e Berlusconi, il Partito democratico deve "tirare fuori le idee e non gli avvocati". Lo ha detto il sindaco di Firenze, Matteo Renzi, a margine della cerimonia di chiusura dell'anno accademico della "Johns Hopkins University" di Bologna. "Pensare come ha fatto qualche parlamentare del mio partito che si possa sconfiggere Beppe Grillo facendo una legge per dire che il M5s non può partecipare alle elezioni è ridicolo - ha ribadito Renzi -. Non si può pensare di eliminare l'avversario attraverso una legge; puoi sconfiggerlo con le idee e le proposte". Questo, secondo il sindaco, "vale per Berlusconi esattamente allo stesso modo" pensando di sconfiggerlo "attraverso l'interpretazione di una norma". Per Renzi "non si può pensare dopo 19 anni di dire che Berlusconi è ineleggibile, perché se lo era, lo era anche prima. Per battere e mandare a casa Berlusconi e per battere Grillo il Pd deve tirare fuori le idee, non gli avvocati". Infine un riferimento all'Esecutivo. "Non si può sapere quanto durerà il governo Letta perché non è uno yogurt che ha indicata la scadenza sulla confezione. Se fa le cose va avanti, se non le fa va a casa" ha evidenziato Renzi. Renzi aveva già detto e riconferma: la speranza di sconfiggere il Cavaliere per via giudiziaria è «un errore» che la sinistra ha alimentato troppo a lungo. Detto questo, l'eventuale condanna di Berlusconi a quattro anni, tre coperti dall'indulto, rappresenta un unicum nella storia italiana per l'indiscutibile rilievo politico del personaggio. Ex premier per quattro volte, leader del Pdl, fama internazionale, si ritroverà a fare i conti con una pena che, anche se solo di un anno, cambierà profondamente la sua vita personale e pubblica. Né, per lui, potranno essere sovvertite le regole che valgono per i normali cittadini. Se alla pena si aggiungerà anche l'interdizione - 3 o 5 anni poco cambia - Berlusconi rischia di trovarsi anche senza la copertura parlamentare che comunque gli garantisce spazi più ampi di movimento.
CHI SONO I MAGISTRATI CHE HANNO CONDANNATO SILVIO BERLUSCONI
L'importanza della pronuncia della Suprema Corte è sotto gli occhi di tutti. Ma chi sono i cinque giudici chiamati a decidere? Ecco chi compone il collegio dei magistrati della Corte di Cassazione chiamata a dire l'ultima parola sul processo Mediaset che vede tra gli imputati l'ex premier Silvio Berlusconi. Iniziamo dal 'sesto', dal primo presidente della Corte di Cassazione che ha scelto il collegio giudicante. Si chiama Giorgio Santacroce e la sua nomina a primo presidente ha 'spaccato' il voto del Csm tra i suoi sostenitori (le correnti di centrodestra) e i contrari. A pesare, meglio chiarirlo, nessun genere di ombra particolare, ma una conoscenza con Cesare Previti, l'ex avvocato di Silvio Berlusconi (già parlamentare di Forza Italia), pregiudicato per corruzione in atti giudiziari. Santacroce viene ascoltato come teste nei processi Sme e Imi-Sir che vedevano Previti imputato: "L'ho visto tre o quattro volte. Ho preso parte a una cena nello studio di via Cicerone" risponderà Santacroce alle domande del magistrato sui suoi rapporti con Previti.
ANTONIO ESPOSITO - È Nato a Sarno il 18 dicembre 1940. In magistratura dal 1965, in Cassazione dal 1985. Presidente della Seconda sezione penale. Nel suo curriculum figurano la conferma di condanne a personaggi eccellenti: l'ex governatore Siciliano Totò Cuffaro, l'ex parlamentare Pdl Massimo Maria Berruti, l'ex governatore di Bankitalia Antonio Fazio. E' stato sempre lui a firmare le ordinanze di custodia cautelare in carcere per i parlamentari Pdl Nicola Cosentino e Sergio De Gregorio. Nel 2011 ha condannato Totò Cuffaro e poi gli ha riconosciuto di «aver accettato il verdetto con rispetto» dando «una lezione per tutti, in tempi così burrascosi intorno alla giustizia». Il presidente della sezione feriale che giudicherà Berlusconi è Antonio Esposito. Una famiglia di magistrati la sua: il figlio Ferdinado è il procuratore aggiunto di Milano, il fratello Vitaliano fino all'aprile 2012 è stato Procuratore Generale della Corte di Cassazione. Ferdinando ha frequentato in passato Nicole Minetti, imputata nel processo Ruby-bis. Frequentazione che gli ha creato qualche imbarazzo perchè è proprio la Procura di Milano ad accusare l'ex consigliera regionale del Pdl di induzione e favoreggiamento della prostituzione. Vitaliano è il Pg finito nelle intercettazioni della Procura di Palermo dell'inchiesta sulla trattativa stato-mafia. Al telefono con Nicola Mancino, oggi imputato per falsa testimonianza /che lo chiama "guagliò"), si dice "a disposizione" dell'ex ministro che coinvolgerà il Quirinale (Napolitano e il consigliere D'Ambrosio) e il Procuratore Nazionale Antimafia Piero Grasso in una serie di telefonate allo scopo di ottenere (senza riuscirci) l'avocazione o il 'coordinamento' delle indagini di Palermo. Gli altri quattro componenti del collegio sono Amedeo Franco (relatore), Claudio D'Isa, Ercole Aprile e Giuseppe De Marzo. Franco è consigliere della terza sezione penale della Cassazione, che ha prosciolto Berlusconi da un'altra accusa di frode fiscale relativo al processo Mediatrade. Tutti i componenti vengono descritti come conservatori, quindi nessun problema di uso politico della giustizia per il quattro volte Presidente del Consiglio. Persino chi sostiene l'accusa (Antonio Mura) è iscritto a Magistratura Indipendente (corrente di destra di cui è stato anche presidente), collaboratore del Pg Gianfranco Ciani (subentrato a Esposito), finito anch'esso coinvolto nelle manovre di Mancino per sfilare l'inchiesta sulla trattativa alla Procura di Palermo.
AMEDEO FRANCO - Beneventano di Cerreto Sannita, è nato il nove agosto 1943. Magistrato dal 1974. In Cassazione dal 1994. In servizio alla Terza sezione penale competente per i reati tributari, è affidata a lui, per la sua specializzazione, la relazione dell'udienza Mediaset, e sarà lui a scriverne le motivazioni. Ha già fatto parte del collegio che ha confermato l'assoluzione di Berlusconi per il filone Mediatrade.
CLAUDIO D'ISA - Nato a Napoli il 28 aprile del 1949, vive a Piano di Sorrento, dove è un animatore del Rotary Club per quanto riguarda convegni sulla legalità e contro il crimine organizzato. Veste la toga dal 1975. Presta servizio alla Quarta sezione penale della Cassazione ed è anche componente della Commissione tributaria regionale della Campania.
ERCOLE APRILE - Leccese nato il primo ottobre 1961, è in magistratura dal 1989. Giudice nella sua città e poi è approdato alla Suprema Corte.
GIUSEPPE DE MARZO - Classe 1964, il più giovane del collegio. Nato a Bari, in servizio dal 1991. Ha iniziato a Taranto.
ANTONIO MURA - Sassarese, nato il 14 novembre del 1954. Togato dal 1984, è in Cassazione dal 1994. Uomo di spicco della Procura, è stato presidente di Magistratura Indipendente.
CHI E' ANTONIO ESPOSITO.
Chi è Antonio Esposito?
Antonio Esposito è il presidente della sezione feriale. La sua è una famiglia di magistrati. Il figlio Ferdinando, procuratore aggiunto di Milano, ha conosciuto in passato Nicole Minetti, condannata in primo grado nel processo Ruby bis. Una conoscenza che gli ha creato qualche problemino in Procura, visto che è proprio la Procura ad accusare la Minetti di induzione e favoreggiamento della prostituzione. Un articolo di Esposito conferma l'antipatia verso Berlusconi e il suo governo: "C'è un disegno per intaccare il principio di legalità", scrive Stefano Filippi su “Il Giornale”. Un «disegno volto a intaccare profondamente il principio di legalità». Un'opera «devastante: delegittimazione della magistratura e disarticolazione del sistema giudiziario». Si è tentato di «offuscare il periodo luminoso di Tangentopoli». Non esiste «una magistratura giustizialista e politicizzata» che abbia «eliminato, per via giudiziaria, interi partiti e uomini politici democraticamente eletti». È «sistematico e costante l'attacco lanciato ai magistrati» quando «le decisioni emanate non corrispondevano alle attese e ai desiderata degli imputati eccellenti». La legge Cirielli è stata adottata «imprudentemente». E la riforma della giustizia ipotizzata dal centrodestra è semplicemente da incenerire. Sono frasi scritte dal giudice Antonio Esposito, il presidente della sezione di Cassazione che ha definitivamente condannato Silvio Berlusconi. Risalgono all'aprile 2011: evidentemente l'antipatia verso l'ex presidente del Consiglio e le riforme giudiziarie attuate o prospettate dai suoi governi è di antica data. L'articolo è stato pubblicato sulla Voce delle voci, il mensile erede della Voce della Campania («fino al 1980 quindicinale del Pci», si legge sulla presentazione online) diretto, tra gli altri, da Michele Santoro. Esposito, che il periodico esalta per aver «recentemente condannato Totò Cuffaro», sotto il titolo «La toga è nobile» attacca Berlusconi benché si guardi bene dal nominarlo esplicitamente. Egli ritiene che «in questi ultimi anni» sia stato avviato un meccanismo per scardinare il rispetto delle leggi, tentando «di ridurre gli spazi di quel controllo di legalità che spetta alla magistratura». E ciò è avvenuto con la «delegittimazione della magistratura» e la «disarticolazione» del nostro ordinamento giudiziario, con «parole d'ordine costruite in modo interessato, attraverso continue interviste, dibattiti politici e mediatici». Annullamenti e prescrizioni non dipendono dalla lentezza della giustizia o da errori giudiziari, ma «dall'aver cambiato le regole in corso di partita, modificando le norme che regolavano i criteri dell'acquisizione e della valutazione della prova». Esposito critica la stessa Cassazione, in particolare «due mai troppo vituperate decisioni delle Sezioni Unite» che applicavano una legge del centrosinistra. E aggiunge: «Non meno sistematico e costante, in questi ultimi anni (cioè con i governi Berlusconi, ndr), l'attacco lanciato ai magistrati ogni qualvolta le decisioni emanate non corrispondevano alle attese e ai desiderata degli imputati eccellenti. Fino al punto di ipotizzare che i magistrati dovevano essere antropologicamente diversi e, quindi, mentalmente disturbati, costituendo essi anche una metastasi per il Paese». Ma i colpi più pesanti riguardano il tentativo di riforma, che «suscita enorme preoccupazione». La separazione delle carriere è tesa a «creare le premesse per un futuro controllo del governo sull'operato della magistratura». La modifica della composizione del Csm «porterebbe inevitabilmente a una sottomissione dell'organo di autogoverno e, quindi, della magistratura, al potere politico e, in particolare, a quello dell'esecutivo in carica». E la famigerata «legge bavaglio» sulle intercettazioni «mette in serio pericolo i principi fondamentali della libertà di pensiero e del diritto dei cittadini all'informazione». Quanto a Berlusconi, per farlo fuori Esposito riesuma il «principio di distinzione tra responsabilità politica e responsabilità penale approvato dalla Commissione parlamentare antimafia nel 1993 con una larghissima e inedita maggioranza (Dc, Pds, Lega, Rc, Pri, Psi, Psdi, Verdi, Rete)». Quell'accordo di larghissime intese «stabiliva che il Parlamento ed i partiti, sulla base di fatti accertati che non necessariamente costituiscono reato, potessero comminare delle precise sanzioni politiche, consistenti nella stigmatizzazione dell'operato e, nei casi più gravi, nell'allontanamento del responsabile dalle funzioni esercitate». Bandire i politici senza nemmeno giudicarli: un bel sollievo per il giudice Esposito e i suoi colleghi.
Intervista esclusiva al giudice Esposito rilasciata ad Antonio Manzo su “Il Mattino”: «Berlusconi condannato perché sapeva». Il presidente della sezione feriale della Corte di Cassazione spiega la sentenza: l'ex premier era a conoscenza del reato. Silvio Berlusconi non è stato condannato «perché non poteva non sapere», ma «perché sapeva»: era stato informato del reato. Così il giudice Antonio Esposito, presidente della sezione feriale della Cassazione, spiega la sentenza di condanna per il Cavaliere in una intervista esclusiva al Mattino. «Nessuna fretta nel processo. Abbiamo solo attuato un doveroso principio della Cassazione, quello di salvare i processi che rischiano di finire in prescrizione». E quello Mediaset sarebbe andato prescritto il primo agosto scorso. «Abbiamo deciso con grande serenità» aggiunge il magistrato. Sulle polemiche che negli ultimi giorni lo hanno colpito dal fronte berlusconiano, il presidente preferisce non replicare: «La mia tutela avverrà nelle sedi competenti». Aggiunge: «Ero per la diretta tv, ma avremmo turbato il processo».
Giudice Esposito, può esistere, chiamiamolo così, un principio giuridico secondo il quale si può essere condannati in base al presupposto che l’imputato «non poteva non sapere»?
«Assolutamente no, perché la condanna o l’assoluzione di un imputato avviene strettamente sulla valutazione del fatto-reato, oltre che dall’esame della posizione che l’imputato occupa al momento della commissione del reato o al contributo che offre a determinare il reato. Non poteva non sapere? Potrebbe essere una argomentazione logica, ma non può mai diventare principio alla base di una sentenza».
Non è questo il motivo per cui si è giunti alla condanna? E qual è allora?
«Noi potremmo dire: tu venivi portato a conoscenza di quel che succedeva. Non è che tu non potevi non sapere perché eri il capo. Teoricamente, il capo potrebbe non sapere. No, tu venivi portato a conoscenza di quello che succedeva. Tu non potevi non sapere, perché Tizio, Caio o Sempronio hanno detto che te lo hanno riferito. È un po’ diverso dal non poteva non sapere». Tempesta sul giudice Antonio Esposito dopo l'intervista esclusiva rilasciata al Mattino. All'attacco Sandro Bondi, coordinatore del Pdl, il segretario della commissione Giustizia della Camera, Luca d'Alessandro, Mara Carfagna, portavoce del gruppo Pdl alla Camera, l'ex ministro Maria Stella Gelmini, Daniela Santanchè e il deputato Elvira Savino. Sulla vicenda intervengono anche gli avvocati di Berlusconi, Niccolò Ghedini e Franco Coppi, scrive “Il Mattino”.
Bondi. «È normale che il giudice Esposito entri nel merito della sentenza della Cassazione con un'intervista rilasciata ad un quotidiano nazionale? È questo il nuovo stile dei giudici della Cassazione? Io credevo che i giudici parlassero attraverso le sentenze, anche se controverse, e che i magistrati fossero "la bocca della legge". Ma vuol dire che mi sbaglio». Così Sandro Bondi, coordinatore del Pdl, in merito all'intervista rilasciata dal magistrato a "Il Mattino".
Gelmini. L'intervista del giudice Esposito sul Mattino di Napoli presenta «modalità incomprensibili». A dirlo è Maria Stella Gelmini (Pdl), intervenuta a "Radio Anch'io" su Radio1 Rai. «Questo processo nel quale è stato condannato in terzo grado Silvio Berlusconi - sostiene - ha veramente delle profonde anomalie dal fatto che il presidente di Mediaset Confalonieri sia stato ritenuto del tutto estraneo alla vicenda, com'è giusto che sia, ma che allo stesso tempo chi in quel periodo faceva ed era impegnato ad essere presidente del Consiglio sia stato più responsabile di chi lavorava in Mediaset e quindi debba essere condannato: è un qualcosa che non si comprende, una modalità incomprensibile perché Berlusconi non era in Mediaset e in quel momento non era impegnato tanto meno ad occuparsi di diritti televisivi; aveva un ruolo ben preciso, quello di presidente del Consiglio».
D'Alessandro. «L'ineffabile dottor Esposito ha oggi inventato la smentita che non smentisce, anzi che conferma l'intervista rilasciata al Mattino. Al di là dei commenti più espliciti sulla sentenza, che egli dichiara di non aver proferito e sui quali attendiamo curiosi la replica del Mattino, il presidente della sezione feriale della Cassazione conferma non solo di aver ricevuto il giornalista, ma anche di averci parlato e di aver rilasciato l'intervista, il cui testo (leggiamo dalla sua stessa smentita) è stato "debitamente documentato e trascritto dallo stesso cronista e da me approvato"». È quanto afferma Luca d'Alessandro (Pdl), segretario della commissione Giustizia della Camera. «Poichè tutta la conversazione attiene al processo a Silvio Berlusconi e alla sentenza emessa proprio da Esposito, è davvero paradossale e grave che egli sostenga di aver parlato solo in termini generali. Ribadiamo che non è importante ciò che il giudice dice (ancorchè grave), ma è inquietante che egli intervenga pubblicamente e lo faccia anche prima delle motivazioni. Quanto poi al testo che egli avrebbe controllato e approvato, il fatto che non sia reso conto che tutta l'intervista - da lui letta prima della pubblicazione - abbia riguardato il processo a Berlusconi ci fa sorgere più di un dubbio sulle sue capacità di discernimento. E se ha così mal compreso quanto ha scritto il giornalista, da lui sottoscritto, ci chiediamo con terrore se sia stato in grado di comprendere fino in fondo le carte di un processo così delicato per la sorte di un leader politico, che ha un seguito di dieci milioni di elettori, e di un intero Paese», conclude.
Carfagna. «Nessuno vuole mettere in discussione il sacrosanto principio costituzionale del "manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione", tuttavia esistono dei limiti morali e di opportunità che il buon senso, le circostanze e i ruoli impongono». Così la portavoce del gruppo Pdl alla Camera dei deputati Mara Carfagna, nell'ultimo post del suo blog, ha commentando l'intervista al Mattino. «Un togato - è quanto sottolineato l'esponente del Popolo della libertà - dovrebbe esprimere i propri "giudizi" con le sentenze, che si compongono di un dispositivo e di motivazioni, da depositare nei tempi e nei modi prestabiliti dalla legge. Anticipare queste ultime in forma pubblica, attraverso un'intervista ad un organo di informazione nazionale, appare più come un modo per ottenere visibilità per chissà quale scopo futuro. Gli esempi di Di Pietro e Ingroia sono assolutamente vividi nella mente di tutti, così come la loro parabola politica». «Un togato, ancora di più se della Cassazione, dovrebbe fare della discrezione e del rispetto - formale e sostanziale - nei confronti di chi ha giudicato, degli imperativi categorici. Se ciò non avviene, allora, tutti sono legittimati a "fraintendere", ponendoci delle domande sulla reale terzietà di certi giudici» aggiunge Carfagna.
Savino. «Se il presidente della sezione feriale della Cassazione, Antonio Esposito, ha ritenuto di dover concedere una intervista (confermata dal Mattino) per spiegare le motivazioni della sentenza addirittura prima del deposito della sentenza stessa, allora è la conferma che c'è più di qualcosa che non va. Ha voluto mettere le mani avanti, ma, excusatio non petita, accusatio manifesta». Lo afferma Elvira Savino, deputata pugliese del Pdl. «E c'è che ancora qualcuno che ci vorrebbe imporre di non commentare le sentenze, se poi sono gli stessi giudici che le hanno emesse a farlo? C'è ancora qualcuno che sostiene che una riforma della giustizia non è necessaria e urgente? Noi non possiamo accettare, e mai lo faremo, che un leader politico venga estromesso dalla vita pubblica non dalle urne ma da certi tribunali. Per questo - conclude Savino - non smetteremo mai difendere Silvio Berlusconi dagli ingiusti attacchi che subisce da vent'anni».
Santanchè. «Come valuterebbe il giudice Esposito il caso di un imputato che si comportasse come ha fatto lui, ovverossia, dichiarasse palesemente il falso? Complimenti,signor giudice!» afferma Daniela Santanchè, Pdl.
Ghedini. «Solo nei processi nei confronti del presidente Berlusconi possono verificarsi fatti simili», afferma Niccolò Ghedini in una nota. «Prima del deposito della motivazione nel processo cosiddetto "Diritti" - spiega il legale dell'ex premier - il presidente del collegio della sezione feriale della Corte di Cassazione dott. Esposito avrebbe anticipato le motivazioni della sentenza ad un giornalista del Mattino di Napoli che lo ha riportato con grandissimo risalto. Il fatto in sè è ovviamente gravissimo e senza precedenti». Prosegue Ghedini: «Fra l'altro il dott. Esposito avrebbe affermato che il presidente Berlusconi sarebbe stato avvertito delle asserite illecite fatturazioni da "Tizio, Caio e Sempronio" e per ciò meritava la condanna. La tesi in punto di diritto è del tutto errata, ma come qualsiasi controllo degli atti può dimostrare, così non è. Mai nessun testimone ha dichiarato che Silvio Berlusconi conoscesse o si occupasse dell'acquisto dei diritti cinematografici nè in particolare che si occupasse degli ammortamenti o delle dichiarazioni fiscali. Dunque, il presidente Berlusconi doveva essere assolto. Ma sempre il dott. Esposito quest'oggi ha smentito l'intervista affermando di aver parlato in generale. La tesi già di per sè sarebbe assai peculiare poichè è facile cogliere l'inopportunità di tale intervento senonchè il direttore del giornale in questione ha dichiarato che l'intervista al dott. Esposito è stata trascritta letteralmente e vi è la registrazione. Se così fosse tale accadimento è, come è facile comprendere, ancor più grave e dimostrerebbe un atteggiamento a dir poco straordinario. È evidente che gli organi competenti dovranno urgentemente verificare l'accaduto che non potrà non avere dei concreti riflessi sulla valutazione della sentenza emessa».
L'avvocato Coppi. «Ormai di quello che sta accadendo non mi meraviglio più. Se Berlusconi riterrà di dover far qualcosa se la vedrà lui. Certo, normalmente le motivazioni di una sentenza si conoscono con il deposito della sentenza stessa. In genere dichiarazioni in anteprima non si rilasciano». Lo afferma ad Affaritaliani.it l'avvocato Franco Coppi, legale di Silvio Berlusconi, a proposito dell'intervista al presidente della sezione feriale della Cassazione Antonio Esposito. Riguardo al modo in cui sconterà la pena, Coppi ha detto che quando Berlusconi «avrà deciso che cosa fare, noi tecnici ci metteremo a disposizione per realizzare quello che è il programma che lui stesso ha delineato. In questo momento non voglio entrare in questo tipo di discorso». La questione della richiesta di grazia per l'ex premier è ancora una strada percorribile? «È una questione di competenza del presidente della Repubblica - risponde Coppi - e vedremo che cosa deciderà di fare. Per il momento noi come legali stiamo soltanto alla finestra. Vedremo quello che succederà». Anche su un eventuale ricorso in Europa, «non abbiamo preso una decisione: comunque bisognerà aspettare le motivazioni della sentenza. Non possiamo mica fare il ricorso sulla base di quello che ha detto il presidente Esposito».
Antonio Esposito, la toga che ha trasformato Berlusconi un pregiudicato e che, in dialetto campano, anticipava a un giornalista de Il Mattino le motivazioni della sentenza. Esposito, al telefono, alzava l'asticella: "Altro che non poteva non sapere. Berlusconi sapeva". Questo il succo del suo pensiero. Basta questo a renderlo "di sinistra"? No, affatto, anche se un sospetto è legittimo: come è possibile che non abbia neanche un dubbio? Questo non è dato saperlo, attendiamo le motivazioni (quelle vere) della sentenza. A renderlo "di sinistra" - con buona pace dei "ritratti, indiscrezioni e ricostruzioni" sul collegio destrorso - è una nuova indiscrezione, rilanciata da Il Giornale, che ha spedito un inviato a Sapri, provincia di Salerno, il regno del giudice Esposito. La parola all'edicolante della toga che ha crocifisso il Cavaliere: "Compre sempre e soltanto Repubblica e Fatto Quotidiano. Non è un mistero che Berlusconi non gli vada a genio". Avete ancora qualche dubbio al riguardo? La rivelazione via telefono di particolari riguardanti, non solo le sentenze ancora da motivare, ma addirittura i contenuti delle inchieste giudiziarie in pieno svolgimento, sembra un vizio collaudato fra le toghe, scrive Cristina Lodi su “Libero Quotidiano”. Le quali, a differenza di Silvio Berlusconi, alla fine la fanno sempre franca. Sembrano lontani i tempi in cui l’ex Presidente del consiglio veniva messo sotto inchiesta, processato e condannato per rivelazione del segreto d’ufficio, per avere favorito la pubblicazione su il Giornale della famosa intercettazione («Abbiamo una banca!») tra l’ex capo dei Ds Piero Fassino e Giovanni Consorte. Erano i tempi della scalata del gruppo assicurativo bolognese Unipol a Bnl. Silvio, con questa storia, ha collezionato una condanna che il prossimo settembre 2013 cadrà nell’oblio della prescrizione. Il giudice Antonio Esposito, che invece ha anticipato in un’intervista le motivazioni della sentenza di condanna da lui stesso pronunciata a carico del Cavaliere, rischia (forse) un procedimento disciplinare. E poco importa se nel rivelare che Silvio Berlusconi fosse (secondo la Cassazione) al corrente della frode fiscale a lui contestata, rischi inevitabilmente di condizionare il relatore Amedeo Franco che ora dovrà scrivere quelle stesse motivazioni. Ai giudici sembra tutto concesso. Basta guardare quanto accaduto a Viterbo, dove Aldo Natalini, pm nella famosa inchiesta senese sul Monte dei Paschi di Siena, si sente in diritto di rivelare al telefono a un amico dettagli dell’indagine. Questo amico del pm inquirente si chiama Samuele De Santis, soggetto finito sotto accusa per una storia di estorsione a imprenditori invischiati in una vicenda di appalti e tangenti. Samuele De Santis viene addirittura arrestato per falso ed estorsione. Ma tra febbraio e marzo 2013 raccoglie al telefono le rivelazioni dell’amico e compagno di studi Aldo Natalini, pm dell’inchiesta sulla banca. Il magistrato di Viterbo, Massimiliano Siddi, che indaga sull’avvocato per l’estorsione, intercetta le conversazioni e iscrive nel registro degli indagati il collega togato. Rivelazione del segreto istruttorio, l’accusa. Stando al Giornale d’Italia che ha dato notizia dell’inchiesta, il pm Natalini si sarebbe consultato apertamente con l’amico avvocato sulle strategie legali che si potrebbero intraprendere nel caso nell’inchiesta su Mps venissero coinvolti «anche i vertici del Partito Democratico». Spiegando, da un punto di vista giuridico, «quali sarebbero le eventuali eccezioni cui fare ricorso laddove le indagini andassero a colpire l’alta dirigenza del Pd». Quindi Natalini (stando al Giornale d’Italia) «non solo avrebbe spiegato come si possa difendere Giuseppe Mussari e Fabrizio Viola, ma anche chi direttamente o indirettamente influenza le sorti della Banca “rossa”». David Brunelli, avvocato di Natalini, ha confermato l’iscrizione nel registro degli indagati del suo assistito, ma ha voluto sottolineare che il magistrato «ha già chiarito tutto». E che «quella per cui il pm è stato indagato è una telefonata dai contenuti irrilevanti». Anche la Procura di Siena è scesa in campo in difesa del pm inquisito: «Aldo Natalini non è mai venuto meno ai suoi doveri di riservatezza in ordine alle indagini da lui condotte e, in particolare, alle indagini aventi per oggetto Banca Mps», dice il procuratore capo Tito Salerno, che al magistrato riconosce «la massima serietà e professionalità». Tutto questo nonostante il pm resti indagato e sotto inchiesta per avere violato i segreti dell’inchiesta del più «rosso» degli istituti di credito.
Il giudice Esposito e Felice Caccamo. L'audio dell'intervista al Mattino riporta alla memoria il personaggio cult di "Mai dire gol" piuttosto che un giudice della Cassazione, scrive Annalisa Chirico su “Panorama”. No, non è come pensate. Prestate attenzione: non è la voce di un Felice Caccamo qualunque. Concentratevi sulle singole parole: “Chille nun poteva non sapere”, “Tiziu, Caiu e Semproniu an tit (hanno detto) che te l’hanno riferito. E allora è nu pocu divers’”. Che cosa avranno mai riferito Tizio, Caio e Sempronio? E chi sono costoro? A spiegarcelo non può essere Teo Teocoli nei panni del giornalista ittico-sportivo consacrato alla storia televisiva da “Mai dire gol”, l’allievo prediletto del professore Catrame, esegeta celeberrimo della cultura partenopea. “Gira la palla, gira la palla”, chi se lo scorda più. L’audio della discordia non riguarda i palloni, la voce non è quella di Teocoli in una improbabile giacca azzurra, ma quella dell’ermellino più famoso d’Italia, il presidente della sezione feriale della Cassazione che ha condannato in via definitiva Silvio Berlusconi. Ecco a voi Antonio Esposito con la sua inconfondibile cadenza napoletana – non sappiamo se anche sua moglie si chiami Innominata -, una cadenza che va ben oltre l’elegante e sanguigna inflessione del fior fiore dell’intellighenzia campana. “Chille nun poteva non sapere”, scandisce il magistrato al giornalista de Il Mattino, che lo ascolta e prende nota. In quel goffo e involuto eloquio non vi è traccia dell’accento di un non meno partenopeo Gaetano Filangieri o Giambattista Vico. Si tratta proprio di un napoletano strascicato, più spagnolo che “vomeresco”. Un linguaggio che stride con l’ermellino, stride con l’autorevolezza e il decoro di una carica suprema ingolfata in una raffazzonata dizione che se ne infischia del soutenu, della buona immagine, lasciandosi andare a confidenze scomposte in un italiano scomposto. A parlare non è Caccamo, cui tutto è concesso, ma un giudice della Suprema Corte di Cassazione, legato da quarant’anni di amicizia a quel giornalista, dal quale confessa di sentirsi tradito. “Se fa il giornalista lo deve soltanto a me”, dichiara in modo non meno oscuro stamattina su La Repubblica. Ma non chiediamoci che cosa voglia dire, teniamoci sulla forma. E la forma è imbarazzante. Il giudice, che ha pubblicato anticipatamente in edicola le motivazioni di una sentenza, si rende protagonista di una sceneggiata grottesca. Non si tratta di una commedia di Guareschi, ma di una “caccamiata” senza Teocoli, ma con una fulgida maschera napoletana che restituisce un quadro fedele della Napoli di oggi, ai tempi del sindaco ex pm, del lungomare bloccato e delle esequie dei fasti che furono. La maschera napoletana si adombra di tristezza se consideriamo che un attimo dopo la pubblicazione dell’intervista Esposito fa un’altra brutta figura: egli si affretta a smentire, salvo poi essere irrefutabilmente sbugiardato dall’audio diffuso urbi et orbi. Dopo averlo sentito esprimere in libertà nella sua popolaresca napoletanità, possiamo soltanto immaginare che cosa avrà detto al figlio Ferdinando, giovane e aitante magistrato beccato a cena in un ristorante meneghino con l’ex consigliera regionale Nicole Minetti, allora imputata nel processo Ruby-bis. Ma “ogni scarrafone è bello a mamma soia”. E a papà soia. Infatti le accuse nate dalla segnalazione del procuratore capo Edmondo Bruti Liberati nel maggio del 2012 sono state archiviate, Ferdinando è salvo. C’è da giurarci che anche Antonio ce la farà. In fondo, Partenope perdona sempre. Gira la palla, gira la palla. Ma c’è un precedente. Impietoso come sa essere, il web sta costruendo un nuovo mito. Si tratta di Mariano Maffei, procuratore capo a Santa Maria Capua Vetere. Il giudice con il quale da qualche giorno l'ex ministro della Giustizia Clemente Mastella ha incrociato la spada.
ANTONIO ESPOSITO COME MARIANO MAFFEI.
Chi è Maffei?, scrive Panorama. "Un servitore dello Stato che per ben 44 anni ha amministrato la giustizia con altissima professionalità, con spiccato senso del dovere, con il massimo impegno, con autonomia e indipendenza assoluta". E così si descrive lui stesso, nel corso dell'affollata conferenza stampa in cui, oltre a spiegare i motivi dell'azione giudiziaria ai danni dei Mastella (e di metà Udeur campano), il procuratore ha anche risposto all'ex Guardasigilli: "La polemica sollevata in Parlamento dal ministro è disgustosa". Se non fosse, che accerchiato dai giornalisti e probabilmente poco abituato alle telecamere, l'anziano magistrato ha dato in escandescenze e dopo che il video integrale di quella malgestita comunicazione alla stampa è andato in onda a Matrix, è arrivato YouTube a rilanciarlo come clip più cliccata del momento. Complice quel marcato accento campano e quell’aspetto un po' rigido da personaggio d'altri tempi. Mastella non si è lasciato sfuggire l'occasione di attaccare : "Essere giudicati da uno come lui è malagiustizia. Per carità, massimo rispetto per tantissimi magistrati ma essere giudicati da gente così fa paura ad un cittadini. È sconvolgente" ha aggiunto Mastella "che un giudice incompetente arresti le persone ammazzando così famiglie. Io posso difendermi pubblicamente attraverso voi giornalisti, però gente come questa comporta drammi umani nelle famiglie. Un giudice che è diventato una macchietta su Youtube...".
Ve lo ricordate Mariano Maffei, il procuratore di Santa Maria Capua Vetere che ottenne l’arresto di Sandra Lonardo, con conseguenti dimissioni del marito e allora ministro della Giustizia, Clemente Mastella e caduta del governo Prodi? Scrive Anna Maria Greco su “Il Giornale”. Sì, quello dell’intervista alla napoletana, diventata un cult su YouTube, che l’ex Guardasigilli definì «una macchietta». Ecco, il 10 dicembre scorso il pm di Roma Giancarlo Amato ha chiesto il suo rinvio a giudizio, per abuso d’ufficio e calunnia. E nell’udienza del 19 febbraio 2008, di fronte al giudice per le indagini preliminari Maurizio Silvestri, Maffei dovrà difendersi da accuse pesanti. Di aver, cioè, denunciato per falso e abuso d’ufficio il suo aggiunto Paolo Albano e il sostituto Filomena Capasso, per una storia di indagini inadeguate da parte della polizia giudiziaria legate a un'inchiesta su un medico ospedaliero. Questo Maffei l’avrebbe fatto «in totale assenza di qualsiasi elemento accusatorio» e, scrive il pm, «pur conoscendo l’innocenza dei predetti magistrati» e «cagionando intenzionalmente ingiusto danno». Un comportamento, sempre secondo il magistrato inquirente, che trova «semmai giustificazione in precedenti dissidi personali e professionali» con i suoi colleghi. Della faida interna alle toghe sammaritane si è già molto parlato sia ai tempi dell’esplosiva inchiesta che travolse i coniugi Mastella e mezza Udeur campana sia dopo, quando fioccarono gli esposti contro Maffei e tre suoi «fidati» sostituti, da parte di altri procuratori che denunciavano indagini illecite su di loro, metodi scorretti di gestione dell’ufficio, «un clima insostenibile di sospetti e di comportamenti vessatori». Insomma, una forma di accanimento verso quelle toghe che non erano per così dire in linea con la direzione Maffei. Della guerra fra toghe, con accuse di mobbing, inchieste e denunce, si sono già occupati l’ispettorato del ministero della Giustizia, la Procura generale di Napoli e il Consiglio superiore della magistratura, ma Maffei nel mezzo della bufera se n’è andato in pensione e almeno le ripercussioni disciplinari le ha evitate. Le indagini giudiziarie, però, sono andate avanti e per competenza le ha fatte la procura di Roma. Ora il pm Amato firma una richiesta di rinvio a giudizio di cinque pagine, dalle quali emerge un quadro inquietante di quanto è successo per lungo tempo nella Procura di Santa Maria Capua Vetere. In sostanza, è convinto che Maffei avesse «punito» per altri motivi i due pm Albano e Capasso, evidentemente non in sintonia con lui, facendoli finire sotto indagine senza motivo e ben sapendo che le sue accuse non poggiavano su nulla di concreto. Una mossa del tutto strumentale, dunque. E un metodo del genere fa pensar male sul modo di Maffei di scegliere gli obiettivi da perseguire e i soggetti da indagare, quindi sul suo modo di gestire l’ufficio. Certi nodi vengono al pettine solo ora che Maffei ha lasciato la magistratura, sbattendo la porta con aspri battibecchi con Mastella, che lo accusava di non essere imparziale e di agire con un mandante politico, sottolineando la sua parentela con il presidente della Provincia Alessandro De Franciscis, che dall’Udeur era passato al Pd. D’altronde, anche nei giorni della tempesta giudiziaria sui Mastella, l’allora procuratore non era stato affatto cauto, facendo dichiarazioni che tradivano il dente avvelenato contro il governo, parlando di «regime dittatoriale» e lamentandosi del fatto che «grazie» alla riforma Mastella, che imponeva una rotazione con il limite massimo di 8 anni per gli incarichi di vertice, doveva lasciare il suo posto e subire un capo sopra di lui oppure andarsene. Sarà interessante seguire gli sviluppi giudiziari della vicenda Mastella, perché già si parla di un testimone secondo il quale a novembre 2007 Maffei l’avrebbe giurata all’ex-Guardasigilli.
…DI MILANO. E' stato condannato a 2 anni e 4 mesi l'ex pm di Milano Ferdinando E., figlio del giudice Antonio Esposito, presidente del collegio che ha condannato Silvio Berlusconi nel processo Mediaset nel 2013, scrive "L'Ansa" il 6 luglio 2016. L'udienza del processo, con rito abbreviato, si è celebrata in mattinata al Tribunale di Brescia. Ferdinando E. era accusato di aver tentato di indurre l'avvocato Michele Morenghi e una dirigente immobiliare a sottoscrivere un contratto di affitto della sua abitazione attraverso una società facente capo ai due, dunque a pagargli l'affitto di casa. Esposito ha risposto anche dell'accusa di induzione nei confronti di un commercialista al fine di ottenere un prestito di denaro, allettandolo con la possibilità di presentargli magistrati che potessero poi affidargli incarichi come consulente. ''E' stata una decisione inattesa - ha dichiarato il legale di Esposito, l'avvocato Gian Piero Biancolella - perchè confligge con due decisioni emesse dal Gip e dal Tribunale del Riesame di Brescia, che avevano escluso nelle condotte tenute dal dottor Esposito un abuso della propria funzione e avevano ritenuto i fatti per cui oggi è stata emessa condanna penalmente irrilevanti. Leggeremo e poi presenteremo impugnazione''. Per il legale, l'ex pm di Milano sarebbe ''rimasto basito. Proprio in considerazione delle precedenti pronunce, non riteneva potesse essere pronunciata una sentenza di condanna''.
La commedia dei due Esposito. Gli altarini familisti di una sentenza berlusconicida, scrive Giuliano Ferrara il 25 Marzo 2015 su "Il Foglio". Il figlio pm del giudice di Cassazione che ha elaborato e letto il verdetto di condanna contro Berlusconi (parliamo dei due Esposito, come nelle commedie di Totò) soleva andare dall’imputato giudicato da suo padre a chiedergli di fargli fare carriera in politica, anche in pendenza del giudizio medesimo. La frode fiscale attribuita al padrone di Mediaset e statesman e outsider italiano, ma non ai suoi amministratori, come prezzo per un rifiuto o un’incapacità a promuovere il cursus honorum del figliolo? Ma no. Non vogliamo dire tanto. Ci vogliono le prove. Ci sono delle cravatte regalate dal Cav. al giovane Ferdinando, esplicite, durante i ripetuti colloqui eleganti ad Arcore, prima della condanna paterna, ma non c’è un Rolex. Ci sono le sue ammissioni esplicite, quelle di Ferdinando figlio di Antonio Esposito: volevo i pantaloni del politico e li ho chiesti a don Berlusconi, ma non se ne può inferire assolutamente che “poi ha provveduto paparino a vendicarmi” Quindi è tutto a posto. Salvo che noi in solitario su questo giornale abbiamo sempre chiamato quella sentenza, che contribuì alla storia politica italiana più della farsa detta processo Ruby, risoltasi in pochade voyueuristica, la “sentenza Esposito”. Et pour cause, miei cari. ARTICOLI CORRELATI C'è un giudice a Strasburgo La visita fiscale del giudice Esposito Nutro poche speranze nella stampa nazionale e nel funzionamento della giustizia, che stanno correndo appresso agli scatoloni pieni di soldi dell’ingegner Incalza e all’arsenale, un taglierino per il pesce giapponese, della mafia de Roma. A chi possiamo rivolgerci, noi del Foglio, che meriteremmo la presidenza della Cassazione honoris causa? Alla stampa straniera per esempio. Quei pecoroni se la sono bevuta tutta. Visto che l’Italia è borbonizzante, è molto diversa dalla giustizia newyorkese, dove te la puoi cavare se non ci sono prove stracerte anche se una cameriera ti denuncia per stupro e ti trovano il dna del tuo seme dieci minuti dopo nella tua stanza d’albergo, allora tutto è possibile. Così il culetto rotondo e ordinario e privato della signora El Marough e le ambizioni di un Ferdinando E., bello a papà, vengono messe in secondo piano: c’era un delinquente a palazzo, e non si dica che la giustizia italiana è politicizzata. A parte i colleghi del Wall Street Journal, pochi si sono accorti di come è veramente fatta l’Italia o hanno fatto finta di non accorgersene perché in fondo è più comodo remare nelle galere con la canaglia degli schiavi. Dunque il primo di agosto di un anno e mezzo fa, regnante Enrico Letta con il conforto di Alfano e Lupi, Berlusconi viene condannato per frode fiscale (ed è se Dio vuole pendente un giudizio alla Corte europea di giustizia), condannato in simili illustri circostanze, da una magistratura figliante e paterna e cuginante. Il Cav. risorto dal caso Ruby e dal caso Fini-Montecarlo aveva quasi rivinto le elezioni del febbraio 2013, e impedito agli avversari di vincerle, aveva varato un secondo mandato al Quirinale e un governo di larga coalizione con il nipote del suo numero due. Ed ecco che già in agosto trovano il modo di dargli un altro colpo, che pensano decisivo, a lui e all’autogoverno degli italiani. Il gruppo della sussidiarietà, Letta e soci lupeschi, decide che di Berlusconi si può fare a meno, una squadretta ristretta è meglio di una maggioranza con lui. Ma hanno fatto i conti senza il Matteo, che li sgomina vincendo le primarie del Pd e andando a Palazzo Chigi con il patto per le riforme detto del Nazareno. Tutto, ma proprio tutto, dalla cacciata del capo del governo eletto nel 2011 allo sfascio della maggioranza possibile nel 2013, tutto è stato architettato da politici complici di una magistratura cugina e ferocemente personalizzata e politicizzata. Ora sono sconfitti i pregiudizi sulla furbizia orientale di Ruby e vengono allo scoperto gli altarini della sentenza Esposito, senza voler pensare male, senza per carità stabilire relazioni improprie. Il figliolo del Signor Giudice di Ultima Istanza aveva chiesto qualcosa che il Cav. non gli ha dato: una svolta politica e di carriera nella sua vita, da ottenere a mezzo di ripetute visite con cravatte in regalo. Chissà se i tanti cialtroni che hanno commentato gli eventi si sveglieranno dal torpore della loro intelligenza e della loro morale.
Tribunale di Milano smonta accuse di frode fiscale a Berlusconi: “Fu un plotone di esecuzione”. Redazione su Il Riformista il 29 Giugno 2020. Il "processo Mediaset" nei confronti di Silvio Berlusconi per frode fiscale? Fu “un plotone d’esecuzione”. A dirlo il relatore in Cassazione, il magistrato Amedeo Franco, in una registrazione di cui è venuto in possesso Il Riformista. La vicenda riguarda l’unica condanna in via definitiva dell’ex premier e leader di Forza Italia, condannato dai giudici della sezione feriale della Cassazione nell’agosto 2013 a 4 anni di reclusione per frode fiscale nel processo sui diritti Mediaset (di cui 3 coperti da indulto). Il tribunale civile di Milano però ha smontato le accuse di frode fiscale a Berlusconi: nessuna fattura gonfiata, nessuna interposizione fittizia è emersa riesaminando le carte del processo. Mediaset aveva infatti avanzato una richiesta di risarcimento contro lo stesso Agrama, con i giudici che hanno riconosciuto come nessuna fattura era stata gonfiata all’epoca sulla compravendita dei diritti su alcuni film americani. Nel processo vennero condannati anche gli altri imputati: il produttore cinematografico egiziano Frank Agrama (3 anni), Gabriella Galetto (1 anno e 2 mesi) e Daniele Lorenzano (3 anni e 8 mesi).
Lanzi: «Il mio assistito Confalonieri fu assolto già in primo grado e il Cav condannato anche in Cassazione». Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio il 2 luglio 2020. Alessio Lanzi, avvocato e membro laico del Csm: il presidente di Mediaset, a differenza di Berlusconi, non fu riconosciuto colpevole di frode fiscale. «In questi anni quando partecipavo ai convegni in materia di diritto penale tributario ed incontravo un collega, la prima domanda era sempre come fossi riuscito a far assolvere Fedele Confalonieri, il presidente di Mediaset, se il socio, Silvio Berlusconi, era stato invece condannato», afferma l’avvocato Alessio Lanzi, consigliere del Csm in quota Forza Italia, già difensore di Confalonieri nel processo sui diritti televisivi. «Mi fa piacere precisare – chiarisce l’avvocato Lanzi – che dico queste cose non per alimentare una polemica politica che in questi giorni sta montando, ma per puro interesse giuridico». All’indomani delle polemiche scaturite dalle rivelazioni postume del giudice di Cassazione Amedeo Franco, estensore della sentenza di condanna a Berlusconi il primo agosto del 2013, in un colloquio con il Dubbio Lanzi, professore di diritto penale all’università Bicocca di Milano, ricorda come andò il processo e l’iter argomentativo seguito dai giudici nei vari gradi di giudizio.
«La vicenda inizia nel 2009 al termine di una delle tante verifiche fiscali che avvenivano in quegli anni a Mediaset. L’imputazione iniziale è quella di falso in bilancio, poi frode fiscale. Secondo l’accusa sono state utilizzate fatture inesistenti, relative all’acquisto di diritti televisivi da parte di società straniere, nella dichiarazione dei redditi di Mediaset. Il reato sarebbe stato commesso sia da Confalonieri, presidente di Mediaset, presentando la dichiarazioni dei redditi, che da Silvio Berlusconi in quanto socio occulto. La sentenza di primo grado assolve Confalonieri e condanna Berlusconi. L’appello è alquanto travagliato, molte le questione procedurali come i vari impedimenti per motivi istituzionali di Berlusconi. Il collegio di secondo grado conferma. Si va in Cassazione solo per Silvio Berlusconi, in quanto i pm non impugnano l’assoluzione di Fedele Confalonieri. Il seguito è noto: una sentenza a cui l’avvocato Lanzi, pur non essendo difensore di Berlusconi a piazza Cavour dove era assistito dal professore Franco Coppi, ancora oggi ha difficoltà ad interpretare». «Se è stato assolto il presidente della società che compilò la dichiarazione dei redditi, come è possibile che il socio, da solo, abbia commesso il reato?» si chieda il professore milanese. Per la Cassazione vale l’articolo 48 del codice penale, l’istituto che ribalta la responsabilità penale su quello che è stato costretto a commettere il fatto. «Berlusconi avrebbe fraudolentemente indotto a Confalonieri a fare la dichiarazione dei redditi, un elemento che non era mai uscito dal processo», sottolinea Lanzi, ricordando che nulla era però emerso circa queste ingerenze illecite del Cav. Il prezzo era stato dunque pagato per i diritti, «al massimo si poteva affermare che era stato pagato troppo» e sotto il profilo tributario, questo si traduce in un «surplus che non si può portare in deduzione». Per sostenere allora la tesi della falsa fatturazione che è costata a Silvio Berlusconi l’espulsione dal Senato? «Sovrafatturazione qualitativa, ossia la fattura è falsa perché aumenta il prezzo che è giusto», un caso rarissimo ricorda Lanzi, sottolineando che qualche mese più tardi, per una vicenda analoga, la Cassazione aveva deciso in maniera diversa. E qui si inserisce il recente procedimento civile a Milano che, dopo aver appurato che Frank Agrama non era un prestanome o un socio occulto, ha stabilito che il prezzo dei diritti, comprese le provvigioni, fosse corretto.
Silvio Berlusconi, Pietro Senaldi: così il tribunale di Milano ha assolto il Cavaliere. Libero Quotidiano il 03 luglio 2020. Il vero colpo di scena sul caso Mediaset, definito da Forza Italia il «golpe anti-Berlusconi», è un verdetto pronunciato lo scorso 31 gennaio dal Tribunale civile di Milano. La sentenza numero 868 firmata dal giudice Damiano Spera, che di fatto prova come Silvio Berlusconi sia innocente. Libero è in grado di fornire le motivazioni della decisione che smonta anni di accuse al Cavaliere e dimostra che la storia della Repubblica negli ultimi dieci anni è stata determinata da azioni della magistratura senza adeguato fondamento giuridico. Il Tribunale di Milano infatti stabilisce che non sta in piedi e descrive una realtà che non esiste la decisione della Cassazione con cui nell'agosto 2013 l'ex presidente del Consiglio venne condannato per evasione fiscale a quattro anni di reclusione. E neppure sta in piedi la condanna per appropriazione indebita del produttore cinematografico americano Frank Agrama, considerato dagli ermellini suo «socio occulto», per essersi prestato dietro compenso a una frode. La storia è complessa ma ha una logica ferrea. Berlusconi fu condannato in sede penale perché accusato di aver gonfiato le parcelle di Agrama, che vendeva i film a Mediaset. I magistrati della Cassazione sostennero che l'americano avrebbe fatturato alla società del Cavaliere 110 milioni di euro, consentendo al leader azzurro di truffare il fisco e traendone vantaggio a sua volta. Il produttore americano venne giudicato dagli ermellini «socio occulto e intermediario fittizio» nella compravendita dei diritti tv.
110 MILIONI. A questo punto, incassata la condanna del Cavaliere, gli avvocati di Mediaset hanno pensato di rifarsi in sede civile, chiedendo ad Agrama la restituzione dei 110 milioni, nel frattempo diventati 140 per gli interessi, ed accusando l'americano di appropriazione indebita. Ma i magistrati milanesi hanno respinto integralmente la richiesta dei legali di Silvio, sostenendo che la vendita dei diritti tv a Mediaset non era fittizia ma reale, e quindi di fatto discolpando Berlusconi dalle accuse penali. Nel dispositivo della sentenza si legge che «Agrama era non solo un effettivo intermediario dotato di una regolare struttura organizzativa, ma che egli ha anche agito legittimamente nella compravendita dei diritti». Cosa scrive dunque il giudice Spera nel motivare la sentenza? Mette nero su bianco che la compravendita dei diritti da parte del gruppo Mediaset (dal 1999 al 2005), a dispetto di quanto sostenuto in tutti i processi dalla Procura di Milano e poi dalla Cassazione, è avvenuta mediante «effettivi e regolari contratti siglati fra Mediaset e Agrama» e che «l'interposizione fittizia contestata nei capi di imputazione non sussiste!». Seguendo questo ragionamento perde dunque ogni fondamento giuridico la condanna definitiva e già ampiamente scontata da Silvio Berlusconi. I giudici milanesi hanno accertato che il produttore cinematografico statunitense era a capo di una «complessa organizzazione aziendale idonea a commercializzare i prodotti tv». E ancora: Agrama aveva «una società idonea a commercializzare i prodotti tv», il cosiddetto «ricarico» del 50 per cento sui prodotti era, almeno in via astratta, ragionevole in rapporto al rischio di invenduto sul mediatore e non era il frutto di una fatturazione gonfiata. Ma i magistrati sono ancora più chiari: «Non solo non è provata una indebita maggiorazione di prezzo, ma dopo l'era di Agrama» recita la sentenza, il gruppo Mediaset ha «dovuto subire condizioni negoziali peggiori delle precedenti». Perciò, «dalla maggiorazione dei prezzi» rispetto a quelli praticati da majors come Paramount, «non può inferirsi automaticamente un meccanismo di appropriazione di risorse» di Mediaset, «ma, più semplicemente, un esempio di determinazione del prezzo nel libero mercato dei prodotti tv». Insomma Agrama stando al Tribunale civile, non solo non ha sottratto denaro a Mediaset, ma era un effettivo intermediario che ha agito legittimamente. Vengono così meno anche le dichiarazioni fraudolente sulle quali si è basata la sentenza di condanna del 2013.
ARMA INSPERATA. L'ex premier ora può tornare a bussare alla Corte Europea di Strasburgo per farsi riabilitare e può anche chiedere la revisione del processo che l'ha estromesso ingiustamente dalla politica. Così insieme con l'audio del giudice relatore Amedeo Franco defunto nel 2019 e che poco dopo la sentenza tombale pronunciata il primo agosto 2013 corre a chiedere scusa a Silvio Berlusconi perché tutto «è stato pilotato dall'alto», adesso di fronte ai giudici europei viene depositata (a integrazione) anche la sentenza del Tribunale civile. Nel caos che in questi tempi sta travolgendo la giustizia italiana è spuntato anche questo: i magistrati di Milano, dopo averlo perseguitato per anni, riabilitano il Cavaliere e gli forniscono un'arma fondamentale per rivendicare la sua innocenza davanti alla Corte Europea. Certo, politicamente il danno è irreparabile. Silvio quando fu destituito a causa della condanna ingiusta era il leader del centrodestra e aveva tre-quattro volte il consenso di oggi. Un verdetto ingiusto lo ha fatto fuori dal Parlamento, impedendogli di fare politica come avrebbe voluto e fiaccandone l'immagine pubblica e il morale. Non è mai troppo tardi per avere giustizia, ma l'amaro in bocca resta.
Silvio Berlusconi, Fabrizio Cicchitto: gli altri due verdetti che confermano la sua innocenza. Libero Quotidiano il 03 luglio 2020. La sentenza della giustizia civile che Libero pubblica oggi e che afferma che Agrama non era affatto un intermediario fittizio e che ciò che gli versò Mediaset era del tutto equo e dovuto ha avuto già numerosi precedenti. In primo luogo Silvio Berlusconi fu condannato per un reato di frode fiscale senza aver firmato alcun bilancio perché non aveva più alcuna carica societaria in Mediaset. Paradossalmente fu assolto Fedele Confalonieri, l'amministratore delegato che nel 2002-2003 aveva firmato il bilancio incriminato. Già quella fu una forzatura di non piccolo conto. Per fatti analoghi Berlusconi era stato prosciolto in sede di indagine preliminare dai gup di Roma e di Milano nel processo Mediatrade. Un gup di Milano aveva dichiarato che non esistevano prove di ingerenza e di intromissione di Silvio Berlusconi negli organi decisionali di Mediaset. La decisione fu confermata da una sentenza della Cassazione stilata da una sezione diversa da quella che ha condannato Berlusconi. Ma nel 2011 anche il gup di Roma riconobbe come prezzi di mercato quelli praticati da Mediaset, considerò normale il profitto realizzato da Agrama, e quindi assolse tutti gli imputati compreso Berlusconi.
MANIPOLAZIONI. Le cose non si fermano qui. Il processo per frode a Berlusconi ebbe una scarsissima attenzione, poiché l'opinione pubblica era distratta dal caso Olgettine, e ciò favorì la manipolazione giudiziaria. Più volte la difesa di Berlusconi lamentò la falcidia dei testimoni a difesa asserendo che, di fronte all'eliminazione di testimoni fondamentali, ci si trovava di fronte allo smantellamento del "giusto processo", essendo essa appunto privata del diritto di produrre prove. Ma ci fu una forzatura anche per evitare che Berlusconi fosse giudicato dal suo giudice naturale, che era la terza sezione della Cassazione, specializzata in reati fiscali, che già aveva assolto Berlusconi il 6 marzo 2013 per accuse simili. Fu presa per buona l'affermazione dell'accusa che la prescrizione scadeva ad agosto, mentre invece essa scadeva a settembre, per mettere insieme in fretta e furia quello che è risultato essere un autentico tribunale speciale. Ma è il punto fondamentale dell'accusa che già allora fu contestato alla radice con argomenti molto forti. Per la Cassazione Agrama era un prestanome, un imprenditore fittizio di Berlusconi: era vero invece esattamente il contrario, Agrama era una controparte autentica per Berlusconi e per Mediaset che invece si avvaleva di un rapporto privilegiato con il capo della Paramount: era Bruce Gordon e non Silvio Berlusconi il vero socio occulto di Agrama, tant' è che egli fu poi allontanato dalla Paramount. Ma Bruce Gordon non fu accettato come testimone dal tribunale. Agrama era pagato con provvigioni dalla Paramount e Mediaset non riuscì mai nel tentativo di scavalcarlo e di trattare direttamente con la major.
LE MOSSE DI FRANK. Le cose non si fermano qui. Nella sua deposizione Guido Barbieri, allora responsabile dell'ufficio acquisti e dirti di Rtl Mediaset, riferì della protesta di Frank Agrama per il calo degli acquisti da parte di Mediaset: Agrama offrì a Barbieri del danaro per incentivarlo ad acquistare i suoi prodotti. Agrama non riuscì in questa operazione corruttiva ma invece, secondo la società di consulenza Kpmg chiamata dal tribunale, staccò rilevanti bonifici nei confronti di 5 funzionari Mediaset proprio per concludere i contratti con la stessa Mediaset: davvero un bel socio occulto di Berlusconi un tipo che pagava i suoi dipendenti alle sue spalle. Tutto ciò conferma che fu costruito un sostanziale tribunale speciale fra tribunale e corte d'Appello di Milano e sezione estiva della Cassazione per colpire definitivamente Berlusconi. Successivamente l'opera è stata completata dalla maggioranza delle Giunta per le elezioni del Senato (Pd, M5S, Sel) che fece ben due forzature: il passaggio dal voto segreto al voto palese per le sue deliberazioni, il rifiuto per una verifica con la Corte Costituzionale visto che ci si trovava di fronte all'attuazione retroattiva di una legge, la Severino, approvata nel 2012, mentre il reato era stato commesso nel 2002-2003. Di conseguenza per ben due volte, nel 1992-1994 con la gestione unilaterale di Mani Pulite e nel 2013 nei confronti di Berlusconi il corso della vita politica italiana è stato deviato da interventi strumentali e forzati posti in essere da alcuni settori della magistratura d'intesa con gli eredi del Pci. In confronto, i magistrati del caso Palamara sono dei ladri di polli che però ben rappresentano una parte della categoria. Ben altre operazioni sono state fatte nel passato con effetti decisivi per la vita politica italiana. Ma forse è anche per questo che tuttora il responsabile giustizia del Pd Verini rifiuta anche lo sdoppiamento delle carriere.
Michela Allegri per ''Il Messaggero'' l'1 luglio 2020. Lo scopo è ottenere la revisione del processo, dimostrando che, nel 2013, quando venne condannato dalla Cassazione per frode fiscale, Silvio Berlusconi non aveva davanti una giuria imparziale, ma «un plotone d'esecuzione» pronto a condannarlo in modo acritico. E per farlo, gli avvocati del Cavaliere hanno arricchito di un nuovo capitolo il ricorso - già pesantissimo - presentato nel gennaio 2014 alla Corte europea dei diritti dell'uomo di Strasburgo. A scatenare il dibattito non ci sono solo gli audio in cui il giudice Amedeo Franco, relatore della sentenza del 2013, parla di un verdetto «manovrato dall'alto» e, appunto, di cecchini pronti a colpire. C'è anche un verdetto del Tribunale civile di Milano che ha negato a Rti e Mediaset di ottenere dal produttore americano Frank Agrama, coimputato del leader di FI prosciolto per prescrizione dall'accusa di appropriazione indebita, 113 milioni di euro. Quel processo è stato perso, ma proprio per questo motivo, secondo gli avvocati, smentirebbe ciò che sostenne 7 anni fa la Cassazione. La condanna per frode fiscale si basava infatti sul presupposto che Mediaset avesse comprato film americani attraverso la finta mediazione di Agrama, pagandoli molto meno di quello che lui fece risultare. La differenza sarebbe stata spartita tra Mediaset - che ha pagato meno tasse - e l'imprenditore, che avrebbe depositato la somma in un conto svizzero. Il Tribunale civile, sottolinea la difesa di Berlusconi, nel negare la restituzione del denaro a Mediaset sostiene che Agrama fosse un vero intermediario e dunque «l'interposizione fittizia contestata nei capi di imputazione non sussiste». Per la Cassazione, invece, la frode consisterebbe nella «perdurante lievitazione dei costi di Mediaset a fini di evasione fiscale». Secondo il collegio difensivo - composto dagli avvocati Franco Coppi, Niccolò Ghedini, Andrea Saccucci e Bruno Nascimbene -, ci sarebbero abbastanza prove per dimostrare che quel verdetto non veritiero. Se la Cedu dovesse dare loro ragione, si spalancherebbero le porte per ottenere la revisione. «I giudici potrebbero non annullare la sentenza, ma individuare eventuali lesioni al diritto di difesa o offrire elementi per un eventuale revisione del processo», ha detto il professor Coppi. Intanto, dopo la diffusione dell'audio di Franco - «Berlusconi ha subito una grave ingiustizia», «hanno fatto una porcheria», «c'è stata una malafede del Presidente» - è arrivata la replica del giudice Antonio Esposito, che presiedeva la III sezione, la III feriale: «Non ho mai, in alcun modo, subito pressioni né dall'alto né da qualsiasi altra direzione», ha detto. Il professore Coppi, invece, ha dichiarato: «Sono sempre stato sorpreso da quella sentenza. Una decisione che andava contro la giurisprudenza che quella sezione della Corte di Cassazione aveva ed ha sempre applicato e che era in favore della tesi di Berlusconi». Una ricostruzione falsa, secondo Esposito: «Non è assolutamente vero che la III sezione avesse adottato in casi analoghi decisioni di segno diverso. È vero esattamente il contrario tant' è che i precedenti della sezione vengono riportati in motivazione». E gli audio di Franco? «Una cosa del genere non mi era mai capitata in tutta la mia lunga carriera - aggiunge Coppi - Il giudice Franco è sempre stato considerato come un magistrato preparato e un galantuomo. È evidente che si sia trovato in minoranza in camera di consiglio, una camera di consiglio dove, a sentire lo stesso relatore, non ci fu neanche discussione». Ma su questo punto il Esposito afferma che «la sentenza fu adottata all'unanimità: Il giudice Franco prese parte, unitamente agli altri componenti, alla stesura della motivazione, approvata all'unanimità, in un'apposita camera di consiglio di cui venne redatto verbale sottoscritto da tutti i componenti che poi sottoscrissero la motivazione firmando ogni foglio della sentenza».
Paolo Colonnello per ''La Stampa'' l'1 luglio 2020. Le munizioni si direbbero pesanti: un verdetto civile di sei mesi fa emesso dal Tribunale di Milano che sembra smentire la sentenza penale con cui nell'agosto 2013 Silvio Berlusconi venne condannato a 4 anni di reclusione per frode fiscale; e l'audio di una registrazione in cui il Cavaliere, parlando con il giudice Amedeo Franco, relatore della causa in Cassazione che poi lo condannò, viene a sapere che a giudicarlo più che una sezione della Suprema Corte sarebbe stato «un plotone di esecuzione» condizionato dall'allora presidente della stessa sezione, Antonio Esposito, manovrato dall'alto. Quanto alto? «Il Presidente della Repubblica lo sa benissimo che è stata una porcheria», sostiene nella registrazione sempre l'ex giudice Franco. I nuovi atti compongono un corposo fascicolo che va ad aggiungersi, come terza memoria integrativa, al ricorso dei legali di Berlusconi pendente ormai da 6 anni davanti alla Corte Europea dei diritti dell'Uomo contro la condanna per la vicenda dei diritti tivù che lo fece decadere da Senatore e lo obbligò a un anno di lavori ai servizi sociali. Una macchia indelebile per il curriculum del Cavaliere mai digerita. Non tutto funziona però per il verso giusto. Intanto il giudice Franco, passando a miglior vita nel corso del 2019, non potrà mai più confermare i contenuti di quella confidenza che venne registrata dal cellulare di Berlusconi alla presenza di altre persone «alcuni mesi dopo il deposito della motivazione della sentenza di condanna», ovvero almeno 7 anni fa. Perché non tirare fuori prima la registrazione e allegarla subito nella primo ricorso alla Corte Europea? «Per rispetto istituzionale», spiegano i legali nella memoria e per non turbare la pensione del giudice. Il quale per altro ci pensò da solo a turbarsela, finendo indagato per corruzione in una vicenda di favori nella sanità privata romana, dove per avvicinare dei colleghi di Cassazione chiese in cambio un certificato per far rifare il seno a un'amica. Le sue dichiarazioni lasciano in eredità un pesante fardello, che verrà discusso nella causa per diffamazione già intentata dall'allora presidente Esposito - diventato nel frattempo occasionale collaboratore de "Il Fatto" - nei confronti di Berlusconi, dopo che lo stesso già l'anno scorso aveva anticipato il contenuto della registrazione in una puntata di «Porta a porta» di Bruno Vespa. Insomma, non esattamente un inedito, visto che sia della sentenza civile che delle dichiarazioni dell'ex giudice Franco, il nuovo «asso nella manica» di Berlusconi, si parlò sui giornali e in televisione. Se non fosse che il nuovo deposito di atti alla Corte europea avviene con un certo fragore (accompagnato da anticipazioni di Rete 4 e dall'apertura di prima pagina de Il Giornale e de Il Riformista) e induce i capogruppo di Forza Italia di Camera e Senato a convocare una conferenza stampa dal sobrio titolo: «Un colpo di Stato giudiziario che ha cambiato la storia della politica italiana», e a chiedere una commissione d'inchiesta parlamentare. C'è poi da rilevare che la sentenza di condanna a 4 anni per frode fiscale, passata ormai in giudicato e ampiamente scontata, arrivò alla fine di un processo denominato "diritti Mediaset" che si riferiva a compravendite fittizie di diritti televisivi fino al 1999 con dichiarazioni fraudolente dei redditi per gli anni 2002-2003 (altre annualità vennero prescritte). Mentre la sentenza civile cui fa riferimento il ricorso dei legali di Berlusconi è relativa al processo "Mediatrade" che vide Berlusconi a suo tempo già prosciolto dal gip. Inchiesta che affrontava le compravendite attraverso l'intermediatore americo-egiziano Frank Agrama dal 2000 al 2005. La causa civile ora agli atti della Corte Europea, venne intentata da Mediaset contro Agrama per ottenere un risarcimento per i diritti che la sua «intermediazione fittizia» gli avrebbe fruttato (110 milioni di euro). Il Tribunale però, concludendo che Agrama non era affatto «fittizio» ha respinto la richiesta di Mediaset e fornito al tempo stesso una nuova arma giuridica a Berlusconi. Magari opinabile ma sufficiente per tornare a dar battaglia.
Silvio Berlusconi, condanna Mediaset-Agrama. La sentenza del 2014 contro il giudice Esposito: "Contrario alla giurisprudenza". Libero Quotidiano il 06 luglio 2020. È la numero 52752 del 2014, la sentenza che discolpa Silvio Berlusconi nel processo Mediaset, a scriverla rivela il quotidiano Il Giornale fu Amedeo Franco, il magistrato che faceva parte anche della sezione feriale che aveva condannato Silvio Berlusconi, e che in camera di consiglio si era battuto contro quella decisione anche se alla fine aveva accettato di firmarla. Lo stesso Franco, deceduto nel 2019, nei giorni scorsi è stato protagonista di alcune intercettazione ambientali, pubblicate da Il Riformista e trasmessa nella trasmissione tv Quarta Repubblica, riaccendendo la polemica sull’intricata vicenda dei diritti tv Mediaset. Un processo concluso nel 2013 in Cassazione con la condanna del Cavaliere per frode fiscale. Ma proprio uno dei giudici chiamati a decidere, Franco, avrebbe definito quella sentenza «una porcheria». Il file audio è stato inviato dai legali di Berlusconi alla Corte europea di Strasburgo insieme a una recente sentenza del tribunale di Milano che offrirebbe un’opposta ricostruzione del caso. E' questa la sentenza di cui parlava in un'intervista al Giornale, Alessio Lanzi, docente universitario di diritto penale, membro laico del Consiglio superiore della magistratura, che come avvocato, ha partecipato fino in appello al processo per i diritti tv (difendeva Fedele Confalonieri, assolto con sentenza definitiva). "Quanto sta emergendo in questi giorni sul processo a Silvio Berlusconi per i diritti tv solleva indubbiamente un caso politico, e pone alla Corte dei diritti dell'Uomo degli elementi di cui non potrà tenere conto. Ma per capire quanto è davvero successo non si può che partire da un dato di fatto: la condanna resa definitiva dalla Cassazione, quella di cui parla il giudice Franco nelle sue registrazioni, fu una sentenza clamorosamente sbagliata dal punto di vista giuridico, basata su invenzioni dottrinali senza precedenti. Una sentenza inventata, che non stava né in cielo né in terra". "Una sentenza assurda dal punto di vista giuridico - sottolinea Lanzi - È questa la matrice iniziale della storia, ed è una matrice devastante perché il cittadino deve poter confidare nella correttezza delle decisioni dei giudici, specie in Cassazione, che ha l'ultima parola. La correttezza in questo caso non vi fu". Perché, osserva Lanzi, "Per condannare Berlusconi, che in Mediaset non aveva cariche, ricorsero a una figura, quella del cosiddetto autore mediato mai comparsa né in primo grado che in appello, e introdussero un concetto, il falso qualitativo delle fatture pagate da Mediaset, che era una cosa mai vista né prima né dopo". Nella sentenza 52752 del 2014 i giudici della terza sezione decisero esattamente il contrario di quello che nell'agosto precedente aveva stabilito la «feriale» presieduta da Antonio Esposito. Per tre volte il verdetto contro Berlusconi venne citato e ribaltato. In Camera di Consiglio con Franco altri quattro magistrati: la presidente, Claudia Squassoni, una veterana della materia; tra gli altri c'era Aldo Aceto, che nel 2019 si candiderà alla presidenza di Autonomia e Indipendenza", la corrente hard di Piercamillo Davigo. "Nessuno di loro si tirò indietro", scrive Il Giornale, "quando nella sentenza si affermò testualmente che la condanna dell'anno prima di Berlusconi era basata su una interpretazione della legge 'assolutamente contraria alla assolutamente costante e pacifica giurisprudenza di questa Corte ed al vigente sistema sanzionatorio dei reati tributari' ".
Stefano Cappellini a Quarta Repubblica: "Gli audio su Berlusconi? C'è una sentenza...". Sallusti e Sansonetti reagiscono. Libero Quotidiano il 07 luglio 2020. "È sbagliato cancellare una sentenza sulla base di un audio", Stefano Cappellini, firma di Repubblica, sfida Nicola Porro e gli altri ospiti di Quarta Repubblica: in studio è l'unico a negare il "ribaltone" sulla condanna di Silvio Berlusconi nel processo Mediaset-Agrama del 2013. Uno dei giudici della Corte di Cassazione che firmarono quel verdetto, Amedeo Franco, ha parlato di "sentenza pilotata dall'alto", mentre alcuni testimoni riferiscono come il presidente della Corte, Antonio Esposito, manifestasse più volte pubblicamente il proprio odio politico verso il leader di Forza Italia ("Una chiavica, gli devo fare il mazzo"). Audio e video che Porro ha mandato in onda dalla scorsa settimana, scatenando un inferno politico. Ma Cappellini fa spallucce: d'altronde, per Repubblica ammettere lo scandalo giudiziario significherebbe dover ritrattare 25 annni di scatenata linea editoriale giustizialista. "Bisogna prendere l'audio non come una verità assoluta, so che c'è una sentenza di cui se ne sono occupati tanti giudici e non solo quello", spiega Cappellini arrampicandosi un po' sugli specchi. Di fronte all'evidenza negata, al direttore del Giornale Alessandro Sallusti non resta che usare un'amara ironia: "Se non fosse stato per altri colleghi più curiosi di Cappellini, Tortora sarebbe morto in carcere", Poi, dritto al punto: "Credo che sia ineluttabile che la storia venga riscritta. Uno dei partiti di maggioranza del governo e la stampa di sinistra sono stati complici di questo complotto e non agevoleranno questo. Avete costruito la vostra fortuna su questo, non volete ammettere di avere sbagliato!". Anche Piero Sansonetti, direttore del Riformista che per primo ha pubblicato le carte su Franco ed Esposito, incalza il collega: "Ci troviamo di fronte ad un evento politico clamoroso, e come mai dobbiamo star zitti? Scopriamo che quel processo era fasullo e sappiamo oggi che la magistratura italiana è marcia. Lo Stato di diritto è stato travolto!".
Alessandro Sallusti a Quarta Repubblica: "La condanna di Berlusconi, una sentenza taroccata. Ci hanno preso per il culo". Libero Quotidiano il 07 luglio 2020. Una "sentenza taroccata". Alessandro Sallusti non usa mezzi termini: in collegamento con Nicola Porro a Quarta Repubblica, si parla ancora della condanna di Silvio Berlusconi nel processo Mediaset-Agrama del 2013. Porro manda in onda le testimonianze di alcuni dipendenti di un hotel secondo cui il giudice della Cassazione che condannò il leader di Forza Italia, Antonio Esposito, era solito confessare il proprio odio politico per l'ex premier ("Gli devo fare il mazzo", era una frase ripetuta più volte dalla toga). "Abbiamo testimoni che ci dicono che quel giudice era prevenuto - incalza il direttore del Giornale -, non ci viene in mente di dire che forse qualcuno ci ha preso per il culo?". E a Stefano Cappellini, firma di Repubblica, il giornale che forse più di tutti ha cavalcato i guai giudizari di Berlusconi, Sallusti ricorda: "Avete costruito la vostra fortuna su questo, non volete ammettere di avere sbagliato!".
“Berlusconi fucilato dallo stesso plotone che fece fuori Craxi”, l’accusa di Claudio Martelli. Aldo Torchiaro su Il Riformista l'1 Luglio 2020. Claudio Martelli, oggi direttore de l’Avanti!, è tra i grandi testimoni del terremoto di Mani Pulite. Vicesegretario del Psi nel culmine della vicenda politica della Prima Repubblica, quattro volte deputato, due eurodeputato, è stato Ministro della Giustizia dal febbraio 1991 al febbraio 1993 e in precedenza Vice presidente del Consiglio dal 1989 al 1992. Si avvalse della amicizia e della collaborazione di Giovanni Falcone, che portò con lui al Ministero. «Il plotone di esecuzione per Berlusconi? Lo conosciamo bene, è quello che ha preso la mira su di noi nel 1993, decidendo di far fuori una classe politica», dichiara al Riformista. «Magistrati animati da un interesse politico: Berlusconi è stato l’italiano più perseguitato della storia. Non so più quante indagini, ispezioni, iniziative giudiziarie ha subìto nella vita. Doveva essere eliminato dalla scena politica, e alla fine sono riusciti a eliminarlo. Con processi-farsa, come oggi apprendiamo dalla viva voce degli artefici».
«Vittima di un teorema ordito a tavolino, come Craxi. Anche Craxi e io siamo stati messi nello stesso mirino. Dovevano farci fuori dalla scena pubblica, e ci hanno dato la corsia preferenziale. Dovevamo essere processati subito, platealmente. Dunque il metodo del plotone d’esecuzione si era perfezionato con noi, e i soggetti d’altronde erano gli stessi: la Procura di Milano. Siamo davanti a un audio che parla di sentenza pilotata ad arte. Non c’è una novità vera, erano cose note. Adesso però c’è il corpo del reato. È lì, steso sul tavolo anatomico. Registrazioni, ammissioni. Intanto a Berlusconi è stata fatta una guerra mortale.
Per agevolare qualcuno o per sostituirsi alla classe dirigente?
«Per fare il proprio gioco. I pm non aiutano questo o quel partito, i pm sono un partito. Borrelli all’apice di Mani Pulite fece sapere al presidente della Repubblica di “essere a disposizione” per formare un governo. Di Pietro formalizzò la cosa costituendo un partito e facendo il ministro. Mentre una classe dirigente intera scomparve».
Qual è stato a suo avviso il disegno?
«Tenere in scacco la politica, comportandosi da eversori che si sostituiscono alle istituzioni democratiche, tenute a bada con minacce e ricatti».
Il golpe giudiziario.
«Dove le toghe sostituiscono le divise. In Sud America le forze armate tengono sotto controllo le istituzioni facendo quello che chiamano “un poquito de fracaso”. Accendono i carri armati e li fanno andare avanti e indietro nelle caserme. Non ne escono, ma mettono paura: i politici capiscono e abbassano la testa. Da noi non le forze armate ma la magistratura ha usato il “fracaso” per far sentire il suo potere. Le sirene delle volanti. Il tintinnar di manette».
Quello che un pm chiama “il momento magico”, il terrore.
«Il terrore idealizzato da quel pm era quello che si doveva far vivere durante gli interrogatori. È il momento magico che arriva quando l’indagato, pur di uscirne, è disposto ad accusare anche sua madre. Una idea di giustizia che dovrebbe far orrore a chi ha a cuore la civiltà giuridica».
Una deriva che ha fracassato generazioni di competenti, regalandoci improvvisatori e populisti.
«Alla fine lo ha detto lo stesso Borrelli, nel 2012: “Dobbiamo chiedere scusa agli italiani, non valeva la pena buttare il mondo precedente per cadere in quello attuale”. La confessione di chi capisce di aver compiuto un colossale errore. Hanno distrutto la politica dei vecchi partiti e si sono trovati Berlusconi in campo. Allora hanno iniziato questa guerra a Berlusconi e si trovano con i populisti».
Dal punto di vista moderato, far la guerra a Berlusconi ha spianato la strada a Salvini.
«Questo non l’avevo mai pensato, potrebbe aver ragione. Ma come conseguenza involontaria. Perché hanno provato, come emerge dalle intercettazioni di Palamara, anche ad attaccare Salvini in maniera altrettanto pregiudiziale. E quel ragionamento ha messo in luce in modo eloquente la natura della regìa politica».
Qual è?
«“Salvini ha ragione – diceva Palamara – Ma noi lo dobbiamo fermare”. Perché risponde a un ordine politico. La concezione del diritto di Palamara e di tanti come lui è quella per cui Salvini, quando chiude i porti e nega lo sbarco ai migranti, ha ragione. Ma comunque va combattuto e abbattuto per convenienza politica. Nella premessa c’è un contenuto autoritario, e nella conclusione c’è un contenuto eversivo. E dove è finita la giustizia?»
Non è troppo stupito neanche dal caso Palamara.
«Di porcherie ne succedevano tante, anche all’epoca. Questo bubbone che adesso è esploso, esiste da un pezzo. Oggi c’è il trojan e quindi migliaia e migliaia di intercettazioni. La prova provata del come si comportano le correnti. Adesso tutti, da Mattarella al comune cittadino, parlano di correntismo degenerato. Mi domando: ma non era già successo trent’anni fa? È un sistema sbagliato in radice. E non è un caso Palamara, lo dico senza simpatie per il soggetto in questione. È un problema di sistema. Non mi piace, per cultura politica ed esperienza diretta, chi semplifica tutto riportando a un capro espiatorio».
Lei è stato Ministro della Giustizia dal ‘91 all’inizio del ‘93. C’erano le correnti anche allora.
«Quando ero ministro toccai con mano la realtà di un mondo refrattario a qualsiasi intervento di governo politico, e dunque a qualunque riforma».
Avrebbe potuto fare di più?
«Scrissi una lettera all’allora presidente della Repubblica Cossiga, dal Ministero in Via Arenula. Sollevavo la questione dell’Anm, che allora aveva come presidente Raffaele Bertoni, di Magistratura Democratica. L’Anm è una associazione privata, non un organo dello Stato. Ma decide per i due terzi dei membri del Csm, i membri togati. E in base a quale legge? A quale attribuzione di potere? Chi lo ha stabilito che i magistrati vanno a governare il Csm secondo quel che decide una associazione di tipo sindacale, di diritto privato?»
Non la presero bene.
«No, fu l’inizio della fine. Mi misero nel mirino. Quando feci la Superprocura, o Procura Nazionale Antimafia, Bertoni disse che di una Superprocura antimafia non si sentiva il bisogno: “Non abbiamo bisogno di un’altra cupola mafiosa”. Ci fu lo sciopero nazionale della magistratura e partì una campagna forsennata contro Falcone, accusato di essersi letteralmente venduto a Claudio Martelli. E questo non da parte di agitatori politici, ma di membri del Csm. Che allora io accusai di essere degli infami. Mi querelarono, si andò a processo. In primo grado persi, stabilendo così il diritto da parte della giustizia italiana di definire Falcone “un venduto”. Poi in appello vinsi io».
Iniziò così la guerra Procure-Martelli, la prima battaglia contro il Psi?
«La tesi di fondo era che Martelli intendeva ottenere la subordinazione dei Pm al ministro della Giustizia. Me la fecero pagare cara. Ma sono ancora qui a esporre le mie idee, e lo ripeto oggi: come è possibile che una associazione privata, l’Anm, decida la composizione dei due terzi togati del Csm? Dire correntismo degenerato vuol dire Anm degenerata. Se l’Anm fa e disfa le condotte di un organo costituzionale, siamo in una situazione eversiva, e ci siamo da decenni. Si vuole prendere atto e adottare i rimedi necessari? Si possono prendere in considerazione tutte le ipotesi di riforma, finanche il sorteggio. Non cambia la sostanza: il Csm per due terzi è un prolungamento dell’Anm. E l’Anm è degenerata perché sono degenerate le sue componenti».
Che pure avrebbero avuto il compito di aggiornare, aprire la giurisdizione in senso pluralistico.
«Un conto è l’associazionismo che discute, che anima visioni diverse del diritto. Ma la cabina di regia interna che decide tutto è una follia. E questa presunzione di onnipotenza ha generato la visione folle che confonde legalità e giustizia, una follia contro la civiltà del diritto. Il diritto vive nella tensione costante tra un ideale di giustizia, che è quella dei diritti naturali e la legislazione vigente. Se quest’ultima viene messa sull’altare e diventa intoccabile, la civiltà è finita».
E oggi siamo a quel punto.
«Ci siamo da un bel po’. Quando i magistrati definiscono la magistratura come il corpo che “assicura il controllo della legalità”, siamo usciti di chilometri fuori dal seminato. La magistratura deve reprimere l’illegalità, non prevenire con teoremi astratti le eventuali condotte illegali ancora ignote. Siamo davanti a una furia ideologica dalla quale nascono mostri».
L’Anac è uno di questi mostri?
«Cantone è un bravissimo magistrato, ma mi domando in quale mondo un magistrato diventa il controllore preventivo che scongiura i mali a venire. In quale mondo esiste un Anac che previene i reati? Se fossimo un Paese serio, l’Anac andrebbe sciolta domani mattina. La prevenzione sugli appalti non è compito dei giudici, i magistrati giudicano dopo aver accertato che un reato è stato compiuto».
A proposito. Giovanni Falcone non fece in tempo a lavorare sull’indagine Mafia-appalti, rimasta nel mistero.
«Con Giovanni ci volevamo bene, abbiamo fatto cose straordinarie. E su Mafia-Appalti voleva vederci chiaro. Mi parlò più volte di quella indagine dei Ros, che lui voleva sviluppare in sede giudiziaria, era un suo tarlo. Un giorno accadde un fatto davvero strano».
Quale?
«Il procuratore di Palermo, Giammanco, mi fece arrivare un plico con una lettera accompagnatoria e i documenti fino a quel momento acquisiti sull’inchiesta Mafia-Appalti. Lessi i destinatari: lo stesso giorno venne consegnato a me, come ministro della Giustizia, all’allora presidente del Consiglio Andreotti e al presidente Cossiga. Chiamai Falcone, mi disse: non aprire neanche. La sola cosa da fare è rimandare il plico in Procura a Palermo, intonso. È la Procura che deve decidere se attivare l’azione penale oppure no. Rimandammo il plico chiuso. Da allora non ne seppi più niente».
Da Tangentopoli a oggi l’uso politico della giustizia fa vincere Lega e M5S. Fabrizio Cicchitto su Il Riformista l'8 Luglio 2020. Adesso è tutto definitivamente sul tavolo: dal 1992 ad oggi sono cambiati i bersagli, ma è rimasto in piedi un circo mediatico, giudiziario, partitico che ha manipolato la vita politica italiana a colpi di avvisi di garanzia, di arresti, di titoli dei giornali, di trasmissioni televisive. Il circo è composto da alcune procure (in primis quella di Milano), poi da alcuni cronisti giudiziari talora con annessi direttori, quindi da alcune trasmissioni televisive, infine da una parte del Pci-Pds-Pd. Alle origini c’è la scelta del gruppo dirigente del Pds, comunicata da Chiaromonte a Craxi, a Renato Altissimo, ad altri esponenti politici. Dopo il 1989 e il cambio del nome, “i ragazzi di Berlinguer” avevano davanti a loro una strada maestra, quella di raccogliere la prospettiva avanzata dai miglioristi (Napolitano, Chiaromonte, Macaluso, Ranieri, Cervetti) e di dare al cambio del nome una profonda sostanza politica, trasformando il Pds in un partito laburista-socialdemocratico e conseguentemente di realizzare l’unità con il Psi di Craxi costruendo così un’alternativa democratica alla Dc. Invece nel cuore del Pci-Pds c’era l’ipoteca berlingueriana fondata sul rifiuto dell’omologazione socialdemocratica, sulla scelta di una pregiudiziale antisocialista e su un’alternativa a tutto e a tutti basata sulla questione morale. Allora Chiaromonte comunicò che “i ragazzi di Berlinguer” avevano scelto la “via giudiziaria”. Craxi ebbe il torto di non capire le implicazioni di quella comunicazione e nel 1991 raccolse l’appello di D’Alema e Veltroni di non provocare le elezioni anticipate in quell’anno. Craxi riteneva che comunque la forza della politica era tale che si sarebbe affermata l’unità socialista fra il Psi e il Pds. In effetti D’Alema e Veltroni volevano solo guadagnare tempo in attesa di tempi migliori. I tempi migliori furono offerti dalla decisione di una parte dei poteri forti di questo paese di non accettare più la mediazione della politica nelle decisioni fondamentali e anche di far saltare il sistema di Tangentopoli che vedeva associati tutti i grandi gruppi imprenditoriali-finanziari-editoriali e tutti i partiti senza eccezione alcuna perché esso, dopo il trattato di Maastricht, era diventato antieconomico. Al decollo di Mani Pulite non c’era il Pds. Al decollo c’era il pool dei Pm di Milano, più i direttori dei quattro principali giornali (che si consultavano ogni sera alle 19), più il Tg3 e Samarcanda, più in un secondo tempo le reti di Berlusconi che voleva evitare di fare la stessa fine di Ligresti, imprenditore amico di Craxi. Per qualche tempo Borrelli accarezzò il sogno che il presidente della Repubblica Scalfaro avrebbe chiamato a dirigere il paese proprio “i magistrati senza macchia e senza paura”. Quando questo sogno si rivelò impraticabile, all’operazione Mani Pulite fu associata l’ala post-berlingueriana del Pds (mentre alcuni miglioristi passarono guai seri) che aveva nel pool come punto di riferimento il viceprocuratore D’Ambrosio, che non a caso emarginò Tiziana Parenti, che voleva perseguire anche il finanziamento irregolare del Pci-Pds. Così il Pds fu letteralmente salvato nel processo Enimont, quando risultò che Gardini si era recato in un incontro con i massimi dirigenti del Pds in via delle Botteghe Oscure portando una valigetta con dentro un miliardo. «E che potevo mandare un avviso di garanzia al signor PCI?», osservò il garantista Di Pietro, successivamente (vedi i casi della vita) eletto deputato nel collegio del Mugello nelle liste del Pds. Che il pool facesse politica in modo assai spregiudicato è dimostrato dal trattamento riservato a Berlusconi. Nel ’92-’93 Berlusconi non ebbe alcun guaio giudiziario. Contro di lui si è scatenato l’inferno quando decise di scendere in politica fondando Forza Italia e quindi offrendo un soggetto politico a quell’area moderata, liberale, riformista alla quale il pool aveva tolto ogni punto di riferimento politico tradizionale. Da allora Berlusconi ha totalizzato circa 70 processi, Mediaset è stata bombardata, molti dirigenti Mediaset sono stati perseguiti. Così per lunghi anni la vita politica italiana è stata caratterizzata non da un’alternanza di tipo europeo fra un grande partito socialdemocratico e un grande partito moderato-conservatore, ma da un’alternativa del tutto anomala fra un partito post-comunista sostenuto da alcune procure attraverso l’uso politico della giustizia e un leader carismatico capace di costruire consenso sia grazie alla sua capacità di coalizione (il centro-destra, il PdL, etc.) sia grazie al suo conflitto di interessi. Per quello che ci riguarda non abbiamo esitazione nel dire che siccome la coalizione Pds-Margherita-procure aveva in sé forti contenuti autoritari e illiberali, per tutta quella fase Berlusconi, con tutti i suoi difetti e contraddizioni, ha comunque svolto un positivo ruolo liberale. La fase finale di quello scontro è stata segnata appunto dal processo Mediaset, dalla condanna di Berlusconi, dalla crisi economica e politica del 2011, dal governo Monti. Cosa è derivato da quell’ulteriore salto di qualità nell’uso politico della giustizia, combinato insieme con la crisi finanziaria del 2010-2011? I risultati elettorali prima del 2013 e poi del 2018 sono la conseguenza di tutto ciò. L’efferato uso politico della giustizia, combinato con le difficoltà economiche, ha messo in crisi anche la dialettica della Seconda Repubblica, quella fra Forza Italia e il Pd, ha certamente ridimensionato Forza Italia che ha pagato sia i suoi errori politici, sia gli ingiusti colpi giudiziari inflitti al suo leader, ma ha ridimensionato anche il Pd (chi è causa del suo mal pianga sé stesso) e ha prodotto l’affermazione da un lato di una forza populista, giustizialista, antiparlamentare, antindustriale qual è il M5s, e dall’altro nel centro-destra della Lega a guida Salvini, ben diversa dalla Lega Nord, una forza sovranista, razzista, che punta a fare il pieno anche dei voti di estrema destra “civettando” con i suoi “valori”. Per di più le intercettazioni derivanti dal trojan di Palamara hanno messo in evidenza a quale degrado è andata incontro la magistratura combinando insieme i rapporti incestuosi con la politica e il carrierismo. Tutto ciò accade mentre è in atto la più grave crisi di natura sanitaria, antropologica ed economica che l’Italia ha affrontato dalla fine della Seconda Guerra Mondale. Per quello che ci riguarda non abbiamo esitazione nel dire che l’uso politico della giustizia dal 1992 ad oggi è stato un autentico virus che ha corroso e degradato la vita politica italiana e le istituzioni. Adesso è squadernato davanti a tutti quello che è avvenuto per emarginare Berlusconi, ma l’effetto parallelo è stato anche l’affermazione di forze distruttive come la Lega e il M5s. Che in una situazione di questo tipo l’on. Verini, responsabile giustizia del Pd, risponda difendendo le sentenze e rifiutando la riforma della magistratura con la separazione delle carriere mette in evidenza che una parte del partito democratico è sordo e cieco, ancora servo sciocco della parte più integralista della magistratura. Ma forse questa cecità deriva anche dai numerosi servizi ricevuti con i salvataggi di esponenti del Pds-PD. La “grazia ricevuta” è una categoria dello spirito e anche della politica.
"Sentenza Mediaset pilotata? La ricostruzione è verosimile". Il presidente dei penalisti: le frasi di Franco non sono assurde. Rischio palude per il ricorso di Berlusconi in Ue. Luca Fazzo, Domenica 05/07/2020 su Il Giornale. Magari ha ragione Berlusconi, e le due carte sfoderate dai suoi difensori davanti alla Corte europea dei diritti dell'Uomo - le ammissioni del giudice Amedeo Franco e la recente sentenza del tribunale civile di Milano - sono la dimostrazione finale del complotto politico che nel 2013 ha portato alla sua condanna. O magari, chissà, hanno ragione i suoi detrattori, come Magistratura democratica o il Fatto quotidiano, secondo i quali né una prova né l'altra scalfiscono le prove raccolte contro l'imputato e ritenute sufficienti in tre gradi di giudizio. Per sapere chi ha ragione, basterebbe aspettare la decisione della Corte di Strasburgo. Proprio qui, però, sta il problema. Perché la Corte ha una vecchia, consolidata abitudine: impiegare anni ed anni a emettere le sue decisioni, con il risultato che spesso le sentenze arrivano a cose fatte, quando il condannato ha ormai finito di scontare la pena di cui denuncia l'ingiustizia, o quando le conseguenze che ha patito sono comunque irreversibili. È già accaduto all'ex agente segreto Bruno Contrada, avverrà quasi certamente a Marcello Dell'Utri. Ed è già successo allo stesso Silvio Berlusconi, che vide il suo ricorso contro la legge Severino venire inghiottito dalle brume alsaziane: quando finalmente, dopo un'attesa di cinque anni, venne fissata l'udienza, il Cavaliere aveva ormai finito l'affidamento ai servizi sociali, e preferì rinunciare. Ora ci sono tutti i presupposti perché si ripeta la stessa scena. Oggi come allora, la Corte presieduta dall'islandese Robert Spano non ha alcuna intenzione di concedere corsie preferenziali al nuovo ricorso di Berlusconi, che così resta affogato nella interminabile lista d'attesa. Incredibilmente, dopo sei anni, la Corte non ha nemmeno notificato gli atti al governo italiano; nè si sa se dovrà occuparsene una sezione ordinaria o, come nel 2018, il fascicolo verrà assegnato alla Grand Chamber: e in quel caso, i tempi si allungheranno ulteriormente. I criteri di precedenza della Cedu sono imperscrutabili, nell'udienza del prossimo 7 luglio verranno discussi ricorsi più vecchi di quello del Cav, che porta il numero 8683/14 (come quello di tre poliziotti bulgari che aspettano da quasi dieci anni) ma anche casi ben più recenti, come quello di quattro contadini maltesi contro l'esproprio dei loro terreni (fascicolo 36318/18). Misteri della giustizia europea. E poco conta che le novità poste alla base della nuova memoria siano state giudicate attendibili nei giorni scorsi anche da fonti autorevoli: da ultimo ieri il presidente nazionale delle Camere penali, Gian Domenico Caiazza, che interviene duramente come chi, all'interno della magistratura, pretende che la confidenza del giudice Franco a Berlusconi «debba essere valutata solo nel senso che quel giudice fosse sotto ricatto o corrotto, e non anche che abbia potuto raccontare una clamorosa verità». «Questa storia - aggiunge Caiazza - di una vicenda giudiziaria pesantemente orientata alla eliminazione politica di un protagonista della vita pubblica, nessuno ancora sa se sia vera, ma siamo tutti, ma proprio tutti, certi che sia almeno verosimile. Non c'è una sola persona di buon senso, sia tra gli addetti ai lavori che tra la gente comune che, ascoltata la voce (spregiudicatamente registrata) di quel giudice da tutti apprezzato e stimato, possa sinceramente trasecolare di fronte al quadro ed al contesto politico-giudiziario che il giudice Franco ha delineato, e dire: ma di quale assurda follia costui sta parlando?». Si vedrà se a Strasburgo ascolteranno voci come quella di Caiazza. Ammesso che, prima o poi, si decidano a fissare l'udienza.
I cinque danni della caccia a Berlusconi. Marcello Veneziani su La Verità il 2 luglio 2020. Allora era vero. Era proprio vero che ci fosse un complotto, un linciaggio giudiziario-mediatico e una campagna pianificata contro Berlusconi per cacciarlo dal governo a cui era arrivato col voto popolare. Dunque non era complottismo, non era vittimismo, non erano fake news, non era campagna di fango e veleni contro i magistrati e i purissimi missionari della legalità. Con Berlusconi ieri, come con Salvini oggi, le intercettazioni dicono che realmente in Italia c’è stata e c’è ancora una filiera rossa e una cupola nerotogata di magistrati fanatici che ha messo in piedi una macchina persecutoria, giudiziaria e mediatica, per colpire “la destra” e chiunque non fosse conforme al disegno egemonico del potere rosso-nero togato. Probabilmente la stessa cosa era accaduta anche al tempo di Tangentopoli e prima ancora al tempo delle trame nere. Motivazioni extra-giudiziarie hanno mosso non pochi magistrati. Ideologiche, politiche, egemoniche, viscerali. Non dicemmo allora e non diciamo oggi che Berlusconi fosse immacolato e che non ci fossero ombre nella sua vita d’imprenditore; diciamo ora e dicemmo allora che l’accanimento giudiziario contro di lui fu un mezzo golpe e i suoi punti oscuri non erano più vasti né più scuri di quelli della grande imprenditoria italiana, a partire dai massimi capataz. Non sbagliammo a definirlo un golpe, semmai a definirlo mezzo. Quel che non vogliono capire gli ottusi e velenosi questurini del giornalismo, è che a Berlusconi i giudici facevano pagare non i reati commessi, effettivi, gonfiati o presunti che fossero, ma la sua collocazione politica e il fatto di guidare con vasto consenso popolare una coalizione di centro-destra al governo, facendo saltare il loro piano egemonico. Ma entriamo più nel dettaglio storico. Ci furono cinque effetti nefasti di questa persecuzione, oltre quelli che hanno colpito direttamente Berlusconi. Il primo effetto fu di generare un clima d’odio, di violente contrapposizioni, di caccia all’uomo da cui non ci siamo più liberati. Quello stesso clima che gli stessi beneficiari ora rovesciano attribuendolo alla “destra”, sovranista e a Salvini. In odio a Berlusconi si spaccava il paese, si creavano conflitti etnici tra berlusconiani e anti, si rompevano rapporti e dialoghi. Una guerra civile strisciante che rese impossibile una patria condivisa e di cui scontiamo ancora le conseguenze e i remake antiSalvini. Il secondo effetto fu quello, lampante, che falsò la democrazia, la rese “corretta” e drogata dalle sentenze e dal clima giudiziario. Non c’era verdetto elettorale che non fosse deviato o neutralizzato attraverso la campagna giudiziaria e poi mediatica che ne conseguiva. Abbiamo vissuto sotto una democrazia sorvegliata, sotto schiaffo, sotto ricatto, dei giudici a colpi e dei loro affini. Non c’era voto che non fosse poi ribaltato o delegittimato a colpi di indagini. Il terzo effetto fu spostare le attenzioni del paese, e del mondo sul nostro paese, sul tema Berlusconi, Corruzione & Puttanopoli. Anziché curarsi della realtà e dei suoi veri problemi, delle crisi internazionali ed economiche, il nostro paese è stato per anni pilotato a occuparsi e dividersi sulla vita privata di Berlusconi, o al più su quella passata di imprenditore. Il discorso pubblico era monopolizzato dalle domande su Berlusconi: faceva sesso con le minori, i bunga bunga erano orge o solo festini, nel lettone di Putin si consumavano copule seriali o solo millanterie. Un paese ipnotizzato da questi fatui problemi privati, gonfiati da media, tribunali e sinistre; e questo rimbalzava all’estero al punto da identificarci e squalificarci come il paese del bunga-bunga. Il quarto effetto fu l’ondata di fango con cui si seppellì chiunque sostenesse che ci trovavamo davanti a un golpe giudiziario. Anche chi berlusconiano non era stato mai ma s’indignava per la caccia all’uomo e l’uso mafioso e fazioso della magistratura e della stampa, veniva accusato di servilismo, di complicità prezzolata, di campagne diffamatorie. E se scrivevi sui giornali berlusconiani perché non trovavi spazio con le tue idee nei giornaloni della casta e dei poteri forti, eri accusato di essere al suo soldo e perciò lo difendevi. Era esattamente il contrario: con quelle idee trovavi posto solo da quelle parti. Se eri pure di destra, e non di quella destra che dice: “però è meglio la sinistra”, poi non ne parliamo…Il quinto e ultimo effetto ha riguardato invece direttamente i magistrati, o meglio il rapporto tra la giustizia e gli italiani. Al tempo di Borsellino e di Falcone erano ai vertici del prestigio e della stima popolare, oggi sono caduti in basso a colpi di sentenze, processi manipolati, campagne persecutorie, indulgenze verso i loro protetti. Ma l’auto-delegittimazione della magistratura, l’auto-squalifica, è un costo pesante per un paese che non ha più fiducia nella magistratura, nelle sentenze. Più di mezza Italia considera la magistratura, o per dir meglio il nucleo rosso-militante che l’ha egemonizzata, come una vera e propria associazione mafiosa. Il paese ha perso fiducia nella giustizia, ha trovato alibi all’illegalità. Alla fine l’attacco della magistratura ha colpito al cuore non un governo ma lo Stato. Colpa imperdonabile. Resta da capire il rapporto di questa cupola togata con la politica, con le istituzioni, con il Quirinale. Da capire le collusioni, le connivenze, le omertà, le coperture reciproche. Mi auguro infine che queste cose non escano ora alla luce per indurre Berlusconi a dare una mano al governo in carica o al partito del Mes o sul Quirinale, in cambio della sua riabilitazione politica e della sua agevolazione imprenditoriale. Mi auguro che non siano o non diventino oggetto di baratto, di scambio: tu molli i sovranisti, e fai saltare la loro maggioranza, in cambio sarai riabilitato e avrai una serie di vantaggi e riconoscimenti. Insomma, non vorrei che la sconfessione pubblica di un’infamia passata serva a mettere in piedi un’infamia futura. MV, LA Verità 2 luglio 2020
Berlusconi scrive al Riformista: “Non chiedo risarcimenti, voglio la verità”. Redazione su Il Riformista il 3 Luglio 2020. Quando mi hanno detto che il giudice Franco voleva incontrarmi, la cosa mi ha stupito ed anzi contrariato: non desideravo riaprire in nessun modo una vicenda che mi aveva profondamente ferito sul piano umano prima ancora che su quello pubblico. In quei mesi stavo seriamente pensando di lasciare tutto – prima di tutto la politica – e di tornare a dedicarmi ad attività umanitarie in Africa con Don Luigi Verzé, come avevo cominciato a fare dopo che il nostro ultimo governo, era stato costretto alle dimissioni da una manovra di palazzo. Alcuni amici e collaboratori mi convinsero a ricevere il magistrato: insistettero sul dovere che avevo di fare tutto il possibile per fare chiarezza su quella vicenda, nei confronti dei tanti che non avevano mai smesso di credere in me, nelle mie idee, nel mio onore di cittadino, di imprenditore e di politico. Quella che venne da me a palazzo Grazioli era una persona molto diversa da quella che mi aspettavo: ebbi l’impressione di un uomo schivo, di un uomo che provava una grande difficoltà di esprimersi, ma soprattutto di un uomo dimesso tormentato da una grave crisi di coscienza. Un uomo combattuto fra la sua onorabilità di magistrato, il dovere di servire la legge e le legittime preoccupazioni per le ritorsioni che avrebbe potuto subire da parte di qualche collega molto potente, che godeva di protezioni ancora più potenti. Per questo lo rassicurai sul fatto che non avrei reso pubblico il contenuto del nostro colloquio fino a quando quei rischi fossero stati reali. Non volevo mettere in difficoltà quella che mi sembrava una persona perbene che era stata costretta ad un comportamento che gli ripugnava. Non potevo però tenere nascosta una notizia così grave nelle sedi istituzionalmente competenti, in questo caso la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, alla quale si erano rivolti i miei difensori per chiedere giustizia su una sentenza profondamente iniqua, insostenibile nelle sue motivazioni e adottata con una procedura anch’essa iniqua e del tutto anomala. In alcune circostanze pubbliche ho anche accennato a queste notizie che mi erano pervenute, senza mai venir meno all’impegno che avevo preso di mantenere riservata la fonte e i contenuti precisi. Parlo di un impegno con me stesso: il giudice Franco non mi aveva chiesto nulla, nessuna garanzia e ovviamente nessuna contropartita – una richiesta che del resto non avrei neppure preso in considerazione. L’anno scorso quando ebbi notizia della sua scomparsa ne sono stato sinceramente dispiaciuto. Mi era parso una persona perbene, che aveva compiuto nei miei confronti un gesto assolutamente gratuito e per lui rischioso. Uno gesto che forse servirà non a risarcire me, ma a ricostruire la verità storica, a gettare luce su una grave anomalia del nostro sistema giudiziario e su una grave alterazione della democrazia rappresentativa nel nostro Paese. Per questo alla fine, su insistite richieste dei miei difensori, ho reso noti i contenuti di quella conversazione, e ringrazio un giornale coraggioso e libero come il Riformista per averli diffusi. Credo che ristabilire la verità sia nell’interesse non solo di Forza Italia o mio personale, ma di tutti gli italiani, di tutte le parti politiche ed anche della maggioranza dei magistrati, che non meritano di essere accomunati ai comportamenti scorretti di colleghi ideologicamente orientati che esercitano un grande potere. Sono convinto che l’Associazione Nazionale Magistrati, se volesse veramente tutelare la magistratura italiana come merita, dovrebbe essere la prima a sostenere la nostra richiesta di verità.
“Uso politico della giustizia nel processo Mediaset contro Berlusconi”. Giulia Merlo su Il Dubbio il 30 giugno 2020. L’audio rubato a uno dei togati di Cassazione riapre la vicenda della condanna dell’ex premier. È ancora il tempo delle ombre, sulla magistratura. In piena burrasca per il caso Palamara e investite dal sospetto di un “sistema” fatto di nomine pilotate e scambi di favori, le toghe sono finite al centro di una nuova tempesta: la notizia arriva dal passato, quando sette anni fa la Cassazione confermò la condanna all’allora leader del centrodestra Silvio Berlusconi nel processo Mediaset, determinandone l’espulsione dal Parlamento per effetto della legge Severino. Una condanna, quella, su cui oggi scende il velo della possibile sentenza politica. In una registrazione audio pubblicata da “Il Riformista” e da “Quarta Repubblica”, infatti, su sente il magistrato Amedeo Franco, relatore in Cassazione nel processo Mediaset e morto nel 2019, definirlo «un plotone di esecuzione». E ancora: «Berlusconi deve essere condannato a priori perché è un mascalzone! Questa è la realtà… A mio parere è stato trattato ingiustamente e ha subito una grave ingiustizia… L’impressione è che tutta questa vicenda sia stata guidata dall’alto», dice la toga in un colloquio dopo la sentenza, avvenuto in presenza dello stesso Berlusconi e di altri interlocutori, uno dei quali ha registrato tutto all’insaputa del giudice e solo ora ha reso pubblico l’incontro. «In effetti hanno fatto una porcheria perché che senso ha mandarla alla sezione feriale? Voglio dirlo per sgravarmi la coscienza, perché mi porto questo peso del… ci continuo a pensare. Non mi libero… Io gli stavo dicendo che la sentenza faceva schifo», poi l’ammissione: «Sussiste una malafede del presidente del Collegio, sicuramente». Secondo Franco, infatti, il magistrato Antonio Esposito (presidente della sezione feriale della Cassazione che emise la sentenza di condanna del 2013) avrebbe subito pressioni perchè il figlio, anche lui magistrato, era indagato dalla Procura di Milano «per essere stato beccato con droga a casa di…». Dunque, la conclusione del colloquio è che «si poteva cercare di evitare che andasse a finire in mano a questo plotone di esecuzione, come è capitato, perché di peggio non poteva capitare». La smentita da parte del giudice Esposito è arrivata immediatamente: «Non ho in in alcun modo subito pressioni né dall’alto né da qualsiasi altra direzione», ha detto la toga, definendo le notizie «Gravissime e diffamatorie insinuazioni» e anticipando che «verranno adite tutte le competenti Autorità nei termini di legge». Eppure, l’ammissione per bocca dello stesso giudice relatore e addirittura l’ipotesi di pressioni per condannare Berlusconi sono state la bomba che ieri ha fatto detonare Forza Italia. I deputati e senatori forzisti si sono schierati davanti al Senato da cui il Cavaliere era stato espulso, esponendo un cartello con la scritta “Verità per Berlusconi”. Lo stesso hanno fatto poi in aula a Montecitorio, con due cartelli con scritto “Verità per Berlusconi” e “Giustizia per Berlusconi”, facendo sospendere brevemente la seduta. Gli interventi in conferenza stampa sono stati durissimi, dalla richiesta di «una commissione d’inchiesta sul caso Berlusconi e sull’uso politico della giustizia in questi ultimi 25 anni. Non si tratta di nostalgia ma di guardare al futuro della giustizia» da parte di Maria Stella Gelmini, fino all’attuale braccio destro di Berlusconi, Lucia Ronzulli, che ha tuonato: «Deve essere risarcito politicamente, attraverso la nomina a senatore a vita, visto che attraverso questa sentenza taroccata è stato estromesso dal Senato». Solidarietà all’ex premier è arrivata da tutto il centrodestra, con Giorgia Meloni che ha parlato di «ennesima prova che in Italia esiste un pezzo di magistratura che fa politica» e il leader della Lega, Matteo Salvini, che ha richiamato anche la sua attuale situazione: «Dopo le intercettazioni di Palamara contro il sottoscritto, spunta un altro audio di un magistrato che ammette l’uso politico della giustizia: solidarietà a Silvio Berlusconi per il processo farsa di cui è stato vittima. È l’ennesimo episodio che ci ricorda la necessità di una riforma profonda». Se dem e grillini rimangono in silenzio, a prendere la parola è invece Matteo Renzi: «Un Paese serio su una vicenda del genere – legata a un ex presidente del Consiglio – non può far finta di nulla», inoltre, «per me Berlusconi è un avversario politico. Ma, proprio per questo, è doveroso fare chiarezza su ciò che esce dagli audio». Si aggiunge tensione a tensione, dunque, sul fronte caldo della giustizia e potrebbe finirne influenzata la riforma stessa del Csm. Forza Italia, proprio alla luce di queste nuove rivelazioni, si è immediatamente espressa per «la separazione delle carriere» e ha chiamato in causa anche il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, quale presidente del Csm. All’idea, da sempre crociata delle Camere Penali e dei Radicali, è storicamente favorevole anche una buona fetta proprio di Italia Viva. L’incognita, ora, sarà stabilire se ma soprattutto come questo ennesimo colpo alla credibilità della magistratura influenzerà la stesura del disegno di legge delega. E se prima di oggi la politica era decisa a procedere con calma, ora anche lei è tornata parte in causa, anzi parte lesa.
Silvio Berlusconi e la vendetta manettara. Renato Farina: "Se lo difendi o ti calunniano o ti indagano".
Renato Farina su Libero Quotidiano il 03 luglio 2020. Difendere Berlusconi è un reato. Alcuni fatti recenti dimostrano che, pur non essendo ancora entrata nei manuali, questa norma è consolidata nella prassi giuridica e giornalistica, ed è applicata con una naturalezza commovente. Non c'è nel codice penale, anche se è possibile che Alfonso Bonafede la introduca nella sua riforma come prerequisito per entrare nel Csm, ma sarebbe un eccesso di zelo. Che bisogno c'è di fissarla sulla carta, con il rischio che qualche Corte europea dei diritti umani eccepisca? Importante è che funzioni. Eccome se funziona. Se qualche tontolone si affaccia e muove la lingua per tutelare il diritto ad una giustizia giusta persino per Berlusconi, si sente lo scatto della molla da sarcofago egizio, e la spada dell'inquisitore trapassa il fianco dell'ingenuo testimone che credeva di fare il suo dovere. Il tutto nei dovuti modi. Questo è accaduto svariate volte in passato. Riaccade. Per certa parte della magistratura è una di quelle leggi non scritte che si imparano con l'esperienza. È un'appendice ovvia del pregiudizio anti berlusconiano che viene sparso sulle toghe come una polvere invisibile quando ancora bambinette si affacciano nelle associazioni di categoria. Una legge non scritta - E così da venticinque anni questo mostro giuridico fuggito dall'Urss sbatte le mascelle nei pressi degli sventurati, magari in crisi di coscienza e con uno strano desiderio di onestà. E se qualcuno osa, conoscerà la dentatura del citato alligatore. Si ode un tintinnar di manette per i vivi. Per i morti non c'è nessun ritegno a scorticare la reputazione del cadavere. Di certo, il dogma creduto e praticato, e che andrebbe trascritto nei massimari della Cassazione dovrebbe essere: chi osa testimoniare che il Cavaliere ha subito un torto, ha torto. Punto e a capo. 1. La procura di Napoli, con tempismo magnifico, diremmo provvidenziale, ha aperto un minaccioso fascicolo «per ora senza nomi e senza ipotesi di reato». In quella cartelletta sono finite agli atti, in vista di ulteriori determinazioni dei pm, le dichiarazioni di un paio di camerieri e di un direttore di ristorante. Il Fatto Quotidiano ha fatto sapere che la premessa di questo lavorio della giustizia sta in un comportamento disdicevole dei tre. Gli sventurati hanno raccontato a un legale di Silvio Berlusconi che un cliente abituale dell'hotel di Ischia dove lavorano da anni, era solito fare apprezzamenti a proposito dell'ex premier. Quel gentiluomo, ad esempio, dopo aver saputo che il proprietario dell'albergo di Laccoameno era un esponente di Forza Italia aveva commentato: «Ah, sta con quella chiavica». Fa ridere? In altre occasioni salutava chiedendo se Berlusconi e il titolare dell'hotel fossero già stati arrestati, e poi profetava: «Accadrà presto». Cose così. A ripetizione. Con tutti e tre. Il propalatore di simili delicati pensieri era il presidente della sezione di Cassazione, Antonio Esposito, proprio il giudice che avrebbe poi pronunziato la sentenza a quattro anni di reclusione per frode fiscale nei confronti della sunnominata «chiavica». L'avvocato del Cavaliere aveva raccolto sotto giuramento queste parole come elementi per il ricorso alla Corte europea dei diritti dell'uomo di Strasburgo. Si chiamano «indagini difensive». Esposito, come suo diritto, nega risolutamente di aver pronunciato quelle frasi, ma fa di più. Vuole che il legale in questione sia punito e lo denuncia all'Ordine degli Avvocati perché ritiene che non essendo in corso un procedimento penale sia illegittima qualsiasi indagine difensiva. Del resto da che può difendersi l'imputato? S.B. è già stato condannato e proprio da lui. Come dire: gli abbiamo già tagliato la testa con tutti i crismi, riattaccargliela è impossibile.
Come difendersi? - Il ragionamento non fa una grinza. Ma è una logica un tantino autoreferenziale, non vi pare? È un modo per bloccare una procedura che metta in dubbio presso un'istanza superiore l'onestà della Cassazione, che è al di sopra di ogni sospetto. Il monito è chiaro. Chi si presenta alla Corte di Strasburgo tramite deposizioni previe, deve attraversare le forche caudine della magistratura italiana. 2. Difendere Berlusconi per i vivi è un reato. Per i morti equivale al disseppellimento del cadavere con esposizione ai corvi che ne beccano gli occhi. L'immagine è orrenda, ma è in rima con il trattamento disgustoso riservato ad Amedeo Franco. Nel 2013 costui lo fece «per sgravarsi la coscienza» e non in un colloquio solitario con Berlusconi, ma davanti a diverse persone, una delle quali ha registrato. Parlò di «plotone di esecuzione». Riferì il pensiero unico del collegio al quale non potè sottrarsi stante un volere altissimo che vegliava su quella sentenza: «Berlusconi deve essere condannato a priori perché è un mascalzone!». Il Fatto trascura i contenuti, ritiene che Franco abbia coscientemente tirato una bomba da far esplodere dalla bara, lo accusa nientemeno che di averla fatta franca grazie alla furbizia di darsi morto, perché in vita avrebbe dovuto subire processi per reati gravi come la calunnia ecc. Il problema è: chi lo dice sia calunnia?
«Una scorrettezza» - Non basta. Ilfatto.it tira fuori una vicenda di corruzione fasulla, una fake postuma, ma che pesò su Franco come un'infamia fino alla morte, salvo poi dall'al di là vedersi resa giustizia con il proscioglimento dei presunti complici perché il fatto era inventato. Questi qua mordono il cadavere. Così dice parole sgradevoli e accusatorie contro Franco anche il dottor Ernesto Lupo. Il quale fu primo presidente di Cassazione fino al maggio 2013, poi diventato consigliere del Quirinale. Conferma che Franco «provò a parlarmi della sentenza, ma la camera di consiglio è segreta. Sarebbe stata una scorrettezza grave per lui violare quel segreto e anche per me se lo avessi indotto a farlo. E la mia correttezza è famosa. Per questo cambiavo argomento». Ma come? Franco vuole con ogni evidenza denunciare un reato, esporre una questione di gravità giuridica e politica inaudita, e lui si sbarazza di Franco come di un tipo che annegava e si attaccava ai suoi vestiti immacolati tirandolo sott' acqua. Dice: «La mia correttezza è famosa» per distinguersi da quel collega che lo chiamava per chiedere «la promozione». Per cui rinfaccia al morto di non poterlo contraddire. Invece di dirsi sconvolto dalla rivelazione di un uomo il cui tono è così devastato da non poter che essere sincero, gli spiega che oibò «non è che il giudice parla con l'imputato, sia pure dopo la sentenza, e dice che quella che ha firmato è una schifezza». Insomma. Difendere un condannato di cui si ha la certezza morale fosse innocente non si fa. Se fosse possibile, istituirebbero contro Franco un Tribunale d'Oltretomba, rubando le chiavi a Pietro per chiuderlo a Regina Coeli.
Sentenza Berlusconi "pilotata", sembra di essere tornati all’arresto di Enzo Tortora. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 3 Luglio 2020. Difficile, il giorno dopo lo scoop del Riformista sulla sentenza-patacca che nel 2013 aveva condannato Silvio Berlusconi per frode fiscale, trovare ancora qualcuno che non ritenga il leader di Forza Italia sia stato vittima di un’ingiustizia. Oddio, qualche piccolo uomo ancora c’è, ma, come dicono quelli che hanno studiato, de minimis non curat praetor. Le prime pagine dei giornali, le ricostruzioni, le conferme per alcuni, l’incredulità per altri. Pochi dubbi, a Berlusconi nel 2013 fu fatta una “porcata” che per via giudiziaria completava quella politica del 2011: prima gli fu scippato palazzo Chigi, poi il seggio del Senato. E mentre vecchi e nuovi partiti, di destra e di sinistra, gareggiavano per spartirsi le sue spoglie elettorali e politiche, lui accudiva gli anziani alla sacra Famiglia di Cesano Boscone. E la storia italiana diventerà un’altra. Oggi c’è un grande silenzio della politica, fragoroso quanto l’entusiasmo di Forza Italia, che chiede a gran voce la riabilitazione del proprio leader, e la compunta solidarietà di Matteo Salvini e Giorgia Meloni e un piccolo sbilanciamento, unico a sinistra, di Matteo Renzi, che ancora deve farsi perdonare la fretta che ebbe nel novembre del 2013 di far cacciare Berlusconi dal Senato. La politica parlerà, insieme ai grandi commentatori che per ora hanno lasciato spazio ai cronisti, in gran parte. Non potrà sottrarsi. E il sindacato dei magistrati, che ieri si è sentito in dovere di rivendicare solo a sé il diritto di intercettare e poi di depositare direttamente in edicola il frutto delle proprie spiate, farebbe bene a stare un po’ “schiscio” (come si dice qui al nord), sotto tono insomma, perché non è aria, di questi tempi. Perché ormai sono in tanti ad aver capito, come ha scritto, con la solita magistrale intuizione, Mattia Feltri sulla Stampa, che le toghe sono solo uomini e donne come noi, «soltanto più superbi, e da un certo punto in poi determinati a scrivere la storia d’Italia. L’ultimo capitolo è quello venuto meglio». Appunto, il capitolo più recente. Che non riguarda solo la persona di Berlusconi, ma la situazione in cui le due notizie che lo riguardano – la sentenza civile che di fatto ha sconfessato quella penale, e il “pentimento del giudice relatore Amedeo Franco – sono piombate come il cacio sui maccheroni. I maccheroni sono la profonda crisi della magistratura italiana, crisi di credibilità, prima di tutto, perché gli incontri, le chat, gli intrallazzi e le congiure di Palazzo tra magistrati e tra toghe e politici rivelati dal trojan di Luca Palamara, hanno solo confermato la debole consistenza umana di una casta che, dopo aver peccato di superbia, è rotolata a terra come fosse fatta di gente normale. E a noi normali non piace esser indagati e giudicati da persone che hanno i nostri stessi difetti. E oggi dai due paginoni del Corriere (ma dopo il preveggente Galli della Loggia aspettiamo altro autorevole commento) fino gli editoriali di Alessandro Sallusti, Vittorio Feltri e Pietro Senaldi, si annusa qualcosa nell’aria. Non so, è un clima già sentito, che ricorda altre cose, altre persone, altra epoca. Millenovecentoottantasette, per esempio, i referendum sulla giustizia del Partito Radicale, la responsabilità civile dei magistrati. Quel risultato che fece saltare il tappo alla bottiglia dopo che Enzo Tortora, arrestato, messo alla gogna, poi eletto al Parlamento europeo, poi condannato, era infine stato assolto, solo perché aveva trovato un giudice “curioso”. Un magistrato cui non tornavano i conti di 17 pentiti che concordavano le versioni (non da soli) per accusare un galantuomo di essere un “mercante di morte”, cioè una sorta di narcotrafficante casereccio. Naturalmente nessuno vuol paragonare le due persone, Berlusconi e Tortora, diversissimi per storia e anima. Uno ci ha perso la vita, sull’ingiustizia subita, ed è morto un anno dopo quel referendum. Ma simile ad allora è il momento. Tragico. Perché un Paese che vede messa a terra dalla vergogna e dall’incapacità di rialzarsi la propria magistratura, non è un Paese felice. Ma è un Paese che potrebbe ripartire proprio da un nuovo referendum sulla responsabilità civile dei magistrati. Perché non provarci? Ma dovrebbe essere lo stesso giudice Antonio Esposito, che fu Presidente di quella sezione feriale della cassazione che giudicò frettolosamente Berlusconi con uno schieramento che il suo collega giudice relatore ha definito un “plotone d’esecuzione”, ad avere a cuore la propria reputazione. E quella della sua categoria. E invece di continuare a coltivare cause civili milionarie contro i giornalisti, come quella che ha già perso contro il Mattino di Napoli, potrebbe provare a coltivare il dubbio. Come potrebbe avergli insegnato un suo illustre (e ben diverso) ex collega come Corrado Carnevale. Invece preferisce farsi intervistare, con un piccolo conflitto d’interessi, dal quotidiano di cui è editorialista, per stillare goccia a goccia arsenico e vecchi merletti. Potrebbe aiutarci, il dottor Esposito, a fare un po’ di rassegna stampa, per verificare se qualche notizia, che a noi pare inedita, non faccia invece parte del suo vecchio album di famiglia. Prendiamo il Giornale, per esempio, e il racconto di Luca Fazzo, da cui emergono almeno due notizie. La prima è che il Presidente della Cassazione dell’epoca, Giorgio Santacroce, era stato aiutato a raggiungere quell’importante carica da Gianni Letta, plenipotenziario di Silvio Berlusconi. Così dice il giudice Amedeo Franco. E come non credergli? Era il sistema, direbbe Palamara. La seconda notizia è che, quando l’avvocato di Berlusconi, Franco Coppi andò da Santacroce con lo stesso Letta a chiedere spiegazione dell’improvvisa accelerazione del processo al suo assistito, il presidente della cassazione si fece trovare in compagnia di Franco Ippolito, segretario di Magistratura Democratica. Aveva cercato quella copertura politica che dovrebbe esser spunto di riflessione persino per il dottor Esposito. Così come il ruolo svolto (o non svolto) dal presidente Giorgio Napolitano, soprattutto se è vero (ma crediamo di sì, vista la fonte, cioè il giornalista retroscenista Augusto Minzolini) che aveva accettato di concedere la grazia a Silvio Berlusconi in cambio della sua cancellazione definitiva dalla vita politica. Uno schiaffo non da poco. E anche un bel cinismo, se non dimentichiamo, come ci ricorda Fausto Carioti su Libero, che era stato proprio Napolitano a mettere Mario Monti, dopo riunioni più o meno segrete con vari personaggi, al posto di Berlusconi a Palazzo Chigi. Sempre scorrendo le tante pagine dei quotidiani di ieri, vediamo che sono stati impegnati i cronisti più esperti. Che parlano senza mezzi termini della rivincita di Berlusconi e della “botta” per la magistratura, come scrive Maurizio Tortorella su La Verità. Ma la botta bisogna anche farla ingoiare, ed è dura, quando si è costretti, come capita a certi divulgatori di Repubblica o del Fatto, non solo a rivalutare la persona di Berlusconi e a mostrarla come vittima, ma anche a raccontarlo ai propri lettori dalla prima pagina del proprio quotidiano. E allora, se non si può proprio rispolverare fruste espressioni come “il caimano” o il “cavaliere nero”, si può sempre provare a bastonare qualcun altro. Chi meglio del (defunto) giudice Amedeo Franco, magari andando a rispolverare tre vecchi cronisti giudiziari di Milano che ancora credono di essere ai bei tempi di Borrelli? Eccoli lì, Paolo Colonnello sulla Stampa e Piero Colaprico su Repubblica, a fare le pulci al giudice che non c’è più, per un piccolo inciampo dei suoi ultimi giorni di vita. E dobbiamo proprio commentare il solito Gianni Barbacetto che sul quotidiano dove scrive anche Antonio Esposito esordisce con “immaginatevi un giudice che andasse a casa di un suo imputato potente (non dico Totò Riina, anche un condannato, per dire, di frode fiscale)…”? Non dice, ma intanto paragona Berlusconi a un capo mafia. Ma l’eleganza, si sa, è un po’ come il coraggio di don Abbondio, se uno non ce l’ha…. Consoliamoci con i vecchi titoli dell’epoca di un grande direttore, Giuliano Ferrara, che sul Foglio scriveva, e ce lo ha ricordato, con le maiuscole: ACCANIMENTO AD PERSONAM E VILTA’ DI UNA SENTENZA. Rivista da oggi, “viltà” ci pare proprio la parola giusta.
Quando Pannella suggerì a Berlusconi: “Contro te c’è accanimento, vai in esilio”. M. Antonietta Farina Coscioni su Il Riformista il 3 Luglio 2020. Un sorriso tra l’incredulo e il divertito; poi uno sguardo prima a Gianni Letta, poi ad Angelino Alfano, allora dirigente del Popolo della Libertà, come a dire: sempre il solito, non cambierà mai… La ricordo bene, la scena: 30 agosto 2013, a casa di Marco Pannella, a via della Panetteria. Da una parte Silvio Berlusconi, Letta, Alfano. Dall’altra noi del Partito Radicale: oltre al padrone di casa anche Maurizio Turco e Valter Vecellio. Sono le 9,30. Un incontro di un paio d’ore, poi Marco deve partire per l’Abruzzo. Un incontro che si decide di tenere riservato. Siamo impegnati nella raccolta di firme per dodici referendum. Il PdL ci sta?, chiede Pannella. Nel frattempo arriva la condanna della Corte di Cassazione. La sentenza di cui tanto si parla in questi giorni. Sei referendum riguardano la giustizia. Per cinque, nessun problema; ma su quello che chiede l’abrogazione dell’ergastolo, la maggioranza del gruppo dirigente è contraria. Berlusconi rivela che ha dovuto far pesare tutta la sua influenza per dare il via libera anche a quello: «È impopolare, ma non importa. Per il liberale che sono è un principio elementare consentire una possibilità, per quanto remota, di recupero di un detenuto». E gli altri sei? Berlusconi non nasconde il suo imbarazzo: «Volete abrogare leggi che ha varato il mio Governo». Si riferisce alla “Fini-Giovanardi”, alla “Bossi-Fini”, alle norme sull’8 per mille. Pannella fa ricorso a tutta le sue capacità di convincimento. Strappa una promessa: «Ci penserò stanotte, ti farò sapere». Si arriva alla condanna della Cassazione. Eccolo, il coup de théatre di Marco: «Vai in esilio». Non scherza. È serissimo. «Al di là delle singole vicende processuali che ti vedono coinvolto», dice, «il dato impressionante è costituito dalla “quantità”, più unica che rara, dei procedimenti e delle indagini: indice di vero e proprio accanimento che non è stato riservato a nessun altro personaggio della politica o del mondo imprenditoriale». Marco ricorda che la procura milanese per quel che riguarda il caso Ruby e “Olgettine” ha mobilitato centinaia di poliziotti e carabinieri alla caccia di prove ed elementi di colpevolezza, mentre nulla si faceva per quel che riguarda le firme false nelle liste per l’elezione a presidente della regione Lombardia di Roberto Formigoni (“Firmigoni”, lo chiama ripetutamente). Suggerisce di predisporre un “libro bianco”, che documenti l’accanimento e le speciali “attenzioni”, da presentare al Parlamento Europeo; in parallelo l’annuncio del suo “esilio». «L’esilio?», fa Berlusconi. «Sì», risponde Pannella serio. «Un esilio temporaneo in qualche paese dell’Unione Europea. Non una fuga alla Toni Negri, e neppure un allontanamento definitivo come quello di Bettino Craxi. Un “esilio” simbolico, che ti consenta di denunciare con maggior vigore la “persecuzione. Sarebbe un “esilio” le cui motivazioni affondano nella migliore tradizione laica e liberale del Paese». Marco cita Salvemini: se ti accusano di aver stuprato la Madonnina del Duomo, prima scappa, poi difenditi. Cita Calamandrei: «Se dovessi essere accusato di aver rubato la torre di Pisa prima scappo, poi mi difendo…». Berlusconi appare dubbioso, anche se il “suggerimento” non sembra dispiacergli: «Non lo escludo, ma non comprendo cosa potrebbe accadere, con l’esilio che proponi…». «Non lo escludi perché non lo consideri nemmeno, quindi non sai che cosa intendo io con l’esilio», incalza Marco. «Non ho neppure il passaporto, me l’hanno ritirato?», obietta Berlusconi. «Silvio», replica Marco, «uscire non è un problema… piuttosto devi trovare il posto che ti accoglie…». «Questo non è difficile, sono amico di tutti…». «Basta che non sia la Russia di Putin…». «In Kazakistan», scherza Alfano. Letta invece è silenzioso, al solito prudente. «Ci penserò. Ti farò sapere», conclude Berlusconi. Seguirà solo in parte il “consiglio” di Marco: la mattina dopo firma tutti i 12 referendum, anche quelli che non condivide: «Su temi così importanti è giusto che il popolo si possa esprimere». Nonostante il suo personale impegno però le firme necessarie non vengono comunque raccolte: il PdL non si mobilita come potrebbe. Quanto all’“esilio”, non se ne fa nulla. Peccato. Forse se Berlusconi avesse accolto il suggerimento di Marco, non saremmo al punto in cui oggi siamo.
I processi taroccati a Berlusconi sono guerra contro l’Italia liberale. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 3 Luglio 2020. I processi con cui hanno tagliato le gambe a Berlusconi erano taroccati. Dunque, sia fatta giustizia non solo a lui, ma a tutto quel Paese che l’ha delegato, votato, che si è sentito rappresentato, specialmente dopo il golpe con cui i partiti della prima Repubblica sono stati ammazzati, azzoppati, ammutoliti, portati alla gogna e alla ghigliottina. Voglio scrivere per i cronisti che un giorno verranno, ma anche per quelli che già ci sono ma non sanno di esserci. E per quelli che un po’ l’avevano capito, ma speravano che non fosse proprio così. Quelli che giravano la testa dall’altra parte e quelli che l’avevano capito benissimo e si fregavano le mani, ma che speravano che non venisse a galla. Premessa biografica: come giovane sinistrese del secolo scorso martirizzai i miei genitori conservatori con tutte le armi dello scherno, svalutazione, inflizione del pregiudizio morale. Mi sono portato dentro le tracce di questo coronavirus del razzismo etico, del contorcimento sdegnoso finché non capii. E, pensate: fu Eugenio Scalfari a farmelo capire spedendomi a riscoprire le radici della borghesia Europea, per la Repubblica negli anni Ottanta. Cominciai a rendermi conto che una delle modalità dello sviluppo umano porta ai migliori risultati per quanto difettosi ed è la borghesia, incluse le terribili con le macchie dell’accumulazione primaria che ha spedito i bambini nelle miniere ai tempi di Dickens, ma sempre accompagnata da risultati, progressisti, cui dobbiamo la liberazione degli schiavi attraverso le macchine e poi dei minatori e persino della donna liberata dalle funzioni di schiavo. E tutto grazie alla libertà del libertinaggio e della scienza, dello sviluppo della medicina dell’igiene e della stampa. Borghese. Un giorno mi guardai allo specchio e, come l’orrendo personaggio della Metamorfosi di Kafka si era visto trasformato in un enorme insetto, io vidi in me l’orgoglio della borghesia, quando il mio guru di riferimento era Bertrand Russell, un uomo che raccontava la sua infanzia in compagnia di un nonno che aveva incontrato Napoleone e che scrisse un magnifico saggio sulla supremazia dell’Occidente. Noi, i borghesi, noi gli occidentali, noi che tra fiumi di sangue e tonnellate di male, abbiamo comunque tirato fuori questa pepita che è il primato della libertà. Anche questo Napoleone, sia detto in gran segreto, non era poi il male assoluto, essendo stato un borghese che aveva strappato la corona dei re e degli imperatori per mettersela sulla sua testa per disprezzo degli imparruccati. Quando morì Gaetano Filangieri, diafano adolescente dell’aristocrazia napoletana nato già morto per la tubercolosi, Napoleone lo definì «Ce jeune homme qui est nos maître a tous», questo giovane maestro per tutti noi. E quel jeune homme aveva convinto Benjamin Franklin ad inserire nella Costituzione americana «il diritto alla ricerca della propria felicità», che non è il diritto alla felicità, ma il diritto a spendere la propria vita per cercare quella, a misura di individuo singolo unico, che ciascuno e ciascuna vuole nella piena libertà. La libertà, gli Stati Uniti, il diritto a cercare ognuno come cavolo gli pare la sua privata e unica felicità, a rifiutare la massa, i forconi, i vaffanculo da palcoscenico, i gulag, i lager. La borghesia è quel mondo per cui il più alto valore è quello della libera vita della singola persona, unica come la sua impronta digitale, la più piccola e indifesa minoranza etnica, l’io inerme di fronte alle macchine livellatrici delle ideologie che pretendono di ingegnerizzare i popoli, le classi, le razze, i generi. Perché a milioni hanno votato Berlusconi? Perché ha saputo presentarsi come un campione della borghesia. Le purulenze che emergono dall’età dei processi a Silvio Berlusconi non appartengono al genere degli “errori giudiziari”, non sono sviste, lentezze, ma atti di guerra armata non soltanto contro l’uomo Berlusconi, questo temerario che si mette di traverso alla storia già scritta e si fa fracassare le ossa, ma contro tutti coloro che magari senza neanche saperlo, si sono ritrovati rappresentati dalla sua molteplice capacità di rappresentare. Non importa se fossero socialisti, cattolici, moltissimi comunisti, tutti però nell’anima liberali. Il nostro Paese aveva bisogno di un grande borghese che fosse nato e cresciuto come un borghese facendosi da solo e con tutte le modalità della vita imprenditoriale di chi produce ricchezza e la distribuisce e dà lavoro, e paga le tasse e apre le fabbriche e si inventa un accidente di meccanismo grazie al quale spedisce su e giù per le montagne videocassette col secondo tempo alle piccole emittenti che hanno appena proiettato il primo tempo, facendo friggere di rabbia tutti quelli che volevano l’esclusiva – la loro – sull’etica, estetica e politica. Guardatela, oggi, l’etica degli esclusivisti dell’etica: hanno dato il reddito di cittadinanza alla mafia e non un solo giovanotto sul divano ha trovato lavoro grazie al navigatore che invece, lui sì, ha trovato lavoro perché fa il navigatore, uno dei mestieri più inesistenti della Terra, salvo che nella celebre iperbole mussoliniana sul popolo dei santi, navigatori ed eroi. Troppi eroi, troppi santi, troppe eccellenze, troppi preti eroi, giornalisti eroi, magistrati eroi, e basta! C’era una volta il progetto della normalità. L’imprenditore costruisce ed assume, dà da mangiare a milioni di famiglie, si arricchisce e conduce una vita agiata perché è suo diritto e quella si chiama borghesia, una strada aperta a tutti perché ogni operaio se vuole può invece essere un artigiano, ogni impiegato può essere un imprenditore, ogni manager può se vuole rischiare in proprio e fare la sua fabbrica. Chi governa oggi regala soldi alle mafie, rifiuta il MES soltanto perché se accetti il MES ti vengono a controllare in casa se lo usi davvero per la sanità o per fare un favore agli amici. Torniamo a Berlusconi. Quando cominciò a dare segni di vita politica, si trovò di fronte un muro alto ottomila chilometri d’acciaio, fuochi diffamatori, accuse demenziali ma tutte in carta bollata. Scherno affidato ai comici che con lui hanno vissuto la più lieta stagione della loro vita. Ma perché ci fu subito questa chiamata alle armi non appena Silvio Berlusconi fece capolino sulla scena politica? Ma è facilissimo. Perché emerse come impedimento al piano limato e preparato da decenni: quello – prevalentemente americano e inglese e tedesco, ma con molte radici casalinghe – di spazzare via la classe dirigente della Prima Repubblica in particolare democristiana e socialista, per sostituirla con la nuovissima linfa comunista, adorata al Dipartimento di Stato. Poi finalmente l’Urss collassò, Reagan e Thatcher vinsero sull’impero della depressione e della paranoia e il neo-ribattezzato PDS di Achille Occhetto si sentì oliatissimo per raccogliere i frutti lungamente coltivati. Tutti erano strasicuri che la famosa macchina da guerra conquistasse il potere, dopo che un bombardamento a tappeto, operato dai bombardieri del gruppo “Clean Hands” – Mani Pulite – aveva fatto piazza pulita della Prima Repubblica. Quell’operazione non aveva scoperchiato proprio nulla: produsse alcune morti tragiche, come quella di Emanuele Cagliari “suicida” con un sacchetto di plastica o di Raoul Gardini che prima porta i soldi a Botteghe Oscure, poi si fa una doccia e quindi con distrazione si spara una revolverata. Che volete: momenti di malumore, ma quanto al resto, un flop. Silvio Berlusconi io allora lo conoscevo perché Paolo Mieli, direttore della Stampa, me lo aveva fatto intervistare. Ricordo perfettamente il tono scandalizzato di tutti coloro cui dicevo che era un gigante di fronte a quei nani, benché si portasse dietro tutti i vezzi, i modi del ricco borghese brianzolo, cui piacciono le donne, divertirsi. Lo stesso mi era accaduto entrando in contatto con Francesco Cossiga, che non conoscevo e che mi aveva pescato lui per caso durante una conferenza stampa: avevo imparato che stare a contatto di questi eversori del sistema fondato sull’egemonia totale della sinistra, significa condannarsi al ludibrio, all’irrilevanza, alla frattura con gli amici. Abbiamo sempre saputo che il bombardamento di processi contro Berlusconi era anomalo, cioè prefabbricato. Bastava fare i conti. Nessuno, mai, era stato così colpito con avvisi di garanzia. Era o non era l’avviso di garanzia un’arma politica? Quando il Corriere della Sera decise di render pubblico quello che Berlusconi ricevette durante il suo primo governo proprio mentre presiedeva a Napoli un summit mondiale sulla criminalità, ebbe il potere di disintegrare la sua coalizione: Bossi se ne andò per non infangare il brand della lega, il governo cadde e vennero i tecnici di Dini che prepararono l’arrivo di Prodi, sicché il famoso “ventennio berlusconiano” (che evoca quello mussoliniano) fu prevalentemente di sinistra e quando Berlusconi tornò, sulle ali di una vittoria clamorosa, fu cacciato con una congiura dello Spread e poi messo fuori combattimento con la cacciata ignominiosa dopo una sentenza che non stava né in cielo né in terra, quella appunto di cui si parla in questi giorni. Berlusconi è stato atterrato, insultato e così tutti coloro che hanno tentato di sostenerlo. Io ruppi con lui quando applaudì l’invasione russa della Georgia: avevo avuto i miei morti senza giustizia nella commissione Mitrokhin, ebbi un rifiuto mio etico e storico a proteggere i russi. Ma oggi è evidente tutto quello che è accaduto ed è ora per tutti di andare sulle barricate della democrazia, di difendere il Parlamento dalle orde pentastellate, di rivoltarsi contro le jene, i conformisti, tutto quel genere di gente che ha come unica ideologia la puzza sotto al naso. Adesso abbiamo materiale sufficiente per agire, per chiedere di restituire all’elettorato italiano ciò che era ed è rimasto suo: lo spudorato ed eroico progetto di costruire un partito liberale di massa che ancora può rinascere. È ora che il Parlamento, con un sussulto di dignità, Renzi compreso, chieda e anzi imponga una legge per istituire una commissione d’inchiesta. È ora di capire che una vittoria finalmente si profila all’orizzonte per tutti coloro che vogliono un Paese occidentale, libero e liberale, laico, libertario, capace di sfrontatezze ideali e ideologiche, come quella di quel giovane matto che da Napoli riuscì a far imporre a Philadelphia il principio, costituzionale secondo cui ogni essere umano, ogni persona ha il sacrosanto diritto alla vita, alla libertà e a cercare come crede la propria felicità.
Testimoni "sospetti"? Fake news del Fatto Quotidiano, l’esposto verso l’archiviazione. Viviana Lanza su Il Riformista il 3 Luglio 2020. Si avvia verso l’archiviazione l’indagine rilanciata dal Fatto Quotidiano sull’ipotesi di tre testimonianze “sospette”. Si tratta di una vicenda datata, tanto che potrebbe anche profilarsi la prescrizione. Si tratta di un fascicolo rimasto senza reati e senza indagati, aperto dalla Procura di Napoli dopo l’esposto presentato dall’allora giudice Antonio Esposito, oggi in pensione ma al tempo presidente del collegio che condannò Silvio Berlusconi per frode fiscale. In questi giorni il nome dell’ex giudice è ritornato all’attenzione per un audio in cui l’allora relatore della sentenza Berlusconi in Cassazione, il defunto Amedeo Franco, definiva la sentenza “una porcheria”. L’esposto presentato alla Procura di Napoli da Esposito riguardava fatti accaduti il 3 aprile 2014 e si riferiva alle dichiarazioni rese all’avvocato Bruno Larosa (al tempo tra i difensori di Silvio Berlusconi) da tre dipendenti dell’hotel di Lacco Ameno, dipendenti di Domenico De Siano, il coordinatore regionale di Forza Italia. Secondo l’ex giudice Esposito quelle dichiarazioni sarebbero state false e per questo presentò un esposto. I tre dipendenti dell’hotel avevano riferito di pesanti insulti nei confronti di Berlusconi sentiti pronunciare dal giudice Esposito. Circostanza delicata, non trascurabile se confermata. Sta di fatto che il giudice Esposito l’ha negata al punto da presentare in Procura un esposto contro i tre dipendenti che avevano raccontato degli insulti all’avvocato Larosa, il quale in quel periodo stava svolgendo indagini difensive per conto del Cavaliere in vista di un ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo e che per effetto dell’esposto dell’ex giudice ha dovuto anche subire un procedimento disciplinare, poi archiviato dal Consiglio distrettuale di disciplina dell’Ordine degli avvocati ma ci arriviamo dopo. Torniamo all’esposto dell’ex giudice Esposito il quale sosteneva che i tre dipendenti dell’hotel avessero dichiarato il falso. L’indagine non ha portato in questi anni a formulare reati né iscrizioni di indagati nel registro di inchiesta. E ora si avvia verso l’archiviazione. Su di essa incombe pure la prescrizione. Ipotizzando in astratto il reato di false dichiarazioni a un avvocato, che in sede di indagini difensive porta a equiparare il caso a quello del reato di false dichiarazioni a un pubblico ministero, la prescrizione andrebbe calcolata sulla pena massima che in questo caso sarebbe di quattro anni: termine quindi abbondantemente superato. E la situazione non cambia se, trattandosi di delitto e non di contravvenzione, si sposta la scadenza a sei anni: il termine risulta scaduto ad aprile scorso visto che i fatti di cui parlava Esposito nel suo esposto risalgono ad aprile 2014. A voler essere pignoli e includere nel calcolo un ulteriore quattro del tempo per motivi di interruzione o sospensione si arriverebbe ad ottobre 2021. Insomma l’indagine sulle presunte false dichiarazioni sembra non aver portato a nulla di fatto. Come il procedimento disciplinare nato da un altro esposto dell’ex giudice Esposito che accusò l’avvocato Bruno Larosa di comportamenti a suo dire deontologicamente scorretti, ritenendo che siccome c’era il processo in corso il penalista non potesse svolgere indagini difensive. Ebbene, il procedimento contro l’avvocato Larosa è stato archiviato all’unanimità dal consiglio dell’Ordine degli avvocati di Napoli il 9 giugno scorso, sulla base del fatto che le indagini difensive erano lecite e finalizzate a chiedere la revisione dinanzi alla Corte europea e che quindi “la notizia di illecito disciplinare è manifestamente infondata”.
Assolto da accuse infamanti, vi racconto il ribaltone di Parma. Giovanni Paolo Bernini su Il Riformista il 3 Luglio 2020. Caro Direttore, anche se scrivo naturalmente in prima persona, potrei raccontare gli eventi che citerò anche come un normale cittadino di Parma che ha visto un ribaltone politico senza precedenti. Era l’anno 2011, lo stesso anno di un altro ribaltone, la caduta del Governo Berlusconi dopo il G20 di Cannes, che anticipò l’arrivo a Palazzo Chigi di Mario Monti. C’era un’amministrazione comunale di centro-destra che governava da 13 anni, aveva vinto tre elezioni consecutive, era considerata un modello in tutta Italia per le tante idee trasformate in progetti coronate dall’assegnazione dell’EFSA Autorità per la Sicurezza Alimentare Europea. Una città che grazie alle prestigiose vittorie del Parma Calcio, quarta squadra italiana per trofei internazionali, e ai risultati della gestione della cosa pubblica era famosa a livello mondiale. All’improvviso nel cielo luminoso e sereno all’ombra della Steccata, Basilica ai tempi del Ducato, si scatenò una tempesta mediatica e giudiziaria che travolse tutti e tutto. Una situazione che coinvolse, oltre al sottoscritto, il sindaco Vignali e vari dirigenti comunali. Vittime di quella che ho chiamato “ordinaria ingiustizia” nel mio libro uscito nella primavera 2019 e che il Presidente Silvio Berlusconi ha definito testimonianza e denuncia in un paese dove non esiste lo stato di diritto. La principale vittima è stata la verità perché si cercò, mediante il solito copione della bugia ripetuta più volte che diventa verità, di scrivere una pagina di storia completamente distorta dalla realtà. Sono stato arrestato e processato con un accanimento davvero al limite della persecuzione, ma ho resistito, ho rifiutato il patteggiamento, e sono uscito assolto da ogni accusa. Accuse infamanti e infondate tipo la collusione mafiosa, scatenate in un clima di pesante odio e palese vendetta contro una certa parte politica. Non li perdonerò mai di avere fatto soffrire la mia famiglia, infangato la mia onorabilità, trascinato il mio nome sui giornali e tv additato come se fossi uno dei peggiori delinquenti sulla faccia della terra. Un perverso meccanismo manovrato da una magistratura politicizzata e schierata a sinistra. Marco Mescolini, mio accusatore, è stato ricompensato nel 2018 con la nomina a Procuratore della Repubblica di Reggio Emilia, città natale dell’ex premier Romano Prodi nel cui secondo governo (2006-2008) Mescolini ricoprì l’incarico di capo di gabinetto del Vice Ministro dell’Economia Roberto Pinza. Invece il Procuratore della Repubblica di Parma Gerardo Laguardia che si dilettava di trattarci come ladri di polli durante il sue conferenze-stampa (identico trattamento riservato nel 2004 a Calisto Tanzi dopo il crac Parmalat), si presentò alle elezioni comunali del giugno 2017 nella lista “Parma Protagonista” a sostegno del candidato sindaco di centro-sinistra, ottenendo il misero bottino di 70 preferenze. Una vergogna che ha espropriato le prerogative democratiche, poiché un sindaco e la sua giunta devono essere giudicati dai cittadini e non da un tribunale, e consegnato Parma ai presunti moralizzatori grillini poi trasformisti civici che hanno ridotto la città ad un simulacro vivente della cattiva amministrazione. Purtroppo ho conosciuto nei corridoi dei tribunali tanti uomini e donne rovinati da una giustizia partigiana e teleguidata. La mia storia non è la premessa di una vendetta, bensì l’impegno ad una battaglia di civiltà perché una democrazia senza giustizia è una realtà distorta senza verità.
Causò dimissioni del sindaco Vignali di Parma, dopo 10 anni: “Ci siamo sbagliati”. Paolo Comi su Il Riformista il 30 Giugno 2020. Sono serviti dieci anni al pm di Parma Paola Dal Monte per scrivere questa richiesta di archiviazione: «Gli investigatori sono incorsi in alcuni errori di valutazione che hanno determinato il contenuto della Cnr (comunicazione di notizia di reato, ndr) da cui è scaturita l’iscrizione». Quando uno pensa di aver già visto di tutto, ecco che la giustizia italiana offre subito qualche nuova perla. Questi i fatti. La Procura di Parma nel 2010 apre una serie di fascicoli sul Comune ducale, l’unico capoluogo di provincia in Emilia Romagna all’epoca retto da una amministrazione di centrodestra. Sull’allora sindaco Piero Vignali, sui suoi assessori e dirigenti, si scatena una girandola di procedimenti per le accuse più disparate: dalla corruzione nella gestione degli appalti pubblici, all’assegnazione farlocca dei servizi di ristorazione scolastica, fino all’assunzione di personale in maniera illegittima. Vengono contestati tutti i reati indicati nel capo primo del libro secondo del codice penale. Le indagini sono condotte dalla guardia di finanza in maniera spettacolare. Perquisizioni, sequestri, esecuzioni di misure cautelari, avvengono sempre in diretta televisiva e gli indagati di turno apprendono la mattina dalla lettura dei giornali di essere oggetto delle attenzioni della Procura. I media locali e nazionali sono ferocissimi e appoggiano pancia a terra l’operato dei pm. Il Corriere della Sera, in un articolo a firma di Aldo Cazzullo, titola: “Parma, la città sotto inchiesta dove tutti rubavano tutto”. Il procuratore Gerardo La Guardia, che qualche anno più tardi si candiderà alle elezioni con il Pd non venendo eletto, viene esaltato come il novello Antonio Di Pietro. Dopo mesi di questo trattamento Vignali è costretto alle dimissioni, spalancando nel 2012 le porte del Comune a Federico Pizzarotti, il primo sindaco grillino d’Italia, eletto a furor di popolo sull’onda dell’indignazione per l’asserita corruzione dilagante nella città di Maria Luigia. E le indagini? Questa settimana la sorpresa. Il procedimento più eclatante, quello dove erano indagati tutti i vertici dell’amministrazione comunale, quindi sindaco, direttore generale, segretario generale, assessore al personale, ecc, accusati a vario titolo di aver assunto personale in maniera clientelare, causando un danno alle casse comunali di oltre tre milioni di euro, si è concluso con un nulla di fatto. «Il criterio previsto dalla legge per l’assunzione appare del tutto rispettato e non può essere invocata la violazione», scrive dopo dieci anni il pm nelle due paginette di richiesta di archiviazione. Archiviazione invece accolta per intervenuta prescrizione da parte del gip Mattia Fiorentini. Tutto ciò accade nel silenzio del Csm e dell’Anm, rinnovati dopo lo scandalo Palamara. Il sempre attento ministro della Giustizia Alfonso Bonafede farà qualcosa? Il procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi, fra la lettura di una chat di Palamara e l’altra, troverà il tempo di capire come sia stato possibile che un pm che abbia impiegato dieci (10) anni per chiudere un’indagine? Se invece tutto ciò è normale, ridateci subito Luca Palamara. Però come primo presidente della Cassazione.
Ecco le prove. Così in Italia fu deviata la politica. Sentenza contro Berlusconi sbagliata e pilotata, dopo 7 anni di gogna ristabilita la verità. Piero Sansonetti su Il Riformista il 29 Giugno 2020. Ci sono le prove che la sentenza che condannò Berlusconi al carcere, nel 2013, e che diede il via al declino precipitoso di Forza Italia, era una sentenza clamorosamente sbagliata. E perdipiù c’è il forte sospetto che lo sbaglio non fu dovuto solamente a imperizia dei giudici, ma – forse: scriviamo dieci volte forse – a un disegno politico del quale è difficile stabilire con precisione gli autori. Una persecuzione in piena regola? Decidete voi. Vediamo bene cosa è successo. Prima a grandi linee e poi nel dettaglio. Berlusconi, come ricorderete, è stato condannato una sola volta (negli altri 70 processi che ha subito è sempre stato o archiviato o assolto o prescritto). Questa condanna – definitiva – risale al 1 agosto del 2013 (allora Forza Italia viaggiava sopra al 21 per cento dei voti). La sezione feriale della Cassazione che emise la sentenza di condanna era presieduta dal magistrato Antonio Esposito (che oggi è un editorialista del Fatto di Travaglio). Relatore era il magistrato Amedeo Franco. A sette anni di distanza emergono delle novità molto importanti, contenute in un supplemento di ricorso alla Corte Europea (contro la sentenza della Cassazione) presentato giorni fa dagli avvocati di Berlusconi (Andrea Saccucci, Bruno Nascimbene, Franco Coppi e Niccolò Ghedini). Le novità essenzialmente sono due: una sentenza del tribunale civile di Milano che ribalta la sentenza penale; e una dichiarazione del dottor Amedeo Franco – ripeto: relatore in Cassazione – che racconta come la sentenza di condanna di Berlusconi da parte della Cassazione fu decisa a priori e probabilmente teleguidata. Per questa ragione era una sentenza molto lacunosa dal punto di vista giuridico.
Partiamo dal primo punto: la sentenza del tribunale civile. È una storia paradossale. Succede questo: la sentenza di condanna di Berlusconi (per frode fiscale) si basava sul presupposto che Mediaset avesse comprato dei film americani attraverso la finta mediazione di un certo Farouk Agrama, pagandoli molto meno di quello che Agrama fece risultare. La differenza tra prezzo vero e prezzo falso fu equamente spartita. La metà la usò Mediaset per abbassarsi le tasse, l’altra metà Farouk Agrama la intascò e la depositò in un conto svizzero. I magistrati sequestrarono il conto svizzero di Agrama. Berlusconi cercò di spiegare che in quel periodo, siccome faceva il presidente del Consiglio, non si occupava dell’acquisto dei film e tantomeno della dichiarazione dei redditi di Mediaset. Ma i giudici di primo, secondo e terzo grado non gli credettero. Sebbene la cifra evasa (circa 7 milioni) rappresentasse meno del 2 per cento dell’intera dichiarazione fiscale. Il processo fu rapidissimo, a smentire la tradizionale lentezza dei tribunali italiani. In primo grado, nel giugno del 2012, il Pm (quel dottor De Pasquale, noto per non aver liberato il presidente dell’Eni Cagliari ed essere partito per le ferie: nel frattempo Cagliari si suicidò; e noto per avere inseguito inutilmente l’altro presidente dell’Eni Scaroni, assolto) chiese 3 anni e otto mesi. La Corte arrotondò a quattro. L’appello si concluse nel maggio dell’anno successivo, confermando la pena, e tre mesi dopo, ad agosto, arrivò la sentenza della Cassazione. Record olimpico di velocità.
A quel punto – incassata la condanna e scontata ai servizi sociali, e incassata anche l’esclusione dal Senato sulla base della Legge Severino, approvata in tempi successivi all’ipotesi di reato e dunque, per la prima volta nella storia della Repubblica e anche del Regno, con l’attuazione retroattiva di una legge – incassato tutto ciò, Berlusconi (più precisamente Mediaset) si rivolse a un tribunale civile in virtù di un ragionamento molto semplice: se davvero, come dite voi, Agrama mi ha fregato tre o quattro milioni, me li ridia.
C’è stata appropriazione indebita. Il tribunale civile di Milano, con una recente sentenza, dopo aver esaminato tutte le carte e ascoltato tutti i testimoni, e preso in considerazione tutti gli atti dei processi penali, compresa la sentenza della Cassazione, ha escluso che ci fosse appropriazione indebita, ha stabilito che l’intermediazione non era fittizia, che la società di Agrama (che le sentenze penali avevano dichiarato fosse un’invenzione) è una società vera e propria e ben funzionante, e ha anche stabilito che non solo non ci fu maggiorazione nelle fatture, ma che il prezzo al quale Mediaset comprò era un ottimo prezzo. Diciamo che ha smontato a pezzettini piccoli la sentenza di condanna di Berlusconi.
Ce n’è abbastanza per gridare allo scandalo? No: aspettate, aspettate. È successo che dopo la sentenza, il dottor Franco (cioè, ricordiamo di nuovo, il relatore in Cassazione) incontrò Berlusconi e commentò la sentenza e l’andamento del processo. Berlusconi non era solo, quando incontrò Franco, c’erano dei testimoni a questo colloquio, e uno dei testimoni registrò. Tra poche righe ricopiamo parte della trascrizione di questo colloquio. Prima vi diciamo che gli avvocati di Berlusconi sostengono che in questi anni non hanno usato la registrazione per rispetto del magistrato, che era rimasto in attività. L’altr’anno però il dottor Franco è morto, e ora gli avvocati di Berlusconi hanno deciso di usare la registrazione e l’hanno depositata nel ricorso alla Cedu. Qui mi limito a trascrivere un po’ di frasi. Sono frasi che fanno accapponare la pelle, specie se si pensa che questo magistrato non è uno qualsiasi, è stato il relatore nel processo a Berlusconi e, ragionevolmente, ne ha chiesto inutilmente l’associazione.
Eccole qui. «Berlusconi deve essere condannato a priori perché è un mascalzone! Questa è la realtà… a mio parere è stato trattato ingiustamente e ha subito una grave ingiustizia… l’impressione che tutta questa vicenda sia stata guidata dall’alto… In effetti hanno fatto una porcheria perché che senso ha mandarla alla sezione feriale? … Voglio per sgravarmi la coscienza, perché mi porto questo peso del… ci continuo a pensare. Non mi libero… Io gli stavo dicendo che la sentenza faceva schifo…». In una seconda conversazione, sempre registrata, il dottor Franco sosteneva che «sussiste una malafede del presidente del Collegio, sicuramente…». E riferiva voci secondo le quali il presidente Esposito sarebbe stato “pressato” per il fatto che il figlio, anch’egli magistrato, era indagato dalla Procura di Milano per… “essere stato beccato con droga a casa di…”. E poi diceva ancora: “I pregiudizi per forza che ci stavano… si potesse fare…si potesse scegliere… si potesse… si poteva cercare di evitare che andasse a finire in mano a questo plotone di esecuzione, come è capitato, perché di peggio non poteva capitare…Questo mi ha deluso profondamente, questo… perché ho trascorso tutta la mia vita in questo ambiente e mi ha fatto… schifo, le dico la verità, perché non… non… non è questo, perché io … allora facevo il concorso universitario, vincevo il concorso e continuavo a fare il professore. Non mi mettevo a fare il magistrato se questo è il modo di fare, per… colpire le persone, gli avversari politici. Non è così. Io ho opinioni diverse della… della giustizia giuridica. Quindi… va a quel paese…». Fermiamoci qui. Che vi pare? In piena magistratopoli c’è una nuova conferma che è più grande di tutte le precedenti. Spesso, molto spesso, la giustizia non ha niente a che fare con la giustizia. Le sentenze, qualche volta, o spesso – non possiamo saperlo – sono decise al di fuori dei processi e per motivi che non hanno niente a che fare con l’accertamento della verità. Talvolta in questo modo si rovinano vite. O reputazioni. Stavolta addirittura si è rovinato un partito e deviato il corso della politica nazionale. State sicuri che nessuno sarà chiamato a rispondere. Però fa rabbia. Figuratevi, Chi scrive mai ha votato per Berlusconi e mai e poi mai lo voterà. Lui è di centrodestra e io sono di sinistra, perché dovrei votarlo? Però sapere che è stata fatta con questi metodi vigliacchi la battaglia contro di lui, beh, sapere questo provoca dolore e paura.
Luigi Ferrarella per il “Corriere della Sera” l'1 febbraio 2020. Doccia fredda da 113 milioni di euro per Rti e Mediaset nel Tribunale civile di Milano. Nelle sentenze penali del 2012 sulla compravendita 1999-2005 di diritti tv Mediaset attraverso le intermediazioni del produttore egiziano-americano Farouk «Frank» Agrama, costata tra l' altro la condanna definitiva a Silvio Berlusconi per frode fiscale, un unico aspetto positivo pareva esserci per Mediaset: poter ottenere, in una successiva causa civile contro Agrama, i danni di quella «appropriazione indebita» (pur prescritta) che le motivazioni della sentenza penale addebitavano appunto ad Agrama. Ma ieri il Tribunale civile di Milano, ritenendo di esercitare «il potere/dovere di rivalutare criticamente (alla luce anche del contraddittorio) i fatti già accertati in modo incontrovertibile in sede penale», rigetta la richiesta di danni formulata per almeno 103 milioni da Reti Televisive Italiane (il polo tv di Berlusconi) e per almeno 10 milioni da Mediaset, perché matura una convinzione opposta: Agrama era un vero intermediario, i contratti erano effettivi, e dunque «l' interposizione fittizia contestata nei capi di imputazione non sussiste!». Addio soldi che Mediaset pensava di recuperare nella causa curata dagli avvocati Fabio Lepri e Salvatore Pino. E musica celestiale invece per Agrama, che con l' avvocato Roberto Pisano pregusta l' avvicinarsi dell' ora in cui in Svizzera potrà di nuovo disporre dei 148 milioni in sequestro dal 2005. Il complesso dei processi penali istruiti dal pm Fabio De Pasquale aveva ritenuto provata la fittizietà, nelle catene d' acquisto dei diritti tv, dell' intervento delle società di Agrama in Usa e a Hong Kong, privo di qualsiasi ragione economica e tale da far sì che il costo sostenuto in più (rispetto al costo di acquisto originario dal produttore) fosse indebita maggiorazione lucrata da Agrama ai danni di Mediaset. Al contrario, per il presidente della X sezione civile Damiano Spera (giudice della causa civile sull' appropriazione indebita di Agrama, senza riverberi sulla frode fiscale per cui furono condannati Agrama a 3 anni e Berlusconi a 4), Agrama aveva «una complessa organizzazione aziendale idonea a commercializzare i prodotti tv»; il «ricarico» del 50% era, almeno in via astratta, ragionevole in rapporto al rischio di invenduto sul mediatore; e «non solo non è provata una indebita maggiorazione di prezzo, ma dopo l' era di Agrama» Mediaset ha «dovuto subire condizioni negoziali peggiori delle precedenti». Perciò, «dalla maggiorazione dei prezzi» rispetto a quelli praticati da majors come Paramount, «non può inferirsi automaticamente un meccanismo di appropriazione di risorse» di Mediaset, «ma, più semplicemente, un esempio di determinazione del prezzo nel libero mercato dei prodotti tv». Convinzione che il giudice aggancia alla giurisprudenza di Cassazione per la quale non c' è appropriazione indebita laddove la condotta distrattiva (in questo caso di Agrama, ndr ) sia «comunque risultata idonea a soddisfare, anche se indirettamente, l' interesse della società (in questo caso Mediaset, ndr ), e non invece un interesse esclusivamente personale del disponente in contrasto con quello proprio della società». Anche il giudice civile, come quelli penali, constata che Agrama fece avere 16 milioni a sei manager di Rti e Mediatrade a titolo di «consulenze». Ma per il giudice civile «manca la prova di una specifica pattuizione (ex ante) sul quantum in relazione a ciascun contratto», e quei pagamenti sarebbero invece stati «effettuati da Agrama con molta discrezionalità, per compensare i funzionari per le segnalazioni ricevute nonché anche per incentivare quelle future».
Il j'accuse. Le accuse di Ernesto Galli della Loggia: “Il potere dei Pm e la paura degli intellettuali”. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 30 Giugno 2020. Suppongo (e spero) non stia parlando di sé, il professor Ernesto Galli della Loggia quando narra di una indeterminata “opinione pubblica” che in tutti questi anni, pur conoscendo le nefandezze dei magistrati oggi scoperchiate dalla bocca e dalla mano di Luca Palamara, non ha mai detto nulla per paura. Sì, lo scrive e lo ripete con un certo vigore, il commentatore del Corriere della sera. Paura. Se alludesse al comprensibile timore che ogni cittadino nutre nei confronti di colui che dall’alto del suo scranno, della sua nera toga e del suo bianco bavaglino, decide della sua libertà (cioè della sua vita), Galli della Loggia si sarebbe limitato a dire una ovvietà. Ma l’uomo non è mai ovvio, e non lo è neppure in questa occasione. Infatti ci dà una notizia. Questa è la notizia. Silvio Berlusconi nelle sue battaglie per una giustizia imparziale aveva ragione (talvolta, dice il professore) ma non lo si poteva dire per la paura di essere appiattiti sulla “destra berlusconiana”. È questa la paura. È interessante la scelta delle parole che esprimono il concetto. Che cosa è “la stragrande maggioranza dell’opinione pubblica”? Sono solo i cittadini che vanno a votare o non anche gli intellettuali che scrivono sui giornali, quelli che vaneggiano di “caste” sui libri, e quei politici che, facendosi un baffo dell’opinione di illustri costituzionalisti, hanno fatto espellere Berlusconi dal Senato? Dobbiamo pensare che tutti questi, cioè coloro che hanno contribuito a cambiare la storia giudiziaria, e quindi politica, del Paese lo hanno fatto per “paura”? La magistratura, scrive ancora della Loggia con una continua attenta selezione del linguaggio, «ha guadagnato il silenzio complice di molti». Fino a perdere l’anima della propria identità. Perché, in sintesi, in questo presunto corpo a corpo che la “destra berlusconiana” avrebbe ingaggiato con le Procure, il clima si è avvelenato tanto che questo esercito di paurosi è stato silenziosamente complice dei peggiori intrallazzi (il sostantivo scelto non è mio) degli uomini in toga, del loro sindacato corporativo e lottizzato e anche del Consiglio superiore, che proprio superiore non è, come si è visto. Povero Silvio! “Avvisato” a Napoli mentre presiedeva un convegno internazionale sulla criminalità per un reato da cui è stato assolto, poi condannato per l’evasione di una cifra che per le sue società rappresentava qualche nocciolina, poi indagato-archiviato-indagato-archiviato-indagato addirittura come mandante di stragi di mafia. Ma nessuno finora, neanche un procuratore della Repubblica, lo aveva mai sospettato di essere il mandante della vigliaccheria di un drappello di intellettuali capaci di contribuire, con il loro “silenzio complice”, alle ingiustizie di venticinque anni di storia giudiziaria e politica italiana. Sono sicura che Ernesto Galli della Loggia non abbia parlato di sé, nel commento che sul Corriere della sera narra «dell’Identità smarrita dei magistrati italiani». Perché lui – e non lo fa neppure in questa occasione – è un intellettuale non abituato a nascondersi, neppure quando pizzica i suoi colleghi cattedratici. Ma forse sta parlando di qualche direttore di grandi quotidiani, o di qualche assemblatore di atti giudiziari trasformati in libri, o magari di qualche imprenditore proprietario di giornale. Forse anche lui ricorda gli anni di Tangentopoli e quelli che vennero dopo, fino all’oggi. Non c’è bisogno di tornare ai tempi di Romiti e De Benedetti e delle trattative (quelle sì, erano vere) dei loro avvocati con i pubblici ministeri per evitar loro il carcere, per confermare quel che “l’opinione pubblica sapeva” ma solo il trojan di Palamara ha saputo raccontarci. Quando il magistrato diventa politico, perde l’immagine della sua imparzialità, scrive ancora il professor della Loggia. Ma dobbiamo anche chiederci, oggi che qualcuno ha, se pur non di propria volontà, gridato a gran voce che “il re è nudo”, se questa imparzialità sancita dalla Costituzione (cosa che i magistrati dimenticano spesso, a loro interessano solo l’autonomia e l’indipendenza) non sia caduta anche all’interno e come conseguenza di comportamenti portati all’“intrallazzo” e alla “collusione” con la politica. Intrallazzi e collusioni che, per esempio, hanno rafforzato moltissimo, nel processo e fuori di esso (con la complicità di tanti giornalisti), il ruolo dell’accusa. Mortificando non solo la figura dell’avvocato difensore ma addirittura quella del giudice. Se oggi il pubblico ministero vale mille e l’avvocato zero, il giudice arriva al massimo a uno, nella scala dei valori di quelli che contano. Ma quando dico “oggi” intendo dire almeno negli ultimi trent’anni. Vorrei raccontare un episodio “antico”, che ha ritrovato il professor Giuseppe di Federico (e che mi ha gentilmente passato) nell’appendice del libro La degenerazione del processo penale in Italia pubblicato da un grande giurista, Agostino Viviani nel 1988. È la storia del casuale ritrovamento, tra le carte di un processo celebrato in una grande città italiana, di una lettera scritta da una presidente del tribunale del Riesame al presidente del tribunale. Questa giudice raccontava di aver subito una «violenta aggressione verbale da parte del pm poiché si era permessa di rimettere in libertà un imputato di partecipazione a banda armata, nonostante la diversa richiesta dell’accusa. Ma questo pubblico ministero non si era limitato agli insulti e all’aggressione, si era anche rivolto al Presidente del tribunale della grande città perché intervenisse. E costui, invece di denunciare il pm ai titolari dell’azione disciplinare, aveva convocato la presidente del Riesame. Tanto che costei, «in uno stato di grave disagio», poiché doveva giudicare un altro caso analogo e con la presenza dello stesso pm, si era dimessa. Va da sé che il suo successore non scarcerò. Proprio come voleva il famoso pm. Questo caso fu portato due volte al Consiglio superiore della magistratura, prima dallo stesso Viviani e poi da Di Federico. Furono insultati pure loro e non successe niente. Per l’organo di autogoverno tutto ciò era normale. Il famoso pubblico ministero poté percorrere tutta la sua carriera fino ai massimi vertici e tranquillamente in seguito andare in pensione. Ma quel presidente di tribunale che portò una sua collega, supponiamo molto più giovane di lui, alle dimissioni, come si sente con la coscienza? Di questo bisognerebbe parlare quando si narrano gli intrallazzi e le collusioni della magistratura e soprattutto il dis-funzionamento del Csm e il ruolo politico di giudici e pubblici ministeri. E mi tocca anche leggere, sempre sul Corriere, ma del giorno prima, che Niccolò Ghedini, che casualmente è anche l’avvocato di Silvio Berlusconi, dice che non si devono separare la carriere di giudici e pm perché è bene che il rappresentante della pubblica accusa mantenga (ma quando mai l’ha avuta?) la “cultura della giurisdizione”. Consiglio anche a lui la lettura del libro di Agostino Viviani. E della lettera (che pubblicheremo) di quella presidente del tribunale del Riesame dei tempi dei processi per terrorismo. Quelli in cui si fecero le prove generali di quel che capiterà in seguito con tangentopoli e le inchieste di mafia.
Golpe contro Berlusconi: l’Italia è ancora una democrazia liberale? Giovanni Sallusti, 30 giugno 2020 su Nicolaporro.it. Scusate, capisco che sia un dettaglio nell’era Conte-Casalino, l’era del cazzeggio tra Facebook e Villa Phampili elevato ad arte di governo, ma io gradirei sapere se vivo ancora in una democrazia liberale o no, e scommetto di non essere il solo. A quasi ventiquattr’ore dallo scoop di Quarta Repubblica e del Riformista, niente niente le affermazioni di uno dei giudici che condannò Silvio Berlusconi per il processo Mediaset secondo cui la sentenza fu pilotata “dall’alto”, una vera e propria “porcheria”, i siti dei giornaloni non possono più andare avanti a fischiettare, sono costretti a dare la notizia (per una volta, termine non abusato). Ma il titolo copia&incollato dalla Redazione Unica Politicamente Corretta suona “destra all’attacco”, “levata di scudi di Forza Italia”, “Forza Italia vuole una commissione d’inchiesta”…No, scusate, le reazioni del caso sono prevedibili e se permettete pure parecchio fondate, vista l’enormità della no-ti-zia, ma oggi la parola che dovrebbe campeggiare ovunque è anzitutto una: golpe. C’è stato o no un golpe in Italia, in teoria uno Stato di diritto ancorato nel mondo occidentale, l’1 agosto 2013? Viviamo sotto un golpe da sette anni (perché è fin banale notare che quella sentenza cambiò la morfologia del panorama politico e la stessa storia del Paese)? La democrazia liberale è sospesa oggi nella penisola, un flatus vocis, un involucro formale dentro cui una banda (nel caso, da intendere proprio in senso tecnico) di magistrati ha orchestrato un colpo di Stato degno del Venezuela, dell’Iran, della Corea del Nord? Perdipiù con quella terribile allusione, “vicenda guidata dall’alto”, e riferito alla corporazione in toga quell’ “alto” è fin troppo chiaro nella sua apparente indefinitezza, per cui la domanda diventerebbe addirittura: ci sono poteri dello Stato, perfino ai massimi livelli, che si sono rivoltati contro le regole fondative dello Stato stesso, a partire da quella Costituzione tanto sbandierata nella retorica, per eliminare un nemico politico? Vige lo stalinismo oggi, in Italia, per quanto ripulito e incistato nei gangli rispettabili della Repubblica? Sì o no, non ci sono terze vie, risposte mediane, divagazioni giornalistiche che possano sfuggire dall’aut-aut. Né ci si può arrestare davanti al bivio, nessuna democrazia liberale può convivere anche solo con il dubbio che il suo corso sia stato alterato, e la sua essenza snaturata in un regime mascherato, dove il potere giudiziario diventa strumento per fare carne di porco della dialettica politica, con tanti saluti al barone di Montesquieu. La Corte di Cassazione ridotta a “plotone d’esecuzione”, come dice anni dopo il magistrato Amedeo Franco a lui, al fucilato, per “sgravarsi la coscienza”. Viviamo in un Paese così, dove il leader di uno schieramento politico avverso “deve essere condannato a priori perché è un mascalzone”? Siamo ancora una democrazia liberale, oppure ogni cittadino rischia di finire davanti al “plotone d’esecuzione” per le proprie idee? Per i magistrati italiani, o alcuni di essi, si può essere “condannati a priori”, indipendentemente da prove, riscontri fattuali, singole responsabilità accertate? Esercitare il diritto di voto, qualificante in democrazia, è inutile? Mi, vi, ci devono una risposta. E se golpe è stato, i golpisti devono essere messi alla sbarra. Altrimenti, chiediamo a Maduro di essere annessi al paradiso comunista caraibico, e facciamola finita. Giovanni Sallusti, 30 giugno 2020
Silvio Berlusconi, l'audio-shockc di Franco è solo l'inizio: "I colpi di Stato per mano della sinistra sono stati almeno quattro". Libero Quotidiano il 30 giugno 2020. L'ingiusto danno nei confronti di Silvio Berlusconi deve essere risarcito. L'audio sconvolgente del giudice Amedeo Franco sulla sentenza "pilotata" che ha visto condannare il Cav nel 2013 per frode fiscale Mediaset-Agrama, ha scatenato Forza Italia. "Chiediamo che ci sia una commissione parlamentare di inchiesta per accertare tutte le disfunzioni del sistema giudiziario nel nostro paese, compresa la vicenda che ha portato alla condanna di Berlusconi. Ci aspettiamo che la Corte di Strasburgo decida autonomamente. Che accerti perché in Italia la giustizia penale non ha funzionato", ha subito replicato il vicepresidente azzurro, Antonio Tajani. E sulla rivelazione portata alla luce da Il Riformista e da Quarta Repubblica di Nicola Porro, interviene anche Massimo Mallegni: "Purtroppo niente di nuovo sotto il sole. L’unica colpa di Berlusconi è quella di essere sempre stato un uomo libero. Nessuno potrà mai risarcirlo abbastanza, ma per i suoi meriti politici meriterebbe di essere eletto prossimo Capo dello Stato. Berlusconi, come purtroppo decine di migliaia di italiani incluso il sottoscritto, ha subito un ’processo politico ed è stato cacciato ingiustamente dal Senato della Repubblica", il vicepresidente dei senatori di Forza Italia va dunque oltre la proposta di Licia Ronzulli di nominare il leader "senatore a vita". "Ma i colpi di Stato - prosegue Mallegni - sono stati almeno 4 e tutti orchestrati dalla sinistra che non avendo vinto le elezioni ha usato la via giudiziaria per prendersi il potere. Oggi per poter sanare questo gravissimo vulnus e per dare nuova speranza al nostro Paese, Silvio Berlusconi dovrebbe essere eletto Capo dello Stato".
Veronica Gentili e Silvio Berlusconi: "Ha goduto per la condanna del Cav, ora chieda scusa". Azzurra Barbuto su Libero Quotidiano il 30 giugno 2020. Oggi, grazie ad una intercettazione, sappiamo che Silvio Berlusconi anni fa fu condannato ingiustamente dai giudici a quattro anni di galera. E ricordo che ha scontato la pena facendo i servizi sociali. In quella occasione i giornali di sinistra, ma soprattutto Il Fatto Quotidiano esultarono: il mostro finalmente era stato punito. Le ultime rivelazioni ci fanno sapere in modo incontrovertibile che quello contro il leader di Forza Italia fu un vero e proprio complotto ordito e realizzato con la complicità delle toghe, ossia di coloro che devono applicare le leggi ed essere non solo amministratori ma anche custodi della Giustizia. Vorremmo sapere cosa ne pensa Veronica Gentili, che in quei giorni sul blog del Fatto festeggiava la condanna. Ecco uno stralcio. Titolo: “Sentenza Mediaset, irrevocabile: a prova di lupo”. Data: 3 agosto del 2013. Scriveva Gentili: “Mi torna in mente la storia dei tre porcellini che dovevano costruirsi una casa per ripararsi dal lupo: il primo la fece di paglia e quando il lupo arrivò, soffiò e la buttò giù; il secondo la fece di legno e quando il lupo arrivò, sbuffò e la buttò giù; il terzo la fece di mattoni e quando il lupo arrivò, soffiò, sbuffò, gridò ma la casa resse. Ecco, ieri, dopo vent’anni di paglia e legno, dei giudici hanno fatto quello che dice la parola stessa, hanno giudicato; e, così facendo, hanno finalmente rimesso i primi mattoni sui quali cominciare a costruire uno Stato a prova di lupo”. Gentili stasera sarà in onda, in diretta, su Rete4. Non si potrà non affrontare questo argomento di stretta attualità. Potrebbe magari cogliere l’occasione per chiedere scusa per essere stata tanto superficiale, per avere goduto di una condanna ingiusta, per avere festeggiato non la realizzazione della somma giustizia, come riteneva lei, bensì della somma ingiustizia. Più che uno “Stato a prova di lupo” fu costruito allora uno Stato a prova di avvoltoi.
Veronica Gentili, i peggiori insulti a Silvio Berlusconi: "Mitomane", "puzzolente", "osceno", "roba da porno di serie B". Libero Quotidiano il 26 giugno 2020. Nessuno è più duttile e versatile di lei, doti di cui del resto deve essere munita un'attrice, quale ella si definisce. Veronica Gentili è antiberlusconiana quando verga su Il Fatto Quotidiano e diventa berlusconiana quando si trova sotto il tetto di Mediaset, azienda contro la quale ha tuonato per anni, presa da una foga moralizzatrice degna di un giudice dell'Inquisizione, ma per la quale oggi lavora. Il 3 agosto del 2013, giusto per rinfrescarci la memoria, la paladina della giustizia scriveva sul sito del giornale di Marco Travaglio in un pezzo dal titolo "Sentenza Mediaset, irrevocabile: a prova di lupo": «Mi torna in mente la storia dei tre porcellini che dovevano costruirsi una casa per ripararsi dal lupo: il primo la fece di paglia e quando il lupo arrivò, soffiò e la buttò giù; il secondo la fece di legno e quando il lupo arrivò, soffiò e la buttò giù; il terzo la fece di mattoni e quando il lupo arrivò, soffiò, sbuffò, gridò ma la casa resse. Ecco, ieri dopo vent' anni di paglia e legno, dei giudici hanno fatto quello che dice la parola stessa, hanno giudicato; e, così facendo, hanno finalmente rimesso i primi mattoni sui quali cominciare a costruire uno Stato a prova di lupo». Non si capisce un bel niente, vero, però è palese che Veronica gongolava poiché il giorno precedente Silvio era stato condannato a 4 anni di reclusione. Gentili ricorre spesso a queste figure retoriche che non fanno altro che appesantire i suoi componimenti già tediosi. Impossibile per il lettore seguire il filo delle sue contorte elucubrazioni, costellate di parole e frasi ad minchiam, ci si smarrisce nelle pieghe di una prosa confusa, ridondante, priva del requisito minimo indispensabile allorché ci si rivolge ai lettori: la sana vecchia chiarezza. Tuttavia chiara è l'acredine di Veronica nei confronti del suo attuale datore di lavoro nonché il disprezzo verso le donne che lavorano per lui, le quali vengono dipinte quali poco di buono, vendute. Il 17 luglio 2013 l'attrice si scaglia pure contro Alfano, accusandolo di curare «gli interessi personali del cavaliere Berlusconi». Il governo Letta? È come stare «chiusi in ascensore con l'assistenza che non accenna ad arrivare. Uno dei passeggeri sprigiona dalle ascelle un afrore acre e nauseabondo, eppure non c'è modo di liberarsene. Un altro ha la nausea, ma a che pro lamentarsi delle puzze di qualcuno con cui non si può evitare di stare braccio a braccio? L'atmosfera letteralmente irrespirabile diventerebbe così anche metaforicamente irrespirabile. Tanto vale ingoiare il rospo e pazientare». Va da sé che colui che mozza il fiato sul montacarichi è Berlusconi. Certi passaggi del testo sono da premio Pulitzer.
L'OSSESSIONE. Il 12 luglio del 2013 Veronica, la quale va a dormire pensando a Berlusconi e si sveglia allo stesso modo (la sua è una autentica ossessione), è autrice dell'articolo dal titolo "Silvio e un Parlamento tutto suo". Eccone uno stralcio: «Ad un'ormai preistorica indignazione di fronte agli intrighi, ai reati, alle beghe giudiziarie e ai conflitti d'interessi di un industriale miliardario e mitomane, è rapidamente subentrata una diffusa rassegnazione all'osceno, che, quando per collusione, quando per connivenza, quando per comodità, ha trasformato in accettabile il non accettabile, fino ad arrivare all'apologia collettiva dell'indefinibile, ad opera di replicanti super partes, troppo calati nel ruolo». E di comodità che trasforma in accettabile il non accettabile Veronica se ne intende, considerato che ora che è impiegata a Rete4 ha smesso di inveire contro il "mitomane" leader di Forza Italia. Il 30 giungo del 2013 se la prende con qualche deputata forzista, di cui non inserisce neppure il nome, in segno di disprezzo assoluto: «Venerdì sera ho avuto un incontro ravvicinato del terzo tipo con un'illustre esponente femminile del Pdl, eminenza grigia dell'ars oratoria della destra contemporanea. Nonostante l'ombra del processo Ruby, con la conseguente ignominiosa moralistica ipocrita condanna del suo datore di lavoro, la costringessero a quell'atteggiamento indomito e coraggioso tipico delle amazzoni berlusconiane, l'onorevole, come posseduta, ha finito per non rendersi conto di nulla. Le deve essere sfuggito che le poltroncine di legno su cui siedevano (sic!) da brave compagne di banco». E poi: «Niente, come una baccante nell'acme dell'invasamento, la mia vicina ha iniziato a rivolgere a me il rosario di insulti e anatemi che zelantemente sgranano ad ogni piè sospinto, ben attente a non fare distinzioni, le pasionarie pidielline, poco importava che io fossi un'attrice e parlassi di quanto sia ardua la resistenza ai compromessi sessuali».
LA CONFUSIONE. Il 25 giugno 2013: «Questa sembra essere la morale della favola berlusconiana: crescita, apogeo e declino di un uomo la cui vera colpa è stata la confusione tra brutto e bello». E ancora: «Con le sue gesta, erotiche e non (ma comunque mai molto diverse da un porno di serie b), con la sua astuzia luciferina ma dai contorni triviali, con il suo eterno sorriso plastificato nel lifting, con il mito del paese dei balocchi a portata di telecomando, con il suo baraccone di figuranti scolpiti nel silicone, Silvio ha per oltre un ventennio mistificato il concetto di bello e relegato nella discarica del brutto tutto ciò che non fosse furbo, patinato, paraculo e fosforescente. La cultura del vincente a tutti i costi ha infestato l'aria degli ultimi decenni di un puzzo di mediocrità che nello squallore dei festini dell'impotenza mascherata ha toccato il suo apice. Perché, anche Silvio, come il povero Macbeth, è in fondo troppo uomo, e dunque troppo mediocre». Il 3 ottobre del 2013 Silvio è «consumato tra i saloni della propria scatola cranica». Il 26 novembre dello stesso anno: «Berlusconi è stato, su ristretta e su larga scala, un venditore di sogni. L'insaziabile vampiro che ha lussuriosamente succhiato il sangue della generazione alla quale ha proposto/imposto i suoi modelli». «Ciò che avrei voluto spiegare a Biancofiore era che la disinfestazione mentale attuata dal suo datore di lavoro ai danni della mia generazione, ha bonificato il terreno delle individualità, del pensiero critico, del progetto soggettivo, e lo ha poi seminato con i mucchi di sogni ad personam, firmati dal Cavaliere in persona». Il 18 ottobre del 2013, a proposito di Michelle Bonev: «Berlusconi è un sapiente incantatore, un lungimirante Babbo Natale e sa qual è la merce di scambio per comprare qualsiasi donna: Michelle vuole il sogno. E lui le regala il sogno, il suo film. Il bisogno del suggello artistico è un cancro che può mangiare l'anima. Noi attori lo sappiamo bene Michelle ha permesso al potere di sodomizzarle l'integrità».
LA SOMIGLIANZA. Il 22 gennaio del 2014 Gentili paragona Berlusconi a Bette Davis: «Una smaccata somiglianza tra l'inquietante Bette David, eterna bambina, e il cavaliere in plastilina Berlusconi è sempre stata riscontrabile dal punto di vista somatico; le assonanze caratteriali tra la dispotica bambina prodigio e l'ostinazione pervicacemente anacronistica del leader politico si sono invece rivelate nel tempo preoccupantemente numerose». Il 26 aprile del 2014 in "Berlusconi: la mattanza del mattatore": «Eccoci al tragico epilogo del presidente operaio imprenditore cavaliere senatore Berlusconi Ingessato, contratto, stanco, il burattinaio B. è diventato troppo lento nel tirare i fili della sua stessa marionetta. Il tempo di un'interruzione pubblicitaria per cambiare idea: qualche minuto per ripassare il copione, ricevere qualche nuova imbeccata da lasciar filtrare immediatamente dall'orifizio sghembo che cerca di farsi spazio nella selva di botulino circostante, prima di avere dimenticato nuovamente qualche sia la risposta giusta». Il 12 marzo del 2015 Gentili firma un articolo sarcastico: "Berlusconi assolto, nascono nuovi ordini religiosi: carmelitane scalze, olgettine sui tacchi". Qui si interrompe la copiosa e spumeggiante produzione di Veronica contro Berlusconi. E dopo poco troviamo Gentili su Rete4, Mediaset, prima come opinionista, non molto dotata, poi come impacciata conduttrice. Ad ogni modo sostiene meglio la telecamera che la penna. E pensare che il mondo non si sarebbe accorto di questa signora aspirante tutto se non avesse denigrato Silvio nel programma Piazzapulita il 26 novembre del 2013, tacciandolo di averle spezzato i sogni. Lo stesso Silvio per cui oggi ella, "amazzone berlusconiana", lavora.
Andrea Biondi per ilsole24ore.com il 26 febbraio 2020. Mediaset la spunta in Olanda. Il tribunale di Amsterdam ha rigettato le richieste di Vivendi di sospensiva dell’operazione che porta alla holding di Mfe. Dal canto suo il socio francese ha già annunciato che farà appello contro la decisione. Il giudice, a quanto risulta, ha dunque deciso che il sistema a voto speciale non è in violazione della legge olandese; che l’esito del caso della Corte di Giustizia dell'Unione Europea – che dovrà esprimersi sul ricorso dei francesi contro la norma che ne ha imposto il congelamento di quote all’interno del trust Simon Fiduciaria – è troppo incerto in questo momento; che Mfe non ha violato le norme olandesi sulla fusione. Ultimo ma non ultimo il Tribunale olandese avrebbe deciso sulla falsariga di quanto messo nero su bianco anche dal giudice italiano: vale a dire che nel bilanciamento degli interessi il portato dello stop sarebbe ben peggiore delle conseguenze di un via libera. In via principale Vivendi aveva chiesto al tribunale olandese di giudicare l’eventuale violazione della legge olandese in materia di fusioni e acquisizioni delle delibere assunte e le modalità con cui sono state approvate. Vivendi aveva ritenuto insufficienti le modifiche introdotte allo statuto di MediaforEurope (Mfe) da parte di Mediaset il 10 gennaio (in Italia) e il 5 febbraio (in Spagna), con la cancellazione di alcuni punti considerati “anti-Vivendi”. In via subordinata Vivendi aveva chiesto alla Corte di Amsterdam di attendere la pronuncia della Corte di Giustizia Europea a cui il gruppo francese si è rivolto impugnando la delibera Agcom dell’aprile 2017 che, come detto, ha portato a congelare le quote sopra il 9,9% detenute da Vivendi nel capitale del gruppo di Cologno. Il giudizio è comunque appellabile e Vivendi, come detto, ha già annunciato appello. Arriva però nel frattempo a definizione il terzo step di una infinita battaglia giudiziaria che vede contrapposti da una parte Mediaset intenzionata a portare avanti il suo progetto internazionale e dall’altra il socio “scomodo” Vivendi, titolare di un 28,8% di azioni ma solo per il 9,9% con diritto di voto, dopo la decisione presa da Agcom in base ai dettami del Tusmar e della Legge Gasparri e del divieto di contemporanea presenza rilevante in Telecom e Mediaset. Adesso, per chiudere il cerchio e portare a termine il progetto Mfe (da chiudere entro agosto), a Mediaset manca solo il giudizio di merito spagnolo, dopo che il Tribunale di Madrid ha deciso lo stop alla fusione fra Mediaset e la controllata spagnola Mediaset Espana alla base del progetto Mfe. Quello stop però non ha tenuto conto delle modifiche allo statuto di Mfe nel frattempo apportate in Italia e in Spagna. «Il Tribunale di Amsterdam - commenta Mediaset in una nota – ha rigettato oggi le istanze cautelari presentate da Vivendi con le quali si chiedeva di bloccare la fusione transfrontaliera tra Mediaset e Mediaset España. La corte olandese ha respinto tutte le richieste di Vivendi, ritenendo il sistema di voto maggiorato SVS conforme alla legge olandese, così come l'intero piano di fusione. Il progetto “MFE-MEDIAFOREUROPE” è pertanto confermato e procede». Quanto a Vivendi, il commento è affidato a un portavoce: «Vivendi ha preso atto della decisione odierna della corte di Amsterdam nel procedimento cautelare. Vivendi presenterà un appello contro questa decisone dal momento che se il piano di fusione di Mediaset andasse avanti, porterà ad un danno sproporzionato per tutti gli azionisti di minoranza. La Corte ha deciso che non è stato possibile condurre una discussione completa poiché Mediaset ha presentato una nuova proposta di fusione pochi giorni fa. La nuova proposta deve prima essere esaminata da un notaio. Se il notaio dovesse decidere che la fusione può andare avanti, la Corte ha stabilito che Vivendi può presentare una nuova richiesta di provvedimenti provvisori. Nel frattempo, la decisione della Corte d'Appello spagnola del 17 febbraio implica che la fusione rimane sospesa fino a quando non verrà presa una decisione nel merito in Estate».
· Berlusconi e la Mafia.
Silvio Berlusconi e la mafia: vent'anni di soldi in nero (ma nessuno ne parla). Le verità scomode sul leader di Forza Italia: dal patto con i boss per assumere ad Arcore il mafioso Vittorio Mangano, al lavoro sporco di Marcello Dell’Utri, condannato perché portava a Cosa Nostra le buste di denaro di Silvio, ogni sei mesi, dal 1974 al 1992. Fatti comprovati e accertati in tutti i gradi di giudizio, ma ignorati nella campagna elettorale. Paolo Biondani su L'Espresso il 23 febbraio 2018. C’è una storia di mafia e potere di cui in questa campagna elettorale si parla pochissimo, anche se riguarda il leader politico indicato dai sondaggi come il più probabile vincitore del voto di domenica 4 marzo. E' la storia di mafia, soldi in nero, ricatti, bombe e bugie raccontata nel processo che è costato una condanna definitiva a Marcello Dell’Utri. Dichiarato colpevole di aver fatto da mediatore, tesoriere e garante di un patto inconfessabile tra Silvio Berlusconi e Cosa nostra. Un patto con la mafia durato quasi vent’anni. Il caso Dell'Utri è una vicenda cruciale nella biografia del miliardario imprenditore milanese. Dell’Utri è amico da una vita di Berlusconi ed è stato il suo braccio destro negli affari fin dagli anni Settanta, prima nell’edilizia, poi nella pubblicità televisiva. Tra il 1993 e il 1994 è lui che ha creato e organizzato in pochi mesi Forza Italia, il partito-azienda con cui Berlusconi ha conquistato anche il potere politico. Qui pubblichiamo un'ampia sintesi del caso Dell'Utri, estratta dalla nuova edizione del libro “Il Cavaliere Nero, la vera storia di Silvio Berlusconi”, scritto da un giornalista de L'Espresso, Paolo Biondani, con il collega Carlo Porcedda, per l'editore Chiarelettere. Un libro che si caratterizza, tra i tanti saggi sul leader di Forza Italia, perché racconta solo i fatti che risultano verificati, comprovati e accertati in tutti i gradi di giudizio, nei processi che hanno portato alle condanne definitive di Dell'Utri per mafia, a Palermo, e di Berlusconi per frode fiscale, a Milano, con la sentenza del primo agosto 2013 che lo ha reso incandidabile.
IL PROCESSO E LA CONDANNA DEFINITIVA DI DELL'UTRI. Marcello Dell’Utri è stato condannato per «concorso esterno» in associazione mafiosa. Non gli si imputa di essere entrato in Cosa nostra con il rituale giuramento di affiliazione, né di essere diventato un «uomo d’onore» di una specifica «famiglia» mafiosa. L’accusa è di aver fornito dall’esterno un sostegno consapevole, determinato, stabile, rilevante, ma nel suo caso strettamente economico, in grado di favorire quell’organizzazione criminale che per decenni ha dominato con il sangue la Sicilia e condizionato l’Italia. È una forma di complicità indiretta, teorizzata per la prima volta dai giudici dello storico pool antimafia di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino (…). Dell’Utri viene rinviato a giudizio a Palermo il 19 maggio 1997, quando è parlamentare di Forza Italia già da tre anni. Con lui finisce a processo un presunto complice, Gaetano Cinà, morto prima del verdetto definitivo della Cassazione. Il processo, lentissimo, è segnato da udienze rinviate per scioperi degli avvocati, assenze o malattie di testimoni o per non interferire con gli impegni politici di Dell’Utri. La sentenza di primo grado viene emessa l’11 dicembre 2004, dopo circa 300 udienze: il Tribunale di Palermo condanna Dell’Utri a nove anni di reclusione, giudicandolo complice esterno di Cosa nostra «da epoca imprecisata, e sicuramente dai primi anni Settanta, fino al 1998». Nel primo processo d’appello la condanna per mafia viene confermata, ma solo per il periodo 1974-1992. Per gli anni successivi i giudici di secondo grado decretano un’assoluzione per insufficienza di prove: i rapporti tra Dell’Utri, Berlusconi e Cosa nostra si possono considerare certi, «al di là di ogni ragionevole dubbio», solo fino all’anno delle stragi di Capaci e via d’Amelio. La pena è ridotta a sette anni di reclusione. La successiva Cassazione riconferma la piena colpevolezza di Dell’Utri per il periodo 1974-1978, considera provati i suoi rapporti con gli esattori della mafia anche nel successivo decennio 1982-1992, ma impone di riesaminare e approfondire, in un nuovo giudizio d’appello, cosa era successo tra il 1978 e il 1982, quando il manager aveva lasciato le aziende di Berlusconi per andare a lavorare con l’immobiliarista siciliano Filippo Alberto Rapisarda. Nell’appello-bis la nuova corte riapre la questione Rapisarda e rivaluta tutti gli altri dubbi sollevati dalla difesa. Anche questo terzo verdetto di merito ribadisce la colpevolezza di Dell’Utri, che risulta pienamente provata per l’intero periodo 1974-1992, e lo ricondanna a sette anni di reclusione. La Cassazione approva e rende definitiva la condanna il 9 maggio 2014, ma intanto Dell’Utri è scappato all’estero. La Procura di Palermo accerta che nel frattempo ha venduto una villa a Berlusconi incassando 21 milioni di euro, per metà trasferiti a Santo Domingo. Dell’Utri, dopo una breve latitanza, viene arrestato in Libano ed estradato in Italia, dove il 13 giugno 2014 entra in carcere per scontare la sua seconda condanna definitiva. La prima gli era stata inflitta negli anni di Tangentopoli come tesoriere dei fondi neri di Publitalia, la cassaforte pubblicitaria dell’impero Fininvest, da lui utilizzati anche per pagare consulenti politici (nome in codice: «operazione Botticelli») e fondare Forza Italia.
VITTORIO MANGANO, UN MAFIOSO AD ARCORE. Il primo pilastro della condanna di Dell’Utri è l’assunzione ad Arcore di Vittorio Mangano: un mafioso di Palermo che nel 1974 va a vivere a casa di Berlusconi. Il suo vero ruolo nella villa di Arcore viene svelato proprio da questo processo. Vittorio Mangano al processo AndreottiMangano è legato a Cosa nostra già dall’inizio degli anni Settanta. (…) Arrestato per la prima volta a Milano il 15 febbraio 1972, per una serie continuata di tentate estorsioni, il 27 dicembre 1974 Mangano torna in carcere per scontare una precedente condanna per truffa, e questa volta viene riammanettato proprio ad Arcore. Il 22 gennaio 1975 viene scarcerato per un cavillo legale e torna a vivere nella villa di Berlusconi, ma non è chiaro per quanto tempo. Di certo il primo dicembre 1975 viene riarrestato nelle strade dello stesso comune brianzolo per possesso di un coltello di genere proibito. Tornato in libertà il 6 dicembre 1975, sceglie ancora una volta la villa di Berlusconi come domicilio legale: è qui che le forze di polizia lo vanno a cercare per le notifiche, almeno fino all’autunno 1976. Nella seconda metà degli anni Settanta Mangano viene bersagliato da numerosi altri provvedimenti giudiziari. Il più grave è l’arresto, eseguito sempre nel territorio di Arcore, nel maggio 1980: Vittorio Mangano viene incriminato nella prima maxi-inchiesta del giudice Giovanni Falcone contro il clan Spatola-Inzerillo. Un’istruttoria fondamentale che, come evidenziano i giudici del caso Dell’Utri, per la prima volta ha svelato «un vastissimo traffico internazionale di eroina e morfina base, trasformata nei laboratori clandestini che il gruppo mafioso capeggiato da Salvatore Inzerillo controllava nel Palermitano. Droga che veniva poi smerciata grazie a una fitta rete di trafficanti anche all’estero», in particolare dal clan Gambino negli Stati Uniti. Le sentenze definitive di quel processo, acquisite nel giudizio contro Dell’Utri, documentano «il ruolo di primo piano rivestito da Mangano quale insostituibile tramite di collegamento nel traffico di partite di droga tra Palermo e Milano». (…) In questo inquietante spaccato di vita criminale, per i giudici di Palermo «costituisce un dato di fatto inconfutabile» che proprio a metà degli anni Settanta, cioè nel periodo in cui si rafforza il suo legame con Cosa nostra, «Vittorio Mangano è stato assunto da Silvio Berlusconi e si è insediato nella villa di Arcore con tutta la sua famiglia anagrafica» – la moglie, la suocera e le tre figlie – e che questo è successo «poco dopo l’arrivo di Dell’Utri a Milano e per effetto della sua mediazione».
IL PATTO SEGRETO TRA BERLUSCONI E COSA NOSTRA. Nel 1974, quando sposta ufficialmente il proprio domicilio ad Arcore, Mangano è già schedato dalle forze di polizia come un criminale legato alla mafia. Perché affidare proprio a lui, senza nemmeno informarsi sui precedenti penali, il ruolo di garante della sicurezza e gestore della proprietà di Berlusconi? La domanda resta senza risposte credibili fino al giugno 1996, quando viene estradato in Italia e inizia a collaborare con la giustizia un boss mafioso di altissimo livello, Francesco Di Carlo. (…) Di Carlo occupa una posizione unica all’interno di Cosa nostra, negli anni che vedono l’organizzazione criminale accumulare fortune immense con il traffico di eroina, gli stessi in cui inizia a essere attraversata da divisioni destinate a esplodere nella guerra di mafia che, tra il 1979 e il 1982, decreterà il trionfo dei corleonesi con lo sterminio dei vecchi padrini palermitani. Di Carlo infatti è tra i pochissimi a godere della fiducia, e a conoscere i segreti, di entrambi gli schieramenti mafiosi. Amico fin dall’infanzia di Stefano Bontate (chiamato talvolta, per errore, Bontade), per anni il boss più ricco e potente di Palermo, ha anche un fortissimo legame con i corleonesi, alleati del suo capomandamento Bernardo Brusca. Tanto che nel 1976 viene promosso al rango di capofamiglia per diretta volontà di Salvatore Riina e Bernardo Provenzano. Intelligente, accattivante, rispettato da tutti, Di Carlo è in grande confidenza con Bontate, che lo chiama «il barone» per la sua eleganza e lo porta spesso con sé agli incontri eccellenti. Ma è anche nel cuore di Riina, che si fa accompagnare da lui in varie trasferte di mafia. (…). Per la sua posizione unica, Di Carlo ha potuto fornire rivelazioni decisive su molti delitti eccellenti, come gli omicidi dei carabinieri Emanuele Basile e Giuseppe Russo, dei giudici Cesare Terranova, Gaetano Costa e Pietro Scaglione, dei giornalisti Mario Francese e Peppino Impastato, nonché del presidente della Regione Sicilia Piersanti Mattarella, fratello dell’attuale presidente della Repubblica. Di Carlo parla di Dell’Utri fin dal suo primo interrogatorio come collaboratore di giustizia (…): «Ero a Milano con Bontate, Teresi e Cinà. Siamo andati nell’ufficio di Martello in via Larga, vicino al Duomo, che era una specie di ufficio di Cosa nostra. Guidava Nino Grado perché conosceva Milano bene. Dopo la riunione con Martello, Stefano Bontate mi disse che dovevano incontrare un industriale, un certo Berlusconi: a quel tempo il nome non mi diceva niente…» E qui precisa: «Bontate ha sempre trattato con politici, Teresi era un grosso costruttore, per cui non mi impressionavo che andassero a trattare con vari industriali. (…) A quei tempi era una cosa normale: ognuno, industriale o qualcuno, si rivolgeva a Cosa nostra o per mettere a posto un’azienda o per garantirsi». Prosegue Di Carlo: «Era il 1974, poteva essere primavera o autunno, ricordo che non avevamo cappotti: io avevo giacca e cravatta... Siamo andati in un palazzo di inizio Novecento, non una villa. (…) Qui ci viene incontro Dell’Utri, che io avevo già visto con Tanino Cinà. Con gli altri, compreso Bontate, Dell’Utri si è salutato con il bacio, a me con una stretta di mano. Con Grado già si conoscevano, perché avevano battute di scherzo e si davano del tu. Quindi siamo entrati in una grande stanza, con scrivania, sedie e mi sembra qualche divano, e dopo mezz’ora è spuntato questo signore sui trenta e rotti anni, che ci è stato presentato come il dottore Berlusconi. (…) Dell’Utri era in giacca e cravatta, Berlusconi con un maglioncino a girocollo e la camicia sotto. Dopo il caffè cominciarono i discorsi seri». «Teresi disse che stava facendo due palazzi a Palermo, Berlusconi rispose che lui stava costruendo una città intera e che amministrativamente non c’è molta differenza: ci ha fatto una specie di lezione economica. Poi sono andati nel discorso di garanzia, che “Milano oggi è preoccupante perché succedono un sacco di rapimenti”... Io sapevo che Luciano Leggio, quando era ancora libero, diceva che voleva portarsi tutti i soldi del Nord a Corleone... Stefano Bontate aveva la parola, perché era il capomandamento, io c’ero solo per l’intimità con lui. Berlusconi ha spiegato che aveva dei bambini e non stava tranquillo, per cui avrebbe voluto una garanzia, e qua gli dice: “Marcello mi ha detto che lei è una persona che mi può garantire questo e altro”. Allora Stefano Bontate fa il modesto, ma poi lo rassicura: “Può stare tranquillo, deve dormire tranquillo, perché lei avrà vicino delle persone che qualsiasi cosa chiede avrà fatto. Poi lei ha Marcello qua vicino, per qualsiasi cosa si rivolge a Marcello...”. E poi aggiunge: “Le mando qualcuno”.» Di Carlo chiarisce la frase del boss spiegando che per garantire una piena protezione mafiosa a Berlusconi «ci voleva qualcuno di Cosa nostra», perché Dell’Utri non era affiliato come uomo d’onore. E aggiunge che, appena Bontate ha pronunciato quelle parole, «Cinà e Dell’Utri si sono guardati». Una volta usciti dagli uffici di Berlusconi, prosegue il pentito, «Cinà ha detto a Bontate e Teresi: “Ma qui c’è già Vittorio Mangano, che è amico anche di Dell’Utri”». Di Carlo ricorda che «Stefano non ci teneva particolarmente, però Mangano era della famiglia di Porta nuova con a capo Pippo Calò, quindi era nel mandamento di Bontate. Per cui Bontate ha detto: “Ah, lasciateci Vittorio”». Di Carlo è un testimone oculare di quell’incontro ed è l’unico sopravvissuto tra i boss che nel 1974 siglarono quel patto tra Berlusconi e il vertice mafioso dell’epoca: Cosa nostra proteggerà l’imprenditore milanese, come previsto, affiancandogli l’uomo d’onore indicato da Cinà, d’accordo con Dell’Utri. «Ci hanno messo vicino Vittorio Mangano certamente non come stalliere, perché, non offendiamo il signor Mangano, Cosa nostra non pulisce stalle a nessuno» rimarca Di Carlo, sottolineando l’utilità della protezione mafiosa: «Ci hanno messo uno ad abitare là, a Milano: Mangano trafficava e nello stesso tempo Berlusconi faceva la figura che aveva vicino qualcuno di Cosa nostra... Basta questo in Cosa nostra, perché qualunque delinquente voglia fare qualche azione, si prendono subito provvedimenti». Cosa nostra non è un ente di assistenza. La sua protezione si paga. E il ricatto comincia subito, tanto da imbarazzare lo stesso incaricato della prima estorsione mafiosa. È sempre Di Carlo a descrivere questo passaggio, di poco successivo all’incontro con Berlusconi: «Tanino Cinà mi dice: “Sono imbarazzato, perché subito mi hanno detto di chiedergli 100 milioni di lire... Mi pare malo”. (…) E io gli dissi: “Ma tu chi ti ’na fari? Tanto sono ricchi... E poi ci hanno voluto”». L’incontro del 1974 tra l’allora trentottenne Silvio Berlusconi e il superboss Stefano Bontate, così come il contenuto del contratto mafioso mediato da Dell’Utri, è considerato una certezza da tutti i giudici che si sono occupati di questo caso, in tutti i gradi di giudizio. Le sentenze di merito elencano migliaia di pagine di riscontri oggettivi e testimoniali (…).
SOLDI IN NERO DA MILANO A PALERMO. Da allora, dal 1974, Berlusconi comincia a pagare Cosa nostra. Le banconote passano dalle mani di Dell’Utri e Cinà, nella più assoluta segretezza, e arrivano a Palermo per quasi vent’anni, almeno fino al 1992, spiegano le sentenze definitive. Con le guerre e gli omicidi di mafia cambiano i capi delle famiglie criminali che si dividono il tesoretto di Arcore. Ma gli effetti del patto restano quelli consacrati nel 1974: soldi in nero in cambio di protezione mafiosa per i famigliari e per le attività economiche di Berlusconi. Sono versamenti periodici, sempre in contanti, che vanno tenuti nascosti. A Milano l’unico depositario del segreto è Dell’Utri, che gestisce un apposito tesoretto: impacchetta le banconote e le consegna nel proprio ufficio al tesoriere mafioso che viene a ritirarle, in genere ogni sei mesi, per portarle a Palermo. Qui i soldi di Berlusconi vengono spartiti tra i clan secondo rigide logiche mafiose. Il primo a riceverli, in ordine di tempo, è ovviamente Vittorio Mangano, uomo d’onore della famiglia di Porta nuova, che negli anni Settanta rientrava nel mandamento di Santa Maria di Gesù comandato da Bontate. Mangano può incassare i soldi di Berlusconi proprio perché è un mafioso del clan di Bontate, l’artefice del patto. Ma deve darne una parte al padrino a cui deve rispondere al Nord: Nicola Milano, che è affiliato alla famiglia di Porta Nuova. Tra il 1979 e il 1980 i corleonesi fanno esplodere la seconda guerra di mafia. Stefano Bontate viene assassinato il 23 aprile 1981. Negli stessi mesi i killer corleonesi uccidono il suo vice, Mimmo Teresi, fatto sparire con il metodo della «lupara bianca». Terminata la «mattanza», il mandamento di Bontate viene smembrato. E la famiglia di Porta nuova guidata da Pippo Calò, che ha tradito i boss «perdenti» passando con i corleonesi, viene elevata a mandamento. Negli anni successivi i soldi versati da Berlusconi attraverso Dell’Utri passano da diverse mani mafiose, ma seguono sempre il tracciato originario: finiscono ancora agli stessi clan, anche se, dopo la guerra corleonese, hanno cambiato capi. Antonino Galliano, affiliato alla Noce dal 1986, è nipote del capomandamento Raffaele Ganci e amico fidato di suo figlio Domenico detto Mimmo. È sicuramente in ottimi rapporti con Cinà, con cui è stato intercettato. Quando decide di collaborare con la giustizia, Galliano rivela che lo stesso Cinà gli ha descritto l’incontro tra Bontate e Berlusconi, dopo il quale il boss «ci manda Mangano» come «garanzia contro i sequestri». «Cinà mi disse che Berlusconi rimase affascinato dalla figura di Bontate: non immaginava di avere a che fare con una persona così intelligente» ricorda Galliano, che grazie alle confidenze di Cinà può rivelare anche come è stato spartito il denaro di Berlusconi prima e dopo la morte di Bontate. «Cinà si recava due volte all’anno per ritirare i soldi nello studio di Dell’Utri... Questi soldi, Cinà li consegnava prima a Bontate e poi, dopo la guerra di mafia, a Pippo Di Napoli, che a sua volta li faceva avere a Pippo Contorno, uomo d’onore di Santa Maria di Gesù, il quale li portava al suo capofamiglia Pullarà» Pullarà è un altro boss palermitano passato con i corleonesi e per questo premiato con la promozione a capofamiglia. Così, con il trono di Bontate, Pullarà eredita anche i soldi di Berlusconi.
IL TESORO DI SILVIO FINISCE A RIINA. Conclusa la guerra di mafia, dal 1983 la cosiddetta «dittatura» dei corleonesi, come spiegano i giudici, «ha avuto effetti rilevanti anche nei rapporti con soggetti esterni a Cosa nostra», ben visibili anche nel processo a Dell’Utri. Numerosi pentiti parlano del «pizzo sulle antenne televisive» imposto alle emittenti siciliane del circuito Fininvest negli anni Ottanta. Ma dopo una lunga istruttoria, i giudici si convincono che si tratta di livelli diversi. Il pizzo sui ripetitori viene effettivamente pagato alla singola famiglia mafiosa che controlla il loro territorio da alcuni proprietari delle tv locali consorziate e spesso riacquistate dalla Fininvest. Mentre i soldi di Berlusconi, quelli che continuano a passare attraverso Dell’Utri e Cinà, viaggiano su un piano più alto, quello dei boss, e servono ancora allo scopo originario: garantire una protezione generale a Berlusconi e alle sue aziende. A rivelare come vengano spartiti i soldi di Arcore nell’era dei corleonesi sono soprattutto tre pentiti, molto attendibili, della famiglia mafiosa della Noce, che è «nel cuore» di Riina e dal 1983 viene promossa a mandamento. (…) In quel periodo Dell’Utri si lamenta di essere «tartassato dai fratelli Pullarà»: Ignazio, arrestato il 2 ottobre 1984, e Giovanbattista, latitante e «reggente». Il problema è semplice: gli eredi di Bontate chiedono troppi soldi a Berlusconi. All’epoca, probabilmente, la tariffa è già raddoppiata: da 25 a 50 milioni di lire ogni sei mesi. Cinà, rispettando le gerarchie mafiose, informa il proprio capofamiglia, Pippo Di Napoli, che avvisa il suo capomandamento, Raffaele Ganci, che a quel punto riferisce a Riina. Il capo dei capi scopre solo allora che i Pullarà avevano tenuto «riservato» il loro rapporto con i signori della Fininvest, senza dirlo né a lui, né al loro capomandamento Bernardo Brusca. Riina si infuria. E decide di impadronirsi di quel rapporto economico, ma con un movente politico: progetta di «avvicinare Bettino Craxi attraverso Dell’Utri e Berlusconi» (…). Quanto ai soldi del Cavaliere, «Riina ordina che il rapporto deve continuare a gestirlo Cinà, ma nessuno deve intromettersi». E così «da quel momento Cinà va a Milano un paio di volte all’anno a ritirare il denaro da Dell’Utri, lo consegna al suo capofamiglia Di Napoli, che lo gira al boss Ganci, che lo porta a Riina». Sempre seguendo la rigida gerarchia mafiosa. (…) Un’ulteriore conferma che Riina, nell’impadronirsi del rapporto con Dell’Utri e Berlusconi, non persegue solo interessi economici è il suo diktat sulla spartizione finale del denaro in Sicilia. Riina tiene per sé pochi milioni di lire, probabilmente solo cinque. Il resto viene redistribuito dal boss della Noce, Raffaele Ganci (scarcerato nel 1988), secondo la volontà di Riina, che premia ancora una volta i nuovi capi delle famiglie mafiose di sempre: metà spetta a Santa Maria di Gesù (quindi prima ai Pullarà e poi a Pietro Aglieri), un quarto a San Lorenzo (cioè a Salvatore Biondino, l’autista di Riina) e l’ultima parte alla Noce, ossia a Ganci. I pentiti precisano che Riina ordina di lasciare la loro quota ai Pullarà, dopo averli estromessi dal rapporto con Dell’Utri, per far capire che «non è una questione di soldi». (…) Tra i riscontri oggettivi c'è anche un documento: in un libro mastro della cosca, che è alla base di una raffica di condanne per estorsioni mafiose, sono annotati – in due rubriche distinte, ma collegate con numeri in codice – la sigla dell’azienda, la cifra pagata e l’anno del versamento. Alla sigla «Can 5» corrisponde questa scritta: «regalo 990, 5000». I pentiti di quella specifica famiglia mafiosa spiegano che si tratta di «cinque milioni versati da Canale 5 nel 1990 a titolo di regalo, cioè senza estorsione». (…) La conclusione dei giudici è lapidaria: «Deve ritenersi raggiunta la prova che, anche successivamente alla morte di Stefano Bontate, durante l’egemonia totalitaria di Salvatore Riina, sia Marcello Dell’Utri che Gaetano Cinà hanno continuato ad avere rapporti con Cosa nostra, almeno fino agli inizi degli anni Novanta, rapporti strutturati in maniera molto schematica: entrambi gli imputati, consapevolmente, hanno fatto sì che il gruppo imprenditoriale milanese facente capo a Silvio Berlusconi pagasse somme di denaro alla mafia». Di fronte a queste deposizioni, rafforzate da molti altri riscontri e testimonianze, Dell’Utri decide di attaccare in blocco i pentiti, ipotizzando un complotto: tutti i collaboratori di giustizia, forse manovrati da qualcuno, si sarebbero messi d’accordo per calunniarlo e colpire politicamente Berlusconi. I giudici però ribattono che nessun pentito, quando ha cominciato a parlare, conosceva le versioni degli altri. E soprattutto che ogni collaboratore di giustizia sa e racconta solo un piccolo pezzo di verità, quello custodito dalla propria famiglia mafiosa. Ogni pentito parla di anni specifici, mentre ignora cosa succede prima o dopo, e quantifica solo la cifra incassata dal proprio clan, che varia nel corso del tempo. In particolare, Di Carlo rivela l’accordo del 1974 e il ruolo di Mangano; gli altri pentiti legati a Bontate confermano i pagamenti fino alla sua morte, nel 1981; Ganci, Anzelmo e Galliano descrivono i pagamenti degli anni Ottanta, nell’era dei corleonesi; Ferrante parla di un periodo ancora successivo, dal 1988 al 1992. Soltanto i giudici possono unire i singoli tasselli di verità e ricostruire un quadro d’insieme, che si rivela rigorosamente in linea con le regole e le logiche di Cosa nostra. Un mosaico completato da riscontri oggettivi, in alcuni casi letteralmente esplosivi. Come gli attentati mai denunciati da Berlusconi.
LE ULTIME PAROLE DI BORSELLINO. Vittorio Mangano viene riarrestato nell’aprile 1995. La Procura di Palermo ha infatti scoperto il suo ruolo di «co-reggente» del mandamento di Porta Nuova e lo accusa tra l’altro di essere il mandante di due omicidi. Durante la sua detenzione, Dell’Utri e altri parlamentari di Forza Italia si mobilitano chiedendo più volte che venga scarcerato per motivi di salute. Il 23 aprile 2000 la corte d’assise di Palermo chiude il primo grado di giudizio condannando Mangano all’ergastolo come boss di Porta Nuova e come mandante e organizzatore di un omicidio di mafia, commesso a Palermo il 25 ottobre 1994. Il boss muore nel luglio 2000, a casa sua, dopo aver ottenuto gli arresti domiciliari per malattia. Dell’Utri, nei vari gradi del suo processo, non ha mai attaccato Mangano, anzi è arrivato a definirlo «un eroe», perché «è stato messo in galera e continuamente sollecitato a fare dichiarazioni contro me e Berlusconi. Se lo avesse fatto, lo avrebbero scarcerato con lauti premi. Ma lui ha sempre risposto che non aveva nulla da dire». Dell’Utri ripete più volte queste parole, che destano scandalo anche nel centrodestra. Nel novembre 2013, però, è Berlusconi in persona a dargli ragione: «Credo che Marcello abbia detto bene quando ha definito Mangano un eroe», perché «quando fu arrestato si rifiutò di testimoniare il falso sui rapporti tra Dell’Utri e la mafia, tra Berlusconi e la mafia». Nella polemica che ne segue, sono in molti a obiettare che per gli italiani onesti gli eroi non sono i mafiosi, ma le persone che hanno combattuto la mafia sacrificando la vita. E a ricordare il duro giudizio su Mangano espresso da Paolo Borsellino poco prima di morire. Intervistato da due giornalisti francesi nel 1992, pochi giorni prima di essere ucciso con tutta la sua scorta da un’autobomba di Cosa nostra, Borsellino spiega che Mangano, quando fu assunto ad Arcore, era già «una delle teste di ponte dell’organizzazione mafiosa nel Nord Italia». I giudici del processo Dell’Utri acquisiscono la videoregistrazione integrale dell’intervista, in cui il magistrato rivela di essere stato tra i primi a scoprire il ruolo di Mangano in Cosa nostra. «L’ho conosciuto in epoca addirittura antecedente al maxiprocesso – dichiara testualmente Paolo Borsellino – perché tra il 1974 e il 1975 restò coinvolto in un’altra indagine, che riguardava talune estorsioni fatte in danno di cliniche private palermitane, che presentavano una caratteristica particolare: ai titolari di queste cliniche venivano inviati dei cartoni con all’interno una testa di cane mozzata... Mangano restò coinvolto perché si accertò la sua presenza nella salumeria nel cui giardino erano sepolti i cani con la testa mozzata... Poi ho ritrovato Mangano al maxiprocesso, perché fu indicato sia da Buscetta che da Contorno come uomo d’onore appartenente alla famiglia di Porta nuova capeggiata da Pippo Calò, la stessa di Buscetta. E già dal precedente processo Spatola, istruito da Falcone, risultava che Mangano risiedeva abitualmente a Milano, città da dove, come risultò da numerose intercettazioni telefoniche, costituiva un terminale dei traffici di droga delle famiglie palermitane. Arrestato nel 1980, fu condannato per questo traffico di droga a tredici anni e quattro mesi, pena poi ridotta in Appello.»
L’intervista, che i due giornalisti riescono a pubblicare solo alla vigilia delle elezioni del 1994, crea un putiferio soprattutto per una frase, che il magistrato lascia volutamente incompleta: Borsellino accenna a una nuova indagine sui rapporti tra Cosa nostra e le grandi imprese del Nord, citando espressamente Berlusconi. Il magistrato però precisa che non è lui a indagare e rifiuta di fornire particolari, spiegando che se ne potrà parlare solo quando l’inchiesta verrà chiusa, non prima dell’autunno 1992. La morte di Borsellino, con tutti i suoi misteri ancora irrisolti, a cominciare dal vergognoso depistaggio, con un falso pentito, dei primi tre processi sulla strage di via D’Amelio, ha impedito di chiarire, tra l’altro, anche a quale inchiesta si riferisse nella sua ultima intervista.
Berlusconi e le bombe "affettuose" della mafia. Ecco la ricostruzione degli attentati di Cosa Nostra, tenuti segreti, di cui parla lo stesso Berlusconi in una telefonata intercettata dai magistrati che indagano su Dell'Utri. Paolo Biondani su L'Espresso il 23 febbraio 2018. Marcello Dell’Utri, nel 1986, è sotto intercettazione a Milano per i suoi rapporti con il boss mafioso Vittorio Mangano, ormai condannato al maxi-processo come trafficante di eroina tra Italia e Stati Uniti. Dodici minuti dopo la mezzanotte del 29 novembre 1986, il manager di Publitalia riceve una telefonata da Berlusconi, che lo informa di aver subito un attentato. L’esordio è fulminante.
Berlusconi: «Allora è Vittorio Mangano che ha messo la bomba».
Dell’Utri: «Non mi dire, e come si sa?».
Berlusconi: «Da una serie di deduzioni, per il rispetto che si deve all’intelligenza... È fuori».
Dell’Utri: «Ah, non lo sapevo neanche».
Berlusconi: «E questa cosa qui, da come l’hanno fatta, con un chilo di polvere nera, fatta con molto rispetto, quasi con affetto. Ecco: un altro manderebbe una lettera o farebbe una telefonata: lui ha messo una bomba».
Dell’Utri: «Ah... perché, cioè non si spiega proprio».
Nella stessa telefonata l’imprenditore allude a un altro attentato, da lui subito nel 1975.
Berlusconi: «Poi, la bomba, fatta proprio rudimentale... con molto rispetto... perché mi ha incrinato soltanto la parte inferiore della cancellata, un danno da duecentomila lire... quindi una cosa rispettosa e affettuosa».
Dell’Utri (ride): «Sì, sì, pazzesco... Comunque sentiamo, sì».
Berlusconi: «Non c’è altra spiegazione... è la stessa via Rovani come allora».
Dell’Utri: «Sì, sì... Adesso vediamo... Comunque credo anch’io che non ci sono altre richieste. Anche perché non ci sono, voglio dire. Si sarebbero fatti sentire, insomma, no?».
Berlusconi: «Va be’, niente, stiamo a vedere...».
A questo punto cambiano argomento, ma poi tornano sul discorso della bomba.
Berlusconi: «Mi hanno aperto un po’ gli occhi i carabinieri, un chiaro segnale estorsivo, e quindi ripensi che a undici anni fa...».
Dell’Utri: «Sì, ma non vedo altro neanch’io, pensandoci bene hai ragione, da dove può arrivare insomma?... In effetti, se è fuori, non avrei dei dubbi netti. Va be’, tu sei sicuro che è fuori?».
Berlusconi: «Me l’hanno detto loro (i carabinieri)... Ti passo Fedele».
Confalonieri: «Marcello, allora, sei d’accordo anche tu, no?».
Dell’Utri: «Sì, guarda, non sapevo che è fuori, ma se è fuori non ci sono dubbi, direi».
Confalonieri: «Non è un uomo di fantasia... Si ripete. Ha cominciato a dieci anni a fare così, ha quarantun anni adesso...».
Dell’Utri: «E poi anche con un attentato timido, solo per dire: sono qui...» (ride).
Confalonieri: «Come la terra con la croce nera, come l’altra volta, ti ricordi?».
I giudici osservano che in questa telefonata Berlusconi, Dell’Utri e Confalonieri parlano di due diversi attentati, commessi a undici anni di distanza. Il più grave è il primo: il 26 maggio 1975 esplode una bomba nella villa di Berlusconi in via Rovani a Milano. La casa è in restauro, l’ordigno sfonda i muri perimetrali e fa crollare il pianerottolo del primo piano, provocando danni ingenti. L’attentato viene però denunciato solo dall’intestatario formale della villa, Walter Donati, per cui viene collegato a Berlusconi solo in seguito. A quel punto le indagini raccolgono indizi su un paventato progetto di sequestro del figlio di Berlusconi, ma l’autore dell’attentato resta misterioso. Nella telefonata intercettata, Berlusconi, Dell’Utri e Confalonieri paragonano quella bomba del 1975 a un nuovo ordigno, meno potente, esploso poche ore prima, il 28 novembre 1986. Come evidenziano i giudici, «questa telefonata dimostra che Berlusconi, Dell’Utri e Confalonieri non avevano alcun dubbio sulla riconducibilità a Mangano dell’attentato di undici anni prima». (…) Ma anche se «nessuno dei tre nutriva alcun dubbio nel ricondurre la bomba del 1975 a Mangano – sottolineano i giudici – nessuna indicazione fu offerta agli investigatori, anzi si decise di non denunciare direttamente quell’attentato». Poche ore dopo, nel pomeriggio del 29 novembre 1986, Dell’Utri telefona a Berlusconi per riferirgli cosa ha scoperto sull’attentato del giorno prima. Gli dice testualmente: «Ho visto Tanino, che è qui a Milano». Il Tanino in questione è sicuramente Cinà: non lo negano né lui né Dell’Utri. Già questo è un riscontro: Cinà vedeva davvero Dell’Utri a Milano proprio nel periodo delle riscossioni mafiose rivelate dai pentiti, come confermano anche altre intercettazioni del 1987. Dopo aver fatto il nome di «Tanino», Dell’Utri racconta quali notizie ha raccolto tramite quell’amico palermitano: assicura a Berlusconi non solo che Mangano è ancora detenuto, ma anche che può stare «tranquillissimo», nonostante l’attentato. E precisa di essere certo dell’estraneità di Mangano («è proprio da escludere categoricamente») anche se i carabinieri sospettavano il contrario. Analizzando la telefonata, i magistrati osservano che, per identificare l’autore di un attentato di matrice mafiosa, «Dell’Utri si rivolge a Cinà proprio perché gli è nota la sua mafiosità». E appunto perché ha raccolto informazioni dall’interno di Cosa nostra «può escludere con certezza la matrice di Mangano, anche se è notorio che i mafiosi, quando vogliono, riescono a delinquere anche in carcere». I giudici trascrivono anche una battuta che Berlusconi, al telefono con Dell’Utri, dice di aver fatto ai carabinieri, lasciandoli sbalorditi, e cioè: «Trenta milioni li avrei anche pagati». Un passaggio giudicato «sintomatico dell’atteggiamento mentale dell’imprenditore disponibile a pagare, ma non a denunciare le richieste estorsive». Una posizione confermata anche da un’intercettazione del 17 febbraio 1988. Berlusconi parla con un amico immobiliarista, Renato Della Valle, di altre minacce criminali che non ha mai denunciato né chiarito. Questa volta il Cavaliere è preoccupatissimo. E confida all’amico: «Se fossi sicuro di togliermi questa roba dalle palle, pagherei tranquillo». Le rivelazioni dei pentiti riconfermano questo quadro e aggiungono i pezzi mancanti. L’attentato del 1975 l’ha fatto Mangano, probabilmente per rientrare nel giro dei soldi di Arcore. L’ordigno del 1986 invece l’hanno collocato i catanesi. Per cui, come Dell’Utri riesce a sapere in tempo reale, i mafiosi palermitani e corleonesi non c’entrano. Riina però sa chi è stato. E ne approfitta per usare proprio Catania come base per le nuove intimidazioni, quelle che gli permettono di ricementare il rapporto Cinà-Dell’Utri e raddoppiare la posta. Ricostruendo la storia di queste «affettuose» bombe mafiose, i giudici sottolineano tra l’altro che anche l’attentato del 1986 era rimasto «del tutto assente da ogni cronaca giornalistica». Eppure i boss di Cosa nostra sapevano tutto. E i pentiti hanno potuto raccontarlo. Testo tratto dal libro “Il Cavaliere Nero, la vera storia di Silvio Berlusconi”, di Paolo Biondani e Carlo Porcedda, ed. Chiarelettere.
Berlusconi e la mafia: la vera storia della villa in Sardegna. Nel processo che si è chiuso con la condanna definitiva di Marcello Dell’Utri viene ricostruita anche la storia di un maxi-investimento mafioso in Sardegna, che nasconde un impressionante incrocio di storie criminali. Ne parlano decine di pentiti di comprovata attendibilità, a cominciare da Tommaso Buscetta. Paolo Biondani su L'Espresso il 23 febbraio 2018. Il boss Pippo Calò, che tra gli anni Settanta e Ottanta vive a Roma sotto falso nome, investe somme enormi in speculazioni edilizie in Sardegna, realizzate attraverso costruttori-prestanome, riciclando così anche i riscatti dei sequestri. All’affare partecipano altri boss di Cosa nostra, che ripuliscono i profitti del narcotraffico, e due tesorieri-usurai della Banda della Magliana, Ernesto Diotallevi e Domenico Balducci. A gestire l’investimento in Sardegna, con il compito di comprare terreni vista mare e renderli edificabili con l’aiuto di politici e massoni, è Flavio Carboni, il faccendiere poi condannato come complice della colossale bancarotta del Banco Ambrosiano di Roberto Calvi. Dello stesso investimento parlano anche i collaboratori di giustizia della Banda della Magliana. Questo permette agli inquirenti di trovare riscontri sia dal versante di Cosa nostra, sia dal lato della criminalità romana: capitali, società, prestanome. (…) Nel giugno 1993 Carboni crolla e ammette che, almeno per un gruppo di società, «i finanziamenti li ha procurati Balducci ottenendo un prestito da Calò». Mentre la sua storica segretaria testimonia che «il signor Mario», cioè Pippo Calò, «era solito frequentare il nostro ufficio per consegnare grosse somme di denaro a Carboni». Le indagini accertano che le prime ville costruite in Sardegna funzionano anche come covi. Una si trova a Punta Lada, a Porto Rotondo, e diventa il rifugio di Danilo Abbruciati: un killer della banda della Magliana, morto a Milano in un conflitto a fuoco nel 1982, mentre tenta di assassinare il vicepresidente dell’Ambrosiano e braccio destro di Calvi, Roberto Rosone. Gli atti di compravendita di quella casa-covo rappresentano un «formidabile riscontro» alle rivelazioni dei pentiti: uno dei tre proprietari della villa trifamiliare è Domenico Balducci in persona, il tesoriere-usuraio della Magliana, che prima di essere ucciso il 16 ottobre 1981 in un agguato cede la sua quota al braccio destro di Calò a Roma, Guido Cercola. Calò e Cercola sono stati poi condannati all’ergastolo, con sentenza definitiva, come organizzatori della strage del rapido 904, il «treno di Natale» fatto esplodere in una galleria il 23 dicembre 1984: il primo atto di «terrorismo mafioso», con 17 morti e 267 feriti. In questo quadro si inserisce anche Berlusconi. Nello stesso punto della costa sarda, Carboni possiede una villa meravigliosa, la stessa dove ha ospitato, oltre ai boss della Magliana, anche Roberto Calvi, prima di accompagnarlo a Londra, la città dove il banchiere, nel 1982, viene ucciso da ignoti killer che inscenano un finto suicidio. (…) Pressato dai suoi finanziatori e incalzato dai debiti, Carboni deve vendere la sua villa di Punta Lada. E trova subito due compratori: un certo Lo Prete e il signor Attilio Capra De Carrè, che è già finito agli atti del processo, perché era uno degli ospiti della cena di Arcore nella notte del sequestro D’Angerio. Ma si tratta solo di un brevissimo passaggio intermedio. Perché i due compratori non tengono la proprietà: la rivendono a Silvio Berlusconi, che la ribattezza Villa Certosa. Nella pericolosa partita con il faccendiere Carboni entra anche un altro affare, molto più ambizioso: il maxiprogetto «Olbia 2». Nel 1980 è proprio Carboni a contattare un grande amico sardo del Cavaliere, Romano Comincioli, per vendere ben mille ettari di terreni non ancora edificabili. Berlusconi partecipa all’affare sborsando 21 miliardi di lire. Sentito come testimone dopo il fallimento del Banco Ambrosiano, Berlusconi conferma di «aver acquistato tramite Carboni i terreni» per «il progetto di creare una città satellite a Olbia». Il Cavaliere riconosce anche di aver utilizzato come schermo l’amico Comincioli, «che ha ricevuto da noi mano a mano i finanziamenti necessari per l’acquisto dei terreni, intestati a due società fiduciarie acquistate dal gruppo Fininvest». I giudici concludono che «dunque, dalla viva voce di Berlusconi si è avuta la conferma dei suoi rapporti con Flavio Carboni e del ruolo di prestanome di Comincioli». Ma il Cavaliere non ha commesso reati: non c’è nessuna prova, riconoscono i giudici, che Berlusconi sapesse che dietro Carboni c’erano i capitali sporchi della mafia siciliana e della criminalità romana. Mentre Comincioli ammette di aver comprato i terreni «nell’interesse di Berlusconi» e conferma di aver «conosciuto Balducci, ma non Diotallevi e Abbruciati». E giura di «ignorare che Carboni fosse in mano a quegli usurai romani». Comunque, questa volta, Dell’Utri non c’entra: dal 1979 si è dimesso dal gruppo Berlusconi per diventare manager, con il fratello gemello Alberto, di un chiacchieratissimo immobiliarista siciliano, Filippo Alberto Rapisarda. Testo tratto dal libro “Il Cavaliere Nero, la vera storia di Silvio Berlusconi”, di Paolo Biondani e Carlo Porcedda, ed. Chiarelettere.
Soldi che cadono dal cielo: come è nata la Fininvest. Neppure il processo a Dell’Utri ha chiarito i dubbi sull’origine delle fortune di Berlusconi. Paolo Biondani su L'Espresso il 23 febbraio 2018. Silvio Berlusconi, nel processo di Palermo a carico di Marcello Dell’Utri, non è mai stato accusato di nulla. Subire estorsioni e non denunciarle non è reato. La vittima del racket rischia di finire sotto accusa solo se commette falsa testimonianza in tribunale, negando di aver subito estorsioni che risultino provate comunque. C’è però un delicatissimo capitolo del processo che lo riguarda personalmente: per molte udienze i giudici cercano di risolvere il mistero delle origini delle fortune di Berlusconi. Il problema, dibattuto da decenni, è che le aziende del Cavaliere, tra gli anni Settanta e Ottanta, sono state finanziate con capitali provenienti da anonime società estere, di cui tuttora non si conoscono gli effettivi titolari. È la questione illustrata dal regista Nanni Moretti, nel film Il Caimano, con la scena dei «soldi che cadono dal cielo» sulla scrivania di Berlusconi. Durante il lungo processo a Dell’Utri, il tema diventa incandescente, perché diversi pentiti di mafia parlano di presunti investimenti milionari effettuati da boss come Bontate e Teresi proprio tramite Dell’Utri: soldi che, dopo la morte di quei capi-mafia, uccisi dai corleonesi, nessuno avrebbe più potuto rivendicare. La Procura di Palermo apre addirittura un’inchiesta su Berlusconi e Dell’Utri con un’ipotesi di riciclaggio, che alla fine però gli stessi pm devono archiviare: i pentiti possono citare solo presunte confidenze indirette dei boss che sono morti o non parlano, ma non sono in grado di fornire riscontri concreti. La questione viene ovviamente approfondita anche nel processo a Dell’Utri, che di Berlusconi è stato il braccio destro fin da quei fatidici anni Settanta. Vengono così interrogati i consulenti tecnici dell’accusa e della difesa, incaricati di ricostruire con certezza i flussi dei capitali finiti nelle aziende edilizie e televisive di Berlusconi. Per la Procura, depone un ispettore della Banca d’Italia, Francesco Giuffrida; per la difesa, un professore universitario, Paolo Iovenitti. Lo scontro in aula è durissimo. Esaminati tutti gli atti, già il tribunale conclude che le accuse di riciclaggio non sono provate, per cui nei successivi gradi di giudizio la questione cade. Ma gli stessi giudici avvertono che neppure il processo a Dell’Utri ha chiarito i dubbi sull’origine delle fortune di Berlusconi. Il collegio presieduto dal giudice Leonardo Guarnotta, l’unico a entrare nel merito dei fatti, riassume così il risultato del processo: «Da parte di entrambi i consulenti tecnici, non è stato possibile risalire, in termini di assoluta certezza e chiarezza, all’origine, qualunque essa fosse, lecita o illecita, dei flussi di denaro investiti nella creazione delle holding del gruppo Fininvest». In altre parole, se è vero che non ci sono «prove positive» di investimenti collegabili alla mafia, per cui «le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia non si possono ritenere riscontrate», è anche vero, scrivono i giudici, che «la scarsa trasparenza o l’anomalia di molte delle operazioni finanziarie effettuate dalla Fininvest negli anni 1975-84 non hanno trovato smentite nelle conclusioni del consulente della difesa», visto che «nemmeno il professor Iovenitti è riuscito a fare chiarezza, pur avendo la disponibilità di tutta la documentazione esistente presso gli archivi della Fininvest». Nel tentativo di fugare dubbi così gravi, i giudici di Palermo hanno invitato più volte lo stesso Berlusconi a testimoniare. La prima deposizione viene fissata per l’11 luglio 2001. Berlusconi è presidente del Consiglio, per cui decide di avvalersi della prerogativa legale di essere sentito a Palazzo Chigi. Quindi tutto il tribunale, con avvocati e cancellieri, deve trasferirsi a Roma. La testimonianza però salta all’improvviso, perché Berlusconi oppone «indifferibili impegni di governo». L’intero tribunale torna a trasferirsi a Palazzo Chigi il 26 novembre 2002, ma anche questa deposizione va a vuoto: Berlusconi, in quel momento indagato nell’inchiesta per riciclaggio poi archiviata, preferisce avvalersi della facoltà di non rispondere. Nella sentenza, che ricostruisce la mancata testimonianza del leader di Forza Italia nel processo a Dell’Utri, in particolare sul tema dell’origine dei capitali delle proprie società, i giudici chiudono il caso con queste parole: «Berlusconi ha esercitato legittimamente un diritto riconosciuto dal codice, ma, ad avviso del tribunale, si è lasciato sfuggire l’imperdibile occasione di fare personalmente, pubblicamente e definitivamente chiarezza sulla delicata tematica in esame, che incide sulla correttezza e trasparenza del suo operato di imprenditore, che solo lui, meglio di qualunque consulente o testimone e con ben altra autorevolezza e capacità di convincimento, avrebbe potuto illustrare. Invece, ha scelto il silenzio». Testo tratto dal libro “Il Cavaliere Nero, la vera storia di Silvio Berlusconi”, di Paolo Biondani e Carlo Porcedda, ed. Chiarelettere.
Il dietrofront dei manettari. Travaglio cambia idea su Berlusconi: “Non è un mafioso, è un padre della Patria”. Frank Cimini su Il Riformista il 13 Novembre 2020. Marco Travaglio e il Manette Daily non si indignano più per leggi ad personam, ad aziendam, “ad bananam”, conflitti di interessi e simili. È roba dal passato pare di capire a leggere le cronache anglosassoni con cui il Fatto Quotidiano sta seguendo l’iter dell’emendamento presentato dal governo giallo-rosso a tutela di Mediaset impegnata nello scontro con i francesi di Vivendi. Il giornale di Travaglio si limita a scrivere che la norma con una formula un po’ vaga permetterebbe all’Agcom di bloccare la vicenda per sei mesi rinviando tutto a giugno e dando una boccata di ossigeno al Biscione. Insomma potrebbero tornare utili i voti di Forza Italia al Senato per sostenere il governo e allora c’è un bel “contrordine compagni” e al massimo si scrive del caso per raccontare dei dissidi provocati dentro il centro destra tra il partito di Berlusconi e la Lega. La sopravvivenza di questo governo è troppo importante per cui si depongono le armi utilizzate per tanti anni contro il nemico storico. Non si può neanche immaginare che cosa avrebbe scritto il Manette Daily nel caso l’emendamento “salva Mediaset”, assolutamente non scandaloso perché ogni governo tende a tutelare le sue aziende, fosse stato proposto da un esecutivo di centro-destra. Travaglio ha costruito la sua carriera di giornalista e polemista incentrata quasi esclusivamente sulle attività politiche e imprenditoriali di Silvio Berlusconi. Perché il fondatore di Fininvest ha fatto la fortuna anche di molti suoi nemici oltre che degli amici. Per un tempo lunghissimo e fino a due giorni fa Travaglio ha dato credito a qualsiasi sospiro uscisse da qualsiasi procura purché fosse possibile chiamare in causa Berlusconi. Il Cavaliere è stato ritenuto dal Manette Daily responsabile di stragi di mafia nonostante fioccassero le archiviazioni arrivate dopo anni di indagini avviate iscrivendolo tra gli indagati con una sigla. È stato in pratica condannato mediaticamente, e per la verità non solo dal Fatto che era la punta dell’iceberg, in relazione alla morte di Imane Fadil presentata come supertestimone del caso Ruby, quando non lo era affatto. La virata è davvero impressionante. La ragione di vita di Travaglio e del suo giornale evidentemente è la sopravvivenza di questo governo costi quel che costi. Adesso i nemici storici del Cavaliere sono disposti anche a considerarlo uno statista, una sorta di padre della patria. Quello che è stato è stato. Adesso siamo in una fase nuova. Berlusconi non è più “mafioso”, non ha più conflitti di interessi. E bisogna dire che il tema del conflitto di interessi è sparito dalle pagine dei giornali, non solo dalle prime e dal dibattito politico, da quando il 27 novembre del 2011 il Cavaliere lasciò palazzo Chigi. Da allora si sono succeduti governi diversi senza che nessuno rimettesse mano a quella materia. A conferma che l’attenzione spasmodica del passato era esclusivamente strumentale, cioè utile a tenere sotto scacco un avversario politico. Ma senza arrivare a sfornare una legge giusta ed equilibrata per risolvere un problema che in realtà esiste ma sul quale ora a fare finta di niente sono soprattutto gli avversari e non solo Travaglio.
‘Ndrangheta stragista, la requisitoria del pm: “Tra il 1993 e il 1994 la storia d’Italia politica si incrocia con le esigenze dell’alta mafia”. Lucio Musolino su Il Fatto Quotidiano il 7 luglio 2020. “Tra il novembre 1993 e il gennaio 1994 la storia d’Italia politica, ma anche partitica, si incrocia con le esigenze dell’alta mafia”. Lo ha detto il procuratore aggiunto di Reggio Calabria Giuseppe Lombardo durante la requisitoria del processo “‘Ndrangheta stragista” che vede alla sbarra, davanti alla Corte d’Assise, il boss di Brancaccio Giuseppe Graviano e il referente della cosca Piromalli, Rocco Santo Filippone, accusati dell’omicidio dei due carabinieri Fava e Garofalo uccisi il 18 gennaio 1994 sull’autostrada. È agli sgoccioli il processo in cui l’accusa punta a dimostrare come la ’ndrangheta abbia partecipato a pieno titolo alla strategia stragista dei primi anni novanta. Ieri, nel corso del suo intervento, il procuratore Lombardo ha ricostruito le strategie politiche di Cosa nostra e ‘Ndrangheta all’indomani della vittoria del Pds alle amministrative dell’autunno 1993: “Achille Occhetto si sentiva già presidente del Consiglio. – ricorda il pm – Il rischio comunista non era finito. Quando il sistema di cui stiamo parlando ha capito che il rischio era alto, bisognava trovare delle alternative molto più solide”.Erano gli anni in cui le mafie avevano abbandonato la Democrazia cristiana e puntavano sui movimenti separatisti. La vittoria del Pds cambio le carte in tavola. “È quella – sottolinea il procuratore aggiunto – la fase in cui si abbandona il progetto portato avanti fino a quel momento per virare, come ci ha raccontato Giuseppe Graviano deponendo in quest’aula, su Forza Italia e quindi sulla figura di Silvio Berlusconi. Vi è un imbarazzante coincidenza organizzativa tra le sedi di Sicilia Libera e quelle di Forza Italia. Si vira pesantemente su quella che sarà Forza Italia. Ecco perché vi è piena coerenza tra la strategia stragista e la strategia politica di chi le stragi aveva organizzato: Cosa nostra, ‘Ndrangheta e altre componenti dello stesso sistema”. “La strategia stragista – conclude il magistrato – che doveva aprire varchi sempre più ampi ai nuovi soggetti che erano stati identificati. Ecco quello che dice Giuseppe Graviano in relazione alla richiesta chiara che le stragi non si dovevano fermare. Cosa nostra e ’Ndrangheta, in quel momento storico, contemporaneamente e all’unisono, compiono non solo la scelta di abbandonare i vecchi referenti politici, ma anche la scelta di dare sostegno ai medesimi nuovi soggetti”.
Graviano, la requisitoria: “Così Cosa nostra e ‘ndrangheta virarono su Forza Italia nel ’94”. Nella sua requisitoria al processo 'Ndrangheta stragista il pm Lombardo ha ricostruito il panorama politico tra il 1992 e i 1994, mentre Cosa nostra varava la strategia di attacco allo Stato a suon di bombe: "Si virò, come ci ha raccontato Giuseppe Graviano non solo nelle intercettazioni ma anche deponendo in questo processo, su Forza Italia e quindi sulla figura di Silvio Berlusconi". E cita il proclama in aula di Piromalli nel '94 ("Voteremo Forza Italia") e le intercettazioni dell'ex deputato azzurro Pittelli dopo aver letto il fattoquotidiano.it: "Berlusconi è fottuto". Lucio Musolino e Giuseppe Pipitone su Il Fatto Quotidiano il 6 luglio 2020. C’era “piena coerenza tra la strategia stragista e la strategia politica di chi aveva organizzato le stragi: Cosa nostra, la ‘Ndrangheta ed altre componenti dello stesso sistema”. Una strategia politica che prima punta sull’autonomismo, sulle Leghe meridionali. Poi vira e punta tutto su un partito nuovo: Forza Italia. È in questo modo che procuratore aggiunto di Reggio Calabria, Giuseppe Lombardo, ha ricostruito la “strategia politica” delle mafie tra il 1992 e il 1994, durante la sua requisitoria al processo ‘Ndrangheta stragista. Il processo di Reggio Calabria – Un periodo che è già stato al centro del processo celebrato a Palermo sulla cosiddetta Trattativa tra pezzi dello Stato e Cosa nostra: si è concluso nell’aprile del 2018 con pesanti condanne per boss, ufficiali dei carabinieri ed ex politici come Marcello Dell’Utri, che proprio di Forza Italia fu il fondatore. Adesso a Reggio Calabria, il pm Lombardo sta ricostruendo le responsabilità dei clan di ‘ndrangheta nell’attacco allo Stato a suon di bombe organizzato da Cosa nostra tra il 1992 e il 1994. E infatti imputati davanti alla corte d’Assise di Reggio Calabria ci sono due alti “esponenti” della due mafie: da un lato Giuseppe Graviano, il boss siciliano che custodisce il segreto delle stragi; dall’altra Rocco Santo Filippone, uomo della cosca Piromalli. I due sono accusati dell’omicidio dei due carabinieri, Antonino Fava e Vincenzo Garofalo, assasinati il 18 gennaio 1994 nei pressi dello svincolo di Scilla. Il processo di Reggio Calabria ha guadagnato notorietà nei mesi scorsi perché è il procedimento in cui l’imputato Graviano ha deciso per la prima volta di aprire bocca per mandare una serie di messaggi trasversali. Durante una serie di udienze il boss di Brancaccio ha sostenuto di essere stato in affari con Silvio Berlusconi, grazie agli investimenti compiuti dal nonno a Milano negli anni ’70. Ha parlato di “imprenditori di Milano” che non volevano fermare le stragi. Ha invitato a indagare sul suo arresto, avvenuto al ristorante Gigi il cacciatore il 27 gennaio del 1994, per scoprire i veri mandanti delle stesse stragi. “C’era il rischio dei comunisti”- Le dichiarazioni in libertà del boss di Brancaccio, unite alle intercettazioni in carcere del 2016 e 2017, sono state citate più volte dal pm Lombardo nella sua requisitoria. Per la pubblica accusa, infatti, il duplice omicidio dei carabinieri prova come ci fosse una responsabilità della ‘ndrangheta nella strategia stragista del 92/94. Lombardo, nella sua ricostruzione che somma gli atti del processo Trattativa e dell’inchiesta di Roberto Scarpinato sui Sistemi criminali, è tornato indietro nel tempo fino all’autunno del 1993, quando alle amministrative si imposero i candidati sostenuti dal Pds di Achille Occhetto. “C’era il rischio comunista e quando il sistema, di cui ci stiamo occupando in questo processo – ha detto il Pm – l’ha capito, la storia politica si è incrociata con le esigenze dell’alta mafia. Fino ad allora si credeva che i movimenti separatisti potessero avere senso, ma bisognava trovare delle alternative molto più solide e si virò, come ci ha raccontato Giuseppe Graviano non solo nelle intercettazioni ma anche deponendo in questo processo, su Forza Italia e quindi sulla figura di Silvio Berlusconi“.
La mafia autonomista – Il rappresentante della pubblica accusa ha ripercorso le strategie politiche seguite nelle mafie già nei primi anni ’90, quando dalla Sicilia al Centro Italia cominciano a nascere una serie di movimenti separatisti, le cosiddette Leghe meridionali: vengono tutte create su input di esponenti di Cosa nostra, della ‘ndrangheta, della Camorra. Ma anche della massoneria e dell’estremismo nero. “Abbiamo sentito parlare di più di Sicilia Libera che dei movimenti nati nelle altre regioni. La prima componente è Calabria Libera che viene fondata a Reggio Calabria circa un anno prima rispetto a Sicilia Libera”, fa notare il magistrato, che insiste spesso su questo punto. “La ‘ndrangheta e Cosa nostra sono un’unica entità criminale. Noi abbiamo la prova che i rapporti tra la componente siciliana e quella calabrese sono stati rapporti intensi. Un sistema che si autoalimenta e che gestisce capitali di grande rilievo. È noto che il peso economico diventa peso politico”.
Da Gelli a Miglio a B. – Quello del procuratore aggiunto è un racconto che incrocia figure note nei misteri del paese: come il maestro venerabile della P2, Licio Gelli. “Abbiamo la certezza che le componenti mafiose hanno aderito al progetto di Gelli. I reali ispiratori dei movimenti separatisti vanno oltre la figura di Gelli”. E ancora l’ideologo della Lega Nord, Gianfranco Miglio: “Disse di essere per il mantenimento anche della mafia e della ‘ndrangheta. Ritengo che Miglio non ha utilizzato a caso il riferimento di mafia e ‘ndrangheta“. Insomma, mentre saltano in aria Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, mentre vengono ordinate le stragi di Firenze, Roma e Milano, i clan pensano di staccare il Sud dal resto d’Italia puntando sulle Leghe. Solo che a un certo punto il progetto separatista viene abbandonato e le mafie convogliano il loro supporto su Forza Italia, parallelamente alla strategia di attacco allo Stato: “La strategia stragista – ha detto Lombardo – doveva mettere la vecchia classe politica con le spalle al muro per aprire varchi alla nuova classe politica. Questo ce lo conferma Graviano. Cosa nostra e ‘ndrangheta in quel momento storico, contemporaneamente e all’unisono, non solo abbandonano i vecchi referenti politici ma decidono di dare sostegno a questi nuovi soggetti”. Chi sono questi nuovi soggetti? Forza Italia. “Quella – ha continuato il pm – è la fase in cui bisognava trovare delle alternative molto più solide e si vira, come ci ha raccontato Giuseppe Graviano non solo nelle intercettazioni ma anche deponendo in questo processo, su Forza Italia e quindi sulla figura di Silvio Berlusconi. È questo il momento in cui si vira in quella che sarà Forza Italia. Vi è un imbarazzante, per la storia, coincidenza tra le sedi di Sicilia Libera e le prime sedi di Forza Italia”.
Il boss di ‘ndrangheta: “Voteremo Berlusconi” – Il magistrato, a sostegno dei fatti ripercorsi durante la sua requisitoria, ha citato decine e decine di collaboratori di giustizia. Ma anche tre episodi che niente hanno a che vedere con i pentiti. Il 24 febbraio del 1994 l’Italia è in piena campagna elettorale: la prima Repubblica è crollata sotto i colpi di Tangentopoli e dopo un mese il Paese sarebbe tornato a votare. Al tribunale di Palmi era in corso il processo a Giuseppe Piromalli, capostipite della cosca di Gioia Tauro, padre dell’omonimo boss (soprannominato “Facciazza“) che verrà arrestato anni dopo accusato anche di estorsione ai danni dei gestori dei ripetitori Fininvest. L’anziano padrino decise quel giorno di prendere la parola. E dalla sua cella gridò: “Voteremo Berlusconi, voteremo Berlusconi“. “Non è stata presa una posizione chiara e precisa dicendo che quei voti non li si voleva”, contesterà Achille Occhetto al leader di Forza Italia durante un confronto radiofonico pochi giorni dopo. La replica del futuro premier è surreale: “‘Non credo che nessuno possa sapere con certezza per chi voterà la mafia, non so nemmeno se sia ipotizzabile un voto compatto della mafia. È un fenomeno che confesso di non conoscere in modo approfondito.
L’intercettazioni di Pittelli: “Berlusconi è fottuto” – “Noi abbiamo elementi di valutazione che vanno oltre l’accidentale e che ruota intorno alla chiave di lettura che ci fornisce un parlamentare di Forza Italia”, ha poi commentato il procuratore aggiunto Lombardo. Riportando un secondo elemento di riscontro alla sua ipotesi accusatoria: un’intercettazione dell’avvocato Giancarlo Pittelli, ex parlamentare calabrese di Forza Italia, considerato il trait d’union tra massoneria e clan. È il 20 luglio 2018 e Pittelli dice: “La prima persona che dell’Utri contattò per la formazione di Forza Italia fu Piromalli di Gioia Tauro”. “Per fortuna – ha commentato il pm – Pittelli non è un passante, ma è stato per 13 anni parlamentare di Forza Italia. Questa è la fonte qualificata che ci insegnavano come va valutato il peso probatorio di un elemento”. E se non bastasse Lombardo ha ricordato anche l’inizio di quella conversazione di Pittelli, che al telefono dice a un suo interlocutore: “Senti, sto leggendo questa storia che hanno riportato sul Fatto Quotidiano della trattativa stato Mafia”, dice l’ex parlamentare il 20 luglio del 2018. Il riferimento a un articolo che riportava le motivazioni del processo sul Patto tra pezzi delle Istituzioni e Cosa nostra. Quel procedimento individua il primo governo Berlusconi come parte lesa del ricatto allo Stato. Il commento di Pittelli, però, è di tenore diverso: “Berlusconi è fottuto…Berlusconi è fottuto”.
Dalla Calabria allo stadio Olimpico: carabinieri nel mirino – Insomma, secondo il pm Lombardo, in pratica, l’omicidio dei due militari Fava e Garofalo è la prova che la ‘ndrangheta condivise in pieno la strategia di attacco allo Stato varata da Cosa nostra e dai Graviano. D’altra parte sono proprio i carabinieri l’obiettivo dichiarato da Graviano. Il 23 gennaio del 1994 – cinque giorni dopo il duplice omicidio calabrese – Gaspare Spatuzza avrebbe dovuto fare esplodere una Lancia Thema imbottita di tritolo e tondini di ferro nei pressi di un autobus che trasportava decine di carabinieri del servizio d’ordine dello stadio Olimpico durante Roma-Udinese. Quell’attentato, però, fallì per un difetto al telecomando. “Se, invece, fosse riuscito ed avesse, quindi, determinato la morte di un così rilevante numero di carabinieri, avrebbe con ogni probabilità veramente messo in ginocchio lo Stato pressoché definitivamente dopo la sequenza delle gravissime stragi che si erano già susseguite dal 1992, ciò tanto più che l’ulteriore strage (la più grave per numero di vittime) sarebbe intervenuta in un momento di estrema debolezza delle Istituzioni”, hanno scritto i giudici della corte d’Assise di Palermo che hanno celebrato il processo sulla Trattativa.
Un gennaio frenetico – Due giorni dopo il fallito attentato all’Olimpico, Berlusconi ufficializza la sua discesa in campo, il 27 gennaio – 24 ore dopo il famoso discorso sull’Italia “è il Paese che amo” – Graviano viene arrestato. “Non è che la fretta di Graviano per portare a termine il fallito attentato all’Olimpico era legata al fatto che la settimana dopo sarebbe stata annunciata la discesa in campo di Berlusconi?“, si è chiesto il pm Lombardo durante l’ultima udienza. È un fatto che il bar Doney di Roma, il posto dove il 21 gennaio Graviano incontra Spatuzza per dargli l’ordine di dare un altro “colpetto“, dista solo poche centinaia di metri dall’hotel Majestic dove in quei giorni Dell’Utri era impegnato in una serie d’incontri preparatori alla discesa in campo. Uno dei dipendenti dell’albergo, interrogato dalla Dia di Reggio Calabria, oggi ricorda che Dell’Utri incontrava alcuni soggetti di “chiara provenienza calabrese e siciliana, dal momento che parlavano con marcato accento dialettale da me conosciuto per le mie origini calabresi”. Chi erano quei siciliani e quei calabresi incontrati da Dell’Utri proprio nei giorni in cui veniva lanciato il partito azienda di Berlusconi? Hanno niente a che vedere con gli incontri del siciliano Graviano nel vicinissimo bar di via Veneto?
Silvio Berlusconi, fango contro il leader FI: "Aiutato dalla 'ndrangheta", così il procuratore aggiunto di Reggio Calabria. Libero Quotidiano l'8 luglio 2020. Non bastassero le nuove rivelazioni sul «plotone di esecuzione» organizzato per fare fuori il Cav per via giudiziaria all'epoca del processo Mediaset, ora spunta la pista 'ndranghetista per gettare altro fango sul leader di Forza Italia. Curioso che risbuchi fuori ora che Silvio Berlusconi è tornato così attivo sullo scacchiere politico e ventila nuovi scenari affinché il Paese esca dallo stallo, ma tant' è. La faccenda, su cui andrà a nozze il Fatto quotidiano, riguarda stavolta la requisitoria del procuratore aggiunto di Reggio Calabria, Giuseppe Lombardo, nel corso del processo "Ndrangheta stragista" che vede imputati davanti alla Corte d'Assise Giuseppe Graviano, boss di Brancaccio, e Rocco Santo Filippone, esponente della cosca Piromalli, accusati dell'omicidio dei due carabinieri Fava e Garofalo, consumato il 18 gennaio 1994 a Scilla. Nel corso del suo intervento il pm ha analizzato il panorama politico tra l'autunno del 1993, quando il Pds di Achille Occhetto stravinse le amministrative, e il 1994. «C'era il rischio comunista e quando il sistema l'ha capito», ha detto il pm, «la storia politica si è incrociata con le esigenze dell'altra mafia. Fino ad allora si credeva che i movimenti separatisti potessero avere senso, ma bisognava trovare delle alternative più solide e si virò, come ci ha raccontato Graviano non solo nelle intercettazioni ma anche in questo processo, su Forza Italia e quindi sulla figura di Berlusconi». lo dice graviano In sintesi, prendendo per buone le deposizioni di Graviano, Cosa nostra e 'ndrangheta, in quel momento storico, «non solo abbandonano i vecchi referenti politici ma decidono di dare sostegno a questi nuovi soggetti». Ma non è tutto. Nella stessa requisitoria viene riesumato un processo celebrato a Palmi nel febbraio del '94. In quell'occasione il boss Pino Piromalli avrebbe detto: «Voteremo Berlusconi», quindi apriti cielo. L'episodio 24 anni dopo si incrocia con un'intercettazione registrata nell'ambito dell'inchiesta "Rinascita-Scott" della Dda di Catanzaro.
Graviano, Spatuzza, gli incontri al bar Doney di via Veneto: non è la prima volta che il boss soprannominato "Madre natura" tira in ballo Berlusconi, il quale ha sempre smentito: «Le parole di Graviano sono infondate». Ma chissà come mai certe ricostruzioni hanno sempre avuto vasta eco su alcuni giornali, che hanno riempito pagine di intercettazioni contro Berlusconi, invece oggi di fronte a una registrazione audio in cui un giudice, Amedeo Franco, membro della sezione feriale che nell'agosto del 2013 condannò l'ex premier per il processo Mediaset, ammise che fu una sentenza pilotata, c'è il silenzio. Manettari zitti pure sul verdetto del tribunale civile di Milano che ribalta la sentenza penale. Imbarazzi e scarse reazioni, finora, anche al nuovo scoop di Quarta Repubblica di Porro in cui tre persone sono sicure di avere sentito Antonio Esposito, il presidente di quello stesso collegio di Cassazione che inflisse la condanna definitiva al leader azzurro, definire Berlusconi «una chiavica», cioè «fogna» con l'aggiunta di una profezia che poi si confermerà tale: «Se mi capita gli devo fare un mazzo così a Berlusconi». In pratica, l'opposto di quando si dice che la legge è uguale per tutti e un giudice deve essere imparziale. L'ex presidente del Consiglio si è sfogato con i suoi: «Sono ormai chiare a tutti le ragioni di questi 26 anni di persecuzione giudiziaria. Chiediamo una commissione parlamentare perché vogliamo sia fatta chiarezza. Non è un dovere nei miei confronti, ma nei confronti degli elettori, anche quelli che non votano Fi». Quindi, ieri, il Cav tecnologico ha tenuto via Zoom una riunione con il coordinamento del partito. Si è parlato degli aiuti per fronteggiare l'emergenza Covid (i pacchi alimentari a Verbania), ma anche di legge elettorale (maggioritario) e scenari futuri. Silvio ha confermato la linea del «mai accordi con la sinistra». Il vicepresidente Tajani è convinto che il M5S si spaccherà e se cadrà questo governo e non saranno sciolte le Camere, una parte dei grillini confluirà nel centrodestra. Gli alleati di Lega e Fdi, però, non ne vogliono sapere: «Ok Silvio senatore a vita, ma niente governo di unità nazionale», ha ribadito Giorgia Meloni».
Mafia e B., per giornali e tv il boss Graviano è un mezzo bidone. E Travaglio diventa una furia. Marzio Dalla Casta domenica 9 febbraio 2020 su Il Secolo D'Italia. Ossessionato da B. Come prima, più di prima. Marco Travaglio non si smentisce e piuttosto che fare le pulci al boss Giuseppe Graviano, che accusa il Cavaliere facendo parlare i morti, le fa a giornali e tv troppo reticenti – a suo dire – nel darne notizia. Ci risiamo. La mafia, B. e l’accusatore di turno, versione sicula dell’Isso, essa e ‘o Malamente che furoreggiava sotto il Vesuvio. Vecchia storia, solito schema. Questo: nessuno, oltre al Fatto Quotidiano, fa davvero la guerra a B. Che poi è tutta una questione di concorrenza, cioè di copie e quindi di soldi, con Repubblica. Proprio come tra Pd e M5S è solo questione di voti. Competition is competition: là nelle edicole, qua nelle urne. A contendersi i manettari, lettori ed elettori. Senza stare troppo lì a spaccare il capello in quattro.
Travaglio dedica due pagine al padrino di Brancaccio. Già, a Travaglio poco importa se la sua “bomba” spesso è solo un tricchetracche e, quanto a rumore, peggio di una fetecchia. Fedele alla consegna per cui «non è importante quel trovi alla fine della corsa, ma quel che provi mentre corri», che entusiasma tutti tranne chi soffre di diarrea, il Direttore sa che il bello è soprattutto nell’attesa. Lo ha scoperto maneggiando il Ciancimino Jr. Chissà quanti e quali fremiti d’emozione avrà provato portandolo in processione come una reliquia o nei tanti incontri in tv, ospitante Michele Santoro e officiante Antonio Ingroia. Un “ dai e dai” senza requie. Purtroppo per loro, invece di vedere B. in galera, si sono ritrovati con il giovane Ciancimino condannato per calunnia, riciclaggio di denaro e detenzione di esplosivi.
Il precedente di Ciancimino Jr. Una vera mammoletta, sincera soprattutto. Ma la premiata compagnia di giro unita dal grido “la mafia non deve morire perché noi dobbiamo campare” lo aveva arruolato comunque. Giusto per assaporare il gusto dell’attesa. Quella di trovare conferma ai propri deliri. Ora è il turno del padrino di Brancaccio. «Graviano chi?», ha polemicamente urlato il Fatto in prima pagina per sottolineare la tiepida accoglienza riservata dai media alle sue accuse. Di nuovo fremiti e brividi percorrono la schiena di Travaglio. La corsa a consacrare la mafiosità di B. è ripartita. Come prima, più di prima. E poco importa se sarà ancora una volta il beffardo «ritenta, sarai più fortunato» tutto quel che troverà al posto del traguardo.
Alessandro Sallusti difende Silvio Berlusconi: "Le accuse di Graviano? I mafiosi sono uomini di merda". Libero Quotidiano l'8 Febbraio 2020. Alessandro Sallusti dalla parte di Silvio Berlusconi. La difesa del direttore del Giornale arriva più puntuale che mai dopo le accuse del boss Giuseppe Graviano. "Nel 1993 fu tra i protagonisti delle stragi che volevano mettere in ginocchio lo Stato. Oggi, 27 anni dopo, pensa di ripetersi, ma essendo in carcere non può usare il tritolo. Quindi usa le parole e dice che nel 1993, da latitante e insieme al cugino, incontrò a Milano Silvio Berlusconi per concludere certi affari immobiliari". Poi la stoccata: "Dicono che i mafiosi siano uomini d'onore, ma io non ho mai capito che c'entri la mafia con l'onore. Io penso che i mafiosi siano uomini di merda, perché la mafia è merda. Sono uomini che non possono più sparare proiettili e sparano cazzate". Per Sallusti molte colpe sono da imputare a "una certa magistratura che non vede l'ora di dimostrare che Forza Italia è nata mafiosa", per tre volte hanno infatti provato a incardinare un processo, ma per tre volte hanno dovuto arrendersi ancora prima di iniziare. Eppure non c'è verso di trovare un indizio che Berlusconi sia stato colluso con Cosa nostra, neppure le parole pronunciate dallo stesso Graviano. Se ne facciano una ragione.
Il boss Graviano: «Vidi Berlusconi tre volte a Milano, da latitante» Ghedini: «Falso». Pubblicato venerdì, 07 febbraio 2020 su Corriere.it da Carlo Macrì. Il boss di Cosa Nostra al processo «‘Ndrangheta stragista». Il legale di Berlusconi: «Da Graviano astio verso il Cavaliere per le leggi del suo governo contro i mafiosi». «Nel dicembre 1993, mentre ero latitante, incontrai Berlusconi a Milano. Berlusconi sapeva come mi chiamavo. E sapeva che ero latitante da dieci anni. Alla riunione ha partecipato anche mio cugino Salvo e con Berlusconi c’erano persone che non conoscevo. Dovevamo discutere dell’ingresso di alcuni soci nelle società immobiliari di Berlusconi». A rivelarlo, deponendo in videoconferenza al processo sulla `ndrangheta stragista a Reggio Calabria, è il boss mafioso Giuseppe Graviano. «Verso la fine del 1993 - spiega rispondendo alle domande del pm Giuseppe Lombardo - si tenne una riunione a Milano 3, per regolarizzare questa situazione. Siccome Berlusconi aveva detto di sì mio cugino ha detto di andare a incontrarlo. `Vediamo che intenzioni ha´, disse, ed così è stato fissato l’appuntamento a Milano 3. Fino a quel momento questi soggetti che dovevano entrare in affari con Berlusconi non apparivano». «In quell’occasione fu programmato un nuovo incontro, per febbraio, ma io il 27 gennaio 1994 venni arrestato a Milano. un arresto anomalo...», dice ancora Graviano. «Da latitante ho incontrato Berlusconi almeno per tre volte», ha detto, proseguendola sua deposizione Graviano. Che racconta: «Fu mio nonno ad avere i contatti con gli imprenditori milanesi. Poi, quando è morto mio padre, mi prese in disparte e mi disse “Io sono vecchio e ora te ne devi occupare tu”. Poco dopo mio nonno, che aveva più di 80 anni, morì». «Io ho condotto la mia latitanza nel milanese tra shopping in via Montenapoleone e teatri, insomma facevo la bella vita», dice il boss, che è stato latitante dagli anni Ottanta al 27 gennaio 1994. E deponendo in videoconferenza ha confermato alcuni passaggi che il pm Giuseppe Lombardo gli legge delle intercettazioni con il boss Umberto Adinolfi nel carcere di Terni: «Con Berlusconi cenavamo anche insieme. È accaduto a Milano tre, in un appartamento». E ancora: «Tramite mio cugino avevamo un rapporto bellissimo». E fu lo stesso Berlusconi ad annunciare «a mio cugino Salvo» la decisione di entrare in politica. Ma poi «Berlusconi fu traditore - aggiunge Graviano - perché quando si parlò della riforma del Codice penale e si parlava di abolizione dell’ergastolo mi hanno detto che lui chiese di non inserire gli imputati coinvolti nelle stragi mafiose». «Le dichiarazioni rese quest’oggi da Giuseppe Graviano sono totalmente e platealmente destituite di ogni fondamento, sconnesse dalla realtà nonché palesemente diffamatorie». Lo afferma in una nota il legale di Silvio Berlusconi, l’avvocato Niccolò Ghedini. «Si osservi - prosegue - che Graviano nega ogni sua responsabilità pur a fronte di molteplici sentenze passate in giudicato che lo hanno condannato a plurimi ergastoli per gravissimi delitti». «Si comprende, fra l’altro, perfettamente - aggiunge il legale - l’astio profondo nei confronti del presidente Berlusconi per tutte le leggi promulgate dai suoi governi proprio contro la mafia».
Mafia, il boss Graviano: "Mentre ero latitante incontrai Berlusconi a Milano". Lo rivela in videoconferenza a Reggio Calabria. "Io ho condotto la mia latitanza nel milanese tra shopping in via Montenapoleone e teatri, insomma facevo la bella vita". Alessia Candito il 07 febbraio 2020 su La Repubblica. Non solo ha più volte incontrato Silvio Berlusconi, “ma la mia famiglia con lui era in società”. È un fiume in piena il boss Giuseppe Graviano, l’uomo della stagione delle stragi, che per vent’anni si è trincerato dietro il più assoluto silenzio, incassando condanne su condanne. Ascoltato al processo “’Ndrangheta stragista” a Reggio Calabria, “Madre natura” ha aperto la diga e in aula ha parlato in dettaglio dei rapporti che storicamente legano la sua famiglia a Silvio Berlusconi, conosciuto e frequentato dai Graviano ancor prima della sua discesa in campo con Forza Italia. “Mio nonno materno, Quartanaro Filippo, era una persona abbastanza ricca. Era un grande commerciante di ortofrutta. Venne invitato a investire soldi al nord, perché era in contatto con Silvio Berlusconi”. Una valanga di miliardi da investire nell’immobiliare, con quota di partenza di 20 miliardi raccolta fra diverse famiglie. Un affare in cui anche Giuseppe Graviano entra dopo l’omicidio del padre, che all’avventura milanese – a suo dire – era sempre stato contrario. “Mio nonno mi disse che era in società con queste persone, mi propose di partecipare pur specificando che mio padre non voleva. Io e mio cugino Salvo abbiamo chiesto un consiglio a Giuseppe e Michele Greco, che mi dissero che qualcuno doveva portare avanti questa situazione e abbiamo deciso di sì. E siamo partiti per Milano. Siamo andati dal signor Berlusconi, mio nonno era seguito da un avvocato di Palermo che era il signor Canzonieri”. Un affare “ufficiale, era tutto legittimo perché - sostiene Graviano, rispondendo alle domande del procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo - mio nonno sosteneva che dovessimo essere scritti”. Almeno loro. Perché dietro c’erano altre famiglie palermitane a titolo di finanziatori. “Il primo incontro avvenne nell’hotel Quark, nell’83. C’erano Berlusconi, mio nonno e mio cugino Salvatore. Noi affiancavamo mio nonno perché era anziano e dovevamo essere pronti a prendere il suo posto. Siamo andati con questa situazione, di tanto arrivavano un po’ di soldi e mio cugino non li divideva, ma li reinvestiva”. Qualcuno dei vecchi finanziatori nel tempo si è sfilato, ma l’affare – sostiene Graviano – sarebbe andato avanti spedito fino al ‘93. “A dicembre di quell’anno, c’è una nuova riunione a Milano. Io ero latitante dall’84. Mio cugino mi invita a partecipare. Si era arrivati alla conclusione che si dovesse regolarizzare la situazione e far emergere il nome dei finanziatori. Ci siamo incontrati con Berlusconi, con lui c’erano altre persone che non mi sono state presentate. Berlusconi sapeva che ero latitante”. E Graviano lo era da tempo, quasi dieci anni, sebbene – specifica – quel periodo passato a nascondersi non abbia mai implicato particolari privazioni. “Stavo ad Omegna, ma Milano mi serviva per gli incontri e la frequentavo, senza usare particolari precauzioni. Andavo a fare shopping in via Montenapoleone, andavo al cinema e a teatro”. Ecco perché incontrare Berlusconi – sostiene il boss – non sarebbe stato un problema. “L’idea era di legalizzare la situazione per far emergere i finanziatori nella società immobiliare di Berlusconi in cui c’era mio nonno, che avevano appoggiato mio nonno, perché i loro nomi apparivano solo su una scrittura privata che ha in mano mio cugino”. Del resto, il volume d’affari era ormai imponente. Gli interessi nell’immobiliare riguardavano anche Milano 3, “lì Berlusconi aveva regalato a mio cugino un appartamento, abbiamo fatto anche una cena”. E stando a quanto racconta il boss, è stato proprio durante uno di questi incontri che il padre padrone di Forza Italia avrebbe annunciato ai Graviano la propria intenzione di lanciarsi in politica. “Io sono a Omegna, lui lo dice a mio cugino Salvo, a cui chiede una mano in Sicilia”. Il boss non lo dice, ma Graviano lo fa capire che quell'aiuto c'è stato. Ma non riesce a non perdere la calma quando parla del "tradimento" di Berlusconi. "Berlusconi fu un traditore, perché quando si parlò della riforma del Codice penale e si parlava di abolizione dell'ergastolo mi hanno detto che lui chiese di non inserire gli imputati coinvolti nelle stragi mafiose". Quasi le stesse parole che Graviano si era fatto scappare in carcere, parlando con Adinolfi. "Berlusconi prese le distanze e fece il traditore" aveva detto all'epoca. Ma oggi va oltre ""Un avvocato di Forza Italia mi disse che stavano cambiando il Codice penale - dice ancora Graviano - e che doveva darmi brutte notizie. Perché in Parlamento avevano avuto indicazioni da Berlusconi di non inserire quelli coinvolti nelle stragi. Lì ho avuto la conferma che era finito tutto. Mio io cugino Salvo era morto nel frattempo per un tumore al cervello. E nella riforma del Codice penale non saremmo stati inseriti tra i destinatari dell'abolizione dell'ergastolo". Ecco perchè "questo mi portò a dire che Berlusconi era un traditore".
Il boss Graviano ci ricasca e tira in ballo Berlusconi: “Ci vedevamo in albergo”. Damiano Aliprandi il 7 febbraio 2020 su Il Dubbio. Nulla di nuovo nella deposizione dell’uomo condannato per le stragi del ’92-’93 che cerca di riscrivere la nascita della seconda Repubblica…Non ha ucciso nessuno, non ha commesso nessuna strage. In compenso elogia Totò Riina dicendo che grazie a lui non ci sono state le stragi islamiche, anzi dice pure che l’ex capo dei capi era stato colui che ha cambiato – in meglio – l’organizzazione mafiosa istituendo la democrazia. Ma non solo. Giuseppe Graviano, deponendo in videoconferenza nel processo “ndrangheta stragista” in corso di svolgimento a Reggio Calabria, aggiunge pure che Silvio Berlusconi incontrò nel 1992 suo cugino Salvo annunciandogli che voleva entrare in politica. Tutto qui? Nemmeno per sogno. Graviano aggiunge un particolare, ovvero che si vedeva spesso con Berlusconi, anche in albergo, e che avevano un rapporto bellissimo. Tira in ballo perfino la recente sentenza della Consulta dicendo che hanno dichiarato incostituzionali alcune leggi. Quali leggi? “Quelle fatte per non farci uscire dal carcere, dopo che ci hanno accusato delle stragi“, risponde. Forse avrà letto alcuni giornali che in quei giorni hanno raccontato che la sentenza avrebbe fatto uscire tutti i mafiosi stragisti. Notizie fuorvianti che hanno illuso i mafiosi stessi. Se dovessimo credere a tutto ciò che ha raccontato, si dovrebbe buttare a mare tutto ciò che Giovanni Falcone e Paolo Borsellino hanno combattuto, rimettendoci anche la vita stessa. Riina era un buono, Graviano non ha mai commesso nulla e la mafia era in fondo al servizio stesso di Berlusconi. L’organizzazione mafiosa, quindi, non è altro che un’appendice della politica. Riina un buono che si era fatto guidare da altri. Ma non solo. Da riscrivere anche la storia della politica italiana. Graviano dice che Berlusconi realizzò il partito di Forza Italia nel 1992, quindi un lungimirante: la prima Repubblica era ancora lontana da essere travolta da tangentopoli. Ma Berlusconi a quanto pare già sapeva tutto. Graviano, in fondo, è stato abbastanza coerente con quanto disse nei colloqui, intercettati al 41 bis, con il suo compagno d’ora d’aria Mario Adinolfi. Dalle intercettazioni stesse emerge chiaramente che Graviano sapesse di essere intercettato. La maggior parte del suo tempo era volto a discolparsi di tutto quello per cui è stato condannato. Il 41 bis d’altronde è un inferno, lui è anche in area riservata, un 41 bis ancora più duro. Già lì, in quel colloquio, tirò in ballo Berlusconi.Come sappiamo, Graviano venne arrestato nel 1994. Restavano solo i fratelli Brusca e i loro fedelissimi di S.Giuseppe Jato. Finirono in galera un anno dopo. La paranza stragista, mai riorganizzatasi, era sgominata. Lo stesso Graviano, proprio in quel colloquio intercettato, si lasciò infatti scappare: “Mi arrestarono e finirono tutte cose”. Finì tutto, tranne determinati teoremi che ancora perdurano in alcuni tribunali.
Mafia, il boss Graviano a processo: “Incontrai Berlusconi da latitante tre volte, lui sapeva”. Redazione de Il Riformista il — 7 Febbraio 2020. “Nel dicembre 1993, mentre ero latitante, incontrai Berlusconi a Milano. Berlusconi sapeva come mi chiamavo. E sapeva che ero latitante da dieci anni. Alla riunione ha partecipato anche mio cugino Salvo e con Berlusconi c’erano persone che non conoscevo. Dovevamo discutere dell’ingresso di alcuni soci nelle società immobiliari di Berlusconi”. Lo ha detto il boss di cosa nostra, Giuseppe Graviano, detenuto dal 1994 e condannato all’ergastolo, durante la sua deposizione in videoconferenza nel processo ‘Ndrangheta stragista a Reggio Calabria, in cui è imputato. Graviano, rispondendo alle domande, precisa “da latitante ho incontrato Berlusconi almeno per tre volte. Fu mio nonno ad avere i contatti con gli imprenditori milanesi. Poi, quando è morto mio padre, mi prese in disparte e mi disse ‘Io sono vecchio e ora te ne devi occupare tu’. Poco dopo mio nonno, che aveva più di 80 anni, morì”.
GHEDINI: “FALSO, ASTIO PER LEGGE CONTRO LA MAFIA DI BERLUSCONI” – “Le dichiarazioni rese quest’oggi da Giuseppe Graviano sono totalmente e platealmente destituite di ogni fondamento, sconnesse dalla realtà nonchè palesemente diffamatorie”. Lo afferma Niccolò Ghedini, legale di Silvio Berlusconi, replicando a quanto dichiarato dal boss Graviano, nel corso della sua deposizione in videoconferenza al processo ‘Ndrangheta stragista in corso a Reggio Calabria. “Si osservi – sottolinea Ghedini – che Graviano nega ogni sua responsabilità pur a fronte di molteplici sentenze passate in giudicato che lo hanno condannato a plurimi ergastoli per gravissimi delitti. Dopo 26 anni ininterrotti di carcerazione, improvvisamente il signor Graviano rende dichiarazioni chiaramente finalizzate ad ottenere benefici processuali o carcerari inventando incontri, cifre ed episodi inverosimili ed inveritieri. Si comprende, fra l’altro, perfettamente l’astio profondo nei confronti del Presidente Berlusconi per tutte le leggi promulgate dai suoi governi proprio contro la mafia. Ovviamente saranno esperite tutte le azioni del caso avanti l’autorità giudiziaria”.
LA ‘PERSECUZIONE’ CONTRO BERLUSCONI SULLA MAFIA – L’ex presidente del Consiglio ha alle spalle moltiplici accuse sui presunti legami con la mafia. Nel 1996 venne indagato indagato a Palermo per concorso esterno in associazione mafiosa, così come negli anni successivi a Firenze e a Caltanissetta in merito alle stragi mafiose del periodo 1992-1994. Tutte le inchieste contro l’ex premier sono state archiviate. Nel 2009 invece Berlusconi venne accusato da un ex collaboratore dei Graviano, Gaspare Spatuzza, di essere stato in contatto con i vertici di Cosa Nostra nei primi anni ’90, ma anche in questo caso le accuse non portarono a nulla.
Il boss Graviano: “Da latitante cenavo con Berlusconi”. Ma i testimoni sono tutti morti. Piero Sansonetti su Il Riformista l'8 Febbraio 2020. Giuseppe Graviano sostiene di avere incontrato tre volte Silvio Berlusconi tra gli anni ottanta e novanta. Graviano era considerato uno dei boss importanti della mafia, in quel periodo, ed è accusato di avere partecipato all’uccisione di Falcone e di Borsellino. Il primo incontro con Berlusconi sarebbe avvenuto nel 1983, a Milano, allora Graviano era molto giovane, 30 anni, ma nella mafia le carriere erano veloci. Silvio Berlusconi, attraverso Niccolò Ghedini, ha fatto sapere che la deposizione di Graviano è falsa. Totalmente falsa. Non lo hai mai conosciuto, non lo ha mai incontrato. All’epoca dei presunti incontri Berlusconi era seguito giorno e notte da una scorta della polizia. Graviano non cita un solo testimone vivente di quegli incontri. I testimoni di Graviano o sono morti o sono persone che lui non conosceva e che non può indicare. Fuffa, pura fuffa, dice Ghedini. La deposizione di Graviano è avvenuta durante un processo a Reggio Calabria che si celebra per accertare chi siano i killer di due carabinieri uccisi nel gennaio del ‘94 in un agguato sull’autostrada. Il Pm Lombardo ha interrogato Graviano, che attualmente sconta due o tre ergastoli al 41 bis, e che qualche anno fa era stato intercettato – forse a sua insaputa, forse no – mentre parlava proprio dei suoi rapporti con Berlusconi. La deposizione di Graviano – che in questo processo è accusato di omicidio – ha riguardato poco l’uccisione dei due carabinieri, avvenuta una settimana prima del suo arresto. La cosa forse è stata giudicata meno interessante (ai fini processuali?) del racconto sui suoi rapporti con Berlusconi. Non sono sicuro che avvenga molto spesso che in un processo per omicidio ci si occupi di altre faccende, che non riguardano per niente quel processo e che peraltro, a occhio, non hanno rilevanza penale. Vediamo prima chi è Giuseppe Graviano e poi in cosa è consistita la sua deposizione e quali possono esserne le conseguenze. Graviano è figlio di Michele Graviano, che era considerato il capo della cosca di Brancaccio. Michele venne ucciso il 7 gennaio del 1982 nel corso della famosa seconda e sanguinosissima guerra di mafia, quella scatenata da Totò Riina, capo dei Corleonesi, contro il gruppo dei palermitani, guidato da Gaetano Badalamenti e da Tommaso Buscetta. I corleonesi sterminarono i palermitani, nel 1981; i palermitani reagirono l’anno successivo e la prima vittima riinista sarebbe stato proprio il papà di Giuseppe Graviano. Salto di dieci anni e arriviamo all’anno chiave dell’offensiva della mafia corleonese contro lo Stato. 1992. Nei processi, Giuseppe Graviano è stato condannato per aver partecipato un po’ a tutti gli attentati stragisti di quell’anno e dell’anno seguente. Secondo i tifosi della tesi della trattativa stato-mafia, Graviano sarebbe stato un uomo chiave di questa trattativa, in collegamento con Dell’Utri. In realtà la tesi della trattativa è un po’ confusa, perché ipotizza che sia avvenuta, questa trattativa, con il governo Berlusconi, e cioè nel 1994, quando le stragi erano finite da un pezzo. E di essersi fondata sulla richiesta di abolizione del 41 bis, che invece fu rafforzato. Ora, in questa deposizione, Graviano torna a parlare di Berlusconi. Non parla per la verità di Dell’Utri ma direttamente di Berlusconi, e non parla di trattativa ma di questioni economiche e di investimenti finanziari. Cosa racconta? Un fatto grave e altri fatti innocui. Dice di avere incontrato Berlusconi nel 1993, poco prima di essere arrestato, e mentre era latitante. Berlusconi, durante quell’incontro – gli è stato chiesto dal Pm, che a quel punto aveva dimenticato lo scopo del processo – era consapevole che lui era latitante? Graviano ha risposto di non saperlo, ma di pensare che lo sapesse perché conosceva il suo nome. Quale era lo scopo degli incontri tra Berlusconi e i Graviano (lui e suo cugino Salvo, che ha partecipato a tutti gli incontri con Berlusconi e che era, secondo Giuseppe, il vero tramite tra la famiglia e il cavaliere)? Discutere su come regolarizzare la partecipazione dei Graviano ad alcuni fondi di investimento intestati a Berlusconi. Pare che fosse soprattutto il cugino Salvo quello interessato a questa faccenda. Il problema era di ufficializzare un investimento realizzato una decina di anni prima dal nonno materno di Graviano, un certo Filippo Quartararo. Che evidentemente era il nonno di Giuseppe, ma non di suo cugino Salvo Graviano e perciò non si capisce bene perché fosse Salvo a occuparsi della questione. Questa operazione era un delitto? No, pare che fosse perfettamente lecita. Anche se Berlusconi nega che sia mai avvenuta e nega di avere mai sentito parlare di questo nonno di Graviano né di questi 20 miliardi. Ma allora, se in tutto questo non c’è ombra di reati (l’unico potrebbe essere la mancata denuncia da parte di Berlusconi della latitanza di Graviano, ma è discutibile che sia un reato e poi sicuramente dopo 30 anni è prescritto) per quale ragione in un processo per duplice omicidio, il presunto killer o mandante viene interrogato su tutt’altro? Sicuramente il racconto di Graviano non ha interesse penale, indubbiamente ha un grosso valore giornalistico. Diciamo che più che di un processo dobbiamo parlare di una conferenza stampa, o di un talk show senza telecamere. Questo forse è il punto.La deposizione di Graviano non avrà conseguenze giudiziarie ma conquisterà i giornali. E permetterà di tornare alla vecchia idea che in fondo Berlusconi c’entra con la mafia. Anche se tra i grandi imprenditori italiani è quello che meno di tutti ha avuto a che fare con la Sicilia. Anche se è l’unico che è stato passato al setaccio per anni e anni, senza risultati, dai migliori magistrati italiani. Anche se è stato intercettato, pedinato e se – comunque – è sotto scorta da quarant’anni, e dunque tutti i suoi movimenti sono monitorati. Infine una piccola testimonianza personale. Mi si dice – la notizia l’ha pubblicata un piccolo giornale siciliano – che nell’intercettazione in carcere, Graviano sostenne che stava per scrivere, con me, un libro di memorie. Non era vero. Nessuno me lo aveva mai chiesto. Un anno dopo – circa – e un po’ più di un anno fa, vennero a trovarmi al giornale dove lavoravo (Il Dubbio) due persone mandate da Graviano, due avvocati credo, che mi proposero effettivamente di scrivere un libro. Dissi di no, spiegai il perché, e la cosa finì lì. Immagino però che effettivamente queste dichiarazioni di Graviano non siano nate all’improvviso. Immagino che da tempo pensa a questa uscita. Non ne immagino invece i motivi.
Attilio Bolzoni per “la Repubblica”l'8 febbraio 2020. I boss lo sapevano che "Iddu pensa solo a Iddu", che lui pensava solo a se stesso. Ma ora il mafioso che - dopo la morte di Totò Riina - custodisce i segreti più segreti di Cosa Nostra - glielo sta rinfacciando a modo suo, come è lui: spietato. Ora, dopo tanti anni di tira e molla, di cose dette e non dette, di messaggi storti, Giuseppe Graviano apparentemente fa saltare il banco e chiede il conto a Silvio Berlusconi su quelli che sono stati i veri o presunti rapporti che l' ex Cavaliere di Arcore ha avuto con la mafia siciliana. Apparentemente. Perché quello che i suoi venerano come una divinità e chiamano "Madre Natura" è un maestro del doppio e anche del triplo gioco. Dice Berlusconi ma può aver mandato messaggi a qualcun altro, in chiaro parla di soldi e di investimenti ma forse in codice parla di stragi. "Madre Natura" interpreta sempre se stesso e forse sta mischiando le carte un' altra volta. Perché lo fa adesso, e in maniera così spudorata e rumorosa, non lo sappiamo. Cosa si aspetti di ottenere, al momento è ancora un mistero. Si sta comunque scoprendo troppo e non è mai stato nel suo stile. Una ragione importante (per lui) sicuramente ci sarà. Anche perché se avesse vuotato il sacco su Berlusconi quando lo arrestarono, le sue dichiarazioni avrebbero fatto esplodere l'Italia. Le parole pronunciate ieri, seppur devastanti, passeranno nel migliore dei casi alla storia probabilmente come una "crisi individuale" del più astuto fra i Graviano. È in ritardo di ventisei anni e un mese "Madre Natura", fermato a Milano nel gennaio del 1994 dopo una soffiata - raccontano i bene informati - di un senatore della Repubblica molto amico di Berlusconi. L' effetto delle sue rivelazioni ci sarà comunque, ma il tempo - si sa - scolorisce tutto. Avremo solo un po' di informazioni in più sui patti fra l' associazione denominata Cosa Nostra e un' imprenditoria rapace, su come è stato costruito un impero economico, sulle trattative indicibili fra "classi pericolose" e poteri in un paese dove si stava fondando la seconda Repubblica. Ma è questo che ci ha voluto comunicare "Madre Natura", è davvero questo? "Iddu pensa solo a Iddu" era la voce che avevano fatto circolare sin da subito in carcere e che poi era stata trasportata fuori, di bocca in bocca, prima sussurrata e poi gridata in quell' inizio degli anni '90. Quando Iddu, Silvio Berlusconi, era diventato per la prima volta Presidente del Consiglio. Iddu capo del governo e loro sepolti come morti vivi al 41 bis, Iddu potente e intoccabile e loro braccati come animali, Iddu sorridente fra i potenti della terra e fra quelle simpatiche signorine un po' scollacciate e loro con tutti i beni sequestrati e gli ergastoli sul groppone. Poi erano arrivati i Graviano, a provare a rimettere ordine. I due fratelli, Filippo e quell'altro, Giuseppe. E, proprio in quel momento, tutti noi abbiamo cominciato a vedere i riflessi lontani di una storia che c'era e non c'era, un gioco degli specchi, un fratello che ammetteva e l'altro che smentiva, il secondo che ricordava e il primo che dimenticava, una volta parlavano di mafia e un' altra di Borsa, in un' udienza si dibatteva sulle stragi e nel processo dopo di «un famoso imprenditore del Nord». Tutto vischioso, indistinto, quasi vero. Quasi. Chiacchiere ricattatorie di gente accusata di avere organizzato stragi e che tentava di coinvolgere il nuovo padrone d' Italia negli affari più loschi, lui e anche l' amico - Marcello Dell' Utri - che lo aveva trascinato nell' arena politica fondando Forza Italia. Ma un "Madre Natura" inedito e fragoroso ha scelto di fare il nome e il cognome di "Iddu" inserendolo nel peggiore dei contesti possibili, quantifica l' investimento di famiglia (quella di Brancaccio) - venti miliardi di vecchie lire con l' interesse del venti per cento - per accreditare la sua versione non esita a chiamare in causa il nonno Filippo e il cugino Salvatore, confessa candidamente di avere incontrato "Iddu" almeno tre volte quando era latitante e già pienamente immerso nelle investigazioni sulle uccisioni dei giudici Falcone e Borsellino. Parole che oltrepassano il già visto e il già sentito. Ma eccessivamente. Una sregolatezza un po' sospetta. Queste parole nel ' 94 avrebbero fatto esplodere l' Italia. Oggi avremo solo un po' di informazioni sui patti tra Cosa Nostra e un' imprenditoria rapace.
Francesco La Licata per “la Stampa” l'8 febbraio 2020. Alla fine il timer sembra essersi fermato e la bomba deflagra. Giuseppe Graviano, mafioso di primo livello tanto da essere soprannominato «madre natura», rompe i freni inibitori che dovrebbero caratterizzare il suo essere «uomo d'onore che non parla mai» e, invece, parla a ruota libera in pieno processo. Tutti eravamo al corrente che i fratelli Graviano (è toccata a Giuseppe la responsabilità di una decisione non facile) costituissero una specie di bomba ad orologeria, pronta ad esplodere quando lo avessero scelto i detentori dell'esplosivo. L'incognita era rappresentata - e continua ad esserlo anche adesso, visto l'andamento e la «sapienza» delle «rivelazioni» - dal quando e perché avrebbero deciso di togliere la sicura all'ordigno. Certo, ce n'è voluto di tempo, visto che era rimasto inerte per più di un quarto di secolo, cioè da quando i fratelli palermitani furono arrestati (1994) a Milano in circostanze davvero strane, come oggi afferma lo stesso Graviano quando invita i magistrati a indagare sulle modalità di quella cattura. Ma ora che l'orologio è saltato non vuol dire che tutto sarà più semplice e decifrabile. Anzi, forse proprio adesso viene il difficile, almeno sino a quando non si troveranno pezze d'appoggio alle parole di Graviano che, senza riscontri, resteranno messaggi cifrati ad uso e consumo di «trattative private» fra il boss e i suoi interlocutori interni ed esterni alla mafia. L'impressione, infatti, è che per un quarto di secolo i capi di Cosa nostra se ne stiano stati buoni e fermi in attesa del miracolo che, purtroppo per loro, non è arrivato, seppellendoli al 41 bis per un tempo che forse è divenuto non più sopportabile. Ma proprio per questo non potranno bastare le semplici affermazioni di «madre natura» che, durante il dibattimento, gli avvocati potrebbero relegare nell'ambito dell'indimostrato, per di più motivato dal rancore verso chi avrebbe dovuto aiutarli e non lo ha fatto. In questo senso potrebbe prendere forma concreta la suggestione che descrive i Graviano molto «destabilizzati» dal recente «evento» che sembra aver rotto il sodalizio fra Berlusconi e Dell'Utri, quest'ultimo amareggiato e deluso dal rifiuto opposto dal cavaliere alla richiesta di testimonianza (leggi aiuto) inviata a Berlusconi. Anche a bomba esplosa, dunque, la presa di posizione del boss di Brancaccio resta un enigma. Forse bisognerà attendere ancora un po' per capire perché Graviano parla e, soprattutto, a chi sta parlando. Non sfugge il sapiente tentativo, utopistico, del boss di tirarsi fuori dal terreno giudiziario rigettando qualunque accusa di stragismo: «Noi non c'entriamo». Ma nello stesso tempo rivolge il dito accusatorio verso indefiniti «industriali di Milano» che non volevano le stragi si fermassero. E a proposito di fermare le stragi, con la consueta malizia di boss navigato invita i giudici a «indagare sul mio arresto». Giuseppe e Filippo Graviano furono catturati nel 1994, all' indomani del fallito attentato allo stadio Olimpico di Roma (che avrebbe dovuto chiudere il cerchio del «ricatto stragista» di Cosa nostra allo Stato) e alla vigilia delle elezioni politiche che per la prima volta vedevano la partecipazione di Forza Italia. Ciò che non nega, Graviano, riguarda il legame della sua famiglia con Silvio Berlusconi che fa risalire alla fine degli Anni Settanta, quando suo nonno, Filippo Quartararo, «ricco commerciante di ortofrutta venne invitato a investire al Nord perché era in contatto con Silvio Berlusconi». Affari «legittimi» («il legame non era criminale ma economico») che, però, era necessario ufficializzare con carte scritte. Per questo i Graviano si incontrarono con Berlusconi. «Ci siamo incontrati almeno tre volte, anche mentre ero latitante», aggiunge senza rinunciare alla collaudata malizia. E offre particolari: l'Hotel Quark indicato come sede di uno degli appuntamenti e il cugino Salvo testimone, che, come nelle migliori tradizioni dei processi di mafia, è morto e non potrà essere interrogato. Insomma, rimane il dubbio iniziale. Perché Graviano ha tolto la sicura alla bomba ad orologeria? La risposta più immediata è che si è stancato di stare in carcere ad aspettare qualche beneficio che continua a non arrivare, seppure in qualche modo promesso. Le leggi rigide hanno impedito (e non solo per lui ma per tutti i boss di Cosa nostra) qualsiasi attenuazione della pena, qualsiasi deroga all'isolamento (per avere un figlio ha dovuto fare ricorso a un vero e proprio gioco di prestigio che gli ha permesso di ingravidare la moglie dalle sbarre della cella). Ma adesso, con la recente sentenza della Corte europea sull'ergastolo ostativo, si potrebbero aprire spiragli. Un atteggiamento collaborativo del detenuto, anche se non di vera e propria collaborazione, potrebbe favorire provvedimenti premiali anche per i mafiosi. Sarà per questo che Graviano assicura di voler rispondere anche a domande dei magistrati sui suoi famosi colloqui col compagno di cella Adinolfi, «ma solo dopo aver avuto la possibilità di ascoltare le registrazioni». Cosa possibile soltanto se disponesse di un computer, ma chi sta al carcere duro non può avere un pc. Se glielo dessero sarebbe una prima, piccola deroga alle limitazione al regime del 41 bis. Forse, però, potrebbe ascoltare le sue registrazioni sotto il rigido controllo di un pubblico ministero, ma finora questa idea non è venuta a nessuno.
"L'obiettivo di Graviano non è Berlusconi". Intervista a Claudio Fava. II presidente della Commissione Antimafia dell'Ars: "Non mi fido delle sue presunte verità centellinate. Dica perché parla adesso. Si rivolge ai suoi compari in carcere, allo Stato, a pezzi deviati delle Istituzioni?" Federica Olivo il 07/02/2020 su huffingtonpost.it. Perché parla adesso Giuseppe Graviano? E, soprattutto, a chi si sta rivolgendo, a chi sta lanciando il suo messaggio? Per Claudio Fava sono queste le domande a cui bisogna rispondere, o meglio, a cui il boss delle stragi deve dare una risposta. Solo dopo, le dichiarazioni come quella fatta oggi sui presunti incontri - tre, sostiene - avuti con Silvio Berlusconi ormai tanti decenni fa potranno essere prese in considerazione. “Graviano dice che non si fida dei magistrati. Io non mi fido di Graviano”, sostiene il presidente della Commissione Antimafia dell’Assemblea regionale siciliana parlando con HuffPost. “La giustizia non è un mercato. La verità è tale o non è”, tuona Fava, che si chiede chi sia il vero obiettivo delle parole del boss. “Non credo proprio sia Berlusconi”, aggiunge.
Graviano ha dichiarato di aver visto per tre volte, quando era latitante, Silvio Berlusconi, allora imprenditore. Cosa ci dicono le sue parole?
«Premetto una cosa: lui dice che non si fida dei giudici. Io invece non mi fido di Graviano. Non mi fido di verità centellinate, raccontate con tempi, forme e modi discutibili, come se il suo fosse un capriccio, e le sue dichiarazioni rispondessero solo ed esclusivamente ai suoi interessi. Stiamo parlando di verità presunte, tirate fuori a tempo scaduto. Graviano spieghi perché non ha parlato prima. Poi possiamo ragionare».
Perché parla di “verità tirate fuori a tempo scaduto”?
«Perché siamo di fronte a sentenze sulle stragi passate in giudicato, a un depistaggio smascherato. Le sue mi sembrano verità ad orologeria. È come dire “io non c’entro nulla con le stragi. Incontravo Berlusconi per fare affari”».
Il boss davanti al pm ha affermato che potrebbe dire ancora altre cose. A chi si sta rivolgendo?
«Non so a chi stia parlando. Se a un magistrato, se ai suoi compari. Ecco, prima spieghi perché parla proprio adesso. La giustizia non è un mercato, né una soap opera a puntate. La verità è o non è. E, finora, quella di Graviano non è mai stata una verità».
E allora queste parole cosa significano?
«Secondo me sono messaggi in codice. Lanciati non sappiamo a chi. Graviano sta giocando la sua partita, in modo subdolo e opaco. Poi, chiaramente, può darsi che le cose che sta dicendo siano vere. Ma le forme e i tempi con cui vengono raccontate, per step, mi fanno dire: ‘io non ho alcuna fiducia nel fatto che questo signore abbia buone intenzioni, o buona fede’. Penso, però, che il messaggio che sta lanciando con le sue dichiarazioni non sia rivolto a Berlusconi. I destinatari di queste affermazioni sono altri. Il suo è comunque un linguaggio sgradevole, per le forme in cui arriva. Per le allusioni cui si aggrappa».
Se non è un messaggio a Berlusconi, a chi parla Graviano?
«Il tema principale di questa vicenda è: qual è l’obiettivo del boss? Io non credo sia Berlusconi. Penso si stia rivolgendo a gente che è in carcere, o a gente che è fuori. A pezzi delle istituzioni, forse a pezzi deviati delle istituzioni che attorno alle stragi si sono mosse, hanno manipolato, depistato. Graviano ha molte colpe sulla coscienza, ma anche molti segreti indicibili. E fino a quando non dice perché sta parlando proprio ora, io continuerò a non fidarmi di quello che afferma».
Dagospia il 9 febbraio 2020. Estratto del libro “Lo stato illegale” di Gian Carlo Caselli e Guido Lo Forte pubblicato da “il Fatto quotidiano”. La Procura di Palermo del dopo stragi ha vissuto un periodo di grande speranza, man mano che si avvertiva con sempre maggiore chiarezza come importanti strutture di Cosa Nostra stessero cedendo. () La strada si è fatta via via più in salita. E chissà quante opportunità () sono sfuggite. Sullo sfondo un' ipotesi inquietante: che ad aggravare il cambiamento di quadro, già di per sè cupo, abbia potuto contribuire la "trattativa" fra Stato e mafia. () Innanzitutto va chiarito che - secondo la Corte di assise di Palermo - le trattative sono state due. La prima, che si svolge nel biennio 1992-93, vede come protagonisti: dalla parte dello Stato, gli ufficiali del Ros dei carabinieri Antonio Subranni, Mario Mori e Giuseppe De Donno; dalla parte di Cosa nostra, Vito Ciancimino e il medico-mafioso Antonino Cinà, con Salvatore Riina come massimo referente. Destinatari della minaccia sono i governi di Giuliano Amato e Carlo Azeglio Ciampi. () La seconda trattativa, che si svolge fra il 1993 e il 1994 vede come attori principali Marcello Dell'Utri e Leoluca Bagarella, e come destinatario della minaccia il primo governo della Seconda Repubblica, quello di Silvio Berlusconi. Secondo la ricostruzione dei giudici, Dell'Utri si propone e si attiva come interlocutore dei capi di Cosa nostra per una serie di benefici a favore dell'organizzazione mafiosa. E agevola lo sviluppo della trattativa, rafforzando il proposito mafioso di rinnovare la minaccia delle stragi e favorendo la ricezione di tali minacce da parte del governo presieduto da Berlusconi. A sua volta Bagarella, utilizzando come tramiti Vittorio Mangano (lo "stalliere di Arcore") e Dell' Utri, avrebbe inoltrato a Berlusconi una serie di richieste finalizzate a ottenere alcuni benefici riguardanti la legislazione antimafia e l' attenuazione del carcere duro per i mafiosi reclusi. () I giudici confermano così il ruolo di "cinghia di trasmissione" di Dell' Utri fra Cosa Nostra e l' ex premier. E anche se "non v'è e non può esservi prova diretta sull'inoltro della minaccia da Dell' Utri a Berlusconi (perché ovviamente soltanto l' uno o l' altro possono conoscere il contenuto dei loro colloqui)", ci sono tuttavia "ragioni logico-fattuali che inducono a non dubitare che Dell'Utri abbia riferito a Berlusconi quanto di volta in volta emergeva dai suoi rapporti con l'associazione mafiosa Cosa Nostra mediati da Vittorio Mangano". La prima di queste ragioni logico-fattuali è costituita - secondo la Corte - dall' esborso, da parte delle società di Berlusconi, "di ingenti somme di denaro poi effettivamente versate a Cosa nostra. Dell' Utri, infatti, senza l' avallo e l' autorizzazione di Berlusconi, non avrebbe potuto, ovviamente, disporre di così ingenti somme da recapitare ai mafiosi". Ma fino a quando Berlusconi avrebbe pagato esponenti della mafia? Nel precedente processo a carico di Dell' Utri per concorso esterno in associazione mafiosa, il fatto che Berlusconi pagasse Cosa nostra era considerato dimostrato solo fino al 1992, prima dell' inizio delle stragi e del successivo impegno politico dell' imprenditore. Invece - stando alla valutazione della Corte di assise della trattativa - tali pagamenti proseguono "almeno fino al dicembre 1994". () Un' altra ragione logico-fattuale che i messaggi di Cosa Nostra fossero pervenuti al governo sta nel fatto che - secondo la Corte - in almeno una occasione il primo esecutivo guidato da Forza Italia avrebbe portato avanti iniziative legislative favorevoli a Cosa Nostra. E Cosa Nostra venne informata prima ancora degli stessi ministri del governo Berlusconi.
Giovanni Falcone: «La Gladio e la P2 estranee ai delitti eccellenti». Damiano Aliprandi il 7 febbraio su Il Dubbio. Dalle indagini condotte da Giovanni Falcone emerge che per l’esecuzione degli omicidi Cosa nostra non prese ordini da nessuno. In questi settimane alcuni giornali hanno dato notizia del rigetto da parte del giudice delle indagini preliminari della richiesta di custodia cautelare per i boss Nino Madonia e Gaetano Scotto. Si tratta della richiesta fatta dalla procura generale di Palermo per l’omicidio dell’agente Nino Agostino e di sua moglie Ida Castelluccio. Parliamo di una brutta storia dove giustamente i familiari ancora gridano giustizia. Antonino Agostino, detto Nino, era noto come “il cacciatore di latitanti”. Agente della questura di Palermo, stava indagando sul fallito attentato al giudice Giovanni Falcone sulla spiaggia dell’Addaura, dove era stato abbandonato un borsone contenente tritolo. Ma in questa occasione, ancora una volta, parlando dei “delitti eccellenti” si ripescano interrogatori di Giovanni Falcone a un estremista di destra palermitano, Alberto Volo, definito un mitomane in più di una sentenza. Volo parla di Gladio, dice addirittura di far parte della “Universal legion”, una struttura legata ai servizi segreti che assomigliava molto a Gladio e arriva a mettere in relazione i delitti di Palermo con l’omicidio Moro, i servizi segreti e la massoneria. In un giornale, riesumando questa vicenda, scrive nero su bianco che quegli interrogatori dicono molto della grande attenzione di Falcone per le parole di Volo. Ma non è così. O meglio, l’attenzione l’ha data, perché il giudice antimafia per eccellenza aveva il difetto di vagliare attentamente le dichiarazioni dei pentiti o testimoni. Sapeva essere razionale, saper separare i deliri dalle dichiarazioni verosimili. Legittimo che un giornalista o magistrato inquirente ritenga che i racconti di Volo siano degni di nota, non corretto però far credere che Falcone prendesse in considerazione i suoi racconti. Cosa pensava di lui? Basta leggere gli atti e la sua relazione in merito al delitto di Piersanti Mattarella. «La palma del “migliore” se così si può dire – scrive Falcone -, spetta certamente ad Alberto Volo. Nei suoi racconti egli è capace di accomunare idee politiche e tarocchi, contatti con servizi segreti e vicende amorose. La vicenda nella quale è implicato esalta la sua mania di protagonismo. Vale la pena di rilevare immediatamente come il comportamento del Volo in questo processo risponda a quel ruolo fantastico e delirante del quale l’imputato ha deciso di connotare ogni momento della sua esistenza». Poi Falcone prosegue con un esempio: «Basta al riguardo aver riferimento alle notazioni contenute nella sentenza 24.5.1977 della Corte d’Appello di Palermo (con la quale il Volo fu condannato per una rapina di assegni bancari che l’imputato “pretendeva” poi di rivendere); ovvero alla lettera anonima da luì spedita alla Questura dì Palermo e nella quale si autoaccusava di far parte di organizzazioni eversive: lettera il cui intento era quello di sollecitare gli inquirenti a “non trascurarlo” nell’ambito della indagine sulla strage di Bologna». Ma quindi Falcone ha preso in considerazione Alberto Volo su quale aspetto? Presto detto. «Deve essere chiaro – spiega sempre Falcone-, peraltro, che dietro alle “mitomanie” ed al “protagonismo” del Volo(e che lo inducono alle più distorte e talvolta fantasiose ricostruzioni dei fatti ) sta comunque il suo inserimento, quantomeno a livello conoscitivo, nella realtà umana della destra eversiva. La frequentazione del Mangiameli lo ha portato a sapere molto dei fatti legati al terrorismo ed anche dei progetti in atto». In sostanza Falcone è riuscito a separare la mitomania da alcuni fatti che lo stesso Volo poteva conoscere avendo appunto frequentato la destra eversiva. Cosa sta a significare? Può essere utile una citazione messa a epigrafe del libro “Complotto!” scritto a quattro mani da Massimo Bordin e Massimo Teodori. Si tratta quella di Mordecai Richler: «Il mio problema con i teorici della cospirazione è che, se gli dai un dito di porcherie accertate, loro si prendono tutto un braccio di fantasie. O peggio». Tutto qui. La differenza con chi è affetto della patologia dei complottisti, è che Falcone sapeva distinguere i fatti concreti dai racconti fantasiosi. Sul delitto Mattarella è stato chiarissimo. Lui parla di delitto “politico mafioso” e gli esecutori materiali, che secondo lui erano i nar (ma dove, a quanto pare, non era fermamente convinto ascoltando non solo la testimonianza di Valerio Fioravanti, ma anche quello di Pietro Grasso), avrebbero fatto semplicemente da manovalanza e non ha nulla a che fare con Gladio o P2. Lo mette nero su bianco prendendo spunto proprio dalle dichiarazioni di Volo, il quale disse che «l ‘omicidio era stato deciso a casa di Licio Gelli e provocato dalle aperture al Pci che in quel periodo stavano maturando in Sicilia e di cui il Mattarella era il principale sostenitore. Per compiere l’omicidio, Gelli si avvalse di sua “manovalanza” e cioè di giovani come Fioravanti e Cavallini, quest’ultimo in particolare, legato ai servizi segreti». Falcone ha vagliato quindi anche questa ipotesi e l’ha scartata in pieno. Si convince che la «la valutazione negativa di Fioravanti come killer della P2 nasce nell’ambiente di Terza Posizione, soprattutto dopo l’omicidio di Mangiameli» e che «i rapporti presunti tra Fioravanti e Gelli non costituiscono oggetto di cognizione diretta, ma vengono dedotti dai rapporti tra Valerio e Signorelli, ritenuto in contatto con Gelli per tramite di Aldo Semerari». Falcone scarta questa ipotesi e ciò per «l’irriducibile vocazione di Cosa Nostra a salvaguardare la propria segretezza e la propria assoluta indipendenza da ogni altro centro di potere esterno». Questo è ciò che pensava Falcone e la casuale dell’omicidio di Mattarella la ritrovava nelle sue scelte politiche ben precise, soprattutto sulla questione dell’aggiudicazione degli appalti che avrebbero messo in difficoltà il potere mafioso legato soprattutto a una determinata corrente politica della ex Dc. Ma Falcone ha vagliato anche il discorso Gladio. Dopo la pubblicazione da parte dell’ex presidente del consiglio Giulio Andreotti della sua esistenza e dopo le notizie stampa che parlarono di attività deviate della stessa, il giudice Falcone ha esteso le indagini anche al Sisde e non ha trovato nulla che portasse alla pista Gladio, tranne che rinvenire un appunto dei servizi concernente uno dei presunti killers di Mattarella, ma palesemente estraneo ai fatti. Però ha potuto appurare che l’estremista Alberto Volo non ha mai avuto contatti con Gladio e servizi, nonostante le sue dichiarazioni, anche televisive. E quindi si ritorna alla questione principale. Che senso ha, ancora oggi, scrivere che Giovanni Falcone aveva grande interesse per le vicende raccontate da un mitomane che invece aveva prontamente smascherato?
L’assoluzione di Mannino ha cancellato il vecchio teorema Mafia-Dc. Giuseppe Gargani il 7 febbraio 2020 su Il Dubbio. La sentenza della Corte di Appello di Palermo del 20 gennaio 2020 ha prosciolto l’ex ministro democristiano perché “il fatto non sussiste”. La sentenza della Corte di Appello di Palermo del 20 gennaio 2020 ha dichiarato la assoluzione dell’ex ministro Mannino perché “il fatto non sussiste ”, formula che di per sé indica la pretestuosità del processo il quale non doveva essere celebrato in mancanza appunto del “fatto”. La straordinaria notizia è stata pubblicata e commentata da pochissimi organi di stampa, ignorata dai grandi giornali, ma non può essere dimenticata perché con le sue ineccepibili motivazioni la sentenza ha cancellato trent’anni di teoremi arbitrari e inconsistenti che accreditavano la contiguità di un partito con la delinquenza organizzata. Negli ultimi mesi, con sempre più insistenza si discute di un ruolo politico anomalo che la magistratura ha assunto, non in linea con la Costituzione per cui ci troveremmo in presenza di una Repubblica giudiziaria. Alcuni di noi hanno evidenziato questa anomalia dagli anni 80 e hanno, inoltre, espresso critiche anche forti per la delega che il legislatore ha concesso al potere giudiziario il quale si è assunto l’onere! di adottare, con le sentenze, decisioni che spettano al potere legislativo. Così è avvenuto dagli anni 90 per Tangentopoli e così è avvenuto per “mafiopoli“. Oggi a distanza di tanti anni possiamo dire che le indagini di Tangentopoli hanno avuto conferma nelle sentenze dei giudici soltanto per il 30 / 31% non costituendo prove per una possibile condanna; e che le indagini per “mafiopoli”, soprattutto con la sentenza dell’onorevole Mannino, sono state considerate fasulle, con una sconfitta dei pubblici ministeri che si sono succeduti nel tempo e con una condanna del loro comportamento. Per queste ragioni la sentenza non può essere dimenticata perché non riguarda solo la persona di Mannino, che forse dopo trent’anni può ritrovare un po’ di serenità! nel suo animo lacerato, ma riguarda il partito della DC in primo luogo e larga parte della classe dirigente che insieme a Mannino in questi lunghi anni hanno combattuto in tutti modi la delinquenza organizzata. Dobbiamo prendere atto, dunque, sia pure nell’anomalia prima denunziata, che i giudici hanno fatto giustizia della magistratura inquirente e hanno interpretato gli avvenimenti con il dovuto rigore logico. È doveroso dare atto al collegio della Corte d’Appello del difficilissimo lavoro svolto e della grande intelligenza nell’aver interpretato i fatti reali districandosi in una selva di supposizioni, di illazioni e di false testimonianze alimentate per trent’anni da teoremi bislacchi che sono serviti soltanto ad inquinare il clima sociale. L’onorevole Mannino dunque non è innocente, è estraneo, è “vittima della mafia”; ha rappresentato il partito nella sua costante battaglia in Sicilia e in Italia, e ha allontanato dal partito le posizioni compromesse o contigue con la mafia. A questo punto la domanda è: come è potuto avvenire tutto ciò, come è stata possibile una deviazione delle indagini così smaccata da rendere martiri alcuni servitori dello Stato e da distorcere il significato degli avvenimenti in maniera così “illogica”! Per rispondere a questa domanda, prima di fare alcuni commenti doverosi sulle motivazioni della sentenza, è necessario dare alcune spiegazioni su un piano più generale. Bisogna rendersi conto di quello che è avvenuto sin dagli anni 70/ 80 nel rapporto tra politica e giustizia per capire come sia stato possibile negli anni 90 una resa del potere politico e addirittura una sorta di sua rinunzia ad esercitare una funzione di indirizzo, di mediazione e di riferimento per le aspettative dei cittadini che hanno alimentato l’antipolitica e hanno avvilito le istituzioni Le indagini dei pubblici ministeri hanno consentito una utilizzazione politica dell’operato della magistratura e le questioni giudiziarie hanno alimentato lo scontro politico. La distinzione tra giustizia e politica è una conquista della civiltà del diritto, che ha consentito l’evoluzione dello Stato democratico e il rapporto tra giustizia e libertà, tra giustizia e diritto, ed è coretto se fa riferimento alla cultura della divisione dei poteri. Nella cultura italiana bisogna riconoscerlo e in maniera più marcata anche oggi, esiste una tendenza ad allontanarsi dalla civiltà liberale, il che si riflette nelle istituzioni e nella giustizia. Sin dagli anni ‘ 80, dunque, vi è stata una crisi del rapporto tra potere politico e potere giudiziario perché il rapporto tra i due poteri andava perdendo sempre più le caratteristiche istituzionali e accentuava gli aspetti politici e partitici. Alcuni di noi, pochi in verità, hanno fatto battaglie per scongiurare un grave pericolo, quello di un’intesa tra limitati settori della magistratura politicizzati e i partiti della sinistra, del PCI in particolare, che, inseguendo una strategia giudiziaria per la conquista del potere hanno influenzato l’azione dei giudici, immaginando di sconfiggere i partiti della maggioranza – non essendo riusciti a sconfiggerli con il confronto elettorale. La conclusione è appunto che quella che viene definita come “rivoluzione giudiziaria” altro non è stata che una banale e incerta volontà di conquista del potere da parte di una sinistra che, rinunziando a fare una profonda revisione culturale e politica della propria storia, ha rinnegato genericamente il marxismo ma ha enfatizzato e utilizzato il giustizialismo per cavalcare la “questione morale”, immaginando di consolidare la sua posizione come partito del popolo. Insomma, dopo le sconfitte degli ultimi cinquant’anni la sinistra italiana ha ritenuto di legittimare la sua presenza su una presunta diversità morale riconosciuta da minoranze giudiziarie molto attive e dalla stampa delle grandi famiglie faziosamente schierate per garantire una loro impunità. Troppo poco per chi pretendeva di governare stabilmente un paese industrializzato come l’Italia! e infatti il tentativo è fallito. È dunque questa la premessa culturale che ha consentito una funzione della magistratura fuori dalle regole istituzionali, ideologizzando il suo ruolo come un ruolo politico non al di sopra delle parti...La classe dirigente politica ha assistito in maniera passiva e remissiva o compiaciuta, aggravando ancora di più la situazione e allontanando ancora di più i cittadini dalle istituzioni. Il magistrato Falcone è stato l’unico che ha denunziato ad alta voce questo metodo, e per questo è stato osteggiato: egli aveva con lucidità il quadro della situazione e ha manifestato tante sue considerazioni che io ho riportato nel 1998 in un libro intitolato “In nome dei pubblici ministeri” ispirato anche da quello che lui mi diceva. È estremamente istruttivo riportare alcuni passi di quel libro che avrebbero dovuto ispirare le indagini giudiziarie e che oggi appaiono rivelatrici della lungimiranza di Falcone. Il quale esprimeva giudizi durissimi sui reati associativi, perché credeva nelle indagini che producono prove, e cercava riscontri materiali delle dichiarazioni verbali. Falcone immaginava il concorso esterno all’organizzazione mafiosa, come presupposto per un processo nel quale bisognava contestare reati concreti di attività mafiose. Nel suo intervento contro la zona grigia contigua alla mafia, ha evitato sempre eccessi inquisitori rivelando, che il “partito istituzionale dei pm” venerano il famoso e idolatrato art. 416 bis come fosse l’unico presidio nella lotta alla mafia”. “Non si potrà ancora a lungo”, diceva più avanti, "continuare a punire il vecchio delitto di associazione in quanto tale, ma bisognerà orientarsi verso la ricerca della prova dei reati specifici.” Per essere ancora più chiaro, Falcone aggiungeva una smentita categorica del cosiddetto “terzo livello” perché “non esiste ombra di prova o di indizio che suffraghi l’ipotesi di un vertice segreto che si serve della mafia, trasformata in un semplice braccio armato di trame politiche”; aggiungeva ancora che: “le indagini ostinate sul “terzo livello” rallentano quelle nei confronti della mafia vera e propria”. Quanto descritto, quasi con rabbia, da Giovanni Falcone è esattamente quello che è successo a Calogero Mannino il quale non avrebbe mai potuto immaginare che Mannino sarebbe stato accusato di concorso con la mafia. L’on. Mannino ha subito vari processi per concorso con la mafia che la Cassazione già nel 2005 ha cancellato con motivazioni limpide, accogliendo la richiesta del Procuratore Generale che dichiarò che nella sentenza della Corte d’Appello di Palermo “non c’è nulla” e “la sentenza costituisce un esempio negativo da mostrare agli editori giudiziari!” Ma i pubblici ministeri sconfitti nel 2010 hanno continuato le loro iniziative coinvolgendo Mannino della trattativa tra lo Stato e la mafia di cui abbiamo parlato all’inizio e le motivazioni della sentenza del gennaio scorso sono esemplari e indicative. La sentenza stabilisce che Mannino non è finito nel mirino della mafia a causa di sue presunte e indimostrate promesse non mantenute ( addirittura, quella del buon esito del primo maxi processo! ) ma, al contrario, è stato vittima designata della mafia, proprio a causa della sua specifica azione di contrasto a “cosa nostra” quale esponente del governo nel 1991." "Scrivono i giudici che è “indimostrato il dato fattuale, la tesi della procura con riguardo alla posizione del Mannino ( in ordine all’input della trattativa ed allo specifico segmento della veicolazione da parte sua della minaccia allo Stato) si appalesa non solo infondata, ma anche totalmente illogica ed incongruente con la ricostruzione complessiva dei fatti, con la quale non combacia da qualunque punto di vista la si voglia guardare". Quindi per la Corte d’Appello di Palermo è stata acclarata l’assoluta estraneità di Mannino da tutte le condotte materiali contestategli a prescindere da una valutazione più complessiva – sia dal punto di vista della ricostruzione storica, sia di quella giuridica che della cosiddetta trattativa Stato – mafia". Se i pubblici ministeri avessero ascoltato la lezione di Falcone e avessero valutato attentamente le varie deposizione nei processi tra le quali quelle mie personali, di una persona cioè che ha seguito con attenzione e rispetto tutta l’attività politica di Mannino, avrebbero capito che in Parlamento e al Governo egli era il regista delle iniziative legislative e delle misure governative contro la mafia organizzata e i processi non andavano celebrati perché i “fatti” non esistevano. La sentenza va approfondita, e commentata perché contribuisce a scrivere la storia giudiziaria e dunque la storia politica del nostro paese. La Fondazione giuridica che ho l’onore di presiedere organizzerà un seminario per spiegare la vera storia politica e i comportamenti dei partiti, rifiutando una condanna generica e ingiusta della classe dirigente dell’epoca.
La difesa di Mori: “Acquisire l’intervista in cui Di Pietro svela i retroscena di via d’Amelio”. Il Dubbio il 10 febbraio 2020. L’ex pm di Mani pulite aveva spiegato che il movente dell’omicidio Borsellino sarebbe da ricondurre al suo interessamento al dossier mafia e appalti redatto dagli ex-Ros. La difesa degli ex Ros Mario Mori e Giuseppe De Donno ha richiesto alla corte d’appello di Palermo, dove si sta celebrando il processo sulla presunta trattativa Stato Mafia, l’acquisizione di alcuni documenti. Il primo riguarda la sentenza d’assoluzione di Calogero Mannino dove i giudici hanno demolito il teorema della trattativa. Mannino non solo non ha commesso il fatto, ma è il fatto stesso a non esserci stato. Altra acquisizione richiesta è l’intervista che l’ex giudice di Mani Pulite Antonio Di Pietro ha rilasciato recentemente all’Espresso. Un’intervista che integra la deposizione già resa dal medesimo davanti alla corte. Di Pietro, nell’intervista, ha parlato della nascita della sua inchiesta, che si interromperebbe quando arriva alla connessione mafia – appalti; e racconta delle carte e di documenti di cui è in possesso, e che vorrebbe divulgare: “Sembra di vedere la storia del mondo capovolto, ma ci sarà un momento per rivalutare questa storia. Ci sarà. Mani pulite non l’ho scoperta io: nasce dall’esito dell’inchiesta del maxi-processo di Palermo, quando Giovanni Falcone riceve, riservatamente, da Tommaso Buscetta la notizia che è stato fatto l’accordo tra il gruppo Ferruzzi e la mafia. E Falcone dà l’incarico al Ros di fare quel che poi è divenuto il rapporto di 980 pagine: che doveva andare a Falcone, ma lui viene trasferito”. Un dossier al quale si sarebbe interessato Palo Borsellino. Secondo Di Pietro, quest’ultimo fu ucciso proprio per questo: “Non per il maxiprocesso insieme a Falcone, ma perché insieme a Falcone doveva far nascere Mafia pulita”. Secondo Di Pietro “Mani pulite” fu la conseguenza di “Mafia pulita”. Di Pietro ha anche ribadito nell’intervista che “sarebbe potuto finire in manette, proprio mentre stava per arrivare alla cupola mafiosa, “grazie alle dichiarazioni che mi aveva fatto il pentito Li Pera su un certo Filippo Salamone, imprenditore agrigentino intermediario tra il sistema mafioso e il sistema imprese-appalti, il nord che veniva gestito soprattutto da Gardini e dalla Calcestruzzi spa di Panzavolta”. Oltre a questo l’avvocato Basilio Milio, che rappresenta la difesa di Mori, ha chiesto l’acquisizione anche di una sit del magistrato Davigo riguardante una sua dichiarazione su Francesco Di Maggio, l’allora vice capo del Dap e che secondo la tesi sulla trattativa lui sarebbe stato il braccio operativo dei ros per ammorbidire il 41 bis. Tesi, ricordiamo, decostruita da diverse sentenze, non ultima quella di Mannino. Il procuratore generale si è opposto all’acquisizione dei documenti, mentre il giudice Angelo Pellino deciderà alla prossima udienza che si terrà il 2 Marzo. Nel frattempo, invece, la difesa di Massimo Ciancimino ha chiesto la prescrizione subentrata “già prima della sentenza di primo grado”. Gli avvocati esplicitato la loro richiesta al giudice sottolineando che la prescrizione sarebbe già subentrata “prima della sentenza di primo grado”. Sì, perché secondo i legali, i giudici del primo processo avrebbero utilizzato impropriamente i giorni di astensione per lo sciopero degli avvocati. “Non avremmo mai immaginato di dover computare nei termini di sospensione della prescrizione anche tutte le astensioni proclamate dalle Camere Penali a prescindere dalle nostre dichiarazioni di astensione, visto che l’udienza in cui avremmo dovuto manifestare la nostra volontà di aderire o meno, non veniva proprio calendarizzata né tantomeno celebrata”, denuncia l’avvocata Claudia La Barbera.
· Berlusconi e l’Arte.
Vittorio Amato per adnkronos.com l'11 febbraio 2020. Raccontano che ad arricchire la pinacoteca di casa Berlusconi è arrivato un Tiziano. L'ultimo capolavoro acquistato dal presidente di Forza Italia, a quanto apprende l'Adnkronos, è un olio su tela, Il Ritratto di Ippolito dei Medici: datato 1533 e stimato 4-5 milioni di euro, porta la firma del massimo esponente del Rinascimento veneziano e proveniente dal museo di Cleveland. L'ex premier, racconta all'Adnkronos Vittorio Sgarbi, ha un'autentica passione per la grande pittura, antica e contemporanea. Che lo ha fatto diventare pian piano un collezionista di quadri e d'arte incallito, quasi seriale. Una passione, pare, nata negli anni giovanili, dopo la fine del liceo, quando collaborò per un breve periodo con un amico di suo padre Luigi, che fabbricava cornici d'arte. ''L'ultima tentazione di Silvio? Gli piacciono tantissimo le Madonne, ma ancora non ho capito su quale dipinto abbia messo gli occhi...'', confida il critico d'arte, ora deputato forzista. I 'pezzi' più importanti della collezione privata del leader azzurro, rivela Sgarbi, si trovano ad Arcore. Nella sala da pranzo ci sono una splendida copia della 'Antea del 'Parmigianino', la famosa cortigiana romana del 1500, e una 'Monna Lisa nuda', dalla sorprendente somiglianza con la Gioconda di Leonardo al Louvre, ma con il seno scoperto: uno di quei dipinti rimasto di attribuzione incerta, che sta facendo molto parlare di sè e ha diviso gli esperti, perchè c'è chi l'attribuisce proprio al genio del Rinascimento e chi, invece, assicura sia opera di artisti di bottega diretta dal maestro toscano. Sempre a Villa San Martino, spiega l'ex sottosegretario ai Beni culturali, "c'è un bellissimo ritratto della Marchesa Casati Stampa", ovvero Anna Fallarino, opera di Pietro Annigoni, artista milanese, chiamato il pittore della regine, perchè gran parte della sua notorietà è dovuta alla rappresentazione di teste coronate ed esponenti dell'aristocrazia europea: dal Duca di Edimburgo alla principessa Margaret. Berlusconi possiede anche una parte, quella destra, di 'Gioia tirrena', ritratto del mito della danza, Isadora Duncan: il pittore livornese Plinio Nomellini riuscì a ritrarla in corsa sulla riva del mare di Viareggio. Il quadro, realizzato tra il 1913 e il 1914, fu scomposto dallo stesso autore, che tolse la tela dalla cornice e l'arrotolò per poi dividerla in due parti, nel 1935. Ora, una parte del dipinto, quella di proprietà del presidente di Fi, con la ballerina americana avvolta in un drappo rosso gonfiato dal vento, le onde che si frangono sulla battigia, si può ammirare fino al primo marzo al museo Mart di Rovereto. Gioia tirrena è la copertina del catalogo della mostra dedicata proprio alla Duncan, la rivoluzionaria della danza, curata da Sgarbi.
· Chi lo ha accompagnato.
Stefano Lorenzetto per il “Corriere della Sera” l'11 luglio 2020. Dicono che la sua arma migliore sia il sorriso con cui persuade i clienti, arrivati alla cifra record di 1,5 milioni. Ma forse il segreto di Ennio Doris, 80 anni compiuti venerdì scorso, è un altro: lo sguardo dei Rizzardi, gli zii di sua madre Agnese. Quello magnetico di Carlo, maestro elementare a Tombolo, nel Padovano, che ipnotizzò intere generazioni di bambini, 60 per volta, terza, quarta e quinta in un’unica classe. «Entrava in aula, la cagnara cessava di colpo e chi stava per dare un calcio al compagno restava pietrificato con il piede a mezz’aria», ricorda divertito Doris. Non che l’altro zio, Giovanni, fosse da meno: una sera a cena fissò il gatto che lo molestava e il felino, terrorizzato, balzò fuori dalla finestra rompendo il vetro. Per non parlare di mamma Agnese: «Le rare volte in cui discuteva con papà, lei a un certo punto lo trafiggeva con gli occhi e lui li distoglieva da sé gridando “fute, fute!”, le due paroline usate per far scappare il gatto». Alberto Doris, il padre, era un mediatore di bestiame. Lo chiamavano El Vai, storpiatura di Edelweiss, le sigarette preferite, quelle con la stella alpina sul pacchetto. Suo figlio Ennio divenne «el fiólo del Vai carne», la ragione sociale di famiglia nel soprannome. A 10 anni avrebbe voluto abbracciare lo stesso mestiere. Una nefrite lo costrinse a cambiare strada: ragioniere. Oggi il fondatore di Banca Mediolanum può dire che si trattò di un colpo di reni per fare gol nella vita.
Però un po’ di stalla le toccò lo stesso.
«Per fortuna. Lì capii che il lavoro serve a dimostrare chi sei. Il venerdì alle 2 di notte davo alle vacche il bevarón, acqua e semola, che le gonfiava, facendole sembrare più pasciute. Poi le strigliavo ben bene e alle 4 del mattino le portavamo al mercato di Castelfranco Veneto. Difficile che qualcuna tornasse indietro».
Come le venne in mente, nel 1998, di fondare una banca senza sportelli?
«Il porta a porta lo imparai nel 1960 all’Antoniana, da impiegato nell’agenzia di San Martino di Lupari. Di pomeriggio era chiusa e così consegnavo a domicilio gli assegni circolari. Pensai di applicare il metodo in Italia. Capivo che gli sportelli avrebbero fatto la fine delle cabine telefoniche, nonostante un’agenzia fosse arrivata a valere 8-10 milioni di euro».
La molla era scattata 30 anni prima.
«Sì, il giorno in cui decisi di lasciare la banca e andare a lavorare per Dino Marchiorello, titolare delle Officine di Cittadella. Scesi dalla mia Fiat 850 con i tappetini di plastica e salii sulla sua Citroën Pallas. I piedi affondarono nella moquette. Pensai: ne avrò una uguale. Nel 1981, divenuto broker della Dival, gruppo Ras, guadagnavo 100 milioni al mese».
Allora perché cercarsi altri affanni?
«Sono abituato a inseguire le cose in cui credo. Mi dia pure dell’incosciente. Nel 1969 avevo lasciato Marchiorello per vendere fondi d’investimento con Fideuram. A trascinarmi fu Gianfranco Cassol, un mio ex compagno di scuola. “Si lavora a provvigione”, mi spiegò. Formula magica, che di solito spaventa tutti. Il guadagno dipendeva solo da me. Mi alzavo alle 6 e cenavo dopo mezzanotte. Sabato compreso. La domenica mattina riunione con Cassol, il pomeriggio dedicato alla famiglia. Vivevo per i clienti».
Mi ha persuaso: le do dell’incosciente.
«Il successo è solo statistica. Ogni tot persone, di sicuro una i soldi te li dà».
Uno dei primi fu un falegname.
«Esatto. Mi allungò un assegno da 10 milioni di lire e mi chiese: “Sa che cosa le ho dato?”. Sì, 10 milioni. “No, lei si sbaglia”. Controllai la cifra: era corretta. “Le ho dato questi”, e mi mostrò i calli mostruosi che aveva sui palmi delle mani.
“Si ricordi che io non posso permettermi il lusso di ammalarmi, perché senza risparmi la mia famiglia morirebbe di fame”. Una pugnalata al cuore. Diventare altruista fu il mio modo di essere egoista. Dovevo trasformarmi nel medico del risparmio, dare alla persone i farmaci giusti per le loro esigenze: polizze infortuni, previdenza integrativa, assicurazioni, fondi comuni, servizi bancari, case».
E così nacque Programma Italia, progenitrice del gruppo Mediolanum.
«Ma servivano capitali enormi, che non avevo. Approfittai di un viaggio a Genova, dove incontrai il fiscalista Viktor Uckmar, per portare mia moglie a Portofino. E sul porticciolo chi vidi? Silvio Berlusconi. Parlava con un pescatore che stava riparando le reti. Lo riconobbi perché la sua foto era su Capital, a corredo di un’intervista in cui dichiarava: “Chi ha una buona idea, si rivolga a me”. Gli dissi: la ammiro molto, posso stringerle la mano? Ne fu lusingato. Premettendo che raccoglievo 10 miliardi di lire al mese per Dival con una squadra di 800 persone, gli illustrai brevemente un progetto sugli immobili. Lui mi pose tre domande. Alla terza, dimostrò di aver capito il mio settore più di me. Non avevo mai conosciuto in vita mia una simile capacità d’impadronirsi di un argomento. Passati 15 giorni, mi convocò ad Arcore».
Voleva saperne di più?
«Già. Mi ricevette in veranda. Mi ero presentato con un dossier che raccoglieva i profili di 3.000 clienti, giusto per dimostrargli che non partivo da zero. In quel momento mia madre mandò dal cielo un colpo di vento che sparse tutti quei fogli sul prato. Le pagine sembravano migliaia, anziché un centinaio. Di solito Berlusconi era abituato a incontrare interlocutori del genere: “Guadagno tanto, quindi deve darmi di più”. Io gli dissi solo: da lei non voglio niente, facciamo una società al 50 per cento. Ci stringemmo la mano. Non servì altro».
Il suo socio ha scritto di lei: «Ennio con Fedele Confalonieri e Gianni Letta costituisce la mia trinità amicale». Quindi lei sarebbe lo Spirito Santo?
«Silvio è sempre generoso, anche nei paragoni. Per lui l’amicizia ha un valore assoluto. Non la tradirà mai».
Avete litigato qualche volta?
«Impossibile. È troppo buono. Nel 1982 suo cugino Giancarlo Foscale, responsabile amministrativo di Fininvest, cacciò un dirigente che rubava. Silvio era negli Stati Uniti. Al suo ritorno, staccò un cospicuo assegno al licenziato.
Foscale s’inalberò: “Ma come? È un ladro”. E lui: “No, è un malato. Ha il vizio del gioco d’azzardo. Ma ha anche due bambini”».
Lei è monogamo, Berlusconi proprio no. Nessun contrasto su questo?
«“Un po’ t’invidio”, mi ripete sempre. “Hai trovato subito la donna giusta”».
Fantastico. Perciò la ricerca continua.
«La mia Lina aveva 15 anni. In una settimana ci fidanzammo. La sposai nel 1966. Resta uguale: eterea come Katharine Hepburn, bella come Sophia Loren».
In che modo conquista i clienti?
«Dimostrandogli che io per primo sono convinto. Puoi mentire con la parola, ma non con il corpo. Il mio maestro Cassol la chiamava “vendita verità”».
Che garanzie può dare con un debito planetario che ha superato i 253.000 miliardi di dollari, il 322 per cento del Pil?
«Non esiste istituto al mondo in grado di garantire alcunché. Anche se ha la tripla A delle agenzie di rating, può fallire. Sopra i 100.000 euro i depositi bancari non hanno protezione. Con la deflazione i tassi d’interesse sono negativi o quasi. L’unica che può salvarci è l’economia reale. Ma le azioni sono rischiose per definizione. Se però lei possedesse per ipotesi quote di tutte le aziende del mondo, non perderebbe mai, perché le borse cresceranno sempre. Purtroppo i risparmiatori si fanno guidare dall’emotività, come insegna lo psicologo Daniel Kahneman, premio Nobel per l’economia».
Quanto costò salvare quelli di Mediolanum dal crac Lehman Brothers?
«Alla mia famiglia 63,5 milioni, alla Fininvest 56,5. Il più bell’investimento di sempre, perché l’anno dopo la raccolta schizzò da 2,8 a 5,89 miliardi».
Per Chiara Amirante, che si occupa di emarginati da quando guarì da un male che la stava rendendo cieca, lei è «una bellissima Dio-incidenza».
«Si sorprese perché, su suggerimento di mia moglie, la chiamai a parlare ai nostri 300 manager riuniti a Merano. È stata una benedizione di Dio incontrarla».
Ne deduco che lei crede in Dio.
«Moltissimo. Sono nato nel paese dove da giovane fu curato il futuro san Pio X, appena ordinato prete. La parrocchia mi mandò a una scuola di formazione politica a Treviso affinché imparassi la differenza fra democrazia e comunismo. Infatti diventai assessore della Dc. I miei miti sono De Gasperi e don Sturzo. Veneravo Pio XII, così alto e magro da sembrare puro spirito. E Karol Wojtyla».
«Non potete servire Dio e la ricchezza», ammonisce Gesù nel Vangelo.
«Tra Dio e mammona, ho sempre messo al primo posto Dio. Il denaro è solo un mezzo. Come il coltello: può uccidere o diventare il bisturi che salva».
Ogni domenica va a Tombolo, ho letto.
«È vero. Ho bisogno dell’aria del mio paese, degli amici d’infanzia. Giocavamo a briscola da Giosuè e da Mea, ma hanno chiuso. Ora ci si trova al bar Centrale».
Mi dicono che risolve i sudoku al volo.
«Sono numeri. Quando a inizio anno mi mostrano i budget, noto subito le cifre stonate: vedo quello che c’è dietro».
Quanti soldi ha in tasca?
«Non uso il portafoglio. Tengo le banconote con un fermaglio, ma è in cassaforte». (Chiama la moglie Lina, se lo fa portare e le conta). «Sono 980 euro».
Mi confessa qualcosa che nessuno sa?
«Qualcosa che riguardi me? Le rivelo un segreto che da piccolo mi faceva molto soffrire. Per cena mi davano enormi scodelle di caffellatte, per cui di notte non facevo in tempo ad arrivare al gabinetto per la pipì. Abitavamo in tre famiglie, 18 persone, nella stessa casa. La mattina mia madre lavava il materasso e lo metteva ad asciugare sulla finestra. Tutti lo vedevano. Ecco, ripensandoci, non era neppure un segreto».
Dagospia il 21 agosto 2020.IL POTERE HA UN NOME E UN COGNOME: GIANNI LETTA! GIUSEPPE SALVAGGIULO - IO SONO IL POTERE. Frammenti da "Io sono il potere. Confessioni di un capo di gabinetto" di Giuseppe Salvaggiulo, edito da Feltrinelli (pagine 280 euro 18), raccolti da Giorgio Dell’Arti per “la Repubblica”. Quando la lista dei ministri era già compilata, Pomicino annunciò ad Andreotti l'intenzione di non entrare nel governo. "Perché?" sibilò sorpreso Andreotti. E Pomicino: "Presidente, perché ha indetto la prima riunione del Consiglio dei ministri venerdì alle 8. Io abito sull'Appia, a che ora dovrei uscire di casa?". A fatica Andreotti, che era mattiniero e andava a messa all'alba, accettò di posticiparla di un'ora».
Dottore. Gianni Letta, che si fa chiamare dottore e dà del lei a tutti.
Onomastico. Gianni Letta preferisce l'onomastico al compleanno.
Letta. Gianni Letta lavorava tra le 15 e le 16 ore al giorno. Riceveva dalle 6 alle 21. Sempre puntualissimo.
Appuntamenti. Gianni Letta dava una ventina di appuntamenti al giorno, più o meno settemila all'anno.
Lina. Nessuno, o quasi, ha il cellulare di Gianni Letta. Per parlargli si passa per la sua segreteria o per la segretaria particolare, la mitica signora Lina.
Attesa. L'ufficio di Gianni Letta aveva tre sale d'aspetto separate e non comunicanti, in modo che gli altri ospiti non sapessero mai chi c'era nelle altre.
Ricevimento. Le tre modalità di ricevimento di Gianni Letta: 1) lui dietro la scrivania, tu dall'altra parte a testimoniare una formale distanza e mancanza di confidenza; 2) il dottore che si alza e si siede davanti alla scrivania insieme a te, segno che esiste già un rapporto di fiducia; 3) il dottore che ti onora del massimo rango di privilegio, al punto che si alza dal suo posto, ti riceve in piedi e poi ti porta con lui sul divanetto del salotto all'angolo.
Bocca piena. «Gianni Letta non offre mai niente. Anche un semplice caffè o un bicchiere d'acqua farebbero perdere tempo e incoraggerebbero divagazioni inutili, se non incresciose. Pasticcini e salatini, neanche a parlarne. Non per tirchieria o scarsa ospitalità, ma in ossequio a una delle regole fondamentali del galateo istituzionale: mai cibo per gli ospiti. Li si mette in difficoltà perché non potendo rifiutare il cibo offerto, sarebbero costretti a parlare con la bocca piena».
Subito. «Mi attivo subito» (frase ricorrente di Gianni Letta).
Scalfaro. Dopo le elezioni del 1994, a cui Gianni Letta non aveva partecipato «rimanendo in azienda con Confalonieri » perché contrario alla discesa in campo, Berlusconi lo chiamò: «Devo arrivare a Roma ma non conosco nessuno, aiutami». «Questo posso farlo». La prima cosa che fece Letta fu telefonare a Oscar Luigi Scalfaro, per chiedere un appuntamento riservato prima dell'avvio delle formali consultazioni con i partiti. L'obiettivo era sondare le intenzioni del presidente della Repubblica. Fu la prima volta, e in segreto, che il capo dello Stato vide Berlusconi, accompagnato da Letta. A sorpresa Scalfaro, che pur lo detestava, disse a Berlusconi: «Lei ha vinto le elezioni, quindi io le conferirò l'incarico di formare il governo. Ma non pensi di andare a Palazzo Chigi senza questo signore».
Autisti. Da sottosegretario, Gianni Letta aveva due macchine e quattro autisti.
Decoder. «Arriva Berlusconi con il suo decoder» (Paolo Cirino Pomicino a proposito di Gianni Letta).
Insetti. «Una volta era un circo di nani e ballerine. Avevano una certa dignità. Ora ci sono solo insetti» (Rino Formica).
Bordello. I decreti legge sono il bordello della Repubblica. Vietati dallo Statuto Albertino e introdotti da Mussolini, furono codificati dai padri costituenti per "casi straordinari di necessità e di urgenza". Terremoti, emergenze finanziarie, crisi internazionali. Cose così, in cui sono in gioco interessi supremi e non c'è tempo per convocare mille parlamentari, discutere, votare.
Salsicce. «Se vi piacciono le leggi e le salsicce non chiedetevi come vengono fatte».
Marcello Veneziani per la Verità il 19 aprile 2020. Anche se non si dice l' età delle signore e degli eterni, l' altro giorno Gianni Letta ha compiuto di nascosto i suoi primi 85 anni. Me lo immagino in una stanza ovattata, con la mascherina di pizzo e i guanti bianchi, festeggiare in modo felpato il suo genetliaco al tempo del coronavirus. Perché parlo di lui? Perché in lui vedo la sintesi vivente di un altro mondo, un altro stile, un altro modo di far politica. Se Gianni Letta fosse arrivato un po' prima a Roma dagli Abruzzi, Romolo e Remo avrebbero trovato un accordo e anziché scannarsi, Romolo avrebbe concesso a Remo di fondare Roma due. Democristiano avanti Cristo, dicono che sia stato lui a trovare a Pietro una sede idonea per fondare la Chiesa, di poco lontana dalla sua in piazza Colonna, dove in quel tempo Letta dirigeva Il Tempo da un' eternità. Il tragitto di Letta nei secoli è stato di una prodigiosa brevità. Ha solo attraversato la strada, da palazzo Wedekind, sede de Il Tempo ha raggiunto Palazzo Chigi, dove era già di casa, per fare il sottosegretario alla presidenza di Berlusconi. Trenta metri di morbidezza. Perché la qualità principale di Gianni Letta, che tutti gli hanno sempre riconosciuto, è la morbida grazia. Eppure ne ha frequentati di spigolosi ed esuberanti, da Fanfani a Berlusconi, per restare ai piccoli cesari della nostra repubblica. È stato per anni il dolcificante della Seconda repubblica, il guanto di nappa per rendere più morbido l' ispido centrodestra. Non a caso da ragazzo il suo primo lavoro fu in uno zuccherificio passando da operaio a direttore. Ad Avezzano, sua città natale, mi dicevano che è sempre stato così, affabile e ammodo, in grado di mediare; me lo diceva pure un suo vecchio professore, Ugo Mario Palanza, fior di umanista. Letta da ragazzo era già il Letta che conosciamo, la stessa permanente, vestito a puntino, come un' argenteria lucidata col velluto. Riusciva a dialogare perfino con gli orsi marsicani. Fu per questo che Renato Angiolillo, il fondatore del Tempo, decise di portarlo con sé ai vertici del quotidiano. Capì che era un cavallo di razza, con la criniera sempre lucida e sciampata per le cerimonie di Palazzo, il volto liscio e roseo, quasi incipriato. E a lui lasciò il quotidiano più vicino al governo, non solo in senso topografico. Ma anche il quotidiano di destra della capitale. Il primo miracolo di mediazione di Gianni Letta fu proprio quello di rendere il quotidiano romano di Pesenti funzionale alla Dc e sostanzialmente governativo, ma capace di raccogliere lettori e firme d' opposizione, il fior fiore della cultura conservatrice, persino missina e monarchica del tempo. I suoi lettori erano in gran parte statali, comunque appartenenti alla borghesia rispettosa e rispettabile, attempati ma perbene. Diresse Il Tempo per una vita con inappuntabile equilibrio, ma non scriveva mai fondi, curandosi dei sottofondi: sin da allora amava il ruolo di regista e non di protagonista, gli piaceva orchestrare e non cantare. Quando andò via dal Tempo lo davano per finito. E invece era solo agli inizi. Letta, dopo aver condotto in video talk show di politica con la sua grazia leggiadra e il suo sorriso compiacente, fu chiamato a tenere a bada Berlusconi in politica. Letta continua. Era stato sempre un politico sottotraccia, un incrocio ben riuscito tra un ambasciatore e un cardinale. Preferì anche in questo caso la panchina. Mai un pelo fuori posto, mai uno scatto d' irruenza, mai una gaffe, sempre gentile e pettinato, buone maniere con tutti, dal Quirinale al Criminale. Con la capigliatura che sembrava una feluca sbarazzina, il volto appena arrossato, amava sottolineare le parole con le sue arcate sopracciliari che muove con cortesia istituzionale, accennando sguardi squisiti. Finge sempre di dar ragione, di considerare il prossimo il suo Signore e di divertirsi un mondo ovunque si trovi. L' ho visto intervenire nelle occasioni più strane, la prima di un film o a teatro, un matrimonio, un funerale, una festa di beneficenza; e lui trovava sempre le parole giuste, sussurrate con leggiadria. Una giuggiola, donna Letizia con le buone maniere. Sciava con maestria nei salotti buoni, facendo slalom tra i capannelli; sempre a suo agio, da gran cerimoniere, impartiva benedizioni, faceva ovunque gli onori di casa, anche a casa d' altri. Lo ricordo brigare nei ricevimenti con un suo cugino di campagna, Pinuccio Tatarella, che aveva l' arte del tessitore come Letta ma senza la sua grazia, anzi con un' irruenza brigantesca che lo rendeva più temuto e più amato del curiale Gianni. Era bello vederli insieme, Rustico & Pasticcino, il ruvido e il levigato, che però sulle cose ultime s' intendevano a meraviglia. Ha portato gli elefanti della Lega in cristalleria, stabilendo un rapporto con Conan il barbaro, Umberto Bossi; per compiacerlo e conquistarlo avrà fatto pure i rutti, le peggio cose. Ma riuscì nell' impresa di addomesticarlo. Quando Berlusconi era al governo ha ricamato operazioni diplomatiche, ha condotto trattative interne e internazionali, patti della crostata e alleanze del rosolio coi poteri forti. Al passaggio tra la Prima e la Seconda repubblica fu il ponte gentile tra i due mondi, e forse lo anche dopo; fu pure il ponte tra Berlusconi e la sinistra, a cui donò in pegno d' amore suo nipote Enrico. Con lui gli inciuci e le ammucchiate trovavano un contegno e un garbo. Impermeabile ai bunga bunga, ha attraversato indenne le imprese erotiche di Priapo, re di Troia, senza mai farsi coinvolgere. Ha gestito il potere in modo felpato ed ecumenico, anche quella che fu chiamata lettizzazione, variante pettinata della lottizzazione. Ha avuto un ruolo prezioso, ad avercene... Ah, se ci fosse stato Letta il 25 luglio del 1943, avremmo avuto un governo Mussolini-De Gasperi-Badoglio-Togliatti-Nenni con l' appoggio della Corona e la benedizione di Santa Madre Chiesa. Auguri, Monsignor Gianni, il mio primo direttore.
· Quelli che l’hanno abbandonato.
Rocco Buttiglione: «Berlusconi mi tradì più di una volta». Tommaso Labate su Il Corriere della Sera il 25 settembre 2020.
«Lui mi ha fregato. Io non l’ho mai fatto con nessuno. D’Alema voleva che diventassi premier ma io rifiutai: andare a Palazzo Chigi avrebbe danneggiato il mio progetto». «Mi sto disintossicando dalla politica italiana. Ormai sono due anni che mi sono ritirato».
Le manca?
«Per nulla».
Sente qualcuno dei vecchi compagni d’avventura?
«Nessuno. Sono stato all’estero. In Italia ho conservato pochissimi rapporti, in generale».
E in particolare?
«Uno. Mia moglie».
Berlusconi, per esempio. Neanche una telefonata?
«Zero. Ma non ci parlavamo già da prima».
Che cosa ha fatto per tutto questo tempo?
(A questa domanda un politico della nouvelle vague non avrebbe resistito alla tentazione cinematografica di emulare il Noodles di C’era una volta in America , rispondendo “sono andato a letto presto”. Rocco Buttiglione no. Il suo rigore di studioso, di filosofo allievo di Augusto Del Noce, l’essere stato un avamposto della sobrietà più estrema persino negli anni del berlusconismo più spinto, ecco, tutto questo lo costringe a dare una risposta normale).
«Ho ricominciato a insegnare, per fortuna il vecchio mondo dell’accademia, che avevo abbandonato per fare politica, mi ha riaccolto a braccia aperte. America Latina, Stati Uniti, Germania, Francia, Spagna: sono stato un po’ ovunque».
L’ex ministro non conosce neanche la legge della vecchia canzone di Ron, parlare dei successi e dei fischi non parlarne mai. Gli va di parlare dei fallimenti, infatti. In questo si conferma il democratico cristiano italiano meno democristiano che sia esistito, tanto distante da Giulio Andreotti o Ciriaco De Mita quanto vicino al cancelliere della Germania riunificata Helmut Kohl.
Il suo fallimento più grande?
«Non aver lasciato alle nuove generazioni un partito democratico e cristiano che fosse tanto distante dalla Dc italiana quanto vicino alla Cdu di Kohl».
Lei arriva in politica chiamato da Mino Martinazzoli, e ci resta fino alla dissoluzione della Dc dopo Tangentopoli.
«L’eredità della Dc all’epoca del bipolarismo si sarebbe potuta salvare in un solo modo. D’Alema e i post-comunisti a fare i social-democratici di là; i cattolici di qua. Come in Germania».
Di qua però c’era già Berlusconi.
«Con Berlusconi nel 1995 facemmo un accordo. Noi democratici cristiani l’avremmo assorbito».
Prego?
«Dopo la fine del suo governo, feci un patto con Berlusconi. Noi democratici cristiani l’avremmo sostenuto in campo nazionale; in cambio, lui avrebbe rinunciato a presentare le liste di Forza Italia alle imminenti elezioni amministrative, sostenendo il nostro scudo crociato. Il disegno era chiaro, Forza Italia sarebbe stata un movimento, lo Scudo crociato il partito destinato ad assorbirlo, prima o poi».
Non andò così.
«Subii da sinistra una scissione che fu animata, ma questo l’avrei capito dopo, da D’Alema. E Berlusconi, di fronte a un partito che aveva appena subito una scissione, si sentì autorizzato a non rispettare gli accordi presi».
In tutte le volte che siete stati alleati e avversari, è stato più Berlusconi a fregare lei o viceversa, professore?
«Fregare è un verbo che contiene in sé tante, troppe cose. Però, se ho capito quello che intende, la risposta è lui me. Io non ho mai fregato nessuno».
Però lei e D’Alema avevate aiutato Bossi a far cadere il governo Berlusconi, nel 1994. Il famoso “patto delle sardine”, così chiamato perché Bossi, ospitandovi a casa sua per quella cena segreta, in cucina aveva solo scatolame.
«Bossi aveva paura che Berlusconi gli stesse sottraendo i parlamentari della Lega. D’Alema temeva che, se Berlusconi avesse continuato a governare, il suo partito sarebbe rimasto all’opposizione a vita, come il vecchio Pci. Io avevo il mio disegno di salvare i democratici cristiani nel nuovo contesto bipolarista».
Mangiaste davvero sardine?
«Diciamo che non badai tanto al menù, quel giorno».
Berlusconi e D’Alema sopravvivevano mentre il sogno dei democratici-cristiani stava per svanire. Colpa loro o vostra?
«Quando perdi non è solo colpa degli avversari. Vuol dire che non eravamo all’altezza».
È vero che D’Alema le aveva proposto di fare il presidente del Consiglio, dopo la caduta di Berlusconi?
«Sì. E rifiutai. Avevo quel disegno politico da compiere; andare a Palazzo Chigi avrebbe complicato, non semplificato, le cose».
Con Cossiga lei poi sarebbe stato uno degli artefici del governo D’Alema, nel 1998.
«Era una questione di carattere mondiale. C’era la guerra in Kosovo, senza l’Italia la missione Nato sarebbe stata più complicata. Era in gioco l’adesione al Patto atlantico».
Poi è di nuovo con Berlusconi, professore. Fu lei ad aiutarlo a entrare nel Ppe.
«C’è un carteggio, rimasto segreto, tra me, Berlusconi e il presidente del Ppe Wilfried Martens, di cui era a conoscenza anche Helmut Kohl. In queste lettere Berlusconi si impegnava, in cambio dell’ingresso di Forza Italia nel Ppe, a far rinascere un partito democratico-cristiano in Italia».
Altra fregatura?
«Diciamo così, non mantenne la promessa».
Però mandò lei a fare il commissario Ue in rappresentanza dell’Italia, nel 2004. Il Parlamento europeo la rispedì indietro per aver detto che «l’omosessualità è un peccato». Lo direbbe ancora oggi?
«Non lo dissi neanche all’epoca. La premessa della frase era - testualmente - I may think , che vuol dire “potrei pensare”. Da cattolico, potrei pensare che l’omosessualità è un peccato».
Lo pensa anche oggi?
«I may think. Potrei pensarlo».
Un’altra volta disse che l’omosessualità era come l’evasione fiscale.
«Mettiamola così. Potrei pensare che comprendo l’evasione fiscale quando le aliquote sono molto alte e il cittadino non riesce a pagare le tasse».
L’evasione fiscale è un reato.
«Ripeto. I may think, potrei pensare».
Voterebbe la legge sulla transomofobia oggi in Parlamento?
«Non saprei, non la conosco».
Se la ricorda la battuta, secondo alcune fonti ascrivibile al comico Beppe Grillo, «se Buttiglione è un filosofo, Aristotele allora che cos’era?»
«A dire il vero no. Me ne ricordo una di Gianni Vattimo, che mi accusava di non essere un filosofo perché non avevo una bibliografia».
Se la prese?
«Tutt’altro. Gli mandai il mio libro Etyca wobec historii (l’etica davanti alla storia, ndr) pubblicato in Polonia e un dizionario polacco-italiano, nel caso non fosse stato pratico della lingua».
E quella volta che nel 2007 partecipò alla battaglia per avere il gelato nel bar del Senato?
«Un esempio di come, a volte, succedano le tempeste per un nonnulla. L’amica e collega Albertina Soliani aveva promosso una mozione in tal senso e io gliel’avevo firmata».
Carmen Russo, anni fa, la censì tra i suoi uomini ideali. Se lo ricorda?
«Se devo essere sincero, no».
Pare che sua moglie ne sia stata lusingata e felice, professore.
«Addirittura felice dei complimenti che Carmen Russo avrebbe fatto al sottoscritto? Diciamo che, conoscendola, faccio fatica a crederlo». (E Buttiglione, dopo un’ora e passa d’intervista, rise)
Tremonti: «Quella volta che io, Silvio e la Thatcher... L’Europa? Ha futuro». Pubblicato sabato, 23 maggio 2020 su Corriere.it da Roberto Scorranese. Lo studio milanese di Giulio Tremonti è un sancta sanctorum di ricordi, messaggi, cimeli. Di molti di questi non si può parlare (che peccato), ma di altri sì.
Per esempio, professore, chi è il personaggio ottocentesco raffigurato in quel quadro alla parete?
«Luigi, un mio antenato, uno che fece il 1848 con Manin e che fece saltare il forte di Marghera. Si beccò due anni di esilio a Parigi e tornò solo con l’amnistia Radetzky».
La sua famiglia è originaria di Lorenzago di Cadore.
«Mio nonno, classe 1873, lavorava con il legname. Raccontava che c’era una ferrovia Decauville, una di quelle a scartamento ridotto. Andavano a prendere alla foce del Piave e segavano a Mestre. Persero tutto, ma è rimasta la casa che usavano per il controllo dei boschi».
A suo modo, sembrava già un mondo interconnesso.
«Ma guardi che il Novecento è stato davvero un secolo internazionale. Mio nonno fece il viaggio di nozze con il Baedeker in mano, pagando in Travelers Cheques e parlando francese. Per carità, oggi il turismo è importante: faccio questa precisazione sennò qualcuno mi accuserà di voler tornare indietro nella storia».
E adesso lei vive a Pavia?
«Una città costruita contro la selva, in mattoni, difficile vedere il verde a Pavia. Ho trascorso lì la quarantena: le ambulanze si susseguivano, portavano i malati al San Matteo. Si capisce perché gli italiani hanno rispettato scrupolosamente l’isolamento: sarà stato pure senso civico, non lo metto in dubbio, ma secondo me erano soprattutto terrorizzati».
La Cina. Tutto è cominciato lì. Un paese che lei ha studiato a lungo.
«Era il 2009 o il 2010, non ricordo bene. Vengo invitato a tenere un discorso alla Scuola Centrale Partito del Partito Comunista Cinese, praticamente il cuore del potere. Prima di me forse c’era stato Kissinger. Per capire la Cina bisogna andare lì, in uno di quegli edifici enormi che sovrastano tutti, veri simboli del potere. Ah, ad un certo punto arrivò un certo Xi Jinping, le dice niente? Gli feci un regalo: una copia non coeva del Viaggio in Olanda di Diderot, il cui incipit recita: “Governare un paese piccolo, l’Olanda, è facile. Governare un paese grande, la Francia, è più difficile”. Quello che percepii in quei giorni è una reiterazione di un concetto che, semplificato, fa così: vorremmo diventare un po’ più ricchi prima di diventare troppo vecchi».
Nella nuova edizione aggiornata del suo libro «Tre profezie» lei precisa che la stampa cinese definisce questa pandemia un «demone». Perché?
«Decenni di accumulo e di economia di comando: tutto lasciava presagire che la Cina avrebbe vinto la sua guerra, una delle moderne guerre che non si combattono per la conquista di territori bensì del mercato. Poi è arrivata la pandemia, che ha fatto una cosa molto semplice: dallo sprofondo millenario delle campagne ha portato nel mondo globale centinaia di milioni di persone. Ci sono moltissimi anziani nelle zone rurali cinesi: vuoi mettere a guidare un trattore a 80 anni?»
E dunque che cosa prevede nel prossimo futuro?
«Direi una frenata della Cina nello scenario globale».
E l’Europa?
«Io penso che abbia un futuro, è inevitabile: ci portiamo sulle spalle settant’anni di vicissitudini, nel bene e nel male. Però se continuiamo a considerare la Bce come la nostra cattedrale non si va da nessuna parte. Una vera unione deve avere dei simboli comuni nei suoi valori, non nella politica monetaria. E dei veri leader».
Merkel non lo è?
«Non è una leader, è una follower».
Chi era un vero leader?
«All’università ho seguito qualche lezione di Altiero Spinelli. Indubbiamente comunista, però parlava semplice. Diceva cose concrete, comprensibili e soprattutto che interessavano la gente. Parlava di carbone, per dire. Lei lo sa che noi siamo entrati nella Ceca senza avere né carbone né acciaio?».
Nel 2008 fece discutere il suo «silete economisti» (una citazione dal «Silete, theologi» evocato da Carl Schmitt). Lei accusava gli esperti della finanza di non aver saputo prevedere la crisi. E oggi?
«Lo dovrei dire in absentia?»
Professore...
«No ma dico davvero, non vedo economisti».
Lei e la categoria non riuscite proprio a prendervi. Però ci deve essere stato un economista da cui ha imparato qualcosa.
«Carlo Cipolla. Quando feci il Libro bianco della riforma fiscale mi arrivò una lettera da Berkeley. Era sua. In sintesi diceva: la sua idea è geniale e per questo non si avrà il coraggio di realizzarla. Aveva capito tutto. Quando, nei primi anni Novanta, in piena euforia da “fine della storia”, io osavo parlare del “fantasma della povertà” tutti mi davano addosso. Oggi dico che la politica del creare dal nulla moneta, in vigore dal 2012, non solo non risolve i problemi alla radice, ma deresponsabilizza la politica».
E c’è una donna che le ha insegnato qualcosa?
«Uhm...»
Professore, la prego.
«La Thatcher. Prima di tutto, mi lasci dire che lei non era globalista manco per niente, tanto è vero che ha fatto la guerra delle Falkland. E poi una volta riuscì davvero a stupirmi. Quella volta che le portai Berlusconi».
Racconti.
«Silvio mi odiava già, ma mi chiese di presentargliela. Andammo a trovarla a Londra. Ora, tutti sanno che Berlusconi non parla inglese. Cominciò a discettare in francese di vari argomenti. Bene, tempo quindici minuti e lui era seduto sul bracciolo della poltrona di lei, che lo guardava letteralmente rapita. Aveva un’espressione a-do-ran-te. Come sia successo, non me lo chieda, ma andò così. Però c’è un’altra donna, italiana, che ammiro molto».
E chi è?
«Emma Bonino. Nel deserto delle competenze in materia sanitaria che abbiamo in Europa, penso che lei, pur senza competenze sanitarie specifiche, avrebbe fatto il diavolo a quattro in questa situazione, magari ottenendo qualcosa».
Lei è stato quattro volte ministro. Con chi si trovava in sintonia in Europa?
«Non faccio per dire, ma c’era una classe dirigente molto consistente. Per esempio con Gordon Brown ci scrivevamo bigliettini in greco antico».
Sofisticato.
«Una volta invece ero a Cambridge, mi pare (o era Oxford?) per tenere una lezione e tra il pubblico c’era uno molto attento. Me lo presentarono alla fine: era Denis Mac Smith. A cena spiegai che avevo capito la storia leggendo gli Annales di Braudel. Cipolla scherzava su questo e diceva che lui era troppo vecchio per cambiare stile. E infatti il suo metodo rimase quello: gli archivi, il racconto. I suoi archivi sulla peste sono straordinari».
Nostalgie?
«Qualche volta nel mio studio mi metto a guardare la foto di Roma 1957, quando vennero firmati i Trattati considerati come l’atto di nascita della grande famiglia europea. Vedo soprattutto persone, anche se in bianco e nero. Grandi figure. Mi viene in mente una frase bellissima di Camus: nel 1955 venne invitato ad Atene per tenere una lezione sul futuro dell’Europa. In sintesi lui disse che era ancora troppo presto perché gli uomini potessero dimenticare le divisioni nate dalla guerra, ma aggiunse che c’erano uomini di stampo superiore che potevano e dovevano farlo».
Lei ha numerosi interessi. Dai suoi libri traspare una certa competenza in materia esoterica.
«Come no. Sono maestro di sci ad honorem. Commandeur de la Confrérie des Chevaliers du Tastevin. E poi, mi ci faccia pensare, ah sì, mi hanno dato una qualche onorificenza per aver inventato il 5 per mille».
E naturalmente quella famigerata frase sulla cultura che non permette di mangiare...
«Mai pronunciata in vita mia. Anche perché lo sa che cosa diceva Tony Blair di me? Che ero il ministro più colto d’Europa. Se la cultura non mi avesse dato da mangiare perché avrei dovuto meritare quella definizione?»
Silvio Berlusconi e Gianfranco Fini, dieci anni fa il "Che fai, mi cacci?" che distrusse un sodalizio. Libero Quotidiano il 20 aprile 2020. Tra due giorni l'anniversario che cambiò il centrodestra, la resa dei conti pubblica tra Silvio Berlusconi e Gianfranco Fini. "Perché, sennò che fai, mi cacci?", rispose quest'ultimo in piedi sul palco e col dito puntato nel lontano 22 aprile 2010, quando l'allora premier alla direzione del Pdl lo esortò a dimettersi dallo scranno di Montecitorio. "Gianfranco, se vuoi fare politica, noi ti accogliamo a braccia aperte: dimettiti, vieni a farla nel partito e non da presidente della Camera!", gli disse il Cav come riportato dal Fatto Quotidiano. E ancora: "Sei stato tu stesso, giorni fa, a dirmi di esserti pentito di aver fondato il Pdl e di voler fare un gruppo autonomo..!", aveva rivelato poco prima Berlusconi contrario alle "criticità" denunciate da Fini sul palco. "Non dobbiamo - aveva detto l'ex leader di Alleanza Nazionale - mai dare nemmeno l'impressione di voler garantire sacche d'impunità. E a volte quest'impressione c'è, Silvio!", affermò in riferimento alla prescrizione breve. Uno scontro rimasto negli annali della storia e che decretò lo scioglimento definitivo di un sodalizio.
Gianluca Roselli per il “Fatto quotidiano” il 20 aprile 2020. "Perché, sennò che fai, mi cacci?". Tra due giorni saranno passati 10 anni dal giorno in cui nel centrodestra italiano tutto cambiò. La mattina dello scontro feroce, la resa dei conti finale tra Silvio Berlusconi e Gianfranco Fini. Che in quel modo rispose, alzandosi in piedi e col dito puntato, quando l' allora premier, alla direzione nazionale del Pdl il 22 aprile 2010, lo esortò a dimettersi dallo scranno di Montecitorio. "Gianfranco, se vuoi fare politica, noi ti accogliamo a braccia aperte: dimettiti, vieni a farla nel partito e non da presidente della Camera!", gli disse a brutto muso Berlusconi, risalito sul palco per controreplicare all'intervento di oltre un'ora dell' ex leader di An. "Sei stato tu stesso, giorni fa, a dirmi di esserti pentito di aver fondato il Pdl e di voler fare un gruppo autonomo..!", aveva rivelato poco prima il premier, avvelenato per il lungo elenco di "criticità" dispiegate da Fini sul palco: la mancanza di democrazia interna del partito padronale, l'appiattimento sulla Lega, la giustizia ad personam. "Non dobbiamo mai dare nemmeno l'impressione di voler garantire sacche d' impunità. E a volte quest'impressione c'è, Silvio!", affermò Fini, che portò ad esempio le pressioni berlusconiane per approvare la prescrizione breve, "dove avremmo spazzato via 600 mila processi". Fu lì che Berlusconi diventò livido: nessuno mai aveva osato tanto, toccandolo sul tasto che gli stava più a cuore, la lotta "alla magistratura politicizzata". E decise di contrattaccare, subito, seguendo l'istinto di chi era stato punto sul vivo. Quel giorno di aprile lo scontro era nell'aria. B. tentò di annacquarlo facendo parlare un po' tutti. "Non ricordavo tanti fondatori del Pdl", esordì sorridendo l'ex leader di An quando finalmente salì sul palco dell'Auditorium della Conciliazione, nome che non fu di buon auspicio. "Si veniva da mesi di tensioni continue. I due non si parlavano più e, quando lo facevano, litigavano, specie sui temi di legalità e giustizia", ricorda Fabio Granata, uno dei fedelissimi finiani, oggi assessore a Siracusa. Dopo lo scontro, lo sconcerto più grande fu dei cronisti "retroscenisti" che da mesi, nei loro articoli, raccontavano quel dissidio latente e quel giorno, dove tutto andò in scena, non avevano di che scrivere. In sala, invece, si ricorda il volto terreo di Verdini, l'imbarazzo del "traditore" La Russa, il viso paonazzo di Paolo Bonaiuti, portavoce di B., seduto in platea al fianco di Fini (chissà perché). Che il Pdl fosse tutto col premier trovò conferma nei decibel: boati liberatori per Berlusconi, timidi applausi e mugugni per Fini. "Eravamo tutti scossi, a cominciare da lui, che non è un freddo. Lo scontro era prevedibile, ma non così violento. Mi colpì, subito dopo, vedere quanto eravamo in pochi. Era un generale senza esercito", ricorda Roberto Menia, ora entrato in Fdi (da poco ha pubblicato il libro 10 febbraio, dalle foibe all' esodo). Poi tutto precipitò. Il 29 luglio Fini fu espulso dal partito e il 4 agosto nacquero i gruppi di Futuro e Libertà (copyright Luca Barbareschi), con 34 deputati e 10 senatori. Tra loro, Carmelo Briguglio, Italo Bocchino, Flavia Perina, Benedetto Della Vedova. Il 5 settembre, alla Festa Tricolore di Mirabello, nacque ufficialmente Fli, come 3ª gamba del centrodestra. Poi, il 7 novembre, a Bastia Umbra il momento più esaltante della stagione finiana, quando molti credettero davvero alla possibilità di un centrodestra deberlusconizzato: davanti a 15 mila persone Fini annunciò l' uscita dal governo. Una cavalcata anche troppo repentina, che si infranse il 14 dicembre, sui 4 voti di vantaggio di Berlusconi nella mozione di sfiducia alla Camera presentata da Fli col centrosinistra. "In un mese ci sfilarono 11 dei nostri", rammenta Granata. Poi tutto si sfarinò: la casa di Montecarlo e il governo Monti fecero il resto, e nel 2013 Fli prese lo 0,47%. "Credevamo davvero nella possibilità di una destra europea, moderna, laica, di governo", racconta Filippo Rossi, intellettuale di riferimento, fondatore del festival Caffeina e oggi autore di Manifesto per una buona destra. "L'errore di Fini fu forse quello di non aspettare, ma quello di Berlusconi fu di 'uccidere' Fini", aggiunge Rossi. Che poi conclude così: "Era una battaglia densa di contenuti, che andava fatta. E il fallimento di quel progetto ha portato al dominio di una destra lepenista e populista, com' è oggi quella di Salvini e Meloni. Sì, oggi si sente la mancanza di una figura alla Gianfranco Fini".
Il ritorno di Marinella Brambilla, la segretaria fedelissima di Berlusconi. Pubblicato martedì, 21 gennaio 2020 su Corriere.it da Paola Di Caro. Dopo 6 anni è tornata al suo posto la storica assistente. Ad Arcore guida il team dei collaboratori del Cavaliere. Certi amori, ma anche certi rapporti professionali, non finiscono, fanno giri immensi e poi ritornano. Esattamente come è tornata al suo posto Marinella Brambilla, la storica segretaria, assistente, collaboratrice, ombra di Silvio Berlusconi. Da pochi giorni, dopo 6 anni di lontananza, ad Arcore ad assistere nel suo lavoro e a guidare il team della segreteria c’è lei, fedelissima del Cavaliere dall’inizio degli anni 80, quando ancora non c’era la politica nei pensieri di Berlusconi, quando gli uffici erano a via Rovani e la moglie dell’ex premier era Veronica Berlusconi, che a Marinella fu sempre vicina. È tornata perché — raccontano — l’ha chiamata e voluta al suo fianco lui, facendo felice anche la famiglia che della energica, onnipresente, attenta e super partes Marinella ha sempre avuto fiducia. Ma anche nel partito hanno accolto la notizia con soddisfazione: «Lei vuole bene a Silvio, non ha ambizioni politiche, non fa favoritismi, non gli filtra le telefonate a suo piacimento. È un bene che sia tornata ad assisterlo». La Brambilla ha avuto un ruolo importante nella vita e nella carriera di Berlusconi: figlia della governante della casa di via Rovani, sempre a fianco del Cavaliere, lo seguì anche al governo con il ruolo di capo della segreteria particolare, e per lui fu perfino processata, condannata e poi assolta: l’accusa era di falsa testimonianza per aver negato un incontro tra Berlusconi e Massimo Maria Berruti a Palazzo Chigi. Perché non c’era movimento, contatto, telefonata, rapporto del quale non avesse contezza. Lei faceva da filtro — facendo rimanere in attesa alla cornetta anche Gianni Letta e Fedele Confalonieri —, lei contattava, concedeva, decideva come e quando si potesse parlare col Cavaliere: «È lo scudo umano di Silvio», la definizione che ne diede Veronica Berlusconi. Tutto questo fino al 2014, quando dopo il matrimonio con Luca Pandolfi, dello staff della sicurezza di Berlusconi, un periodo part-time di lavoro seguito alla nascita del suo bambino, fu messa da parte e alla fine licenziata — si sussurrò senza smentite allora — per volere di quel «cerchio magico» guidato da Maria Rosaria Rossi: «Intorno a Berlusconi stanno facendo terra bruciata — si lamentarono allora parlamentari a lui vicini —. Marinella era l’unica che poteva tenere loro testa e sono riusciti a farla fuori». Furono gli anni dei veleni incrociati, ai quali seguì nel 2016 la delicata operazione al cuore di Berlusconi: sembrò, in quel momento, che Marinella stesse per tornare («Gli voglio bene...», diceva lei), ma se le porte di Arcore per le sue visite private rimasero sempre aperte, non fu altrettanto per quelle degli uffici. Fino a qualche giorno fa, quando Marinella ha ripreso il suo lavoro. In un mondo completamente diverso, che di uguale ha il sospiro di sollievo di chi la ritrova: «Finalmente, ci sei mancata».
Carmelo Lopapa per la Repubblica il 27 dicembre 2019. La grande fuga di tutti gli uomini del Presidente adesso è davvero iniziata. Il carbone trovato sotto l' albero di Natale è stato il segnale finale del rompete le file. Silvio Berlusconi che per la prima volta in 25 anni non convoca deputati e senatori per gli auguri di buone feste diventa solo la conferma che «tutto è finito, lui non ci sopporta e il partito è storia già archiviata », per dirla con le parole di uno dei fondatori ed ex fedelissimo ministro. Il video del leader che preferisce la cena di Natale col Monza Calcio la sera di mercoledì 18 ha avuto l' effetto del commiato, per la truppa dei 97 deputati e 61 senatori. Sotto Natale si sono moltiplicati gli esodi, da Bolzano a Ragusa. Direzione, neanche a dirlo, Fratelli d' Italia e Lega, soprattutto dopo la nascita del partito "Salvini premier" sabato 20 a Milano. E l' addio il 24 dicembre di Michaela Biancofiore, è solo la punta di un iceberg. E si fa concreta l' ipotesi che in un eventuale voto anticipato nel 2020 il simbolo di Fi sia destinato a estinguersi. Anche perché gli ultimi sondaggi interni, in vista del voto in Emilia, danno il partito dell' ex premier al 2% nella regione di Bonaccini. La calamita Lega nel Lazio Nel Lazio si è aperta una voragine. Antonello Aurigemma, capogruppo in regione, è passato a Fdi, la consigliera Cartaginese alla Lega. Come pure ha fatto pochi giorni fa Davide Bordoni, unico consigliere nell' Assemblea capitolina, anche lui con Salvini. Il partito di Antonio Tajani in Campidoglio dopo 22 anni non esiste più, in Regione quasi. Tanto che Berlusconi sembra intenzionato a nominare anche qui (come in Umbria e in Liguria) un nuovo coordinatore: la fedelissima Annagrazia Calabria. Basterà a frenare l' Opa di Salvini su Roma e Lazio?
L' esodo in Sicilia. Nella terra un tempo granaio elettorale del partito, il 16% delle Europee di pochi mesi fa è già meteora. Il 24 dicembre Berlusconi nomina il potente messinese Nino Germanà nuovo responsabile Enti locali per il Sud di Fi per impedire il passaggio, già nell' aria, alla Lega. Lui non accetta nemmeno l' incarico (non c' è traccia della nota di ringraziamento di prassi). Ma nell' isola è un fuggi fuggi. Dei 14 deputati regionali in quattro sono già andati, altri (si parla di Orazio Ragusa, verso la Lega) stanno per farlo. Già approdato all' ombra di Salvini il deputato nazionale Nino Minardo, rampollo della famiglia di imprenditori ragusani. Ha lasciato anche il sindaco di Catania Salvo Pogliese col suo codazzo di consiglieri e amministratori locali. Ha detto addio anche il deputato regionale Luigi Genovese, figlio di Francantonio, "re dello Stretto" finito nei guai giudiziari. È diventato un caso la nomina a coordinatore giovani di Andrea Mineo benché 32enne (lo statuto fissa in 28 anni l' età massima per l' incarico), figlio di Franco, politico condannato e prescritto. Stefania Prestigiacomo scalpita per strappare lo scettro a Gianfranco Micciché. Impresa assai ardua da quelle parti.
L' azzeramento in Veneto. Nella regione del vero reggente di Fi, Niccolò Ghedini (e della presidente del Senato Maria Elisabetta Alberti Casellati a lui vicina), i tre eletti di cinque anni fa in regione sono andati con Fdi (in due) e col governatore Zaia. Davide Bendinelli, nominato coordinatore regionale su indicazione dell' Avvocato del leader, ha fatto armi e bagagli e sotto Natale è passato con Italia Viva di Renzi.
Le mani poco pulite in Calabria. Le inchieste hanno terremotato Fi nella Calabria che va al voto il 26 gennaio. Il sindaco di Villa San Giovanni, Giovanni Siclari, fratello del senatore Marco, era l' uomo forte del partito in provincia di Reggio Calabria: agli arresti dal 18 dicembre. Potrebbe rientrare (dopo la lettera aperta di Berlusconi di ieri sera) la fronda anti-Santelli dei fratelli Occhiuto. Oggi la presentazione delle liste, ma la trasparenza, in quelle della destra nella punta dello Stivale, stanno diventando già un caso.
Le spine in Campania e Puglia. Nella Campania è rivolta tra i forzisti e nella Lega per la designazione di Stefano Caldoro alla Regione. Peserà anche il ruolo di Mara Carfagna e dei dieci deputati a lei vicini. Si voterà in primavera anche in Puglia, dove dopo l' addio di Raffaele Fitto (oggi Fdi e possibile candidato governatore) di azzurro pure lì non resta che un pallido, lontano ricordo.
RAZZA PADANA - Toti, il nordista gentile che rese il Ponte Morandi una dottrina. Francesco Specchia su Il Quotidiano del Sud il 9 giugno. «Il concerto per l’inaugurazione del nuovo ponte non l’abbiamo deciso in questa città, è un’iniziativa lodevole di una delle grandi aziende che ha costruito il ponte e voleva essere un regalo a Genova ma non abbiamo alcun interesse a fare qualcosa che non piaccia ai cittadini e a chi ha sofferto per il ponte se non lo faremo…», borbotta il governatore in una delle sue mille apparizioni in stile “guerrilla marketing”. Nella Liguria a marcia padana il Ponte di Genova realizzato in un amen è l’esempio di come, in Italia, si possa saltare la burocrazia. E il governatore della Liguria Giovanni Toti, la cui stazza è inversamente proporzionale alle levità di pensieri, qui distilla un’opinione quasi banale: se, per una questione di delicatezza, i cittadini non volessero, lasciamo i festeggiamenti e torniamo a rimboccarci le maniche sulle Liguria protesa verso la stagione estiva, pronta alla Fase 3 post Covid. Toti classe ’68, viareggino di nascita e milanese d’adozione, ex giornalista ceduto in comodato alla politica, è il governatore del nord che, mentre i colleghi si scannavano ogni giorno col governo centrale, sorrideva e, zitto zitto, apparecchiava il riscatto della regione. Non eludendo le norme, per carità, semmai interpretandole in modo “estensivo”. Sicché è riuscito, al riparo delle polemiche a realizzare cose mai avresti detto: niente ticket per tutti i guariti dal Covid; accoglienza per tutti seppur con le dovute cautele (tipo un braccialetto che vibra se qualcuno ti si avvicina entro un metro); attenzione prima per le scuole che cadono in pezzi poi – solo poi – al plexiglass – ; quadruplicazione nei suoi ospedali delle terapie intensive da 50 a 210 (in proporzione più della Lombardia); riduzione dei ricoveri da 1300 a 500; aumenta de reparti Covid (“anche se ora non ne abbiamo bisogno”) a 1300 posti letto; accordi per il test sierologico con ditte private per farlo a prezzo calmierato ai lavoratori delle aziende; e allestimento di una mitragliatrice di tamponi che solo al San Martino di Genova arrivano a 3000 al giorno (“Anche se il tampone, oggi, è uno strumento spurio di lotta politica”). Toti sta riattivando i polmoni dell’economia ligure con la tecnica democristiana, paracula ed efficacissima, del sussurro. Lo fa da sempre. Ricordo quando era direttore a Mediaset: tra un buffetto, una battuta, una smussata, l’uomo rendeva accettabili le sue decisioni anche per quei colleghi che -poco prima di soffocare nei suoi abbracci- ritenevano quelle stesse decisioni delle minchiate. Ecco, Toti ha usato quest’understatement implacabile anche con Conte. Oggi mira alla rielezione, appoggiato in blocco da quel centrodestra che nel resto d’Italia viaggia abbastanza separato. Il suo modello rimane il suo Ponte Morandi: “Il Ponte è stato solo l’apice di un sistema virtuoso che ha dato le case agli sfollati in meno di due anni, ha costruito la nuova strada per il porto in meno di due mesi, risarcito imprese e cittadini in meno di un anno grazie al governo dell’epoca. Bisogna che Regioni e Comuni abbiano gli affidamenti diretti per fare velocemente le infrastrutture come negli anni 60”. E’ legato a Salvini ma tiene stretti legami col Berlusca, gioca a carte con la Meloni ma ha ottimi rapporti anche con Bonaccini e il Pd. Afferma di rispettare scienziati ed epidemiologi ma li invita cortesemente a farsi da parte per lasciare il posto alla politica. E, non appena la politica si gira, eccolo che, tomo tomo cacchio cacchio, te lo ritrovi sulla poltrona…
Marco Antonellis per Dagospia il 6 febbraio 2020. Il Cav non dimentica! È proprio il caso di dirlo soprattutto se ci riferisce a Giovanni Toti l'ex pupillo del sire di Arcore passato dalle TV alla politica prima sotto le insegne di Forza Italia e poi fondando il nuovo personalissimo partito Cambiamo!. Perché nel centrodestra, dove ci si sta accapigliando per la spartizione delle poltrone in vista delle prossime regionali (per Salvini & company in molte regioni si pronostica vittoria facile) nessuno vuole accollarsi la candidatura del governatore uscente: "Toti non può più essere in quota Forza Italia per cui bisognerà trovare qualcun altro che se ne faccia carico". Insomma, il Cav del suo ex pupillo non ne vuol sapere (lo considera in quota Lega) tanto che da via Bellerio hanno già messo le mani avanti: "Il nome di Toti in Liguria per quanto ci riguarda non si tocca. Se poi qualcuno ha altre idee lo dica apertamente. Certo non sarà in "quota" Salvini". Al momento, dunque, rimane insoluta la domanda del Cav: "Chi si farà carico della candidatura di Giovanni Toti in Liguria?". Nel frattempo Silvio Berlusconi sta preparando il 'Tour della Liberta'' che toccherà tutte e 6 le regioni chiamate al voto in primavera. Silvione, ringalluzzito dal risultato in Calabria punta a giocare da protagonista in Veneto, Marche, Campania, Puglia, Liguria e Toscana, con particolare riguardo alle regioni del Sud. Non ditegli però che Salvini in Campania punta sull'ex rettore dell'Universita' di Salerno Aurelio Tommasetti anziché su Stefano Caldoro così benvoluto da Berlusconi e Meloni. Intanto Berlusconi ha fatto sapere anche il suo pensiero sul governo Conte e sulla durata della legislatura. La previsione dell'ex Premier è che non si tornerà al voto tanto presto. Dopo i risultati in Emilia Romagna e Calabria nessun parlamentare vuole più le elezioni anticipate. In troppi perderebbero il seggio (senza nemmeno avere un lavoro per il dopo). Insomma, meglio pensare a vincere le regionali.
Soldi alla fondazione di Toti. I pm indagano sui bonifici Lui: «È tutto registrato». Pubblicato mercoledì, 22 gennaio 2020 su Corriere.it da Fiorenza Sarzanini. Le indagini sono partite dopo due segnalazioni di «operazioni sospette» inviate dall’unità antiriciclaggio. E adesso i magistrati di Genova e la Guardia di Finanza stanno verificando i bilanci della Fondazione Change che fa capo al governatore della Liguria Giovanni Toti. Ma soprattutto stanno controllando se i soldi versati da aziende e imprenditori siano poi stati utilizzati a fini personali. Nella relazione dell’Uif si fa infatti esplicito riferimento a due bonifici finiti sul suo conto corrente per un totale di 25 mila euro. Il sospetto è che si tratti di un finanziamento illecito e per questo dovrà chiarire ai magistrati l’utilizzo dei fondi. Nell’elenco dei finanziatori c’è anche la Moby dell’armatore Vincenzo Onorato, già perquisito dai magistrati di Firenze che indagano sulla Open di Matteo Renzi e «segnalato» per i soldi versati al sito di Beppe Grillo e alla Casaleggio Associati. Toti si dice «assolutamente tranquillo, è tutto registrato e regolare. Tutte le spese sono collegate all’attività politica, non c’è alcuna spesa personale. Con la Moby non ho alcun rapporto». La prima segnalazione riguarda il conto corrente collegato al «Comitato Giovanni Toti Liguria» nato nel 2015 per la corsa alle Regionali. Ed è stata trasmessa anche alla direzione Antimafia per esplorare eventuali ipotesi di riciclaggio. Il deposito viene aperto nell’agosto 2018 quando riceve un bonifico da 10 mila euro dal «Comitato Change », creato per raccogliere fondi da destinare alla campagna dei candidati della sua lista. L’Uif sospetta che una parte dei finanziamenti «sia arrivata direttamente dalla Regione Liguria o da altri enti» e per questo fornisce l’elenco dei tesorieri che si sono avvicendati nel corso degli anni. Sottolineando il ruolo di Enrico Zappa, in carica fino al 24 luglio 2018, «che attualmente ricopre il ruolo di sindaco in numerose società fra le quali quelle del gruppo del senatore di Forza Italia Sandro Biasotti». E quello del suo successore Alberto Pozzo, tuttora responsabile degli aspetti contabili. La lista dei finanziatori è invece inserita nella seconda segnalazione dell’Uif che riguarda le movimentazioni del 2019. Al centro delle verifiche c’è il «Comitato Change » e l’attività di «Nicola Boni e Marcella Mirafiori, delegati a operare sul conto corrente». L’interesse di investigatori e pubblici ministeri è sulla lista dei finanziatori per le somme in entrata e poi sulle uscite in favore di Toti. L’inchiesta deve infatti accertare quale utilizzo sia stato fatto dei soldi. «Sul conto risultano accreditati bonifici di Innovatec per 20 mila euro, Diaspa srl per 30 mila euro, Moby spa per 100 mila euro, Aker srl per 90 mila euro tutti con causale «erogazione liberale». Dal conto corrente del Comitato Change risultano eseguiti bonifici direttamente a favore di Giovanni Toti: uno da 5 mila euro e uno da 20 mila con causale «Contributo per attività politica». Secondo gli accertamenti già svolti Innovatec e Aker sono due società del gruppo Waste Italia che gestisce la discarica di Vado Ligure. Moby è invece una compagnia di navigazione e negli ultimi anni Onorato ha sollecitato politici e partiti affinché approvassero norme per agevolare il settore. L’inchiesta dovrà stabilire se anche in questo caso le erogazioni effettuate da imprenditori e ditte in favore della Fondazione di Toti servissero a ottenere corsie preferenziali nell’assegnazione di commesse pubbliche o comunque interventi legislativi per favorire la loro attività. Già nel gennaio del 2019 era stato effettuato un controllo dalla Guardia di Finanza presso la banca per ricostruire tutte le movimentazioni e adesso la delega è più ampia perché riguarda ogni intervento svolto dal governatore e i rapporti tra chi ha erogato denaro e la sua cerchia di collaboratori.
I soldi di Change al Governatore: indagine sulla Fondazione di Toti. Una serie di segnalazioni di Bankitalia mette nel mirino finanziamenti provenienti da alcune società, fra cui la Moby, ma anche trasferimenti sui quali indagheranno Finanza e Procura; il presidente: "È tutto trasparente, il conto è dedicato all’attività politica". Marco Lignana e Marco Preve il 22 gennaio 2020 su La Repubblica. La Fondazione Change che fa capo al governatore della Liguria Giovanni Toti finisce nel mirino di Bankitalia per alcuni finanziamenti che, secondo i funzionari dell'Uif (Unità di informazione finanziaria) avevano le caratteristiche per diventare Sos, ovvero "Segnalazioni di operazioni sospette". Dietro a queste sigle, che in automatico mettono in moto accertamenti da parte della guardia di finanza e indagini della procura competente, si palesa l'ennesimo caso politico giudiziario riguardante le finalità di questi enti al servizio della politica, proliferati dopo le modifiche della legislazione sul finanziamento ai partiti.
Le sos. Bankitalia e i finanzieri del Nucleo speciale di polizia valutaria di Roma hanno ricevuto le segnalazioni da parte delle banche relative a due gruppi di finanziamenti avvenuti nel 2019 a favore di Change. Il primo si riferisce a un versamento interno di diecimila euro da Fondazione Change al Comitato omonimo. Quest'ultimo è una sorta di braccio operativo nato (gennaio 2016) ancor prima della Fondazione (maggio 2016). Ammontano invece a circa 200mila euro complessivi i finanziamenti alla Fondazione da parte di quattro società: la Moby dell'armatore Vincenzo Onorato e poi le lombarde Innovatec e Aker del settore energia e la Diaspa che si occupa di ricerche di mercato. Versamenti che compaiono tutti (ad eccezione della Aker che però appartiene allo stesso gruppo di Innovatec) anche sul sito di Change. Innovatec fa parte del gruppo Waste che gestisce la discarica del Boscaccio di Vado Ligure a Savona. La materia dei rifiuti come è noto è una delle competenze della Regione.Il punto più delicato è però il trasferimento di una parte di questi soldi, circa 25 mila euro, forse qualche decina, dalla Fondazione ad un conto intestato proprio a Toti. D'altra parte, nell'ottobre del 2018 un'inchiesta dell'Espresso aveva rivelato che almeno 173 mila euro incassati da Change nei suoi primi due anni di vita erano poi transitati sui conti correnti personali di Toti. Il Governatore spiega che il denaro è stato trasferito su un conto politico intestato a Giovanni Toti Presidente che ha solo finalità politiche. Le indagini dovranno stabilire se si sia trattato di movimenti legittimi o se, invece, emergano ipotesi di finanziamento illecito ai partiti.
La Finanza in banca. Il due gennaio di quest'anno la guardia di finanza di Genova ha effettuato un accesso ai conti bancari finiti nel mirino della Uif. Riguardano in particolare attività e movimentazioni da aprte del Comitato Change. Il sospetto è che parte del finaziamneto, così ipotizzano alal Uif possa arrivare direttamente da enti pubblici come la Regione Liguria. Possibilità esplicitamente prevista dallo statuto del Comitato come aveva raccontato Repubblica alla fine del 2017 : "la facoltà di procedere ad eventuali incassi di somme di denaro di qualsiasi ammontare, corrisposti da privati, enti e/o istituzioni di qualsiasi natura, rilasciandone valida e liberatoria quietanza di saldo". Va aggiunto che Toti, all'epoca, pur non volendo rivelare chi fossero i finanziatori aveva escluso che i soldi potessero arrivare da enti pubblici. Nelle sos riguardanti Change viene anche indicato il nominativo - oltre a quello degli attuali componenti dei board di Comtiato e Fondazione - di Alberto Pozzo un avvocato che, come quasi tutti i membri del direttivo Change ha anche incarichidi stretta competenza della Regione Liguria. In questo caso Pozzo amministratore Unico di Infrastrutture Recupero Energia I.R.E. S.p.A, una controllata di Filse, società in house della Regione.
Lo Statuto. Come già accaduto per altri casi simili, vedi la Fondazione Open di Matteo Renzi, il nodo da sciogliere riguarda attività e limiti delle Fondazioni. A leggere lo Statuto del Comitato la ragione di essere di Change è assolutamente cristallina. Tra gli scopi ecco una serie di attività culturali, sociali e benefiche ma soprattutto "la raccolta dei fondi necessari per le attività politiche di partiti movimenti e liste del comitato Giovanni Toti- Liguria". Chiaro come l'acqua. Al punto che appare quasi superata la battaglia che fece il M5s in Comune per sapere se la campagna di Marco Bucci venne finanziata da Change. Sempre l'Espresso raccontava che a Bucci la Fondazione del Governatore versò 102 mila euro, 67500 andarono invece al futuro sindaco di Spezia Pierluigi Peracchini e appena 5 mila a Ilaria Caprioglio sindaca di Savona. Nulla di sorprendente - a meno che un giudice dica che si tratti di pratiche illegittime o illecite - visto che lo statuto spiega che "la Fondazione può sostenere economicamente progetti e iniziative anche di natura politica di persone in forma singola o associata riconoscendone le finalità".
Gli intrecci. E che l'essenza di Change sia politica ancor prima che sociale o culturale lo si desume anche dai componenti dei direttivi. In principio Change era presieduta dall'avvocato Pietro Paolo Giampellegrini segretario generale della Regione; il segretario era il notaio Francesco Felis e il tesoriere il commercialista Enrico Zappa, sindaco in decine di società fra le quali quelle del gruppo di Sandro Biasotti, e che con l'avvento del centro destra in Regione è stato nominato presidente del collegio sindacale della controllata pubblica Società per Cornigliano. Dopo di loro Change (che aveva sede in un locale di proprietà di Biasotti) si è spostata a Spezia. Il presidente è un avvocato di Massa amico di Giampellegrini, Nicola Boni, la segretaria è Marcella Mirafiori, collaboratrice in Regione dell'assessora Ilaria Cavo; il tesoriere è Cristiano Lavaggi, consulente del lavoro spezzino, già candidato non eletto di Forza Italia, amministratore delegato di Liguria Patrimonio, un'altra controllata della Regione e da aprile di quest'anno membro del cda di Iren nominato dal sindaco di Spezia.
La replica del Governatore: "E' tutto trasparente". "Tutti i versamenti a Change superiori ai 500 euro sono regolarmente registrati alla Camera dei Deputati e da quando è entrata in vigore la legge anche sul sito. La Guardia di Finanza e tutti coloro che vogliono controllare sono benvenuti e faranno giustamente il loro lavoro, ma dubito avranno bisogno di parlare con noi perché troveranno tutto quello che serve loro. È accessibile". Contattato da Repubblica, Giovanni Toti spiega le sue ragioni. Dice che "se i versamenti finiti nella segnalazione della Banca d'Italia non risultano sul sito di Change è perché sono antecedenti all'entrata in vigore della nuova norma che ne impone la pubblicazione. Prima prevaleva la privacy, ora la trasparenza. Noi ci siamo sempre adeguati". Per quanto riguarda il giroconto tra Fondazione e Comitato "si tratta di regolari finanziamenti all'attività politica così come è previsto negli scopi statutari di Change". Mentre su quella decina di migliaia di euro finita su un conto privato di Toti tramite un versamento dall'oggetto "attività politica" il governatore specifica che "ci sono tre conti correnti a me intestati. Due sono del tutto privati e da quelli gestisco le mie spese personali. Se devo pagare il mutuo uso quelli, se devo comprarmi la camicia uso quelli. Un altro invece, aperto presso Banca Carige, è dedicato alla mia attività politica. Per cui se devo andare a una manifestazione, se vengo invitato a una kermesse, utilizzo quel conto proprio per non confondere le spese". Infine, Toti vuole chiarire che "qualsiasi spesa è tracciata. Abbiamo sempre ricevuto e pagato con bonifici e carte di credito affinché sia tutto trasparente".
Esclusivo: i nomi segreti dei finanziatori di Giovanni Toti. La fondazione del governatore ha ricevuto quasi un milione in due anni. Chi sono i donatori. E quali i loro affari in Liguria. Giovanni Tizian e Stefano Vergine il 2 ottobre 2018 su L'Espresso. Aggiornamento del 22 gennaio 2019: con questa inchiesta nel 2018 avevamo rivelato i finanziatori segreti della fondazione Change del governatore della Liguria Giovanni Toti. Ora la procura di Genova e la guardia di finanza indagano sui conti della fondazione. Il fascicolo al momento non ha indagati. Gli investigatori vogliono capire se i finanziamenti ricevuti dalla fondazione del governatore della Liguria siano regolari. E se questi sono stati utilizzati per fini privati, come rivelato da L’Espresso. Il vento è cambiato», recita lo slogan coniato da Giovanni Toti per il comitato Change, nato due anni fa da un’idea del governatore ligure poco dopo le elezioni regionali che hanno portato il centrodestra al governo della roccaforte rossa. Change, una fondazione con «finalità divulgative», ente no profit dedicato a «cultura, ambiente, politiche sociali, salute e sicurezza». Questo si legge sul suo sito internet. Alcuni documenti finanziari inediti permettono di capire meglio le funzioni dell’entità creata dal berlusconiano più vicino a Matteo Salvini. Change si occupa soprattutto di incassare donazioni da privati: 792 mila euro in due anni. Finanziamenti rimasti top secret, che ora L’Espresso è in grado di rivelare nome per nome. Si scoprono così signori dell’industria e ras delle concessioni portuali, costruttori e petrolieri. Quasi tutti legati da un unico denominatore: interessi a sei zeri su Genova e la Liguria. Conflitti d’interessi? Macché. La legge italiana consente di creare fondazioni, comitati o associazioni del genere per finanziare segretamente la politica. Tutto regolare, anche se per nulla trasparente. I documenti inediti mostrano anche come sono state usate le donazioni. Una parte è servita per foraggiare altri esponenti politici: sindaci liguri come quello di Genova, Marco Bucci, ma anche primi cittadini di sponda leghista, a testimoniare il ruolo di cerniera del centrodestra ricoperto da Toti. Gli altri denari sono stati spesi personalmente dal governatore. Che non ha fatto certo il “genovese”.
Il costruttore e l’ospedale. Il primo bonifico è del 17 marzo 2016: 10 mila euro versati dalla Pessina costruzioni Spa, storica azienda sostenitrice della politica, dal centrodestra al centrosinistra, ultima azionista di maggioranza dell’Unità prima della chiusura definitiva dello storico giornale fondato da Antonio Gramsci. Pessina in Liguria ha in ballo la realizzazione del nuovo ospedale di La Spezia, appalto aggiudicato nel 2015 con la precedente giunta guidata dal Pd. All’epoca il centrodestra sollevò un vespaio di polemiche e i giornali berlusconiani si occuparono della vicenda lanciando il sospetto che Pessina avesse ottenuto la gara milionaria grazie all’amicizia con Matteo Renzi, con l’ex governatore Claudio Burlando e l’allora assessore Raffaella Paita. La posa della prima pietra avverrà la prima settimana di ottobre 2016 con Toti già a capo della Regione, l’ente cioè che aveva appaltato il lavoro. Nel frattempo i nemici di Renzi cambiano registro. Il nuovo governatore presente alla cerimonia di apertura del cantiere mostra una certa soddisfazione: «Oggi è una giornata di svolta. Questo grande investimento sulla sanità deve essere valorizzato al massimo per aumentare quantità dei pazienti, che oggi fuggono, e la qualità che il pubblico deve sapere offrire». Pace fatta, quindi, con i costruttori amici dei nemici. Che - si scopre adesso - solo pochi mesi prima avevano fatto un regalino alla fondazione di Toti: 10 mila euro, appunto. L’Ospedale? Il cantiere va a rilento, procede a singhiozzo. La società l’anno scorso ha presentato una variante al progetto originario, una modifica che potrebbe far aumentare i costi. E il cui futuro dipende anche dalla stazione appaltante della Regione.
I re delle concessioni portuali. Quattro giorni più tardi il versamento di Pessina, sul conto del comitato Change vengono accreditati altri 10 mila euro. Portano la firma della Gip Spa, il Gruppo investimento portuali. La proprietà al 95 per cento è di due fondi di investimento stranieri (Infravia e Infracapital) e per il 5 per cento di Giulio Schenone, esponente della storica famiglia di imprenditori marittimi della Lanterna. Da anni la Gip gestisce il terminal Sech, nel porto di Genova. I 10 mila euro a Toti sono stati versati due anni fa, quando il governatore era da poco stato eletto e il suo fedelissimo Paolo Emilio Signorini da lì a qualche mese sarebbe diventato capo dell’autorità portuale, la struttura che rilascia il rinnovo delle concessioni. Concessione che arriva proprio con Signorini in carica, e nonostante i revisori dell’Autorità avessero sollevato perplessità sulla mancata messa a bando della gara: una pratica non in regola con le prescrizioni dell’Unione europea e del codice degli appalti. Un anno dopo è il gruppo della famiglia Schenone a far gioire Toti: viene ufficializzata la firma tra Gip e Mcs per la realizzazione del terminal di calata Bettolo, un investimento da 150 milioni per una durata della concessione di 30 anni, attrezzato per l’attracco di enormi porta container. «È una giornata storica», ha esultato Giovanni Toti, presente il giorno della firma al fianco di Signorini, Aponte (patron di Msc) e Schenone. Nella lista dei finanziatori di Change c’è anche la famiglia Gavio, protagonista del ricco settore di concessioni autostradali e portuali, che evidentemente ha preferito tenere riservata la sua donazione a Toti. Il 28 ottobre 2016 sul conto a disposizione del governatore sono piovuti 15 mila euro firmati Terminal San Giorgio Srl, braccio operativo dei Gavio nell’hub genovese. Coincidenza: lo stesso giorno della donazione i giornali pubblicano la notizia della nomina di Signorini a capo dell’autorità portuale. Quasi un anno dopo il contributo, la società San Giorgio è tra le fortunate a ottenere il rinnovo della concessione, sempre senza gara pubblica, fino al 2030. Il mese successivo, giugno 2017, un’altra società del gruppo Gavio (Autoservice 24) dispone un bonifico di 20 mila euro. Se si guardano gli affari andati a buon fine, però, il più fortunato è sicuramente Aldo Spinelli. Presidente del Genoa calcio e poi del Livorno, l’imprenditore genovese ha costruito la sua fortuna nello scalo cittadino. Amico del centrosinistra, certo. Legato all’ex governatore Claudio Burlando, vero. Ma anche sostenitore di Toti, almeno da quando l’ex giornalista si è preso la scena in regione. Tra il 2017 e il 2018 la Spinelli Srl ha foraggiato il comitato Change con 25 mila euro, che diventano 40 mila se si aggiungono i bonifici del 2015 al Comitato Giovanni Toti Liguria, creato durante la campagna elettorale per le Regionali. Il primo dei bonifici a Change viene accreditato sul conto corrente una settimana prima dell’ufficialità dei rinnovi delle concessioni per l’uso delle banchine. Il secondo, datato febbraio 2018, arriva due mesi dopo aver ottenuto una nuova vittoria: l’ok dell’autorità portuale guidata da Signorini a utilizzare 14 mila metri quadri di banchina presso il “ponte ex idroscalo”. Un bel colpo per l’industriale marittimo appassionato di calcio.
Donatore e bancarottiere. Difficile invece capire quali siano gli interessi economici in Liguria di Giovanni Calabrò, donatore assai generoso ma impossibile da inquadrare in una semplice categoria. Nato in Calabria ma residente nel Principato di Monaco, interessi d’affari in Lussemburgo e Panama, una condanna a sei anni in via definitiva per bancarotta in Italia, l’eclettico imprenditore ha regalato al governatore di Forza Italia quasi 50 mila euro in due tranche. La prima, da 27 mila euro, è stata bonificata nel 2015, durante la campagna elettorale per le regionali: una donazione regolarmente dichiarata al Parlamento. Due anni dopo il businessman con residenza a Montecarlo sceglie una strada più riservata. Trasferisce 19 mila euro sul conto di Change. Perché nascondersi dietro alla fondazione? Di certo nel frattempo l’immagine pubblica dell’imprenditore calabrese è cambiata. Il suo nome è finito sulle pagine della cronaca giudiziaria per sospetta bancarotta, quella che sette mesi dopo il bonifico verrà confermata dalla Cassazione. Ma a imbarazzare Toti ci potrebbe essere altro: le amicizie del suo finanziatore con personaggi contigui alla ’ndrangheta. La notizia emerge dagli atti dell’indagine Breakfast, condotta dalla procura antimafia di Reggio Calabria. Intercettando la commercialista di fiducia di Amedeo Matacena, l’ex parlamentare di Forza Italia finito sotto inchiesta insieme all’ex ministro Claudio Scajola, gli investigatori arrivano a un facoltoso imprenditore reggino. Si chiama Bruno Minghetti, è un mago delle operazioni immobiliari. Minghetti ha goduto di «rapporti privilegiati con i fratelli Lampada», potente clan della ’ndrangheta a Milano. È stato socio di uno degli indagati nell’operazione che ha svelato il radicamento della cosca all’ombra della Madonnina. E, sottolineano gli investigatori, è intimo di Calabrò. Amici di infanzia, ma anche partner d’affari da adulti. Connessioni che non hanno trovato sbocchi processuali, tant’è che Calabrò per vicende di mafia non è mai stato indagato e Toti ha deciso di accettare i suoi regali, seppur in parte segretamente.
Aiuti agli amici e spese di lusso. A questo punto vale la pena di capire che fine hanno fatto tutti questi soldi finiti sul conto di Change. Anche perché la lista dei riceventi rivela qualche sorpresa. La lista della spesa non comprende infatti solo spese politiche del governatore. A beneficiare delle donazioni riservate sono stati diversi altri politici, tra cui anche leghisti come Giacomo Chiappori, storico esponente del Carroccio in Liguria, prima bossiano e oggi salviniano di ferro, sindaco di Diano Marina uscito indenne dall’indagine prefettizia sulle infiltrazioni della ’ndrangheta nel suo Comune. Il 24 maggio 2016, a dieci giorni dalla tornata elettorale che lo ha riconfermato a capo della giunta cittadina, Chiappori ha ricevuto mille euro dal comitato di Toti. Contributo minimo, ma sufficiente a provare il legame anche finanziario tra la Lega e il consigliere di Berlusconi. Non è il solo amministratore pubblico ad aver incassato da Change. Nell’elenco c’è anche la ex fotomodella, scrittrice e oggi sindaco di Savona, Ilaria Caprioglio (5 mila euro a ridosso delle Comunali), ma soprattutto Pierluigi Peracchini e Marco Bucci. Entrambi eletti primi cittadini il 26 giugno 2017, il primo a La Spezia e il secondo a Genova. Peracchini ha ricevuto dalla fondazione di Toti 67.500 euro, Bucci ha incassato 102 mila euro. Ed è proprio nel capoluogo ligure amministrato da Bucci che ci riporta una delle donazioni più generose ricevute da Change: quella della Europam. Azienda di petrolieri, marchio storico della famiglia Costantino, ha regalato 80 mila euro al comitato elettorale di Toti quando Bucci era già candidato sindaco. I primi 50 mila vengono accreditati un mese prima delle elezioni, gli altri 30 mila due giorni dopo la vittoria. Risultato? Sarà merito o no di questi regali, ma una delle ultime commesse pubbliche aggiudicate dall’Europam è arrivata proprio con Bucci primo cittadino. L’Amt, la società del Comune e della città metropolitana che gestisce il trasporto pubblico, l’ha infatti preferita a Eni, Q8 e Erg affidandole per sei mesi una fornitura di gasolio da autotrazione. Valore dell’affare: 8 milioni e 355 mila euro. Nulla di illecito, sia chiaro. L’azienda fa il suo mestiere di lobbying, e sicuramente l’offerta di Europam era più vantaggiosa per il Comune rispetto a quelle avanzate dalle imprese concorrenti. Starebbe però al politico di turno evitare di ricevere donazioni da imprenditori che poi concorrono per gare pubbliche. Discorso che vale per moltissimi altri sostenitori della fondazione Change, diventato il crocevia del flusso di denaro che dal potere economico locale e nazionale scorre verso le casse di chi governa la Regione e i suoi comuni più importanti. Le dichiarate “finalità divulgative” della fondazione? Stando ai resoconti finanziari interni, sembrano essere rimaste sulla carta: più che finanziare attività culturali, i soldi ricevuti dai benefattori sono serviti per pagare le spese personali del governatore. Almeno 173 mila euro incassati da Change sono infatti approdati sui conti correnti personali di Toti. Anche in questo caso non c’è alcun rilievo penale. Si tratta di finanziamenti privati che giungono a un comitato fatto da privati, i quali possono dunque usare le risorse a proprio piacimento. Certo colpisce notare come il governatore non abbia badato a spese, per di più con le risorse di una fondazione che in teoria dovrebbe usarli per fare attività culturale. Nei documenti letti da L’Espresso ci sono poco meno di 30 mila euro usati in un anno e due mesi per dormire nel lussuoso hotel Valadier, un quattro stelle nel centro di Roma. E poi ristoranti tra Forte dei Marmi e Saint Tropez, ancora alberghi, spese da Prada, l’affitto di una casa a Genova, la rata del mutuo. “Il vento è cambiato”, insomma. I conti di Change dimostrano che ai politici non conviene più farsi donare denaro in modo trasparente. Molto meglio usare una fondazione come quella di Toti, dove tutto resta sempre riservato, segreto. Quasi sempre.
Arrestata la coordinatrice di «Cambiamo con Toti» del Lazio. Pubblicato mercoledì, 29 gennaio 2020 da Corriere.it. La Squadra mobile di Latina ha arrestato Gina Cetrone, già consigliera regionale del Pdl e dallo scorso anno coordinatrice per il Lazio del partito «Cambiamo con Toti», e altre quattro persone con l’accusa, a vario titolo, di estorsione, atti di illecita concorrenza e violenza privata, con l’aggravante del metodo mafioso. I fatti si riferiscono al periodo maggio-giugno 2016. L’indagine, coordinata dalla Direzione distrettuale antimafia della Capitale guidata dal procuratore Michele Prestipino, si è avvalsa anche del contributo dei collaboratori di giustizia Renato Pugliese e Riccardo Agostino (già sottoposto alla misura della sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno a Latina e per il quale si procede separatamente). Nei confronti di Gina Cetrone, del marito Umberto Pagliaroli e Armando, Gianluca e Samuele Di Silvio - il gip di Roma Antonella Minunni ha disposto la misura cautelare del carcere. Per la Dda, nell’aprile 2016 Gina Cetrone e il marito Umberto Pagliaroli, nella veste di creditori di un imprenditore di origini abruzzesi, in relazione a forniture di vetro effettuate dalla società a loro riconducibile (la Vetritalia srl), avrebbero richiesto l’intervento di Samuele e Gianluca Di Silvio e di Agostino Riccardo per riscuotere un credito, previa autorizzazione di Armando Di Silvio, ritenuto da chi indaga capo dell’associazione di stampo mafioso a lui riconducibile. Moglie e marito, dopo aver convocato l’imprenditore presso la loro abitazione, gli avrebbero richiesto il pagamento immediato della somma dovuta (circa 15mila euro), impedendogli di andare via a bordo della sua auto. La coppia avrebbe costretto l’uomo ad attendere l’arrivo di Agostino Riccardo, Samuele Di Silvio e Gianluca Di Silvio che una volta sul posto lo hanno minacciato, prospettando «implicitamente conseguenze e ritorsioni violente nei suoi confronti e verso i suoi beni». Questi ultimi avrebbero costretto poi l’imprenditore ad andare in banca il giorno dopo sotto la loro stretta sorveglianza e di quella di Pagliaroli ad effettuare un bonifico di 15mila euro a favore della società e a consegnare loro 600 euro, a titolo di disturbo.
Estorsione con metodo mafioso a imprenditori, arrestata ex consigliera regionale Gina Cetrone. La donna, ora coordinatrice Lazio di "Cambiamo! con Toti", assieme al marito utilizzava esponenti del clan Di Silvio per riscuotere crediti e per la campagna elettorale. Deve rispondere, assieme ad altre 4 persone anche di violenza privata e illecita concorrenza. La Repubblica il 29 gennaio 2020. Usava gli uomini del clan Di Silvio per estorcere denaro a imprenditori e per la campagna elettorale. Per questo motivo questa mattina gli agenti della Squadra Mobile di Latina hanno arrestato Gina Cetrone, già consigliere regionale del Pdl e lo scorso anno coordinatrice per il Lazio del partito "Cambiamo! con Toti", e altre quattro persone. L'accusa, a vario titolo, è di estorsione, atti di illecita concorrenza e violenza privata, con l'aggravante del metodo mafioso. I fatti si riferiscono al periodo maggio-giugno 2016. L'indagine, coordinata dalla Direzione distrettuale Antimafia della Capitale guidata dal procuratore Michele Prestipino, si é avvalsa anche del contributo dichiarativo dei collaboratori di giustizia Renato Pugliese e Riccardo Agostino (già sottoposto alla misura della sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno a Latina e per il quale si procede separatamente). Nei confronti di Gina Cetrone e degli altri quattro (Armando detto Lalla', Gianluca e Samuele Di Silvio e poi Umberto Pagliaroli), il gip di Roma Antonella Minunni ha disposto la misura cautelare del carcere. Le indagini hanno ricostruito che nell'aprile del 2016, Cetrone e il marito Pagliaroli, creditori nei confronti di un imprenditore di origini abruzzesi, in relazione a pregresse forniture di vetro effettuate dalla società Vetritalia srl, società a loro riconducibile, richiesero l'intervento di esponenti dei di Silvio per la riscossione del credito in questione. Secondo le indagini, Cetrone e Pagliaroli avrebbero convocato l'uomo presso la loro abitazione intimandogli il pagamento immediato della somma di denaro dovuta impedendogli di andare a bordo della sua auto. "In questo contesto - è detto in una nota - i Di Silvio e Riccardo minacciavano l'imprenditore prospettando conseguenze e ritorsioni". Una azione violenta che, stando all'accusa, avrebbe ottenuto risultati immediati alla luce del fatto che il giorno successivo la vittima dell'estorsione si è recata in banca e dietro "la stretta sorveglianza dei Di Silvio e Riccardo" che lo attendevano fuori dalla filiale, ha effettuato un bonifico di 15 mila euro in favore della società di Cetrone e Pagliaroli. Non solo: "per il disturbo" l'imprenditore consegnò 600 euro ai tre. Non solo, l'ex consigliere regionale fece un accordo con il clan dei Di Silvio per ottenere la massima visibilità per la sua candidatura, nel 2016, a sindaco di Terracina in cambio di un contributo di 25 mila euro. "Fateve il lavoro vostro e noi ce famo il nostro... non mi coprite Gina Cetrone sennò succede un casino", è la frase pronunciata sempre da Riccardo Agostino (poi collaboratore di giustizia) e confermata agli inquirenti in un interrogatorio del 16 luglio 2018. "Cetrone si era lamentata perchè la sua visualizzazione non era buona, non si vedeva abbastanza nei manifesti di Terracina, io a mia volta mi lamentavo tramite Pugliese con i nostri attacchini. L'unico modo per capire chi attaccava i manifesti di Corradini e quelli di Procaccini a Terracina, che coprivano quelli della Cetrone, è stato rintracciare Genny Marano tramite tale Ciccio" concludeva Agostino. "Era di dominio pubblico come la campagna elettorale di Cetrone era sostenuta dagli zingari e che alle spalle vi era almeno come rappresentante Agostino Riccardo (legato al clan Di Silvio e poi collaboratore di giustizia, ndr), persona che non conoscevo" dichiarava agli inquirenti come persona informata sui fatti, il 6 settembre 2019, Gianluca D'Amico, l'addetto alle affissioni dei manifesti elettorali dei candidati avversari di Cetrone.
Comitato Toti: "A Cetrone nessun incarico ufficiale". "In merito alle notizie stampa sull'arresto di Gina Cetrone, il Movimento politico "Cambiamo!" con Toti fa presente che Gina Cetrone non ha mai ricoperto incarichi nazionali e regionali all'interno di "Cambiamo" ma ha semplicemente fornito la propria disponibilità a collaborare sul territorio provinciale di Latina: cosa evidentemente non possibile dopo i fatti contestati alla Cetrone, accaduti nel 2016 e di cui "Cambiamo!" non era a conoscenza. In un clima di piena fiducia nell'operato della magistratura, auspichiamo che Gina Cetrone saprà dimostrare la propria estraneità ai fatti contestati". Così, in una nota, il comitato promotore regionale "Cambiamo" Lazio.
Toti: "Nessun incarico e non è iscritta a Cambiamo!". "La signora Cetrone non riveste alcun incarico in 'Cambiamo!', dal momento che il Comitato promotore, unico organo statutario per quanto riguarda l'assegnazione di incarichi, non ha mai preso in considerazione di assegnarne uno all'ex consigliera regionale del Lazio, la cui iscrizione al nostro movimento politico non risulta nemmeno ancora formalizzata". Lo ha dichiarato il presidente della Regione Liguria Giovanni Toti, leader di Cambiamo!. "Pertanto - aggiunge Toti - chiunque associ il nostro Movimento politico alle vicende giudiziarie in corso, ne risponderà in sede legale, dove adiremo a tutela della nostra reputazione. Diffidiamo pertanto chiunque ad utilizzare in modo menzognero questa vicenda. E visto che nessun media ha avuto cura di verificare la notizia, prendendo come fonte ufficiale la pagina Facebook della signora Cetrone, pretendiamo le rettifiche immediate per il gigantesco danno di immagine subito dal nostro partito".
Astorre (Pd): "Destra non faccia finta di niente". Gli arresti di oggi confermano "il rapporto tra la criminalità organizzata e alcuni ambienti politici di destra del capoluogo pontino". Lo scrive in una nota comunicato il segretario del Pd Lazio, senatore Bruno Astorre. "Più volte abbiamo denunciato i legami e le complicità tra esponenti della destra locale con clan mafiosi e oggi nuovamente abbiamo la dimostrazione grazie al lavoro straordinario della magistratura e alla collaborazione di alcuni pentiti l'inchiesta ha assunto contorni gravi e pesanti che portano alla luce non solo il sostegno dei boss a esponenti di Lega e Fratelli d'Italia ma l'uso del clan Di Silvio per estorsione, violenza privata con l'aggravante del metodo mafioso. Una commistione tra politici e organizzazioni criminali locali - conclude Astorre - che deve essere fermata dai vertici nazionali dei partiti di destra che hanno la responsabilità politica e non possono proseguire a fare finta di niente"
Michela Allegri per “il Messaggero” il 30 gennaio 2020. Membri di spicco di clan mafiosi assoldati per intimorire imprenditori concorrenti, per fare recupero crediti e anche per gestire campagne elettorali e garantire visibilità e voti. Sempre con violenza: minacciando gli attacchini di partiti rivali. È con le accuse di estorsione, violenza privata e illecita concorrenza aggravate dal metodo mafioso che Gina Cetrone, ex consigliere regionale del Lazio del Pdl, è finita in carcere insieme al marito Umberto Pagliaroli e a tre esponenti del clan Di Silvio di Latina: il boss Armando, detto Lallà, e i figli Samuele e Gianluca Di Silvio. Ma l'inchiesta, almeno per quanto riguarda la parte politica, potrebbe essere molto più ampia, visto che membri del clan hanno dichiarato di avere svolto gli stessi servizi anche per altri candidati, di varie liste. E da un'intercettazione emerge il possibile sostegno a quella leghista. Nell'ordinanza di arresto il gip Antonella Minunni definisce la Cetrone e il compagno «scaltri e pericolosi», senza scrupoli «nel ricorrere ai Di Silvio per inibire e condizionare l'attività imprenditoriale di un concorrente e per interferire sull'andamento della campagna elettorale». Avevano un tariffario per la cosca: il 50 per cento sul recupero crediti e 25mila euro per garantire la massima visibilità in occasione della corsa a sindaco di Terracina. «Fateve il lavoro vostro e noi famo il nostro, non mi coprite Gina Cetrone sennò succede un casino», le minacce dei boss agli attacchini rivali. «Un patto politico», lo definisce il gip. Il procedimento è un filone della maxinchiesta ribattezzata «Alba Pontina» sul ruolo dei clan nella provincia di Latina e gli arresti sono stati possibili grazie alle dichiarazione di due collaboratori di giustizia, affiliati al clan, e già sotto processo. È stato uno di loro, Agostino Riccardo, a raccontare dal banco degli imputati di avere svolto la campagna elettorale anche per altri candidati, nel 2016. In particolare, si sarebbe occupato, dietro pagamento, dell'affissione dei manifesti politici, garantendo che non sarebbero stati coperti da nessuno. Un servizio, a suo dire, svolto anche per Raffaele Del Prete, che a Latina lavorava per le campagne elettorali dell'europarlamentare Matteo Adinolfi, che nel 2016 era tornato in consiglio comunale sotto le insegne di Noi con Salvini. Una dichiarazione che sembra supportata da un'intercettazione. Il 30 maggio 2016, Riccardo telefona a Gianluca Di Silvio e dice: «Sto a tornà, io faccio Salvini per Latina». A smentire le parole del pentito, l'ufficio stampa della Lega, che sottolineando l'estraneità ai fatti, parla di «vergognose e false illazioni su presunti contatti tra la Lega e la criminalità organizzata a Latina». Mentre Adinolfi ha sempre sostenuto di non avere mai avuto contatti con il clan. Sono comunque le confessioni dei due pentiti - oltre a Riccardo c'è anche Renato Pugliese - a consentire agli inquirenti di tratteggiare uno spaccato di malaffare. La Cetrone - ora vicina al movimento «Cambiamo!» di Giovanni Toti, che però smentisce incarichi affidati alla donna - secondo gli inquirenti stringe il primo patto con il clan di Silvio nell'aprile 2016. Un imprenditore non ha saldato un debito per forniture di vetro fatte dalla società Vetritalia, dell'esponente politica. Lei lo convoca e insieme al marito chiede l'intera cifra, minacciando l'intervento «degli zingari». Poi, entrano in scena Samuele e Gianluca Di Silvio, e Riccardo. Lo costringono ad andare in banca per fare un bonifico da 15mila euro in favore della Vetritalia e si fanno consegnare 600 euro per il disturbo. Lo raccontano entrambi i collaboratori a verbale. «Un'altra estorsione l'abbiamo fatta su incarico di Gina Cetrone - ricorda Riccardo - Mi chiamò quando ero sorvegliato speciale. Poiché avevamo già preso l'appalto dalla politica pensai che fosse qualcosa attinente la politica. Ne parlammo con Armando e lui disse di andare». Poi, parla del tariffario: «Armando ci disse di ribadire che avremmo preso il 50 per cento». In realtà, per quel servizio avevano ottenuto meno soldi: «Lei ci voleva dare mille euro a testa, accettammo perché disse che ci avrebbe fatto guadagnare con la politica». In settembre, invece, il marito della Cetrone, Pagliaroli, avrebbe ingaggiato Pugliese e Riccardo per intimorire la concorrenza: i due hanno raccontato di avere minacciato un operaio che si era messo in proprio nella produzione di vetro, intimandogli di «non allargarsi troppo con l'attività» e di «stare calmo». Poi, avevano chiesto alla vittima, «per il disturbo», duemila euro. Poi, ci sono le accuse relative alla campagna elettorale. Anche in questo caso, dall'inchiesta emerge il tariffario: 10mila euro per l'affissione dei manifesti, altri 10mila per pagare le auto e la colla, 5mila euro «per la visualizzazione», si legge nell'ordinanza. Riccardo, sentito dagli inquirenti nel luglio 2018, ha raccontato che «Cetrone si era lamentata perché la sua visualizzazione non era buona, non si vedeva abbastanza bene nei manifesti di Terracina». Una ricostruzione confermata dal racconto di uno degli attacchini intimiditi: «Era di dominio pubblico come la campagna elettorale di Cetrone era sostenuta dagli zingari. Chiesi a Riccardo il motivo per cui erano stati strappati i manifesti elettorali e sostituiti con quelli di Cetrone. Lui mi rispose con arroganza e prepotenza che loro erano gli zingari di Latina e per questo dovevamo lasciarli stare».
Toti: "Cetrone? Non so chi sia". Ma ci sono le foto dei due abbracciati per un selfie. Il governatore della Liguria nega che la donna arrestata a Latina ricoprisse incarichi di partito, ma i social ufficiali annunciavano le sue iniziative cui partecipavano parlamentari totiani. Marco Preve su La Repubblica il 29 gennaio 2020. Gina Cetrone arrestata oggi a Latina, per tutti gli organi di stampa era la coordinatrice locale di Cambiamo il partito di Giovanni Toti. Senonché il Governatore attraverso le agenzie e post su Facebook smentisce il ruolo della Cetrone. "Gina Cetrone? Non so chi sia. - riporta un lancio dell'Adnkronos delle 15.52 - Sarà qualcuna che si è avvicinata al nostro movimento. Magari che collaborava con i ragazzi del territorio in questa fase pionieristica. Ma a Roma non risulta che come direzione si sia mai affrontato tema di sue nomine e neppure risulta totalmente formalizzato il suo iter di iscrizione al movimento dai tabulati informatici. Io non ricordo di averci mai parlato, anche se può essere successo a qualche incontro di gruppo in Lazio. Aggiungerei che i fatti contestati risalgono al 2016 quando di certo non avevo alcuna idea neppure di costituire Cambiamo!". Alcune pubbliche notizie e fotografie però fanno a pugni con il disconoscimento della donna arrestata. Cetrone ha partecipato a eventi dove erano presenti parlamentari di Cambiamo, i luogotenenti di Toti. Ha lei stessa organizzato eventi che sono statti rilanciati dalla pagina Facebook di Cambiamo. E poi alla vigilia di Natale Cetrone e Toti sono fotografati assieme ad una cena non di piazza ma evidentemente ristretta ai dirigenti locali del partito. Val la pena è provare a capire meglio il rapporto fra Cetrone e Cambiamo. Intanto Toti potrebbe chiarire come sia nata la foto che sulla pagina Facebook della Cetrone mostra la donna assieme a Toti davanti al logo di Cambiamo. La data è del 10 dicembre 2019, poco più di un mese fa. Non solo. Il 10 gennaio il sito Nexqtuotidiano, riprendendo notizie riportate da alcuni giornali da conto di un'inchiesta dell'antimafia che a Latina avrebbe portato a galla una serie di presunti aiuti dei clan a Fdi e Lega. Un pentito scrive Nextquotidiano "sostiene che 500 voti provenienti dalla curva del Latina Calcio sarebbero stati "dirottati"- su richiesta dell'allora patron Pasquale Maietta - sull'ex PdL e ora senatore di Fratelli d'Italia Nicola Calandrini. Quei voti, secondo la ricostruzione del pentito, sarebbero dovuti andare a Gina Cetrone (ora con Cambiamo! di Giovanni Toti) ma Maietta decise di spostarli Calandrini". Il 20 novembre il sito Latinaoggi annuncia: "A Cisterna sbarca "Cambiamo con Toti", nasce il comitato. Il tutto avviene con la presenza dell'Onorevole Mario Abruzzese quale coordinatore del Lazio, e della coordinatrice provinciale Gina Cetrone". Il 7 di ottobre si legge su Latinaquotidiano.it: ""In provincia di Latina - spiega il consigliere regionale e tra i fondatori di Cambiamo, Adriano Palozzi - abbiamo trovato già un importante punto di riferimento in Gina Cetrone. E' una persona capace, determinata, che sono certo saprà fare la differenza e che si è messa subito a disposizione dimostrando di credere non solo nel nostro progetto ma soprattutto nei valori che lo contraddistinguono". Ma sono della vigilia di natale, del 20 dicembre per la precisione, le immagini che cozzano con quanto dichiarato dal governatore. "Non so chi sia Gina Cetrone" dice Toti. Ma sulla pagina Facebook ecco le foto di una cena di Natale con Gina Cetrone abbracciata Toti per gli immancabili selfie.
Berlusconi: "Associazione Carfagna inutile, rischia di dividere il partito". Da corriere.it il 20 dicembre 2019. Il presidente di Forza Italia, Silvio Berlusconi, al Tempio di Adriano per la presentazione del libro di Bruno Vespa. Così Berlusoni: "Ho avuto da Mara Carfagna l'offerta della presidenza onoraria della sua associazione ma ho detto di no, perché in un partito libero, aperto al confronto credo sia inutile far nascere un'associazione che finisce per essere una corrente politica nel partito e che finisce per dividere".
Berlusconi: “Gli italiani sono stati ingrati con me, ma spero che possano cambiare”. Stefano Rizzuti per fanpage.it il 20 dicembre 2019. In occasione della presentazione del libro di Bruno Vespa, il leader di Forza Italia Silvio Berlusconi torna a parlare di se stesso e del suo rapporto con gli elettori: “Credo che nei miei confronti gli italiani siano stati un po' ingrati, però confido nella capacità di cambiamento degli italiani”. Poi l’ex presidente del Consiglio aggiunge: “Spero che anche gli italiani un po' troppo di destra o di sinistra possano diventare democratici e occidentali”. Berlusconi parla anche del suo alleato, Matteo Salvini, nella coalizione di centrodestra, affermando che sbagliò a pronunciare la “frase sui pieni poteri, ma forse voleva dire solo che si poteva intervenire sulla situazione italiana. Ma quella frase non trova nella realtà umana di Salvini alcuna conferma. Forse quella frase è un po' colpa mia, gli avevo spiegato che quando sei al potere ci sono ostacoli che non ti permettono di realizzare il tuo programma, non avendo il 51% puoi avere alleati non sempre leali, il premier, poi, non può cambiare i ministri, ad esempio”. Parlando ancora del leader della Lega, il leader azzurro si sofferma sulla legge elettorale: “Con Salvini abbiamo toccato solo di sfuggita questo tema, non mi sembra abbia idee precise e non mi sembra abbia approfondito questo tema”. Intanto, però, Berlusconi si augura di tornare a nuove elezioni entro sei mesi e risponde a chi gli chiede cosa pensa dell’ipotesi di Mario Draghi presidente del Consiglio: “Nella prospettiva di arrivare a elezioni, accetterei l'ipotesi di un governo tecnico con Draghi, che potrebbe essere premier capace di far fronte alle emergenze del paese”. Altro tema prioritario in questi giorni è quello delle elezioni regionali, con la candidatura alla presidenza della Regione Calabria ancora da definire. Forza Italia ha fatto il suo nome, quello di Jole Santelli, ma ancora non è stato chiuso l’accordo nella coalizione: “Per le elezioni regionali del 2020 aspettiamo di presentare tutti i candidati, anche quelli degli alleati che sosteremmo lealmente. Noi abbiamo ripiegato su un'ottima candidata che è Jole Santelli, ma aspettiamo il via libera definitivo da parte dei nostri alleati”. E i tempi sono stretti, motivo per cui bisogna fare in fretta: “Mancano quattro giorni al termine ultimo per la presentazione delle liste quindi è assolutamente urgente”.
Mara Carfagna: «Ecco Voce Libera ma non lascio Forza Italia». Pubblicato venerdì, 20 dicembre 2019 da Corriere.it. «Sarà un’avventura bellissima, grazie a chi mi ha spinta e incoraggiata e a chi si è messo a disposizione». Mara Carfagna non ha dubbi. Voce Libera, la sua associazione che oggi prende ufficialmente vita, servirà a dare voce a quell’«Italia stanca dall’eterno teatrino politico, di chi pensa che il Paese sia sempre in campagna elettorale e di chi pensa a fare l’influencer invece di far politica. Quello lasciamo che a farlo sia la Ferragni, che certo non pretende di governare il Paese». Ad ascoltare la vicepresidente della Camera diversi parlamentari di Forza Italia che hanno deciso di aderire all’associazione: Renata Polverini, Osvaldo Napoli, Massimo Mallegni, Andrea Cangini, Paolo Russo solo per citarne alcuni. Presente anche Gaetano Quagliariello e l’ex senatore Domenico Scilipoti che però non ha nulla a che vedere con l’associazione e Stefano Parisi leader di Energie per l’Italia. La `neo´ associazione della vice presidente della Camera può contare su nomi di peso anche nel comitato scientifico: Carlo Cottarelli (che però chiarisce di non essere interessato a scendere in politica), l’avvocato Alfonso Celotto, i professori Alberto Brambilla e Fabio Roversi Monaco. E tra le adesioni dell’ultima ora anche quella di Giuliano Urbani, tra i fondatori di Forza Italia. Ed è proprio su Fi e sul rapporto con Silvio Berlusconi che Carfagna tiene a sgombrare ancora una volta il campo dai dubbi: Voce Libera non è la premessa alla nascita di un partito, noi stiamo in Forza Italia «Berlusconi è il presidente del mio partito e non mi farete mai litigare con lui». Anzi, a Berlusconi che bolla come «inutile», la neo associazione, l’ex ministro replica: «L’ultima volta che mi dissero così fu per la legge sullo stalking, una delle cose di cui vado più fiera». Quanto a chi dentro Fi aveva lanciato una sorta di ultimatum invitandola a scegliere, Carfagna risponde con una punta di ironia: «Gli ultimatum?...In questo periodo veramente c’è più gente fuori dal partito che dentro...». Ma l’idea di dar vita ad un partito non è nel futuro dell’associazione, gli obiettivi sono chiari: «Dare voce alle vittime di una giustizia ingiusta, voce agli imprenditori che non devono essere usati come bancomat. Vogliamo scommettere sulle donne e dare voce al Sud dicendo che si risolvono i problemi con l’assistenzialismo ma con una no tax area per le imprese. Insomma c’è bisogno di una politica che faccia ciò che serve al Paese e che non pensi solo ai sondaggi».
Fabrizio De Feo per “il Giornale” il 19 dicembre 2019. Mara Carfagna è pronta a iniziare la sua corsa politica e a presentare la sua associazione Voce Libera. Il varo di questo contenitore di idee, dove si ritroveranno pezzi di società civile e di classe politica, è fissato per domani quando la vicepresidente della Camera, in una conferenza stampa, annuncerà le adesioni al suo progetto e presenterà una sorta di manifesto programmatico che punterà a mettere fine alla sudditanza psicologica verso il sovranismo, pur restando saldamente dentro Forza Italia e dentro il centrodestra. L' ambizione è quella di orientare la politica del partito azzurro indirizzandolo verso una identità moderata, liberale, europeista e laica. Ma è chiaro che con questo strumento l' ex ministro delle Pari Opportunità punterà ad aumentare il proprio peso dentro il partito e la propria centralità in un momento molto delicato per Forza Italia. In queste ore si lavora sull' assetto organizzativo: ci saranno un comitato scientifico, un direttivo, una sorta di cabina di regia, e un esecutivo, un organismo più ristretto con le funzioni di segreteria politica. L' atto costitutivo davanti al notaio è già stato firmato, il logo è in preparazione. Oltre al presidente, racconta Vittorio Amato sull' Adnkronos, si parla anche della carica di presidente onorario che sarà assegnata all' economista ed ex ministro Antonio Martino, uno dei fondatori di Forza Italia. Pronti ad aderire una trentina di deputati e senatori, per lo più moderati e dell' area sudista: oltre a quelli a lei più legati anche territorialmente come Gigi Casciello, Marzia Ferraioli ed Enzo Fasano, si fanno i nomi al Senato di Andrea Cangini, Massimo Mallegni, Franco Dal Mas, Laura Stabile e Barbara Masini, mentre alla Camera quelli di Paolo Russo, Osvaldo Napoli, Daniela Ruffino e Renata Polverini, ma dovrebbero esserci anche friulani e veneti. Del progetto farà parte il responsabile enti locali di Fi e commissario regionale nelle Marche, Marcello Fiori, mentre i fratelli Occhiuto restano in attesa che si sblocchi lo stallo delle candidature per le Regionali. Naturalmente c' è curiosità per capire se nell'associazione entreranno anche nomi esterni alla politica e si riusciranno ad allargare i confini del partito azzurro. Tra questi svela l' Adnkronos ci sarà il costituzionalista Alfonso Celotto, campano doc (è nato a Castellammare di Stabia), docente all' Università Roma Tre e scrittore (ha pubblicato per Mondadori il romanzo Il dott. Ciro Amendola, direttore della Gazzetta Ufficiale). Inoltre dovrebbe esserci anche un professore molto corteggiato dalla politica e molto presente negli studi televisivi come Carlo Cottarelli. Dopo il voto del 2018 e il momentaneo passo indietro di Giuseppe Conte era stato proprio lui a essere convocato per formare un nuovo governo, proposta poi tramontata per il ritorno di un esecutivo politico. Forza Italia guarda all' iniziativa di Mara Carfagna non senza dubbi e perplessità. «È una stagione difficile per Fi, questo non è il momento nel quale dividerci. Forza Italia ha bisogno di unità, e credo che le battaglie si debbano fare dentro il partito e non fuori, evitando di distrarre risorse ed energie» dice Mariastella Gelmini a RTL 102.5.
«Non capisco perché Mara abbia accettato un tempo il ruolo di co-coordinatore con Toti, e oggi non accetti di sedersi al tavolo con il resto del movimento. Venga al tavolo politico insieme alla dirigenza nazionale, e lavori al rilancio di Fi». E Maurizio Gasparri prendendo spunto da alcune sue dichiarazioni critiche sulla candidatura di Caldoro in Campania, invita «con sincerità Carfagna a valutare l' ipotesi di una sua candidatura».
Parlamento, Carfagna presenta la sua “Voce libera”. Paolo Delgado il 20 Dicembre 2019 su Il Dubbio. Il nuovo gruppo della Carfagna. Ma non è l’unica a spostarsi. Una trentina di deputati 5Stelle meditano di dar vita a una specie di corrente a sostegno del premier altri guardano dalle parti di Salvini. Salvo improbabili ripensamenti, presto in Parlamento ci saranno tre nuovi soggetti o semi- soggetti. Non sempre e non necessariamente nuovi gruppi o al Senato, dove il nuovo regolamento impedisce la formazione di gruppi non presentatisi alle elezioni, di nuove componenti del gruppo Misto. Almeno due casi su tre si dovrebbe trattare di aree che, pur senza abbandonare il gruppo parlamentare e il partito di appartenenza, ritengono necessario evidenziare una loro specifica identità. Mara Carfagna annuncerà oggi la nascita dell’associazione Voce libera. Ci saranno anche esponenti vari della cultura cattolico- liberale ma il grosso indossa la divisa azzurra. Presidente onorario dovrebbe essere l’ex ministro Antonio Martino, già tra i fondatori di Forza Italia. Forzista è la leader, la vicepresidente della Camera Carfagna, e forzisti sono i deputati, come Renata Polverini, e soprattutto i senatori, come l’ex direttore del QN Andrea Cangini, molto attivo, una decina, che aderiranno. Forzisti, decisi a "rilanciare il centro destra", però "antisovranisti", che si traduce con "drasticamente anti-salviniani". Il gruppo assicura di non voler passare dai bastioni in via di smantellamento di Arcore a quelli ancora da edificarsi di Italia viva e di non prepararsi a votare la fiducia al governo Conte. Sarà però un drappello nutrito pronto sui singoli provvedimenti a correre in aiuto e soprattutto a palazzo Madama il rincalzo potrebbe essere fondamentale. Soprattutto perché dai quei banchi della maggioranza potrebbero uscire presto una decina di pentastellati guidati dal sempre più dissidente Gianluigi Paragone, peraltro vicino anche a una possibile espulsione. I 5S pronti a uscire con lui sarebbero una decina, più o meno tanto quanto i senatori azzurri che militano sotto la bandiera di Mara. Neppure loro entrerebbero nella Lega, non subito almeno, ma di certo il governo non disporrebbe più del loro sostegno. Tra i 5S, però, ci sono anche i “contiani”. Una trentina di deputati meditano infatti di dar vita a una specie di corrente a sostegno del premier, peraltro indicato e già sostenuto dall’M5S. L’operazione, se procederà davvero, avrebbe dunque un doppio significato: formalizzare l’opposizione contro Di maio ma anche costituire una massa per spingere i 5S verso l’alleanza strategica con il Pd che Zingaretti vuole, anzi ormai quasi pretende, e Di Maio (ma anche il Di Battista che mentre Grillo incontrava i deputati era a cena con Paragone e altri dissidenti) sono decisi a impedire. Inevitabilmente questa frammentazione renderà ancora più caotico un quadro politico che non ha mai trovato neppure una minima forma di stabilizzazione dopo la crisi di agosto e che sarà ancor più flagellato, nei prossimi mesi, dalla tentazione di votare prima che scatti il taglio dei parlamentari nonché, probabilmente, dagli esiti delle 8 elezioni regionali in agenda, a partire da quelle del 26 gennaio in Emilia-Romagna e Calabria. E’ sin troppo evidente, inoltre, che se la crisi dovesse esplodere, il "posizionamento" di Voce libera si rivelerebbe propedeutico alla formazione di una nuova ed ennesima maggioranza. L’area di Carfagna, Polverini e Cangini non può infatti votare la fiducia al governo Conte 2, dopo averlo bocciato in partenza, pena il ritrovarsi assimilato alle varie operazioni d trasformismo come quella che tentò, con esiti rovinosi, Angelino Alfano nella scorsa legislatura. Le cose sarebbero però completamente diverse se si profilassero un nuovo governo e una diversa maggioranza. Quanto peserà l’ennesimo effetto destabilizzante sul governo è impossibile dirlo. Troppe essendo le variabili in campo. Vale però la pena di notare che se gli slittaenti all’interno del M5S vanno verso un superamento dell’anomali del partito "né di destra né di sinistra" e costituiscono dunque un passo verso la rinascita di un bipolarismo, pur se diverso da quello degli anni ‘ 90, il passo d Mara Carfagna e del suo drappello marcia in direzione opposta. Di fatto converge con Renzi nell’obiettivo di dare vita a uno schieramento centrista, che è cosa ben diversa dal "né di destra né di sinistra", dunque di impedire il ripristino del bipolarismo. E’ l’eterna ambiguità che accompagna l’Italia sin dal referendum del 1993 e che ha contribuito in misura non secondaria a rendere impossibile qualsiasi reale stabilizzazione. E’ facile profetizzare che la medesima ambiguità si rifletterà anche nella prossima ed ennesima legge elettorale.
Mara Carfagna, la replica a Silvio Berlusconi: "Inutile? Glielo faccio vedere". Salvatore Dama su Libero Quotidiano il 21 Dicembre 2019. "Voce Libera" non sarà un partito, non sarà una corrente e non nasceranno gruppi parlamentari autonomi. Presentando la sua associazione, Mara Carfagna spiega bene di cosa si tratta. Un think tank. Un pensatoio. L' obiettivo, assicura la vice presidente della Camera, è «unire, non dividere». E dare voce, appunto, all' area moderata che non vuole un centrodestra egemonizzato dai sovranisti. «Sarà un' avventura bellissima, grazie a chi mi ha spinta e incoraggiata e a chi si è messo a disposizione», dice Mara, spiegando che la sua ambizione è quella di dare spazio «a quell' Italia stanca dall' eterno teatrino politico, di chi pensa che il Paese sia sempre in campagna elettorale e di chi pensa a fare l' influencer invece di far politica. Quello lasciamo che sia la Ferragni a farlo, che certo non pretende di governare il Paese». Piazza di Pietra. Nel salone della Camera di Commercio si passano in rassegna i presenti per fare un calcolo veloce di quanta parte di Forza Italia stia con Mara. Seduti in platea ci sono i parlamentari Paolo Russo, Andrea Cangini, Marcello Fiori, Renata Polverini, Barbara Masini, Laura Stabile, Marzia Ferraioli, Gigi Casciello, Massimo Mallegni, Franco Dal Mas, Dario Bond, Enzo Fasano, Raffaele Baratto, Osvaldo Napoli, Daniela Ruffino, Maurizio Carrara. In totale sono una trentina gli azzurri, tra deputati e senatori, che hanno dato la propria adesione a Voce Libera. In sala, inoltre, erano presenti anche Gaetano Quagliariello, l' ex senatore Domenico Scilipoti (semplice curiosità, la sua) e il leader di Energie per l' Italia Stefano Parisi.
LA PLATEA. Sono stati ufficializzati anche i primi nomi del comitato scientifico. Ci sono l' economista Carlo Cottarelli, l' avvocato Alfonso Celotto, i professori Alberto Brambilla, Fabio Roversi Monaco, Filippo Sgubbi, Riccardo Puglisi, Emanuele Massagli, Alberto Mingardi, Francesco Perfetti e l' architetto Enzo Pinci. Aderisce anche Giuliano Urbani, dopo che un altro fondatore di Forza Italia, Antonio Martino, aveva declinato l' invito a essere presidente onorario dell' associazione. Cottarelli mette in chiaro che la sua non è una scelta di campo: «Io faccio parte di diversi comitati scientifici, ma non c' è nessuna intenzione di scendere in politica, continuo a fare quello che faccio», assicura mister Spending review. Che torna a dare la sua ricetta per i conti pubblici: «In Italia possiamo anche crescere dell' uno, 1,5%. Con le entrate, se si fanno le cose giuste, si risolve anche il problema del debito pubblico».
RISPOSTA AL LEADER. Silvio Berlusconi dice che l' associazione è inutile? «Mi fu detto che stavo facendo una cosa inutile anche quando presentai la legge sullo stalking, una delle cose di cui vado più fiera. Da oggi dimostreremo le nostre ambizioni e i nostri obiettivi. Lo prendo come un augurio dunque...», risponde Carfagna. Che comunque assicura: «Non mi farete mai litigare con Berlusconi. Lo convinceremo con i fatti». Il Cav «ha sempre avuto la capacità di dare spazio ad una pluralità di voci. In Forza Italia sono nate tante associazioni e anche la nostra ha come obiettivo quello di mettere benzina nel motore del nostro partito e del centrodestra». Mara risponde anche a chi, nel partito, la invita a scegliere: o dentro o fuori. «In questo periodo c' è più gente fuori dal partito che dentro...». Ma l' idea di dar vita a una scissione non è nel suo futuro, gli obiettivi sono chiari: «Dare voce alle vittime di una giustizia ingiusta e agli imprenditori che non devono essere usati come bancomat. Vogliamo scommettere sulle donne e dare voce al Sud. C' è bisogno di una politica che faccia ciò che serve al Paese e che non pensi solo ai sondaggi». Salvatore Dama
Mara Carfagna: «FI non può essere la succursale della Lega Nord». Giulia Merlo il 18 gennaio 2020 su Il Dubbio. Intervista a Mara Carfagna: «Se lasceremo il nostro spazio politico ad altri, Forza Italia rischia di perdere la sua utilità anche nel rapporto con gli alleati». I piedi ben piantati nel centrodestra, la testa proiettata verso il futuro: la vicepresidente della Camera, Mara Carfagna crede ancora nella forza di un’area moderata.
Vicepresidente, la nascita della sua associazione, “Voce Libera”, ha creato scalpore e anche malumori nel centrodestra. L’ha stupita?
«Per niente. Nei partiti italiani c’è sempre chi ama lo status quo, uno spicchio di classe dirigente che teme di perdere rendite di posizione e diffida di ogni novità. Forza Italia non fa eccezione. Ma l’immobilismo è la peggiore strategia che si possa immaginare in politica e, nel mio caso, gli incoraggiamenti ad andare avanti da parte di dirigenti, iscritti, elettori, sono stati davvero tanti».
I rapporti di forza nella galassia del centrodestra sono molto cambiati, con una Lega straripante. C’è ancora spazio e soprattutto quanto ce n’è anche dal punto di vista elettorale per chi, come lei, si definisce liberale?
«Penso che l’ondata di rabbia e protesta che ha spinto in alto populisti e sovranisti si stia esaurendo. La crisi del M5S è il segnale più evidente. Le scelte si stanno facendo più razionali, emerge una certa stanchezza di urla e proclami: se l’area moderata saprà interpretare questo nuovo sentimento i rapporti di forza all’interno del Centrodestra cambieranno. Se lasceremo il nostro spazio politico ad altri, Forza Italia rischia di perdere la sua utilità anche nel rapporto con gli alleati».
A partire da quali temi ritiene di portare avanti la sua visione politica?
«Tasse, lavoro, crescita, divario tra Nord e Sud del Paese. Parto soprattutto da una visione delle potenzialità italiane: possiamo essere, dobbiamo essere un Paese migliore, più attivo, che metta a sistema le straordinarie capacità dei suoi uomini e delle sue donne, che riattivi l’ascensore sociale, che dica con chiarezza: la decrescita non è un destino, è l’effetto di politiche sbagliate e recessive, adesso cambiamo. Ma per liberare le potenzialità del Paese, bisogna smetterla di intralciare il cammino di chi fa impresa, di ostacolare chi esercita la libera professione, di rendere difficile la vita a chi tutte le mattine alza una saracinesca. Non bisogna lasciare indietro nessuno, ma nel frattempo, chi ha le potenzialità per correre, deve poterlo fare».
Proposte concrete?
«Ne cito due che mi stanno particolarmente a cuore. Una grande no- tax area al Sud, per dieci anni, con l’idea di trasformarlo in una terra di opportunità che attiri investimenti, qualità, ricerca. Troppi anni di politiche assistenzialiste hanno imprigionato tredici milioni di cittadini meridionali in una gabbia di depressione senza speranza. Quella gabbia va aperta. E poi le donne: sono la metà del Paese, vengono trattate come una minoranza irrilevante, cittadine di Serie B. Ci serve un Women’s Act, subito, per valorizzare le loro energie: è la prima proposta che Voce Libera metterà in campo».
Lo Women’s Act richiama uno dei temi ciclici della politica, la presenza femminile nelle istituzioni. E’ ancora una questione attuale?
«La presenza numerica c’è, manca la voce. Le immagini dei tavoli che contano – quelli dell’economia, della giustizia, delle grandi scelte – raccontano un Paese molto lontano dagli standard dell’Occidente: davanti alle decisioni importanti esistono solo gli uomini, parlano solo gli uomini, le donne sono tagliate fuori. E la sinistra, in questo, ha fatto decisamente peggio. Nelle ultime consultazioni al Quirinale le delegazioni totalmente maschili erano quelle di Pd e M5S…»
La bocciatura del referendum promosso dalla Lega apre la strada a un sistema elettorale proporzionale. Si confà alla sua visione politica?
«Ogni sistema elettorale presenta vantaggi e limiti. Se davvero si arriverà a una legge proporzionale è ovvio che l’intero Centrodestra dovrà aggiornare le sue strategie. Il Piano A di Salvini – modificare per referendum la legge e andare subito al voto – è fallito. E anche il piano A accarezzato da alcuni dirigenti di Forza Italia – accodarsi a Salvini per tutelare una manciata di posti – è venuto meno. Ora, spero che la politica trovi la forza per dare al Paese una legge che non sia fatta da una parte contro l’altra. Siamo i recordmen delle leggi elettorali: ne abbiamo cambiate tre in quindici anni. La Francia ha lo stesso sistema elettorale dal ‘ 58. La Germania da sempre, salvo piccole modifiche. La Spagna dall’ 85. Anche noi dobbiamo arrivare a un sistema stabile e condiviso».
Lei è stata spesso data in avvicinamento al gruppo di Matteo Renzi. Fuor di ideologia, quanto si sente vicina all’indirizzo dell’attuale Governo di cui fa parte anche Italia Viva?
«Meno di zero».
Il tema caldo che rischia di spaccare la maggioranza è la prescrizione. Condivide la battaglia per la cancellazione della norma Bonafede?
«La condivido totalmente e il primo convegno pubblico di Voce Libera sarà dedicato proprio alla giustizia. La norma Bonafede demolisce un principio cardine dello Stato di diritto, la ragionevole durata dei processi, e danneggia tutti: le vittime, i tanti innocenti già piegati da una giustizia ingiusta, i presunti colpevoli, vincolandoli a un’attesa potenzialmente infinita. Il giustizialismo e l’assistenzialismo del Movimento 5stelle sono devastanti per il nostro sistema Paese».
Le elezioni emiliane metteranno in crisi il governo? In altre parole, questo governo durerà oppure vi preparate a una vicina stagione elettorale?
«Il mito della spallata, della mossa di scacchi che fa cadere il re avversario, è uno dei grandi rifugi psicologici della politica italiana. Ma raramente la spallata funziona. E’ possibile che questo governo cada, e io lo auspico, ma se succederà sarà per l’implosione del M5S, ormai in crisi irreversibile, e quindi per il venir meno del partito che – sulla carta – costituisce la maggioranza relativa parlamentare. Una vittoria del Centrodestra in Emilia può accelerare il processo. Ma la fragilità del governo, una fragilità ai limiti della rottura su tutte le grandi questioni, esiste a prescindere da qualsiasi voto in sede locale».
Michaela Biancofiore, la verità sull'addio a Forza Italia: "Sono stata costretta, al mio posto hanno messo..." Libero Quotidiano il 24 Dicembre 2019. Michaela Biancofiore dice addio a Forza Italia. Si tratta di una decisione sofferta, ma "costretta" - come lei stessa ha rivelato. "Hanno messo un coordinatore nell'Alto Adige senza avvisarmi", specifica la deputata altoatesina da 26 anni nel partito di Silvio Berlusconi. "Vado via, ma oggi è una giornata di festa e non intendo parlare di quello" aveva annunciato prima di riferire che Forza Italia mette i bastoni fra le ruote "a chi davvero vuole candidarsi". Leggi anche: Michaela Biancofiore scarica Forza Italia e Berlusconi alla vigilia di Natale: "Con la morte nel cuore, addio". La stessa Biancofiore ha infatti dichiarato di aver perso l'incarico di coordinatrice regionale del Trentino anche se non sarebbe questo il motivo principale. Nel mirino dell'ex azzurra, la persona nominata al suo posto, considerata un esponente non iscritto al partito e che non avrebbe mai mosso un dito per Forza Italia. Uno schiaffo, dunque, all'ex delfina del Cav che ha iniziato la sua carriera politica nel lontano 1995 con le elezioni comunali di Bolzano.
Forza Italia, Michaela Biancofiore «l’amazzone» di Berlusconi lascia il partito dopo 26 anni. Pubblicato martedì, 24 dicembre 2019 su Corriere.it da Claudio Bozza. «Con la morte nel cuore, ma anche liberata. La Forza Italia nella quale sono nata e cresciuta, non esiste più». Così Micaela Biancofiore, annuncia in piena notte l’addio al partito in cui ha militato per 26 anni. La deputata, che ora passerà al gruppo misto sembra non condividere più le scelte della dirigenza: «Siamo diventati come i grillini, uno vale uno senza distinguo, senza storia, senza rispetto per le persone», si limita a commentare. L’addio di Biancofiore è uno di quelli che lascia il segno. La deputata, eletta in Alto Adige, è stata per almeno vent’anni una fedelissima del leader azzurro: «Sono l’amazzone» di Silvio Berlusconi, raccontò nel 2012 in una intervista al Corriere della Sera, sentenziò nel momento in cui il Pdl stava implodendo, con tanto di attacco frontale agli ex An: «Finiranno al 5%». La sua carriera politica iniziò nel 1995 alle elezioni comunali di Bolzano, quando Biancofiore ottenne appena 18 voti di preferenza. Ma la futura delfina berlusconiana, non si dette per vinta e continuò a battersi, fino a quando nel 2002 diventò consigliera per le Autonomia dell’allora ministro degli Esteri Franco Frattini. Una dopo l’altra arrivano poi le quattro elezioni consecutive a Montecitorio, culminate con la nomina a sottosegretario nel 2013, nel governo Letta e poco prima del Patto del Nazareno. Nel 2005 rimase negli album della politica l’immagine di Silvio Berlusconi sul palco, con Biancofiore al suo fianco, che mostrò il dito medio (qui l’articolo dell’epoca) durante la campagna elettorale a sostegno dell’allora sindaco di Bolzano Benussi. Il leader di Forza Italia reagì così ad un gruppetto che lo contestava dalla piazza: «Mia madre mi ha chiesto:”Ho visto una persona che ti faceva questo gesto, che cosa voleva dire? E io gli risposi: “Che sono il numero uno”».
Forza Italia, il grande addio di Michaela Biancofiore: "Siamo diventati come i grillini". "Con la morte nel cuore", la fedelissima di Silvio Berlusconi annuncia di lasciare gli azzurri dopo 26 anni di militanza. Alla Camera approderà al gruppo Misto. La Repubblica il 24 dicembre 2019. Sembra impossibile, eppure Michaela Biancofiore, fedelissima di Silvio Berlusconi, sempre al suo fianco da 26 anni, ha deciso di lasciare Forza Italia. La deputata bolzanina dà l'annuncio nella notte: "Con la morte nel cuore, ma anche liberata. La Forza Italia nella quale sono nata e cresciuta, non esiste più", ha detto la deputata già sottosegretario di Stato con delega alla Pubblica amministrazione e la semplificazione del Governo Letta. "Siamo diventati come i grillini, uno vale uno senza distinguo, senza storia, senza rispetto per le persone", ha commentato. Biancofiore, che il 28 dicembre compirà 49 anni, alla Camera approderà al gruppo Misto. Recentemente era stata sostituita nell’incarico di coordinatrice regionale del Trentino Alto Adige. Il suo addio, in realtà, è l'epilogo di una crisi all'interno del partito cominciata già da diverso tempo. Nel 2016, infatti, in occasione delle comunali a Bolzano (che si conclusero con la vittoria del candidato di centrosinistra Renzo Caramaschi) era entrata in polemica con Berlusconi che non aveva sostenuto il suo candidato bensì quello proposto da Elisabetta Gardini, all'epoca commissario di Forza Italia per il Trentino Alto Adige.
· Quelli con Problemi Giudiziari.
Denis Verdini al bivio: il 30 marzo potrebbe finire in carcere per bancarotta. Pubblicato sabato, 01 febbraio 2020 su Corriere.it da Claudio Bozza. Trenta marzo 2020. Sul calendario della famiglia Verdini questa data è cerchiata di rosso. Perché in quel giorno è stata fissata la data in cui la Cassazione per l’udienza decisiva sul crac del Credito cooperativo fiorentino, la banca guidata da Denis Verdini, poi crollata a causa della malagestione. E in quel giorno, per il fu plenipotenziario di Forza Italia e «architetto» del Patto del Nazareno, si potrebbero aprire le porte del carcere. Il conto alla rovescia è iniziato: se la condanna a 6 anni e 10 mesi inflittagli dalla corte d’Appello di Firenze nel 2018 divenisse definitiva, colui che è stato uno dei più abili manovratori della politica italiana finirebbe dietro le sbarre, perché la pena è superiore ai 4 anni. Verdini, che sta affrontando altri pesanti procedimenti giudiziari, non si è ricandidato alle elezioni politiche del 4 marzo 2018 e per la prima volta in quasi vent’anni non siede in Parlamento (Qui il racconto sulle nuove vite dei principali protagonisti, ora rimasti fuori dalla politica). Oggi vive tra la sua villa sulle colline di Firenze e la sua residenza romana. Almeno a quanto racconta lui si tiene ufficialmente fuori dalla politica. Ma alla sua più grande passione rimane giocoforza appeso, visto che sua figlia Francesca è da tempo la compagna di Matteo Salvini. Verdini, in veste di suocero del leader della Lega, pubblicamente ha sempre negato ogni ruolo di consigliere del Carroccio. Ma torniamo allo spettro del carcere. La Cassazione, il prossimo 30 marzo, potrebbe anche esprimersi a sorpresa, ordinando un nuovo processo d’appello o addirittura annullare senza rinvio la precedente condanna. Uno scenario residuale, ma che rappresenta l’ultimo appiglio di speranza per Verdini, che finora ha accumulato condanne, finora nessuna definitiva, per oltre 16 anni. Con Palazzo Chigi che, nel 2017, ha chiesto anche 42 milioni di danni a Verdini per la truffa (al momento ancora presunta) sui fondi per l’Editoria ricevuti dallo Stato.
Claudio Scajola, condanna a 2 anni per l’ex ministro dell’Interno. Pubblicato venerdì, 24 gennaio 2020 su Corriere.it da Carlo Macrì. Sospensione condizionale per l’attuale sindaco di Imperia. Caduta l’aggravante mafiosa nel caso dell’aiuto alla latitanza dell’ex parlamentare di Forza Italia. L’ex ministro dell’Interno Claudio Scajola è stato condannato alla pena di due anni per procurata inosservanza della pena. L’ex ministro era imputato perché avrebbe cercato di aiutare l’ex parlamentare di Forza Italia Amedeo Matacena a sottrarsi alla cattura, dopo la condanna definitiva a tre anni per concorso esterno in associazione mafiosa. Matacena è attualmente latitante a Dubai. Chiara Rizzo, ex moglie di Matacena, è stata anche lei condannata a un anno per lo stesso reato. La pubblica accusa aveva chiesto per l’ex ministro 4 anni e sei mesi e 11 anni e sei mesi la Rizzo. Assolti gli altri due imputati, Maria Grazia Fiordalisi, segretaria di Matacena, e Martino Politi, factotum dell’ex armatore. Il verdetto di condanna è arrivato dopo quattro ore di camera di consiglio. I giudici del tribunale di Reggio Calabria, presieduto da Natina Pratticò hanno, di fatto, smontato la tesi dell’accusa. Il pubblico ministero Giuseppe Lombardo già in sede di requisitoria aveva fatto cadere per l’ex ministro dell’Interno l’aggravante mafiosa «perché non è stato possibile dimostrare il dolo specifico», quindi l’intenzione di agevolare Matacena, nella sua latitanza, come componente esterno alla ‘ndrangheta. Aggravante mafiosa che aveva, invece, contestato a Chiara Rizzo, non considerata dai giudici del primo grado. «Speravo che la mia vicenda potesse definirsi già in primo grado, ma sono fiducioso per l’appello», ha detto Scajola. «Mi sono interessato di Amedeo Matacena solo per potergli offrire asilo politico. Ho cercato solo di aiutare sua moglie Chiara». Claudio Scajola e Chiara Rizzo erano stati arrestati dalla Dia di Reggio Calabria a maggio 2014 nell’ambito dell’inchiesta Breakfast. Indagando sul tesoriere della Lega Francesco Belsito, il procuratore aggiunto di Reggio Calabria Giuseppe Lombardo si è imbattuto sull’affarista Bruno Mafrici - legato alla cosca De Stefano di Reggio Calabria - ex consulente del ministero della Semplificazione, all’epoca diretto dal leghista Calderoli. Mafrici si sentiva spesso al telefono con Amedeo Matacena che all’epoca era libero. Successivamente l’ex parlamentare di Forza Italia per sfuggire alla condanna definitiva si rifugiò prima alla Seychelles e poi a Dubai. A quel punto la procura decideva di mettere sotto controllo i telefoni di Matacena e quelli dei suoi familiari. Gli inquirenti scoprono che l’ex parlamentare parlava con l’ex ministro dell’Interno che provava a rincuorarlo e gli prospettava possibili soluzioni da mettere in campo per garantirgli la latitanza. Mentre la moglie Chiara Rizzo tesseva rapporti con l’ex ambasciatore del Principato di Monaco Antonio Morabito, di origini reggine, per cercare un aiuto su come garantire l’assistenza legale al marito. Personaggio chiave nell’inchiesta è stato considerato Vincenzo Speziali che in questo processo ha patteggiato la pena a un anno di reclusione. Speziali, una sorta di faccendiere, avrebbe avuto l’incarico di svolgere il compito di intermediario con il referente libanese che doveva garantire la vicenda di Matacena, grazie ai suoi legami con l’ex presidente Amin Gemayel, la cui nipote è la moglie dello Speziali. L’obiettivo era quello di far «riconoscere il diritto di asilo politico in favore del condannato Matacena». Speziali è stato molto vicino a Marcello Dell’Utri, arrestato proprio in Libano ed estradato in Italia per scontare la pena di sette anni per concorso esterno in associazione mafiosa. Ecco quindi perché al processo Breakfast ha fatto il suo ingresso anche l’ex braccio destro di Berlusconi. Il dibattimento, durato cinque anni con più di 120 udienze, è stato tutto incentrato sulle intercettazioni telefoniche e ambientali. Molte delle quali riguardavano Claudio Scajola e Chiara Rizzo, ma anche l’ex ministro dell’Interno e Vincenzo Speziali. I due discutevano della vicenda Matacena e in alcune telefonate Speziali rivendicava il suo ruolo: «Ci siamo riusciti per Dell’Utri, figuriamoci se non ci riusciamo per Matacena», riferendosi alla possibilità di spostare l’ex parlamentare reggino in un luogo sicuro, in Libano, per evitare l’estradizione.
Reggio Calabria, processo Matacena, Scajola condannato a due anni ma non per mafia. Ma il sindaco di Imperia non decade dal suo incarico e rilancia: "Spazzata via l'infamante aggravante per 'ndrangheta". Condannata la moglie dell'ex parlamentare, assolti gli altri imputati. Alessio Candito il 24 gennaio 2020 su La Repubblica. Colpevole. Per il tribunale di Reggio Calabria l'ex ministro ed attuale sindaco di Imperia Claudio Scajola ha aiutato l’ex parlamentare Amedeo Matacena, tuttora latitante a Dubai a sottrarsi ad una condanna definitiva per mafia e per questo lo ha condannato a due anni di carcere. Per la medesima accusa, a un anno è stata condannata la moglie di Matacena, Chiara Rizzo. Il pm aveva chiesto quattro anni e 6 mesi pena che avrebbe anche comportato la decadenza dal ruolo di sindaco di Scajola. Non sembra aver convinto i giudici la parte dell’inchiesta che ha tentato di dimostrare come Lady Matacena, supportata dal braccio operativo del marito, Martino Politi, e dalla segretaria Maria Grazia Fiordelisi, fosse in realtà l’intestataria fittizia di un patrimonio che in realtà è di proprietà della ‘ndrangheta. Accuse che il procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo aveva cristallizzato in due capi di imputazione, aggravati dall’aver agevolato la ‘ndrangheta, uno dichiarato prescritto, l’altro disinnescato con l’assoluzione dei tre imputati. Dopo aver seguito quasi tutte le udienze, Lady Matacena ha deciso di attendere a casa l’esito della sentenza, Politi e Fiordelisi festeggiano con i rispettivi avvocati, Scajola incassa. “Speravo che questa storia si potesse chiarire con il primo grado. Da uomo delle istituzioni rispetto le sentenze, ma ovviamente ricorrerò in appello” dice a caldo. Probabilmente sperava che i suoi legali sarebbero riusciti a convincere i giudici che gli affannosi tentativi di procurare un rifugio dorato a Matacena fossero solo attenzioni necessarie per impressionare la bionda Lady Chiara, per cui Scajola avrebbe preso una sbandata. Ma anche oggi nelle ultime repliche il procuratore aggiunto aveva smontato quella tesi, chiedendo la condanna dell’ex ministro ed attuale sindaco di Imperia. “Sapeva che quella era un’azione penalmente rilevante come lui stesso ha ammesso quando ha tentato di andare a patteggiamento”. Ed è colpevole ha detto il magistrato “a meno che non vogliamo ammettere che nel nostro sistema esista una scriminante, a me sconosciuta, per la quale in presenza di qualche sentimento ci sono condotte delittuose che perdono il loro disvalore penale”. “Spazzata via l’aggravante relativa alla fantascientifica ma infamante accusa portata avanti con pervicacia dalla procura di Reggio Calabria di aver in qualche modo agevolato la ‘ndrangheta e pena più che dimezzata. Si riparte da qui!”. È il primo commento di Elisabetta Busuito, legale dell’ex ministro Claudio Scajola. “Rispetto alle richieste del pubblico ministero – prosegue l’avvocato Busuito - ci troviamo con una pena più che dimezzata. Eravamo certi che la richiesta del pm sarebbe stata rigettata. Siamo convinti della bontà delle nostre tesi e quindi di vedere riconosciuta l’assoluzione dell’onorevole Scajola in secondo grado. Già oggi, questo verdetto dimostra come la tesi accusatoria del pm Lombardo, quella che ha giustificato mesi di indagini gravose, l’arresto preventivo dell’onorevole Scajola cinque anni e mezzo fa e tante paginate di giornali, sia stata letta in modo profondamente diverso dai giudici, cui spetta la verifica di prove e circostanze”. "Cladio Scajola e Vincenzo Speziali erano parte di un progetto criminale ed erano coinvolti nella latitanza di Marcello Dell'Utri". Così aveva detto, nella sua requisitoria, il procuratore aggiunto di Reggio Calabria, Giuseppe Lombardo, nel corso dell'udienza del processo "Breakfast" in cui Scajola e Rizzo erano imputati di procurata inosservanza della pena e di avere favorito un'associazione mafiosa. Il procuratore Lombardo aveva parlato di "sovrapponibilità tra la vicenda Matacena e quella dell'ex senatore Dell'Utri, fuggito in Libano dopo la sentenza definitiva della Cassazione per concorso esterno in associazione mafiosa, particolari che Scajola conosceva e di cui avrebbe parlato con Speziali", uomo d'affari originario di Catanzaro emigrato da tempo a Beirut per motivi familiari. Scajola, secondo la ricostruzione del pubblico ministero, pur non nutrendo grande fiducia in Speziali, aveva comunque accettato il suo interessamento per proteggere Amedeo Matacena.
Lucio Musolino per ilfattoquotidiano.it il 24 gennaio 2020. Due anni di carcere per procurata inosservanza della pena. L’ex ministro dell’Interno Claudio Scajola è stato condannato in primo grado nel processo “Breakfast”. Lo ha stabilito il Tribunale di Reggio Calabria che lo ha giudicato colpevole per aver favorito la latitanza dell’ex parlamentare Amedeo Matacena. Scajola era stato arrestato nel 2014 dalla Dia al termine di un’inchiesta coordinata dal procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo. Dopo 5 anni di dibattimento e più di 120 udienze, oggi il presidente del Tribunale Natina Praticò ha letto in aula bunker il dispositivo di sentenza. Per lo stesso reato contestato a Scajola è stata condanna a un anno di carcere pure Chiara Rizzo, la moglie di Matacena per la quale la Dda aveva chiesto una pena molto più alta (11 anni) ma, evidentemente, al vaglio del Tribunale non ha retto l’aggravante mafiosa. Piuttosto, vista la pena che le è stata inflitta (la metà dell’ex ministro) non è escluso che i giudici le abbiano riconosciuto qualche attenuante. L’aggravante mafiosa, in un primo momento, aveva riguardato anche l’attuale sindaco di Imperia ma alcune recenti sentenze di Cassazione, sulla sufficienza del dolo generico rispetto al dolo specifico, hanno indotto il pm a riformulare l’accusa riducendo, durante la requisitoria, la richiesta di condanna (4 anni e mezzo di carcere) nei confronti di Scajola. In sostanza, così come sostenuto dal procuratore aggiunto nelle precedenti udienze, anche per i giudici di primo grado “non è dimostrato che Scajola abbia agito favorendo la latitanza Amedeo Matacena al fine di agevolarlo quale componente esterno della ‘ndrangheta”. In altre parole l’ex ministro e fondatore di Forza Italia avrebbe favorito Amedeo Matacena in quanto suo compagno di partito che però è un politico già condannato definitivamente per concorso esterno con la ‘ndrangheta (nel processo “Olimpia”) e considerato espressione della cosca Rosmini. Il Tribunale, presieduto dal giudice Natina Praticò, ha decretato inoltre la prescrizione per la segretaria di Matacena, Maria Grazia Fiordaliso, mentre è stato assolto il collaboratore dell’ex deputato, Martino Politi. Il processo “Breakfast” ha ricostruito il tentativo dell’ex parlamentare di Forza Italia, oggi latitante a Dubai, di trasferirsi dagli Emirati Arabi a Beirut, in Libano, dove l’ex ministro dell’Interno Scajola, stando all’impianto accusatorio, avrebbe potuto godere di appoggi istituzionali. L’uomo di collegamento sarebbe stato Vincenzo Speziali, anche lui coinvolto nell’inchiesta della Dda di Reggio Calabria a cui, dopo un periodo di irreperibilità, ha chiesto e ottenuto di patteggiare la pena per lo stesso reato contestato a Scajola. Speziali, infatti, è parente acquisito dell’ex presidente del Libano Amin Gemayel che, più volte e invano, è stato chiamato a deporre davanti al Tribunale. A proposito, proprio stamattina prima che i giudici si ritirassero in camera di consiglio, durante il suo intervento il procuratore aggiunto Lombardo ha spiegato che Amin Gemayel è stato iscritto nel registro degli indagati dalla Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria. Speziali è “il soggetto – ha ricordato il pm Lombardo – incaricato di svolgere le funzioni agevolatrici che avrebbero consentito di avere risposte dalla Repubblica del Libano”. “L’uomo di collegamento”, infatti, “non è uno qualunque e il suo rapporto con Claudio Scajola è una chiave di lettura importante in relazione alla vicenda di Dell’Utri”. Siamo nel 2014 e, secondo la Procura di Reggio Calabria, i destini di Marcello Dell’Utri e di Amedeo Matacena percorrono due strade parallele ed entrambe portano in Libano. Non è un caso che il primo, dopo che la sua sentenza è diventata definitiva, è stato arrestato a Beirut dove, da lì a poco, si sarebbe voluto rifugiare anche il parlamentare reggino. Grazie alle intercettazioni registrate dalla Dia di Reggio Calabria, il procuratore Lombardo è riuscito a ricostruire i movimenti di Scajola, fino a poco tempo prima ministro dell’Interno del governo Berlusconi. Moltissimi, infatti, sono stati i contatti tra il politico ligure e la moglie di Matacena Chiara Rizzo. Intercettazioni che, dopo aver portato al loro arresto, sono state al centro del processo concluso oggi. Telefonate e attività di indagine classica che fanno il paio con il fax partito da Beirut e trovato dagli agenti della Dia in possesso di Scajola durante la perquisizione il giorno dell’arresto. Un fax in lingua francese con le indicazioni che si sarebbero dovute seguire per far ottenere a Matacena l’asilo politico in Libano. “Speravo si risolvesse già in primo grado – è il commento di Scajola a caldo, pochi minuti dopo la sentenza – Poiché sono uomo delle istituzioni e credo nella giustizia, vuol dire che ciò che non è stato sufficiente in primo grado sono certo che si risolverà nel secondo grado. Posso solo dire che a confronto della richiesta di condanna del pubblico ministero e di tutta l’inchiesta, mi pare che si sia sostanzialmente sgonfiata. Non mi dimetterò da sindaco di Imperia. Proseguo il mio lavoro ancora con più impegno di prima perché nulla di questo entra con la mia attività amministrativa. Né nulla di questa condanna in primo grado ha a che fare con reati contro il patrimonio e quant’altro. Io ribadisco che mi sono interessato con l’ambasciata per vedere se era possibile l’asilo politico. Non penso sia questo un reato. Non ho aiutato Matacena, ma solo una donna (Chiara Rizzo, ndr) che era in affanno”. A proposito, soffermandosi sul comportamento di Scajola, nelle settimane scorse il procuratore aggiunto Lombardo lo aveva definito “un uomo di Stato con incarichi elevatissimi e quindi in grado di rendersi conto di cosa significhi agevolare la latitanza di un soggetto condannato in via definitiva per un reato molto grave quale è il delitto di concorso esterno in associazione di tipo mafioso”. Neanche la sua condanna a 2 anni di carcere, però, soddisfa l’interrogativo che il pm si è posto durante la requisitoria: “Dobbiamo per forza chiederci perché lo ha fatto e soprattutto cosa ha fatto”. Una risposta, forse, ci sarà nelle motivazioni della sentenza “Breakfast” che il Tribunale depositerà entro 90 giorni.
IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI. (Ho scritto un saggio dedicato)
· Ai Tempi del Nazismo.
Laszlo Almásy, il doppiogiochista che ispirò il "paziente inglese". La vita avventurosa di un conte per sbaglio, che attraversa l'Europa e l'Africa tra imperi in disfacimento e totalitarismi in ascesa. E finisce per essere una spia per interesse, braccata da comunisti come dagli inglesi. Davide Bartoccini, Giovedì 12/11/2020 su Il Giornale. Esploratore, aviatore e avventuriero, il “conte" ungherese Laszlò Almásy fu spia per interessi privati e collaboratore particolare dell'Afrika Corps di Rommel, per poi finire nel mirino del KGB, che dopo la guerra voleva acciuffarlo per aver spifferato oltre cortina alcune informazioni sul conto dei sovietici. La vita da romanzo di un uomo che finì esserne reale ispirazione. Il "paziente inglese" raccontato nelle pagine di Michael Ondaatje non era precisamente chi abbiamo voluto credere che fosse: Almásy era sicuramente un avventuriero, un esploratore amante del deserto come fu Lawrence d’Arabia; e forse come lui un archeologo mancato - oltre che una spia insospettabile, che nutriva più "interesse" per i giovani ufficiali che per le debuttanti dell'alta società europea che ne rimanevano affascinante. Nato nel 1895 in un paese impronunciabile per chiunque non sia ungherese, era secondo genito di una ricca famiglia austroungarica. Suo padre era stato esploratore delle remote lande dell'Asia centrale; aveva disceso il fiume Ili nel Kazakistan, e si era inerpicato sulle "montagne celesti" del Turkestan. Ispirandolo, probabilmente, con il suo spirito errabondo. Nel 1911 viene mandato a studiare nel Regno Unito - come era costume per i rampolli dell’aristocrazia - ma allo scoppio della Grande Guerra torna immediatamente in patria per arruolarsi negli Ussari e combattere serbi e russi sul fronte orientale. In Inghilterra, oltre a stringere amicizie influenti e spendibili, aveva imparato anche a volare. Motivo per cui, quando rimase ferito in combattimento nel secondo anno di guerra, venne trasferito in quello che allora era considerato un esperimento degli eserciti: l’Aviazione. Slanciato, enigmatico, dal profilo aguzzo e lievemente gobbo, difetto che non ne minava tutto sommato il fascinoso, aveva mani affusolate, da sempre dedite alla scrittura; e una fronte più che spaziosa, che rubava la scena ad un naso ben pronunciato. Il suo spiccato sense of humor, forse affinato proprio in Inghilterra, lo porta a muoversi come un camaleonte disinvolto in ogni salotto d'Europa; mentre da segretario privato del vescovo di Szombathely, si dimostra affidabile attaché di una delle figure centrali del tentativo di restaurazione asburgica. È in questo periodo della sua vita che si guadagna il titolo di "conte": per una leggerezza dell’erede dell’imperatore, Carlo d’Asburgo, che una volta tornato in quella che nel frattempo era divenuta la moderna Ungheria, inizia a riferirsi a lui come al conte de Almásy. Confondendolo con un altro uomo. Lazlò, lusingato dell’errore, non lo correggerà mai. Anzi si fregerà per il resto della sua vita di quel titolo illegittimo. Nonostante fosse pronto ad ammettere, davanti agli amici più vicini, di non meritarlo e non averlo ereditato. Fino a questo punto la vita dell’avventuriero ungherese sembra trovare concordi la maggior parte degli storici. Saranno le sue numerose spedizioni dei deserti africani, e i finanziatori più o meno occulti di queste ultime, a destare l’interesse di un folto gruppo di appassionati al personaggio. - tra i quali sarà annoverato anche l'ufficiale del intelligence britannica di Bletchley Park che captò i messaggi in cifra che lo stesso Almásy spediva nell'etere mentre era al servizio dei nazisti in Africa. Saranno in tanti ad investire anni della loro vita per tentare di ricostruire il passato del conte, e la natura del suo vero interesse per gli angoli più misteriosi e inospitali del Sahara. Le prime spedizioni promosse da Almasy negli anni ’20, trovano il favore della casa automobilistica Steyr: che per dimostrare la robustezza dei propri veicoli, lascia gironzolare il conte ungherese per i deserti che brama scoprire in compagnia di altri folli come lui. Per lo più tutti aristocratici conosciuti qui e là in Europa. Le successive, comprese quelle che disegnarono quelle mappe che interesseranno i governi pronti a rientrare in guerra tra loro nel 1939, non lo vedranno mai nella veste di finanziatore o di referente di un dato governo, fosse quello egiziano, quello o britannico o quello ungherese: anche se si sospetta abbia ricevuto più di una volta il sostengo o l'appoggio delle autorità britanniche presenti in Egitto. Almasy sembra avere una sola vera passione, un unico scopo nella vita: riempire spazi vuoti sulle carte geografiche e trovare le valli - tramutatesi nei secoli in desolanti mari di sabbia - che nessuno, se non le antiche dinastie scomparse, hanno mai conosciuto o abitato. La sete della scoperta lo travolge e non lo spaventa. Morirebbe di sete, e rischierà anche di farlo, pur di dissetare la sua brama. Luoghi come Zerzura, l’oasi perduta degli uccellini. Con i suoi amici “ricchi” viaggia in automobile da Alessandria d’Egitto a Khartum in Sudan, e da lì fino a Mombasa in Kenya. Solca i mari di sabbia scoprendo piste dimenticate e passi mai valicati se non a dorso di cammello. Esplora il deserto libico e quello siriano dal cielo, su un vecchio biplano. Sciarpa di seta al collo e occhialoni da aviatore che anche tra le nuvole lo proteggono dalla sabbia con cui impara a convivere. Una sabbia che non si trova da nessuna parte in Ungheria, ma che lui trova nei suoi miliardi di granelli, in ogni tasca dei suoi abiti - perfino nelle eleganti giacche da sera che indossa al Cairo o a Damasco. Nella sua spedizione in Medio Oriente ritroverà il famigerato passo di Aqaba. Quello varcato dal T.E. Lawrence per condurre il suo colpo di mano sui turchi. Mentre quando raggiunge la terza valle di Zerzura, nel 1933, si avventura in una grotta che per millenni ha custodito in segreto alcune pittore rupestri di epoca preistorica: uomini che “nuotano” nel mezzo del deserto. È la Caverna dei Nuotatori a Wadi Sora. Sarà la sua scoperta più importante, insieme a quella conseguita nel 1935 con il tedesco Hans von der Esch: ossia quando diventano i primi occidentali a ristabilire il contatto con i Magyarab, la tribù che abitava un’isola nel Nilo (molti questi passaggi verranno raccontati nel suo diario “Sahara Sconosciuto”, 1939). Le sue attività, i suoi spostamenti, le sue rilevazioni, le informazioni accumulate e le fotografie aeree scattate negli anni insieme ai suoi colleghi britannici del “Zerzura club”- molti dei quali si arruoleranno proprio nel Long Range Desert Group, il raggruppamento di forze speciali inglesi “esperte di deserto” - , possono avere un impiego strategico per le potenze coloniali si troveranno presto a contendersi il deserto e l’oro nero che custodisce: il petrolio. Tutti in Nordafrica, Italiani e inglesi, iniziano a pensare che sia una spia al soldo dell’avversario. Forse, addirittura, un doppiogiochista. Ma non ci sono informazioni sufficienti per dimostrarlo. Almeno fino a quando nel 1940 non sarà l’Abwehr, il servizio d’intelligence dell’esercito tedesco, a reclutarlo per la sua dimestichezza con il deserto. Con indossa l’uniforme da ufficiale della Luftwaffe, lavora alle mappe che serviranno alle armate di Rommel per dare filo da torcere agli inglesi. Servirà poi da “guida” per le spie tedesche che dovranno infiltrarsi in Egitto. Le prime missioni falliranno miseramente, ma l’operazione Salam: l'infiltrazione di due agenti tedeschi oltre le linee nemiche, passando per oltre duemila miglia di deserto libico, sarà successo che gli varrà la croce di ferro. Onorificenza insignitagli proprio dal feldmaresciallo Erwin Rommel. Ne scriverà nel libro “Con l’Esercito di Rommel in Libia”, pubblicato nel 1943, quando ha ormai fatto ritorno in Ungheria, abbandonando la guerra per concentrandosi sulla fitta corrispondenza che rivelerà il suo unico amore certificato: quello per un giovane ufficiale della Wehrmacht che è terrorizzato dall’idea di partire per il fronte orientale. Sa che lì troverebbe certamente la morte. È così che Lazlò rivela le sue sincere pulsioni omosessuali, proprio come T.E. Lawrence, e prende le distanze, in certo senso, dal personaggio narratoci nel “Paziente Inglese”. Ma non ci vuole poi tanto a traslare la passione eterna da un corpo a un altro: da una donna morente come la Katharine della pellicola da nove premi oscar, a un milite ignoto caduto nell’offensiva di Kursk. La passione è la stessa. Il desiderio di ricongiungersi e lottare per ritrovarsi il medesimo. Quando i sovietici sconfiggono la Germania alla fine della guerra, imponendo la loro dominazione su tutta l’Europa orientale, il conte Almasy viene arrestato per crimini di guerra e tradimento. La prova del suo collaborazionismo (retroattivo) è proprio nel titolo del suo libro pubblicato nel 1943 - che però viene inserito troppo presto nella lista dei libri proibiti dal Comunismo e per questo bruciato in tutte le sue copie. Né il giudice del popolo né la polizia politica potranno leggerlo per confermare la pena. Laszlo viene interrogato e torturato, ma alla fine assolto con l’aiuto di qualche amicizia importante che, nel frattempo, si già saputa arrampicare tra i vertici del partito. Fuggirà presto dall’Ungheria comunista. Ed è interessante notare come la sua fuga passerà attraverso l’Austria, per finire a Roma con il benestare del Vaticano - come valse per molti nazisti - e l’aiuto dei servizi segreti britannici. Gli stessi che credendolo un doppiogiochista prima della guerra, decideranno di prenderlo in parola dopo, fornendogli l’identità falsa di tal Josef Grossman, e motivo per il quale finisce nel mirino del KGB mentre si trova a Roma. Dopo aver ottenuto da lui informazioni sull’Occidente, lo spionaggio sovietico teme possa fornire il medesimo tipo di servizio a loro discapito. Per questo Almásy va eliminato. Riuscirà a fuggire prima, recandosi al Cairo, dove per merito di un vecchio contatto, Alaeddin Moukthar, cugino di re Farouk d’Egitto, allaccia attraverso il suo talento naturale le amicizie potenti che aveva scandito la sua esistenza. Il re egiziano lo nomina direttore dell'Egyptian Desert Research Institute nel 1950, mentre lui vende automobili Porsche ai notabili egiziani e tenta di racimolare quanto basta per finanziare altre folli spedizioni nel deserto. Vuole coronare il sogno più grande: scoprire l’esercito perduto del re persiano Cambise di cui aveva letto nelle memorie di Erodoto. Non farà in tempo. Morirà l’anno seguente di dissenteria, contratta, si crede, durante un viaggio in Mozambico. Aveva 55 anni. Un passato da avventuriero egocentrico e senza scrupoli, e un futuro che lo vedrà consegnato alla storia - in parte mistificata - come come affascinante esploratore, romantico e misterioso. Uno di quegli uomini che fa sognare tutte le donne; ma che come spesso accade nella realtà, preferisce concedere se stesso a qualcosa d’intangibile: la magnitudine che si ottiene solo attraverso la leggenda.
Trafalgar, la battaglia nell'oceano che segnò il destino d'Europa. Il 21 ottobre del 1805 la battaglia di Trafalgar segnò la fine dei piani di Napoleone di conquistare l'Inghilterra. E consegnà a Londra il dominio sui mari. Lorenzo Vita, Giovedì 22/10/2020 su Il Giornale. Quando a Capo Trafalgar era l'alba del 21 ottobre 1805, le forze francesi dominavano l'Europa continentale, mentre il Regno Unito controllava ancora i mari. La flotta di Londra aveva ingaggiato una lunga guerra contro l'Impero francese per riuscire a colpire i traffici commerciali di Parigi e resistere alle ipotesi di invasione da parte dell'Armata napoleonica. Napoleone voleva l'Europa, ma per farlo doveva passare per Londra, ultima vera fortezza - insieme alla fatale Russia - che poteva contrapporsi alle mire francesi. La Royal Navy si era dimostrata in quegli anni uno dei peggiori nemici dell'Impero napoleonico. Praticamente invincibile sulla terra, l'Armata non era riuscita a creare nel Mediterraneo e nell'Atlantico una forza di pari valore. Un ostacolo che aveva dato non pochi problemi all'imperatore dei francesi, tanto da pensare a un piano per sconfiggere il Regno Unito portando direttamente le sue temibili forze di terra sul suolo britannico. Un'invasione che doveva avvenire con 160mila uomini fatti convergere su Boulogne da ogni parte dell'impero.
Il piano di Napoleone. Il piano aveva però bisogno di una condizione senza la quale sarebbe stato impossibile invadere il territorio della Corona: l'annientamento della flotta britannica. Napoleone conosceva perfettamente le sue forze e i suoi nemici. Sapeva che gli inglesi si potevano sconfiggere, ma per farlo gli occorreva tempo e soprattutto fiaccarne le forze. Uno scontro frontale con la Marina di Sua Maestà sarebbe stato rischioso, specialmente con un impero che ancora era in grado di rifornire di materie prima e oro la madrepatria. La svolta arrivò dalla Spagna. Nel 1804, Madrid decise di allearsi con Parigi offrendo all'imperatore le sue navi e i suoi porti. Una mossa che serviva agli spagnoli per cercare di colpire quell'impero che tanto aveva colpito il loro nelle Indie. Con la Spagna alleata ì, Napoleone pensò che fosse giunto il momento di sbarcare definitivamente in Inghilterra e diede ordine alle due flotte, quella a Brest e quella Tolone, di convergere nell'Atlantico prima per assaltare la Royal Navy negli oceani e poi per liberare i vari porti dell'impero tenuti sotto scacco dalla marina britannica. Solo dopo aver raccolto una flotta che ricordava l'Invincibile Armada, i suoi uomini avrebbero avuto il campo libero per partire da Calais alla volta delle bianche scogliere di Dover.
Inizia la sfida. Il 30 marzo del 1805 scattò il piano di Napoleone. L'imperatore, che già aveva avuto grossi problemi con la flotta sia in Egitto che in Irlanda, ordinò all'ammiraglio Pierre de Villeneuve di salpare da Tolone e dirigersi verso le Antille. Dopo 34 giorni di navigazione, Villeneuve raggiunse i Caraibi, ma nel frattempo, la flotta inglese comandata da Horatio Nelson aveva iniziato una terrificante caccia per riuscire a colpire i francesi nell'Atlantico. In soli 24 giorni, Nelson raggiunse le Antille con le sue navi ma non riuscì mai davvero a prendere i francesi. La flotta napoleonica fece così rotta verso le coste spagnole mentre Nelson prese la via di Gibilterra. Villeneuve si formò a Vigo dopo un primo scontro gli inglesi, poi, non ricevendo alcuna notizia sui movimenti di Londra, decise di fare rotta verso Cadice. Passato poco più di un mese, Villenevue ricevette l'ordine di muovere verso Napoli. La sua fanteria di marina serviva per l'Europa. L'ammiraglio francese prese il largo ma Nelson, che nel frattempo aveva ripreso la caccia del nemico, era in agguato nell'Atlantico. I francesi lo sapevano benissimo: più volte avevano avvistato o avuto notizia della Royal Navy che incrociava Cadice, ma nessuno l'aveva ancora sfidato. Villeneueve decise che era giunto il momento. Alcuni storici dicono perché voleva rifarsi delle accuse di codardia o di incapacità mosse dagli alti piani di Parigi, altri per le capacità di Nelson di ingolosire il nemico mostrandogli una flotta più piccola di quella che era in realtà. Quello che è certo è che Villeneuve e Nelson iniziarono lo scontro. E il luogo prescelto fu Capo Trafalgar, a metà strada tra Cadice e Gibilterra.
La battaglia di Trafalgar. Il 21 ottobre del 1805 le due flotte arrivarono a portata di vista. La Marina inglese si presentò con 27 vascelli, quattro fregate e due corvette, per un totale di circa 17mila uomini e 2.164 cannoni. I francesi (con gli spagnoli) avevano 33 vascelli, cinque fregate e due corvette, per un totale di 21mila uomini e 1326 cannoni. Alle 11:45, Nelson diede l'ordine di impartire un segnale a tutta la flotta. I marinai guardarono verso le bandiere della Victory e lessero tutti un unico messaggio: "England expects that every man will do his duty". "L'Inghilterra si aspetta che ogni uomo faccia il suo dovere". La battaglia ebbe ufficialmente inizio. Nelson aveva previsto ogni mossa e fece partire un piano temerario ma diabolico, che prese di sorpresa l'intera flotta francese al largo di Trafalgar. L'ammiraglio ordinò di schierare la flotta in due colonne: una con 12 vascelli e la "Victory"; l'altra con 15 navi e la "Royal Sovereign" dell'ammiraglio Collingwood. L'obiettivo era quello di sfondare la linea nemica al centro, affondare le ammiraglie e fare in modo che le navi inglesi fossero coinvolte in duelli singoli con i vascelli che rientravano. Collingwood si diresse verso il vascello spagnolo "Santa Ana" colpendo il fianco sinistra della flotta franco-spagnola. Un'ora dopo arrivò la squadra di Nelson, che non solo isolò l'ammiraglia nemica, ma spaccò in due tronconi la flotta avversaria. La mossa fu decisiva e iniziarono gli scontri tra le singole navi. La "Victory" evitò di essere speronata dalla francese "Redoutable" grazie a una virata impartita dallo stesso Nelson, Villeneuve, invece, si arrese consegnandosi alla fregata britannica "Conqueror". Una a una, le navi francesi e spagnole caddero sotto i colpi dei cannoni inglesi e dei suoi uomini. Alle 16 e 40 del 21 ottobre 1805 la battaglia di Trafalgar era finita.
I caduti e le conseguenze. Le perdite tra i franco-spagnoli furono di settemila uomini, tra morti e feriti. Gli inglesi contarono 400 morti e circa 1200 feriti. Tra i caduti, c'era colui che rese possibile il trionfo a Trafalgar, Horatio Nelson. Colpito alla schiena da un tiratore scelto a bordo della "Redoutable", l'ammiraglio inglese resistette agonizzante fino alla fine della battaglia, per poi spirare solo alla fine dello scontro. Un'immagine eroica che gli valse gli onori di tutta la flotta e del Regno che riconobbe in lui l'uomo che schiantò definitivamente ogni sogno di conquista di Napoleone, consegnando al Regno Unito la supremazia sui mari per almeno un secolo.
Dopo il Nilo e il Mediterraneo, Nelson morì coronando in maniera tragica la sua vita al servizio della Corona e della guerra a Napoleone. La Francia rivoluzionaria imparò invece una lezione tremenda: per vincere in mare non basta una flotta, serve una Marina. Napoleone, anche a causa di errori molto grossolani nella gestione delle sue navi, lo comprese troppo tardi.
La rabbia dei vinti. Luigi Iannone l'8 agosto 2020 su Il Giornale. Di seguito, l’articolo integrale (pp.311-316) uscito sull’ultimo numero de IL PENSIERO STORICO (Rivista internazionale di storia delle idee), in cui “parlo” del libro di Robert Gerwarth, La rabbia dei vinti. La guerra dopo la guerra 1917-1923.
Umiliazione, paura e sconcerto furono i sentimenti più comuni che scaturirono dalla carneficina della Prima Guerra Mondiale. Evento totalizzante ed eccezionale che spinse molti intellettuali a produrre romanzi eccelsi, commoventi memoriali, incantevoli e strazianti poesie nell’intenzione di saldare le intuizioni della cronaca più spicciola con uno scenario drammaticamente epico. I risultati furono di grandissimo valore sia sotto il profilo letterario che contenutistico, dei marchi a fuoco nei sentieri della storia. Da Erich Maria Remarque (Niente di nuovo sul fronte occidentale) a Carlo Emilio Gadda, da Emilio Lussu alle liriche di Giuseppe Ungaretti raccolte ne Il porto sepolto o all’arcinoto Addio alle armi di Ernest Hemingway, una serie infinita di capolavori che intercettarono sentimenti e vigliaccherie, eroismi e resoconti narrativi, lirismo a carnalità così come si conviene all’esperienza più dilaniante per l’umano. Ma ad andare oltre, a scorgere l’orizzonte che si approssimava, il futuro prossimo sotto gli occhi di tutti e quello lontano, visibile solo a chi avesse capacità profetiche, fu Ernst Jünger di cui spesso ricordiamo (per contrapporlo proprio a Remarque) Nelle tempeste d’acciaio, uno dei suoi capolavori. Attraverso un originale lirismo che fondeva filosofia e letteratura, riuscì a descrivere la tragicità di quell’evento e, al contempo, quanto attraverso di esso si incarnassero valori individuali e collettivi, si celebrasse lo scontro come una esperienza interiore, una emozione eccitante (e perciò quegli assalti alla baionetta come furie di potente e liberatoria aggressività) e poi fosse anche veicolo divinatorio grazie al quale poter leggere la società del futuro. Pochi, infatti, come Jünger intuirono e anticiparono i tempi. E non solo sul piano meta politico e filosofico ma anche su quello pratico e concreto della geopolitica e delle relazioni tra Stati. Lo scrittore tedesco preavvertì che quel conflitto mondiale chiudeva un’epoca ma ne apriva una nuova con una serie interminabile di interrogativi e di questioni sociali, politiche, economiche irrisolte che tuttavia prendevano una piega non del tutto differente dal passato: «Questa guerra non è la fine, bensì l’inizio della violenza. È la forgia nella quale verrà plasmato un mondo con nuovi confini e nuove comunità. Nuovi stampi richiedono di essere riempiti col sangue, e il potere sarà esercitato con pugno di ferro» (La battaglia come esperienza interiore, 1928). Questo scriveva Jünger, ma è anche ciò che mette a mo’ di esergo Robert Gerwarth nel suo libro La rabbia dei vinti. La guerra dopo la guerra 1917-1923 (Laterza, p.421). Non una scelta casuale. Gerwarth, direttore del Centre for War Studies di Dublino, attraversa con lucidità le vie svelate da Jünger, pur rimanendo ottimamente ancorato alla sua funzione di storico dell’età contemporanea, e quindi di analista poco propenso a sconfinamenti in altri campi. La guerra finì effettivamente nel novembre del 1918 e una lettura superficiale del contesto sociale spingerebbe a conclusioni ovvie: le trincee, i campi di battaglia, i milioni di morti, si sarebbero dovuti palesare come terribili moniti per le future generazioni; condizioni naturali e sufficienti per mettere la parola fine su un capitolo drammatico della vicenda umana. In realtà, siamo solo all’inizio di nuovi sconvolgimenti. Le avvisaglie, e nemmeno di poco conto, già si segnalano in quello stesso periodo e in molti luoghi. Le regioni orientali, per esempio, fino al 1923, vedranno conflitti su larga scala scatenati per le più disparate motivazioni: scontri sociali legati alle condizioni di vita, rivolte causate dai confini territoriali, questioni connesse alle minoranze o alle fedi religiose. In un tale contesto geopolitico, vale a dire in una geografia continentale ridisegnata dopo il 1918 ma priva di qualunque equilibrio, non poche strutture statuali sembravano sfibrarsi e non resistere agli urti che da più parti arrivavano. Regimi e classi dirigenti così come Imperi secolari assistevano al loro tramonto inesorabile e nuove élite cercavano uno spazio vitale. Gerwarth va in profondità analizzando una ad una queste idiosincrasie che riesce a legare e a combinare con un certo acume in un quadro generale che preavvisa la catastrofe successiva che prenderà le forme di un conflitto mondiale a partire dal 1939. Non a caso il sottotitolo La guerra dopo la guerra 1917-1923 fa innestare una serie di riflessioni su quel momento decisivo della vicenda europea quando termina ufficialmente il conflitto sul fronte occidentale, ma continua, con altre intensità e motivazioni, sul fronte orientale. La fine delle ostilità apre però una fase nuova che vede impegnati gli stessi Paesi dell’Europa centrale, travolti da guerre civili, rivoluzioni, sollevazioni popolari, deportazioni, pogrom. Questa volta non più truppe regolari a rappresentare gli Stati nazionali ma civili e membri di formazioni paramilitari. In un contesto del genere si inserisce anche la Rivoluzione d’ottobre che prospetta ulteriori scenari sovversivi e vie di fuga per coloro che anelano lo scontro sociale e politico e non hanno minimamente intenzione di abbandonare le armi. Ecco perché, come ha sottolineato Emilio Gentile, il libro di Gerwarth si apre con due frasi, una di Jünger e l’altra di Churchill. Facce dissimili della stessa medaglia. Ma lo statista inglese, a differenza dello scrittore tedesco che guarda sin da subito molto più in là, ci riporta alle comuni convinzioni del tempo: «Entrambi le parti, vincitori e vinti, erano distrutte. Tutti gli imperatori e i loro successori erano stati deposti (…). Erano tutti sconfitti, tutti duramente colpiti; tutto quel che avevano dato, era stato vano. Nessuno aveva ottenuto nulla (…). I sopravvissuti, i veterani di tante battaglie, ritornarono alle loro case, portando l’alloro della vittoria o la notizia del disastro e le trovarono già travolte dalla catastrofe» (The Unknown war, 1931). Jünger è invece il profeta che indica la via e che sembra determinare anche la visione prospettica di Gerwarth il quale, giustamente, rimane ancorato al quadro dell’analisi storica, perché appare condivisibile il tentativo di smontare, e in maniera pertinente, l’idea allora condivisa da tanti di un mondo pacificato e pronto a cambiare radicalmente direzione di marcia. La guerra sancì dei vincitori, Francia e Gran Bretagna, che grazie alla Conferenza di pace del 1919 riuscirono a imporre i loro diktat, ad estendere i possedimenti nelle colonie, ad imporre esorbitanti riparazioni di guerra ai vinti, come nel caso della Germania, il debito si ampliò a livelli incommensurabili. Fu in quell’anno che in molti si convinsero che la strada tracciata portasse verso una pacificazione non solo tra popoli ma anche ricollocando in maniera organica e definitiva i multiformi tasselli della geopolitica e quindi dei confini regionali e nazionali che trovavano ora una apparente saldatura, a sua volta ritenuta definitiva e chiave di volta per il progresso e la sicurezza («la creazione di un ordine mondiale sicuro, pacifico e duraturo»). Al contrario, sappiamo invece che furono proprio quelle scelte ad esacerbare i posizionamenti e a renderli radicali e non conciliabili, ricreando tensioni che si stavano sopendo solo all’apparenza. Nonostante i proclami, fu la Conferenza di Parigi a far esplodere mille contraddizioni dato che in quella sede si dovettero accettare nuove realtà «che erano già state create di fatto sul campo, limitandosi al ruolo di giudici fra le contrastanti ambizioni delle varie parti in casa». In queste contraddizioni penetra Gerwarth giacché, leggendo l’intera vicenda a posteriori, si dice convinto che creare artificialmente un mondo pacifico fosse un proposito ingenuo e utopistico; men che meno sciogliere tutti i nodi di una pace imposta e non quale prodotto di un processo fondato su “alti compromessi”. Lacerazioni che non si sanarono ma che anzi aggravarono le già precarie condizioni sociali ed economiche di molti paesi ed esacerbarono gli animi a tal punto che scioperi e rivolte furono all’ordine del giorno. Per molti popoli non cambiò infatti assolutamente nulla ma «vi fu solo una continua scia di violenze». L’Europa postbellica degli anni che vanno dalla conclusione ufficiale della Grande guerra nel 1918 al trattato di Losanna del luglio 1923, fu il luogo più violento del pianeta. Dunque Gerwarth abbraccia questa minuziosa operazione analitica e la persegue con una specifica linea interpretativa, fotografando le singole situazioni e, al contempo, un intero periodo che si dimostrò più sanguinoso del precedente. Se solo ricordiamo gli avvenimenti più noti saltano infatti subito all’occhio l’inefficienza e i fallimenti in ogni possibile direzione delle prospettive di pace: vengono così in mente la nascita dell’Unione Sovietica, le vicende legate alla Turchia repubblicana, e poi gli scontri sociali nel cuore dell’Europa (Ungheria, Finlandia, Serbia, Irlanda, Polonia, Cecoslovacchia), i conflitti tra potenze statuali nell’Europa orientale ed infine le questioni legate agli Stati arabi del Medio oriente. Certo, gli eventi russi furono il paradigma di quanto accadde nell’intera Europa, anche per l’impatto concreto sulle popolazioni e l’enorme viluppo di conseguenze sociali visto che «l’ostilità fra i sostenitori del colpo di Stato attuato dai bolscevichi di Lenin nel 1917 e i loro oppositori degenerò rapidamente in una guerra civile di proporzioni senza precedenti che alla fine avrebbe provocato ben più di tre milioni di vittime». Ma rivolte e violenze furono generalizzate. Tutta questa distorsione interpretativa avvenne anche perché i Paesi europei «spesso sono stati descritti o attraverso il prisma della propaganda o assumendo il punto di vista del 1918, quando la legittimazione dei nuovi Stati nazionali dell’Europa centro-orientale esigeva la demonizzazione degli imperi dai quali si erano distaccati». Cosicché non pochi storici occidentali ritennero giusto «interpretare la Prima guerra mondiale nei termini di un’epica lotta tra gli Alleati democratici da una parte e gli Imperi centrali autocratici dall’altra (tralasciando il fatto che l’impero più autocratico in assoluto, la Russia di Nicola II, aveva fatto parte della Triplice Intesa)». Ed infatti, Gerwarth rilegge anche le nuove interpretazioni che mettono in discussione il fatto che gli Imperi centrali «erano più o meno degli Stati canaglia e delle anacronistiche prigioni dei popoli» e riportano il tutto «in una luce molto più benevola o quantomeno sfumata. (…) sarebbe difficile sostenere che l’Europa postimperiale fosse un luogo migliore e più sicuro rispetto a quella del 1914». E invece dalla guerra dei Trent’anni (1618-1648) non era accaduto nulla di simile e «soprattutto guerre civili dai confini così indefiniti e dal carattere così cruento come quelle degli anni successivi al 1917-1918». Dal 1918 al 1923 le vittime furono «più delle perdite subite complessivamente dalla Gran Bretagna, dalla Francia e dagli Stati uniti nel corso della Grande guerra». Di questa che eufemisticamente definiamo disattenzione, Gerwarth dà la colpa a coloro i quali si adeguarono al modello interpretativo di Churchill il quale definì «guerre di pigmei» questi conflitti, con considerazioni così boriose che rinviano a «quell’atteggiamento intriso di pregiudizi antiorientali (e d’impronta implicitamente coloniale) nei confronti dell’Europa dell’Est che, dopo il 1918, prevalse per decenni nei libri di testo occidentali». Una lettura forzatamente monolitica nonostante tutto fosse già mutato con la Rivoluzione d’ottobre. La stessa natura della Grande guerra assunse una natura diversa perché si trattava di «conflitti per la vita o la morte, combattuti per annientare il nemico, etnico o di classe, secondo una logica genocida che in seguito sarebbe diventata dominante in gran parte dell’Europa fra il 1939 e il 1945». Gewarth nota infatti che dal 1917 al 1920 vi furono ben ventisette mutamenti politici violenti e, per esempio, dopo gli Asburgo e la dissoluzione dell’impero, nacquero tanti piccoli Stati caratterizzati «dal capovolgimento delle gerarchie etniche». E così va dritto al punto quando punta l’indice contro la ricerca storica classica che avrebbe peccato di superficialità non riuscendo ad analizzare «in una prospettiva d’insieme le esperienze di tutti gli Stati europei sconfitti nella Grande guerra». Esclusa l’Italia, nei Paesi europei vincitori «non si registrò un sostanziale aumento della violenza politica, anche perché la vittoria militare aveva giustificato i sacrifici degli anni di guerra e legittimato ulteriormente le istituzioni». Ma la rimodulazione della geografia politica portò alla disgregazione e al compattamento di nuove entità statuali, o modificate rispetto agli assetti prebellici, e milioni di persone si trovarono in una sorta di girone infernale da cui non sarebbero potuti uscire se non con ulteriore violenze. Se solo pensiamo alla Jugoslavia, quella sorta di impero in miniatura nel cuore del Vecchio continente, e «al capovolgimento delle gerarchie etniche interne», possiamo intravedere alcune delle cause che portarono al Secondo conflitto mondiale. Oltretutto, questi equilibri smantellati e posti malamente in ordine non potevano essere contenuti per lungo tempo. Ed è a questo punto che Gewarth fa notare che nei territori degli ex imperi dove le strutture statali avevano funzionato efficacemente «il ruolo degli eserciti nazionali venne assunto da milizie di vario orientamento politico e la linea di demarcazione fra amici e nemici, fra combattenti e civili, divenne terribilmente incerta».
Una non aggressione è il contrario di un'aggressione? Storia del patto Ribbentrop Molotov, l’alleanza tra Hitler e Stalin. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 20 Settembre 2020. Due anni fa, avendo trovato un filmato che ancora non conoscevo, scrissi un lungo articolo sull’alleanza fra Hitler e Stalin, nota come Trattato di non aggressione Ribbentrop-Molotov, in cui descrivevo quel che chiunque può vedere nei filmati: i generali e i soldati, sia dell’esercito nazista che di quello sovietico partecipano a una comune parata militare a Brest Litovsk (oggi Brest in Bielorussia). Lì l’Armata Rossa rende onore alla Wehrmacht nazista con fanfare e festoni e con bandiere con stella falce e martello più svastica, pranzo di gala con limousine nere e volti sparuti di bambini polacchi ebrei che non sanno ancora quel li aspetta. Quel che aspettò me fu una caterva di insulti su questo tono: «Come ti permetti lurido mascalzone di infangare l’onore dell’Unione Sovietica che ha da sola sostenuto e respinto con più di venti milioni di morti l’invasione nazifascista?». E poi, quanto al “patto di non aggressione” Ribbentrop-Molotov mi veniva spiegato per l’ennesima volta che si trattò di un capolavoro di astuzia di Stalin il quale, perfettamente consapevole del fatto che prima o poi Hitler avrebbe aggredito l’Urss, stipulò quel “patto di non aggressione” che gli fece guadagnare tempo prezioso durante il quale le divisioni dell’Armata Rossa e le industrie belliche furono trasferite fin sugli Urali, sicché poi quando venne il momento, l’Urss guidata da Stalin e un gruppo di magnifici generali seppero resistere, e conquistare Berlino, costringendo Hitler al suicidio e la sua cricca alla forca. Comunque, una non-aggressione è pur sempre il contrario di una aggressione, o no? Ecco il punto. No. Tutto quel che c’è da sapere su questa storia è pubblico ed accessibile a tutti. Ma l’intera storia non è stata mai raccontata se non in modo sfuggente. La storia del “patto” è tragicamente imbarazzante sia per come cominciò che per come finì. Cominciò quando, nel luglio del 1939, Hitler pensò che fosse ora di riprendere la conquista incompiuta in Europa, dove aveva già occupato tutte le zone tedescofone, compresa la Cecoslovacchia, e l’aveva fatto con il permesso di Francia e Inghilterra alla conferenza di Monaco del 1938, organizzata da Benito Mussolini. Stalin a Monaco non fu invitato. E neanche i cecoslovacchi furono invitati. Stalin se la legò al dito, considerando i paesi capitalisti e imperialisti (ma non la Germania nazional-socialista) come traditori. Francia e Inghilterra a Monaco avevano avvertito Hitler che la Cecoslovacchia era da considerare l’ultimo acquisto tedesco e che se per caso Hitler avesse attaccare la Polonia, Francia e Inghilterra sarebbero intervenute in sua difesa. Il primo ministro inglese Neville Chamberlain tornò a Londra sventolando sorridente un trattato firmato anche da Hitler che avrebbe dovuto garantire la pace per vent’anni. Fu allora che Winston Churchill commentò: «Hanno svenduto l’onore per la pace e otterranno il disonore e la guerra». La Polonia stessa pretese a Monaco un pezzo di Cecoslovacchia. Tutti mostravano enormi appetiti dopo la fine della Prima guerra mondiale, che aveva scoperchiato un’Europa di mille lingue e costumi, senza confini, ma con molte ambizioni e dagli anni Venti in poi era stata un teatro di colpi di mano, rivoluzioni mancate e formazioni di milizie. Hitler l’aveva scritto con estrema chiarezza nel suo Mein Kampf: al mondo sarebbero dovute restare soltanto due potenze di stirpe tedesca, la Germania e la Gran Bretagna, che considerava un Paese consanguineo con cui sperava di fare la pace. Che non venne mai. Quanto all’Est, era stato molto chiaro: tutti gli slavi andavano trattati da sotto uomini, da sottomettere o eliminare e comunque da cacciare dalle grandi pianure destinate a costituire lo «spazio vitale» del grande e potente «popolo tedesco». Stalin si era fatto tradurre personalmente il Mein Kampf e lo aveva letto sottolineandolo con una matita azzurra. In quel libro erano anche nominati tutti i capi della rivoluzione bolscevica, lui compreso, come assassini, banditi da strada e – nel caso di Stalin – ex rapinatori di banche. Stalin non era un tipo emotivo. Non era neanche un grande oratore. Diversamente da Hitler e Mussolini scriveva accuratamente i suoi discorsi diligenti e ideologici, ma senza slancio passionale e con un inguaribile accento georgiano. Tutti lo descrivono come paranoico, ma probabilmente aveva ben presente la posta in gioco in una partita di potere così lunga e complessa come la formazione dell’Urss e le guerre da combattere. Prima una guerra proprio con la Polonia, persa malamente nel 1920 da lui e da Trotsky. Poi la interminabile guerra civile con gli eserciti stranieri e quelli dei generali “bianchi”. Infine una guerra sotto casa, al confine fra Siberia e Manciuria, dove si erano installati da un decennio i giapponesi, che provocavano continui scontri di frontiera. In questi si faceva le ossa uno dei futuri eroi, il generale Zukhov, uno dei pochi che si salvò dalle purghe che nel 1937 portarono al plotone d’esecuzione quasi tutti gli alti e medi ufficiali, partendo dal divo generale Michail Nikolaevic Tuchacesvkij, maresciallo dell’Unione sovietica a 44 anni e inventore dell’uso moderno dei carri armati e dell’aviazione, di cui Stalin era gelosissimo fin dal 1930 quando lo chiamava “il piccolo Napoleone”. In quella mattanza di generali e marescialli, i tedeschi avevano messo lo zampone con la diffusione di documenti falsi preparati da Renhard Heydrich, il gelido comandante delle SS di cui Hitler diceva: «Quell’uomo ha un cuore di ferro, ne sono orgoglioso ma mi fa paura». Le carte tedesche furono fatte passare per le mani del presidente cecoslovacco Benes e dalle sue a quelle di Stalin, il quale però non le prese in grande considerazione, perché aveva già deciso di far fuori quell’astro nascente che gli ricordava Napoleone. Non erano tempi confrontabili con i nostri, se non per il culto della menzogna storica, il sacro Graal delle bugie per cui ognuno è sacrificabile. I “trattati di non aggressione” erano di gran moda negli anni Trenta perché potevano essere disdetti in qualsiasi momento, ma servivano momentaneamente per fornire reciproche garanzie. Il punto era che il “patto di non aggressione” offerto dai tedeschi ai sovietici era una scatola di cioccolatini con doppio fondo. In superficie, uno strato di parole diplomatiche che certificavano la stabilità delle relazioni fra i due Paesi. Ma nel doppiofondo c’era un altro documento in cui si diceva che quando la Germania avesse ritenuto di agire in Polonia, l’Urss doveva sentirsi libera di agire in una serie di Paesi concordati. Questi Paesi erano la Finlandia, le tre repubbliche Baltiche, parte della Romania e parte della Bielorussia. Come era nato questo accordo? Da un discorso di Stalin a Mosca in cui aveva compiuto una distinzione fra la Germania nazional-socialista e le potenze imperialiste occidentali. Ci fu molto brusio nelle cancellerie perché von Ribbentrop, ministro degli Esteri tedesco, insistette molto con Hitler affinché prendesse in considerazione l’eventualità che Stalin potesse essere considerato almeno nel medio periodo un alleato. Hitler non aveva alcuna personale simpatia per Stalin e mandò il suo fotografo personale insieme alla delegazione che partiva per Mosca, affinché fotografasse i lobi delle orecchie di Stalin per vedere se l’attaccatura fosse di tipo semita o no. Non risultò semita e questa era già una buona cosa. Stalin, viceversa – le testimonianze in proposito sono abbondantissime – aveva un debole proprio per alcuni aspetti canaglieschi di Hitler. Apprezzò moltissimo quando il Führer, un anno dopo essere stato nominato cancelliere, decise di liberarsi di Ernst Roehm e delle sue milizie ormai inutili e sgradite, facendo trucidare più di centocinquanta uomini o costringendoli al suicidio. Roehm, come molti dei suoi uomini, erano omosessuali e furono colpiti di notte nei loro letti insieme ai loro giovani amanti. Quando Stalin conobbe i dettagli di questa storia scoppiò in una esclamazione di entusiasmo: «Ma è un vero diavolo, questo Hitler! È bravissimo!».
Storia dell’inganno di Yalta e dell’alleanza taciuta tra Hitler e Stalin. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 27 Settembre 2020. Hitler nel 1939 non credeva affatto che Francia e Inghilterra avrebbero fatto sul serio una vera guerra, malgrado quel che avevano minacciato a Monaco. E dopo essersi consultato con i suoi generali che in proposito avevano pareri diversi, decise di infischiarsene di eventuali dichiarazioni di guerra della Francia e dell’Inghilterra. Per quel che gli risultava, quei due Paesi non avevano la minima voglia di combattere e cercavano solo di fare il possibile per salvare la faccia. Hitler ne concluse che gli sarebbe convenuto liberarsi definitivamente della Polonia, recuperando le minoranze linguistiche tedesche e iniziando la liquidazione fisica della popolazione ebraica che in Polonia era di circa tre milioni. Il vero problema, spiegò Hitler al suo stato maggiore, non era ciò che avrebbero fatto la Francia e l’Inghilterra, che considerava militarmente insignificanti, ma come avrebbe reagito Stalin e l’Unione Sovietica. E se Francia e Inghilterra l’avessero davvero attaccato da Occidente mentre la Russia lo colpiva da oriente? Hitler era sicuro che la Germania avesse perso la Prima guerra mondiale per il fatale errore di averla combattuta su due fronti, con la Francia e con la Russia. Non sarebbe mai più dovuto accadere. Di conseguenza, per prendere la Polonia non vedeva altra soluzione che fare a Stalin un’offerta che non potesse rifiutare. Stalin del resto aveva pronunciato a marzo un discorso in cui distingueva fra potenze capitalistiche imperialiste e Germania Nazista. Il discorso era stato segnalato all’ambasciatore tedesco von Shulembrug che l’aveva segnalato al ministro degli esteri von Ribbentrop il quale a sua volta l’aveva sottoposto ad Hitler con malcelato entusiasmo: “A mio parere, disse, Stalin non è più quel bandito bolscevico che conoscevamo, ma si è tra trasformato in un accorto nazional socialista”. Hitler non era così entusiasta, ma prese atto. E fece sondare Mosca: “Dicevate sul serio circa la differenza fra la Germania e gli Stati imperialisti?” Stalin stesso fece rispondere a Molotov che quello era esattamente il senso delle sue parole. Le trattative procedettoro veloci e il 23 agosto von Ribbentrop e tutto il suo staff erano a Mosca per essere ricevuti da Stalin e Molotov per la grande cerimonia del “Trattato di non aggressione”. Non una parola sugli allegati interni. Passò poco più d’una settimana e la Germania invadeva la Polonia. I polacchi sapevano perfettamente quel che stava per succedere alla loro frontiera e avevano deciso di mobilitare il loro esercito. Ma Parigi e Londra sconsigliarono caldamente: “Una mobilitazione sarebbe sfruttata da Hitler come un gesto ostile”. All’alba del primo settembre cominciò l’invasione dopo una messinscena di alcune SS travestite da militari polascchi che avevano attaccato una postazione tedesca facendosi poi inseguire nel territorio polacco. Una nave da guerra tedesca apriva il fuoco sulla Polonia e partivano stormi di cacciabombardieri della Luftweaffe. Nacque la leggenda secondo cui i polacchi erano talmente stupidi da caricare i carri armati con la cavalleria, ma le cose stavano diversamente. I poveri polacchi erano sicuri che Francia e Inghilterra sarebbero immediatamente entrate in guerra e che i francesi avrebbero attaccato i tedeschi alle spalle. Non successe nulla di tutto questo e Londra e Parigi persero tre giorni di tempo per dichiarare lo stato di guerra con la Germania. Finalmente la guerra fu dichiarata e non successe nulla. I francesi uscirono dalla fortificazione della Linea Maginot per un breve attacco ai tedeschi ma tornarono di corsa dietro le loro linee. I polacchi erano soli. Non sapevano nulla dell’imminente attacco sovietico e anzi sperarono che l’Urss venisse in qualche modo in loro soccorso. Anche Hitler aspettava che Stalin si decidesse a far varcare la frontiera polacca dall’Armata Rossa, ma Stalin fece spiegare attraverso Molotov all’ambasciatore tedesco di aver bisogno di una causa politica che non lo facesse passare per un invasore. Doveva far sembrare l’intervento sovietico come una operazione si soccorso alle minoranze etniche stanziate in Polonia come gli ucraini e i bielorussi, che restavano senza protezioni. Hitler si infuriò e fece una scenata a Ribbentrop dicendo che Stalin restava uno slavo come tutti gli altri, un mercante di tappeti alla ricerca di pretesti. Ribbentrop insistette molto con Molotov il quale spiegò che Stalin non voleva che i due eserciti, Wermacht e Armata Rossa combattessero restando troppo vicini fra loro e che apparissero come un fronte unico, che era esattamente quanto Hitler sperava. Hitler scalpitava per il ritardo sovietico, anche perché nei protocolli segreti l’accordo era che la Russia avrebbe ottenuto il 51 per cento della Polonia mentre alla Germania sarebbe andato il 49. I tedeschi intanto inauguravano la pratica del terrore assoluto contro i civili, cosa che poi non fecero, per esempio, in Francia. Ma Stalin seguitava a non muoversi. Von Ribbentrop pressato da Hitler ripeteva all’ambasciatore tedesco a Mosca Friedrich-Warner Schulemburg di fare pressione, ma di fronte all’atteggiamento impassibile di Stalin, Hitler ordinò al suo generale Heinz Guderian (l’inventore del blitz-Krieg la guerra lampo) di varcare la linea stabilita segretamente per separare le due metà della Polonia, quella tedesca da quella russa e Guderian avanzò nella zona polacca destinata ai russi andando ad occupare la città di Brest Litovsk. A quel punto l’Armata Rossa ebbe finalmente l’ordine di invadere la Polonia e le prime divisioni guidate dal giovane generale Semyon Krivoshein piombarono su Brest Litovsk dove i nazisti li attendevano per le consegne. Invito tutti i lettori a guardare l’intero filmato, circa dieci minuti, in cui ufficiali sovietici e nazisti si stringono la mano, si scambiano sigarette, alzano e ammainano bandiere, salutano l’inno dell’altro e dopo un formale ricevimento in alta uniforme terminano la festa con una comune parata militare. Quei filmati sono una prova, semmai ce ne fosse bisogno, del fatto che il trattato di non aggressione era un vero trattato di aggressione o, come dice oggi lo storico Roger Moorhouse autore di Il patto del diavolo fra Hitler e Stalin 1939-41 quel patto «aveva un solo scopo e un solo significato: dare il 23 agosto del 1939 la luce verde di Stalin alla guerra di Hitler. Ma da allora, per gli storici sovietici quel patto fu giustificato come il bilanciamento del patto che Francia e Inghilterra avevano firmato nel 1938 a Monaco, autorizzando Hitler ad occupare la Cecoslovacchia». Le clausole segrete furono tenute nascoste fino al 1948 quando furono trovate dagli americani negli archivi tedeschi e nel 1989 ufficialmente confermate da Michail Gorbaciov, insieme alla conferma che la strage di ventimila giovani ufficiali polacchi uccisi con un colpo alla nuca nella foresta di Katyn, era stata perpetrata dalla Nkvd, l’antenato del Kgb, ed attribuita ai tedeschi. Ma questi fatti non svelano tutto il mistero di una tale incredibile storia. Per mantenere ad un basso livello di visibilità l’alleanza nazi-sovietica con conseguente spartizione dell’Europa dell’Est (che poi Stalin riuscì a farsi confermare a Yalta dagli alleati occidentali) furono usate molte strategie ed intimidazioni che hanno ancora una presa emotiva profonda. In quegli eventi è maturata e ancora abita tutta la teoria della doppiezza e dell’intimidazione. E, poiché dura ancora ai nostri giorni quando tutti i protagonisti di quel passato sono quasi tutti morti, è utile chiedersi perché la macabra farsa su quel che realmente accadde continui ancora.
Il patto Ribbentrop-Molotov. Così Hitler si prese gioco di Stalin e catturò suo figlio. Paolo Guzzanti su Il Riformista l'1 Ottobre 2020. L’ultimo fu un soldato tedesco comunista arrivato a nuoto fra gli avamposti sovietici. Non parlava russo, ma riuscì a spiegarsi: «ich bin ein kamarade e noi vi attaccheremo domani all’alba, se non fate qualcosa sarete tutti morti». Non era il primo. Fonogramma al Cremlino: il soldato tedesco è identificato, interrogato di nuovo e ripete la sua storia. Qualcuno corre a riferirla a Stalin che commenta con disprezzo: «Adesso abbiamo anche i provocatori nuotatori. Fucilatelo». In realtà quel soldato fu l’unico a non lasciarci la pelle: dovevano metterlo al muro all’alba, quando l’attacco tedesco iniziò davvero. Richard Sorge, il principe delle spie sovietiche, dalla sua tana nell’ambasciata tedesca di Tokyo dove si fingeva uno zelante nazista, aveva tempestato Mosca di fonogrammi con tutti i dettagli dell’attacco. Stalin aveva alzato le spalle: «Disinformazione giapponese». Quando Sorge fu arrestato, rifiutò di scambiarlo con agenti giapponesi e l’agente fu impiccato. I messaggi di Winston Churchill e di Franklin Delano Roosevelt lo mandavano in bestia: «È incredibile l’impegno con cui questi borghesi imperialisti si sono messi per far fallire il nostro patto con la Germania». Come molti storici diranno anni dopo i fatti, purtroppo sembra proprio che Josif Stalin nel 1941, mentre si ammassavano alle frontiere sovietiche divisioni per un totale di tre milioni di soldati, carri, aerei, artiglieria, linee di rifornimento, considerasse Hitler un interlocutore leale. Secondo molti storici, l’unico di cui si fidasse davvero. Tutti vedevano in Russia ciò che stava accadendo nel giugno del 1941, ma tutti avevano anche imparato che non era mai il caso di parlarne con Stalin: fucilazione, galera o sparizione automatica erano garantite. Ma c’è di peggio e lo ha rivelato nelle sue memorie il maresciallo Zukhov, uno degli artefici della vittoria finale russa: «Non potevo evitare di affrontare la questione con Stalin, neanche se mi avesse arrestato. Così gli chiesi udienza, lo pregai di ascoltarmi con calma e di guardare i dati che gli portavo. Mostrai lo schieramento tedesco alle nostre frontiere e l’elenco di oltre trenta testimoni che avevano avvertito dell’imminente attacco intorno alla fine di giugno». Stalin annuiva tacendo. Quando il maresciallo ebbe finito, Stalin aprì una cartella e ne estrasse dei fogli manoscritti che porse al Zukhov il quale racconta: «I primi erano stati scritti da Stalin a Hitler: una lettera in cui con tono allarmato gli chiedeva ragione di quell’ammassamento di truppe che alimentavano le voci su un imminente attacco tedesco». Chiedeva spiegazioni convincenti. Seguiva poi su altri fogli manoscritti la risposta di Hitler che diceva: «Vi do la mia parola di capo di Stato e di soldato che la Russia sovietica non ha nulla da temere da noi. È vero tuttavia che i continui bombardamenti inglesi mi hanno costretto a spostare le armate a ridosso della frontiera sovietica per proteggerle, ma ho preso una decisione finale. Come lei ben sa, signor Segretario generale, in questi mesi ho fatto di tutto per convincere gli inglesi ad un armistizio perché ai tedeschi non piace combattere contro un popolo che considera fratello. Ho anche dato loro una prova del mio atteggiamento consentendo per tre giorni la ritirata da Dunkirk dove avrei potuto distruggere o catturare il loro corpo di spedizione. Ma ora la mia pazienza è finita e ho deciso di scatenare la potente armata ferma lungo le vostre frontiere per sferrare l’attacco definitivo all’isola britannica per mettere fine a questa sciocca guerra. Nel frattempo devo avvertirla, signor Segretario Generale, che alcuni miei ufficiali sono del parere di attaccare la Russia anziché l’Inghilterra e ho dovuto tenerli a freno. Ciò significa che non posso escludere qualche provocazione di alcuni di loro che potrebbero essere tentati di penetrare nel vostro territorio. In questo caso vi prego di informarmi immediatamente attraverso corriere aereo dell’accaduto e vi supplico di non complicare le cose con reazioni militarmente eccessive che renderebbero difficile riportare le cose al punto di partenza. Avvertitemi se accadesse e io interverrò immediatamente». Zukhov spiegò che le due lettere materiali non esistono più ma che resta agli atti con gli stessi concetti e le stesse parole un comunicato dell’agenzia ufficiale Tass redatto dallo stesso Stalin in cui si smentisce nella maniera più categorica una qualsiasi intenzione tedesca di aggredire l’Unione Sovietica e in cui si aggiungeva anche che qualsiasi notizia di aggressione tedesca si dovesse considerare come provocazione. Il comunicato della Tass esiste tuttora e riferisce, sia pure senza citare la fonte, le stesse parole che Zukhov lesse sulla lettera inviata da Hitler a Stalin. Arrivò finalmente l’alba del 22 giugno. La Wermacht scatenò su tre direttrici una forza d’invasione di circa tre milioni di soldati, forze corazzate, cavalleria, rifornimenti, artiglieria e linee di rifornimenti, accompagnati dall’aviazione di Goering scatenata nel distruggere gli aerei russi al suolo. L’esercito tedesco non incontrava quasi resistenza e catturava centinaia di migliaia di soldati sovietici sbalorditi e disarmati. Zukhov telefonò alle quattro del mattino a Stalin: «L’invasione è cominciata. Vi attendiamo al Cremlino». Stalin arrivò e tutti erano terrorizzati dalle sue imprevedibili reazioni, più che dalla minaccia dei tedeschi. Molotov raccontò di aver incontrato von Schulemburg, l’ambasciatore tedesco, in lacrime. L’ambasciatore aveva forti sentimenti filorussi e finirà impiccato ad una corda di pianoforte appesa a un gancio da macellaio perché prese parte al complotto di von Stauffenberg per uccidere Hitler con una bomba. Tutta l’aristocrazia militare delle grandi famiglie finirà ai ganci. L’ambasciatore disse: «Sono settimane che cerco di avvertirvi di quel che si sta preparando e adesso è troppo tardi». Il ministro degli esteri Molotov replicò: «Che abbiamo fatto per meritare questo? È possibile fare delle concessioni e risolvere l’equivoco?». Anche Stalin diceva in uno stato di catatonia balbettante: «Che cosa gli abbiamo fatto? Perché ci trattano così?». Poi ricordò le raccomandazioni scritte di Hitler: «Date ordine di reagire soltanto in modo proporzionato e che a nessuno salti in testa di varcare il confine tedesco». Cominciò a chiedere e suggerire che la questione potesse essere risolta per vie diplomatiche. Poi, stremato e sotto un evidente stato di choc, si fece portare nella sua dacia da cui non dette notizie per sei giorni mentre le armate di Hitler dilagavano verso Leningrado, Mosca e Kiev. Si scoprirà poi che i tedeschi non avevano ancora deciso bene che fare, una volta entrati nell’immenso territorio sovietico e questo li perderà: prendere Mosca? Prendere i pozzi del Caucaso? Prendere Stalingrado? La Russia, come aveva constatato Napoleone, è infinita e non ha senso invaderla: ogni volta l’orizzonte si sposta di migliaia di chilometri e intanto arrivano l’inverno, la fame e le malattie. Al settimo giorno il gruppo dirigente del partito decise di andare a trovare Stalin nella sua dacia. Stalin confiderà di aver nascosto un revolver sotto il cuscino della sua poltrona. C’erano tutti, da Beria a Malenkov a Krusciov. Il figlio di Beria (il georgiano capo della NKVD, cioè della polizia politica, e torturatore al servizio personale di Stalin che fu fucilato dopo la morte di Stalin) racconterà che suo padre e Stalin la sera prima si erano visti nella dacia e avevano brindato allo scampato pericolo: «Visto? Tutti quegli uccelli del malaugurio ci davano nelle mani dei tedeschi e invece non è successo niente. Faremo i conti con tutti i traditori che hanno diffuso il panico». Non era mai accaduto che il gruppo dirigente del partito si recasse nell’abitazione privata del segretario generale. Vedendoli, Stalin disse alzando la voce: «Perché siete venuti a casa mia?». Risposero quasi tutti insieme, con la voce più forte di Nikita Krusciov che sarà il suo successore: «Compagno Stalin, la patria ha bisogno di voi. Il partito vi chiede di tornare immediatamente al Cremlino per guidare l’Urss nella sua ora più buia». Stalin era sollevato. Dunque, non erano venuti per destituirlo o peggio arrestarlo o, peggio, per ucciderlo. Chiese notizie del fronte. Erano catastrofiche. Accennò per l’ultima volta alla possibilità di proporre ai tedeschi compensazioni territoriali. Molotov gli disse che ogni linea con Berlino era chiusa. Gli dissero che intere divisioni dell’Armata rossa si erano arrese senza combattere perché non avevano armi. Rispose che la politica dei prigionieri di guerra era una sola: sono tutti traditori e i loro parenti vanno subito arrestati. Non si faranno scambi di prigionieri. E non ne fece neanche quando seppe che suo figlio, sottotenente, aveva dovuto arrendersi: «Si sarebbe dovuto suicidare sul posto», fu il suo commento. Aveva perso la scommessa. Hitler lo aveva giocato.
Le occupazioni dei nazisti? Furono illeciti giuridici. Nel 1940, poco dopo dell'entrata in guerra dell'Italia lo studioso scrisse un articolo scomodo per il regime. Francesco Perfetti, Sabato 17/10/2020 su Il Giornale. Nella tarda primavera del 1941, in piena guerra, venne pubblicato dall'Ispi (l'Istituto per gli studi di politica internazionale) un volumetto che affrontava, in chiave storico-giuridica, il tema della natura delle occupazioni da parte della Germania dei territori fino ad allora conquistati o attraversati dalle sue truppe: Polonia, Danimarca, Norvegia, Paesi Bassi, Lussemburgo, Belgio e Francia. Il saggio era opera di un allora giovanissimo studioso, Enrico Serra (1914 - 2007), destinato a diventare uno dei maggiori storici italiani nel settore della storia delle relazioni internazionali. Laureato in giurisprudenza a Modena, nel 1937 era entrato a far parte dell'Ufficio Studi dell'Ispi con l'incarico di coadiuvare l'illustre giurista Giorgio Balladore Pallieri nella compilazione dell'Annuario di diritto internazionale. Ma ben presto, all'interno dell'istituto, fondato con lungimiranza da Alberto Pirelli nel tentativo di sprovincializzare la cultura storico-politico-giuridica del tempo, egli finì per occuparsi di molte altre cose, a cominciare dalla rivista Relazioni Internazionali, ed ebbe modo di conoscere e frequentare storici illustri e giovani promesse della storiografia come, per esempio, Federico Chabod, Walter Maturi, Luigi Salvatorelli, Federico Curato. All'Ispi, malgrado si fosse in pieno regime, spirava qualche refolo di anticonformismo e di ciò rimane traccia negli articoli e nei commenti di politica estera che Serra, primo fra tutti, era solito scrivere per Relazioni Internazionali che allora, alla vigilia del conflitto, stava attraversando il suo momento magico, anche perché sulle sue pagine era possibile leggere, oltre che analisi approfondite, documenti ufficiali di politica estera. La piccola pattuglia di studiosi dell'Ispi, pur non occupandosi esplicitamente di politica, faceva tutto il possibile perché l'Italia rimanesse fuori dal conflitto. Il saggio di Enrico Serra su L'occupazione bellica germanica negli anni 1939-1940 che è stato ripubblicato a cura del figlio dell'autore, Maurizio Serra, anch'egli illustre studioso, in una raffinata edizione (La Finestra Editrice, pagg. IV-104, euro 18), nacque nel clima sottilmente anti-tedesco del laboratorio intellettuale dell'Ispi. Dopo aver ricordato rapidamente le fasi dell'avanzata fulminea delle truppe germaniche dalla Polonia fino alla Francia, l'autore vi analizza gli effetti della occupazione bellica di quei territori sulla legislazione e sulla organizzazione amministrativa oltre che, naturalmente, sugli abitanti: un quadro articolato e originale di quel periodo e di quegli eventi centrato su aspetti di solito trascurati dalla storiografia tradizionale. Alla base dell'analisi di Serra c'era la convinzione che la debellatio militare di uno Stato e l'occupazione dei suoi territori non comportassero automaticamente un trasferimento di sovranità all'occupante, come si era creduto fino al XVIII secolo, perché nei secoli successivi, soprattutto grazie al diffondersi del principio di nazionalità, si era affermata un'altra concezione che legava la sovranità nazionale di uno Stato non più solo al possesso del territorio, ma anche a fattori di natura diversa, etnici, storici, linguistici, religiosi e via dicendo. Partendo da queste premesse, Serra non poteva non rintracciare veri e propri illeciti giuridici nella prassi bellica tedesca. Le annessioni dei territori polacchi, per esempio, in questo quadro apparivano illegittime, mentre la Polonia continuava a combattere la guerra sia pure dal territorio di Paesi alleati e amici. In quel momento tale tesi, per quanto giuridicamente fondata, era quanto meno ardita e politicamente scorretta, tant'è che - forse sarebbe stato bene ricordarlo in una nota alla riedizione del saggio - si ritenne opportuno, e prudente, espungere alcune pagine finali dalle copie consegnate per legge alle autorità competenti. Al di là del suo interesse storico, che consente di guardare agli avvenimenti militari e politici del tempo da un angolo visuale poco frequentato, il saggio di Enrico Serra è importante dal punto di vista metodologico e scientifico, perché rappresenta il primo tentativo di ancorare, come ha osservato il curatore, alle fonti classiche e positive del diritto internazionale, l'allora nascente disciplina della storia delle relazioni internazionali. Una disciplina della quale Enrico Serra, rientrato dopo la guerra e la Resistenza nella vita culturale e accademica, divenne uno dei padri riconosciuti.
Ottanta anni fa la Battaglia d’Inghilterra. Davide Bartoccini il 17 luglio 2020 su Inside Over. Francia, 10 luglio 1940. Lungo tutta la costa occidentale della grande potenza appena piegatasi alle divisioni di Hitler, le squadriglie di bombardieri in picchiata “Stuka”, che sono già divenuti noti alle cronache durante la rivoluzione spagnola, e quelle dei nuovi e potenti bombardieri medi Heinkel 111, sono riunite davanti alle mappe di generose dimensioni che indicano gli obiettivi al di là della Manica. I piloti della Luftwaffe hanno un compito preciso: annientare la Royal Air Force, distruggere aerodromi, aeroplani, e privare a ciò che resta dell’esercito britannico, che ha appena battuto in ritirata da Dunkerque, ogni genere di copertura dal cielo. Una volta conquistata la “superiorità aerea”, i paracadutisti tedeschi pioveranno da cielo, e le divisioni corazzate mosse da voluminose chiatte attraverseranno quello stretto braccio di mare – salpando da Cherbourg, Le Havre, Calais e dalla stessa Dunkerque – per invadere l’isola d’Albione. Raggiungeranno Londra e costringeranno Churchill o il Re Giorgio alla resa. L’operazione pianificata dagli strateghi tedeschi prende il nome in codice di “Leone Marino”: uno sbarco in Normandia all’incontrario. Dall’altra parte della Manica li attendono i “giovani dai capelli lunghi” con indosso l’uniforme della RAF, come li descriveva lo scrittore di guerra Richard Hope Hillary. I piloti da caccia britannici che in numero largamente inferiore, 1 ogni 3, non avevano avuto la meglio nella cosiddetta “guerra fasulla” di Francia, e sui loro caccia Hurricane e Spitfire si preparavano ad una difesa strenua e disperata. Ventitré squadroni per coprire 400 km di fronte nell’aria. Sarebbero diventati sempre meno. Sarebbero scesi alla proporzione di un pilota inglese contro cinque piloti tedeschi. Ad agosto sarebbero stati già “pochi”. Gli inglesi, nonostante in minoranza, tengono un asso nella manica – per far un composto gioco di parole -, il “sistema d’intercettazione Downing”. Qualcosa che non era mai stato provato prima e poteva risolversi in un enorme fallimento, quanto in una rivoluzione completa della guerra aerea per il suo eventuale successo. Il “gioco”, se così vogliamo chiamarlo, era tutto basato sul funzionamento di una nuova complessa tecnologia: quella del “radar“. Grandi antenne che troneggiavano sulla costa, da Dover a Ventnor, dovevano captare il segnale degli stormi di bombardieri nemici – i “banditi” in gergo – diretti sulla costa e passare le coordinate al quartier generale che avrebbe a sua volta impartito l’ordine ai vari settori – quattro: 10°, 11°, 12° e 13° – i quali avrebbero ordinato immediatamente lo “scramble” (decollo immediato, ndr) alle squadriglie di caccia per intercettarli e abbatterli. La battaglia dei cieli di protrarrà per due mesi. Ogni giorni il Feldmaresciallo Hermann Goering, il delfino preferito di Hitler, ordinerà ai suoi bombardieri di attaccare obiettivi militari e civili in tutta l’Inghilterra settentrionale. Ogni giorno i piloti da caccia inglesi del maresciallo dell’Aria Hugh Dowding correranno ai loro apparecchi per alzarsi in volo e difendere, ovunque e comunque il suolo patrio. Le squadriglie verranno decimante. Di 12 velivoli a volte né tornano la metà, a volte meno. Si arruolano piloti ovunque, anche dilettanti, piloti della domenica. Dodici ore di volo per addestramento, il tempo di prendere familiarità con i comandi di un aereo che non è da turismo; di imparare a far entrare un bersaglio veloce come un Bf-109 nemico nel collimatore, e di saper fare fuoco al momento giusto, per colpirlo e abbatterlo, magari con un tiro di deflessione. Ma non basta. Molti trovano la morte alla prima sortita. Altri invece, appena ventenni, diventano “assi” in appena una settimana, abbattendo cinque aerei nemici e alzando il morale di una nazione distrutta, che però offre da bere in tutto il regno quando incontra un ragazzo che porta le ali sul petto. Sono l’unica e ultima speranza dei civili, che vivono le notti di terrore nelle profondità della gallerie della metro di Londra per proteggersi dalle bombe. Uomini e donne che vede le proprie case distrutte, che sono costretti a separarsi dai propri bambini mandati in campagna, nel nord, per cercare di tenerli al sicuro, quanto più distante dalla guerra totale. Mano a mano che la più grande battaglia dell’aria mai combattuta si protrae e si consuma, i 2.600 bombardieri e aerei da caccia in forza alla Luftwaffe tedesca diminuiscono, giorno dopo giorno, sotto le raffiche di appena 500 caccia inglesi. Un numero tutto sommato costante, data la possibilità di mantenere attiva la produzione nelle fabbriche che erano “fuori portata”; ma che fa sempre fatica a trovare piloti in grado di condurli in battaglia. Muoiono a dozzine ogni giorno. Molti di loro sono piloti venuti da ogni angolo del Commonwealth, canadesi, australiani, neozelandesi, sudafricani; altri sono scappati da paesi occupati, come la Francia, la Polonia, la Norvegia o quella che era la Cecoslovacchia; altri ancora sono partiti volontari dall’altra parte dell’oceano, dagli Stati Uniti ancora neutrali. Tra il mese di luglio e il mese di agosto di quell’estate di ottanta anni fa, 544 trovano la morte: abbattuti, affogati nella Manica, morti per colpa di un paracadute che non si apre o per un atterraggio di fortuna troppo “duro”; precipitati, dopo aver perso i sensi per una manovra troppo brusca, o per una bombola d’ossigeno che non funziona ed è indispensabile tra le “nuvole più alte” citate nella poesia di John Gillespie Magee, altro scrittore di guerra, pilota canadese. “Mai nella storia dei conflitti umani, tanti hanno dovuto tanto a tanto pochi”, affermò il primo ministro britannico Winston Churchill dopo aver visitato uno dei tanti campi di volo che venivano allestiti dei prati dell’Inghilterra meridionale martoriata dalle bombe che nelle lunghe notti della calda estate del 1940 avevano bersagliato senza posa il cuore di Londra. Viene alla memoria il cartello di un barbiere di origini napoletane che, dopo l’ennesimo raid su Londra, scostate le maceria dinanzi la sua bottega, affisse il cartello: “Business as usual”. Lo raccontò Churchill a Montanelli. Mai parole resero tanto chiaro l’epilogo di un conflitto che cambiò – più di ogni altro – le sorti della seconda guerra mondiale. E furono i ragazzi dai capelli lunghi, tra cui erano Hillary, o Gleed, o Deer, o l’asso senza gambe Douglas Bader, o tutti i piloti polacchi di quello che divenne noto come il “circo volante Skalski”; con le loro divise blu avio e i loro giubbotti salvagente “mae-west”; con la revolver negli stivali da volo, per “spararsi in testa se l’aereo prendeva fuoco con loro dentro”, e i foulard di seta legati al collo, per non irritarsi la pelle, a guadagnarsi la vittoria. Loro che sarebbero passati alla storia come i “Pochi”. Loro che inflissero tre le nuvole la prima scottante sconfitta alle armate di Hitler. Perché senza superiorità aerea non ci sarebbe potuta essere alcuna invasione dell’Inghilterra; che sopravvissuta d’Europa avrebbe continuato a combattere, trovando presto un alleato che sarebbe stato in grado di sostenerla. Quando il 15 settembre del 1940 al quartiere generale dell’aeronautica tedesca vengono registrate il numero delle perdite di una sola giornata, gli alti papaveri di Berlino capiscono che qualcosa non ha funzionato come doveva. Che è inutile proseguire. In un modo o nell’altro, i ragazzi dai lunghi capelli hanno avuto la meglio. La guerra continua, ma sotto un altro auspicio. Il resto è storia.
Clemente Pistilli per “la Repubblica” l'1 settembre 2020. Sembra di immaginarlo, il boia, mentre passeggia in vestaglia dentro la sua stanza. Un occhio all' acquario dei pesci tropicali l' altro all' orologio, in attesa del pranzo che di lì a poco gli verrà servito dal suo attendente. Il boia è Herbert Kappler e la sua stanza è la cella nel carcere di Gaeta. Carcere si fa per dire visto che il criminale di guerra tedesco, responsabile tra l' altro dell'eccidio delle Fosse Ardeatine e del rastrellamento del Quadraro era riuscito, avvalendosi dello status di "prigioniero di guerra" e avendo mantenuto il grado di "tenente colonnello", a garantirsi condizioni di vita invidiabili oltre a un certo livello di libertà individuale. A riportare alla luce la storia della "prigionia dorata" dell' uomo che dettò a Erich Priebke la lista degli italiani da decimare in via Rasella è l' ultimo tassello di un lavoro in progress di Nicola Ancora, storico contemporaneo presso il museo dell' ex carcere militare, grazie al quale è stato possibile ricostruire la lussuosa quotidianità dell' ufficiale che continuava a ricevere la pensione dalla Germania e spediva a casa cartoline di saluto dal mare di Gaeta e che soprattutto - come si evince da alcune iscrizioni runiche che si permise di incidere, a futura memoria, nei corridoi del carcere - mai si pentì del suo operato né mai rinnegò la fede nazista. Le più recenti scoperte dicono che Kappler, come l' altro criminale nazista detenuto nel castello angioino di Gaeta, Walter Reder, responsabile tra l' altro delle stragi di Marzabotto e Vinca, aveva a sua completa disposizione una spaziosa stanza con terrazza vista sul golfo, ambienti ristrutturati di fresco, attorno alla metà del 1940, con bagno privato, riscaldamento (una stufa elettrica), una macchina da scrivere, abbondante cancelleria, piante ornamentali. Oltre ai due acquari - di cui si era già a conoscenza - in cui allevava amorevolmente piccoli pesci tropicali, una ricca libreria e strumenti musicali. Amava suonare il violino. E andare a fare il bagno al mare, anche se, in questo caso, doveva sopportare l' incomodo di una scorta personale. I due avevano potuto mantenere i gradi e li facevano pesare. Disponevano di due attendenti militari, dei camerieri in divisa, dai quali si facevano assistere nelle piccole incombenze di ogni giorno, comprese il bucato e la cucina. Dagli studi di Ancora emerge che Kappler fosse goloso, in particolare, della carbonara preparata da un sottufficiale siciliano condannato per insubordinazione. Col tempo, il loro potere interno al carcere divenne tale che i due riuscirono a imporre che le persone addette al loro servizio indossassero scarpe da ginnastica al posto di quelle di cuoio, perché il rumore dei tacchi - dicevano - li disturbava mentre scrivevano. Già, scrivevano molto, i due. E potevano inviare lettere e cartoline senza nemmeno pagare la relativa tassa postale. Kappler, dopo una corrispondenza epistolare durata due anni, nel 1972 sposò all' interno del castello angioino Anneliese Wenger, infermiera ed ex moglie divorziata del capitano della Wehrmacht, Karl Walther. Un matrimonio celebrato in una stanza vicina a quella del comandante della struttura carceraria e con testimone di nozze lo stesso Reder. Anneliese si recava speso a Gaeta a trovare il marito, scendeva in una pensione lì vicino e poi si intratteneva con il marito all' interno del castello- carcere. Dalle ricerche di Ancora emerge che i contatti con la Germania erano continui e frequenti. I due criminali nazisti, che tra di loro mantenevano un certo distacco, dandosi del lei, ricevevano poi spesso visite di politici austriaci e pacchi di cibo, documenti e libri. Traccia di una inquietante attività intellettuale i cui segni sono a tutt' oggi visibili: sui muri della prigione, poco fuori dalla sua stanza Kappler incise delle rune. E fa impressione pensare che il responsabile delle Ardeatine e del rastrellamento del Quadraro sia stato lasciato libero di utilizzare la scrittura pagana per eccellenza, cara ai nazisti, in un carcere militare italiano dove si trovava condannato all' ergastolo e in cui erano detenuti - in ben altre condizioni - altri militari italiani, condannati per insubordinazione o per obiezione di coscienza in quanto testimoni di Geova. Quelle scritte sono state oggi decifrate dal lavoro di Ancora. Il tenente colonnello delle SS incise una triade runica ai piedi di un arco che dà verso il comando dell' ex carcere. Si tratta delle rune Isa, Kenaz ed Othilaz, sopra le quali campeggia una svastica, inscritta in un cerchio, mentre sulla destra c' è la parola Karm (karma). Isa simboleggia la stasi, dunque l' arresto, Othilaz, l' ultima runa, la liberazione dal karma, l' eredità, la casa, i beni materiali, e la runa centrale è Kenaz, un catalizzatore, che secondo lo studio di Ancora simbolicamente rappresenta Kappler medesimo, il quale, incidendo tale talismano runico, avrebbe espresso il desiderio di andare via e tornare in Germania. Proprio quello che il tenente colonnello riuscirà a fare aiutato dalla moglie Anneliese Wenger, dopo che nel 1977, vittima di un tumore al colon, su ordine del ministro della difesa Arnaldo Forlani e dopo tante pressioni da parte delle autorità tedesche, venne trasferito al Policlinico militare Celio di Roma, da cui fuggì. Reder, rinchiuso a Gaeta nel 1951, ne uscì invece nel 1985, quando venne estradato in Austria con un volo di Stato. Entrambi restando nazisti fino alla morte.
DAGONEWS il 25 ottobre 2020. Suo padre era un nazista che aveva ricevuto personalmente la Croce di Ferro da Adolf Hitler. Ma per Bernd Wollschlaeger la vita è andata in un’altra direzione: quando ha scoperto gli orrori dell’Olocausto ha intrapreso un percorso di fede che lo ha portato a chiudere con il passato e convertirsi all’ebraismo. Cresciuto a Bamberg, in Baviera, a Bernd veniva insegnato che l'Olocausto era una bugia e che suo padre Arthur Wollschlaeger era un eroe di guerra. Arthur fu decorato personalmente dal dittatore nazista per le sue azioni sul fronte orientale, dove prestò servizio come comandante di carri armati sotto il generale Heinz Guderian. «Quello che mi ha sempre raccontato era una storia di un cavaliere in un’armatura splendente – ha raccontato Bernd, 62 anni – I suoi compagni che avevano fatto la guerra con lui venivano a casa nostra almeno una volta all'anno per celebrare i "bei vecchi tempi" e continuavano a dirmi che mio padre era un eroe. Da bambino lo ammiravano. Fino a quando sono sorti i primi interrogativi». Il punto di svolta principale per Bernd è arrivato quando i terroristi palestinesi hanno massacrato 11 membri della squadra olimpica israeliana - sei allenatori e cinque atleti - ai Giochi estivi del 1972 a Monaco. «Per la prima volta, almeno nella mia vita, le vecchie ferite venivano riaperte. Parlava di quel massacro dicendo: “Guarda cosa ci fanno di nuovo! Loro, gli ebrei, stanno distruggendo la nostra reputazione per farci sembrare cattivi”». Quel “ di nuovo” fece rimettere in discussione a Bernd tutto quello che sapeva. Cosa era successo in passato? «Quando ho chiesto a mio padre, ha continuato a dirmi che l’Olocausto era una bugia, che i miei insegnanti erano dei comunisti - ha continuto Bernd – Ma più studiavo più mi rendevo conto che mio padre era un bugiardo. Era sincero solo quando beveva e diceva: “Il mondo dovrebbe festeggiare perché ci siamo liberati di quei parassiti. Abbiamo fatto il lavoro sporco”». Solo dopo Bernd ha trovato le foto del padre con Heinrich Himmler e ha scoperto che era stato sempre lui a massacrare gli ebrei in alcuni villaggi. Altri li mandava a morire ad Auschwitz. Determinato a saperne di più sulle persone che suo padre aveva perseguitato, Bernd chiese a un suo insegnante, un ex prete gesuita. Il sacerdote portò Bernd a un incontro organizzato dalla Chiesa per riunire ebrei e arabi di Israele. Fu lì che strinse un legame con una ragazza israeliana che andò a trovare tre mesi dopo: «La sua famiglia mi ha ospitato come un fratello perduto. Chiesi al padre come aveva imparato il tedesco e mi mostrò il numero tatuato sull'avambraccio. Sono rimasto scioccato. Mi portò allo Yad Vashem, il memoriale dell'Olocausto a Gerusalemme, e lì ho capito l'entità dello sterminio e ho pianto». Al suo ritorno a Bamberg, Bernd si offrì di aiutare la comunità ebraica, ma poco dopo capì che voleva altro: voleva convertirsi. La sua domanda di conversione fu rifiutata per due anni, ma alla fine Bernd ricevette istruzione religiosa dal rabbino Nathan Peter Levinson. «Mi sono convertito nel 1986. Avevo finito medicina e ho deciso di servire per l’esercito israeliano come medico. Sono andato da mio padre la sera prima di partire. Non voleva vedermi. Mi ha chiamato traditore». Arthur Wollschlaeger morì nel giugno 1987. Le sue ultime parole al figlio sono contenute in una serie di lettere inviate a lui in Israele. «Le ho lette 20 anni dopo ed erano molto strazianti. Mia madre e mio padre erano combattuti tra il fatto di amarmi come figlio e di avermi perso. In ogni caso lui aveva dato ordine di non presentarmi al funerale, mi ha proibito di portare il suo nome e di avvicinarmi alla sua tomba». Sebbene suo padre non si sia mai pentito per gli orrori del nazismo, Bernd ha imparato a perdonarlo: «Sarebbe troppo semplice dire che era un nazista impenitente, ma per lui il mondo si è fermato nel 1945. È passato dall'essere un eroe celebrato a livello nazionale a niente. Questo è stato per lui un enorme contraccolpo. L'ho perdonato per quello che era con me, non per quello che ha fatto agli altri». Bernd ha lasciato Israele nel 1991 per seguire la moglie negli Stati Uniti prima di divorziare nel 1995. Oggi, è un medico di famiglia a Miami, in Florida, e ha tre figli Tal, 31 anni, Jade, 26 e Natalia, 23 anni - tutti cresciuti nella fede ebraica. Rimane ancora in contatto con la sorella Helga, 59 anni e si è riconciliato con la sorella maggiore, Christa, prima della sua morte nel 2006.
Caterina Galloni per blitzquotidiano.it il 9 novembre 2020. Il quaderno, composto da 32 pagine, è stato trovato nell’armadio di una sopravvissuta di Auschwitz. All’interno 17 poesie “di immensa sofferenza e desiderio di libertà”, scritte da alcune detenute e che venivano lette in segreto anche da altri prigionieri. La maggior parte delle poesie, che parlano di “paura paralizzante” e “schizzi di sangue cremisi”, ma anche di sfida e di “tenere alta la testa rasata”, sembrano siano state scritte nell’autunno del 1943. Il direttore del Museo di Auschwitz, Piotr Cywinski, ha detto: “È uno straordinario volume di poesie, testimonia che erano un modo, per chi era prigioniero ad Auschwitz, di combattere l’umiliazione e la disumanizzazione”.
Come è stato ritrovato il quaderno. Il quaderno è stato scoperto dalla famiglia dell’ex prigioniera Bozena Janina Zdunek, detenuta nei campi di concentramento femminili di Auschwitz e Ravensbrück. Quando era scoppiata la seconda guerra mondiale, si era unita al movimento di resistenza clandestina polacco, ma fu catturata dalla Gestapo e inviata ad Auschwitz il 22 giugno 1943. Rimase nel campo fino alla fine di agosto 1944, quando fu trasferita a Ravensbrück. Alla fine di aprile 1945, fu salvata dalla Croce Rossa svedese e portata in Svezia dove è vissuta fino alla sua morte nel 2015. Non è chiaro come sia entrata in possesso del quaderno, ma l’iscrizione sulla copertina fa ipotizzare che fosse utilizzato per registrare il numero di prigionieri morti. In seguito alla scoperta il figlio di Zdunek ha deciso di donarlo al Museo di Auschwitz.
Wojciech Plosa, responsabile dell’Archivio del Museo di Auschwitz, ha dichiarato: “È una testimonianza della grande forza di volontà di vivere e dell’attaccamento alla cultura, caratteristici delle detenute. “Pur tra le orribili realtà quotidiane del campo di Birkenau, hanno trovato la forza e il tempo per raccogliere i testi di poesie del campo scritte da prigioniere. Istantanee di immensa sofferenza e desiderio di libertà”. (Fonte: Daily Mail)
Simona Casalini per “la Repubblica - Edizione Roma” il 16 ottobre 2020. È l'ultimo sopravvissuto che ha visto e toccato quei camion feroci del rastrellamento del 16 ottobre del ' 43, le manacce dei nazisti sulle sue piccole spalle, le urla dei tedeschi che devastavano le famiglie degli ebrei con la complicità dei fascisti: «Avevo 12 anni e mi ricordo come se fosse successo ieri» comincia così il racconto di Emanuele Di Porto, 89 anni, «abitavo in via della Reginella, con i miei genitori, le mie zie, i miei fratelli e i cugini. Eravamo tre famiglie tutte in una sola casa, quella stessa dove ora vivo da solo e che mi sembra enorme vivevamo ogni famiglia in una stanza, e noi soli eravamo sei fratelli. Cosa successe il 16 ottobre? Mio padre si alzava alle tre di notte, lavorava alla stazione Termini e all'alba arrivavano le tradotte delle truppe tedesche, lui le aspettava sulla banchina e vendeva souvenir. Quando cominciò il rastrellamento era già al lavoro. Mia madre invece sentì dei rumori in strada, si affacciò e vide che i tedeschi stavano radunando in piazza tante persone ma pensò che portassero via soltanto gli uomini così si vestì di gran corsa e uscì per andare ad avvertire mio padre di non tornare al Ghetto. Mi disse di restare in casa, tranquillo, che sarebbe tornata presto ma dopo un po' non volevo più aspettare e scesi anche io. La vidi sopra un camion, presa dai tedeschi, la chiamai, lei mi gridò di andar via, urlava, urlava. Un soldato mi prese al volo e mi buttò come un pacco dentro lo stesso camion dopo poco mia madre mi abbracciò e mi diede una forte spinta mi fece cadere giù dal convoglio più o meno in piazza di Monte Savello, sul lungotevere. Ecco, ricordo la gran botta che mi fece andare giù poi cominciai a correre, a correre, e poi mi nascosi dentro un tram, lei era bellissima, aveva 37 anni e non l'ho mai più rivista». Emanuele Di Porto racconta la Storia e stamani, insieme a Mario Mieli e Vittorio Polacco, alle 11 saranno per la 77 esima ricorrenza della razzia al Ghetto al Museo della Shoah, in largo 16 ottobre ' 43, per dar voce alla loro testimonianza a circa 2mila studenti romani collegati con una diretta Facebook sulla pagina del Museo della Shoah. Con loro anche lo storico della Fondazione, Amedeo Osti Guerrazzi, a moderare il flusso delle drammatiche testimonianze, ad accompagnare la memoria di chi, ormai pochissimi, ha vissuto quella tragica giornata. Emanuele Di Porto era allora il più grandicello dei tre, 12 anni, e racconta di essersi poi salvato perché rimase nascosto nel tram per due giorni, con gli autisti e i bigliettai che lo proteggevano. «Poi una mattina venne un signore e mi disse che mio padre ci stava cercando, a me e a mamma, e che si era nascosto da un cugino a Borgo Pio. Ci siamo ritrovati, mi sembrò meraviglioso e anche gli altri fratelli erano scampati alla razzia». Mario Mieli e Vittorio Polacco avevano invece poco più di due anni, e anche loro, in braccio alle loro mamme, erano finiti su quei camion scuri, e anche le loro madri li buttarono giù e si salvarono perché passarono di mano in mano ad altre donne in strada. Tutti e tre non hanno mai più visto le loro madri, Mario Mieli perse entrambi i genitori. I tre testimoni che parlano ai ragazzi via social sarà il momento più emozionante, più intenso della giornata dedicata al ricordo del rastrellamento, quest' anno senza grandi assembramenti pubblici. Con loro sarà presente anche il novantenne Sami Modiano, uno degli ultimi italiani scampati dai campi di concentramento ancora in vita, rinchiuso a Birkenau a soli 13 anni. Giornata di Memoria che inizia dalle 8,30 con la deposizione di una corona al Tempio - presenti la sindaca Raggi e il presidente della Regione Zingaretti - dedicata ai 212 bambini deportati il 16 ottobre del '43, nessuno dei quali mai tornato. In tutto quella mattina sparirono da Roma 1023 persone, solo 16 di loro si salvarono e tra questi una sola donna Settimia Spizzichino, cui è dedicato il grande ponte moderno all'Ostiense.
La senatrice sopravvissuta ad Auschwitz parla alle nuove generazioni. E a tutti noi. In un volume in edicola con il «Corriere» il discorso che conclude le sue testimonianze. Antonio Carioti su Il Corriere della Sera il 28/10/2020. «Rifiutai la vendetta, divenni una donna di pace». Il libro di Liliana Segre gratis domani. Tutto cominciò nel settembre del 1938 per Liliana Segre, quando era ancora una bambina che si apprestava a frequentare la terza elementare. Lo racconta la senatrice a vita nella testimonianza resa a Rondine (Arezzo) il 9 ottobre scorso e pubblicata nel volume Ho scelto la vita, a cura di Alessia Rastelli, in edicola venerdì 30 ottobre con il «Corriere della Sera». Le dissero il papà e i nonni: «Tu non puoi più andare a scuola». All’improvviso era «diventata invisibile»: una reietta da escludere, costretta a lasciare le compagne, senza alcuna colpa se non quella di essere ebrea. Possiamo solo immaginare che trauma sia stato per lei e per migliaia di altri bambini nelle stesse condizioni. «Ho scelto la vita. La mia ultima testimonianza pubblica sulla Shoah» di Liliana Segre (prefazione di Ferruccio de Bortoli, a cura di Alessia Rastelli, pp. 64) è edito dal «Corriere della Sera», con il sostegno e la partecipazione di Esselunga e sarà in edicola gratis con il quotidiano venerdì 30 ottobre. Erano gli effetti più assurdi e crudeli del decreto «per la difesa della razza nella scuola fascista», primo passo della legislazione antisemita introdotta da Benito Mussolini per cementare l’alleanza con il Terzo Reich di Adolf Hitler, l’Asse costituito nel 1936 che avrebbe portato il nostro Paese alla guerra e alla rovina. Bisogna però chiarire un punto. L’Italia non adottò le leggi razziali perché la Germania lo avesse chiesto. Non esiste alcun documento che dimostri pressioni di Berlino su Roma in quella direzione. Semplicemente il dittatore fascista non voleva essere da meno del suo omologo tedesco, anzi ambiva a rivaleggiare con lui per diventare il punto di riferimento dei vari movimenti di stampo fascista attivi in Europa, animati in genere da una feroce ostilità antiebraica. Per tornare al decreto che colpì la piccola Liliana, conviene forse andare a rileggere che cosa scriveva nel suo diario all’epoca Giuseppe Bottai, che nel 1938 era ministro dell’Educazione nazionale. Il 2 settembre presenta il provvedimento antisemita in Consiglio dei ministri e confessa di provare «una tal qual commozione» per la sorte degli insegnanti e degli alunni che verranno espulsi. Si rende conto che sta perpetrando un abuso, eppure procede disciplinatamente. Quando poi gli vengono riferite le critiche di un altro gerarca, Italo Balbo, contrario alle leggi razziali, Bottai replica «che in un regime come il nostro le direttive del Capo si accettano o non si accettano; che per non accettarle occorrono motivi di irresistibile resistenza morale; che a tanto non arrivano le riserve secondo me possibili sul “metodo” della lotta antisemita». Qui misuriamo l’effetto corruttore dei sistemi totalitari, la narcosi della coscienza che provocano negli individui in nome dell’obbedienza assoluta a capi ritenuti infallibili. In un clima del genere coloro che non sono affetti dal fanatismo ideologico finiscono tuttavia per abbandonarsi alla passività, per scivolare nel male denunciato con gran forza da Liliana Segre in tutti i suoi interventi pubblici: l’indifferenza. Quanti, anche all’interno del regime, pensavano che le leggi razziali fossero un sopruso, ma si rimisero alla volontà del Duce? E quanti le accettarono, anche sulla base di antichi pregiudizi? Del resto la Chiesa cattolica presentava gli ebrei come «perfidi», per non parlare dell’accusa assurda, ma ripetuta tanto a lungo, di «deicidio» per la crocifissione di Gesù. Si slittò così gradualmente sul piano inclinato che durante l’occupazione nazista portò a trasformare gli ebrei italiani, come scrive Ferruccio de Bortoli nella prefazione del volume, «da persone in oggetti di scarto». Esseri privati della loro individualità, da eliminare come insetti nocivi o, se abili al lavoro, da sfruttare fino allo sfinimento come bestie da soma. Un intero popolo da estirpare sistematicamente, con procedure mutuate dall’industria moderna. La logica del lager era profondamente disumanizzante. Metteva i deportati gli uni contro gli altri, li induceva a chiudersi nella loro disperazione, distruggeva ogni forma di solidarietà. «Noi non volevamo sentire, non volevamo sapere. Giorno dopo giorno diventavamo più egoiste», racconta Liliana Segre di sé stessa e delle sue compagne di sventura. Eppure la senatrice a vita, che aveva 13 anni quando fu deportata il 30 gennaio 1944, riuscì a conservare la voglia di vivere e il senso di umanità fino all’ultimo. Anche durante la «marcia della morte», quando venne condotta via da Auschwitz mentre i sovietici si avvicinavano, seppe rinunciare alla tentazione della vendetta, all’impulso di rendere a uno dei suoi aguzzini quello che aveva subito. «Il capo dell’ultimo lager in cui ero stata — racconta Liliana Segre nella sua testimonianza — gettò a terra la pistola. Avrei potuto raccoglierla e ucciderlo. Ma non lo feci. E da quel momento sono diventata quella donna libera e quella donna di pace che sono anche adesso». Scegliere la vita e la pace, tuttavia, non significa perdonare. Ci sono orrori sui quali non si può passare un colpo di spugna, che continuano a pesare su tutti coloro che si macchiarono di complicità con il genocidio degli ebrei. Furono i nazisti ad attuare le deportazioni e lo sterminio, ma quel crimine spaventoso — non bisogna dimenticarlo — grava anche su una parte del nostro Paese. La Repubblica sociale fascista fondata da Mussolini, riportato in auge dai tedeschi dopo l’armistizio dell’Italia con gli Alleati e la tragedia dell’8 settembre 1943, dichiarò subito che gli ebrei erano da considerare stranieri e nemici, poi ne decretò l’internamento, premessa della successiva destinazione verso i lager della morte. Alla Shoah parteciparono anche nostri connazionali, sul piano politico e su quello più direttamente operativo. Non siamo un Paese solo di Giusti, anche se ci fu chi rischiò la vita per salvare gli ebrei. Liliana Segre, nelle pagine del libro edito dal «Corriere della Sera», ci ricorda che cosa avvenne, a quale livello di abiezione possano giungere gli esseri umani quando bollano come nemici i propri simili non per quello che hanno fatto, ma per l’etnia, la religione, il colore della pelle, le idee. Al tempo stesso invita a non coltivare l’odio, pur senza mai rinunciare alla ricerca della giustizia e al dovere della memoria. Una lezione purtroppo attuale anche oggi. Perché la storia non si ripete mai allo stesso modo, ma ripropone spesso, davvero troppo spesso, orrori analoghi. Per trent’anni Liliana Segre, superstite di Auschwitz, ha testimoniato la sua esperienza dell’orrore, cercando le parole per dire l’indicibile. Lo scorso 10 settembre ha compiuto 90 anni. Con l’avanzare dell’età, la sofferenza e la fatica di rivivere ogni volta l’abisso della Shoah sono diventate troppo forti. Così ha deciso di interrompere l’attività di testimone. Ha voluto però condividere un’ultima volta la sua memoria, il 9 ottobre a Rondine Cittadella della Pace, nell’Aretino, associazione in cui convivono giovani da Paesi in conflitto. In una grande tensostruttura, organizzata in base alle regole anti-Covid, la senatrice a vita ha parlato ai ragazzi di Rondine, a una rappresentanza di scuole presenti e a tutte quelle collegate in streaming dall’Italia e dall’estero, in un ideale passaggio di testimone agli amati ragazzi. Ha raccontato ciò che è stato, gli esseri umani ridotti a «pezzi» e mandati alle camere a gas con un cenno del capo. Ma nel toccante discorso ha trasmesso anche un messaggio di speranza e di incoraggiamento alle nuove generazioni. La testimone ha ricordato il momento in cui, durante la «marcia della morte», avrebbe potuto uccidere il suo aguzzino, ma decise di non farlo. E scelse la vita, divenendo una donna libera e di pace. Adesso il discorso di Liliana Segre è disponibile nel volume Ho scelto la vita. La mia ultima testimonianza pubblica sulla Shoah (prefazione di Ferruccio de Bortoli, a cura di Alessia Rastelli, pp. 64). Edito dal «Corriere della Sera», con il sostegno e la partecipazione di Esselunga, il libro sarà in edicola gratis venerdì 30 ottobre con il quotidiano. Nel volume, anche l’edizione integrale dell’intervista al «Corriere», in occasione dei novant’anni, rilasciata ad Alessia Rastelli.
Dagospia il 10 ottobre 2020. Liliana Segre: Nel mio racconto c'è la pena, la pietà per quella ragazzina che ero io e che adesso sono, la nonna di quella ragazzina. So che è difficile vedendo una donna di 90 anni pensare che quella era una ragazzina. Un giorno del settembre del 1938 sono diventata "l'altra" e da allora c'è tutto un mondo intorno che ti considera diversa. E questa cosa è durata sempre, io sono sempre "l'altra". So che le mie amiche, quando parlano di me, dicono sempre "la mia amica ebrea" . Quando sono diventata l'altra a 8 anni, ero a tavola con i miei familiari, e mi dissero che non potevo più andare a scuola. Chiesi perché e ricordo gli sguardi di quelli che mi amavano e mi dovevano dire che ero stata espulsa perché ero ebrea. Una delle cose più crudeli delle leggi razziali fu far sentire dei bambini invisibili. Molti miei compagni non si accorsero che il mio banco era vuoto... e per anni non mi chiesero niente. Sono stata clandestina e so cosa vuol dire essere respinti. Si può essere respinti in tanti modi. . Di fronte alla morte non servono tante parole, perché sono inutili. Quando si sente vicina la morte, c'è solo il silenzio, il silenzio solenne, il silenzio indimenticabile. In quel momento valeva solo la propria interiorità. Quello era il momento della vita e della morte . Auschwitz? Quando poi studiai Dante, anni dopo, mi resi conto che eravamo delle dannate condannate a delle pene. Entrando lì pensai di essere impazzita. Era un luogo pensato a tavolino da persone stimate nel loro mondo, un luogo che avevano organizzato per "l'altro", una realtà che funzionava da anni perfettamente. Noi dovevamo dimenticare il nostro nome, che non interessava a nessuno. Da quel momento eravamo un numero che mi venne tatuato sul braccio: il mio era 75.190. Un numero che dovevamo imparare in tedesco . I bulli presi da soli hanno paura. Quelli che ho incontrato io si sentivano forti e invincibili, giovani nazisti ariani. Non erano della razza umana. Mi chiedono se ho perdonato e rispondo di no. Non ho mai perdonato, non ci riesco . Quando si toglie l'umanità alle persone bisogna astrarsi e togliersi da lì col pensiero se si vuole vivere. Scegliere sempre la vita. Io sono viva per caso. Perché tutte noi sceglievamo la vita anche a Auschwitz. Furono pochissime quelle che tra di noi in quell'inferno si suicidarono attaccandosi al filo spinato. Tutte noi sognavamo la vita, la vita fuori dal lager. Sognavamo i bambini che giocavano, i prati verdi, un gattino da accarezzare... Per scegliere la vita dovevamo diventare delle nomadi vaganti.
Paolo Colonnello per "La Stampa" il 10 ottobre 2020. «Non voglio più testimoniare, non voglio più soffrire». L'ultimo racconto di Liliana Segre è il più difficile, il più sofferto. Anche se avviene davanti a una platea di giovani seduti a terra con le gambe incrociate e di uomini di potere che l'ascoltano commossi. Anche se fuori c'è un sole autunnale bellissimo e sotto il tendone bianco, quando lei finisce di parlare, l'applauso diventa interminabile e si capisce che tutti vorrebbero abbracciarla. Perché il ricordo non è facile anche se nelle parole di Liliana si trasforma in una straordinaria testimonianza di vita che quasi stordisce per la sua intensità. Nella Cittadella della Pace di Rondine, un borgo medievale a quindici chilometri da Arezzo, la senatrice a vita decide di affidare il suo testamento ideale ai giovani di questa comunità internazionale che raduna ragazzi e ragazze nemici in patria, divisi da guerre cruente ma uniti in un progetto di pace unico al mondo. Liliana Segre ripercorre per l'ennesima volta la sua vita nel segno del dolore e di un fardello pesante di cui, ora che ha novant' anni, vuole liberarsi per sempre. Tocca a noi, adesso, la responsabilità morale del ricordo. Ad ascoltarla le più alte cariche dello Stato, i presidenti delle Camere, il presidente del Consiglio, il presidente della Conferenza episcopale Italiana, la presidente della comunità israelitica, i ministri degli Esteri, degli Interni, dell'Istruzione. «Una persona di novant' anni come me - esordisce lasciando di stucco la platea - arriva a un punto in cui dice basta, ora voglio riposare, non voglio più soffrire. Da nonna, sono i ragazzi che io ringrazio, sono loro i miei nipoti ideali». Ma soprattutto, spiega Liliana, con un trasporto e una sincerità straordinari, ha fatto pace con i tumulti del cuore. «Nel mio racconto c'è l'amore, la pietà, il ricordo struggente di quello che ero io, quella ragazzina strappata alla sua vita e portata ad Auschwitz e di cui ora sono la nonna. Una ragazzina cui adesso sono capace di stare vicina senza lacrime... Lo so che è difficile immaginarmi giovane. Ma anch' io sono stata ragazzina, avevo la mia piccola vita, quella che in un giorno di settembre del 1938 venne interrotta, facendomi diventare "l'altra". E quando si diventa "l'altra", c'è tutto un mondo intorno che ti considera diversa». La sua è un'ineguagliabile lezione di storia e di resistenza che non a caso viene condivisa da centinaia di scuole in tutta Italia. E che insegna, più di ogni altro libro («i dettagli della prigionia andateveli a leggere...»), il valore della pace. Ma non del perdono. «Ogni tanto mi chiedono: signora, ma lei ha perdonato? No, mai, certe cose non si possono perdonare». Non si possono perdonare le leggi razziali fasciste che da un giorno all'altro la fecero diventare "l'altra". «Avevo otto anni, eravamo a tavola e mio padre mi disse: da domani non andrai più a scuola.... Perché, perché, perché? Continuavo a chiedere nella mia innocenza di bambina». Non si possono perdonare i nazisti che cercarono di creare il concetto di "razza superiore". «Ma superiori a chi? Alla razza umana? ». Non c'è perdono. Nemmeno per chi fece dei respingimenti la propria politica ipocrita. «Anch' io - dice - sono stata clandestina, respinta. Fu quando arrivammo alla frontiera Svizzera dopo aver attraversato la montagna di Como nella neve. Un funzionario ci guardò con disprezzo, facendoci sentire quel nulla che eravamo. Ci rimandò nelle braccia delle guardie...». E però Liliana, che si commuove ricordando la sua amica francese Janine di cui in tutti questi anni ha sentito il peso di non essersi voltata a salutarla prima che venisse portata in camera a gas («quel giorno persi ogni dignità...») e a cui ha voluto venisse intitolata la nuova arena naturale di Rondine, conclude con un messaggio di enorme speranza. «Dopo la lunga marcia della morte, era ormai arrivato il giorno della liberazione: una guardia davanti a noi, gettò la divisa e la pistola, vestiva abiti borghesi, aveva paura. La sua pistola era lì, a portata di mano. Avrei potuto prenderla e sparargli. Mi sembrava un giusto finale. Ma non lo feci. Io non sarei stata come il mio assassino. E da quel momento, scegliendo la vita, diventai quella donna libera con cui ho convissuto finora».
Radical Chic. Liliana, il soldato nazista in mutande e quella pistola non raccolta. Eva Kant su Il Quotidiano del Sud l'11 ottobre 2020. “Non ho perdonato”: la gran parte dei media che hanno fatto il resoconto dell’ultima testimonianza pubblica di Liliana Segre, hanno titolato cosi. È sicuramente un passaggio importante del suo lungo e commovente racconto ai giovani arrivati nella Cittadella della Pace a Rondine nei pressi di Arezzo per ascoltarla. E non dimenticare. E magari – come lei stessa ha più volte auspicato – prendere il testimone della sua missione affinché nel mondo non accadano mai più gli orrori organizzati dalle SS di Hitler. Ma a me, che ho seguito il suo intervento incollata davanti alla tv e che in alcuni momenti non sono riuscita a trattenere le lacrime, è un altro il passaggio che mi ha colpito di più.
Anzi sono due. E voglio elencarli in ordine inverso rispetto a quanto ha fatto Liliana Segre. Verso la fine della sua prigionia, quando ormai i tedeschi avevano la consapevolezza di avere perso la guerra, Liliana e le altre giovani ragazze ebree, già sfinite dalla fame e dalla lunga marcia della morte, sono costrette nuovamente dai nazisti a rimettersi in cammino. «Una gamba dopo l’altra» le ragazze riprendono la marcia, ad un certo punto vedono i nazisti spogliarsi in fretta e furia, buttare le divise, disperdere i cani addestrati ad azzannare chiunque ha un attimo di debolezza, rimanere in mutande per poi darsi alla fuga nei campi. Lo fa anche il capo di quel gruppo di criminali assassini invasati pazzi persecutori (questi aggettivi sono miei non della Segre). Lui è proprio lì accanto a Liliana, che non degna nemmeno di uno sguardo mentre si libera della divisa. Butta a terra la sua pistola, a un passo o forse meno dalle ragazze.
A un passo da Liliana. Era lui quello che dava gli ordini di picchiarle, di frustarle se rallentavano, persino di ucciderle se una volta cadute per terra non riuscivano a rialzarsi all’istante perché le piaghe ai piedi procuravano un dolore insopportabile. Era lui il più crudele di tutti. E ora era li in mutande davanti a lei pronto a fuggire. E soprattutto li davanti a lei c’era la sua pistola carica. Liliana poteva prenderla e sparargli tutti i colpi che erano in canna per sfogare la sua rabbia, il suo dolore, per vendicare la morte di suo padre e di tutti gli altri che erano stati mandati nelle camere a gas, e tutte le vessazioni subite nei lager. «Non ho raccolto quella pistola» ha rivelato Liliana. «Potevo farlo, ma ho deciso che non volevo e da quel momento sono diventata la donna libera e di pace con cui ho convissuto fino ad adesso».
Una lezione enorme. Non ha perdonato Liliana. E come si fa a perdonare quegli orrori! Ma non si è vendicata. Ed è questa la vera vittoria contro i nazisti: volevano sterminare gli ebrei, sono riusciti ad ammazzarne milioni, ma non sono riusciti a renderli bestie, automi. Non sono riusciti a renderli disumani. Orribili, come loro stessi. Anche se – ed è questa la seconda cosa che mi ha profondamente colpito nel racconto della Segre – Liliana rivela che è cosi che si è sentita tante volte durante il lungo periodo di prigionia nel lager: orribile. Sì, usa proprio questa parola. «Mi sono sentita orribile e profondamente egoista”». È accaduto quando non ha prestato la sua coperta a chi stava morendo di freddo accanto a lei. È accaduto quando non ha dato un pezzetto di pane della sua misera razione quotidiana a chi era diventato ormai uno scheletro. È accaduto anche quando non si è voltata per lanciare uno sguardo di amicizia e compassione verso Janine, la giovane francese bionda dagli occhi azzurri e i modi gentili che Liliana incontrava più volte al giorno nella fabbrica di munizioni dove entrambe facevano le operaie schiave. Janine in quella fabbrica aveva perso due dita e durante quella specie di roulette russa a cui le prigioniere erano sottoposte settimanalmente – le ragazze sfilavano nude davanti a “una giuria” di tre capi nazisti che decidevano chi poteva ancora lavorare e chi no e quindi doveva morire – quelle due dita mal ricucite fecero diventare Janine un fardello inutile da eliminare. Liliana era davanti a lei e aveva appena passato quell’assurda selezione. Sentì la sentenza: “al gas”. Immaginò la disperazione dell’amica. Pensò di girarsi solo un attimo per guardarla, per pronunciare il suo nome, per dirle “fatti forza, ti voglio bene”.
Ma non si girò.
«Fui una persona orribile» ha confessato. Da allora Janine non è mai più uscita dal suo cuore, dalla sua mente, dai suoi ricordi. Ed è proprio a lei che la novantenne Liliana ha chiesto di intitolare l’arena di Rondine. Ma non è vero cara Liliana, tu non sei stata mai una persona “orribile”. Janine lo sapeva che non avresti potuto girarti. Sarebbe stato un sacrificio inutile, saresti stata punita forse anche con la morte. E adesso nessuno avrebbe mai parlato di lei, nessuno l’avrebbe ricordata. Erano i nazisti quelli orribili, lo erano i contadini e le persone che chiudevano le finestre quando siete passati durante la marcia della morte. E lo sono adesso tutte le persone che fanno dell’odio la loro religione, dell’arroganza e della sopraffazione il loro stile di vita, quelle che si sentono superiori solo perché hanno il colore della pelle diverso. Un credo diverso. Non indossano la divisa nazista, ma non hanno nemmeno una pietra al posto del cuore. Solo uno spazio vuoto. Alcuni di loro la domenica vanno in chiesa, ma non hanno la più pallida idea di cosa sia la solidarietà, l’umanità. Gli emigranti che arrivano con i barconi? Andassero in altri porti, dicono mentre chiudono porte e finestre delle loro comode case. Sono loro quelli orribili, cara Liliana. E ora che tu giustamente hai deciso di non andare più in giro a raccontare la tua storia di sopravvissuta agli orrori, ora tocca a noi cercare di farli tornare alla ragione. Intanto grazie Liliana.
Alessia Rastelli per il “Corriere della Sera” l'1 settembre 2020. «Cari ragazzi, tocca a voi. Prendete per mano i vostri genitori, i vostri professori. In questo momento d' incertezza prendete per mano l' Italia». Liliana Segre, superstite alla Shoah, si rivolge ai più giovani da nonna, come spesso ha fatto da quando è stata nominata senatrice a vita da Sergio Mattarella, il 19 gennaio 2018, e da un trentennio come testimone nelle scuole. Il 10 settembre compirà 90 anni. Il Corriere la incontra nell'appartamento di Pesaro che fu dei suoi suoceri. Con lei ci sono i carabinieri della scorta che le è stata assegnata per i messaggi d' odio e le minacce, diventata un' affettuosa appendice alla famiglia. Qui nelle Marche, da dove venivano i nonni materni, Liliana Segre trascorre ogni estate. Qui, lungo la riva del mare, incontrò l' uomo che sarebbe diventato suo marito e padre dei tre figli, l'amore salvifico dopo l'abisso.
Senatrice Segre, come ha passato i mesi del lockdown?
«Sono stata a casa mia a Milano. È stata molto dura, mi mancavano i miei figli e i miei nipoti, mi percepivo meno forte e affiorava di tanto in tanto la paura di morire da sola. La città fuori era deserta, arrivavano solo le sirene delle ambulanze. Quante ne abbiamo sentite in Lombardia! Nella mia mente evocavano altre sirene, quelle dei bombardamenti, prima che mi deportassero, quando dovevamo correre nei rifugi. A quel tempo gli sciacalli entravano nelle case che restavano vuote e anche adesso, in forme diverse, sono riapparsi: a fare affari mentre in televisione vedevamo tutte quelle bare. Questo mi ha rattristato, incupito, mi sono chiusa per un po', ma ora va meglio. Non mi hanno sommerso allora, non ci sono riusciti oggi. Io provo ancora speranza».
Da dove le arriva?
«Innanzitutto dalle tantissime storie di eroi sanitari, medici e infermieri che hanno scelto di stare dalla parte giusta. Sono loro i vincenti, non gli sciacalli. E poi ci sono i ragazzi. Non ci sono solo quelli che vanno in discoteca appiccicati, rischiando di trasmettere il Covid, il nostro nemico invisibile, ai nonni e ai genitori. Ce ne sono di meravigliosi. Purtroppo i vecchi intubati soccombono. Ecco perché tocca ai più giovani in questo momento passarsi tra loro una parola d' ordine, quella di un sacrificio coraggioso, di essere, finché non avremo un vaccino, come Enea che porta sulle spalle il padre Anchise. Sarebbe davvero un inno alla vita. Così come sarebbe importante, nell' attuale incertezza sulla riapertura delle scuole, che fossero loro, i ragazzi, a dire: "Noi ci siamo". In presenza o a distanza, senza approfittare di questo momento per saltare la scuola. Io fui cacciata a 8 anni e fu un dramma. Mentre l' amore per lo studio, in diversi momenti, mi ha salvato».
In che modo?
«Ad Auschwitz lavoravo schiava in una fabbrica di munizioni. A un certo punto dovetti consegnare pezzi di ferro a un altro operaio schiavo. Era francese, un professore di storia. Era proibito parlarci, ma riuscimmo a scambiare qualche parola e così ogni giorno, nei due minuti della consegna, mi raccontava un evento del passato. Per un po' di tempo, in quell' istante, non eravamo più "pezzi" senza nome, ma un' alunna e un professore. Lo studio poi fu decisivo al mio ritorno dal lager. Ero un animale ferito, avevo perso mio padre e i nonni, concentrarmi a recuperare gli anni di scuola perduti mi permise di non impazzire».
È mai tornata ad Auschwitz?
«No, non ci tornerò, perché non lo reggo. Anche se mi dispiace moltissimo perché lì ho perso le persone più care. Mio padre è stato la figura più importante della mia vita. Mia madre Lucia è morta quando avevo un anno e mezzo, così lui è stato tutto. Mi ha amato e io lo ho amato con tutta me stessa. Resta il grande nodo irrisolto della mia vita. Il dolore più grande del mondo ce lo siamo dati reciprocamente: io per la sua perdita, lui perché quando ha lasciato la mia mano sulla rampa di Auschwitz-Birkenau, non credo pensasse che ce l' avrei mai fatta. Avevo 13 anni. Ricordo ancora il mio ultimo compleanno prima del lager, due giorni dopo l' 8 settembre 1943».
Dove eravate?
«Sfollati a Inverigo, in Brianza. Il 25 luglio 1943 con la caduta del fascismo in tanti si illusero che l' incubo fosse finito. Dalle finestre volarono fasci littori e statuette di Mussolini. Ma durò poco e fu come svegliarsi da un' ubriacatura. L'8 settembre l'Italia centro-settentrionale fu messa sotto il controllo militare tedesco e l' amministrazione civile dei fascisti. Due settimane dopo fu comunicato che gli ebrei italiani dovevano essere deportati. Dormivo in una camera con mio padre, me lo ricordo ancora sbattere la testa contro il muro. Era combattuto tra fuggire con me o restare. Mio nonno non sarebbe stato in grado di viaggiare. Mancò forse la figura di mia madre, una donna giovane e pratica che avrebbe potuto incoraggiare il marito. Nonostante tutto, il 10 settembre 1943 mio padre mi portò a condividere la festicciola di una bambina sfollata che compiva gli anni il mio stesso giorno. Restammo solo mezz' ora: sentivo già che quella festa non era per me».
Alla fine tentaste la fuga in Svizzera.
«Sì, il 9 dicembre 1943, con mio padre e due cugini. Fummo nelle mani di orribili contrabbandieri, non troppo diversi dagli scafisti di oggi. Pagammo 45 mila lire per andare oltre il confine e altre mille per trascorrere la notte sotto un tetto. La Svizzera però ci respinse. E allora si susseguirono il carcere di Varese, San Vittore a Milano, il Binario 21, Auschwitz-Birkenau, per la sola colpa d' essere nati».
Sia lei che diversi altri superstiti raccontate che la salvezza arrivò per caso.
«Ad Auschwitz un passo avanti o indietro poteva cambiare il destino. Sono anziana, ma non sono mai uscita davvero dalla me stessa di allora. E ogni anno che passa, mi chiedo "Ma come ho fatto, ma come ho fatto, ma come ho fatto?". Potrei andare avanti all' infinito ma non ho la risposta. Uomini di qua, donne di là: quando scendemmo dal treno e ci separammo, mio padre mi disse di restare con una nostra conoscente, la signora Morais. Eppure quando la guardia mi chiese se fossi sola, ebbi l' istinto di dire di sì. Finii in una fila, la signora Morais in un' altra, e andò al gas».
Primo Levi scrisse che «la nostra lingua manca di parole per esprimere questa offesa, la demolizione di un uomo». Lei come le ha trovate quando ha iniziato a testimoniare?
«Molte ne ho prese a prestito proprio da Primo Levi. È stato coraggioso a scrivere subito, tra il 1945 e il 1947. Io lessi Se questo è un uomo nell' edizione Einaudi del 1958 e via via vi trovavo il modo di dare voce a quello che avevo vissuto. Lo stupore, lo stupore per il male altrui che Primo Levi provò di fronte ai nazisti che spingevano i prigionieri sui treni, io lo avvertii per tutto il tempo nel lager».
Vi siete mai incontrati?
«No, ma gli scrissi due volte. La prima subito dopo avere letto Se questo è un uomo , perché speravo che l' amico Alberto, di cui scriveva, potesse essere mio padre. La seconda volta fu dopo l' uscita de I sommersi e i salvati , nel 1986. Mi turbò molto. "Basta - gli dissi - se da Auschwitz non si esce mai, come lei sostiene, e se anche i salvati sono sommersi, allora non c' è speranza". Mi rispose con una lettera secca: "Se non l' ha ancora capito, è inutile che ne parliamo". L' anno dopo si tolse la vita».
Ancora Primo Levi sosteneva che «se comprendere è impossibile, conoscere è necessario, perché ciò che è accaduto può ritornare».
«Quando arrivai a Milano dopo Auschwitz, mi sembrava normale raccontare, ma capii ben presto che l' esperienza che avevo vissuto restava per i più inimmaginabile. Una professoressa di greco, in classe, davanti a tutti, disse che la mia deportazione era "un' esperienza interessante". Fu tremendo. Per anni non parlai. Solo dopo una pesante depressione, intorno ai sessant' anni, capii che dovevo fare il mio dovere. Mi accompagnò nel percorso la mia amica dolcissima e insieme determinata Goti Bauer, anche lei superstite di Auschwitz».
Di supporto fu anche suo marito Alfredo.
«Mi salvò con l' amore quando lo incontrai a 18 anni, a Pesaro, dove ero in vacanza con i nonni materni. Nel 1943 era stato uno dei seicentomila "no", uno dei soldati italiani catturati che non vollero aderire alla Repubblica sociale e furono rinchiusi nei campi di prigionia.
Quando molti anni dopo decisi di testimoniare, sapevo che c' era lui ad accogliermi ogni volta che tornavo a casa. Fu fondamentale».
Ci fu solo un momento di crisi.
«A un certo punto lo vidi cambiare. Era molto deluso da come andavano le cose nella nostra democrazia. Pensava che quanto aveva subito fosse stato inutile. Si avvicinò a destra, ad Almirante. Per me, con la mia storia, non era accettabile. Ma non volevo limitare la sua libertà, semplicemente gli chiesi di scegliere. E scelse me».
Un Nobel come Imre Kertész (1929-2016), anche lui sopravvissuto alla Shoah, lamentò una banalizzazione della memoria. Lei stessa fu perplessa da «La vita è bella» di Roberto Benigni.
«Non è un brutto film, ma non è realistico. Nessun bambino sarebbe potuto restare nascosto nel lager. Nessuna coppia comunicare con un altoparlante in un campo di sterminio. I bambini andavano subito al gas oppure erano vittime di terribili esperimenti. Benigni avrebbe dovuto dire che si trattava di una favola».
Non la convinse neppure «Schindler' s List» di Steven Spielberg.
«Le comparse erano tutte belle ragazze, in carne. Noi eravamo scheletri. Ed è inverosimile che Schindler potesse far scendere dal treno un ebreo già chiuso dentro. Ricordo che andai a una prima con le scuole, all' Odeon di Milano, proprio con Goti Bauer. E nella scena in cui il nazista spara dal balcone, si levò un applauso. Fu terribile. Non ressi e me ne andai. Rividi Schindler' s List più avanti, alle due del pomeriggio, in un cinema semivuoto. Per fortuna, grazie alle mie testimonianze, ho trovato altri ragazzi, con bravissimi insegnanti, che nel tempo hanno mostrato un ben diverso atteggiamento. A volte dopo anni mi incontrano e ricordano dettagli del mio racconto. Anche se fosse solo per uno di loro, ne è valsa la pena».
A proposito del conflitto tra israeliani e palestinesi, al Festivaletteratura di Mantova 2019, Abraham Yehoshua ha detto che «troppa memoria fa male ai due popoli». Che cosa ne pensa?
«Rispetto le opinioni di tutti, ma forse è un fatto che anche un grande scrittore alcune esperienze non le abbia provate sulla propria pelle. Piuttosto, quando sono andata in Israele per la prima volta, notavo che per uno Stato che desiderava essere vincente, circondato da chi intorno lo voleva annientare, la Shoah era un tema difficile. Chi è nato lì faceva fatica ad accettare che milioni di persone fossero morte. Ci sono voluti anni, soprattutto il processo Eichmann, perché si prendesse atto che gente denutrita, disarmata, sopraffatta, nulla avrebbe potuto anche contro un solo nazista armato su una torretta».
Di recente la riapertura degli archivi vaticani di Pio XII ha rivelato che i fratelli di sua madre chiesero l' aiuto della Santa Sede per avere notizie di lei e suo padre.
«I miei zii me lo raccontarono dopo la guerra. Ahimè fu un tentativo vano. Però nel 1945 fui io a rivolgermi a mio zio Dario Foligno. Convertito al cattolicesimo nel 1933 dopo aver letto sant' Agostino, fu avvocato della Sacra Rota. Chiedemmo un' udienza a Pio XII perché cercavo disperatamente notizie di mio padre».
Sull' operato di Pio XII rispetto alla Shoah sono stati avanzati numerosi dubbi. Come fu il vostro incontro?
«Mi fece un grande effetto. Pio XII aveva occhi neri come fessure. In seguito, vedendo i tagli dei quadri di Fontana avrei sempre ripensato a quello sguardo. Mi disse di non inginocchiarmi: "Sono io che dovrei farlo davanti a te". Sulla sua condotta il mio giudizio è sospeso. Da anni aspettavo l' apertura degli archivi. C' è però una bella foto di lui che benedice a San Lorenzo, a Roma, dopo i bombardamenti. Nella mia fantasia mi sono sempre chiesta: perché non si è messo a braccia spalancate davanti alle locomotive dei treni per i lager?».
Durante il lockdown l' Osservatorio Mediavox sull' odio online dell' Università Cattolica di Milano ha rilevato su Twitter post antisemiti inerenti un supposto potere ebraico sulla finanza. A luglio il presidente Mattarella è stato vittima degli insulti social per avere nominato Sami Modiano, superstite della Shoah, Cavaliere di Gran Croce. Dopo l' apparente tregua Covid, l' odio si è riacceso?
«Antisemitismo e razzismo ci sono sempre. Semplicemente in alcuni momenti è più facile che riemergano. Certo, se torna la paura dell' altro, demonizzato come untore nella sana Europa, e ci si abitua a pensare che ci sono uomini forti a cui affidarsi, allora molto tranquilli non possiamo stare. Ci sono state città che hanno fatto barricate per poche decine di disgraziati arrivati dal mare».
Riprenderanno i lavori della sua Commissione contro l' odio?
«Si sono fermati per il Covid. Sono consapevole che sto per compiere 90 anni e sono meno forte fisicamente, ma ci credo moltissimo. Mi farò aiutare da persone che hanno meno anni e più energia, ma sono pronta a guidarla e spero che si ricominci presto».
Ilse, Eva, Carin e le altre. Tutte le ragazze del Reich. James Wyllie indaga i segreti delle donne in lotta per il potere nella "corte" di Hitler. Matteo Sacchi, Mercoledì 07/10/2020 su Il Giornale. Dietro le quinte del Terzo Reich. Spesso raccontate come le prime vittime dei loro protervi mariti e compagni con la camicia bruna. Oppure sono state loro stesse a raccontare, dopo la guerra, a proposito della vita familiare, che c'era una netta separazione tra quello che accadeva nella Tana del lupo, negli uffici dove veniva pianificata la soluzione finale, e nelle tranquille dimore, dove i gerarchi si trasformavano in «persone normali». Questa vulgata corrisponde alla verità? Non molto. Sulla carta era Gertrud Scholtz-Klink la donna più potente della Germania di Hitler. Dal 1934 fu la leader della Lega femminile nazionalsocialista. Scrisse libri, tenne comizi... Ma non fu mai in nessun modo in lizza per essere la «First lady» del Reich millenario. I veri rapporti di potere avvenivano lontano dall'apparato di partito che, ufficialmente, lasciava alle donne solo ruoli minori. Tutto si giocava nel legame più o meno stretto tra le mogli dei gerarchi e Hitler. L'esempio più chiaro è la parabola di Magda Goebbels che fu la vera «Signora del Reich», tanto da non volergli sopravvivere. Questo complesso sistema di potere - attraverso le mogli Hitler controllava anche i suoi gerarchi e i gerarchi, soprattutto nei momenti difficili, potevano chiedere alle mogli di intercedere per loro - è ben raccontato da James Wyllie (autore televisivo di molti documentari sul nazismo) in Naziste. Le mogli al vertice del Terzo Reich (Utet, pagg. 346, euro 22). Wyllie ricostruisce la vita e i percorsi di alcune delle donne che, per prime, si avvicinarono al nazismo. Ad esempio, Ilse Pröhl, che divenne la moglie di Rudolf Hess e passò i suoi guai dopo la fuga in Inghilterra del marito, fu una nazionalsocialista della prima ora. Suo padre fu ucciso al fronte nel 1917. La sconfitta della Germania fu un ulteriore choc. Quando conobbe un giovane e tormentato Rudolf Hess se ne innamorò subito. E i due si «innamorarono» altrettanto in fretta di Hitler. L'adesione al nazismo di Ilse non fu meno fanatica di quella dell'allora fidanzato, anzi: «Siamo antisemiti. Costantemente, rigorosamente, senza eccezioni. I due pilastri fondamentali del nostro movimento, nazionale e sociale, sono radicati nel significato di questo antisemitismo». Fu Hitler stesso a favorire il matrimonio... Non reso facile dalla scarsa propensione di Hess per il sesso. Un legame che consentì a Ilse di detenere un reale potere nella cerchia di Hitler anche se non sancito in nessuna maniera ufficiale, soprattutto nei primi anni del partito. Fu proprio alla signora Hess che il futuro Führer affidò il compito di sorvegliare sua nipote, Geli Raubal. La ragazza a cui Hitler era morbosamente legato finì, nella migliore delle ipotesi, suicida nel 1931. Ma se Ilse è stata le vestale dei segreti del primo Hitler, Carin Göring è stata colei che ne ha in un certo senso inventato il mito. Di origine svedese Carin conobbe Hermann quando l'asso della Prima guerra mondiale sbarcava il lunario facendo il pilota di voli privati in Svezia. E in questo caso, a differenza degli Hess, fu subito torbida passione. Tanto che Carin, con gran scandalo, divorziò dal primo marito. Fu lei comunque, altra antisemita convinta, che già in patria aveva creato una società panteistica e spiritistica chiamata Club Edelweiss, a contribuire alla nascita della convinzione che Hitler fosse una specie di reincarnazione degli eroi delle leggende nordiche. Il suo radicalismo stupiva piacevolmente persino Goebbels, era sempre pronta ad aggredire i comunisti che «ogni giorno sfilano con i loro nasi adunchi e le bandiere rosse con la stella di Davide». Fisicamente cagionevole, seguì Göring in tutte le sue peregrinazioni dopo il fallito Putsch di Monaco. Quando morì, nel 1931, venne di fatto trasformata in una sorta di santa martire del regime. Margarete Boden, invece, la moglie di Himmler? Più grande di alcuni anni del futuro capo delle SS era una infermiera dedita all'omeopatia ma rimasta traumatizzata dalle violenze a cui aveva assistito sul fronte, durante la Prima guerra mondiale e reduce da un primo matrimonio fallito. Per Himmler svolse sempre un ruolo materno e, in questo caso, siamo di fronte a una donna che pur inserita a pieno nelle logiche del regime cercava di contenere la furia del marito: «Perché devi essere sempre così aggressivo, sempre con la bava alla bocca? Dopotutto, essere conservatori è una cosa bella». La figura indubbiamente più complessa presa in esame nel libro resta quella di Marta Goebbels. Colta, poliglotta e seduttiva era entrata nel partito dopo il divorzio dal primo marito Gunter Quandt. Puntò direttamente Goebbels. Lui si innamorò e quest'amore scatenò tutte le sue gelosie e insicurezze. Nel frattempo, quando Magda venne presentata a Hitler, tra i due si creò una sintonia immediata su cui sono state formulate tantissime illazioni, ma su cui non c'è certezza. Di certo se Hitler doveva chiedere un parere ad una donna lo chiedeva a lei, e la situazione rimase tale anche dopo l'entrata in scena di Eva Braun. Eppure Magda, che si fece avviluppare dal nazismo sino alla scelta del suicidio, era forse la personalità più libera, capace di criticare Hitler sin dal 1936. Donne diverse quindi, però nota Wyllie, tutte con dei tratti comuni. La provenienza borghese e il trauma della Prima guerra mondiale che le aveva private delle certezze di una vita non tanto agiata quanto stabile. Questa frattura le spinse, anche se in modo diverso, verso un gruppo che prometteva il ritorno agli antichi fasti. E quel ritorno lo perseguirono con tutte le loro forze. Da prime tragiche attrici, non certo da comparse.
La ragazza che servì Hitler fino alla fine. E non si perdonò mai di non aver visto il Male. A 24 anni divenne la segretaria del Führer. Seguendolo anche nel bunker. Per mezzo secolo non riuscì a parlarne. Poi raccontò tutto e, subito dopo, morì. Antonio Monda il 18 agosto 2020. su L'Espresso. C’è stata una sola persona che ha vissuto accanto a Hitler gli ultimi quattro anni della sua vita, ma il suo nome non è Eva Braun, bensì Traudl Junge. A poco più di venti anni di età fu assunta come segretaria personale del Führer, diventando depositaria di segreti terribili e testimone di avvenimenti sconvolgenti. Per oltre cinquanta anni, Traudl ha rifiutato di raccontare pubblicamente la sua esperienza, ma alla fine, sotto il peso di un inestinguibile senso di colpa, ha deciso di confessarsi di fronte alla macchina da presa di due registi austriaci di nome Andre Heller e Othmar Schmiderer. Sin dalle prime immagini parla del Führer come di un «mostro» e di un «criminale», ma è la prima a ricordare che all’epoca lo considerava semplicemente un datore di lavoro «gentile e paterno». Traudl, che non aderì mai al partito nazista, non subì alcun tipo di condanna per il suo lavoro di segretaria e dopo un periodo di prigionia in un campo americano si ritirò in un piccolo appartamento di Monaco, alternando la propria attività di correttrice di bozze con quella di assistente volontaria per persone non vedenti. Dalle nove ore di conversazione registrate, Heller e Schmiderer trassero un documentario di novanta minuti di esemplare semplicità intitolato “Blind Spot: Hitler’s secretary”, di straordinaria potenza evocativa. I due registi si limitano ad ascoltare i suoi racconti, intervenendo solo qualche domanda focalizzata sugli aspetti quotidiani, e meno noti della personalità del Führer. Traudl, che proviene da una famiglia povera e totalmente disinteressata alla politica, trovò il lavoro come segretaria grazie a una raccomandazione. Il racconto del primo incontro con Hitler offre la prima sorpresa: la ragazza aveva sentito la voce del Führer solo alla radio e aveva nelle orecchie il tono stridente e le urla esagitate dei comizi. La sera in cui lo conobbe rimase invece colpita dal «tono affabile» e l’atteggiamento «gentile e protettivo». Per lungo tempo fu addetta allo smistamento delle centinaia di lettere d’amore che Hitler riceveva settimanalmente, poi, nel 1941 venne promossa segretaria personale, dopo un test di dattilografia che riuscì a superare grazie a una telefonata di Ribbentrop, che non fece notare al Führer la lunga serie di errori causati dal nervosismo. In uno dei pochi momenti in cui confessa l’angoscia che prova da quei giorni, Traudl ammette che quel salvataggio in extremis causò in realtà la sua rovina. Venne ammessa da allora nel sancta sanctorum e si trovò a convivere con un uomo che si macchiava dei più orribili crimini dell’umanità mentre la trattava con assoluta gentilezza e la chiamava «piccola cara». La Junge sostiene che la posizione troppo vicina alla realtà le procurava paradossalmente una sorta di cecità rispetto alla realtà (da qui il titolo: “blind spot”) e parla ripetutamente della capacità di manipolazione sulla coscienza di un intero popolo: in uno dei momenti più inquietanti ripete l’intonazione con cui Hitler assicurava che si sarebbe «assunto ogni responsabilità morale» per le proprie scelte, ritenendo di aver così liberato da ogni peso la coscienza dei suoi seguaci. Negli uffici della cancelleria, e più tardi nei diversi bunker, la giovanissima Traudl smistava e batteva a macchina gli ordini del Führer ritenendoli delle normali procedure di guerra. Secondo la sua testimonianza Hitler non parlava mai dei campi di concentramento e raramente degli ebrei, riferendosi solo occasionalmente all’«internazionale giudaica» che avrebbe prevalso senza il suo intervento. Prendeva in giro il Furher per il suo aspetto "non ariano". E fu tra i primi a capire il pericolo dei nazisti. Arrestato poche settimane dopo la loro ascesa al potere, fu assassinato dopo sedici mesi di prigionia a Dachau. L’Hitler visto da vicino è molto diverso da quello dei documentari classici: abbondano i racconti delle sue fobie (detestava i fiori, che considerava portatori di morte) e delle sue passioni: nulla lo rendeva felice come giocare con la sua cagna Blondi e i suoi cuccioli, e niente lo rasserenava come la visita del dottor Theodor Morell, un antesignano della medicina omeopatica che curava il Führer dai suoi dolori allo stomaco. Era stato Morell a consegnare la rigorosa dieta vegetariana ed era sempre lui che gli raccomandava di pulirsi attentamente dopo aver giocato a lungo con i cani. Ogni tanto Hitler confidava alla sua segretaria opinioni sul rapporto tra i due sessi («le donne più belle devono stare con gli uomini più forti») che la stessa Traudl donna trovava a dir poco «barbare», e la invitava a consumare pasti frugali ascoltando “Red roses tells you of love”. Il clima sereno cambiò drasticamente dopo Stalingrado: Traudl fu testimone di una scenata fatta da Hitler alla moglie di Baldur von Schirach che aveva espresso alcune perplessità sul modo in cui erano trattati gli ebrei in Olanda, e le fu richiesto di rimanere strettamente a contatto di un uomo che appariva ogni giorno più instabile e ripeteva: «Le persone che non possono capire non debbono parlare». Il giorno dell’attentato, nel luglio del ‘44, fu tra le prime ad assistere il Führer: rimase coinvolta dal senso di eccitazione che Hitler riuscì a infondere al suo staff e poi all’intera nazione quando parlò della Provvidenza che lo aveva salvato per consentirgli di portare a termine la sua missione. La segretaria identifica in quel momento il passaggio in cui il suo capo perse ogni contatto con la realtà. Perfino lei si accorgeva che nelle visite alle città attaccate gli venivano mostrate soltanto le aree rimaste intatte, e sentiva una aria crescente di scoramento perfino tra i fedelissimi. Divenne amica di Eva Braun e le rimase accanto il giorno del matrimonio. Brindò con lei nel grottesco festino organizzato nel bunker e fu la prima a chiamarla Fraulein Hitler. Fu sempre lei che cercò di consolarla quando il Führer diede ordine di uccidere il marito della sorella di Eva, Hermann Fegelein, per il semplice fatto che non aveva cercato rifugio sotto le stesse mura. Traudl decise di rimanere fino all’ultimo insieme al suo capo e assistette a tutte le discussioni sulla scelta del suicidio più sicuro. Gli ultimi momenti furono scanditi dai racconti terrorizzanti di quanto era successo alle donne tedesche cadute nelle mani dei soldati dell’armata russa. All’interno del bunker si parlava di stupri, castrazioni e di un mondo esterno degno di Bosch: Traudl lascia intendere che si trattava di un modo di convincere tutti al suicidio, ma certo è che fu quello il momento in cui Eva le disse che avrebbe voluto essere un «bel cadavere». La segretaria fu testimone dell’uccisione dei sei bambini di Goebbels per mano degli stessi genitori. Nell’unico momento di commozione dell’intero documentario ricorda lo sguardo angosciato di Helga, nemmeno 12 anni, la figlia più grande, la quale si era resa conto che il padre non le stava affatto offrendo un vaccino. Traudl fuma nervosamente e parla come se la ragazza fosse ancora di fronte ai suoi occhi, poi preferisce ricordare la morte di Blondi, sacrificata per verificare l’efficacia del cianuro inviato da Himmler sospettato di tradimento. Prima del gesto estremo, Hitler salutò la sua segretaria dicendole «se solo i miei generali avessero il suo coraggio», poi si rinchiuse nel suo ufficio privato e si sparò dopo aver dato disposizione che il suo corpo venisse bruciato. Traudl capì immediatamente che quel momento per lei non rappresentava una fine, ma l’inizio di un lunghissimo periodo di espiazione. Ci sono voluti più di cinquant’anni prima che ne parlasse pubblicamente. E solo un giorno per morire, il 10 febbraio 2002, dopo che il film fu presentato al Festival di Berlino.
Vril, Zoroastro e Superuomo. Tutti i segreti magici di Hitler. Il nuovo definitivo studio del politologo Giorgio Galli sui rapporti tra nazismo, Potere e mondi esoterici. Luigi Mascheroni, Mercoledì 04/11/2020 su Il Giornale. Pochi accademici hanno penetrato gli arcana del Reich - che doveva essere millenario e invece affondò con il suo Führer - come Giorgio Galli, 92 anni, politologo, a lungo docente di Storia delle Dottrine politiche all'Università degli Studi di Milano, autore dalla sterminata bibliografia e soprattutto attento studioso del rapporto fra storia ufficiale ed esoterismo. Oggi, dopo il bestseller Hitler e il nazismo magico (1989), più volte aggiornato e ristampato, del continuum Hitler e la cultura occulta (2013) e dopo aver curato l'unica edizione italiana filologicamente autorevole del Mein Kampf (Kaos, 2002) Galli chiude il cerchio magico di oltre un trentennio di studi con Hitler e l'esoterismo (Oaks). Un saggio del tutto nuovo che, analizzando accuratamente tutti gli scritti di Adolf Hitler e del suo entourage, approfondisce molte linee di ricerca dei suoi libri precedenti e aggiunge ulteriori spunti di riflessioni. Ad esempio.
DA ZOROASTRO A NIETZSCHE Finora per nulla indagata è stata l'influenza che ha avuto su Hitler lo zoroastrismo, la religione basata sugli insegnamenti del profeta Zarathustra, o Zoroastro, nata nelle regioni iraniche e dell'Asia centrale, culla della civiltà ariana, attorno al VI secolo a.C. E in particolare l'interpretazione zoroastriana dell'eterno conflitto cosmico tra Bene e Male, ovvero Luce e Tenebre, che avviene in una dimensione altra, sconosciuta all'Uomo, e di cui le lotte sulla terra sono solo una proiezione (Hitler era convinto che le vittorie e le sconfitte sono già scritte in una dimensione extra terrestre). Da una parte c'è Arimane, lo spirito malvagio che guida le legioni dei demòni, e dall'altra Ahura Mazda, lo spirito santo del Bene a capo delle schiere angeliche. Quella che il nazionalsocialismo inizia a combattere il 1° settembre 1939 è, nella concezione di Hitler, la guerra contro Arimane: ossia contro l'Ebreo e poi contro il giudeo-bolscevismo da ricacciare all'inferno. Una guerra esoterica, ma da impostare con realismo e flessibilità.
MAESTRI MISTERIOSI Non c'è alcun elemento che provi una influenza diretta sul Führer di Georges Gurdjieff (1866-1949), autentico maestro esoterico di origine greco-armena. Ma di certo le sue idee appassionarono Alfred Rosenberg, ideologo del Partito nazista e Ministro del Reich per i territori occupati dell'Est. In merito alla cui carica occorre ricordare che Hitler aveva ben chiaro, sovrapponendo la geopolitica all'esoterismo, che chi governa l'Europa dell'Est governa l'Heartland, l'isola «cuore del mondo» a cavallo degli Urali; e chi comanda l'Heartland comanda il mondo. Ed è da qui che il Terzo Reich, regno della razza ariana, può spingersi sempre più a Oriente, alla ricerca delle mitiche sedi di un'antica saggezza, Shamballah e Agarthi. E sul mito di Agarthi scriverà un libro culto, nel 1924, René Guénon, il più noto degli esoteristi dell'epoca, seppure non direttamente collegabile a oggi alle divisioni corazzate tedesche: Il re del Mondo.
NAZISTI BUONI E CATTIVI Giorgio Galli conferma come l'intera gerarchia nazista fosse composta da iniziati (Hitler, Himmler e Hess erano tutti dei mistici, imbevuti di una millenaria cultura esoterica che confinava con la Tradizione). Ma allo stesso tempo avanza l'ipotesi che dentro il Terzo Reich la corrente magica non fosse affatto un monolito. Anzi. Da una parte c'è un esoterismo volto al Male, il cui obiettivo è la conquista e l'esercizio del Potere, e che ebbe come esito la manifestazione più autodistruttiva l'occultismo abbia mai conosciuto: la guerra totale, fino alla vita dell'ultimo tedesco, del nazismo hitleriano. E dall'altra c'è un esoterismo volto alla Conoscenza, il cui fine è comprendere il Mondo e cosa siamo noi nel Mondo. Di questa seconda declinazione dell'esoterismo - fra le cui fila milita anche Ernst Jünger - sono espressione alcuni membri della Società di Thule, del circolo di Kreisau e del Cenacolo di Stefan George dove si formano gli ufficiali aristocratici che attorno al colonnello von Stauffenberg prima aiutano il Führer a raggiungere il potere e poi cercano di eliminarlo nel luglio 1944, quando la sua guerra sta portando alla rovina il loro Terzo Regno (il Terzo Reich dell'ideologia hitleriana). Regno, pensato millenario, che sperano di salvare mediante una intesa con i loro omologhi aristocratici esoteristi vicini alla corte inglese, con i quali Rudolf Hess aveva cercato di prendere contatto fin dal maggio del 1941 alla vigilia della catastrofica campagna di Russia. È «il partito esoterico della Pace».
ANTICHE CIVILTÀ PREDILUVIANE Adolf Hitler, come molti occultisti, credeva a una storia della Terra diversa da quella «essoterica» - cioè per i non iniziati - secondo cui in ere antichissime il pianeta era stato abitato da civiltà tecnologicamente avanzate in possesso di elementi di Sapienza molto maggiori di quanti ne possiedano le generazioni attuali (fra cui il Vril e il controllo dell'energia solare, da cui il culto della Svastica), poi scomparse a causa di misteriose catastrofi naturali: glaciazioni, terremoti, diluvi... Da qui la ricerca di Atlantide e le missioni delle SS Ahnenerbe composte da scienziati, esploratori e archeologi nazisti spediti per gli angoli più remoti del mondo alla ricerca dell'eredità delle razze nordiche indogermaniche, di insegnamenti segreti e di reliquie magiche.
VIAGGIO NELLA TERRA CAVA A proposito della teoria della Terra cava, il luogo leggendario dove i nazisti ritenevano che fossero custodite le radici del «mitico popolo ariano»: Giorgio Galli riavvolge il lungo filo che lega lo scrittore francese Jules Verne (1828-1905), autore del celebre romanzo scientifico avventuroso Viaggio al centro della Terra (1864), ad alcune società segrete che precedettero la Thule-Gesellschaft, la Società Thule che vide tra i suoi adepti anche Rudolf Hess e Alfred Rosenberg (oltre allo stesso Hitler), la cui eredità ideologica fu raccolta dal Partito Nazionalsocialista. Verne, ritiene Galli, credette certamente che l'esoterismo aiutasse ad accompagnare l'Uomo verso la Conoscenza, e non l'uso del Potere. Ma rimane la domanda: perché allora il nipote Gaston tentò di assassinarlo?
UNTERMENSCH E SUPERUOMO Giorgio Galli, che ha studiato il rapporto tra politica e pratiche magiche in tutta l'epoca moderna, dalla stregoneria alle cartomanti di Reagan, dalla Germania hitleriana all'Urss di Stalin, individua un minimo comune denominatore di tutte le culture esoteriche: ossia la convinzione che attraverso il raggiungimento di una Sapienza capace di andare oltre la Ragione illuminista si possa costruire un Uomo Nuovo. Un esperimento magico-filosofico che, puntando al Superuomo, il nazismo portò alle estreme, tragiche, conseguenze.
TENEBRE E ILLUMINISMO Ultima considerazione. Una delle idee portanti del saggio è che il Nazismo costituì una risposta critica - la più nefasta che l'Uomo potesse trovare, tra le tante che pure il Novecento ha avanzato - all'Illuminismo e al dominio della Ragione nel mondo, deviando il sapere esoterico dalla via della Conoscenza al baratro del Potere. E trasformando l'eterno conflitto tra Bene e Male in un Olocausto.
Adriano Scianca per "La Verità" il 13 agosto 2020. La regola fondamentale del canone letterario sul nazismo magico è stata fissata sessant' anni fa da Louis Pauwels e Jacques Bergier, nel loro famoso, ma anche famigerato, Le matin des magiciens: «Lenin diceva che il comunismo è socialismo più elettrificazione. In un certo senso, l'hitlerismo era il guénonismo più le divisioni corazzate». Metti il più avanzato, organizzato e letale esercito mai esistito alla ricerca del leggendario Re del mondo e avrai la formula magica del nazionalsocialismo. Un minestrone da far mettere le mani nei capelli a qualsiasi storico serio, ovviamente. Non va così per la narrativa, che da anni cerca con successo nuovi filoni aurei nella sterminata miniera del nazismo esoterico. L'ultima autrice ad aver gettato su carta l'incandescente materiale in oggetto è Luisa Gasbarri, appena uscita nelle librerie con il suo Il male degli angeli (Baldini & Castoldi). Il romanzo si svolge su due piani temporali. Il primo si snoda nel 1935, quando un ufficiale delle Ss viene mandato da Berlino a Rostock per un sopralluogo su un incendio che ha distrutto una scuola, si dice appiccato da un'orfana di dieci anni, senza alcuno strumento incendiario. Nella Roma di oggi, invece, la studiosa Sara Wolner indaga su altri episodi di donne torturate e bruciate. Le due vicende sono ovviamente legate tra loro e hanno a che fare con la misteriosa Società Vril, l'ordine esoterico del Terzo Reich che negli anni Quaranta concentrò a Berlino le medium più illustri dell'epoca. Fermiamoci un attimo: cos' era questa Società Vril? Ce lo spiegano ancora Pauwels e Bergier: si tratterebbe di un gruppo berlinese, noto anche come Loggia luminosa, basata sulla ricerca del Vril, una potentissima energia celata all'interno dell'essere umano e che non sappiamo usare se non in minima parte. Il maestro della geopolitica, Karl Haushoffer, sarebbe appartenuto a tale gruppo, che aveva anche a che fare con teorie ancor più strambe su certi superuomini dalle facoltà incredibili rifugiatisi al centro della terra e in procinto di uscire allo scoperto: «Il mondo sta per cambiare. I Signori stanno per uscire da sotto alla terra. Se non ci saremo alleati con loro, se non saremo dei signori, anche noi saremo tra gli schiavi», scrivevano minacciosi gli autori del Mattino dei maghi. Cosa c'è di vero? Praticamente nulla. La storia del vril si basa in realtà sul romanzo La razza ventura, scritto nel 1871 dal romanziere inglese Edward Bulwer-Lytton. Da qui a farne la loggia segreta che tirava i fili dei gerarchi nazisti, ce ne passa. Ha scritto Eric Kurlander nel suo recente I mostri di Hitler. La storia soprannaturale del Terzo Reich (Mondadori): «Non c'è nulla che provi che il nazismo fosse appoggiato da un'oscura "Società del Vril" ispirata dal Tibet, una delle credenze preferite dei criptostorici. Non abbiamo, ugualmente, alcun motivo di credere che Hitler fosse guidato da un gruppo di saggi tibetani, i seguaci della mitica Agarthi, collegati al mistico russo George Gurdjieff». In Tibet, in verità, le Ss ci arrivarono davvero, grazie alla spedizione organizzata nel 1938 dalla Deutsches Ahnenerbe - Studiengesellschaft für Geistesurgeschichte («Eredità tedesca degli antenati - Società di studi per la preistoria dello spirito», il «centro studi» dell'ordine nero sorto il 1° luglio 1935 per iniziativa di Heinrich Himmler). Ma si tratta di episodi storici studiati, su cui i misteri sono ormai pochissimi. Che nelle Ss esistesse anche una dimensione «rituale», che passava appunto per l'Ahnenerbe e per personaggi come Karl Maria Wiligut o Wolfram Sievers, è in realtà acclarato. Ed è anche vero che, quando Benito Mussolini fu arrestato, nel 1943, e portato in un luogo segreto, i tedeschi, oltre ai tradizionali strumenti di intelligence scomodarono anche sensitivi e veggenti per riuscire a capire dove fosse nascosto il capo del fascismo. Ma sappiamo anche come gli ambienti esoterici avessero scarsissima presa su Adolf Hitler. Uno che di esoterismo se ne intendeva, ovvero Julius Evola, in un'intervista del 1971 affermò: «Hitler aveva una concezione puramente profana, quasi darwiniana dell'uomo: il dominatore, il più forte, la lotta dell'esistenza si impone... Ora, tutto ciò non ha nulla di tradizionale». L'interesse per l'occulto non fu peraltro un'esclusiva del Terzo Reich: dal fascismo italiano al comunismo russo, passando anche per le varie sette e logge che influenzano le alte sfere delle democrazie anglosassoni, da sempre il potere ha a che fare con certi ambienti e con certe influenze. Sempre nel 1971, un altro nome pesante degli studi esoterici italiani, Pio Filippani Ronconi, si ritrovò a parlare di un libro che riconduceva il nazismo addirittura a una misteriosa setta catara: «Che nella Germania fra le due guerre vi fosse un notevole interesse per le scienze occulte è innegabile e che questa predilezione caratterizzasse alcuni circoli aristocratico-militari, gravitanti attorno a personalità di spicco quali Karl Haushofer [...] è fuor di dubbio. [] Ma, da questo ad affermare perentoriamente la presenza dell'elemento graalico-cataro nelle imprese di Hitler, ne corre! Si direbbe, piuttosto, che simili studi, coll'ingigantire il veicolo mitico di correnti politiche, si propongano proprio lo scopo di deviare un'autentica ricerca spirituale». Insomma, la storia vera è un'altra cosa. Materia per i romanzi, invece, ce n'è fortunatamente in abbondanza.
Da "corriere.it" il 3 agosto 2020. Abbiamo bisogno, a ottant' anni di distanza dalla sua costruzione, di un libro che racconti che cosa è stato Auschwitz? Quel nome è diventato simbolo di uno degli eventi più tragici della storia, incarnazione della politica razzista del nazionalsocialismo e del tentativo - in gran parte riuscito - di distruzione degli ebrei d'Europa da esso perseguito. Eppure se si domandasse non solo a giovani studenti, ma anche a insegnanti e storici, di raccontare che cosa è stato, nella realtà, Auschwitz, riceveremmo probabilmente risposte approssimative. Frediano Sessi ha dedicato gran parte della sua vita di storico a studiare la questione ed è riuscito a proporre, proprio nell'ottantesimo anniversario dell'apertura del lager nella cittadina polacca di Oswiecim (14 giugno 1940), il volume Auschwitz (Marsilio), una sintesi ampia ed esauriente che permette a chiunque di comprendere quanta storia ci sia dietro quel nome, quel simbolo, quel richiamo a una tragedia su cui si sono interrogati filosofi e teologi, politici e scienziati sociali, senza mai riuscire a penetrare - in modo convincente, coerente, completo - il dramma di quell'evento storico. La forza del libro di Sessi risiede nella semplicità del racconto fattuale: come è stato costruito il lager, quando è stato deciso, con quali tappe, con quali finalità, come è stato ingrandito, come è stato utilizzato per propositi differenti, chi vi è stato rinchiuso, chi erano le vittime, come lavoravano, vivevano e morivano, chi erano i carnefici, quali compiti avevano, che organizzazione esisteva nel campo, che cosa si mangiava, come si veniva puniti, che informazioni si avevano sulla natura di quello che vi avveniva. È incredibile rendersi conto che quando un evento storico è raccontato nella sua complessità - e lo si può fare con semplicità e con un linguaggio accessibile -, affrontandone ogni aspetto, l'interpretazione su cosa sia stato e abbia significato appare improvvisamente chiara ed evidente, senza bisogno di elucubrazioni teoriche che sono spesso la giustificazione di una scarsa conoscenza e cognizione della realtà. Ed è per questo che il libro di Sessi dovrebbe essere letto da tutti. Man mano che il racconto procede, nella prima parte, sulla fondazione e struttura organizzativa del campo, sul personale, sulle unità amministrative, sulla vita quotidiana (cibo, vestiario, lavoro, malattie), si scopre una realtà complessa, che illumina aspetti poco noti (i medici detenuti, le visite della Croce Rossa, la sessualità) e che ci fa entrare con l'immaginazione nella «normalità» dell'universo concentrazionario. La seconda parte racconta invece lo sterminio, i luoghi e le forme dell'eliminazione, il personale delle SS e gli ultimi istanti di vita delle vittime, le tante e diverse categorie in cui esse sono divise, il destino delle donne e dei bambini. Tra i tanti temi già noti agli specialisti, Sessi insegue con tenacia la realtà dei Sonderkommando , degli ebrei destinati al funzionamento delle camere a gas e dei forni crematori, per definire il cui ruolo Primo Levi parlò del «delitto più demoniaco» inventato dal nazismo. È grazie ad alcuni di loro che abbiamo le poche scarne fotografie che non siano quelle ufficiali scattate dai carnefici e la storia di quella controversa azione si conclude con il tentativo di ribellione che portò il 7 ottobre 1944 all'eliminazione della maggior parte di loro. È proprio attraverso questa immersione nella vita quotidiana del lager che ci si rende conto di quanto sia falso un luogo comune che ha accompagnato da sempre la Shoah, e cioè la docilità con cui gli ebrei sarebbero andati incontro alla morte. Il capitolo sulle «resistenze», molteplici e differenziate, anche se spesso individuali o di piccoli gruppi, pur se quasi sempre destinate al fallimento, ci mostrano quanto, anche all'interno del sistema di disumanizzazione creato nei campi di sterminio, fossero sempre presenti la voglia di ribellione, di libertà e lo spirito di solidarietà, spesso dimenticato per ricordare l'egoismo della sopravvivenza di cui Primo Levi e gli altri grandi sopravvissuti ci hanno più volte drammaticamente raccontato. Di grande utilità il capitolo su processi e sentenze, che ci permette di comprendere come mai solo negli anni Sessanta la Germania inizierà a fare i conti col suo passato genocidario. L'ultima parte, sulla memoria di Auschwitz, con l'aiuto dei contributi di Enrico Mottinelli, di Carlo Saletti, Claudio Gaetani e Fulvio Baraldi, completa il racconto parlandoci della musealizzazione, delle memorie delle vittime e dei carnefici, della rappresentazione che di Auschwitz ci hanno dato il cinema, la letteratura, la musica.
Pierangelo Sapegno per “la Stampa” il 13 luglio 2020. Anna ha tenuto tutte le parole che scriveva suo marito. Perché è lì che lui ha continuato a vivere, in quelle parole che dicevano poche cose e raccontavano tutto. Ogni tanto, alla sera, nella sua casa di Tel Aviv, ancora adesso, tanti anni dopo, riprendeva le lettere che Daniele le aveva fatto arrivare di nascosto dalla prigione di Trieste prima di essere mandato ad Auschwitz, una ogni giorno per 250 giorni, e le rileggeva da sola, perché il tempo era passato e i figli erano diventati grandi e s' erano sposati, e la vita era diventata un'altra cosa, e anche il dolore. Ma in quegli 8 mesi terribili, nel 1944, lei le leggeva ad alta voce ai suoi figli, che avevano 8 e 9 anni, e non piangeva mai. «Noi le ascoltavamo con un misto di gioia e malinconia», ha ricordato Vittorio che oggi ne ha 85 di anni. Sembra impossibile. Ma l'amore non è mai impossibile. Loro aspettavano con ansia che arrivassero le lettere che il papà riusciva a nascondere nelle camicie da lavare e si mettevano attorno alla mamma, come in un rito della cena quando si spezza il pane per tutti: lei le illuminava alla flebile scintilla di un fiammifero, perché nella stanza dove li teneva suo cognato, il muratore cattolico che li stava salvando, non c'era una finestra, e non c'era l'acqua e nemmeno la luce, e cominciava a scandire le parole. Tutte le parole. Erano racconti di dolore e dichiarazioni d'amore. «Io vi amo veramente tanto. E prego Dio che torneremo a vivere insieme». Il tappezziere Daniele Israel, un bravuomo di 33 anni che aveva il suo bel negozio ben avviato a Trieste che dava lavoro a un mucchio di cattolici, non riusciva a credere a quello che stava capitando. Possibile che volessero davvero ucciderlo solo perché era ebreo? Anche se lo torturavano per sapere dove si nascondevano i suoi figli, lui continuava a essere convinto che prima o poi l'avrebbero liberato, magari dopo averlo spogliato di tutto, e quando portavano altri ebrei in prigione e dopo pochi giorni li mandavano via scriveva alla moglie che era ingiusto che lui continuassero a tenerlo lì. Solo alla fine aveva capito che invece li mandavano a morire. E che il giorno in cui lo presero e lo fecero salire su quel treno, il 2 settembre 1944, anche per lui si stavano aprendo i cancelli della morte. «Papà aveva paura solo per noi», hanno spiegato i figli Vittorio e Dario, che la Bbc ha rintracciato a Tel Aviv, recuperando le 250 lettere riscritte con cura certosina da Elisabeth Zetland, e conservate oggi al Yad Vashem, the World Holocaust Remembrance Center di Gerusalemme. «Non temeva per sé. Si raccomandava alla mamma che stesse molto attenta. Che con i nazisti lui teneva duro». Daniele Israel aveva un volto così normale e i capelli neri tirati indietro con la brillantina, come si faceva allora. I suoi figli, Dario e Vittorio, invece avevano quello sguardo spalancato sul mondo che hanno tutti i bambini che non sanno ancora che grande sorpresa è la vita, quanto amore nasconda, e quanto dolore, anche. Mamma Anna era l'unica che sorrideva nelle foto che la Bbc ha allegato alle lettere. Danno bene l'idea della serenità travolta dalla follia. Daniele fu arrestato il 30 dicembre del '43 nel suo negozio di tappezzeria assieme al suocero. Anna e i figli furono nascosti dal cognato carpentiere che raccontò ai vicini che erano sfollati perché gli americani gli avevano bombardato la casa. Appena in carcere, Daniele trovò il sistema per far arrivare le sue lettere alla moglie. «Era un abile sarto, un maestro nello scucire, ricucire e rifinire», ha raccontato Dario. Nascose le lettere piegandole nel colletto e nei polsini delle camicie da lavare, che due suoi ex dipendenti non ebrei, addetti alla lavanderia del carcere, raccoglievano dalla biancheria e con grande rischio personale facevano avere a sua moglie. «Noi stavamo seduti attorno alla mamma e ascoltavamo le parole di papà». Poi la mamma scriveva le risposte che i due ex dipendenti ricucivano e portavano al marito in carcere. Che però era costretto a distruggerle subito. Le uniche parole che si sono conservate sono le sue. «Scriveva molto di noi perché voleva aiutarci ad affrontare questo momento. Era molto ottimista. Pensava che le cose si sarebbero aggiustate. Però avvertiva anche mia madre che c'erano molte spie e che lei non doveva fidarsi di nessuno». Queste lettere contengono una mole enorme di informazioni sulla vita della prigione. Raccontano delle persone che venivano arrestate e buttate nelle celle. Delle torture. E anche della vita dietro le sbarre: un letto di paglia, il cibo scarso, le sofferenze comuni. Capitava che i nazisti lo obbligassero a fare dei lavori nelle loro case. Una volta avrebbe potuto anche provare a scappare da una finestra del gabinetto. Ma gli mancarono le forze. Tornò in cella con le guardie. C'era un ricordo che lo ossessionava. Un giorno i suoi due figli erano tornati a casa in lacrime perché i vicini li avevano aggrediti a botte e insulti, «maiali ebrei». Ma lui anziché rincuorarli li aveva sgridati per non aver reagito: «Non potete lasciarvi insultare». Adesso però questo era il suo più grande rimorso e continuava a scrivere per chiedere scusa: non aveva capito quello che stava succedendo. Una volta riuscì a mandare chissà come ad Anna 200 lire assieme alle lettere: «Per favore fai un regalo a Dario e Vittorio per il compleanno». Era il 20 agosto. Sono gli ultimi giorni. Dopo un bombardamento americano su Trieste, Dario si smarrì per 24 ore. Quando tornò, aveva subito delle lesioni alla memoria e non ricordava neppure che il padre era in prigione. Quando recupera i ricordi, Daniele si mette d'accordo con la moglie perché vengano a vederlo nella sua ora d'aria. Lei sale con Dario all'ultimo piano della casa di fronte. Sono pochi minuti. Lui alza gli occhi e si commuove. Lo scrive nella lettera e chiede ad Anna di portare Vittorio il giorno dopo. Lei lo fece. «Mio padre ci guardò e si strinse le braccia al petto, come se ci abbracciasse». È l'ultima immagine che hanno di lui. Il 2 settembre del '44, quando lo misero sul treno per Auschwitz, lui aveva già capito tutto e aveva perso le speranze. Chiedeva a loro di vivere perché così avrebbe vissuto anche lui. Continuò a scrivere miracolosamente anche su quel treno. Conobbe un ferroviere e gli chiese di portare la lettera a sua moglie. Un giorno, tanto tempo dopo, si presentò un signore chiedendo se lei fosse Anna Israel e le consegnò le ultime parole di Daniele. I suoi suoceri, che erano con lui su quel treno, morirono ad Auschwitz. Ma nessuno ha mai saputo cosa capitò a Daniele. Seppero solo che lui era stato visto vivo due settimane prima che il campo fosse liberato. Anna lo ha cercato per anni, sperando che fosse andato in Russia o avesse perso la memoria. Alla fine le hanno detto che doveva essere morto in una di quelle terribili marce forzate con cui i tedeschi spostavano i prigionieri. Nel '49 lei ha deciso di andare in Israele con i figli. Lui è rimasto in quelle lettere. Manca solo quella sul treno, che Daniele il tappezziere aveva scritto mentre arrivava ad Auschwitz. Ma lei la ricorda a memoria: «Fin da lontano puoi vedere il fumo. C'è così tanto fumo qui. Dev' essere l'inferno».
Mariella Bussolati per "it.businessinsider.com" il 28 agosto 2020. Ai tempi della Germania nazista, rispettabili cittadini tedeschi, che fino a quel momento non avevano torto un capello a nessuno, hanno denunciato i loro vicini ebrei pur sapendo che fine avrebbero fatto. Nella sanguinosa battaglia tra Hutu e Tutsi in Ruanda, perfino i contadini hanno imbracciato le armi contro chi fino a quel momento aveva lavorato insieme a loro. Gli esempi possono continuare con persone più direttamente coinvolte, come soldati di bassa leva che hanno fatto stragi, o personale delle carceri che si è trasformato in aguzzino. Come mai gente apparentemente normale si può trovare a un certo punto a commettere crimini orrendi? L’empatia, la caratteristica che ci permette di condividere il dolore e di attivare un comportamento altruistico, è fortemente impressa nella nostra biologia umana, ed è servita a farci evolvere. Tanto che è visibile nel nostro cervello: quando vediamo che qualcuno soffre si attiva la parte anteriore e la corteccia cingolata che ci portano ad agire per il bene degli altri. In pratica mappiamo il loro disagio nel nostro stesso sistema di riconoscimento del male grazie ai neuroni a specchio. Quindi in pratica non procuriamo esperienze negative perché non le vogliamo provare a nostra volta. Anche gli altri mammiferi, come i roditori o i primati, hanno lo stesso meccanismo. Chi invece riesce a ignorare questo impulso e a impartire sofferenza evidentemente deve seguire tutt’altro processo. Un gruppo di ricercatori dell’Istituto olandese di Neuroscienze è andato dunque a indagare il motivo per cui tutto questo possa avvenire. E hanno scoperto che il motore che permette di ignorare le proprie pulsioni biologiche è l’obbedienza a ordini, impartiti in modo violento. Stiamo parlando di un’obbedienza particolare, quella che corrisponde a una gerarchia di poteri, in cui la persona che impartisce l’ordine ha uno stato più alto di chi lo riceve. Per capire come mai in questo caso basti un comando per spingere a essere immorali hanno utilizzato coppie di partecipanti, uno con il ruolo di agente, l’altro di vittima. Poi hanno scambiato i ruoli, facendo si che le vittime diventassero agenti. Agli agenti veniva effettuata nel frattempo un risonanza magnetica che permette di studiare le reazioni del cervello. Gli veniva chiesto di decidere, schiacciando un bottone, se infliggere o no uno shock alla vittima. In caso positivo ricevevano anche 0,05 euro. Ma si trattava di una libera scelta. In un momento successivo gli sono stati imposti ordini autoritari e il comando di procurare un supplizio. In questo caso gli agenti hanno schiacciato più spesso il bottone per impartire danni alla vittima. Il loro cervello dimostrava che a causa di questa situazione le regioni dell’empatia erano meno attive, erano inibite anche le zone che mostrano un riconoscimento di quanto fatto e quindi il senso di responsabilità. Erano anche inibite le aree relative al senso di colpa. Inoltre pensavano di fare meno male rispetto a quando potevano decidere liberamente. Non a caso, quando alla fine dell’esperimento veniva chiesto quanto si sentivano cattivi o se provavano dispiacere, i partecipanti rivelavano che avevano provato un maggiore senso di disagio quando avevano potuto decidere da soli. Adolf Eichmann, giustiziato nel 1962 per aver organizzato l’Olocausto e aver pianificato lo sterminio degli ebrei, nel processo aveva espresso sorpresa nel sapere che lo odiavano, rivelando di aver solo obbedito. Nel suo diario aveva anche scritto che gli ordini erano per lui una delle cose di più alto livello nella sua vita, e eseguirli era senza discussione. Eppure gli psichiatri lo avevano dichiarato sano di mente, e veniva da un normalissima famiglia. La storia di Eichmann aveva interessato Stanley Milgram, uno dei primi psicologi che ha effettuato esperimenti sull’obbedienza. Aveva ottenuto gli stessi risultati del team olandese, ma non ne conosceva le cause. La risonanza magnetica invece evidenzia chiaramente questo processo: la corteccia anteriore cingolata, il putamen caudato, un gruppo di nuclei che sono interconnessi con la corteccia cerebrale, il lobo parietale inferiore, la giunzione temporoparietale in cui i lobi temporale e parietale si incontrano, la circonvoluzione frontale inferiore apparivano come disattivate in seguito agli ordini. In pratica quando si eseguono comandi perentori la risposta neurale dimostra chiaramente un modo di interagire con il prossimo completamente differente da quanto la nostra evoluzione ci porterebbe naturalmente a fare. Il potere e l’autorità dunque hanno un’enorme responsabilità sul comportamento umano e gli studiosi ritengono che per evitare che in futuro si possano ripresentare le situazioni che in passato hanno permesso di sterminare intere popolazioni, sia necessario prevenire queste modalità di governo. I ricercatori hanno fatto anche notare che uno dei partecipanti all’esperimento non ha mai inflitto shock neppure quando gli veniva ordinato. Per questo motivo non è stato considerato nello studio. Ma può essere considerata una speranza.
Hazel, la ragazzina che aiutò Londra a vincere contro Hitler. Luigi Ippolito su Il Corriere della Sera il 10 luglio 2020. Aveva solo 13 anni, Hazel, ma era già un prodigio della matematica: e con i suoi calcoli, negli anni 30, aiutò a costruire quegli aerei che furono decisivi nella battaglia d’Inghilterra e nella sconfitta del nazismo. La sua storia viene raccontata oggi in un documentario della Bbc intitolato «The Schoolgirl Who Helped To Win A War» (La scolaretta che aiutò a vincere la guerra): un tributo postumo, perché Hazel è morta dieci anni fa all’età di 90 anni, ma non per questo meno significativo. «È meraviglioso che la storia di Hazel venga alla luce - ha detto il capitano James Beldon, direttore degli studi di difesa della Raf, l’aviazione militare britannica -. Che grande ispirazione per i giovani di oggi, e per le ragazze in particolare, che possono guardare a qualcuno come Hazel che rese un così importante contributo al nostro successo nella Battaglia d’Inghilterra, vitale per la sopravvivenza di questa nazione».
Nei primi mesi del 1934 Hazel, assieme a suo padre, il capitano Fred Hill, trascorse giorni e notti china su grafici e calcoli: intendevano dimostrare che la nuova generazione di aerei che venivano costruiti doveva essere equipaggiata non con quattro, ma con otto mitragliatrici. Un’idea allora considerata impossibile, perché la sua realizzazione ne avrebbe rallentato la velocità e la capacità di manovra. Occorreva provare che la cosa era fattibile: e il capitano Hill chiese allora aiuto alla figlia 13enne Hazel, che aveva già dimostrato un notevole talento per la matematica. Assieme, armati di rudimentali calcolatrici, produssero uno studio che il padre presentò agli alti ufficiali. Le prime reazioni furono scettiche: molti dei comandanti erano reduci della prima guerra mondiale, quando gli aerei montavano una o due mitragliatrici, dunque l’idea di installarne otto appariva incredibile. Alla fine si convinsero e i nuovi aerei vennero messi in produzione. La prova del fuoco venne pochi anni dopo, nel 1940, quando Hitler lanciò l’offensiva aerea che avrebbe dovuto spianare la strada all’invasione della Gran Bretagna: ma la Luftwaffe incontrò la resistenza dei nuovi Spitfire e Hurricane, alla cui progettazione aveva contribuito Hazel. Anche se inferiori di numero di tre volte, i piloti britannici poterono contare, oltre al loro valore, su aerei più avanzati tecnologicamente: il nemico venne respinto, la Gran Bretagna rimase in piedi e con la sua vittoria aprì la strada alla sconfitta finale del nazismo. Se Hazel avesse sbagliato i calcoli, la storia avrebbe potuto avere un altro corso: eppure lei rimase sempre molto modesta rispetto al suo contributo. Durante la guerra si laureò in Medicina e prestò servizio nei Corpi medici delle Forze Armate, dopo di che divenne una dottoressa, si sposò ed ebbe quattro figli. «Ci diceva che aveva aiutato suo padre con dei calcoli importanti - ha raccontato uno di loro - ma è solo dopo la sua morte che abbiamo rovistato fra le sue carte e abbiamo compreso la portata del suo coinvolgimento». Oggi, il riconoscimento finale.
DAGONEWS l'11 agosto 2020. Johan Gabrielsson aveva sei anni quando gli fu detto che uno dei suoi parenti aveva tentato di uccidere Hitler. Erano gli anni ’60, ma ci sono voluti decenni prima che scoprisse la storia della sua famiglia che lo ha portato a compiere un viaggio in uno dei capitoli più oscuri della storia del 20° secolo.
Una foto misteriosa. Johan è cresciuto in Svezia e ricorda le riunioni di famiglia con i membri della famiglia di sua madre, i Sodenstern. In corridoio c'era la foto di un uomo in uniforme. Tutto quello che sapeva era il suo nome: Georg. Ma ogni volta che chiedeva di lui a Lennart, lo zio della madre, gli veniva risposto: «La prossima volta che vieni, ti racconto la storia». Non l'ha mai fatto. Solo anni dopo Johan vide un'altra foto di Georg von Sodenstern in piedi accanto ad Adolf Hitler. Non sapeva nulla di lui, a parte quel ricordo d’infanzia. Quella frase pronunciata da sua madre: “Abbiamo un parente che ha tentato di uccidere Hitler”. Per anni quella storia era rimasta in sospeso. Poi è arrivato il giorno del suo matrimonio: la madre si presentò con due cucchiai d’argento che erano appartenuti alla nonna e che avevano lo stemma della famiglia Sodenstern. «Ricordo di aver pensato: è un ricordo di mia nonna, ma sono anche entusiasta che lo stemma appartenga a un uomo che ha cercato di uccidere Hitler. È un uomo di cui voglio saperne di più. È la storia che il mio prozio non ha mai finito di raccontarmi».
Cavalieri e generali. È stato in quel momento che Johan ha intrapreso un viaggio nella storia dei Sodenstern, una famiglia di nobili svedesi che centinaia di anni fa erano commercianti e soldati che vivevano nella parte della Germania settentrionale. «Prima che la terra fosse restituita alla Germania - o Prussia come veniva chiamata l'area - circa 20 famiglie decisero di seguire il re in Svezia. Altri membri della famiglia Sodenstern decisero di rimanere in Prussia e continuarono la loro tradizione militare. Molti dei principali generali di Hitler provenivano dalla Prussia».
La trama. Ed è all'Archivio nazionale tedesco che Johan scopre che il suo misterioso prozio era diventato ufficiale nella prima guerra mondiale e generale nella seconda. Trova le sue lettere e, con l’aiuto di uno dei massimi esperti svedesi della seconda guerra mondiale, Christer Bergström, comprende che, come molti dei vecchi generali prussiani, non era contento del fatto che Hitler, un politico, si intromettesse in questioni militari. «Avevano dato questo soprannome sprezzante a Hitler, lo chiamavano il piccolo sergente». Quel malcontento avrebbe portato von Sodenstern, Erwin von Witzleben e un certo numero di altri generali a pianificare un colpo di stato nel 1937. «Hitler parlò con i suoi generali e gli disse qual era il suo piano di guerra, che comprendeva l’attacco della Cecoslovacchia - dice Bergström – Si spaventarono e organizzarono un piano in cui si sarebbe usato l'esercito per fare un colpo di stato contro Hitler lo stesso giorno in cui avrebbe attaccato la Cecoslovacchia. Hanno contattato ripetutamente e segretamente Chamberlain, il primo ministro britannico, e lo hanno informato, dicendogli: “Puoi andare avanti e minacciare la guerra con Hitler. Noi faremo un colpo di stato». Ma Chamberlain non lo fece e il piano andò in mille pezzi. Von Witzleben fu successivamente giustiziato per un secondo complotto in cui non riuscì a uccidere Hitler. Von Sodenstern entrò nello staff del capo di stato maggiore che sovrintendeva la Heeresgruppe Süd, che doveva sferrare l’attacco all'Unione Sovietica. Ed è in quel momento che la storia del prozio si complica. Perché la Heeresgruppe Süd, secondo lo storico Johannes Hurter, ha operato in aree in cui sono stati sicuramente commessi crimini di guerra: «Fuori Kiev, a Babi Yar, sono stati giustiziati più di 33.000 ebrei».
“Cose spiacevoli”. In alcune lettere von Sodenstern ricorda l'ordine secondo cui ogni soldato tedesco doveva giustiziare sul posto qualsiasi membro del Partito comunista: «Per i soldati è stato un accordo molto spiacevole. Ma allo stesso tempo, abbiamo dovuto fare i conti con l'ordine che ci era stato dato per non intaccare la disciplina e la morale delle truppe». Bergström sostiene che quando parla di "morale" von Sodenstern intendesse "spirito combattivo": «Penso che volesse dire che i loro valori umani sono stati minati sparando alle persone in quel modo. Quando le truppe si abituano a sparare alle persone i loro valori morali sono erosi». Non sono stati uccisi solo i comunisti. C'erano anche rom, ebrei e altri civili. Von Sodenstern spiega come si sentiva al riguardo l'alto comando del suo gruppo militare: «Abbiamo saputo il numero dei morti e volevamo avere a che fare il meno possibile con queste cose spiacevoli. Li abbiamo visti svolgere i loro compiti, ma avevamo un senso di sollievo per non essere coinvolti direttamente». Sostanzialmente von Sodenstern ha chiuso gli occhi sull'orrore, scegliendo di concentrarsi su quella che pensavano fosse la vera minaccia: i comunisti. «Era un professionista, dirigeva una forza militare e contribuì al successo iniziale dell’ Heeresgruppe Süd, ma si lasciò usare da Hitler». Un anno prima della fine della guerra, von Sodenstern fu congedato. Bergström sostiene che è stato a causa delle sue critiche a Hitler. E così un lungo viaggio ha portato Johan alla verità. Georg von Sodenstern era un uomo coinvolto in una macchina da guerra che chiudeva un occhio davanti alle atrocità più brutali. «Mi piace credere che dopo la guerra Georg abbia espresso il suo senso di colpa per ciò a cui aveva preso parte - dice Johan - So che dopo la guerra Georg ha lavorato con le forze alleate e ha creato un'unità per far luce sulle azioni dell'esercito tedesco durante la guerra».
Carl Schmitt e il nazismo, un giallo risolto a sorpresa. Piccole Note l'1 luglio 2020 su Il Giornale. In un articolo di Haaretz un’importante rivelazione su un aspetto oscuro della storia, un mistero rimasto tale per quasi un secolo: a ispirare Carl Schmitt, uno dei più importanti teorici del nazismo – del quale costruì alcuni dei fondamenti legali e culturali – fu Josef Redlich, un professore di origini ebraiche che allora insegnava presso la Harvard University. A rivelare l’impossibile rapporto tra Schmitt e Redlich, il professor Or Bassok, docente di diritto costituzionale all’Università di Nottingham, il quale ha svelato un mistero sul quale si erano arrovellati in molti, dato che Schmitt aveva più volte affermato che le sue idee si erano catalizzate nel corso di intensi colloqui con un suo misterioso interlocutore americano. La soluzione del rebus era sotto gli occhi di tutti, spiega Haaretz. Bassok, infatti, ha studiato le annotazioni di Schmitt, rilevando alcuni incontri tra i due professori, oltre ad alcune lettere nelle quali i due effondevano il loro pensiero. Bassok si è accorto della coincidenza di alcuni passi di uno dei più importanti scritti di Schmitt, “The Legal Theory of National Socialism”, con alcuni brani delle annotazioni di cui sopra. Coincidenze che non lasciano dubbi. Redlich avrebbe fornito a Schmitt la chiave per comprendere le potenzialità delle ideologie avverse al liberalismo, in particolare il comunismo, che fornivano, a quanti vi credevano, idee per le quali vivere e morire. Al contrario, il liberalismo era debole, fatiscente, essendo privo di idee e consegnato al nichilismo. Da qui la necessità di superare il nichilismo individuando dei “valori” per i quali valga la pena anche morire. E fu il popolo tedesco e i suoi valori. E fu il nazismo. Inoltre, sempre alle interlocuzioni con Redlich si deve il suo rifiuto di un sistema giuridico fondato sull’astratto, cioè su leggi universali, in favore di una Legge che si fondasse sul concreto e sulla realtà. L’esempio che porta è il furto di una bandiera da parte di alcuni ragazzi della gioventù hitleriana a un altro gruppo di giovani, che è in astratto è appunto un furto, in concreto, essendo quei giovani virgulti della razza eletta, non lo è affatto. Così Haaretz: “Bassok ha commentato che Schmitt ha collegato questa analisi alla differenza che ha percepito tra il popolo tedesco, che è tornato alle sue radici concrete nella sua terra natale, e il popolo ebraico, che mancava di una terra e radici, e la cui intera esistenza era radicata in norme astratte”. Secondo la ricostruzione di Haaretz, nonostante abbia “guidato” Schmitt al nazionalsocialismo, Redlich non era affatto nazista né nazionalista. In effetti, prima di sbarcare ad Harvard, ebbe a fare una breve carriera politica nell’Impero austro-ungarico, dove era considerato un moderato (Peraltro, la distanza di Redlich dal nazismo è testimoniata anche dai suoi rapporti con Theodor Herzl, il padre fondatore del sionismo). Allo stesso tempo, quanto ricostruito, spiega Haaretz, fa luce sul perché Schmitt non rivelò mai il nome del suo ispiratore, dato che sarebbe stato quantomai imbarazzante rivelare ai suo amici nazisti che si trattava di un uomo di origini ebraiche. Già identificato dai nazisti come opportunista, dato che aveva aderito al partito solo dopo che esso aveva preso il potere, Schmitt fece una fulgida carriera, costruendo la giustificazione ideologica alla base dell’espansionismo nazista. Ma l’accusa di cui sopra gli impedì di rimanere a lungo nella nucleo interno del potere nazista. E però, un ruolo non piccolo lo ebbe nella creazione del mostro che avrebbe divorato l’Europa e sconvolto il mondo. Nonostante questo, scampò, come tanti degli artefici del nazismo, al tribunale di Norimberga, morendo di vecchiaia nel 1985, a 96 anni.
Fritz Gerlich, il giornalista che sfidò Hitler. Prendeva in giro il Furher per il suo aspetto "non ariano". E fu tra i primi a capire il pericolo dei nazisti. Arrestato poche settimane dopo la loro ascesa al potere, fu assassinato dopo sedici mesi di prigionia a Dachau. Sofia Ventura l'1 luglio 2020 su L'Espresso. La notte del 30 giugno del 1934 a Dachau veniva ucciso il giornalista Fritz Gerlich. Quella data è ricordata non per la morte di Gerlich, ma per il massacro ordinato dal Führer delle ormai ingombranti SA: la Notte dei lunghi coltelli, che ebbe luogo in quelle stesse ore. Gerlich e altri protagonisti della prima resistenza al movimento nazional-socialista e al suo psicopatico leader, cominciata anni prima che questi divenisse cancelliere (1933), hanno avuto un ruolo marginale nel racconto storico del nazionalsocialismo, specialmente a fronte del carattere non solo eroico, ma anche preveggente dei loro interventi pubblici. Un carattere che ancora ci parla, che ci interroga sul ruolo dell’intellettuale nella società del proprio tempo. Il decennio che precedette la presa del potere di Adolf Hitler, in particolare dopo il fallito Putsch di Monaco del novembre 1923, fu animato da una incessante denuncia del carattere criminale, oltre che ideologicamente delirante, del nascente movimento hitleriano, che ebbe il suo epicentro proprio a Monaco e pose in aperto conflitto lo stesso Hitler con i suoi “detrattori”. In prima linea si distinse il periodico socialista Münchener Post, i cui redattori, come ha scritto il giornalista Ron Rosenbaum, furono i primi a «entrare in conflitto con lui [Hitler], a ridicolizzarlo, a investigare su di lui, a rendere noto lo squallido lato oscuro del suo partito, il violento comportamento criminale mascherato dalla pretesa di apparire solo come un movimento politico. Essi furono i primi a tentare di segnalare al mondo la natura della rozza bestia che si stava avvicinando a Berlino».
Hitler, la vendetta contro Mussolini. "Operazione Alarico": così il Duce ha fatto saltare il piano. Roberto Festorazzi su Libero Quotidiano l'1 luglio 2020. L'abortita invasione nazista del Vaticano, che fu pianificata nell'estate del 1943 senza mai essere portata a compimento, viene ora alla luce in tutti i suoi dettagli impressionanti grazie a un documento inedito quanto clamoroso. Una carta scampata alla distruzione e alla sistematica sparizione-predazione di tutti i documenti politici e militari del Terzo Reich. Un solo foglio, ma pesante come un macigno, appartenente ai dossier più segreti degli apparati di intelligence dell'Alto Comando della Wehrmacht (O.K.W.). Questo documento dimostra in modo inequivocabile che il Führer voleva occupare la Santa Sede con un brutale atto di forza e che solo all'ultimo istante, tra il 26 e il 27 luglio 1943, decise di rinunciarvi. Si tratta sostanzialmente di una mappa della Città del Vaticano, contenente l'indicazione dei punti strategici da conquistare attraverso un blitz. La cartina in scala, evidentemente, non venne realizzata a fini turistici, essendo redatta su carta intestata dei servizi segreti militari del Supremo Comando della Wehrmacht. L'azione nei dettagli - Il piano fu elaborato, con ogni probabilità, nell'ambito dell'Operazione Alarico, ovverosia il progetto strategico di un'invasione dell'Italia da parte dei tedeschi, in caso di sganciamento di Mussolini dalla guerra dell'Asse. Prospettiva più che concreta, quest'ultima, che prese forma tra la primavera e l'estate del 1943, e che per un soffio non giunse al suo coronamento per determinazione dello stesso Duce. La sfiducia votata contro Mussolini, da parte del Gran Consiglio del fascismo, il 25 luglio '43, le sue dimissioni e il suo arresto debbono per forza di cose essere interamente riletti alla luce del fatto che il ricatto dell'Operazione Alarico pesò moltissimo sulla decisione del Duce (concordata dallo stesso dittatore con il re Vittorio Emanuele III) di "farsi da parte" per impedire la brutale occupazione della Penisola da parte degli "alleati" germanici. Questo è chiaro: Mussolini non venne affatto "deposto", ma scelse consapevolmente di dimettersi. Il nuovo documento, oltre che per i suoi contenuti esplosivi, è assai interessante anche per la storia che lo riguarda. Questo foglio, infatti, ci è pervenuto attraverso un capo partigiano milanese, che riuscì a impadronirsi del materiale di scarto di un grosso lavoro di fotoriproduzione di documenti bellici avvenuta a Lambrate, roccaforte rossa di Milano, negli anni Cinquanta. L'esponente della Resistenza fece avere il materiale - proveniente quasi certamente dagli archivi mussoliniani e comprendente anche una dichiarazione del maggio 1945 riguardante la morte del Duce - al fratello del senatore missino Giorgio Pisanò, Paolo. Questi, dopo attenta verifica, stabilì i dettagli tecnici dell'operazione di fotocopiatura, condotta in gran segreto, con apparecchiatura d'avanguardia, da parte dei reduci del fronte partigiano. I documenti, cinque o sei in tutto, sono sicuramente autentici, anche se la loro qualità non è sempre eccellente, trattandosi di scarti di lavorazione, per definizione imperfetti. È appunto il caso della piantina del Vaticano, che svela, dopo quasi settant'anni, i particolari del piano di invasione della sede papale. Il foglio riporta un timbro di registrazione, che prova la provenienza ultima del documento: si tratta di un'indicazione protocollare che rinvia agli Archivi della Repubblica sociale italiana, il restaurato governo mussoliniano nato su pressione di Hitler nel settembre '43. Questo dato è molto importante, perché ci dimostra che il Duce era molto bene informato su quanto facesse il suo alleato-rivale Hitler. Di recente, la pubblicazione da parte della Libreria Editrice Goriziana dei rapporti stenografici di guerra relativi alle riunioni avvenute nel quartier generale del Führer, a partire dal 1942, illustra che il dittatore con la svastica era, anche a questo riguardo, spietato. Hitler, nel corso del rapporto serale del 25 luglio 1943, con i capi militari, ringhiò che se ne infischiava di conservare il benché minimo scrupolo nei confronti del pontefice regnante, Pio XII, e che avrebbe stanato senza indugi «quel branco di porci» asserragliato nel territorio della Santa Sede. Avrebbe messo le mani sull'intero corpo diplomatico rappresentato in Vaticano, rapito il Santo Padre e depredato l'Archivio segreto del papa (in Palazzo San Carlo), notoriamente rigurgitante di dossier riservati. Che cosa sarebbe potuto accadere, ce lo svela finalmente questa cartina "parlante" dei servizi segreti militari germanici. Il contenuto della mappa si srotola infatti come la trama di un film d'azione. Due gruppi d'assalto, uno a quanto pare guidato da un tenente che si chiamava Lensing, o giù di lì, avrebbero fatto irruzione nel territorio della Santa Sede, attraverso i suoi varchi principali: l'ingresso di Sant'Anna, quello della Scala Regia e la stazione ferroviaria. L'occupazione dei binari avrebbe consentito di avviare su rotaia il carico di prigionieri e di materiali prelevati in Vaticano. Una volta violata l'extraterritorialità dello Stato pontificio, si sarebbe fulmineamente proceduto, con chirurgica violenza e dimostrazione di geometrica potenza, all'occupazione dei punti nodali di rilevanza strategica: il Palazzo del Governatorato e la stazione di trasmissione vaticana, l'emittente radiofonica del papa. L'occupazione della Santa Sede, secondo i piani, avrebbe dovuto procedere in simultanea con la calata dei nuovi Visigoti in Italia. La terza divisione corazzata granatieri del Reich avrebbe dovuto procedere alla conquista manu militari di Roma e dunque del resto dell'Italia centrosettentrionale, attraverso l'impiego di divisioni paracadutate. L'ora "x" dell'Operazione Alarico sarebbe dovuta scattare la notte tra il 26 e il 27 luglio 1943, ma Hitler, all'ultimo momento, decise di sospendere l'invasione, anche se non rinunciò completamente a quella folle idea. Probabilmente, egli giudicò esoso e non proporzionato allo scopo - quello di "tenere il fronte" in Italia - lo sforzo di una totale presa militare della Penisola. Pezzi di questa colossale e mancata operazione della seconda guerra mondiale tuttavia sopravvissero e furono attuati in seguito. La "resurrezione" neofascista della Repubblica sociale italiana consentì a Hitler di conseguire i suoi obiettivi dietro il paravento della residua sovranità, a un livello simulacrale, del restaurato governo (in forma repubblicana) del Duce nel Centro e nel Nord del Paese. Una finzione tragica, per gli italiani, e utile, per i nazisti. Il prezzo di questa pericolosa illusione fu altissimo: una guerra civile che insanguinò la Penisola e le cui cicatrici sono ancora oggi del tutto evidenti.
I cinque giorni che cambiarono la storia. Mentre l'Europa cadeva sotto i primi colpi del nazismo, Churchill decise di opporsi a Hitler. Salvando così la civiltà occidentale. Matteo Carnieletto, Giovedì 25/06/2020 su Il Giornale. "Guerra per guerra, leggiamo Five days in London, il libro sui cinque giorni che hanno cambiato il corso della storia. È Churchill che chiama nel governo i laburisti di Attlee. Sono queste memorie e storie arcaiche?". Incuriosito dalle parole pronunciate da Giulio Tremonti mentre lo intervistavo per ilGiornale.it, ho deciso di acquistare Cinque giorni a Londra, il libro (ormai quasi introvabile nella sua versione italiana) scritto da John Lukacs nel 1999 e pubblicato in Italia da Corbaccio nel 2001. Possono cinque giorni - un "dramma in cinque atti", come lo definisce Sergio Romano nella sua premessa - cambiare la storia non solo di un Paese ma del mondo intero? Sì, se analizziamo ciò che è successo a Londra tra il 24 e il 28 maggio del 1940. Prima di iniziare, però, dobbiamo fare un passo indietro e tornare al 10 maggio, una data chiave sia per il Regno Unito sia per la Germania. Quel giorno, infatti, mentre Winston Churchill veniva nominato primo ministro (una scelta tutt'altro che scontata dato che il re preferiva Edward Wood, I conte di Halifax), Adolf Hitler dava l'ordine di iniziare l'invasione dell'Europa occidentale. "Le coincidenze sono giochi di parole dello spirito", ha scritto Gilbert Keith Chesterton. E così, per coincidenza, il 10 maggio del 1940 iniziò quello che Lukacs, in un altro fortunato libro, ha definito il "duello" tra Churchill e Hitler. Le truppe tedesche, inquadrate sotto la croce uncinata, penetrano facilmente nei Paesi Bassi e in Belgio, per poi puntare verso la Francia. La loro avanzata sembra inarrestabile, come se fosse mossa da forze ultraterrene. Nessuno riesce a fermare gli uomini di Hitler che, in poco tempo, si trovano a controllare gran parte del Vecchio continente. Uno dopo l'altro, i Paesi europei cominciano a cadere. Eppure qualcuno deve resistere. Quel qualcuno è Churchill: "Nel maggio 1940 né gli Stati Uniti né l'Unione sovietica erano in guerra con la Germania - scrive Lukacs - In quel momento c'erano ragioni perché un governo britannico decidesse perlomeno di verificare la possibilità di un compromesso temporaneo con Hitler". Ma Churchill non volle farlo. Del resto, un simile accordo era stato fatto a Monaco nel 1938 e i risultati di quel patto erano sotto gli occhi di tutti: l'Europa era in fiamme. Era arrivato il tempo di resistere: "Churchill e l'Inghilterra non avrebbero potuto vincere la Seconda guerra mondiale; lo fecero l'America e l'Unione sovietica. Ma, nel maggio del 1940, Churchill fu colui che non la perse". E non la perse per un unico motivo: perché decise di combattere. L'operato del primo ministro britannico dal 24 al 28 maggio segue due direttrici: creare consenso e unire la nazione. Per questo non solo Churchill apre ai laburisti di Attlee, ma anche (e senza successo) al "disfattista" Lloyd George che, fino a pochi mesi prima, aveva elogiato il dittatore tedesco. "Naturalmente, l'intento principale di Churchill non era rinsaldare solo la fiducia, ma anche l'unione nazionale. Ma c'era un'altra ragione dietro a questo: se il peggio fosse accaduto... E sarebbe accaduto? Churchill era abbastanza uomo di stato per pensare a questa eventualità". Mentre cercava di creare il consenso attorno alla propria figura, il primo ministro britannico si trovò ad affrontare una delle più grandi disfatte della storia militare del Paese: Dunkerque. Oltre 300mila uomini del corpo di spedizione britannico rimasero bloccati sulla spiaggia francese. Davanti a loro i soldati di Hitler. Dietro il mare. Che fare? Bisognava riportarli a casa. Iniziò così l'operazione Dynamo che, nel giro di pochi giorni, riuscì a riportare in patria gran parte dei soldati del corpo di spedizione britannico. "Per Churchill Dunkerque fu, se non una vittoria, sicuramente un sollievo".
Churchill (e il Regno Unito) avevano bisogno di quegli uomini. C'era inoltre bisogno di un'epopea in grado di unire la nazione. E Churchill riuscì in questo intento. Ma non solo. Se da una parte è vero che il primo ministro britannico agì per salvare l'impero, è altrettanto vero che Churchill salvò il mondo occidentale: "Le sue frasi su Londra custode della civiltà occidentale non erano solo retorica: c'erano, nei palazzi della città, i re e le regine dell'Europa occidentale in esilio; c'era per le strade la variopinta presenza delle uniformi dei loro soldati e marinai (compresi, a migliaia, i valorosi polacchi); c'erano i concerti di Bach nelle annerite sale vittoriane - e la sigla della Bbc che apriva le trasmissioni europee con la prima battuta della Quinta di Beethoven". Churchill salvò tutto questo. Anche la libertà di chi, oggi, vorrebbe rimuovere le sue statue.
Da corriere.it il 13 giugno 2020. Nata in Germania, a Francoforte sul Meno, il 12 giugno 1929, la ragazzina ebrea Anna Frank (il nome tedesco era Anne) è divenuta il simbolo delle vittime innocenti della Shoah. Fuggita con la famiglia in Olanda dove nel 1942, in seguito all’invasione tedesca, entra in clandestinità. La giovanissima Anna, costretta a vivere rinchiusa, trova conforto tenendo un diario. Per due anni parla di sé, racconta i suoi turbamenti, scrive brevi racconti. A un certo punto comincia una nuova stesura in vista di una possibile pubblicazione dopo la guerra. Ma il 4 agosto 1944 i clandestini vengono scoperti e arrestati dai nazisti. Deportata nei lager di Auschwitz e poi di Bergen Belsen, Anna muore di tifo nel marzo 1945. (Di Anna esiste un solo video in cui si affaccia alla finestra della sua casa di Amsterdam nel 1941, durante il passaggio di due sposi.
Yasmin Jeffery per “The Sun” il 20 maggio 2020. Gli storici hanno rivelato che Adolf Hitler soffriva di una imbarazzante condizione che potrebbe spiegare la sua rabbia e la mancanza di sesso durante i suoi 56 anni. Le relazioni mediche seguite all’arresto del leader nazista, parlano di criptorchidismo nella parte destra (la mancata discesa di un testicolo nel sacco scrotale), ma da analisi successive pare che i suoi genitali fossero ancora più deformati. Si parla infatti di ipospadia, una malformazione congenita che può corrispondere ad un micropene. Jonathan Mayo e Emma Craigie, nel nuovo libro “Hitler’s Last Day: Minute by Minute”, parlano di queste due forme di anormalità genitali e ricordano che Hitler temeva che le persone lo vedessero nudo. Non divenne mai padre nonostante spingesse i tedeschi a mettere al mondo più figli ariani. Il suo dottore personale, Theodor Morell, prescriveva a Hitler amfetamine, ormoni e cocaina per fargli salire la libido, in modo da accontentare Eva Braun. L’ urologo conferma la deformità del Fuhrer. L’architetto nazista Albert Speer, sostiene che gli impulsi sessuali del leader erano assenti: «In alcun modo descriverei Adolf Hitler come una persona sessualmente normale nei suoi rapporti con le donne. In particolare, nel caso di Eva Braun, non c’era attività sessuale per lunghi periodi di tempo, tranne qualche episodio». Nonostante la mancanza di virilità di Hitler, molte donne erano ossessionate da lui. C’è una canzoncina del 1939 che gli inglesi cantavano per tirarsi su il morale: «Hitler ha una palla sola, Goring ne ha due ma molto piccole, un po’ come Himmler, ma il povero vecchio Goebbels non ne ha nessuna».
Così dalla guerra "prussiana" si arrivò alla furia di Hitler. Il saggio del 1941 sullo Stato maggiore germanico di Canevari riflette un modo di pensare la storia tedesca. Francesco Perfetti, Martedì 28/04/2020 su Il Giornale. Carl von Clausewitz il generale prussiano che ai tempi di Federico Guglielmo III compilò il celebre trattato Della guerra poi divenuto un classico sosteneva che la guerra non fosse altro che la continuazione della politica con altri mezzi. Con questa battuta, probabilmente, intendeva solo richiamare l'attenzione sul rapporto fra esercito e istituzioni civili. All'epoca in cui von Clausewitz scriveva era convinzione largamente diffusa nei regimi monarchici e autocratici del tempo che la guerra dovesse «essere esercitata soltanto come un mestiere» e che l'esercito dovesse «essere considerato come un mero strumento dell'arte dello Stato da adoperare con la massima cautela». Questa visione sarebbe stata ribaltata nel XX secolo quando il generale Ludendorff giunse a sostenere che «la politica dev'essere al servizio della guerra». Eppure, per molto tempo, di questo capovolgimento di visione non si ebbe percezione. Il rapporto tra militarismo e politica o, per meglio dire, il peso del ceto militare nella storia della Germania contemporanea divenne presto un problema storiografico. All'indomani della Seconda guerra mondiale questo rapporto fu enfatizzato per individuare un nesso di continuità fra militarismo prussiano e nazionalsocialismo. Nel 1946, per esempio, uno studioso liberale come Friedrich Meinecke, il grande storico dell'idea della «ragion di Stato» e delle origini e dello sviluppo dello «storicismo», parlò esplicitamente della «collusione fra militarismo e hitlerismo» come di una delle ragioni del trionfo del nazionalsocialismo. Naturalmente, come è stato sottolineato dalla storiografia successiva, un discorso di questo genere, come del resto tutte le analisi che chiamano in causa il «carattere» del popolo tedesco, è unilaterale e incapace di fornire una razionale e convincente spiegazione dei fatti. È indubbio, però, che alle origini del militarismo tedesco e del mito dell'esercito vi siano proprio la creazione dello Stato-caserma degli Hoenzollern e la figura del Grande Elettore Federico Guglielmo I. In seguito Federico Guglielmo IV avrebbe osservato che l'esercito doveva essere «il solido pilastro su cui poggia la monarchia» e, ancor più avanti, il generale Helmut von Moltke avrebbe aggiunto, con sottile dispregio per la politica, che «i diplomatici ci mettono solo nei guai, ma i generali ci salvano sempre». Poi c'erano state l'unificazione della Germania e la creazione del Reich guglielmino, i sogni imperialistici, l'umiliazione della sconfitta nella Prima guerra mondiale, la stagione di Weimar, i torbidi del dopoguerra e l'ascesa di Hitler. Chi ha, meglio di altri, analizzato ascesa, trionfo e caduta del ceto militare, prussiano prima e tedesco poi, è stato lo storico scozzese-americano Gordon A. Craig autore di una splendida opera intitolata Il potere delle armi che sottolinea come, con l'avvento di Hitler, i militari tedeschi e, in particolare gli ufficiali avessero finito per perdere la propria identità e obbedire «anche ad ordini che violavano le loro tradizioni storiche, la loro lucidità politica e militare e il loro codice d'onore». A sostenere, ovviamente da ben altro punto di vista, la tesi della unitarietà della storia tedesca e della continuità fra prussianesimo e nazionalsocialismo è gran parte di quella letteratura, prevalentemente di taglio propagandistico e apologetico, che intendeva esaltare il regime nazista e il suo capo. Un esempio tipico di questa produzione è il volume di Emilio Canevari su Lo Stato Maggiore germanico da Federico il Grande a Hitler pubblicato da Mondadori nel 1941, in pieno conflitto, e ora riproposto, con un titolo per la verità non troppo felice, come Guerra! Lo Stato Maggiore germanico da Federico il Grande a Hitler (pagg. 238, euro 20) dalle edizioni Oaks che lo hanno fatto precedere da una breve nota di Piero Visani. La cornice interpretativa dalla quale muove l'autore è l'idea che la storia della Germania moderna si identifichi con una sola «rivoluzione» articolata in tre fasi: la Riforma che avrebbe «germanizzato» il cristianesimo «rendendolo più consono ai tedeschi»; il Romanticismo sublimato dalla reazione antinapoleonica e infine il nazionalsocialismo che avrebbe esaltato e sviluppato idee direttrici più «intimamente tedesche, legate alle più profonde fibre dell'essenza germanica». Un'idea, questa, della continuità della storia germanica ispirata da una visione «storicistica» o «idealistica» della storia, da una «filosofia della storia» cioè uguale e di segno contrario a quella sopra richiamata di molta letteratura storiografica postbellica, ma, come questa, inadatta a spiegare, in termini di ricostruzione dei fatti e non sulla base di considerazioni filosofiche, la complessità dei fenomeni storici. Va subito precisato che il volume di Canevari sullo Stato Maggiore germanico non è certo uno dei suoi lavori migliori, imbevuto com'è di ammirazione per Hitler e viziato nell'analisi e nelle conclusioni dalla certezza della vittoria dei tedeschi, tant'è che lo stesso curatore non può fare a meno di cogliervi alcuni «accenti assai forzati e sgradevoli» a cominciare da un ingiustificabile e «marcato antisemitismo». Tuttavia, malgrado la presenza di tesi insostenibili e di affermazioni inaccettabili, il volume mantiene un certo interesse sia come documento e testimonianza di un clima sia come conferma del fatto che l'autore, il generale Emilio Canevari (1888-1966), fu un apprezzato conoscitore e studioso di storia militare e, in particolare, della dottrina strategica, prima, prussiana e, poi, tedesca. Legato all'ambiente del fascismo estremista di Roberto Farinacci, si era fatto conoscere come commentatore di questioni militari per il quotidiano Il Regime Fascista e per alcuni importanti lavori sull'impiego dell'aviazione militare oltre che per una biografia, scritta con Giovanni Comisso, del generale Tommaso Salsa. Quando dette alle stampe il volume sullo Stato Maggiore germanico egli aveva da poco ultimato, insieme all'allora capo dell'Ufficio Storico dello Stato Maggiore Ambrogio Bollati, la traduzione del trattato di von Clausewitz sulla guerra: una traduzione, ancora oggi, di riferimento. La circostanza non è casuale perché il suo interesse per von Clausewitz era di antica data. Del resto il capitolo dedicato alla figura del generale e teorico prussiano è tra i migliori, come pure suggestivi sono i «medaglioni» dedicati a Hemut von Moltke o a Paul von Hindenburg. L'ombra di von Clausewitz e, con essa, l'dea di una eredità della «dottrina militare prussiana» percorre tutte le pagine del libro e porta l'autore, per amor di tesi, ad affermazioni insostenibili ovvero a reticenze incomprensibili come quelle sui contrasti tra Forze Armate e corpi militari creati dal nazionalsocialismo. L'ammirazione per il pensiero militare germanico, da Clausewitz in poi come ricostruito nel volume, comportò, in seguito, una forte delusione per Canevari. Quando, sul finire del 1943, propose per l'esercito della neonata Rsi un modello di tipo prussiano, si scontrò subito con la diffidenza dei tedeschi e di Mussolini. E non se ne fece nulla.
Roberto Brunelli per agi.it il 30 aprile 2020. L'ultima settimana del Terzo Reich iniziò all'alba del 30 aprile, nel bunker situato circa 8 metri sotto il giardino della cancelleria a Berlino, ormai contornata dalle macerie. Adolf Hitler ebbe dal generale Wilhelm Keitel, l'ultimo capo dell'Oberkommando della Wehrmacht e successivamente uno dei principali imputati a Norimberga, la notizia che distrusse le sue ultimissime speranze di poter infrangere il sanguinoso l'assedio dell'Armata rossa. "Solo a questo punto il Fuehrer prese la decisione definitiva di mettere fine alla sua vita", dice lo storico Volker Ullrich. Poche ore dopo, era morto, sparandosi, insieme a Eva Braun, sposata li' nel bunker, alla mezzanotte di due giorni prima. Una settimana dopo, la seconda guerra mondiale era finita, lasciandosi dietro distruzioni, sofferenze e massacri senza precedenti nella storia e un numero di vittime stimate tra i 55 e i 60 milioni, un conteggio dell'orrore che contiene anche l'abisso dell'Olocausto. Febbrili speranze, crolli nervosi ed esplosioni d'ira avevano caratterizzato le ultime settimane di vita del Fuehrer. La morte di Roosevelt, il 12 aprile 1945, l'aveva indotto a pensare che la coalizione degli Alleati potesse andare a pezzi, per cui insistette a ordinare ai soldati sempre più disperati di continuare a combattere incondizionatamente, pur versando la Wehrmacht in condizioni catastrofiche. Il 20 aprile Hitler dette addirittura il benvenuto ad alcuni ospiti per il suo compleanno, ma già due giorni dopo ebbe un nuovo esaurimento, quando seppe che l'Obergruppenfuehrer delle Ss Felix Steiner si era rifiutato di compiere l'attacco da lui ordinato per "salvare" Berlino, con l'argomento che era "semplicemente impossibile". Hitler urlò che tutto era perduto, che anche le Ss l'avevano tradito e licenziò parte del suo stato maggiore. Aveva fatto in tempo a dettare alla sua segretaria Traudl Junge il suo breve "testamento politico", nel quale annunciava il suicidio e nominava l'ammiraglio Karl Doenitz come nuovo presidente del Reich e comandante in capo della Wehrmacht, Goebbels come nuovo cancelliere del Reich, mentre Goering e Himmler - marchiati ome "infedeli" - furono cacciati dall'Nsdap, il partito nazista. Il testo conteneva anche un appello ai tedeschi affinché continuassero la guerra nonché alla prosecuzione dello sterminio ebraico, qui definita "resistenza impietoso". Aveva deciso di suicidarsi per non cadere vivo nelle mani dei soldati sovietici. Grazie alle testimonianze storiche, le ultime ore del Fuehrer sono ben documentate. Nel pomeriggio del 30 aprile distribui' ampolline di veleno al suo personale: per verificare l'efficacia del veleno lo fece prima somministrare al suo pastore tedesco, decidendo però di non presenziare all'uccisione. Intorno alle 15.30 fu compiuto l'atto finale: Eva Braun ingeri' il cianuro, Hitler si sparò. Furono il suo aiutante Otto Guensche ed il suo cameriere Heinz Linge i primi ad entrare negli appartamenti privati del "Fuehrerbunker", insieme al capo del partito, Martin Bormann. Il racconto di Guensche è il più dettagliato. "Hitler era seduto su una poltrona. La testa pendeva sulla spalla destra, la mano penzolava in basso. Al lato destro c'era il foro del proiettile". Eppure per molto tempo i dubbi sulla fine del Fuehrer sono state dure a morire. Ancora alla conferenza di Potsdam, nel luglio del '45, Stalin continuava a dire di "non sapere" dove Hitler si trovasse, magari "in Spagna o in Argentina". La ricostruzione secondo la quale il suo cadavere e quello di Eva Braun erano stati date alle fiamme veniva continuamente messe in discussione dai funzionari sovietici, tanto che i servizi segreti alleati successivamente disposero ulteriori inchieste. In realtà, stando alle testimonianze raccolte da britannici e americani, furono Bormann e altri membri del seguito di Hitler a bruciare, come loro comandato, i cadaveri nel giardino della Reichskanzlei. I resti furono sepolti dentro il cratere di una bomba nei pressi (ma poi, secondo ulteriori documenti, spostati varie volte). Il 10 maggiore l'assistente del dentista personale del Fuehrer, Fritz Echtmann, identificò la dentatura di Hitler e di Eva Braun, ma i sovietici decisero di classificare le informazioni come segrete, il che ebbe l'effetto di propagare per anni le teorie cospirazioniste sulla morte del capo del nazismo. Tanto che solo nel 1956 un tribunale dichiarò ufficialmente la morte di Hitler. Il giorno dopo il suicidio del Fuehrer fu la volta di Joseph Goebbels, il ministro alla Propaganda, che si uccise insieme alla moglie Magda e i loro sei bambini, che avevano tra i 4 e i 12 anni. Bormann mise fine alla propria vita il 2 maggio mentre cercava di fuggire da una Berlino assediata, anche lui ingoiando una capsula di cianuro. Nonostante il tentativo da parte di Doenitz di continuare per qualche giorno i combattimenti, la capitolazione totale e incondizionata della Wehrmacht fu questione di pochi giorni: l'8 maggio la seconda guerra mondiale era finita. La Germania era ormai un cumulo di macerie.
DAGONEWS il 6 marzo 2020. Un raccapricciante album fotografico della Seconda Guerra Mondiale realizzato con la pelle delle vittime di un campo di sterminio nazista è stato trovato in un mercatino dell'antiquariato in Polonia. L'album è stato consegnato al personale del Museo di Auschwitz dopo che l'acquirente ha notato che la copertina aveva “un tatuaggio, capelli umani ed emanava un cattivo odore". Gli esperti del museo hanno ora analizzato la copertina e la rilegatura dell'album e affermano che è probabile che la pelle provenga da un detenuto assassinato nel campo di concentramento di Buchenwald, in Germania. Aggiunsero che era "senza dubbio la prova di un crimine contro l'umanità”. Istituito nel 1937 come primo campo di concentramento di Hitler, Buchenwald acquisì notorietà per le sue esecuzioni, gli esperimenti, le condizioni bestiali e la depravazione delle sue guardie. Tra queste c'era Ilse Koch, nota ai detenuti come "Cagna di Buchenwald": moglie del comandante del campo Karl-Otto Koch, la donna faceva assassinare i prigionieri con tatuaggi interessanti per usare la pelle come paralumi, libri, album, copritavoli e pollici che venivano adoperati come interruttori della luce. Testimoni affermano che aiutava il dottore nazista Erich Wagner che collezionava pelle umana nel campo per la sua tesi di dottorato: delle 100 pelli raccolte da Wagner, molte furono trasformate in articoli da regalo. Dopo essere stato catturato dalle truppe americane alla fine della guerra, fuggì e continuò a praticare come medico in Germania con uno pseudonimo fino alla sua cattura nel 1958. Si suicidò un anno dopo.
Riccardo Bruno per il “Corriere della Sera” il 17 febbraio 2020. Oleg Mandic arrivò ad Auschwitz nell' estate del 1944. Aveva 11 anni, con lui c' erano la madre Névenka e la nonna Olga. Gli tatuarono sul braccio sinistro il numero 189488 e gli assegnarono un triangolo rosso. «Prigioniero politico. A 11 anni!» sorride oggi amaramente. Fu liberato dall' Armata Rossa nove mesi dopo. «Mio nonno e mio padre si erano uniti ai partigiani jugoslavi, facevano parte degli alti ranghi vicini a Tito. I russi volevano portarci a Mosca, ma non c' erano voli. Evacuarono tutti dal lager, rimanemmo soltanto noi». Così Oleg è passato alla storia come l' ultimo bambino uscito vivo da Auschwitz. Adesso è un uomo corpulento di 87 anni, uno sguardo dolce e una stretta di mano robusta. Ad Auschwitz-Birkenau è ritornato tredici volte. La prima nel 1969. «L' anno in cui scomparve mia madre. Anche lei voleva tornarci ma non fu possibile, le promisi sul letto di morte che l' avrei fatto io. Andai poco dopo. Quando arrivai stavano proiettando un filmato. Mi prese un colpo, mi alzai e gridai: "Quello sono io!". Per tre giorni mi fecero una grande festa». È un documento in bianco e nero straordinario, il momento in cui gli ufficiali russi comunicano a lui e alla sua famiglia che l' incubo è finito, che possono tornare a casa. Oleg (quando t' incontra ti chiede subito di dargli del tu) ha avuto un figlio, si è laureato in legge, ha lavorato nell' import-export e in un' impresa editoriale, come giornalista e nel marketing. La sua famiglia, di origine slava, viveva ad Abbazia, vicino a Fiume, che allora era italiana, e infatti ad Auschwitz gli venne associata la sigla «It». Si sente però croato, ama l' Italia e ha vissuto per trent' anni a Milano, prova che i confini sono soltanto sulle carte geografiche. Da quando è in pensione gira per raccontare le atrocità che nessuno, soprattutto un bambino, dovrebbe mai vedere. «Il genio tedesco ha condensato millenni di conoscenze per creare un' industria, un nastro trasportatore che aveva come prodotto finale la morte. Dopo otto mesi arrivava in modo automatico». Calcola di essere sopravvissuto «il 5 per cento per merito mio, il 15 per l' amore di mia madre, l' 80 per fortuna». All' arrivo venne lasciato nel reparto femminile, anche se dopo i dieci anni non avrebbe potuto. Quando lo scoprirono e decisero di trasferirlo gli scoppiò la febbre. «In quel posto dove ogni giorno venivano uccise sistematicamente migliaia di persone, la febbre era un problema». Così venne «isolato» nel terribile reparto del dottor Mengele. E per lui fu ancora buona sorte. «Faceva esperimenti sui gemelli, a me non mi considerava. Anzi lì mangiavo meglio». Tra i tredici ritorni al lager, ne ha contati cinque che definisce «per ragioni terapeutiche». «Nei momenti di difficoltà prendo l' auto, faccio il pieno e parto. Arrivo alle 7 di sera, quando i visitatori sono andati via, mostro il numero al braccio, il mio pass, entro, vado sulla rampa di Birkenau e sto seduto sui binari. Molto è cambiato, ma c' è ancora un albero come allora. Fa parte della mia vita, il punto d' incontro con il mio passato, con il mio destino, poter stare con le anime di chi non ce l' ha fatta». È di questo che parla nei suoi incontri, in particolare con gli studenti, come qui a Treviso chiamato da Chiara e da altri genitori dell' istituto scolastico Felissent. «I ragazzi sono i più importanti, sono loro che dovranno ricordare quando noi non ci saremo più». È preoccupato dalla nuova ondata di antisemitismo, ma soprattutto dall' indifferenza, lui che non è ebreo ma fu vittima della stessa sorte. «A chi tace in questi momenti dico: guai a stare zitto, dovresti ricordarti che negli anni Trenta, quando vennero a prenderti, non c' era nessuno a difenderti perché quando presero gli altri tu tacevi». A casa usa come fermacarte una pietra del crematorio numero 2. «Ogni volta che vado prendo un piccolo frammento. Fa parte della mia vita. Può scriverlo». Gli spettri del passato non lo abbandonano mai, eppure riesce a descriverli con leggerezza, perfino ironia. «A dodici anni avevo visto il male assoluto. Quello che mi aspettava da quel momento sarebbe stato un valzer. Grazie ad Auschwitz la mia vita è stata bellissima». Poi però gli citano un film che ha provato ad usare gli stessi toni lievi e lui si irrigidisce all' improvviso, perde il sorriso, come se sprofondasse di nuovo ad allora. «Io ero lì, io posso farlo. Chi non c' era non può permettersi di scherzare sull' orrore».
DAGONEWS il 15 febbraio 2020. Sono rimaste in un cassetto per anni prima di essere scoperte tra i cimeli di guerra del nonno. Sono le foto scattate dalla guardia del corpo personale di Adolf Hitler che mostrano il Führer e i suoi scagnozzi tra il 1937 e il 1939: le immagini erano raccolte in un album che fu portato via da un soldato britannico che le tenne in un cassetto per il resto della sua vita. Solo adesso un nipote le ha trovate e ha deciso di venderle: le immagini saranno messe all’asta dalla Jones e Jacob dell'Oxfordshire. Nella collezione ci sono immagini di Hitler che appare ai raduni nazisti, che marcia verso Vienna dopo l'Anschluss nel 1938 e cammina su una montagna vicino al suo rifugio alpino a Berchtesgaden. Ci sono anche foto di altri nazisti di spicco, tra cui Heinrich Himmler in visita in Baviera e Rudolf Hess che viene guidato a una manifestazione nazista. Molte delle 170 foto ritraggono le guardie del corpo fuori servizio mentre si rilassano e bevono birra.
Giulio Meotti per ''Il Foglio'' il 3 febbraio 2020. Un album di fotografie fu spedito al Museo dell’Olocausto di Washington nel 2007 da un anonimo che lo aveva ritrovato in un appartamento di Francoforte. Erano immagini che, per la prima volta, raffiguravano Auschwitz non solo come un centro di sterminio, ma anche come un luogo dove si viveva. L’album era di Karl Höcker, l’aiutante di Richard Baer, ultimo comandante del campo. Tra le 116 fotografie in bianco e nero scattate nel 1944 ve ne erano un certo numero che raffigurano ufficiali delle SS a Solahütte, un sottocampo di Auschwitz a trenta chilometri da Birkenau e che funzionò da rifugio ameno per il personale addetto allo sterminio. Il dottor Josef Mengele, sorridente e rilassato, compare in otto fotografie. Nell’immaginazione popolare, Mengele è arrivato a personificare la Shoah. Tutti gli altri, da Hitler a Himmler passando per Eichmann, vi presero parte da dietro a una scrivania a Berlino. Mengele lo fece sul campo, o meglio, sulla “rampa” di Auschwitz. Nessuno più di lui incarna la frase di George Steiner secondo cui i nazisti crearono l’inferno sulla terra che per secoli i poeti e pittori europei avevano immaginato e raffigurato. Con una rotazione del pollice, il dottore decideva chi sarebbe vissuto, anche se solo brevemente, e chi sarebbe andato alla camera a gas. Ci si domanda chi fosse quel medico con una laurea in medicina e una in antropologia, un uomo di grande cultura, nato in una famiglia cattolica, entrato molto tardi nelle SS, che prese parte alla selezione di centinaia di migliaia di esseri umani e che, quando nel 1944 scoppiò il tifo nel “campo ceco” di Auschwitz, mandò alla morte col gas tutti i detenuti, risolvendo così il problema. David Marwell, ex direttore del Museo del patrimonio ebraico di New York, è dal 1985 che pensa a Mengele, da quando lavorava all’ufficio che si occupava dei criminali nazisti al Dipartimento di stato e che gli diede la caccia fino in Brasile, dove Mengele è morto nel 1979. Adesso, in un libro per W. W. Norton & Company e in uscita questa settimana, “Mengele: Unmasking the Angel of Death”, Marwell ci racconta non il mostro mitologico, ma lo scienziato. “Ciò che si sa del tempo di Mengele ad Auschwitz è più cliché che verità”, scrive Marwell. “La reputazione fuori misura come mostro medico è inversamente proporzionale a ciò che si sa su quello che ha effettivamente fatto”. No, Mengele non era un “bel Sigfrido”, ma basso e scuro, con un goffo spazio tra i denti anteriori. No, non indossava guanti bianchi e monocolo che Elie Wiesel ricordava. No, non canticchiava Wagner mentre mandava a morte donne e bambini. No, non era un uomo di “insondabile perversità”. Mengele si considerava un serio uomo di scienza, che scandagliava i misteri dell’eredità per perfezionare il Volk. Auschwitz era il suo laboratorio, gli offriva soggetti infiniti e lo aveva liberato da fastidiose inibizioni etiche. “Dove più di un milione di persone hanno perso la vita, Mengele ha trovato la sua”. E’ questa la storia terribile raccontata da Marwell. E’ la storia di un ricercatore che lavorava al Kaiser Wilhelm Institute per l’Antropologia, il miglior istituto scientifico in Europa all’epoca. Racconta Marwell che l’apprendistato del dottore ebbe inizio a lezione dell’etologo austriaco Karl von Frisch, che verrà insignito del Nobel per la Medicina nel 1973. Allora era il capo dell’Istituto di Zoologia dell’Università di Monaco ed era diventato famoso per il suo studio delle api. “Era qualcosa che non avevo mai provato prima in vita mia, Von Frisch accese la mia ‘fiamma zoologica’, ma in modo così duraturo che ho tenuto questo fuoco per tutta la vita e ne sono stato troppo spesso riscaldato”, scriverà Mengele. I suoi insegnanti erano fra i maggiori ricercatori del tempo, da Nikolaus von Jagic, capo della clinica medica dell’Università di Vienna, a Wolfgang Denk, capo della clinica chirurgica della stessa. Mengele studiò anche con Leopold Arzt, capo della clinica di dermatologia e malattie veneree, che venne cacciato dai nazisti nel 1939 per essersi opposto all’Anchluss. Poi a Monaco, dove assieme a Medicina, Mengele sceglie Antropologia sotto la guida del famoso Theodor Mollison, che divenne il suo “Doktorvater”, supervisore. Poi l’Università di Francoforte, dove insegnava il mentore del dottore nazista, Otmar von Verschuer, il più famoso genetista del tempo. Era la “Oxford tedesca”, un paradiso di conoscenza e ricerca. “A settembre 1937, Mengele aveva soddisfatto tutti i requisiti per la sua laurea in Medicina e aveva ricevuto la sua nomina come medico. Mengele ha iniziato il suo secondo dottorato, non ne aveva bisogno per esercitare, ma era necessario per una carriera accademica...”. Mengele ambiva alla docenza universitaria. Per la sua tesi sull’ereditarietà delle malformazioni al labbro, Mengele identificò 110 bambini che erano stati curati per una palatoschisi dal dipartimento chirurgico della clinica universitaria di Francoforte tra il 1925 e il 1935. Da questi ha ridotto il numero a diciassette, selezionando quelli che vivevano a Francoforte e che avevano sia il labbro leporino sia la palatoschisi. Parlando con i genitori di questi bambini, Mengele ricostruì la genealogia delle diciassette famiglie. E presentò e difese la sua tesi nell’estate del 1938. Nella sua valutazione ufficiale, Verschuer scrisse: “La tesi del dottor Mengele è un’opera accademica originale, eseguita in modo indipendente, che ha richiesto non solo grande tenacia per superare tutti gli ostacoli ma anche acute capacità di osservazione e cura nell’esecuzione degli esami”. Il lavoro di Mengele sarebbe stato pubblicato un anno dopo in un rispettato giornale, Zeitschrift für Menschliche Vererbungs und Konstitutionslehre (la rivista degli studi sull’ereditarietà umana) e avrebbe ricevuto la dovuta attenzione nel Handbuch der Erbbiologie des Menschen (Manuale di biologia genetica umana), che lo ha descritto come “un progresso nello studio della patologia genetica del labbro leporino”. Una fotografia degli scienziati riuniti all’università rivela un giovane Mengele in posa sui gradini con i giganti della scienza: Eugen Fischer, Otmar von Verschuer, Alfred Ploetz e Theodor Mollison. Era nato un promettente scienziato. Verschuer scrisse la sua lettera di raccomandazione: “Dopo la mia esperienza degli ultimi due anni, sono diventato convinto che il dottor Mengele sia adatto per una carriera accademica”. La guerra e la Shoah ne complicano il percorso. Mengele è assegnato ad Auschwitz. “Se fosse stato possibile osservarlo nella sua mente, immagino che rivelerebbe un’enorme soddisfazione nel percorso intrapreso dalla sua vita” scrive Marwell. “In giovane età – a soli trentatré anni – Mengele si trovò sulla cuspide del grande successo. Il suo studio, la preparazione e il duro lavoro lo avevano portato in un posto senza precedenti nella ricerca della scienza che era la sua passione consumante. Nessuno nella storia aveva avuto accesso alla materia prima che gli stava di fronte o era stato così liberato dalle restrizioni che domavano l’ambizione e limitavano il progresso scientifico”. Ad Auschwitz Mengele andò di propria iniziativa o su invito di Verschuer? Il figlio di Mengele, Rolf, a un intervistatore nel 1985 disse che sua madre gli aveva detto che Verschuer aveva “motivato” Mengele ad andare ad Auschwitz e che gli aveva chiesto di farlo. Hans Sedlmeier, dirigente della società Mengele di Günzburg e amico di famiglia, ha riferito ai pubblici ministeri tedeschi nel 1984 che Mengele aveva affermato che Verschuer contribuì a organizzarne il trasferimento. “Mengele stava progettando di usare la sua ricerca di Auschwitz come base per la sua Habilitationschrift, la tesi post-dottorato, che era un prerequisito per una carriera accademica” scrive Marwell. Ad Auschwitz, Mengele avrebbe costruito un vero e proprio centro di ricerca, arruolando anche fra i prigionieri scienziati, come il pediatra di fama mondiale Berthold Epstein. Mengele continuò la sua ricerca sul labbro leporino e la nascita dei gemelli. Alla vigilia della Seconda guerra mondiale, nel giugno del 1939, Otmar von Verschuer aveva tenuto una conferenza alla Royal Society di Londra, intitolata “Ricerca sui gemelli dal tempo di Galton ai giorni nostri”. Il mentore di Mengele era molto interessato a quanto avveniva ad Auschwitz. Indubbio è che von Verschuer, autorità mondiale sui gemelli, ricevette da Mengele moltissimi “preparati umani”, dagli occhi ai campioni di sangue di persone di diversa origine razziale. Hans Münch, medico nel campo, ha ricordato che “Mengele affermò che non utilizzare le possibilità offerte da Auschwitz sarebbe ‘un peccato’ e ‘un crimine irresponsabile nei confronti della scienza”. Secondo Horst Fischer, un altro medico di Auschwitz, Mengele parlava spesso “con entusiasmo” del suo lavoro scientifico e del “materiale” che aveva davanti, descrivendo “un’opportunità unica che non sarebbe mai stata più offerta”. Un altro antropologo detenuto ad Auschwitz e che Mengele reclutò nel suo laboratorio, Erzsebet Fleischmann, dirà che il lavoro di Mengele, seppur moralmente aberrante, era “scientificamente legittimo”. Lo storico Massin scrive: “A volte Mengele è rappresentato come l’incarnazione del medico pseudoscientifico delle SS, che, in completo isolamento, esegue i suoi esperimenti astrusi. In effetti, Mengele era strettamente legato alla comunità scientifica”. Il dottore per tutto il tempo ad Auschwitz mantenne un legame molto stretto con i suoi superiori accademici. “La prima cosa che ogni coppia di gemelli ad Auschwitz ha dovuto fare è compilare un questionario dettagliato dell’Istituto Kaiser Wilhelm”, ha ricordato il detenuto Zvi Spiegel. Alla fine del 1943, Mengele, fu invitato privatamente dai Verschuer per una cena. “Che succede ad Auschwitz?”, chiese la moglie del professore. “Non posso parlarne, è orribile”, rispose Mengele. Quando i sovietici si avvicinarono a Berlino nella primavera del 1945, il professor Verschuer diede l’ordine di distruggere tutti i “file segreti”. Non rimase nulla della ricerca svolta da Mengele ad Auschwitz. Più tardi, quando Verschuer assunse la cattedra di Genetica umana a Münster nella neonata Repubblica Federale tedesca, non riuscì a ricordare nulla. “Auschwitz? Non so”. Sospetti sono sarebbero stati sollevati anche sui legami di Mengele con Adolf Butenandt (1903-95), uno dei pionieri della ricerca genetica europea, premio Nobel e uno degli studiosi più influenti del suo tempo. La trasformazione di Mengele in un “angelo della morte” aveva la funzione di sollievo. La vera scienza doveva essere rimasta pura, soltanto dei pazzi sadici e criminali si compromisero col nazismo. Ma dal Kaiser Wilhelm in quegli anni non uscì soltanto il medico di Auschwitz, ma anche venti Premi Nobel. Fu un ricercatore di grande talento e fu aiutato dai migliori scienziati del tempo. Ma per attenuare l’orrore di tanto “progresso” abbiamo dovuto trasformare il dottor Mengele in un dottor Mabuse.
Esclusivo: i deportati politici italiani furono mandati a Mauthausen prima del 1943. Nuovi documenti scoperti a Vienna portano alla luce una storia poco conosciuta sia per quando riguarda la formazione della Resistenza sia per le deportazioni vere proprie. La ricostruzione di due storici sul lager dell'orrore. Luca Faccio su La Repubblica il 11 maggio 2020. Mauthausen e Gusen, a 75 anni della loro liberazione fanno ancora parlare di sé nelle cronache, nascondono ancora segreti, come quello di un presunto campo sotterraneo a Gusen, riportato in un documentario della tv tedesca ZDF. Scoperta contestata da alcuni storici austriaci, come Bertrand Perz, che parlando di infondatezza della tesi. Vero invece che in un campo di uso agricolo sono state trovate degli strati di polvere nera da ricondurre alle cremazioni dei deportati di Gusen e Mauthausen. Presso gli archivi storici dell’Ambasciata d’Italia a Vienna sono state trovate le liste delle vittime dei due campi di concentramento, che portano alla luce una storia poco conosciuta sia per quando riguarda la formazione della Resistenza sia per le deportazioni vere proprie. Nell’archivio, in tre cartoni, giacciono le cartelle informative dei 4.267 italiani massacrati nei due Lager dell’Austria Superiore, liste compilate nel lontano 1958 dal Ministero della Difesa mai studiate attentamente dagli storici, depositate nell’archivio della sede diplomatica viennese. Da queste schede emerge che le prime vittime italiane vengono datate 1940/41. Eppure non è possibile: le prime deportazioni dall’Italia iniziano infatti dopo l’8 settembre del 1943, e per la precisione con il trasporto numero tre, 8 ottobre, da Cairo con arrivò a Mauthausen il 12 ottobre, per poi essere dirottato il giorno dopo nel campo minore di Gusen. I deportati registrati furono 985. Dunque se i trasporti avvengono solo dopo l’8 ottobre, da dove furono deportati quegli italiani dimenticati dalla storia, e morti in realtà già nel 1940? Quanti erano? La risposta è molto interessante sotto il profilo storico. Dopo la guerra civile spagnola molti appartenenti delle brigate internazionali e spagnole, si nascosero in Francia dove iniziarono a fare attività politica e sindacale. Fini a qua la storia parla chiaro, non ci sono incongruenze: la Francia democratica non aveva problemi a ospitare esiliati politici. La questione cambia con l’occupazione nazista del 1940 e la fondazione del governo di Vichy, con a capo un ex generale eroe della prima guerra mondiale diventato poi fiancheggiatore di Hitler, il generale Petain. Con l’arrivo dei nazisti si formarono le prime bande partigiane alle quali parteciparono molti singoli italiani, acquisendo così quell’esperienza che venne poi utile alle prime brigate organizzate in Italia dopo 8 settembre del 1943. Il quotidiano El Pais ha di recente pubblicato la lista di almeno 5000 spagnoli, i cosiddetti “triangoli rossi”. Secondo lo storico archivista Andrea Torre molti connazionali sono presenti in quella lista, ma con nomi spagnoli per evitare d’essere deportati in Italia. Il destino per loro fu ancora più crudele dell’essere rinchiusi al confino italiano, ad aspettarli c’erano torture, esecuzioni sommarie e camere a gas nei due campi di concentramento Mauthausen e Gusen, che nulla avevano di dissimile dal più famoso campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau. Storicamente è provato che più di 800 mila soldati furono internati nei campi militari in Germania, 7500 ebrei deportati per lo più nei campi di sterminio di Treblinka e Auschwitz, e 23.826 i prigionieri politici, i “triangoli rossi”, come venivano chiamati, disseminati tra Buchenwald, Dachau Flossenburg, dove morì il 2 aprile Eugenio Pertini, fratello del futuro Presiedete della Repubblica italiana Sandro, e Mauthausen-Gusen. Dei prigionieri politici più di 7000 furono deportati nei campi di concentramento in Austria, ma mancano dati concreti dei deportati prima del 1943 non ancora quantificati ed identificati. Hans Marschalek, autore della “Storia del campo di concentramento Mauthausen”, ex internato nei Konzentrationslager dell’Austria superiore, aveva il pedante compito di registrare ogni trasporto e ogni decesso. I documenti da lui stilati furono poi usati al processo di Norimberga. Ebbene, anche in questi documenti si accenna alle deportazioni di concittadini prima del 1943. Presso il Mauthausen Memorial è poi depositata un’altra lista di 7 nominativi, i quali ricompaiono in parte nel libro del “Progetto Adamoli” pubblicato da Mursia nel 1965, “Elenco dei morti deportati italiani a Mauthausen”. Per riuscire a capire a fondo questo particolare storico è necessario ricostruire la storia delle vittime, come ad esempio quella di Italo Ragni, una delle 4.427. Anarchico militante, nato a Grosseto nei primi del Novecento, verso i vent’anni partecipa a diverse occupazioni e manifestazioni di piazza, e viene considerato pericoloso dal commissario di Grosseto. Nell'aprile del 1924 Ragni si trasferisce in Francia, a Lione, per lavoro (è muratore), valicando le Alpi con passaporto regolare. In Francia sembra avere partecipato all'aggressione anarchica del 26 maggio 1927 contro il segretario del fascio di Lione, e viene espulso. Va in Belgio con il compagno di lotte Umberto Malfatti, si occupa della diffusione di “Bandiera nera”. Tra gli anni 1925 e 1930, Ragni gira tra Germania, Svizzera e Francia, e in Italia viene ricercato come terrorista in quanto starebbe preparando un attentato a Benito Mussolini. Nel 1936 parte per la Spagna e si arruola nella Colonna italiana Rosselli, con cui, il 28 agosto, partecipa al combattimento di Monte Pelato, e il 22 novembre 1936, combatte ad Almudevar. Nel maggio 1937 è ferito dal calcio di un quadrupede e torna in Francia dove, il 25 maggio 1938, è arrestato dalle autorità francesi: incarcerato per qualche mese, è condotto alla frontiera belga ma rientra illegalmente a Parigi dopo pochi giorni. Il 27 giugno 1939 è internato nel campo di Gurs, ma la durata del suo fermo non è nota. Forse è da lì che lo prelevano i nazisti per deportarlo a Mauthausen (forse, invece, cade nelle loro mani a Lione dopo essere entrato nel “maquis” oppure, secondo una versione non confermata, dopo essersi arruolato nell'esercito francese o nella legione straniera). Ragni muore nel campo di Mauthausen il 6 maggio 1941. Andrea Torre, storico e archivista presso l’Istituto Nazionale Ferruccio Parri, si occupa delle attività di valorizzazione delle banche dati. E’ uno dei pochi studiosi in Italia che da anni cerca di ricostruire il puzzle delle deportazioni degli “spagnoli” nel campo di concentramento di Mauthausen. Nelle sue ricerche ha provato con successo a ricostruire la vita di alcuni italiani deportati e morti a Mauthausen. «L’importanza di queste carte – dice Torre - sta ora nel poter fare chiarezza sulla storia delle singole persone. I repubblicani di Spagna deportati a Mauthausen furono, secondo vari studi, circa 8.000. Di questi ne sopravvissero circa 1.600. Tra i deportati, naturalmente, vi furono anche italiani. Impossibile, sulla base dei dati in nostro possesso, una stima sul loro numero: lavoriamo su una massa di 5.665 nomi. I documenti rinvenuti presso l'Ambasciata di Vienna sono importanti in quanto aggiungono ulteriori tasselli ad una storia che è abbastanza conosciuta nelle dinamiche generali ma che spesso ancora da ricostruire in relazione a vicende specifiche e soprattutto a singole biografie». Bertrand Perz, docente di Storia contemporanea all’Università di Vienna, autore di diversi saggi su Mauthausen e componente della task force storica voluta dal governo austriaco, aggiunge: «Non conosco dati e statistiche precise, ma sono a conoscenza di queste deportazioni. Tra le tante angherie e crudeltà naziste c’era il tentativo di aizzare le diverse etnie nel campo di concentramento, per evitare che ai deportati venisse l’idea di solidarizzare fra loro e unirsi. Cosi gli italiani vennero rinchiusi nel vicino blocco dove vivevano i russi». A questo proposito Andrea Torre spiega: «In Italia nacque e prosperò il fascismo, dunque è normale che nei Konzentrationslager vi fossero pregiudizi verso gli italiani – specie da parte di greci, jugoslavi, albanesi, ucraini e russi, i cui paesi furono invasi dalle truppe italiane. La presenza nei campi di volontari antifascisti combattenti in Spagna, in alcuni casi risalente ai primi del 1940 – cioè prima dello scoppio del conflitto mondiale – concorse a fare accettare i prigionieri italiani come antifascisti e come vittime del nazifascismo al pari di tutti gli internati. Tra i responsabili dei Comitati internazionali di Resistenza interni ai Konzentrationslager, organizzati in buona parte da elementi comunisti, annoveriamo a titolo di esempio Giovanni Melodia (Dachau), Giancarlo Pajetta (Mauthausen), Francesco Albertini (Gusen)». A tre chilometri di distanza si trova il campo minore di Mauthausen, Gusen. Gusen era l’entrata dell’ultimo girone dell’Inferno dantesco, non c’era via d’uscita. La vita media era di poche settimane, in questo campo vennero costruiti i primi aerei a reazione e i missili V2, nei tunnel della Bergkristal. Dopo la guerra fu usato dalle forze d’occupazione sovietiche come carcere per i nazisti e in gran parte distrutto alla fine anni ‘40. In questo campo morirono circa 44.602 persone, ebrei russi polacchi spagnoli e tra questi appunto molti prigionieri politici italiani. Anche quelli deportati dal 1940. Del campo, nei giorni di oggi, non è rimasto quasi più nulla: alcune baracche delle SS, il bordello e l’entrata del Konzentrationslager sono divenute ville. La cava di granito è ancora in uso. Dopo il 1955 il governo austriaco decise di vendere i terreni e ci si costruì un piccolo paesino, ma negli anni ‘60, grazie a un gruppo di sopravvissuti tra cui 4 italiani, si riuscì a salvare il crematorio per farne un luogo del ricordo, un monumento in parte pagato dal comune di Genova. Bertrand Perz racconta così la storia di questo campo dell’orrore: «Gian Luigi Banfi era uno degli artefici del Memoriale del campo di concentramento di Gusen. Non vide mai la sua realizzazione in quanto deceduto poco prima della Liberazione, morì il 10 aprile 1945 per le conseguenze della detenzione nei campi di concentramento. Lo Stato austriaco ha in piano di ricomprarsi i terreni lottizzati all’epoca, per abbattere le case costruite sulle perimetri del vecchio campo e farne diventare un grande Monumento alla memoria».
Quei tre bambini deportati ad Auschwitz e la follia di Mengele. Pubblicato lunedì, 03 febbraio 2020 su Corriere.it da Aldo Grasso. Spostato di una settimana per far posto ai commenti sulle elezioni regionali, è andato in onda il documentario «Kinderblock. L’ultimo inganno», scritto da Marcello Pezzetti e diretto da Ruggero Gabbai (Rai1, domenica, ore 23.15). È la storia di tre bambini ebrei: Sergio De Simone, nato a Napoli e morto in Germania, e delle due cugine, Andra e Tatiana Bucci, tra i pochi sopravvissuti (50 in tutto), a fronte dei 230mila bambini morti nel lager. Le due hanno sette e cinque anni quando una notte di primavera del 1944, denunciati da un militante fascista, vengono arrestate dai nazisti. La famiglia Bucci è in casa: tutti vengono presi. Nonna Rosa, che sa già come finiranno le cose, s’inginocchia, si aggrappa alle gambe del soldato tedesco e lo implora di risparmiare i tre bambini. Con loro c’è infatti anche il cuginetto Sergio De Simone. Niente da fare, saranno tutti rinchiusi in una minuscola cella alla Risiera. Nel giro di una settimana entrano nel Kinderblock 1 di Auschwitz-Birkenau, il 4 aprile del 1944. E qui avviene l’impensabile, l’innominabile. Il dottor Josef Mengele, l’«angelo della morte», seleziona alcuni di questi ragazzi per iniettare loro il bacillo della tubercolosi e usarli come cavie, prima a Birkenau e dopo a Bullenhauser Damm, la scuola di Amburgo scelta come prigione. Alcuni sopravvivono agli esperimenti, ma finiscono tutti impiccati il 20 aprile 1945, per non lasciare tracce di quei terribili esperimenti. Tra loro c’è il cugino Sergio, cui Mengele aveva detto: «Chi vuole vedere la mamma faccia un passo avanti». Il passo lo aveva fatto, ma verso la morte. La testimonianza di Andra e Tatiana Bucci è di quelle ti lasciano senza fiato, come se non ci fossero parole per descrivere l’orrore. Mengele non era un criminale isolato, alle sue spalle aveva la comunità scientifica tedesca che vedeva in lui un brillante ricercatore e faceva a gara per collaborare.
«Ad Auschwitz non c’era». L’archivio storico ebraico contro il finto deportato di Padova. Pubblicato domenica, 02 febbraio 2020 su Corriere.it da Roberta Polese e Andrea Priante. L’83enne non si chiama Samuel ma Gaetano, e non risulta nato a Rostock ma a Cosenza. Teneva conferenze e ha persino scritto un libro: «Alla vita». «La sua è una falsa testimonianza» ha stabilito il Centro di documentazione ebraica. Samuel Artale von Belskij Levi, 83 anni, è un ingegnere di Padova che gira per scuole e teatri commuovendo chiunque lo stia ad ascoltare coi racconti di quando lui, bambino ebreo deportato ad Auschwitz, fu costretto dai nazisti a frugare nei cadaveri per rimuovere i denti d’oro o a rubare cibo per gli altri prigionieri ebrei. Ma la fitta agenda dei suoi appuntamenti si è bruscamente interrotta: annullato l’incontro con un’associazione di Meolo previsto per oggi, sospese le conferenze. «La sua è una falsa testimonianza», ha stabilito Gadi Luzzato Voghera, il direttore del Centro di documentazione ebraica contemporanea di Milano che per mesi ha indagato sulla narrazione di Artale partendo da una serie di errori contenuti nel libro autobiografico «Alla Vita», in cui racconterebbe la tragica esperienza nel lager. È saltato fuori che l’ingegnere non è nato a Rostock da una famiglia ebreo-prussiana, come ha sempre detto, ma in provincia di Cosenza. E non si chiama neppure Samuel ma Gaetano e avrebbe lavorato in Nigeria prima di trasferirsi in Veneto. Il suo nome non compare negli archivi internazionali dei perseguitati dal nazismo di Bad Arolsen. «Non ci serve una memoria spettacolo», taglia corto Luzzato Voghera. Il rabbino di Padova, Adolfo Locci, mette le mani avanti: «Il tema dello sterminio è già stato macchiato a sufficienza, non dobbiamo avere anche storie inventate». Ma intanto, Artale non arretra. Ieri, girando per casa aggrappato al suo bastone, ha continuato a negare di essere un impostore. «Le prove sono da qualche parte giù in cantina ma solo la mia segretaria sa dove». Mostra una carta d’identità con su scritto: Gaetano Artale nato a Cosenza. «È solo una registrazione più recente — si giustifica — li ho i documenti di Rostock, dove risulto chiamarmi Samuel Artale von Belskoj Levi...». Nel suo libro, ricorda «il momento che sono venuti a prenderci, sono entrati con la forza in casa, violando per sempre la nostra intimità» e la vita nelle baracche di Auschwitz «con i cadaveri ammassati, parassiti e topi ovunque. Dovevi resistere, perché se i soldati notavano sul tuo volto i sintomi dell’infezione venivi assegnato alle camere a gas». Stando alle ricerche di Luzzato Voghera, sarebbe tutto inventato. La questione è delicatissima. Lo sa bene chi nel lager c’è stata davvero: Liliana Segre aveva inviato un messaggio letto in occasione di un incontro organizzato dal Comune di Cessalto (Treviso). Peccato che la senatrice avesse accettato di dare il proprio contributo «solo dopo che l’amministrazione aveva espressamente assicurato che Artale non sarebbe stato presente». E invece, per lui era stata l’ennesima occasione di emozionare il pubblico. «Lo scorso anno il Centro di documentazione ci aveva avvertiti del sospetto che quell’uomo fosse un impostore, per questo mia madre non aveva voluto accostare la propria testimonianza alla sua» racconta il figlio, Luciano Belli Paci. «Purtroppo all’incontro lui era presente. È grave: se i millantatori si insinuano nella Shoah diventano una trappola micidiale nelle mani dei negazionisti. Anche se questa è la storia di una ricerca che dimostra come non ci sia crimine più documentato di quello avvenuto nei campi di sterminio».
Da aleteia.it il 24 gennaio 2020. Giovedì 23 gennaio il settimanale Famiglia Cristiana pubblica, in esclusiva, un’anticipazione del libro Il Vaticano nella tormenta di Cesare Catananti (Edizioni San Paolo), un saggio che ricostruisce il gioco di spie e le manovre in Vaticano durante il periodo della Seconda Guerra Mondiale. Grazie a numerosi documenti inediti, provenienti dall’Archivio della Gendarmeria Pontificia, viene svelato per la prima volta un piano segreto per difendere la Santa Sede e proteggere papa Pio XII in caso di rapimento da parte dei nazisti. Cesare Catananti getta luce su quelle oscure vicende grazie al materiale inedito dell’Archivio della Gendarmeria vaticana, che ha potuto consultare in esclusiva. Il risultato è uno straordinario volume ricco di vicende drammatiche e colpi di scena, con rivelazioni clamorose. Un saggio di “storia materiale”, come scrive Andrea Riccardi nella prefazione, in cui emerge il ruolo della Chiesa cattolica e del pontificato di Pio XII durante il conflitto. Con un protagonista assoluto che si muove dietro le quinte: Giovanni Battista Montini, Sostituto della Segreteria di Stato e futuro papa Paolo VI. Dal libro emerge anche come per tutto il conflitto il Vaticano non cessò di nascondere ebrei e rifugiati di guerra alleati. Si sapeva che i due Sostituti della Segreteria di Stato di Pio XII, Montini e Domenico Tardini, erano contrari al regime. Ma questo non impedì loro di dare disposizione, a guerra finita, di ospitare rifugiati tedeschi tra le mura della Santa Sede, per impedire che venissero uccisi.
Le spie di Hitler. L’opera di Montini, in particolare, fu costante e ostinata per proteggere il Pontefice e la Curia dalle minacce di Adolf Hitler, dalla prevaricazione del regime fascista (l’Ovra spiava ogni cittadino vaticano) e al contempo salvaguardare l’immunità degli ambasciatori alleati presso la Santa Sede che di fortuna). Il Führer (che non aveva escluso la deportazione dei cattolici tedeschi, come ben sapeva l’ex nunzio apostolico in Germania Pacelli) aveva in animo l’invasione di quel territorio di appena 44 ettari e persino il rapimento del Papa.
Il piano di fuga. L’ambasciatore inglese presso la Santa Sede Francis D’Arcy Osborne aveva rivelato alla Segreteria di Stato che vi era un piano per prelevare Pio XII e portarlo a Monaco di Baviera, ma in quel caso gli alleati erano pronti a inviare in due giorni un commando per salvarlo. Bisognava tenerlo nascosto per 48 ore. La Gendarmeria aveva individuato il rifugio: la Torre dei Venti, nel cortile della Pigna, ricco di nascondigli e passaggi segreti.
200 uomini. Un piano di difesa era stato varato dalla Gendarmeria Vaticana, consapevolmente disperato, poiché l’armamento di quel piccolo esercito di 200 uomini era costituito da fucili Mauser, spade, alabarde e persino gli idranti dei pompieri vaticani. Sarebbe bastata una cannonata di un panzer tedesco per mettere fine alla “Stalingrado vaticana”.
Hitler progettò di rapire papa Pio XII. Lo scrisse Goebbels. Il blitz raccontato nel libro “Il Vaticano nella tormenta”. Giovanni Trotta venerdì 24 gennaio 2020 su Il Secolo d'Italia. Hitler voleva rapire il Papa e il Vaticano era pronto a difenderlo, ma senza usare le armi. È quanto emerge dall’Archivio della Gendarmeria Pontificia, scandagliato dal medico, storico e scrittore Cesare Catananti, già direttore del policlinico Gemelli di Roma. L’autore dalle rivelazioni ha tratto il volume Vaticano nella tormenta, pubblicato dalle Edizioni San Paolo. “Proprio così – racconta Catananti – Hitler voleva davvero rapire Pio XII, come risulta dai diari di Joseph Goebbels, il ministro della Propaganda del Terzo Reich.
Il piano di Hitler raccontato da Goebbels. Goebbels riferisce di un incontro con Hitler il giorno successivo alla caduta di Mussolini, il 26 luglio. E quella stessa sera Hitler disse: “Ora basta! Dobbiamo invadere il Vaticano e prendere il Papa e arrestare anche il Re d’Italia”. E successivamente Karl Wolff, il capo delle Ss in Italia, dichiarò che Hitler lo aveva chiamato per preparare un’organizzazione che invadesse il Vaticano e prendesse il Pontefice”. Non è chiaro poi perché il progetto non si concretizzò. Ma come avrebbe reagito, in quel caso, Pio XII? “Dagli Archivi risulta un piano di difesa del Papa che ha dell’incredibile: c’è per la prima volta una documentazione dettagliata su come organizzare la difesa del Santo Padre. C’è scritto che è proibito l’uso delle armi, al massimo si possono usare gli idranti dei vigili del fuoco… E comunque, bisognerà esercitare una difesa passiva ma energica, con un piano di progressivo arretramento verso il Palazzo Apostolico, dove alla fine la guardia nobile si sarebbe dovuta mettere attorno al Papa, per proteggere la sua sacra persona fino al loro spargimento di sangue”. Quanto durò la “tormenta” descritta nel suo libro? “Imperversò per almeno quattro anni, tra il 1940 e il 1944 – spiega Catananti – ovvero dall’ingresso in guerra dell’Italia fino alla Liberazione di Roma. Il Vaticano era, come è tuttora, una enclave dentro Roma. E a un certo punto, dal 1943 in poi dopo la caduta di Mussolini, confinava direttamente con il Terzo Reich. Era già un polo di interesse per i fascisti, in quanto era forte il dubbio che la Segreteria di Stato vaticana appoggiasse gli alleati. Anche i tedeschi lo sapevano e dunque il Vaticano era sotto un doppio fuoco: fascista e nazista”. Dagli archivi, come emerge la figura di Pio XII e il suo impegno, o disimpegno, nei confronti degli ebrei avviati nei campi di concentramento nazisti e destinati all’Olocausto? “La questione di Pio XII rimarrà probabilmente aperta ancora per lungo tempo – spiega Catananti -. Certamente, chi voleva ascoltare dal Papa del tempo parole chiare e nette contro il nazismo, non le ascoltò”. Ma “Pio XII preferì tacere e agire. Dagli atti della Gendarmeria non c’è ombra di dubbio che l’opera di salvataggio che fece per assistere tanti ebrei è assolutamente dimostrata. Così come l’asilo ai militari scappati dai campi di prigionia e, dopo la Liberazione di Roma, anche ai militari tedeschi. A un certo punto, in Vaticano c’erano militari alleati e militari tedeschi, ospitati nella caserma della Gendarmeria, posti tutti sotto la protezione del Papa”.
Da ansa.it il 31 gennaio 2020. Erano giovani, le classiche ragazze della porta accanto, molte con gli occhi blu come il cielo e i capelli color del grano, tutte di purissima razza ariana tedesca. Erano segretarie, infermiere, insegnanti, alcune guardie, moltissime solo semplici mogli o amanti di ufficiali e burocrati: eppure tutte, nel delirio tragico dell'Olocausto, si trasformarono più o meno consapevolmente in spietate assassine. Racconta una terribile pagina di storia ancora non del tutto nota "Le furie di Hitler", indagine condotta dalla storica statunitense Wendy Lower, ripubblicata in Italia da Rizzoli (con la traduzione di Andrea Zucchetti), dopo una prima edizione nel 2013. Il libro mette al centro molte di queste donne che sposarono il credo nazista, narra i crimini di cui si macchiarono, cercando di spiegare contesto e possibili motivazioni, e quale poi sia stato il loro destino dopo la guerra. Come scrive Lower, se è vero che "il regime nazista insegnò a migliaia di tedesche a essere complici, a essere spietate con i nemici del Reich", in realtà non ci si aspettava che - al di fuori dei lager, dei manicomi e delle prigioni - le donne dovessero trasformarsi in efficienti killer senza umanità. "Quelle che decisero di farlo - spiega Lower - sfruttarono l'occasione di trovarsi all'interno di un ambiente sociopolitico fertile, aspettandosi ricompense e riconoscimenti, non ostracismo". Quando si delineò il disegno criminale di Hitler, il regime chiamò ogni tedesco a prenderne parte, anche le donne, che presto ebbero il loro ruolo: un ruolo divenuto poi centrale, che tuttavia è stato poco documentato. Omicidi di bambini, torture e sevizie, esperimenti medici, discriminazioni: di questo molte ragazze si macchiarono, a volte con un sadismo e un odio difficili da immaginare per una donna. E' vero che poiché non ricoprirono incarichi di comando queste donne non vennero processate a Norimberga insieme alle figure di spicco del Reich: la maggior parte di loro fu giudicata in tribunali di zona. Alcune furono fortunate, sopravvissero e raccontarono la loro storia più avanti, in anni ormai lontani dalla guerra, senza mai vedere se stesse come efferate criminali; altre pagarono per i loro delitti, altre invece morirono. Proprio con l'idea di raccontare le loro storie, l'autrice ha condotto una serie di accurate ricerche basandosi su documenti tedeschi del periodo bellico, atti investigativi, verbali di processi, inchieste sovietiche su crimini di guerra, diari, corrispondenze, memorie pubblicate, interviste, ma soprattutto sui cosiddetti "ego-documenti", ossia auto rappresentazioni create dalle protagoniste, resoconti che vanno interpretati e "sfrondati" da esagerazioni o memorie rese "parziali" o edulcorate, ma che comunque sono fondamentali per comprendere ciò che è accaduto. La maggior parte dei crimini nazisti vennero compiuti dalle donne nei territori orientali. Nell'Est infatti, nelle terre tra la Germania e la Russia, i nazisti vedevano tante opportunità per creare un vero e proprio Eden per la Germania: a patto però di "estirpare" con ogni mezzo la vera "minaccia" di quei luoghi, ossia coloro che li abitavano, gli storici nemici ebrei, considerati esseri inferiori, e gli oppositori politici che andavano sterminati. E proprio qui a giovani tedesche ambiziose Hitler offriva l'opportunità di far carriera. Molte di loro scelsero di trasformarsi in "assassine in gonnella" e non necessariamente erano infermiere, insegnanti o segretarie, quanto semplicemente mogli e segretarie che, trovandosi vicino a uomini impegnati negli omicidi di massa, si lasciarono coinvolgere, molte di loro partecipando attivamente. Con acume, rigore e lucidità, ma mai con distacco, Lower propone al lettore fatti e informazioni che non possono lasciare indifferente e che ci rimandano ai giorni nostri, facendoci riflettere su quanto sia ancora possibile il rischio di cadere nella spirale dell'odio e del pregiudizio. (ANSA).
Luca Beatrice per ilgiornale.it l'11 gennaio 2020. Depurata da ideologia e propaganda, l'arte prodotta in Italia durante il fascismo ha dimostrato un'altissima qualità che le ha garantito una lunga sopravvivenza nei musei, nelle collezioni e nell'arredo urbano. Del nazismo, invece, non è rimasta pressoché memoria, essenzialmente per due ragioni. Troppo elevato il senso di colpa che un intero popolo ha voluto rimuovere: non può esistere un'estetica goebbelsiana se di quella persona si parla come di uno sterminatore. E poi, la qualità degli artisti del Terzo Reich non era particolarmente rilevante: nella Germania nazista non ci furono un Sironi o un Michelucci, piuttosto diversi scultori classicheggianti e accademici, a dimostrazione dell'antimodernismo radicato in Hitler e dell'assenza di progettazione futura. Del nazismo si ricorda solo l'involontaria pubblicità offerta all'«arte degenerata», in particolare i gerarchi se la prendevano con la pittura astratta che non capivano, oltre a disprezzarla, cosa che accomuna nazisti e comunisti. Della produzione negli anni '30 non c'è traccia, con l'eccezione della visionaria Leni Riefenstahl, regista delle parate hitleriane che intuì la straordinaria forza propagandistica del cinema. Alla completa mancanza di informazioni, un cruccio per gli studiosi di arte moderna, supplisce alla grande l'edizione italiana di Scultura programmatica nel Terzo Reich. L'autore è Klaus Wolbert, nato nel 1940, storico, curatore, presidente della Fondazione Vaf il cui scopo è promuovere l'arte italiana all'estero. Pubblicato da Allemandi, il volume è bellissimo, raffinato come di consueto, illustrato a dovere. Pesa diversi chili e costa 150 euro, non è il classico libro da tavolino, ma un saggio imponente e forse definitivo. Buona parte delle immagini sono autentiche rarità perché testimoniano opere che sono andate distrutte subito dopo la caduta del nazismo. Mentre la teoria propagandistica fascista indicava la coesistenza di aspetti contraddittori - modernità e antica Roma, rigore e retorica neoclassica - l'idea di bellezza nel Terzo Reich puntava unicamente sull'armonia formale, sull'esaltazione delle forme ereditate dalla lettura strumentale dell'ellenismo. Logico dunque fosse la scultura la tecnica privilegiata, il linguaggio adatto a rappresentare l'ode alla perfezione. In Wolbert l'analisi da estetica si fa politica: tutto quanto non corrispondesse all'ideale di bellezza doveva essere cancellato, annientato e dunque anche gli artisti finiscono per apparire corresponsabili di questa terrificante ideologia. Da qui la necessità di distruggerne la testimonianza. In copertina una statua di Arno Breker, La prontezza, che avrebbe dovuto ornare il monumento a Mussolini nel 1939, alta 11 metri, trionfo retorico e manierista. Gli eroi germanici cari a Wagner vengono sostituiti da corpi atletici di uomini e donne, integralmente nudi ma privi di qualsivoglia erotismo o sensualità, ideali elementi decorativi per i giochi olimpici di Berlino del 1936. Scrive Wolbert: «Giovandosi del medium dell'arte plastica figurativa, gli scenografi del fascismo tedesco ne inscenarono le espressioni di maestosità con figure che avrebbero dovuto mostrarne la discendenza da una stirpe olimpica ideale. Così, nella nudità libera e naturale, che rappresentava l'uomo nuovo del nazionalsocialismo nel quale non ci si era ancora mai imbattuti, dinanzi agli occhi di tutti fece la sua comparsa una species umana imponente». È l'impero della bellezza cui concorrono soprattutto le opere di Breker o di Josef Thorak, scultori ufficiali del Terzo Reich, il primo in stretto rapporto con l'architetto Albert Speer per il progetto di rifondazione di Berlino, ammirato a tal punto da Stalin che a guerra finita gli offrì di lavorare in Urss. Thorak invece prediligeva il monumentalismo per rappresentare la vita del popolo tedesco sotto il nazismo, atleti, lavoratori, camerati che si tengono per mano. Di tale visione eroica, degli uomini-dei non è rimasto davvero più nulla dopo il nazismo? Non proprio. L'ultimo capitolo del libro dimostra come l'esaltazione del corpo non sia certo finita dopo il 1945 e che l'aspetto fisico continua a essere un'arma di forte affermazione identitaria, seppur non così pericolosa. Riviste di moda, fitness, life style, persino di attualità, hanno continuato a propinare questa visione, fino al paradosso (mica tanto) di una possibile realizzazione dell'eugenetica nazionalsocialista attraverso la manipolazione del Dna, argomento introdotto negli anni '90 dalla teoria del cosiddetto postumanesimo che ancora galleggia, inquietante.
Dagospia il il 26 dicembre 2019. Wlodek Goldkorn per ''L'Espresso'' del novembre 2007. È tutto vero. Il massacro c'è stato. È accaduto durante la festa che la contessa Margit von Thyssen Bornemiszaha dato per i suoi ospiti al castello di Rechnitz il 24 marzo 1945. Presumo, dagli indizi piuttosto forti, che lei era lì, mentre si sparava ai prigionieri, ma non ho le prove materiali, i testimoni oculari non sono più tra i vivi... David R. L. Litchfield nel passato si è occupato di riviste glamour. Assieme al celebre fotografo David Bailey pubblicava a Londra il patinatissimo 'Ritz'. Poi, all'improvviso gli è capitata tra le mani una delle più raccapriccianti storie del secolo scorso. La storia, che sembra scritta apposta per illustrare che cosa è il male metafisico, un male assoluto, senza alcuna ragione né razionalità, è quella di una festa danzante in un castello al confine tra l'Austria e l'Ungheria, dove vengono uccisi quasi 200 ebrei, ammazzati per divertire la castellana e i suoi amanti. La Seconda guerra mondiale ha tramandato molte vicende di assassini di massa, compiuti per eseguire ordini malvagi. E basti pensare ad Auschwitz, dove uomini e donne delle SS mandavano ogni giorno persone alle camere a gas e poi la sera e nel weekend andavano a divertirsi nella baita sulla riva del fiume Sola. È accaduto qualcosa di simile anche con gli uomini del Battaglione 101 che massacravano gli ebrei in Polonia (descritti nel libro di Christopher Browning, 'Uomini comuni'). Qui la storia è diversa: il massacro è il culmine estetico di una festa dei dannati che dopo ore di balli, bevute, seduzioni, si danno al piacere di uccidere per uccidere, e poi tornano a ballare, bere e sedurre. Questa storia di 52 anni fa era nota, ma ha scosso le coscienze e ha provocato una vera discussione solo in questi giorni, perché se ne è parlato sulla 'Frankfurter Allgemeine Zeitung'. Dice a 'L'espresso' Litchfield, che assieme alla moglie Caroline Schmitz (che lo ha aiutato nelle ricerche) abita nell'Isola di Wight: "Ho cominciato questo lavoro nel 1992 per ragioni commerciali. La famiglia von Thyssen mi ha commissionato un libro che avrebbe celebrato la loro dinastia. Poi ho fatto le mie scoperte". È nato così 'The Thyssen Art Macabre', pubblicato a febbraio scorso a Londra, e dedicato appunto alla famiglia Thyssen, gotha del jet set e giganti dell'acciaio, e che ha posseduto la più grande collezione privata dell'arte del mondo, ceduta allo Stato spagnolo dal barone Heini von Thyssen Bornemisza, negli anni Novanta. Ma torniamo a quella notte. Lo scenario è quello di 'Götterdämmerung', il crepuscolo degli dei. Mancano poco più di sei settimane alla resa del Terzo Reich. L'Armata rossa si sta avvicinando ai confini dell'Austria, a Rechnitz. Nella follia dei capi del nazismo, decine di migliaia di ebrei ungheresi vengono portati, in una 'marcia della morte' verso Ovest, verso l'Austria, per costruire la 'Ostwall', il vallo orientale: Hitler pensa di poter fermare l'avanzata dei sovietici. Molti di quegli ebrei muoiono strada facendo, alcune centinaia, finiscono a Rechnitz. Secondo Litchfield, 600 di loro sono alloggiati "in condizioni disumane nei sotterranei del castello". Il castello, a sua volta, è abitato da Margit von Thyssen Bornemisza, sposata con il conte Ivan Batthyány. "Margit", racconta Litchfield, "era una donna sessualmente molto attiva, e poi le piaceva moltissimo andare a caccia". Sono due caratteristiche che hanno a che fare, spiega, con ciò che è successo quella notte. Al castello Margit non è sola. La dimora è requisita dalle SS, "ma la famiglia Thyssen, dalla Svizzera, dove vive il padre Heinrich e il fratello piccolo di Margit, Heini, contribuisce al suo mantenimento". E a Rechnitz ospite fisso è Joachim Oldenburg, iscritto al partito nazista e funzionario della Thyssengas, azienda di famiglia e una specie di curatore di Margit. "In realtà è il suo compagno di caccia e di letto", precisa Litchfield. L'altro personaggio chiave è il locale boss della Gestapo, Franz Podezin. Anche Podezin è compagno di letto dell'irrequieta contessa. La notte del 24 si dà dunque una grande festa. Passata la mezzanotte, una quindicina tra gli invitati va in una stalla vicina, fa spogliare i circa 180 prigionieri "inadatti al lavoro" e spara. Al termine della carneficina, si torna a ballare, a bere, forse a fare sesso, "ma le donne presenti erano solo quattro, e se mi chiede se è stata un'orgia, le rispondo: è stata un'orgia di violenza", precisa Litchfield. Come è potuto accadere? E cosa è successo dopo? E come mai una storia così terribile viene lanciata nei media solo oggi, e da un giornalista che candidamente ammette di non essere uno storico (accusa fattagli da Wolfgang Benz, autore di importanti libri sull'antisemitismo, alla radio di Stato tedesca)? Intanto, passata la sbronza, uccisi altri prigionieri (testimoni del massacro), la bella gente di Rechnitz dà fuoco al castello. "È uno scenario da fine del mondo", dichiara Peter Wagner, scrittore, regista, autore di una pièce teatrale intitolata 'März. Der 24': "Le fiamme si potevano vedere fino in Ungheria". E poi? "Poi arrivarono i russi", spiegano Litchfield e Wagner. E la giustizia fu fatta? La risposta a questa domanda la dà il professor Josef Hotwagner. Hotwagner ha 70 anni, è un ex insegnante del locale liceo: "Di mestiere sono storico, so di cosa parlo", precisa a L'espresso, e poi fa una premessa: "Nel Paese si diceva che la contessa assisteva, anche prima del 24 marzo, ad atti di crudeltà verso i prigionieri. Ne traeva una specie di godimento". E poi prosegue: "Dopo, c'era tanta paura". Spiega Litchfield: "Due testimoni, Karl Muhr e un ebreo ungherese sono stati trovati morti nel 1947. Il testimone ebreo morì in un 'incidente d'auto', Muhr perse la vita nel 1946". Precisa Hotwagner: "Nel 1945 è stato Muhr a distribuire le armi agli assassini. Nel 1946, gli hanno sparato nel bosco. Il suo corpo era mezzo bruciato. Il suo cane è stato pure ucciso. E anche la casa venne incendiata. L'ispettore Sirowatka (morto nel 2002) cominciò un'indagine, ma fu rimosso. Fu detto che era per proteggerlo dai russi". Come è successo che una storia che sembra tratta da un romanzo di forte impronta nichilistica (altro che 'Le benevolenti' di Jonathan Littell) sia finita in mano a un giornalista glamour? Risponde Litchfield: "Quando facevo la rivista 'Ritz', a cavallo tra gli anni '70 e '80, frequentavo Francesca von Thyssen. Era giovane. Era interessata alla fotografia". Nel frattempo Francesca ha sposato Karl von Habsburg, si è impegnata nelle vicende della ex Jugoslavia, promuove cause umanitarie e buone. "No, non penso che Francesca abbia mai avuto dei rimorsi di coscienza per il passato della famiglia", dice Litchfield, "in ogni caso mi ha fatto conoscere suo padre Heini", ossia il barone Hans Heinrich Thyssen Bornemisza de Kaszón, nato nel 1921 in Olanda, morto nel 2002 in Spagna, e fratello di Margit, la castellana. Heini era un grande collezionista d'arte. Nella sua Villa la Favorita a Lugano c'erano opere di ogni genere ed epoca: da Ghirlandaio a Pollock. Era anche un viveur, ha avuto cinque mogli, l'ultima, Carmen Cervera detta Tita, ex miss Spagna. "Mi piaceva Heini", racconta Litchfield, "il barone cercava qualcuno che scrivesse la storia della dinastia, aveva un candidato spagnolo, con cui litigò. E siccome pagava bene, mi sono offerto io. Credevo di dover occuparmi della storia dell'arte". Litchfield racconta invece di aver scoperto degli scheletri nell'armadio e tanti silenzi: "Mi ha colpito il fatto che con la mia attuale moglie Caroline, lui non voleva parlare in tedesco. Era per una specie di senso di colpa?", si chiede. E poi racconta: "C'erano bugie: non ultima, la versione per cui Margit sarebbe stata scostante, poco sociale, e che il castello sarebbe stato fatto saltare in aria dai sovietici". E indagando sulla famiglia, Litchfield scopre due cose. La prima: i Thyssen "sono sempre stati degli arrampicatori sociali". Ad esempio Heinrich, padre di Heini, sposò la baronessa Bornemisza de Kaszón e si fece adottare dai suoceri per acquistare il titolo nobiliare. Comunque, Heinrich sapeva amministrare i suoi beni. Dopo la Prima guerra mondiale va a vivere in Olanda. Successivamente si trasferisce a Lugano. Dice di essere in fuga dai nazisti. In realtà, secondo Litchfield, la famiglia traffica con Hitler, vende armi, trasferisce soldi. Altro che bel mondo dorato e patinato. Litchfield si appassiona alla ricerca, lavora al libro per 14 anni. "Da bravo professionista volevo onorare il contratto. Così ho consegnato a Tita, vedova di Heini (che nel 2006 ha fatto scalpore adottando in California, all'età di 63 anni, due gemelle) un libro agiografico come richiesto, mentre con l'editore Quartet ho pubblicato la storia come l'ho conosciuta davvero". A Rechnitz nel frattempo tutti sapevano. Dice Hotwagner: "La storia è stata pubblicata nel 1985 sulla “Oberwarter Zeitung”. Ed è stato costruito un monumento alle vittime". Accade spesso in Europa centrale che si parli degli orrori della Shoah, storie successe in piccoli centri, senza che nessuno disturbi colui che racconta, ma senza neanche che qualcuno si degni di ascoltarlo. È successo, ad esempio in Polonia, dove nel 1941 nel paese di Jedwabne la popolazione cattolica uccise quasi tutti gli ebrei vicini di casa. La vicenda era nota, ma nel 2001, con la pubblicazione del libro dello storico Jan Tomasz Gross ('Gli assassini della porta accanto'), di quell'evento si cominciò a parlare come se fosse inedito. Così, sulla vicenda di Rechnitz è stato girato (nel 1994) un documentario, Totschweigen (star zitti fino alla morte). Riassume la vicenda il regista teatrale Wagner, originario di quelle parti: "Nel mio dramma faccio parlare i testimoni della strage: i cuochi, i servitori, faccio apparire Margit sul luogo della strage, anche se con nome cambiato. Nessuno mi ha mosso una critica, nessuno mi ha denunciato o querelato. Silenzio". E spiega: "Siamo in Austria. Quando arrivarono i sovietici preferirono accreditare la versione di un paese vittima di Hitler, o forse non volevano inimicarsi la gente. E poi Rechnitz è una piccola cittadina, dove vige la regola che i panni sporchi si lavano in famiglia". Finché non arrivò un giornalista glamour con il proposito di guadagnare un po' di soldi esaltando una famiglia potente, per poi raccontare una storia che supera ogni immaginazione.
La fine della nipote di Hitler diventa un bestseller internazionale: il racconto della misteriosa morte. Bruna Magi su Libero Quotidiano l'8 Gennaio 2020. Antefatto storico, si fa per dire, perché la verità vera non è mia venuta alla luce. Il 18 settembre 1931 una bellissima ragazza bionda, Angelica Raubal, detta Geli, di ventitré anni, viene trovata morta, riversa in un lago di sangue in un lussuoso appartamento a Monaco di Baviera, al numero 16 di Prinzregenteplatz, gli inquirenti (diciassette ore dopo la morte) stabiliscono che si è sparata in testa con una Walther calibro 6,35. Il proprietario è Adolf Hitler, neosegretario del partito nazionalsocialista, di seguito nazista, futuro cancelliere del Reich. Geli è sua nipote, figlia di una sorellastra. Lo zio ha assecondato i desideri di studio (dopo aver abbandonato la facoltà di medicina, voleva diventare cantante lirica) della ragazza, intelligente e curiosa. La fa viaggiare tra Berlino, Amburgo, Norimberga, Weimar, il loro autista è Rudolph Hess. Lei, con il suo fascino, suscita interesse fra tutti gli uomini che circondano il futuro padrone della Germania, e poi dell'Europa. In particolare quello di Emil Maurice, autista di Hitler e cofondatore delle SS, che vorrebbe sposarla. E lei, innamorata, è d'accordo. Lo zio sembra d'accordo, ma subito dopo licenzia Maurice. Circolano sussurri e grida, nell'entourage del partito, alcuni sostengono che la ragazza è sempre, troppo, costantemente vicina al potente zio, molti ritengono il loro rapporto, morboso, alcuni parlano di incesto, altri aggiungono particolari di deviazioni sessuali, anche violente, espresse soprattutto quando Geli gli fa da modella per i suoi ritratti, e "Zio Alf", pittore per passione, la ritrae nuda. Si facevano vedere spesso insieme in uscite pubbliche, frequentavano ristoranti e teatri, lui era già famoso per aver pubblicato Mein kampf, che lo aveva reso ricco, e alle elezioni era stato un trionfo.
LE ACCUSE. Il giornale socialista Munchener post scriveva apertamente, due giorni dopo il rinvenimento del corpo, che «Hitler sparò alla propria amata nipote, Geli Raubal, e che l'omicidio era stato archiviato come suicidio dal Ministro della Giustizia bavarese, alleato politico». A quasi 90 anni di distanza, ci pensa uno scrittore italiano (esordiente) a riportare in vita un cold case tra i più indagati (invano), nel corso della storia. Fabiano Massimi, laureato in filosofia, docente alla Biblioteca Delfini di Modena, ha costruito intorno all'episodio un thriller avvincente, andando quindi oltre il trend attuale di riscrivere il passato in chiave romanzata. Lo fa restando fedele ai punti essenziali della vicenda, interrogativi rimasti senza riposta: perché Hitler cambiò addirittura carattere dopo la morte di Geli? E come mai non riusciva a staccarsi dal suo ricordo, e in ognuna delle sue case collocava sempre un ritratto di lei? È vero che la Walther 7.65 con la quale si suicidò nel bunker poco prima dell'arrivo dei russi era la stessa usata da Geli? O forse da altri per eliminarla? E se fosse stato Hitler, perché avrebbe dovuto uccidere una persona tanto amata? A causa della gelosia suscitata da Geli per l'ipotetica ossessione sessuale che lui provava nei suoi confronti? Il titolo è L'Angelo di Monaco (Longanesi, pag. 479, euro 18), e ha subito ottenuto una conferma sorprendente: è stato il più venduto alla Fiera del Libro di Londra, ed è già in corso di traduzione in dieci lingue. E parte da una considerazione "filosofica" che però leggeremo soltanto alla fine del libro: «La storia non la scrive chi vince, ma chi sopravvive. Anche gli sconfitti, prima o poi, trovano voce». Insomma è in agguato tra le pagine una sorpresa, ma in questo senso non possiamo dirvi altro, senza il rischio di "spoilerare", atto delittuoso nel contesto di un thriller, scusate il gioco di parole.
LE INDAGINI. Quindi ripartiamo dall'inizio, quando l'ispettore Sauer arriva sul luogo del delitto, in compagnia di un collega, e da quel momento gliene capiteranno di tutti i colori, incluso l'innamoramento con una bella e dolce esponente della resistenza al nazismo. E apprendiamo tra l'altro che la notte in cui Geli muore, Herr Hitler si trovava in compagnia di un'altra bionda, quella passata alla storia con il nome di Eva Braun. Quindi ha un'alibi? E c'è una misteriosa lettera sulla quale tutti vorrebbero mettere le mani, è firmata con l'iniziale H., ma non è detto che sia quella del cognome Hitler, ce ne sono altre di contorno, tra i coprotagonisti. Vedi Herman Goering, ad esempio, oppure Heinrich Himmler, guida della propaganda nazi, che per anni aveva accumulato materiale contro il suo amico e capo, nella speranza di poterlo sostituire un giorno alla guida del partito. Oppure Reinhard Heydrich, il "boia di Praga" scelto proprio da Himmler per costituire i servizi segreti del partito. E Heinrich Hoffman, il fotografo di Hitler, che grazie ai diritti esclusivi su tutti i ritratti del Furher diventò uno degli uomini più ricchi della Germania e restò tale anche dopo la caduta del Reich. E qui si pone un altro interrogativo. Quanto peso ebbe la gelosia che i potenti gerarchi covavano nei confronti di Geli? «Per la sua morte non c'è stata giustizia. Forse un romanzo renderà giustizia alla sua vita», conclude l'autore in una nota. Bruna Magi
Sulle tracce di Gedi: la prima vittima di Hitler. «L'Angelo di Monaco» racconta la misteriosa morte della nipote del dittatore tedesco. Gian Paolo Serino, Venerdì 03/01/2020, su Il Giornale. È il romanzo italiano d'esordio più venduto alla Fiera del Libro di Londra: un caso più unico che raro, anche negli anni precedenti, perché L'Angelo di Monaco di Fabiano Massimi è già in corso di traduzione in dieci lingue. Nelle librerie da ieri per Longanesi ha tutti i numeri, e non solo, per diventare un bestseller perché ad una storia dimenticata dalla Storia coniuga uno stile di scrittura letteraria e al contempo che rievoca atmosfere cinematografiche, ma con un ritmo vorace come le nuove serie televisive. Siamo nel 1931. Germania. Monaco. È il 19 Agosto. Il corpo di una bellissima ragazza viene rinvenuto senza vita nella sua stanza, chiusa a chiave dall'interno: è riversa in una pozza di sangue. In mano ha una pistola Walther 6.35. Il suo nome è Angela Maria Raubal detta Geli. Ha ventidue anni. Abita in Prinzregenten numero 16. Un palazzo che tutti conoscono a Monaco: perché ci abita Adolf Hitler. E quella ragazza abita nel suo appartamento e si è uccisa nella sua stanza. Perché Angela Maria Raubal è sua nipote. E quello che sembra un suicidio, non lo è per i due investigatori chiamati ad indagare. Tropi i lati oscuri. Hitler, nel 1931 è leader politico più chiacchierato del momento: è a capo del Partito nazionalsocialista dei lavoratori in ascesa ma ancora contestato da gran parte del popolo tedesco. Al momento del suicidio-omicidio ha un alibi perfetto: è in un commissariato con il suo autista per aver infranto i limiti di velocità di ritorno da un comizio a Norimberga. Nel palazzo nessuno ha sentito niente. Nessuno sembra sapere niente. Sembra il delitto perfetto, quello da «camera chiusa». Fabiano Massimi- nato a Modena nel 1977, laureato in Filosofia tra Bologna e Manchester, impiegato alla Biblioteca Antonio Delfini di Modena e editor per Einaudi- è bravissimo nel tessere la trama di un romanzo che non è un semplice thriller: perché tutto ciò che ha scritto è vero. Ha impiegato più di dieci anni di ricerche per scrivere questo libro. Per mesi ha camminato tra le strade di Monaco, ha cercato negli archivi della polizia, ha consultato planimetrie, ha cercato senza esito dei testimoni (tutti morti), si è recato a Vienna sulla tomba della ragazza, ha letto decine di romanzi e saggi (per lo più stranieri) e pagine e pagine su Internet. Se fossimo in un giallo, potremmo supporre che a tutt'oggi ci sono (stati) depistaggi. L'Angelo di Monaco è una storia incredibilmente vera, come reali sono la maggior parte dei protagonisti. A partire da Angela Maria Raubal: Gedi come la chiamano gli amici ma soprattutto Hitler, che lei chiama «Zio Alf». È figlia della sorellastra di Hitler: se ne prese cura sin da quando era ragazzina e, come lui stesso scrisse, insieme alla madre era l'unica donna che amò veramente. Se tutti conoscono Eva Braun come la compagna e moglie di Hitler, in pochissimi conoscono il rapporto con la nipote che, con un eufemismo, potremmo definire affettuoso. Hitler incoraggiò la ragazza negli studi (abbandonati) e come cantante lirica. Andavano insieme a cene, a teatro, al cinema, ai ristoranti... In quei giorni la Germania è in difficoltà. Hitler ha stravinto le ultime elezioni, il suo libro Mein Kampf lo ha reso ricco e famoso, l'ascesa al Potere del Reich è vicina ma ciò che l'ossessiona è la nipote: per la prima e unica volta nella sua vita (se non teniamo conto della madre), Hitler maturò una dipendenza affettiva da una donna. Per Hitler era un angelo ma al contempo, come leggiamo nelle pagine di Massimi che divoriamo senza accorgerci che sono le pagine a, una ossessione anche sessuale: era gelosissimo di chiunque, era la modella che lui, pittore fallito, ritraeva nuda nutrendo delle pulsioni masochiste. L'indagine sulla morte della ragazza venne aperta il sabato mattina e chiusa il sabato pomeriggio, riaperta il lunedì mattine e richiusa il lunedì sera, il medico legale che esaminò il cadavere il giorno dopo andò in pensione, molti testimoni si suicidarono, al posto della casa di Hitler oggi c'è il Commissariato della Polizia Baverese dove è possibile entrare soltanto nell'atrio e nessuna targa ricorda che Hitler abitò in quel palazzo. La tomba di Gedi fu riaperta e la bara trovata vuota. Lo stesso vuoto che sente il lettore a fine libro, la stessa sensazione di essere noi stessi dei fantasmi e allo stesso tempo capiamo davvero che «i burattini migliori non seguono la volontà di chi li manovra, ma li anticipano».
· Quando arrestarono Garibaldi.
Quando Giuseppe Garibaldi fu arrestato dai nazisti e detenuto a Regina Coeli. Damiano Aliprandi il 21 Dicembre 2019 su Il Dubbio. Il figlio di Ricciotti, dopo aver partecipato a varie rivolte sudamericane tornò in Italia per combattere Mussolini, ma fu detenuto in carcere. Il Messico è pieno di vie e piazze dedicate a Garibaldi. Una si trova proprio al centro della capitale. Ma non è il Giuseppe Garibaldi che viene subito da pensare. Parliamo del nipote. Si chiama anche lui Giuseppe, ma veniva chiamato Peppino, naturalizzato in Josè. Suo padre, Ricciotti Garibaldi – nato in Uruguay – era il figlio, appunto, di Giuseppe Garibaldi e Anita. La storia di Ricciotti è degna di nota. Figlio quartogenito del grande eroe dei Due Mondi, era salito sul treno Roma – Sulmona per inaugurare la nuova impresa ferroviaria, in veste di deputato dell’appena nato Regno D’ Italia. Ma il treno si fermò in una minuscola stazione per ricostruire le sue scorte di carbone e intraprendere le nuove salite verso l’Abruzzo: Riofreddo. La temporanea sosta a Riofreddo, piccolo comune romano, bastò a Ricciotti per sceglierlo come luogo di un futuro investimento. Il figlio di Giuseppe Garibaldi comprò un terreno e iniziò a costruire le fondamenta per quella che doveva essere una dimora estiva. I fatti andarono diversamente. L’avventatezza di Ricciotti Garibaldi negli affari era proverbiale e in pochi anni costò al battagliero figlio dell’eroe dei Due Mondi, tutto il proprio capitale. Secondo la legge dell’epoca, a Ricciotti venne lasciata in dotazione solo la proprietà di minor valore, per permettergli di sopravvivere al proprio disastro. Per l’Italia, Ricciotti e la sua numerosa famiglia dovevano scegliere di vivere a Riofreddo oppure emigrare. L’arrivo nel piccolo paese della provincia romana venne però salutato con entusiasmo dal nucleo familiare. Ricciotti aveva sposato a Londra Constance Hopcraft, una donna dotata di grandissimo carattere, capace di sostenere spesso con le sue sole forze l’intera famiglia. E con lo stesso impeto, Costanza trasformò le tre stalle presenti sul terreno al momento dell’acquisto in quella che nel tempo sarebbe diventata Villa Garibaldi, oggi sede di un suggestivo museo. A pensare che prima ancora di conoscere sua moglie, a Londra Ricciotti ebbe la possibilità di andare a trovare Karl Marx e Engels. La sua popolarità fra circoli operai e anarchici aumentò e, dopo la morte di Giuseppe Mazzini, assieme a qualche mazziniano e a qualche garibaldino, fondò, nell’agosto 1872, riunendo 300 persone al teatro Argentina, l’associazione dei Franchi cafoni o “associazione dei Liberi Cafoni”, denominazione con richiami contadini, e probabilmente di ispirazione bakuniana con cui avrebbe voluto riunire i democratici italiani per organizzare la “democrazia pura”. Il nome dell’organo di stampa del movimento, “Spartacus”, è indicativo dei propositi rivoluzionari dell’associazione, che tra i suoi obiettivi poneva quello del suffragio universale. L’associazione ben presto assunse i caratteri di associazione di ideali socialisti finendo in poco tempo per essere disciolta dalla questura romana. Tutti i figli di Ricciotti mantennero fede al mito di nonno Giuseppe. Tutti si impegnarono, a vario titolo nelle cause indipendentiste, irredentiste, nazionaliste. Alcuni scelsero strade opposte, altri morirono da eroi negli assalti alla baionetta sul fronte trentino. Ma tra loro spicca il primogenito Giuseppe (detto Peppino), nato a South Jarra, in Australia, che fece dei viaggi e dell’impegno politico il proprio credo. Allievo del collegio tecnico di Fermo, fuggì per arruolarsi col padre nella spedizione del 1897 in Grecia durante la guerra greco-turca e in seguito si stabilì a Buenos Aires. Nel 1903 offrì i suoi servizi in Sudafrica nelle guerre boere come volontario per l’esercito britannico e poi combatté in Venezuela contro Cipriano Castro durante la cosiddetta Rivoluzione liberatrice. Arrivò in Messico all’inizio del 1911 per unirsi alle forze maderiste, quelle capeggiate da Madero, considerato un paladino della democrazia messicana e propugnatore di profonde riforme sociali. Partecipò a diverse battaglie nello stato di Chihuahua, tra cui la battaglia di Casas Grandes contro l’esercito federale di Porfirio Díaz, dopodiché raggiunse il grado di generale attirandosi persino le ire del celebre anarchico Pancho Villa, che gli giurò vendetta e tentò di addirittura di eliminarlo fisicamente. Successivamente fu nominato capo della cosiddetta Legione Straniera , che riunì una quarantina di individui e in cui lavoravano volontari di diverse nazionalità. Tanti erano italiani. Ma la sua designazione, inizialmente, creò malcontento. Quando trionfò la rivoluzione maderista, Garibaldi decise di lasciare il Messico. Andò in Grecia nel 1912 per combattere nella prima guerra dei Balcani contro la Turchia, e vi rimase fino al 1913.Ma non finisce qui. Ora viene il bello, ed è una storia poco conosciuta. Il buon Peppino decise di tornare in Italia nel 1922 e assieme a un altro nipote di Garibaldi, fondò il Movimento “Italia Libera” per opporsi all’avanzare fascista, che però non ebbe successo. A quel punto fondò anche una vera e propria banda armata con l’intento di uccidere Benito Mussolini e rovesciare il regime che si stava instaurando. Diverse qui sono le ricostruzioni storiche, ma pare che tale banda fosse appoggiata da Domizio Torriggiani, Gran Maestro della Massoneria Italiana e dal fratello Ricciotti. Un tentativo di colpo di Stato, intensificato dopo il ritrovamento del deputato socialista Giacomo Matteotti. Sul piano per eliminare Mussolini c’era pieno accordo tra i fascisti dissidenti e i partiti di opposizione. Il piano fallì, la dittatura si instaurò e Peppino fu costretto a fuggire negli Stati Uniti. Furono anni bui, rischiarati solo da un matrimonio, che sarà molto felice, con Maddalyn Nichols, una giovane americana appartenente ad una famiglia importante. Peppino dovette tuttavia condurre una vita modesta, e ricorse all’aiuto della sorella Josephine (Giuseppina), per ritornare in Italia nel 1940. Il fratello Ricciotti tenta di riunire la famiglia sotto l’egida di Peppino per pesare sulla situazione interna italiana. Anche quello fu l’ennesimo fallimento. Nel 1943 Peppino Garibaldi fu arrestato per ordine della Wehrmacht tedesca e detenuto al carcere romano di Regina Coeli, in via della Lungara, a Trastevere. Da ricordare che in quel carcere romano, dalla caduta di Mussolini (luglio 1943), vennero detenuti i vecchi fedeli del Duce, gerarchi e dirigenti. Dopo l’armistizio dell’8 settembre invece, e la conseguente occupazione nazista di Roma, il carcere venne governato dalle SS tedesche che si impegnarono a torturare gli oppositori nel terzo braccio.In quel carcere vi rinchiusero giornalisti, politici, ebrei, scrittori, gente comune. Si ritroverà, nel sesto braccio, arrestato il 20 novembre del 1943, Carlo Ginzburg, scrittore, esponente del Partito d’azione. Non uscirà vivo di li. Morirà in seguito alle torture riportate dopo un pestaggio ad opera dei fascisti. Tra gli antifascisti chiusi nel sesto braccio c’erano anche Sandro Pertini e Giuseppe Saragat, entrambi partigiani, socialisti, odiati dai fascisti e trasferiti in quell’ala del carcere in attesa della fucilazione. I due futuri presidenti della repubblica riusciranno ad evadere. Ma Peppino Garibaldi no e fu in attesa della fucilazione. Solo la liberazione di Roma lo salvò da una fine tragica. Dopo la guerra, condusse vita riservata e morirà a Roma il 19 maggio 1950. Da povero.
· Dopo il Nazismo.
Luciana Grosso per it.businessinsider.com il 3 agosto 2020. Salo Muller, 84enne sopravvissuto ad Auschwitz ed ex fisioterapista della squadra di calcio dell’Ajax, ha citato in giudizio le ferrovie tedesche che, a suo dire, si sono rese complici delle deportazioni di migliaia di ebrei nei campi di concentramento nazisti. In base ai fatti storici, infatti, la Deutsche Reichsbahn, l’autorità ferroviaria tedesca in tempo di guerra, era responsabile del trasporto fino alla morte di circa 107.000 ebrei olandesi con un viaggio che le vittime erano costrette a pagare di tasca propria. Il profitto che la DR avrebbe ottenuto da quei viaggi terribili, secondo alcune stime, sarebbe l’equivalente di circa 16 milioni di euro di oggi. In una lettera al cancelliere tedesco Angela Merkel, l’avvocato di Muller scrive che gli eredi delle ferrovie tedesche in guerra hanno l’obbligo morale e giuridico di riconoscere il loro ruolo nella sofferenza degli ebrei, dei sinti e dei rom: “Incolpo la compagnia ferroviaria per il trasporto consapevole degli ebrei nei campi di concentramento e per l’uccisione di quegli ebrei lì in un modo terribile”, ha detto Muller al programma televisivo olandese Nieuwsuur. “Non posso arrendermi perché mi fa male ogni giorno. Ogni giorno devo pensarci e mi fa male. E voglio che quel dolore finalmente passi. ” L’anno scorso, Muller ha intentato una causa simile contro le ferrovie olandesi, ottenendo un risarcimento fino a € 50 milioni per i sopravvissuti ai trasporti, le loro vedove, vedovi e bambini.
Matteo Sacchi per “il Giornale” il 26 luglio 2020. Primo Maggio del 1945, Berlino è ormai un cumulo di rovine e nel resto della Germania si combatte furiosamente. Tra le 21 e le 22 e 25 Radio Amburgo per tre volte trasmette un messaggio importante, introdotto da un surreale rullo di tamburi: «Il Quartier generale del Führer comunica che il nostro Führer Adolf Hitler è caduto per la Germania oggi pomeriggio al suo posto di comando della Reichskanlei, combattendo contro il bolscevismo sino all'ultimo respiro. Il 30 aprile il Führer ha nominato suo successore il grandammiraglio Dönitz». Quella che la radio annunciava dal Nord del Paese, ancora sotto il controllo di quel che restava dell'apparato politico e statale del nazismo, era una mezza verità, abbellita per evitare il completo tracollo delle forze armate e della gente. Come ormai tutti sappiamo, Hitler si era suicidato assieme ad Eva Braun il 30 aprile, dopo aver testardamente messo in piedi a Berlino la più inutile delle resistenze. Il 30 aprile, il colpo di pistola nel bunker, i corpi bruciati con la benzina nel cortile in fretta e furia - tra una scarica di artiglieria e l'altra - hanno ormai assunto un tale valore simbolico che, nella mente di tutti, la guerra si arresta lì. O al massimo al momento nella tarda serata del primo maggio, quando i sergenti dell'Armata rossa, Meliton Kantaria e Michail Egorov, sventolano la bandiera rossa della vittoria sul tetto del palazzo del Reichstag. Ma i combattimenti erano tutt' altro che finiti e anche le tragedie dei singoli così come i rivolgimenti politici. Lo storico tedesco Volker Ullrich li ha analizzati nel dettaglio nel suo volume ora tradotto per i tipi di Feltrinelli: 1945. Otto giorni a maggio. Dalla morte di Hitler alla fine del Terzo Reich (pagg. 332, euro 22). Ullrich, specialista del nazismo e autore della più completa biografia di Hitler, racconta nel dettaglio quei giorni convulsi che, spesso, sono stati trattati come fossero un semplice cascame della morte del dittatore. Eppure non lo furono. C'è il dramma di moltissimi tedeschi che, proprio in quel frangente, vedono bussare il destino alle porte della propria città. In taluni casi sono le più amichevoli mani delle potenze occidentali. In molti altri sono le molto meno amichevoli mani dei russi. Il tutto mentre le illusioni malate di un popolo si sgretolano. A Berlino, Goebbels, il primo maggio, cerca di trattare coi russi per metterli contro gli americani. Quando la trattativa fallisce, i russi vogliono la vittoria totale, si uccide con la moglie e i figli. Lo stesso giorno, senza essere informato di cosa succede a Berlino, Dönitz cerca di mettere sotto controllo il riottoso Himmler, il Reichsführer delle Ss, e si prepara a indirizzare tutte le resistenze verso l'avanzata russa per cercare l'accordo con gli angloamericani. Contorsioni di una Nazione morente. E intanto la gente comune? Ci sono i suicidi di massa. Nella cittadina di Demmin, a centinaia, le madri tedesche si gettano nel fiume con zaini pieni di pietre e i figli legati al corpo. Sono terrorizzate dai russi. Ma ci sono quelli che si uccidono perché dopo aver trascorso tutta la vita sotto il nazionalsocialismo semplicemente non riescono a pensare un mondo diverso: ci sono medici che annotano nel proprio diario che il medicinale più richiesto sono le capsule di cianuro. Eppure per molti tedeschi tutto si svolge in un clima di disperata apatia, dove contano solo le necessità vitali, lo sforzo di sopravvivere in un inferno di macerie. A Berlino la musicista Karla Höker è in un rifugio antiaereo isolato quando arriva con due giorni di ritardo la notizia della morte di Hitler: «Pare che il Führer sia morto... Ma questa è una bella notizia proclamò una donna, e la risposta fu una leggera risatina». Del resto l'interesse preminente in molti è trovare un cavallo ucciso durante i combattimenti per accaparrarsene dei pezzi. Ma attenzione, proprio in quegli stessi giorni di sbandamento c'è chi è più veloce degli altri a capire dove tira il vento. Forse perché lo era già anche prima. La diciannovenne Erika Assmus un tempo entusiasta capogruppo della hitleriana Lega delle ragazze tedesche chiosa così gli avvenimenti: «L'azienda è in bancarotta. Il fondatore se l'è data a gambe e l'ha abbandonata nei pasticci. Non erano queste le regole del gioco! Di colpo il dolore si trasforma in cinismo, la forma in cui si esprime chi è stato ingannato e non ha più speranza». Erika Assmus dopo la guerra, con lo pseudonimo di Carola Stern, diventerà una delle più importanti penne dei giornali di sinistra della Germania Occidentale. Queste sono solo alcune delle storie che racconta Volker Ullrich in questo suo affresco, davvero potente, degli ultimi otto giorni del nazismo. Leggendolo si può capire molto della storia tedesca ed europea del Novecento. Perché in quel «tempo di nessuno» si è modellato il futuro di molti.
Ecco i nazisti condannati per i massacri in Italia e liberi in Germania. Le Iene News il 14 giugno 2020. Si chiamano Alfred Stork e Wilhelm Karl Stark i due principali gerarchi nazisti accusati del massacro di civili e militare in Toscana e a Cefalonia, dove vennero uccisi 9.500 soldati italiani della Divisione Acqui. Il procuratore generale militare di Roma cita questi due gerarchi ancora liberi in Germania. Con Alessandro Politi eravamo riusciti a scovarne e incontrarne un altro, Johann Riss, colpevole dello sterminio di 174 civili innocenti a Fucecchio in Toscana. Sono due i più importanti ex nazisti condannati all’ergastolo per strage di civili in Italia durante la seconda guerra mondiale e liberi in Germania. Si chiamano Alfred Stork e Wilhelm Karl Stark e a puntare dritto contro le loro responsabilità, per le quali però non hanno mai fatto un giorno di prigione né in Italia né in Germania, è il procuratore generale militare di Roma Marco De Paolis. Alfred Stork, 97 anni, è accusato di aver partecipato ai massacri nell’isola greca di Cefalonia del settembre 1943 e di aver fucilato oltre 120 italiani. Un massacro terribile, che si inserisce nello sterminio di oltre 9.500 soldati italiani della Divisione Acqui. Stark invece, che oggi ha 99 anni, è stato condannato dal Tribunale militare di Roma nel 2012 per una serie di eccidi di militari e civili commessi nell'Appennino tosco-emiliano e in provincia di Massa ma l’estradizione dell’Italia è sempre stata rifiutata dalla Germania. Di questi rifiuti vi abbiamo parlato anche noi con il servizio di Alessandro Politi del novembre 2018 che potete rivedere sopra: abbiamo scovato un altro ufficiale tedesco libero a casa propria in Germania. È il nazista Johann Riss, condannato all’ergastolo in Italia e libero in Baviera: siamo riusciti ad entrare nella sua casa e a parlare con il figlio dell’ex SS. Riss nel 2015 è stato collocato al 4 ° posto nella lista dei criminali nazisti più ricercati dal Centro Simon Wiesenthal . Ha partecipato allo sterminio di 174 civili innocenti tra cui donne, bambini e disabili colpevoli secondo i nazisti di avere ospitato e nascosto dei partigiani. Ma non c’era nessun partigiano in quel casale a Fucecchio di cui parlavano i gerarchi. E così le famiglie di Tosca e Vittoria, sopravvissute a quella terribile strage e che il nostro Alessandro Politi ha incontrato, hanno pagato con la vita per qualcosa che non avevano nemmeno fatto. Le due donne, che hanno ancora negli occhi e nella memoria gli istanti terribili in cui Riss e i suoi uomini massacravano e davano fuoco ai civili, si sono salvate per miracolo. A nasconderle e a strapparle dunque a quell’orribile fine, sono state le loro madri: Tosca acquattata dentro a un albero, Vittoria nell’erba alta. Ad Alessandro Politi le due donne hanno consegnato le foto dei propri cari, affinché quell’uomo potesse rispondere a un’unica semplice domanda: “Cosa ti hanno fatto queste persone?”. Abbiamo provato a fare quella domanda all’ex nazista nella sua casa in Baviera ma l’uomo è affetto da una grave forma di demenza e non è in grado di parlare. Alessandro Politi ha provato a mostrargli quelle foto di civili inermi, compresa quella di un bambino di 13 mesi, ma il suo sguardo perso nel vuoto testimonia che ormai in lui non c’è più alcuna memoria di quelle atrocità.
I crimini del boia di Lione: deportò ad Auschwitz i bimbi della casa di Izieu. Gustavo Ottolenghi su Il Dubbio il 7 giugno 2020. Il capitano Klaus Barbie venne processato per crimini contro l’umanità e morì in carcere a 78 anni. Il processo era durato 800 giorni con l’intervento di 42 avvocati e di 107 testimoni a carico. Tra le innumerevoli nefandezze compiute dai nazisti in Europa tra il 1940 e i 1945, c’è quella realizzata, nell’aprile 1944, in Francia nella cittadina di Izieu, nel corso della quale vennero catturati e poi deportati e uccisi ad Auschwitz 44 bambini ebrei e 6 adulti che ne erano gli assistenti. Il 20 giugno 1940 la Francia capitolava al termine del conflitto lampo che, dal maggio, l’aveva opposta alla Germania e, seconmistizio di Compiègne ( 22 giugno), dovette subire la divisione del proprio territorio metropolitano in due Zone, una Settentrionale, tenuta militarmente e amministrativamente dai tedeschi ( Zona occupata) e una Centro- meridionale lasciata alla giurisdizione amministrativa del Governo francese collaborazionista del generale Petain ( Zona libera) ; l’Alsazia e la Lorena vennero annesse direttamente al III Reich. Izieu è un piccolo paese francese nel Dipartimento di Ain, tra Chambery e Lione ( da cui dista circa 65 km), alquanto isolato, ai piedi delle montagne dello Jura, a 350 km dal confine svizzero. Nel 1940 si trovava quindi nella Zona libera della Francia e vi rimase sino al 1942 allorché passò sotto l’occupazione italiana e, successivamente, a quella tedesca ( 1943). Non appena conquistata la Francia i tedeschi vi avevano iniziato la caccia agli ebrei, per cui, nell’estate 1941, l’ OSE ( Oeuvre de Secours aux Enfants) ebraica aveva aperto, nella Zona Libera, a Palavas les- Flots, un Centro per il ricovero dei bambini ebrei rimasti orfani di genitori deportati dai nazisti. Alla direzione di questo Centro erano stati posti un agronomo ebreo russo, Miron Zlatin e sua moglie Sabine Chwast, infermiera polacca, e vi vennero accolte decine di bambini ebrei. Le disposizioni antiebraiche non vennero mai applicate dagli italiani in Francia per cui i bambini godettero di assoluta tranquillità sino a fine novembre 1942 quando gli Zlatin, avuto sentore dell’imminente occupazione tedesca della Zona libera, portarono i 15 bambini presenti nel Centro a Izieu, che al momento era sotto amministrazione italiana, con l’aiuto del Prefetto del Dipartimento dell’Hérault, Jean Benedetti e del suo vice Pierre Marcel Wiltzer. Trovarono posto in una casa che, nel 1939, era stata adattata a Colonia estiva per bambini ed era stata successivamente abbandonata all’inizio della guerra: constava di due piani con un ampio terrazzo, un giardino, un granaio e una fontana, cui gli Zlatin diedero nome di “Casa per i bambini rifugiati dell’Herault”. In questa Casa, tra il 1942 e il 1944, transitarono oltre 100 bambini ebrei di varia età ( compresa tra i 4 e i 17 anni) e di varia nazionalità: nel gennaio 1944 ve ne erano 45 ( 21 francesi, 8 tedeschi, 8 belgi, 7 austriaci e 1 polacco) sotto il controllo e l’assistenza di 8 adulti. Durante il periodo in cui stettero nella Casa i bambini condussero vita normale e seguirono, con l’aiuto dei loro Assistenti, corsi di lingua, aritmetica, scienze, storia e geografia. Questo fortunato stato di cose durò sino al settembre 1943 allorché i tedeschi intensificarono la caccia agli ebrei in tutta la Zona libera che avevano rioccupato dopo la ritirata degli italiani. La Casa di Izieu rimase a lungo sconosciuta ai nazisti, a causa della sua ubicazione montana, lontana da centri cittadini, ma la situazione precipitò all’inizio del mese di aprile 1944. Il 6 aprile, mentre Sabine Zlatin si trovava a Montpellier ( ove si era recata allo scopo di cercare appoggi per far espatriare i suoi bambini verso la Svizzera), alle 9 della mattina giunsero davanti alla Casa due autocarri e due automobili con a bordo 30 militari della Werhmacht e alcuni civili della Gestapo agli ordini dello Hauptsturmfuehrer ( capitano) dwllw SS Klaus Barbie comandante della Gestapo di Lione, che aveva avuto notizia dell’esistenza della Casa da un abitante della zona, tale Lucien Jourdan. Ebbe immediatamente inizio la cattura di tutti i presenti e uno solo degli Assistenti, lo studente di medicina Leon Reifman, rumeno di 30 anni, riuscì a fuggire saltando da una finestra del retro e nascondendosi in una vicina fattoria: fu uno dei testimoni- chiave nel processo a Barbie nel 1987. Dei 45 bambini presenti uno, Rene Wucher, venne rilasciato in quanto dichiarato non ebreo, mentre tutti gli altri furono caricati sui due autocarri insieme ai 7 Assistenti rimasti e portati a Lione. Imprigionati per due giorni nel locale carcere di Fort Monluch, l’ 8 aprile furono tutti inviati per ferrovia a Drancy, comune del Dipartimento Senna- Saint Denis, ove, dall’agosto 1941, era stato allestito dalla Gestapo e sotto il controllo della Polizia francese collaborazionista, un “Judeninternierungslager” ( Campo di internamento per ebrei stranieri) trasformato poi, nell’agosto 1941, in un enorme “Judendurchsgangslager” ( Campo di raccolta e transito di ebrei) provenienti da tutta la Francia. A Drancy erano già presenti, nell’aprile 1944, oltre 4.000 bambini ebrei orfani che vi erano giunti dai “Jugendverwahrslager” ( Campo per bambini ) di Pithiviers e di Baume- la- Rolande e i cui genitori erano stati inviati direttamente ad Auschwitz per essere eliminati, in attesa di seguire lo stesso destino. Stessa sorte toccò ai bambini di Izieu, il cui invio ad Auschwitz iniziò, in 7 scaglioni successivi, ad aprile e terminò a giugno mediante ferrovia ( il viaggio da Drancy ad Auschwitz durava mediamente due giorni). Tutti i bambini e cinque degli Assistenti vennero uccisi nelle camere a gas nello stesso giorno del loro arrivo; dei restanti due Assistenti, uno, il Direttore Miron Zlatin, che era giunto ad Auschwitz col convoglio 73, fu subito inviato per ferrovia all’“Arbeitslager” ( campo di lavoro) di Reval nella Prussia orientale e vi venne fucilato nel mese di luglio successivo. L’altra, Laja Feldblum, ebrea polacca, era in possesso di un documento che la identificava come Marie Louise Dacoste, infermiera ariana cattolica e che avrebbe potuto escluderla dalla camera a gas, ma in quel momento essa dichiarò di essere ebrea per non abbandonare i suoi bambini, e riuscì miracolosamente a scampare alla morte e fu liberata nel 1945, unica testimone oculare sopravvissuta alla tragedia di Izieu; testimoniò al processo contro Barbie nel 1987 e morì nel 1989 a Tel Aviv ove era emigrata nel 1980. Sabine Zlatin rientrò a Izieu l’ 8 aprile e ne ripartì il 20 per Parigi ove aveva dei parenti che la introdussero nel movimento della Resistenza antirazzista. Nel 1945, a guerra finita, fu nominata Direttrice dell’Hotel Lutetia, ove aveva sede l’organizzazione per la accoglienza dei superstiti deportati dai “Konzentrationslager” ( Campi di concentramento) tedeschi e, nel 1944, fu tra i promotori della creazione del Memoriale ai bambini nella Casa di Izieu: testimoniò al processo contro Barbie nel 1987 e morì nel 1996 a Parigi, onorata con la Legion d’Onore. La tragica vicenda della Casa di Isieu risultò ufficialmente conclusa con il telex inviato dal capitano Barbie al Comando della Sicherpolizei SD a Parigi con il quale comunicava, lo stesso 6 aprile 1944, che “la Colonia di bambini di Isieu era stata liquidata al completo di 10 Assistenti e 41 bambini” ( Sappiamo che, in realtà, i bambini uccisi furono 44 e gli Assistenti 7, ma l’errore fu probabilmente dovuto al fatto che l’aspetto di tre bambini di età rispettivamente di 15, 16 e 17 anni li aveva fatti considerare Assistenti e non bambini). Quanto alla storia personale di Barbie, egli era entrato a far parte delle SS nel 1935, a Berlino, all’età di 22 anni ed era stato assegnato all’ SS SD ( Sicherheitsdienst ( cioè Servizio segreto delle SS). Con questo incarico nel 1940 era stato destinato a Amsterdam e, nel 1942, fu nominato Capo della IV Sezione della SIPO ( Sicherheitspolizei, polizia di sicurezza) e della SD e inviato a Lione al comando della locale Gestapo. Quivi si rese colpevole di atrocità, torture, uccisioni, fucilazioni e violenze di ogni tipo sulla popolazione che gli meritarono l’appellativo di “Boia di Lione”. Dopo la “raffle” di Izieu fu trasferito al SD di Dortmund in Germania e, alla fine della guerra, riuscì a far perdere le sue tracce. Condannato a morte in contumacia dal Tribunale di Lione con sentenza del 1948 ( confermata in due successivi processi nel 1952 e nel 1954), fu catturato sotto le mentite spoglie di Hans Becker – dagli americani nel 1947 e, dopo un breve periodo di detenzione, fu arruolato come agente segreto dall’Esercito U. S. A. avendo offerto agli Alleati la sua esperienza di ex ufficiale del SD tedesco contro i russi. Nel 1955, temendo di essere riconosciuto, si rivolse a una delle Associazioni che, all’epoca, si incaricavano di far fuggire dall’Europa i nazisti ricercati la “ratline”, linea dei topi) che lo aiutò a riparare in Bolivia con il nome di Klaus Hansen Altman. Quivi, con l’aiuto di elementi nazisti introdotti nel Governo del Presidente Hugo Banzer, riuscì a entrare nei Servizi segreti del Paese come Consigliere col grado di tenente colonnello e, in quella veste, pare abbia contribuito alla cattura del Che Guevara. Nel 1980 favorì il Colpo di Stato del generale Luis Garcia Meza Tejada che, conseguentemente ne divenne suo amico e protettore mantenendolo nella sua carica. Rovesciato Garcia nel 1981, il nuovo Capo del Governo, Hernan Siles Suazo, su sollecitazione del Presidente francese Georges Pompidou, nel 1983 lo fece arrestare, imprigionare a La Paz e successivamente estradare in Francia nel 1985. Detenuto nel carcere di Fort Montluc a Lione, Barbie vi fu processato nel luglio 1987 e condannato all’ergastolo per “crimini contro l’umanità” ( che compresero quelli commessi sui bambini di Izieu) e morì in carcere a Lione, malato di leucemia, l’età di 78 anni. Il processo era durato 800 giorni con l’intervento di 42 avvocati e di 107 testimoni a carico e risultò quello più pubblicizzato a livello mondiale dopo quello tenutosi a Gerusalemme nel 1961/ 62 a Adolf Eichmann. Fra questi testimoni i più importanti furono Sabine Zlatin, Leja Feldblum, Leon Reifman René Wucher, Jilien Favet ( contadino presente nel suo campo vicino alla Casa di Izieu il 6 aprile 1944), Simone Lagrange ( bambina ebrea portata da Drancy ad Auschwitz col convoglio 76, trasferita poi a Ravensbrueck e liberata nel 1945) e due donne eccezionali, Fortunée Benguigui e Ita Rose Halaunbrenner, madri di bambini di Izieu uccisi. Fortunée Benguigui, ebrea deportata a Auschwitz nel luglio 1943 ( ove fu sottoposta a crudeli esperimenti medici) venne liberata nel febbraio 1945 e in quell’occasione apprese che tre dei suoi figli erano stati prelevati dalla Casa di Izieu e uccisi a Auschwitz ( una quarta figlia era scampata, salvata da una famiglia cattolica di Izieu). Da quel momento, con l’aiuto di Beate Karsfeld, giornalista e scrittrice tedesca instancabile ricercatrice, ( col marito Serge, ebreo rumeno) di criminali nazisti, si dedicò, fra l’altro, a far processare Klaus Barbie per quanto compiuto a Izieu. Nel 1941 fu protagonista, con la Karlsfeld, di una clamorosa protesta a Monaco contro il Governo tedesco poiché il Procuratore generale aveva deciso di archiviare il processo in corso a Monaco contro Barbie “ per mancanza di prove”. La sua lotta fu premiata nel 1987 col processo al “boia di Lione” al quale fu una testimone fondamentale. Così come lo fu Ita Rose Halaunbrenner, che aveva avuto il marito Jacob e il più grande dei suoi cinque figli uccisi dai tedeschi in differenti occasioni e due figlie deportate da Isieu e uccise a Auschwitz. Nel marzo 1972 si era recata ( anche lei in compagnia di Beate Karlsfeld) in Bolivia a La Paz ove si incatenò con lei di fronte all’edificio ove lavorava Barbie : la dimostrazione non ebbe alcun effetto immediato ma ne ottenne alfine l’estradizione in Francia nel 1983 a seguito di pressioni sull’opinione pubblica francese e sul Presidente Pompidou, e il processo nel 1987, al quale anch’essa fu essenziale testimone. I bambini di Izieu sono stati ricordati in numerosi luoghi: nella targa coi loro nomi apposta sulla facciata della Casa nel 1946; nel Memorial agli ebrei deportati dalla Francia istituito in Israele a Rogelit nel 1981 ; nello obelisco piramidale eretto nel 1946 a Bregnier- Cordon, piccolo comune nei pressi di Izieu ( deturpato con una grossa svastica, subito rimossa, nel 1979); nel Memorial fatto erigere dal Presidente François Mitterand nel 1994 nella Casa di Izieu e nel museo a che era stato attrezzato nella stessa casa nel 1988 da Sabine Zlatin e Pierre Marcel Wiltzer ; in una piazza di Parigi intitolata “Place des Enfants d’Izieu ; in una targa che riporta anche il nome di Sabine Zlatin in Rue Madame nel 6° Arrondisment di Parigi; nel Memoriale per i Deportati dall’ Ain nel comune di Nantua ( Dipartimento dell’ Ain): nel Monumento a 7 bambini di Izieu eretto nel Franz Josef Kai ( Parco) di Vienna; nel Monumento ai 44 bambini nella piazza di Belley ( capoluogo dell’Ain); in numerose Mostre internazionali ( in Italia a Modena 2014 e Udine 2015) e in alcuni film (“My enemy’s eremi” di Kevin Mac Donald- 2007 ; “La tracce” di Laurent Jaoui – 2007; “Il coraggio di non dimenticare” di Michael Lindsay Hagg – 1986) e in 12 “Solpersteine” ( Pietre d’inciampo) messe in opera dal loro inventore, l’artista tedesco Gunter Denning, di cui due in Belgio ( Anversa e Bruxelles), due in Germania ( Egelsbach e Pforzheim) e sette in Francia ( tre a Liegi e quattro a Belley) con i nomi di 12 bambini di Izieu uccisi. La loro drammatica vicenda è stata narrata in alcuni libri ( “The Children of Izieu” di Serge Karsfeld- 1985; “Les enfants d’Izieu” e “Dans le tourment de la Shoah” di Pierre Jerome Biscarat – 2003 e 2008; “Le sauvetage des enfants juifs pendant l’occupation dans les maison de l’OSE” di Katy Hazan – 2008; e “Deportation et sauvetage des enfants juifs à Paris” di Sarah Gesburger – 2012) e nelle canzoni dei cantautori Claude Hazan e Reinhard Mey.
Lee Miller, la donna nella vasca di Hitler che raccontò la guerra al mondo. Le due vite della bella newyorkese che fu reporter di guerra e amante di Picasso. La vita da romanzo di una delle donne più affascinanti del ventesimo secolo. Davide Bartoccini, Lunedì 26/10/2020 su Il Giornale. Ai piedi di una vasca elegante, un paio di stivali da paracadutista piantonano un bagno apparentemente anonimo. Saltano all’occhio, nello scatto che immortala una donna intenta a insaponarsi la schiena. Ha lo sguardo vagamente perso. Rivolto all'altrove. È bella, come la statua di marmo che la osserva; e fa passare in secondo piano il ritratto di un Adolf Hitler nei giorni migliori. Quel bagno è il suo: è il bagno del suo appartamento segreto di Monaco - dove tutto è iniziato -, ma lui non lo vede da mesi. E non lo vedrà mai più. Si appena piantato una pallottola in testa del bunker sotto il Reichstag, mentre l'Armata rossa entra a Berlino. È il 30 aprile del 1945. Nell'obiettivo di una di quelle vecchie macchinette fotografiche a pellicola che si portavano appresso in guerra uomini come Robert Capa, c'era Elizabeth "Lee" Miller: la donna che visse due volte. Giovane, bionda, magnetica, misteriosa e caparbia, Elizabeth era nata a Poughkeepsie, sulle rive di quel lungo fiume Hudson, che nasce ad Albany e sfocia a New York. Figlia di una famiglia borghese, trova in suo padre inventore un affettuoso mentore, che, da grande appassionato di fotografia, la introduce quasi per gioco ai trucchi e ai segreti della camera oscura; rendendola, fin da bambina, una fotomodella nata per i suoi scatti amatoriali. Sembra la parentesi perfetta per un lungo idillio. Ma non lo sarà. La bellezza acerba di quella bambina troppo sveglia, finisce per attirare l'abominevole gesto di uno “zio” acquisito: e a soli 7 anni viene stuprata. Lasciandole nel profondo un trauma che non riuscirà mai a superare completamente - nemmeno con lo sforzo degli psicologi che nell'età dello sviluppo vedranno sbocciare una vera dea inquieta. Fuggirà a New York, distante dai confini ben segnati della provincia e della piccola borghesia che la popola. Distante dai genitori con i quali il rapporto sembra essersi incrinato per la mancanza di senso di protezione. Nella Grande Mela degli anni ruggenti Lee Miller viene subito notata da un signore; un giorno, per caso, mentre passeggia su e giù per le strade di Manhattan. Un certo Condé Nast. Niente di meno dell’editore di due riviste alla ribalta: Vanity Fair e Vogue. E pare che oltre a salvarla da una vita banale, le abbia anche salvato la vita sul serio, nel senso letterale della parola: una macchina stava per investirla e lui la trattenne per un braccio - prima di renderla la flapper girl per eccellenza, da piazzare sulle copertine delle riviste di moda più famose del mondo. Nel 1929, quando gli anni ruggenti sono terminati e le giornate a New York sono scandite dai suicidi degli agenti di borsa e dei magnati che hanno perso tutto, Lee Miller è già partita alla conquista di Parigi; dove conosce, si innamora e fa soprattutto innamorare perdutamente di lei il famoso fotografo Man Ray. Insieme - e forse più per merito di lei che di lui - elaboreranno una nuova tecnica nello sviluppo della fotografie: la solarizzazione. Nella ville lumière all'epoca del suo massimo splendore, la giovane musa e ormai talentuosa fotografa Lee Miller si divide tra le feste; dove viene notata e richiesta come modella dai surrealisti più in voga, da Éluard, Cocteau, Magritte; e da Pablo Picasso, della quale sarà anche amante; e le commissioni di stiliste affermate come Cocò Chanel. Alle feste della Parigi bobo' conosce tanta persone importante, e anche un affascinante e ricco uomo d'affari egiziano, un certo Aziz Eloui Bey, con cui scapperà al Cairo e per il quale lascerà Ray - il secondo uomo che segnerà per sempre la sua vita: tradendola e rubandole il merito di alcuni scatti che appartenevano a lei, ma furono attribuiti a lui. L'idillio con Aziz nell'Egitto nascosto, che ricorda le pagine del Paziente Inglese di Ondaatje e la vede scattare centinaia di fotografie enigmatiche quanto spettacolari - come "Portrait of Space" -, dura fino allo scoppio della guerra, o forse fino a quando non farà l'intima conoscenza, nel 1937, di un vero gentleman britannico: il pittore Roland Penrose. Per lui lascerà Il Cario dopo avere mantenuto in grande segreto una lunga relazione. E proprio mentre il führer della Germani ordina l'invasione della Polonia, decide di seguire il suo nuovo amore a Londra, invece di far ritorno negli Stati Uniti. È il 1939, la Gran Bretagna sta combattendo quella che verrà chiamata la "guerra fasulla", ma passerà meno di un anno prima che la giovane Elizabeth si trovi a fotografare i palazzi tramutati in rovine dai bombardieri tedeschi che ogni notte affollato il cielo di Londra. Tra quegli scatti, uno in particolare colpisce ancora profondamente chiunque scriva per mestiere: "Remington silent". È tra i boati delle bombe come quella che centrerà in pieno la redazione dove lavora che decide di "andarla a vedere questa guerra", chiedendo a Vogue d’essere accreditata come fotoreporter. "Il mondo continua a fare quello che fa, che io lo fotografi o meno", sosteneva. "E la mia arte... è una questione di scegliere quando rilasciare l'otturatore. Non è allestire una scena e fare una foto. È trovarsi in un posto in un preciso momento e decidere che è un momento al quale forse nessun altro sta dando importanza". Quell'arte nel 1944 sarà espressa in prima linea, quando dopo lo sbarco in Normandia attraversa la Francia che passo dopo passo viene liberata dall'occupazione nazista. Da Cherbourg a St.Malò, fino a Parigi. Con la sua macchinetta Rolleiflex a tracolla, sempre, e l'amico (e ancora una volta suo amante) David Scherman, fotoreporter per Life. C'era lui dietro l'obiettivo quando Lee posa nuda nella vasca di Hitler, al numero 16 Prinzregentenplatz di Monaco. Si tratterranno in quell'appartamento inquietante per diversi giorni, e dormiranno anche in quelle lenzuola cifrate "A.H."; un'esperienza "macabra" racconterà lei, perché proprio in quei giorni la BBC riporta una notizia epocale: il führer è morto. Ma il vero trauma, la stigmate che un'artista può ritrarre ma che non potrà mai spiegare né con immagini né con le parole, arriva quando la giovane fotoreporter entra nei campi di concentramento di Dachau e di Bergen-Belsen. I frutti della banalità del male la segneranno per sempre. Irreversibilmente. Dopo la guerra, dopo il matrimonio con Penrose, dopo aver avuto un figlio che scoprirà soltanto dopo la sua dipartita le mille sfaccettature di quella madre così inquieta, ci sarà la depressione. L'inconveniente clinico degli animi troppo sensibili e delle menti troppo ambiziose. Riuscirà a scrivere, a raccontare a malapena ciò che ha visto sul fronte, mentre si abbandona all'alcol e si improvvisa "cuoca dadaista" nella fattoria di campagna che ha acquistato con Penrose. Il cibo ammazza il tempo. Disfà il corpo, sia nella sua assenza che nella sua opulenza. Del resto nulla si fa per caso: aveva iniziato a scattare fotografie per uscire da un limbo della sua vita; iniziò a scrivere ricette di cucina per tentare di uscire dall'inferno della guerra che non non voleva lasciarla andare. Alla lunga depressione post-bellica e al cliché dall’alcolismo, finisce per aggiungersi un cancro. Che alla fine la uccide, come è sgarbata abitudine di questo terribile male, un giorno d'estate del 1977; mentre era lì nel Sussex; dove ha cercato di vivere fino all’ultimo, con i suoi amici e suoi fantasmi: quello stupro; quello della sua bellezza svanita - che tutti gli uomini avevano voluto possedere a tutti i costi. Quello della guerra, che aveva attraversato l’Europa, gli oceani, e il suo corpo di dea. Quello del dramma di essere stata donna del futuro in un passato che per quanto raggiante, la vide sempre essere vittima e carnefice di un romanzo straziante: la sua vita.
Che fine ha fatto il corpo di Adolf Hitler? Il 30 aprile del 1945 Hitler si uccise nel suo bunker a Berlino. Ma che fine ha fatto il suo corpo? Lo rivelano alcuni documenti desecretati del Kgb. Matteo Carnieletto, Domenica 25/10/2020 il Giornale. Berlino è un cumulo di macerie. I colpi delle granate sovietiche e il crepitio dei fucili sono sempre più vicini. I carri armati avanzano, abbattendo qualsiasi cosa incontrino. Tutto è coperto da una coltre pesante, fatta di detriti e polvere da sparo. Non si riesce quasi a respirare. In gola si forma un impasto difficile da mandar giù. La gioventù hitleriana, ormai composta solamente da ragazzini, cerca disperatamente di frenare l'avanzata dei sovietici, senza però riuscirci. Sono gli ultimi giorni di un Reich che si credeva millenario e che invece durò poco più di un decennio. Sono gli ultimi giorni di Adolf Hitler. Il 20 aprile, il Führer esce per l'ultima volta dal bunker. Attraversa la città, incrocia alcuni soldati feriti ai quali promette una vittoria che sa già che non ci sarà. Tutto è finito. Nessuno potrà difendere Berlino. A Hitler non resta nient'altro da fare se non togliersi la vita. "Non voglio che il mio corpo sia messo in mostra", dice a Martin Bormann, suo segretario personale, e a Otto Günsche, suo aiutante personale. "Voglio che i sovietici vedano che sono rimasto qui sino alla fine". Così sarà. Dieci giorni dopo, il 30 aprile, il cancelliere tedesco decide di farla finita, ma solo dopo essersi sposato con la donna che lo aveva accompagnato negli ultimi anni di vita: Eva Braun. Una cerimonia semplice, la loro, che sa quasi di commiato. Nel bunker tutti sanno che, quelli, saranno i loro ultimi momenti di vita. Due barellieri sono vicini alla porta d'ingresso, pronti a condurre i neo sposi verso le fiamme. Hitler prende una vecchia foto di sua madre e fissa per l'ultima volta il ritratto di Federico il Grande, l'uomo al quale si era ispirato per costruire il nuovo Reich. Eva appoggia la testa sulle gambe del Führer e schiaccia tra i denti una fiala di veleno. Sono le 15.30. Anche Hitler fa lo stesso ma, per esser sicuro di morire, si spara anche un colpo nella tempia destra. Dura tutto pochi secondi. "Hitler era seduto su una poltrona. La testa pendeva sulla spalla destra, la mano penzolava in basso. Al lato destro c'era il foro del proiettile", racconterà poi Günsche. È la fine di Hitler. E del Reich. Il corpo del dittatore, insieme a quello di sua moglie, viene portato all'esterno dell'edificio da un gruppo di Ss e depositato in una buca. I cadaveri vengono cosparsi di carburante e infine dati alle fiamme. I soldati tedeschi però non riescono a terminare la cremazione: i colpi sovietici cadono infatti sempre più vicini e così le Ss sono costrette a scappare. Cosa accade poi? Lo racconta Giovanni Mari in Klausener Strasse. 1970: caccia al cadavere di Hitler. Il diaro segreto del Kgb (Minerva). Un romanzo storico che si basa su alcuni documenti, ora desecretati, dei servizi segreti sovietici. Il 2 maggio, i soldati dell'Armata rossa arrivano davanti al bunker e trovano un angolo di terra smossa dal quale proviene un forte odore di carne bruciata. Prelevano i cadaveri e scoprono che sono i resti della famiglia di Joseph Goebbels. Il capo della propaganda tedesca, infatti, aveva deciso di suicidarsi insieme alla moglie Magda e ai loro sei figli (i cui nomi iniziavano tutti con la lettera H in onore di Hitler). Due giorni dopo, invece, i sovietici trovano un'altra fossa. Questa volta è quella che ospita il Führer e sua moglie. L'agitazione è massima. Prima di tutto bisogna verificare che sia realmente lui. I soldati russi convocano "esperti in perizie e autopsie, medici in passato al servizio di Hitler". Tutti confermano: è lui. "Il dossier sullo stato di salute del dittatore risultò completo. I riscontri sul cadavere garantirono piena corrispondenza con i documenti sanitari, anche se l'assenza del testicolo sinistro non era mai stata segnalata". Il 10 maggio Fritz Echtmann, il dentista personale di Hitler, ne riconosce la dentatura. Per l'Unione sovietica, però, non è abbastanza. Alla conferenza di Potsdam, nel luglio del 1945, Joseph Stalin afferma di non sapere dove si trovi il corpo Hitler. Anzi, il leader sovietico ipotizza che il Führer sia riparato in "Spagna o in Argentina". Ma quei resti trovati nei pressi del bunker continuano a tormentarlo. Decide dunque di far seppelire nuovamente il corpo del dittatore e chiede a tutti gli uomini coinvolti in questa operazione di non parlarne con nessuno. I cadaveri di Hitler ed Eva Braun vengono quindi sepolti in casse d'artiglieria nel cortile di servizio di un distaccamento dell'Armata Rossa in Klausener Strasse a Magdeburgo. Nonostante la fine del nazismo, il corpo di Hitler diventa una vera e propria ossessione. Sia per i suoi pochi sostenitori rimasti, sia per i suoi oppositori. Per i primi, trovare quel corpo significa ritrovare quella divinità che aveva permesso alla Germania di tornare un impero; per i secondi, invece, si trattava di mettere la parola fine a un passato che si temeva potesse tornare. Nel 1970 Leonid Bréžnev decide che è arrivato il momento di far sparire quel corpo per sempre. E questo per due motivi: "Uno pratico: evitare problemi per un futuro ritrovamento del cadavere del dittatore. Uno ideologico: rafforzare la 'verità' di un corpo mai rinvenuto e quindi di una morte presunta, di un nemico da continuare a combattere". Per questo Jurij Andropov decide che non è più il momento di aspettare. Come ricorda Repubblica, "il 20 marzo del 1970 il Consiglio dei ministri dell'Urss approva il suo piano, denominato in codice Operazione Archivio". Bastano 15 giorni e un gruppo del Kgb, guidato dal colonnello N.G. Kovalenko, lascia Mosca e si trasferisce in Germania per recuperare i cadaveri. I verbali di quei giorni parlano chiaro: "I resti sono stati messi dentro una cassa di legno (...) la cassa è rimasta sotto sorveglianza di agenti operativi sino alla mattina del 5 aprile, quando è stata effettuata la loro distruzione fisica". I corpi di Hitler e di Eva Braun furono prima bruciati e poi gettati nel fiume Elba. Mettendo così la parola fine a un mistero che durava 25 anni.
Domenico Megali per Adesso il 5 giugno 2020. Nella notte tra il 4 e il 5 aprile del 1970 a Magdeburgo (ex DDR) cinque uomini, tre russi e due tedeschi, sono in missioni per conto di Leonid Breznev. Il leader sovietico vuole mettere la parola fine a una leggenda che aleggia in Europa dal 1945. I cinque uomini posteggiano una Wartburg 353 e un piccolo fuoristrada ARO nel cortile in ghiaia di una villa al numero 36 di Klausener Strasse. I tre russi sono agenti speciali del Kgb capitanati da Nicolaj Kovalenko, braccio destro del grande capo Jurij Antropov. Gli altri due, tedeschi fedeli all’Urss, sono lì per fare il lavoro sporco: vangare. L’obiettivo della missione è top secret. Ne sono al corrente solo loro e i grandi capi di Mosca: riesumare il cadavere di Adolf Hitler e distruggerlo per sempre. Ma come era nata questa missione? Lo abbiamo chiesto a Giovanni Mari, giornalista del Secolo XIX e studioso della propaganda politica che, sull’argomento, ha scritto il romanzo storico Klausener Strasse - 1970: caccia al cadavere di Hitler, il diario segreto del KGB.
Come nasce la missione Klausener Strasse?
«Nasce da Stalin che nel gennaio del 1946 decise di seppellire i corpi di Hitler e dei gerarchi che erano con lui nel bunker di Berlino, in un luogo sicuro e segreto. Stalin voleva mantenere la paura di un ritorno di Hitler per avere mani libere e poter compiere qualche missione sporca come quella denominata Nemo. Per questo cercò di occultare quei corpi al resto del mondo, facendoli sparire».
Cosa decise di fare?
«Dopo aver svolto le autopsie nell’ospedale di Buch sul corpo di Hitler - grazie anche al confronto con la dentatura del cadavere e le radiografie fatte nel 1944, nel gennaio del 1946 Stalin decise di sotterrare segretamente i corpi in un terreno di competenza dell’Armata Rossa a Rathenow vicino a Magdeburgo».
E poi cos’è successo?
«Non se ne seppe più nulla. Sulla vicenda cadde il silenzio mentre la leggenda sulla scomparsa del corpo di Hitler cresceva. Nel 1970 il KGB fa notare a Breznev che il luogo dove erano stati sepolti i corpi non era più sicuro. Bisognava disfarsene in maniera definitiva e così ordina la missione all’allora capo del KGB, Jurij Andropov».
Come si svolsero i fatti?
«Il giorno prima della missione i cinque avevano recintato il terreno con un telo per tenere lontani sguardi indiscreti. I due tedeschi spalano fino ad arrivare a cinque bare che secondo le precise indicazioni del KGB contenevano nell’ordine: Adolf Hitler ed Eva Braun, Goebbels e sua moglie Magda, Hans Krebs, capo di stato maggiore dell’esercito tedesco tumulato insieme a tre dei sei figli di Goebbels, le altre tre figlie del gerarca, e infine la bara con i due cani di Hitler, Wolf e Blondi».
Ma come avviene il riconoscimento, come fanno a esser certi che quei resti appartengono ai corpi seppelliti 25 anni prima?
«I tre agenti russi sanno cosa cercare perché nei rapporti consegnati a Stalin nel 1946 vengono elencati minuziosamente cosa indossano nel momento della sepoltura. Cercano spille, pistole, porta sigarette, calzari, copricapi, la protesi della gamba destra di Goebbels, misurano le altezze dei bambini. Tutto tornava».
A quel punto cosa decidono?
«Issano quel carico sulle due vetture e si dirigono in una radura isolata a Schönebeck dove bruciano tutto: poi di corsa al Schweinebrücke (Ponte dei Porci) di Biederitz sul fiume Elba dove disperdono quel carico così ingombrante».
Gianluca Perino per ilmessaggero.it l'11 giugno 2020. Sessanta anni fa, in Argentina, un gruppo di spie israeliane del Mossad mise a segno quella che ancora oggi è considerata una delle operazioni segrete più incredibili della storia: la cattura di Adolf Eichmann, il burocrate dell'olocausto. Il gerarca nazista, ritenuto uno dei maggiori responsabili dello sterminio degli ebrei, dopo la fine della guerra era riuscito ad evitare l'arresto riparando prima in Italia (dove ottenne un passaporto falso intestato all'altoatesino Riccardo Klement) e poi in Sud America. Una volta in Argentina, dove trovò lavoro come operaio in uno stabilimento della Mercedes, Eichmann non fece granché per nascondersi. E questo alla lunga gli risultò fatale. Suo figlio si presentava con il suo vero nome, Klaus Eichmann, e spesso si vantava apertamente del passato nazista di suo padre. Così, quando si fidanzò con la figlia di un ebreo tedesco sopravvissuto a Dachau, Lothar Hermann, la debole copertura saltò definitivamente. Hermann fece arrivare l’informazione a un giudice tedesco, che a sua volta avvertì gli israeliani. Nel marzo del 1960 una spia del Mossad riuscì quindi a scattare una fotografia ad Eichmann a Buenos Aires. E dopo un vertice a Tel Aviv i servizi segreti sentenziarono: è lui. La certezza arrivò da un particolare fisico del nazista: le orecchie appuntite. A quel punto, visti i continui rifiuti dell'Argentina all'estradizione dei criminali nazisti, Israele decise di andare a catturare Eichmann. Undici agenti del Mossad entrarono nel Paese nella seconda settimana di maggio del 1960 e dopo aver riconosciuto Eichmann definitivamente lo aspettarono alla fermata del bus vicino casa sua, a una ventina di chilometri da Buenos Aires, e lo rapirono caricandolo su un'auto. Per dieci giorni l'ex nazista venne interrogato e spostato in diversi nascondigli, fino alla fuga del gruppo su un volo della El Al (il gerarca venne caricato a bordo sedato e fatto passare per gravemente malato). Dopo un processo durato quasi due anni, Eichmann (nella foto sopra in carcere) venne condannato a morte e impiccato in Israele il 2 giugno del 1962. A distanza di sessant'anni sono ancora molti gli aspetti misteriosi dell'operazione. Il governo argentino era completamente all'oscuro di quello che stava accadendo? Perché gli agenti del Mossad non uccisero Eichmann in Argentina? E ancora: è vero che il gerarca nazista rischiò di morire a causa del potente sonnifero che gli iniettò il medico che partecipò all'operazione? Questa sera su Facebook l'ex ufficiale del Mossad Avner Avraham (nella foto qui sotto con il ciak del film Operation Finale, la pellicola che racconta la cattura di Eichmann), esperto di tutte le più grandi operazioni dei servizi segreti israeliani, interverrà ad un evento live per raccontare i retroscena di quel blitz di sessant'anni fa. Aggiungendo dettagli importanti come quello legato a Josef Mengele, l'angelo della morte di Hitler.
«Lo avevamo individuato – spiega Avraham – ma in quel momento la priorità era Eichmann».
Colonnello Avraham, perché ancora oggi è importante parlare della cattura di Adolf Eichmann? Ormai sono passati 60 anni...
«Dobbiamo ricordare l'Olocausto e parlarne alle generazioni future. I sopravvissuti dell'Olocausto rimasti non possono farlo. La cattura di Eichmann è un evento importante legato al famoso processo a Gerusalemme. È un modo diverso e interessante di raccontare la storia dell'Olocausto, attraverso il mondo dello spionaggio».
Ha mai parlato con qualcuno che partecipò alla cattura?
«Ho studiato questo argomento negli ultimi dieci anni e sono diventato un esperto di livello mondiale. Durante la mia ricerca, ho incontrato più di 100 persone coinvolte nell'operazione. E tra questi ci sono il comandante delle operazioni Rafi Eitan (foto sotto), il suo vice Avraham Shalom, l'uomo delle infrastrutture Jacob Meidad e altri. Ma purtroppo sono morti».
Cosa le hanno raccontato di quei giorni in Argentina? Qual è stato il momento più difficile?
«Che hanno vissuto dieci giorni in un ambiente ostile, con la paura costante di essere catturati. Ogni momento è difficile quando stai con un criminale nazista».
Da quante persone era composto il gruppo di agenti del Mossad in Argentina? E chi era la pedina fondamentale?
«Ogni operazione ha un piccolo cerchio circondato da cerchi più grandi di agenti. Al centro dell'operazione erano in undici. La figura importante, il grande cervello dietro a tutto, era il capo del Mossad, Isser Harel».
Ci fu qualcuno del governo argentino che li aiutò?
«No!».
Deve essere stato difficile per quegli agenti sfuggire alla tentazione di ucciderlo. Del resto, conoscevano bene il ruolo che aveva ricoperto Eichmann nell'Olocausto. Qualcuno dei protagonisti le ha mai detto, anni dopo, «sì, avremmo voluto ucciderlo»?
«Gli agenti lavorano per lo Stato e per gli obiettivi che vuole perseguire. L'obiettivo del primo ministro di allora, David Ben-Gurion, era di processare uno dei nazisti più importanti. Naturalmente alcuni di loro hanno pensato di ucciderlo. C'era una donna, di nome Judith Nessihu, che cucinava per lui e che spesso pensava di avvelenarlo».
Come descrissero gli agenti l'uomo Eichmann?
«Un uomo piccolo, grigio, miserabile».
E' vero che lo stesso team entrato in azione in Argentina avrebbe potuto catturare anche Josef Mengele? Come riuscì l'angelo della morte di Hitler a salvarsi?
«Si è vero. Il Mossad trovò l'indirizzo di Mengele in Argentina, ma la decisione fu di portare prima Eichmann in Israele: del resto, quello era l'obiettivo. Rimasero tre agenti per cercare di prendere Mengele e portarlo di nascosto in Israele via nave. Ma l'annuncio, forse prematuro, al parlamento israeliano del 23 maggio 1960 (quello sulla riuscita del rapimento di Eichmann) provocò la sua fuga. E il Mossad a quel punto annullò l'operazione Mengele».
C'è oggi un Adolf Eichmann che Israele dovrebbe catturare?
«Israele non ha a che fare con i nazisti oggi. Ma se c'è qualcuno che lavora per danneggiare Israele e i suoi cittadini, non dovrebbe comunque essere portato clandestinamente nel nostro Paese per risolvere il problema».
Un'ultima domanda: quando conosceremo la verità sulle operazioni alle quali ha partecipato lei? Dovremo aspettare 60 anni?
«Mi ha fatto sorridere. Ho terminato il mio lavoro al Mossad con il rango di tenente colonnello. Non ero James Bond, forse qualcuno come “Q” che ha affrontato il mondo con le sue invenzioni. Nel film “Operation Finale” (la pellicola pluripremiata che ha raccontato appunto l'operazione israeliana, ndr), ho fatto da consulente senior e compaio in alcune scene. Fra 60 anni io non ci sarò, ma probabilmente lascerò dei libri...».
Un timbro sospetto su un documento falso: così gli inglesi scovarono Himmler. Pubblicato lunedì, 25 maggio 2020 su La Repubblica.it. Il documento d'identità del sergente Heinrich Hizinger sembrava in ordine. L'uomo anziano fermato a un posto di blocco dell'esercito britannico a Bremervorde, nella Germania del nord, il 22 maggio 1945, poche settimane dopo la fine della Seconda guerra mondiale in Europa, appariva in condizioni peggiori: trasandato, malaticcio, a stento in grado di reggersi in piedi. Uno dei tanti militari tedeschi che avevano intrapreso la strada per tornare a casa, dopo la caduta del nazismo. Con lui c'erano altri due compagni, più in forze, che gli camminavano davanti, girandosi spesso per vedere se riuscisse a seguirli. Forse per questo il terzetto aveva richiamato l'attenzione dei soldati al check-point, che li avevano fermati e si erano fatti consegnare i documenti d'identificazione. Si sapeva che, dopo la conquista di Berlino, molti capi del Terzo Reich erano sfuggiti all'arresto da parte delle forze alleate e c'era l'ordine di controllare ogni persona sospetta. Il terzo uomo aveva una benda nera su un occhio e si muoveva nervosamente. Un ufficiale dell'intelligence britannica, richiamato al posto di blocco, notò il timbro del documento: era dello stesso tipo e con la stessa unità militare di appartenenza notoriamente utilizzati da membri delle SS, la famigerata polizia politica di Hitler, per evadere la cattura. I tre tedeschi vennero detenuti a scopo precauzionale e condotti a un campo di internamento. La mattina dopo, il sergente Hizinger chiese di poter parlare con il comandante del campo. Forse era convinto che sarebbe stato comunque scoperto e sperava di poter negoziare un modo per salvarsi. Tolse la benda e rivelò con calma il suo vero nome: Heinrich Himmler, capo delle SS e uno degli architetti dell'Olocausto. Dopo il suicidio del Fuhrer nel bunker di Berlino, era uno dei leader nazisti ancora vivi più ricercati, responsabile di molti dei più atroci crimini commessi dal Terzo Reich. Settantacinque anni dopo quel drammatico incontro i documenti che portarono alla scoperta di Himmler possono essere visti per la prima volta al Military Intelligence Museum di Shefford, una cittadina a nord di Londra che ospita il museo dello spionaggio militare britannico. La carta d'identità fasulla del capo delle SS è stata recentemente donata al museo da una nipote del tenente colonnello Sidney Noakes, l'ufficiale del servizio segreto militare che interrogò Himmler per primo. Alla sua morte nel 1993, il documento è passato ai figli e da questi ora a una nipote che ha deciso di donarlo alle autorità affinché tutti possano esaminarlo. "Questo pezzo di carta è un pezzo di storia", dice Bill Steadman, curatore del museo di Shefford, alla Bbc. "Senza quel timbro sospetto, è possibile che Himmler sarebbe riuscito a superare il posto di blocco e a dileguarsi, come fecero altri ricercati nazisti". Non è chiaro come e perché sia rimasto in mano al tenente colonnello Noakes, che prima del conflitto era un giovane avvocato ed è diventato un giudice dopo la guerra, ma la caccia ai "souvenir del nazismo" era abbastanza comune fra gli ufficiali inglesi: uno dei sottufficiali del check-point che arrestarono Himmler si portò via le sue ciabatte e un altro il suo rasoio da barba. Pur arrestato e scoperto, il capo delle SS non andò sotto processo a Norimberga. Qualche ora dopo il primo interrogatorio, un medico dell'esercito britannico, il capitano Wells, ricevette l'ordine di esaminare le condizioni di salute di Himmler. Mentre gli guardava l'interno della bocca, notò un minuscolo oggetto bluastro nascosto fra le gengive. Il medico militare provò ad estrarlo, Himmler riuscì a divincolarsi, girò la testa e schiacciò l'oggetto tra i denti. Era una pasticca di cianuro. Morì pochi minuti dopo.
I 101 anni di Giuseppe Bassi: «Ho disegnato a memoria i lager dei sovietici». Pubblicato domenica, 01 marzo 2020 su Corriere.it Carlotta Lombardo. Ogni sera, prima di andare a dormire, Giuseppe Bassi beve due dita di grappa e ai i pasti un buon bicchiere di vino. Un piacere che, nel suo caso, suona come un rituale di ringraziamento. «A salvarmi la vita durante la marcia di ripiegamento dalla linea del Don è stato il cognac. Senza quella botticina trovata da un artigliere non ce l’avrei fatta a sopportare fame e freddo». Russia, anno 1943. Bassi è sottotenente di complemento del 120° reggimento Artiglieria Motorizzata della divisione Celere partito, volontario, per il fronte orientale contro l’Unione Sovietica. Oggi ha 101 anni, portati magnificamente. Ad aprirci la porta di casa sua — una luminosa villa invasa dal bianco e immersa nella campagna di Villanova di Camposanpiero (Pd) — è infatti lui stesso, seguito dalla badante. Sul pavimento ai piedi del divano dove si accomoda con agilità (e si rialza poco dopo per salutare l’arrivo della figlia), ci sono i giochi della nipotina Benedetta che, di anni, ne ha 100 di meno. Un secolo esatto li divide. Bassi, classe 1919, è nato quando l’Italia era ancora una monarchia, il presidente del consiglio Vittorio Emanuele Orlando, Giuseppe Gramsci doveva ancora fondare il Pci e D’Annunzio non aveva ancora concepito l’impresa di Fiume. Soprattutto, è uno dei pochi sopravvissuti alla campagna di Russia e ai suoi campi di concentramento dai quali tornò appena il 14% dei soldati italiani. «In prigionia ci sono rimasto dal 24 dicembre 1942 al 7 luglio 1946: 42 mesi nei lager di Tambov, Oranki e Suzdal tornando in Italia un anno e mezzo dopo la fine della guerra. Colpa dei comunisti italiani: Robotti, che faceva propaganda comunista mascherata da “antifascista” nei lager, e Togliatti, al quale conveniva ritardare il nostro rientro in Italia. Saremmo state tutte voci contrarie al regime». I morti nei campi di concentramento erano così tanti che nel maggio del ’43 arrivò l’ordine di «non morire». Il numero di cadaveri era enorme e giustificarlo era diventato un problema. Epidemie di tifo, pellagra, polmoniti, cancrene da congelamento… «La mattina ti svegliavi e non sapevi chi era rimasto vivo. Io, però, non mi sono mai ammalato — continua Bassi —. Il mio segreto? Muovermi sempre, tanto che mi offrivo volontario per andare a prendere il pane e il chai, il tè russo, da distribuire ai compagni. Durante la ritirata, invece, ho salvato la vita a un amico prendendolo a calci. Non riusciva più a rialzarsi, tanto era esausto. Centomila soldati non tornarono. Fermarsi era uguale a morire, ammazzato dai russi o dal freddo. No, io dovevo vivere per tornare e raccontare». E di raccontare, con lucidità e dovizia di particolari che non sembrano scalfire la sorprendente allegria, Bassi sembra non stancarsi mai. Con il sorriso sul volto ricorda quando, partito per il fronte con l’incoscienza giovanile di chi vuole «scoprire nuovi Paesi», muore, accanto a lui, il suo artigliere con la gola trafitta da una pallottola. «Uno shock. Quella era la morte vera...». O di come, catturato ad Arbusowka, affronta la «valle della morte»: 300 chilometri a piedi — le notti all’addiaccio e nei capannoni dei kolchoz dal tetto scoperto — con trenta gradi sotto zero e, al mattino, «i corpi dei compagni stecchiti sulla neve», irrigiditi dal gelo. «I disperati del Don… Una lunga serpe umana mossa dal grido delle truppe russe “Davai, davai, bistrej! Avanti, avanti, presto!» — ricorda — Neve, neve e solo neve, da mangiare e calpestare. E la fame come l’aria». Italiani, tedeschi e rumeni vengono ammassati nel Campo n. 188 di Tambov, quasi completamente sotterraneo, in bunker profondi due metri senza illuminazione né ventilazione. «In quelle condizioni ricreare un simulacro di civiltà è vitale. E i rumeni in questo erano bravissimi», continua Bassi alzandosi dal divano per poi tornare subito dopo con uno spazzolino da denti, una spazzola e una pipa, costruiti con il legno di ciliegio del bosco di Tambov e i crini dei cavalli, «finché sono rimasti tutti senza coda!». Ride. E già si riallontana per prendere l’album di foto scattate nel lager dall’amico tedesco Heinz Neffgen. «Aveva nascosto la macchina fotografica nell’incavo della gamba di legno. È un documento preziosissimo, e me lo ha regalato. Stavamo sempre insieme, tanto che quando c’è stata la rottura dell’alleanza con i tedeschi il comandante, stupido, mi diceva: “Bassi, non si vergogna di andare con un ufficiale nemico?”. E io: “Ma non vede che siamo tutti uguali? Tutti prigionieri!” E poi i sentimenti, quelli veri, non cambiano. Dopo la guerra abbiamo continuato a frequentarci… Era innamorato di Jesolo e del Lago Maggiore; mia figlia Alberta è stata da lui, vicino a Bonn, e oggi insegna tedesco alla scuola media di Maser». Giuseppe è un fiume di parole. La sua memoria, eccezionale: tornato dai lager, gli ha permesso di ricostruire in disegni straordinari per tratto e precisione i luoghi di prigionia schizzati su cartine di sigarette, sottrattagli ogni volta che veniva eseguita una perquisizione e puntualmente rieseguiti. I suoi disegni, oggi al piccolo museo dedicato ai prigionieri italiani a Suzdal, hanno permesso di ritrovare alcune fosse comuni nelle quali erano stati sepolti i prigionieri dell’Armir. «Sono geometra, il disegno è la mia passione. Come gli orologi, del resto. Nei lager per tutti ero “Bassil’ora” perché ero il solo a essere riuscito a nascondere nelle scarpe un orologio e i compagni mi chiedevano sempre l’ora». Dalla sua storia, l’anno scorso è nato il film documentario Bassil’ora, di Rebecca Basso, da lui stesso interpretato. Eccolo, l’orologio, appeso al muro e non lontano da un ferro di cavallo della carica di Isbuscenskij trovato da Bassi nella steppa. «Dopo aver segnato 30.996 ore di fame, di freddo, di morte e di abbandono si è fermato», recita la scritta apposta da Bassi nella cornice. Lui la legge, senza occhiali. A 101 anni, portati magnificamente.
Pubblicato sabato, 01 febbraio 2020 su Corriere.it da Paolo Valentino. È dal 1987 che il Festival Internazionale del Cinema di Berlino onora la memoria del suo primo direttore, Alfred Bauer, con l’Orso d’argento a lui intitolato e assegnato alle opere «che aprono nuove prospettive sull’arte cinematografica». Ma ieri la Berlinale, quest’anno alla settantesima edizione con un italiano, Carlo Chatrian, come direttore artistico, ha annunciato che il premio Bauer è stato sospeso. Meglio tardi che mai, dopo che Die Zeit ha rivelato che Bauer era stato un «alto funzionario della burocrazia del cinema nazista», membro del partito e delle SA, la milizia hitleriana, fidato collaboratore di Joseph Goebbels, capo della propaganda del Reich. Com’è stato possibile che il festival berlinese sia rimasto così a lungo all’oscuro del passato ignominioso di Bauer, al punto da celebrarlo dopo la morte, avvenuta nel 1986, con un premio che negli anni è andato fra gli altri a Andrzej Wajda e Alain Resnais? Perché di tutte le istituzioni e le grandi aziende tedesche che hanno affrontato la Vergangenheitsbewältigung, i conti con il passato, indagando e svelando rapporti e complicità con il regime nazista, proprio la Berlinale, che si è sempre voluta illuminata e progressista, è clamorosamente morosa? Né fa miglior figura la Deutsche Kinemathek, che per i 70 anni aveva programmato l’uscita di un tomo dello storico Rolf Aurich dedicato proprio a Bauer e agli esordi del festival, che diresse dal 1951 al 1976. Aurich, pur avendo avuto a disposizione i nuovi documenti visionati da Die Zeit, ha preferito ignorarli. Ma dopo le rivelazioni del settimanale diretto da Giovanni di Lorenzo, la pubblicazione è stata rinviata sine die. Scoperta negli archivi federali da un appassionato di storia del cinema, che l’ha consegnata al giornale di Amburgo, la documentazione su Bauer include fra le altre cose un rapporto del 1942, scritto dal Gauleiter di Mainfranken, in Bassa Baviera, dove viene descritto come «zelante membro delle SA» dal «perfetto comportamento politico» dal quale «si attende anche per il futuro un impegno completo per lo Stato e il movimento. Heil Hitler!». Il documento fu decisivo per la nomina di Bauer a «Referent» della Reichsfilmintendanz, la cabina di comando dell’intera politica cinematografica del Reich. In particolare Bauer decideva quali attori, registi e cineoperatori dovevano essere impiegati nella produzione dei film fondamentali per la propaganda bellica. Di più, nel 1944, con l’assenso di Goebbels, egli svolse per alcuni mesi ad interim le funzioni di vice-sovrintendente, quando la «Entjudung», la de-ebreizzazione della cultura tedesca, era al culmine del suo sforzo distruttivo. Eppure, finita la guerra, Bauer riuscì a ingannare tutti. Sottoposto alle verifiche di «denazistizzazione» egli «ridimensionò e mentì sistematicamente sulle sue responsabilità». Prima negò di essere stato membro delle SA e del partito, poi lo ammise spiegando di avere avuto ruoli marginali, infine dichiarò il falso (come provano i documenti) sostenendo di essere uscito dalla milizia già nel 1938 e dalla NSDAP nel 1943. Ma la cosa più incredibile è che Bauer riuscì perfino a spacciarsi per antifascista sotto traccia. Come? Facendo dichiarare (con la medesima frase) a persone come la sua segretaria o il suo barbiere, che a loro confidava la sua avversione al regime.
Fatto è che nel 1951, appena sei anni dopo la «Stunde Null», l’ora zero, Bauer si ritrovò immacolato alla guida del festival di Berlino, pietra miliare del nuovo inizio culturale della città. Ci sarebbe rimasto per un quarto di secolo, accogliendo stelle come Sophia Loren, Gina Lollobrigida e Burt Lancaster. Qualche approfondimento in più, oltre la doverosa sospensione del premio a suo nome, sarebbe gradito.
Seconda guerra mondiale, spunta il dossier segreto dei reati commessi in Italia degli Alleati. Scoperta all’Archivio di Stato una relazione sui crimini commessi da truppe Usa, inglesi e canadesi. Dal settembre 1943 al dicembre 1944 ci furono 1.250 morti investiti dai mezzi militari e 342 omicidi. Alessandro Fulloni il 31 gennaio 2020 su Il Corriere della Sera. Immaginate un dossier sulla sicurezza in Italia reso noto — poniamo ieri — dal Viminale, uno di quelli che pubblicano i giornali corredandolo con puntuali numeri su delitti, incidenti stradali, grafici e statistiche. Ecco, a questo punto girate la lancetta dell’orologio all’indietro e fate scorrere il tempo — mescolando storia e cronaca — sino ai giorni attorno alla fine della guerra e poco dopo. Siamo (all’incirca) tra 8 settembre 1943, 25 aprile 1945 ma anche dopo il conflitto, fino al 2 giugno 1946 e pochi mesi successivi. Immaginate adesso la prima pagina di questo corposo dossier (che ne contiene almeno 2.000) titolata così: «Statistica incidenti e crimini commessi da truppe alleate». Nella parte alta del foglio la grossa dicitura: «Ministero della guerra». Poco sotto l’elenco di tutti coloro a cui la relazione è stata mandata: in primis la presidenza del Consiglio, poi il ministero degli Esteri, quello degli Interni e il comando generale dell’Arma dei carabinieri. E di seguito alcuni dati riepilogativi: quelli sugli «incidenti automobilistici» che hanno provocato 1.250 morti «tra il settembre 1943 e il dicembre 1944». E che diventano 3.047 in un altro focus esteso al giugno 1947.
«Dispregio per le norme di disciplina stradale». Sinistri «da imputarsi per la maggior parte al dispregio per le norme di disciplina stradale manifestato dai conduttori». E poi: «342 omicidi, risultante di atti spavaldi e malvagi prodotti da militari avvinazzati» dediti «a molestie alla popolazione civile, specialmente donne, sia nella pubblica strada, sia nelle abitazioni private». Quanto alla cifra su furti e rapine (6.489) «pur considerevole, è da ritenersi molto inferiore a quella reale per il fenomeno —spiegabilissimo — della mancata denuncia per il timore del peggio». Il corposo studio sui crimini commessi dalle truppe americane, inglesi, canadesi e francesi nella Penisola è stato ritrovato in questi giorni all’Archivio Storico di Stato dell’Eur, il maggiore presidio in cui viene conservata la nostra memoria. Autore della scoperta è Emiliano Ciotti, vigile del fuoco di professione e ricercatore storico per diletto. Assai scrupoloso e appassionato nei suoi studi, il pompiere, 47 anni, è anche il presidente dell’«Associazione nazionale vittime delle marocchinate». Un suo prozio, Anastasio Gigli, venne stuprato e ucciso dai goumiers — le truppe coloniali francesi composte da marocchini, tunisini, algerini e senegalesi — nel Basso Lazio. Anche per questo, da tempo, Ciotti si dedica alla ricostruzione delle violenze (parliamo, per intenderci, di quelle stesse narrate nel romanzo di Alberto Moravia «La ciociara» poi divenuto celeberrimo film con Sophia Loren) commesse tra il luglio 1943 (dopo lo sbarco in Sicilia) e l’inverno 1944, quando i coloniali vennero trasferiti nel fronte del Nord Europa a seguito delle fortissime proteste italiane indirizzate al comando alleato per quegli stupri di massa.
Carte provenienti dalle stazioni dell’Arma e dai commissariati. Del tutto casualmente il vigile, cercando all’Archivio la documentazione sulle atrocità dei soldati francesi , si è imbattuto nel dossier, più complessivo e inedito, sui crimini degli Alleati. Sono pagine e pagine provenienti dalle stazioni dell’Arma e dai commissariati. Minuziosi e dettagliati rapporti scritti a macchina da carabinieri e poliziotti che hanno raccolto — né più né meno come si farebbe oggi — le denunce straziate dei genitori di un bimbo calpestato dai cingoli di un tank guidato da un carrista ubriaco o dai familiari di una donna stuprata, e uccisa, dentro casa da militari senza nome. Colpiscono tante cose, in quei rapporti: intanto l’idea di un apparato di sicurezza, e se vogliamo di uno Stato, che in qualche modo, pur tra le macerie, dava l’idea di funzionare. Mentre infuriava la guerra, addirittura nei giorni del collasso dell’8 settembre, Arma e polizia erano lì ad ascoltare i cittadini, avviando indagini, per quanto possibile, e scontrandosi con l’indifferenza, se non l’irrisione, dei comandi alleati.
In «presa diretta» come in un film neorealista. Ma poi, soprattutto, ci sono i fatti raccontati: le frasi dattilografate a macchina fotografano l’Italia di allora, quasi in presa diretta come in un film neorealista. Vediamo alcuni rapporti. Uno a caso da Lucca: «18 marzo 1944, un camion alleato, guidato dal caporale americano G. L. Bouer, investì e uccise il motociclista Torcigliani Turiddu». Da Salerno, il giorno dopo: «Un autocarro alleato, non identificato, investì e uccise Musella Giuseppa». Ad Avellino un ufficiale dei Royal Marines inglesi «investe uccide Barletta Grazia». E via così sino ad arrivare al numero di 1.250 vittime in sedici mesi. Il confronto che ora proponiamo ha poco senso dato che strade e traffico allora erano completamente differenti da oggi. Però rendono l’idea: nel 2018 i pedoni morti in Italia sono stati 612. Vale a dire 51 al mese contro i 78 di allora (che diminuiscono a 66 nel conteggio esteso al giugno 1947).
Reati contro il patrimonio. Poi il capitolo dei «reati contro il patrimonio», sovente storielle minime che però raccontano i tempi: a Mondragone «il 15 marzo u.s. certo Riccio Pasquale denunziò all’Arma che il giorno precedente era stato rapinato da 5 individui, indossanti la divisa dell’esercito americano, di 5.600 lire e una bicicletta». Un’altra rapina a Perugia «dove tre individui indossanti le uniformi degli eserciti alleati penetrarono nell’abitazione di Pievaioli Guglielmo e lo rapinarono di 47.000 lire». Ruberie a tappeto vengono effettuate da «truppe canadesi e greche appartenenti all’Ottava armata tra Jesi e Cattolica, nella Marche».
«Atti spavaldi e malvagi». Un «rapporto segreto» rivela che dopo la fuga dei tedeschi dalla linea gotica «ogni casa fu visitata e tutti gli effetti dei civili sistematicamente asportati». «Nella maggior parte gli abitanti rimasero unicamente con i vestiti che in quel momento indossavano». Un convento fu saccheggiato e nulla valsero i «turni di guardia» degli sfollati che qui si erano rifugiati portando i loro averi. «Le popolazioni di Cattolica e Riccione, già vessate dai tedeschi, e che attendevano con ansia le truppe liberatrici, rimasero terrorizzate» da uccisioni «per pura brutalità» e i saccheggi contro cui a nulla valse il «tentativo di mettere un freno da parte del sindaco di Riccione» che parlava «un ottimo inglese». Chi all’epoca scrisse il riepilogo del rapporto nota che «molti dei conduttori investitori continuano per la loro strada senza portare alcun aiuto agli investiti». Per quanto riguarda il capitolo «omicidi, ferimenti, aggressioni e violenze» viene spiegato che «tali fatti non debbono essere considerati nella grandissima maggioranza come manifestazioni di malvolere delle truppe alleate verso di noi». No, sarebbe «la risultante di atti spavaldi e malvagi prodotti da iniziativa di militari avvinazzati; molestie alla popolazione civile, specialmente donne, sia in strada che in casa»; «provocazioni a militari italiani». «Molti omicidi sono stati commessi a danno di civili (spesso genitori, fratelli o mariti) per la resistenza fatta o la difesa da essi esercitata allo scopo di impedire violenze carnali».
Lo storico: «Certi fatti accadono anche in guerra». Ma l’insieme di questi dati cosa racconta? Secondo Gregory Alegi, storico e docente di «Storia delle Americhe» alla Luiss, «bisogna intanto contestualizzare, separare il dato storico dall’idea un po’ ingenua che certi fatti, dagli omicidi agli incidenti stradali, in guerra non accadano, come se dovessero essere sospesi. Invece ci sono, e ce li raccontano queste denunce raccolte presso carabinieri e polizia. La sensazione è che ci fosse un’idea di Stato, e che nello Stato ci fosse fiducia, indipendentemente dalla risposta data». E ancora: «Prese singolarmente, sono storie che dicono poco. Si rubano galline, maiali, stivali. Si fa a botte nei locali notturni dove interviene la Military Police che, talvolta, qualche soldato lo arresta. Cose di bassissimo livello mescolate a piccole e grandi tragedie individuali. Vicende che non sono dissimili dalle cronache notturne che si registrano al sabato sera in una grande città. Nell’insieme viene però fuori il ritratto dell’Italia di allora. Senza giustificare nessuno, ma cercando di comprendere». Ma gli incidenti stradali? «Sono la tipologia principale del dossier: per capirne la gravità bisognerebbe confrontarli con dati attuali, tenendo presente che a quel monitoraggio sfugge la parte d’Italia ancora occupata dai tedeschi». (Ciotti, nelle sue ricerche, ha messo le mani su quattro dossier — «ne sto ancora studiando i dati» — dal senso piuttosto simile. Oltre a quello dei «crimini commessi dagli alleati» e all’altro (di cui la stampa si è già occupata) degli stupri ad opera dei goumiers, ce ne sono altri due che focalizzano momenti e situazioni di cui ancora poco sappiamo: uno riguarda «i crimini commessi dai francesi ai danni dei deportati italiani nella stessa Francia» subito dopo la nostra «pugnalata alle spalle»; l’ultimo ha a che fare con «i crimini francesi commessi sui soldati italiani detenuti nei campi di prigionia nel Nord Africa». «La sintesi — spiega il pompiere-storico — è il tentativo di farsi sentire, da parte delle autorità italiane, durante le trattative di pace che seguirono la fine della guerra dimostrando che la Liberazione aveva avuto un corollario di conseguenze risultato pesantissimo per la popolazione». Domanda inevitabile: Ciotti, la sua non sarà una tesi revisionista? «È un’accusa che mi fanno spesso. Ma tutto quello che sostengo lo raccontano i documenti che trovo negli Archivi di Stato. Carte che stanno lì da decenni e che nessuno ha letto»)
"Così nel '44 i coloniali francesi stuprarono e uccisero mia madre davanti a me". La storia straziante della 90enne fiorentina che, ascoltata in "incidente probatorio" dalla Procura di Siena, ha raccontato le atrocità compiuto dai coloniali francesi nei confronti delle donne durante il passaggio della guerra in Toscana. Costanza Tosi, Venerdì 31/07/2020 su Il Giornale. Perché sia fatta giustizia non è mai troppo tardi. Deve averlo pensato Giselda Anselmi prima di sedersi, nel mese di febbraio, davanti alla pm Valentina Magnini per “l’incidente probatorio” in cui la donna, ormai novantenne ha raccontato quel che accadde nelle campagne di Radicofani, nel Senese, il 22 giugno del 1944. “È una scena che rivedo davanti a me tutti i giorni - ha confessato Giselda - quei due soldati che afferrano mia madre lungo la strada, lei che continua a tenere stretta la mia sorellina Elisabetta, un mese appena. Loro che provano a strappargliela, lei che resiste. Loro che le sparano. Una ferocia sconvolgente, solo per immobilizzarla. Poi la violenza, le urla. E il respiro di mamma che si affievolisce lentamente di notte sino a spegnersi del tutto al mattino. Quando mia madre Ottavia Fabbrizi morì stava ancora allattando la piccola”. L’atto che racchiude la terribile storia raccontata dall’anziana ora, è nelle mani della Procura militare di Roma che ha aperto un fascicolo. Chi fu a compiere quegli atti disumani, chi è che senza saperlo ha lasciato nella mente di Giselda il ricordo indelebile dell’ingiusta morte della madre? Questo non lo si è mai saputo e i responsabili della storia dell’orrore probabilmente non verranno mai individuati. É passato troppo tempo da quel giorno. Ma la testimonianza racconta dai pm che, con ogni probabilità potranno solamente procedere con la richiesta di archiviazione varrà per la memoria. Un giorno prima che la madre di Giselda morisse, il padre della donna Sebastiano aveva deciso di lasciare la cascina degli Anselmi. “Qui non possiamo più stare”, disse il padre quella triste mattina del 21 giugno 1944. Poi, decise di raggiungere a piedi la casa della madre. Una cannone aveva completamente distrutto la struttura agricola e da lì, inizia il racconto della storia di Giselda. Il padre “era un contadino di poche parole, un “ragazzo del ‘99” catturato dagli austriaci sul Piave, deportato in Germania e richiamato alle armi dopo il 1940”, spiega l’anziana. La famiglia che l’uomo era riuscito a tirare su era molto rumorosa, e quel giorno, tutti, marito, moglie, otto figli, si incamminarono. Durante il tragitto un forte rumore, una scarica di colpi di mitragliatrice e le grida. Due pastori erano stati uccisi dopo essersi opposti al furto delle pecore. Dopo poco la famiglia raggiunse un podere dove vi erano altri sfollati. “Si avvicinarono due soldati, avevano un carnato olivastro” racconta la donna ai pm. “Io in quel momento non avrei potuto dire di che nazionalità fossero, mai sentita la loro lingua”, ma una cosa è certa “non erano tedeschi. Quella mattina li avevamo incontrati per strada mentre si ritiravano; papà il tedesco lo conosceva bene per averlo imparato durante la prigionia. Gli dissero: Con tutte queste ragazze che ti porti dietro devi stare attento, gli alleati le stuprano…". I due uomini in divisa, armati, “cercarono di violentare le sorelle che papà nascose tra i cespugli”. Allora gli uomini insistettero in maniera violenta e decisi strattonarono e presero Ottavia che tenne stretta a sé l’ultima figlia, neonata. La piccola cadde a terra e la “mamma la riprese e poi venne gettata dietro un albero”. Due spari decisi e poi l’accoltellamento. “Sparì alla mia vista per un quarto d’ora”, spiega Giselda. Quando i due uomini se ne andarono mamma Ottavia rimase in silenzio e continuò ad allattare. Prima di morire, il mattino seguente. Nei giorni a seguire gli orrori si ripeterono. I soldati “continuarono a violentare altre donne sinché qualcuno li cacciò lanciandogli delle bombe a mano”.
Chi erano i "goumiers", i soldati che violentavano le donne. Nel racconto scioccante della donna si ripercorrono i momenti terribili del passaggio della guerra in Toscana. Ricordando in maniera tanto lucida quanto faticosa le violenze sulle donne “commesse dai goumiers”. “I soldati coloniali, arabi e africani, inquadrati nelle truppe francesi che combattevano con gli Alleati”, come spiegano gli avvocati di Giselda Anselmi, Luciano Randazzo e Paola Pantalone. “Per quel delitto allora non ci furono indagini, niente” , spiega la donna. Certa di pretendere “giustizia anche adesso, da vecchia. Lo pretendo per chi subì le stesse atrocità rimaste impunite in migliaia di casi tra Campania, Lazio, Abruzzo e Toscana”. Fatti disumani che oggi rimangono “un fenomeno poco conosciuto e sottovalutato”, ma che dovrebbe essere giudicato - spiega Marco De Paolis a Repubblica, il procuratore generale militare presso la Corte militare d’Appello di Roma che ha fatto luce sulle stragi naziste di Marzabotto e Sant’Anna di Stazzema - “secondo la legge di bandiera”. Si tratta delle violenze terribili commesse dai goumier tra 1943 e e il 1944. Le stesse “raccontate nel romanzo La Ciociara”, spiega De Paolis. Per lui, insomma, dovrebbe essere la giustizia francese a fare chiarezza sui reati commessi dai propri militari. E su questo sono d’accordo anche Randazzo e Pantalone. “La Francia celebra i goumier come eroi dedicando loro piazze e strade delle loro città - spiegano gli avvocati - mentre in Italia sono stati autori di ripetute violenze indicibili. Forse accanto a quelle celebrazioni dovrebbero essere ricordati anche le centinaia, se non migliaia, di stupri che i coloniali francesi commisero risalendo la Penisola assieme agli Alleati”.
· Prima del Fascismo.
Se il generale è carnefice: «Non trovate il colpevole? Estraete a sorte e sparate». Gustavo Ottolenghi su Il Dubbio il 20 giugno 2020. Durante la prima guerra mondiale l’Esercito italiano praticò esecuzioni sommarie e decimazioni per reati di guerra, uccidendo soldati senza processo. Una delle pratiche più odiose e riprovevoli messe in atto — in diverse epoche storiche e da vari popoli — fu la esecuzione capitale praticata sul campo dei militari che, nel corso di conflitti bellici, erano stati coinvolti in gravi violazioni dei Regolamenti militari, i cosiddetti “Reati capitali di guerra”. Quando il colpevole di uno di tali reati veniva identificato, la sua esecuzione avveniva immediatamente sul campo (“Esecuzione sommaria”) mentre diversa era la procedura nei casi in cui il colpevole non potesse essere rintracciato. In tale situazione veniva messa in atto la cosiddetta “Decimazione”, consistente nella esecuzione di un individuo ogni 10 appartenenti al Reparto del quale si riteneva facesse parte il presunto colpevole. Questa pratica aveva un duplice scopo, la punizione simbolica dei colpevoli di reati e l’induzione, nei ranghi degli eserciti, della paura della morte qualora si fosse venuti meno alle regole e alla disciplina (“Meglio tentare la sorte di essere uccisi dai nemici che la sicurezza di esserlo per mano amica” – Svetonio, “De viris illustribus”) ed era solitamente eseguita da militari appartenenti ai Reparti dei quali i giustiziandi facevano parte. La Decimazione venne messa in atto per la prima volta dai Romani a carico dei legionari che si erano ammutinati nel corso della guerra contro il Volsci (Console Appio Claudio Sabino – 471 a. C.). Nell’era moderna esecuzioni sommarie e decimazioni furono praticate in Europa durante la Prima guerra mondiale negli eserciti della Francia, della Gran Bretagna, raramente dalla Germania e mai dall’Austria, mentre frequente ne fu l’impiego da parte dell’Italia. La pena di morte fu applicata nell’esercito italiano in casi contemplati dal Codice militare di guerra in vigore nel 1915 (derivato da quello Albertino del 1840), per i seguenti reati capitali di guerra: diserzione, ammutinamento, tradimento, abbandono del posto di combattimento, arretramento, sbandamento, spionaggio, rivolta, disfattismo, rifiuto di obbedienza agli ordini, vie di fatto contro un superiore, automutilazioni allo scopo di essere ricoverati lontani dalla prima linea (colpi d’arma da fuoco sparatisi a bruciapelo contro i propri arti, ferite da taglio, foratura di timpani, infezioni blenorragie agli occhi, iniezioni sottocutanee di benzina o urina). Questi reati venivano commessi principalmente a causa dell’ingravescente logorio fisico e mentale conseguente alla lunga permanenza in prima linea (che, nel 1916, era stata portata da 6 a 12 mesi per ogni Reparto), alla riduzione delle licenze, al razionamento e alla scarsa qualità del cibo, al mancato rinnovo del vestiario e delle calzature, al deficiente servizio postale, alle spaventose condizioni igieniche e ambientali, alle gravi malattie e tutto sotto la costante minaccia del fuoco nemico e dei gas velenosi. In ogni caso le sentenze di morte avrebbero dovuto essere emesse da un Tribunale penale militare di guerra onde assicurare agli imputati il rispetto dei loro diritti rappresentati almeno dalla possibilità di avere un difensore, ma le cose spesso non andavano così. Molte infatti furono le situazioni in cui, per motivi contingenti o emergenziali, non si potè ( non si volle) ricorrere ai Tribunali militari e le sentenze capitali furono emesse ( e fatte eseguire) sul campo dai Comandanti delle varie unità cui tale possibilità era stata loro concessa Comando Supremo dell’Esercito al quale il Codice penale militare di guerra consentiva di emanare disposizioni che, sul campo, avevano la forza di leggi. E il generale Luigi Cadorna (Comandante supremo dell’Esercito) aveva emanato decine di circolari, decreti, ordinanze, regolamenti con le quali si autorizzava ogni Ufficiale superiore «a eseguire immediata fucilazione mediante estrazione a sorte tra gli indiziati di reato di alcuni militari e di punirli con la pena di morte qualora siano in atto reati collettivi» ( circolare n. 2910 del 23.5.1916) e a «giustiziare un militare ogni 10 fra quelli appartenenti ai Reparti sospettati di aver commesso un reato, qualora non si sia in grado di individuarne i colpevoli» ( circolare del 30.9.1916). Inoltre «Ogni Ufficiale che esiti a compiere questi ordini dovrà essere rimosso e deferito al Tribunale penale militare di guerra, mentre verrà encomiato quello che li avrà eseguiti con precisione» ( circolare 1.11.1916). Anche il generale Emanuele Filiberto di Savoia, Comandante della III Armata, nel novembre 1917 aveva ordinato: «Nei miei Reparti macchiatisi di gravi colpe, alcuni militari, colpevoli o no, siano estratti a sorte e passati per le armi». Le “Esecuzioni sommarie” eseguite sul campo ebbero inizio, nel Regio Esercito italiano, già solo dopo un mese dall’inizio delle ostilità, quando il generale Carlo Carignani, comandante della Brigata Messina ( 13^ Divisione) ordinò a un plotone di carabinieri appostati con mitragliatrici dietro alla prima linea del fronte, di sparare alla cieca alle spalle dei militari del 93° Reggimento che avevano gettato le armi e correvano verso il nemico per arrendersi: imprecisato fu il numero delle vittime. Complessivamente 112 furono coloro che vennero sommariamente giustiziati dopo esser stati individuati come colpevoli di reati capitali di guerra. Circa 300 furono i militari giustiziati mediante “Decimazione” fra i quali ricordiamo i 3 caporali e il soldato fucilati dopo esser stati estratti a sorte fra gli 80 alpini che componevano l’ 8° Reggimento della 109^ Compagnia del Battaglione Monte Arvenis, per ribellione all’ordine di attacco (Decimazione di Cercivento). Drammatica e emblematica di quanto avvenuto nelle Decimazioni fu la sorte della Brigata Catanzaro ( 64^ Divisione) i cui componenti furono sottoposti – unico caso fra gli Eserciti europei – a decimazioni in due diverse occasioni. Il 28 maggio 1916 furono fucilati 12 militari del 141° Reggimento della Brigata, dopo esser stati sorteggiati tra gli 80 che, il 26 maggio avevano abbandonato il loro posto di combattimento sul Monte Moriagh (Altipiano di Asiago), rifugiandosi nei boschi ( gli altri 68 furono tutti deferiti al Tribunale penale militare di guerra. La sentenza di morte mediante decimazione era stata pronunciata dalla Corte Marziale di guerra ( Presidente il Colonnello Attilio Themes) in base all’art. 92 del Codice penale militare di guerra. Successivamente, il 15 luglio 1917, una rivolta dello stesso 141° Reggimento ( alla quale si aggregò anche il 142°), ebbe luogo a S. Maria La Longa ( Udine) a seguito del richiamo della Brigata sul fronte del Monte Ermada dopo che le era stato promesso un periodo di riposo di 20 giorni nelle retrovie. Alcuni soldati spararono contro i propri ufficiali uccidendone due e solo l’intervento di carabinieri con mitragliatrici, mezzi blindati e cariche di cavalleria riuscì a sedare la rivolta, nel corso della quale vi furono 15 morti fra i rivoltosi e 3 ufficiali e 4 carabinieri fra i regolari. Sedata la rivolta, vennero immediatamente fucilati sul posto ( esecuzione sommaria) per ordine del generale Ernesto Galgani, Comandante della 45^ Divisione, 16 brigatisti colti con le armi ancora in pugno e, dei 120 che avevano fatto parte della rivolta, 12 scelti a caso fra i componenti dei due Reggimenti furono giustiziati il 16.7.1917 previa decimazione, per ordine personale del generale Adolfo Tettoni, Comandante del VII° Corpo d’Armata. Altre 123 militari furono deferiti al Tribunale penale militare di guerra che comminò fra di loro altre 4 condanne a morte. Per punizione il resto della Brigata fu inviato in una zona paludosa elle cannucciate di San Canzian ( Gorizia). E si può ricordare anche lo scioglimento completo del I° Squadrone Cavalleggeri del Monferrato, del 149° Reggimento fanteria della Brigata Trapani e del 3° Battaglione del 71° Reggimento fanteria della Brigata Puglia ordinato dal Comandante in capo della III^ Armata per grave insubordinazione e sedizione degli interi organici, con decimazione complessiva di 22 militari ( 8 ufficiali) estratti a sorte nei loro ranghi. Quanti furono complessivamente i militari italiani giustiziati, durante la Prima guerra mondiale, con esecuzioni sommarie e decimazioni, da plotoni di esecuzione di compatrioti? Qualche cifra fornita dall’Ufficio Storico dell’Esercito. La popolazione italiana nel 1915 era di 38.500.000 abitanti, di cui richiamati alle armi furono 5.200.000 e di questi ne furono deferiti ai Tribunali penali militari di guerra 870.000: 290.000 furono i relativi processi celebrati, conclusi con 120.000 assoluzioni e 170.000 condanne di cui 4.028 a morte ( 2.967 in contumacia, non eseguite, e 1.061 esperite). Delle 1.061 condanne esperite, 311 non vennero effettuate e 750 ebbero luogo. Oltre a queste 750 esecuzioni eseguite a seguito di condanne emesse dall’Autorità giudiziaria, altre 412 avvennero sul campo ( 112 mediante esecuzione sommaria e 300 per decimazione) senza alcun processo, portando a 1162 il numero complessivo delle esecuzioni capitali eseguite da italiani su italiani nel corso della Prima guerra mondiale ( i francesi ne praticarono 600 e i britannici 350). Oggi la decimazione non viene più eseguita come massima pena per reati militari presso nessuna Nazione aderente all’Onu: non altrettanto può dirsi delle esecuzioni sommarie tuttora in vigore in alcuni Stati africani e asiatici: entrambe queste drastiche misure – che sono per lo più pagate dalle classi sociali inferiori dalle quali proviene la maggioranza dei colpevoli – inficiano le conquiste della civiltà e del progresso sociale e devono essere concettualmente (oltrechè praticamente) rifiutate come mezzi repressivi in ogni regolamento giuridico militare.
Ricostruito dal nulla il primo carro armato italiano. Libero Quotidiano il 2 giugno 2020.
Andrea Cionci. Storico dell'arte, giornalista e scrittore, si occupa di storia, archeologia e religione. Cultore di opera lirica, ideatore del metodo “Mimerito” sperimentato dal Miur e promotore del progetto di risonanza internazionale “Plinio”, ha svolto reportage dall'Afghanistan e dal Libano. Ricercatore del bello, del sano e del vero – per quanto scomodi - vive una relazione complicata con l'Italia che ama alla follia sebbene, non di rado, gli spezzi il cuore. Ricostruire DAL NULLA un gigantesco carro armato, in dimensioni e peso originale, per giunta motorizzato: uno di quei sogni folli che vengono inevitabilmente accolti con una risata beffarda. Eppure, l’incredibile impresa, da primato mondiale, è diventata realtà in soli due anni grazie alla passione e alla ferrea volontà di un pugno di uomini: il FIAT 2000 è finalmente ultimato e Libero lo ha presentato oggi in esclusiva, sul cartaceo, in questa giornata speciale per la Nazione. Occorre prima fare un salto indietro nella storia. Intorno al 1917, per sbloccare lo stallo della guerra di trincea e superare il sistema infernale reticolati-mitragliatrici, i Britannici inventarono i Mark IV, primi carri armati detti “tank”. Seguirono i Francesi con il Renault FT 17 e i tedeschi con l’A7V. Quasi nessuno sa che anche l’Italia aveva iniziato a progettare un carro pesante fin dal 1916 tanto che l’anno dopo produsse il suo prototipo, il Fiat 2000, disegnato dagli ingegneri Giulio Cesare Cappa e Carlo Cavalli. Per l’epoca era un gioiello tecnologico: 36 tonnellate di acciaio sviluppate in sette metri di lunghezza e quattro di altezza; sette mitragliatrici Fiat 14 e un cannone da 65 mm posto per la prima volta nella storia in una torretta girevole. Dato l’ampio settore di tiro in elevazione, poteva sparare anche a tiro curvo, come un obice. I suoi alti cingoli da territorio montano, gli consentivano di superare ostacoli fino a 1,10 m, di abbattere alberi e di travolgere vari ordini di reticolato. Le blindature laterali, dello spessore di 2 cm, proteggevano i dieci uomini di equipaggio dal fuoco delle armi leggere. Fu anche il primo carro armato a separare il vano motore da quello dell’equipaggio: un accorgimento essenziale dato che i fumi, come succedeva a volte negli altri carri armati stranieri, potevano asfissiare gli occupanti. Ne furono prodotti solo due esemplari perché, con il trionfo di Vittorio Veneto, il 4 novembre 1918, l’Italia fece terminare l’intera Grande Guerra un anno prima rispetto alle previsioni dell’Intesa. Dei Fiat 2000, solo uno ebbe il battesimo del fuoco, nel 1919 in Libia, dove ebbe facilmente ragione – con la sua sola deterrenza - dei ribelli arabi nella zona di Misurata. Poi rimase lì, abbandonato fra le sabbie africane. Il secondo carro, invece, era rimasto in Patria e nel ‘36 troneggiava ancora, come monumento, in una caserma di Bologna. Poi sparì: nel dopoguerra affamato di metallo, probabilmente, finì in fonderia. Passano 80 anni e, nel 2017, un gruppo di soci dell’Associazione Nazionale Carristi Italiani (A.N.C.I.) e di restauratori di veicoli militari d’epoca del “Raggruppamento Spa” di Fabio Temeroli leggono un articolo - firmato dallo scrivente - dedicato proprio al Fiat 2000 nel centenario della sua prima realizzazione. Il pallino di questi cultori era sempre stato quello di ricostruire un carro armato e il colosso perduto, pietra miliare nella storia industriale e militare italiana, fornisce l’ispirazione definitiva. Subito parte la caccia ai progetti. Si rintraccia il discendente del conte Bennicelli, padre del carrismo italiano, si fanno ricerche presso gli archivi Fiat e Ansaldo. Niente: si trovano solo uno spaccato longitudinale e varie fotografie d’epoca. Così, l’esperto progettista Mario Italiani, ex pilota di carri armati M 47 e oggi presidente della sezione A.N.C.I. di Zeccone, comincia a ricostruire virtualmente il carro con un programma di modellazione in 3D. “Sono partito con due schizzi generici – spiega Italiani - e non è stato facile dover interpretare qualcosa che non esiste più. Solo da poco, negli Stati Uniti, sono stati ritrovati alcuni progetti originali e ho potuto constatare con soddisfazione che le quote e i livelli corrispondono. Se per l’esterno possiamo parlare di un 100% di aderenza all’originale, per l’interno e le funzionalità meccaniche siamo all’85%. E’ stato emozionante entrare in contatto con l’intelligenza dell’ing. Cappa, uno dei più grandi progettisti dell’epoca”. Dopo un’avvincente avventura antiquaria, viene rintracciato il “modellino” (1,5 m di lunghezza) in legno del 1917 che restituisce dettagli preziosi come la rivettatura delle piastre, le maglie dei cingoli e le grandi ruote a razze. Dopo 1500 ore di lavoro (gratuito) il progetto è pronto, ma, piccolo dettaglio, mancano i fondi. Di questo si occupa un apposito comitato sotto l’egida del Presidente Nazionale dell’A.N.C.I che, dopo aver bussato a molte grandi aziende, fa partire una sottoscrizione - sponsorizzata soprattutto dalla sezione A.N.C.I. di Firenze - rivolta a tutti gli ex carristi e appassionati. Spiega il Generale Sabato Errico, presidente dell’Associazione d’Arma: “La decisione di patrocinare l’iniziativa, che pure si profilava di realizzazione molto difficile, è stata presa dal mio predecessore Generale Salvatore Carrara. Il nostro impegno come Associazione si è concretizzato oltre che con il metodico lavoro di riprogettazione, effettuato a titolo gratuito da appartenenti all’Associazione, anche da una intensa attività di coordinamento e di promozione del progetto. Significativa è stata l’adesione da parte dei carristi associati e simpatizzanti che hanno effettuato cospicue donazioni per sostenere parte dei costi. Desidero ringraziare tutti quelli che hanno offerto generosamente idee, dedizione, passione, lavoro e contributi volontari per aiutare la ricostruzione del primo carro armato italiano”. La sottoscrizione ha raccolto finora 35.000 euro, ma ancora non bastano tanto che la stessa è rimasta ancora aperta: per chi volesse contribuire al finanziamento del Fiat 2000 e lasciarvi impressa la propria firma, è possibile “acquistare” la maglia di un cingolo. Il nome del donatore verrà inciso su una targhetta magnetica da applicare sul pezzo mentre il carro è in esposizione. Ad anticipare le spese e a risolvere la situazione, ci ha pensato l’industriale Giancarlo Marin, titolare della Svecom PE S.r.l. e fondatore del Museo delle Forze Armate 1914-1945 che a Montecchio Maggiore (VI) accoglie gratuitamente 10.000 visitatori l’anno. “Al posto del sangue abbiamo olio idraulico - scherza Giancarlo Marin - Noi costruiamo macchinari per cartiere, caldaie ed alberi espansibili. Quando mi hanno proposto il progetto del Fiat 2000 l’adrenalina è andata a mille e siamo partiti subito. L’idea era quello di ricostruirlo nel peso e dimensioni originali, con le blindature da 20 mm per i lati e da 12 mm per la parte superiore. Abbiamo riprodotto i modelli delle maglie dei cingoli che abbiamo poi fatto colare in fonderia. Per il motore ci siamo orientati su un bel Fiat da 140 cavalli a 6 cilindri, degli anni ’50. Avremmo potuto sceglierne anche uno coevo, ma poi sarebbe stato un problema per i pezzi di ricambio. Questo si avvicina comunque molto all’originale. Le prove sono state soddisfacenti: il carro è riuscito a superare facilmente alcuni ostacoli. Preso lo collauderemo in campo aperto. Ora ci piacerebbe che le Forze Armate ci concedessero qualche modello storico o in dismissione per documentare l’evoluzione della specialità Carristi che annovera circa 1800 decorazioni al Valor Militare e metterli gratuitamente a disposizione dei visitatori. Auspichiamo infatti che il Fiat 2000 possa essere il primo carro armato per il nuovo Memoriale dei Carristi, che affiancato all'esistente Museo delle Forze Armate 1914-45 di Montecchio, sarebbe completamente dedicato ai corazzati italiani. Questo Museo, nato con qualche immancabile scetticismo di natura ideologica, ha poi convinto tutti nella zona, perché si limita a documentare il sacrificio di uomini che erano i nostri padri, nonni e bisnonni”. A fine novembre 2018 parte così la costruzione: in un baluginare di scintille si assembla lo scafo, vengono ridisegnate e fuse le piastre dei cingoli, montate le balestre e riprodotte in simulacro le mitragliatrici. Il Museo della Guerra di Rovereto dona il cannone originale da 65 mm, residuato ormai inerte. Mentre nel mondo le altre riproduzioni di carri armati d’epoca sono generalmente realizzate con motori elettrici, o scafi già esistenti riprodotti in lamiera leggera o vetroresina, il Fiat 2000 è l’unica ricostruzione fatta ex nihilo, senza progetti originali, in peso, dimensioni e corazzature reali, mossa da un vero motore a benzina. Non si tratta, quindi, solo della restituzione di un pezzo della nostra storia: è un simbolo di quello di cui sono capaci gli italiani, della loro eccellenza tecnica, oltre che della loro generosità e amor di Patria.
Aquila, la portaerei del Duce che doveva conquistare i mari. Dopo il raid nella "Notte di Taranto", la Regia Marina decide di convertire un elegante piroscafo in una portaerei. Il suo destino sarà sfortunato come pochi. Davide Bartoccini, Giovedì 15/10/2020 su Il Giornale. Quando all'alba del 12 novembre 1940, le ultime fiamme venivano domate a fatica nel porto di Taranto - dove gli aerosiluranti inglesi lanciati dalla portaerei HMS Illustrious avevano sorpreso alla fonda il grosso della flotta italiana -, agli alti papaveri della Regia Marina apparve evidente la letale efficacia dell'aviazione imbarcata. Per questo la decisione fu una sola e incontrovertibile: dotare al più presto la Regia Marina di una portaerei che potesse arrivare ovunque nel Mar Mediterraneo. Per dar battaglia alla Royal Navy e cercare di bilanciare, sebbene con grave ritardo, le forze in campo. La Supermarina, non appena ricevuto il rapporto dei danni subiti ("Hanno colato a picco la Cavour e gravemente danneggiato la Littorio e la Duilio", annotava quel giorno Galezzo Ciano), ordinava infatti di rispolverare un vecchio progetto del 1935. Progetto che prevedeva già allora, in chiave antibritannica, la conversione di uno scafo di grandi dimensioni per farne una portaerei: l'arma strategica che avrebbe inciso come poche nelle sorti del conflitto. Nasceva così il sogno dell'Aquila: la prima portaerei italiana che avrebbe imbarcato e lanciato in battaglia i caccia "azzurri" fregiati dal fascio littorio, dalla croce dei Savoia sulla coda. Il progetto del colonnello del Genio Navale Luigi Gagnotto prevedeva la conversione del transatlantico Roma, costruito per la Società "Navigazione Generale Italiana" di Genova dal cantiere Ansaldo di Sestri Ponente e varato nel 1926, per renderlo una portaerei con ben 27.800 tonnellate di dislocamento che misurasse, ponte compreso, 232 metri. Essa avrebbe dovuto imbarcare, tra il ponte di volo, gli hangar e l'ingegnoso sistema di "sospensione" al cielo del medesimo, oltre 50 velivoli. Si pensava ai cacciabombardieri monomotori Reggiane Re 2001 nella loro versione "navalizzata", designata come "OR", catapultabili ed equipaggiati con ganci d'arresto per il recupero sul ponte. L'Aquila sarebbe stata inoltre armata - per difendersi da naviglio e aeronautiche nemiche - con otto pezzi d'artiglieria singoli o binati da 135/45, una dozzina di pezzi antiaerei a tiro rapido da 65/54 e oltre un centinaio di mitragliere pesanti antiaeree da 20/65. L'equipaggio, compresi piloti e personale del gruppo aereo imbarcato, sarebbe stato di 1.420 uomini. Per consentirle di stare al passo con le altre navi da guerra della Regia, inoltre, l'apparato motori avrebbe dovuto sviluppare una potenza tale da garantire una velocità massima di 30 nodi per un'autonomia di 1.580 miglia marine (oltre 5mila ad una velocità media di 18 nodi). Secondo i piani della Supermarina, se l'Aquila avesse ottenuto i risultati sperati, vi sarebbe stata una seconda portaerei ugualmente progettata: la "Sparviero". Nell'estate del 1941, presso i cantieri Ansaldo, l'Aquila iniziò a prendere forma - nonostante la carenza di acciaio e altre materie che iniziavano a scarseggiare. Benché Benito Mussolini non avesse compreso fin dal prima momento la vera necessità di questa nuova arma - che agli ordini dei comandanti americani stava letteralmente stravolgendo il fronte del Pacifico e che nel Mediterraneo aveva salvato l'isola fortezza di Malta dall'assedio dell'Asse - i lavori proseguirono fino all'8 settembre del 1943; quando l'armistizio avrebbe visto passare completamente in secondo piano la necessità di una portaerei italiana. Sebbene ormai quasi pronta al varo nonostante i danni subiti durante i bombardamenti degli angloamericani ormai alleati. Al 9 di settembre la nave venne abbandonata al suo destino: questo non prima d'essere stata parzialmente sabotata. I tedeschi che occupavano Genova se ne impadronirono immediatamente affidandola all'autorità della Repubblica Sociale Italiana rimasta fedele al Duce. La speranza - o forse meglio dire il “sogno” - era di poterla mettere in linea con la Marina Nazionale Repubblicana. Così iniziarono i primi lavori per il completamento. Nonostante fossero appena una dozzina, in vero, i caccia “navalizzati” consegnati al Ministero dell’Aeronautica, che, oltre ad essersi dissolto e aver visto la Regia Aeronautica divenire cobelligerante e divisa dall’ Aeronautica Nazionale Repubblicana, li aveva già convertiti in “caccia notturni”. Resta infatti il dubbio di cosa sarebbe decollato dal ponte. Il sogno si sarebbe comunque infranto dalle bombe degli alleati, che cadevano senza posa nel Nord d’Italia, e mettendo spesso nella croce di collimazione delle “fortezze volanti” il porto di Genova. Dove l’Aquila si trovava ancora all’ancora. Dopo essere centrata più volte nel giugno del ’44, i tedeschi, sempre più a corto di acciaio da fondere per produrre le armi che dovevano difendere ciò che rimane del Reich, iniziarono a smantellarla, portando via con se ogni trave, ogni portello, ogni bullone o parte in qualche modo amovibile. L’Aquila venne disarmata e "spiumata" d’ogni tassello che l'aveva composta. Si tramutò in un macabro relitto ancora prima di aver tagliato con la sua prua una sola onda d’alto mare. Il colpo di grazia arrivò nell’aprile del 1945: quando uno dei siluri lenta corsa copiati dagli inglesi, i “Chariot”, la raggiunse durante quella che venne denominata "Operation Toast". I due operatori alla guida del maiale inglese, due italiani, piazzarono con successo le cariche e le fecero saltare per affondare la portaerei. Impedendo ai tedeschi affondarla altrove, per lasciare un ostacolo da ventimila tonnellate all’imboccatura del porto di Genova. Approdo altresì utile per gli alleati che proseguivano la guerra nel nord. Rimase là, semisommersa, a metà del porto, in quello che era già noto come il bacino della Lanterna. Ad attendere lo scorrere degli eventi mentre la salsedine ne corrodeva le finiture e mentre i pesci azzurri, come gli aerei che avrebbero dovuti accogliere, nuotavano placidi negli hangar. Al sicuro dal frastuono delle esplosioni che sarebbero terminate solo il 2 maggio del 1945. Tre anni dopo venne rimorchiata a La Spezia per restare sempre a mezz'acqua, spogliata, ad attendere delle riparazione che avrebbero almeno consentito alla scafo di tornare ai vecchi fasti. E riprendere il mare per uso civile. Il transatlantico Roma, del resto, collegava Genova a Napoli, e Napoli a New York. Portando passeggeri più o meno raffinati nel "nuovo mondo", ad ascoltare il jazz e vivere l'ultimo colpo di coda degli anni ruggenti. Le difficoltà riscontrate nelle riparazioni e i costi altissimi previsti per riportare la "portaerei mancata" allo stato di piroscafo di linea, tuttavia, segnarono il suo destino: la demolizione nel 1952. Dovranno passare altri 31 anni prima che un aereo da combattimento dell'Aviazione di Marina - non più Regia - decolli dal ponte di volo di una portaerei italiana. Nel giugno del 1983, viene varato l'incrociatore portaeromobili Giuseppe Garibaldi. Dal cui ponte decolleranno, e decollano ancora, gli Harrier. Aerei di fabbricazione inglese - quasi uno scherzo del destino -, non belli e affascinanti come i Re.2001 Falco II "azzurri" che storici e appassionati sognano, ma poco importa: questa è la storia.
Sorvoliamo le polemiche e ricordiamo Italo Balbo. L'Istituto di Storia contemporanea accampa esclusive inesistenti. E non accetta il confronto. Vittorio Sgarbi, Domenica 04/10/2020 su Il Giornale. Mentre la mostra di Banksy chiude a palazzo dei Diamanti a Ferrara con più di 65000 visitatori, si accendono le polemiche per la mia decisione, in qualità di presidente di Ferrara Arte, di dedicare una mostra a Italo Balbo. Sono noti a tutti i suoi meriti nelle imprese aeronautiche, culminate nella Trasvolata dell'Atlantico, proiettata in una dimensione mitologica. Nel 1926 gli viene affidato, con la carica di sottosegretario al ministero dell'Aeronautica, il compito di creare una vera forza aerea militare, che corona la sua passione per il volo. Un ulteriore riconoscimento arriva nel 1928 con la promozione a generale di squadra aerea, seguita qualche mese dopo dalla nomina a ministro dell'Aviazione. Nel periodo tra il 1930 e il 1933 è egli stesso a misurarsi vittoriosamente come trasvolatore, guidando dapprima una squadra di idrovolanti da Orbetello a Rio de Janeiro e, successivamente, un'altra squadra dall'Italia al Canada e poi negli Stati Uniti, dove è accolto trionfalmente. È ricevuto dal presidente Roosevelt, e in onore suo e dei suoi equipaggi viene organizzata una grande parata. Gli è anche intitolato un viale a New York. È il secondo italiano a ricevere simili onori, dopo Armando Diaz alla fine della guerra del '14-18, e Mussolini lo nomina Maresciallo dell'Aria.
Ripreso il suo lavoro di ministro, si concentra sugli aspetti militari dell'aeronautica, ma la sua posizione non è più così solida. I successi e la popolarità lo contrappongono a Mussolini che decide di «ricollocarlo», assegnandogli un incarico apparentemente prestigioso come quello di governatore generale di Tripolitania e Cirenaica, che nel dicembre 1934 vengono unite. In realtà, Mussolini ha relegato il gerarca ai confini dell'impero. Clamorosa è la posizione di Balbo anche rispetto alle persecuzioni razziali contro gli ebrei, che ne riscattano l'immagine. È dunque il momento di studiarne senza fanatismi e senza pregiudizi la figura. Una proterva iattanza e una totale assenza di rispetto per le istituzioni fanno comicamente recitare agli antagonisti, con un atteggiamento di superiorità incomprensibile, attraverso la citazione di un pensatore reazionario come Cioran, «un profondo disagio, per lo più derivato dal triste spettacolo delle polemiche scatenate dall'ipotesi di allestire una mostra fotografica dedicata alla trasvolata oceanica» di Italo Balbo. Nessuna polemica e nessun «percorso espositivo» annunciato da me, tanto meno in contrasto con la mostra progettata dall'Isco (Istituto di Storia contemporanea) e rivendicata dalla signora Quarzi che lo presiede. Solo fantasie e confusione di ruoli. Io ho semplicemente confermato la programmazione di Ferrara Arte, istituzione da me presieduta, ipotizzando e auspicando un coordinamento di iniziative per la mostra su Italo Balbo, affidata alla cura del massimo studioso del personaggio: Giordano Bruno Guerri. Casualmente, incrociando la predetta signora, che presume una esclusiva sul gerarca fascista, sono stato informato del suo lodevole progetto, e mi è stato intimato di non pensare a iniziative che vadano oltre la trasvolata, forse ritenuta meno fascista della impresa libica o della amicizia con il podestà ebreo di Ferrara, Renzo Ravenna, e con Nello Quilici, padre di Folco, abbattuto nell'incidente aereo di Tobruk. Ho semplicemente tentato di dire che la mostra era istituzionalmente programmata da Ferrara Arte e che sarebbe stato opportuno collaborare, scatenando una incomprensibile alzata di scudi per una contrapposizione che non c'era e che non c'è. Vedo che, senza alcun confronto e discussione, pretendendo una insensata esclusiva su Balbo e sulla storia, e rivendicando naturalmente «una attività di promozione della ricerca scientifica», come se gli altri si muovessero con mezzi approssimativi e artigianali, la signora Quarzi esclude ogni collaborazione del suo Istituto con me. E ha ragione: io infatti non c'entro nulla, e non ho proposto metodi e modelli. Né avrei mai pensato di collaborare con lei, come non ho fatto in tanti anni. Ho semplicemente annunciato il titolo di una mostra, con un curatore che non sono io. La valutazione dei metodi e del merito va tutta al professore Guerri, illustre storico e specialista provato di Balbo. Ma i pregiudizi, senza confronto e attenzione per gli altri, sono l'espressione di una presunta superiorità culturale propria di una visione giudiziaria della storia. Per quello che mi riguarda, io ero semplicemente amico fraterno di Folco Quilici e, attraverso di lui, del figlio di Balbo, Paolo, frequentato a Roma, e persona desiderosa che io approfondissi la conoscenza del padre in numerosi incontri, e affidandomi suoi studi, documenti e memorie che ho gelosamente conservato. Con lui, con Folco, con Guerri abbiamo parlato di restituire a Italo Balbo l'onore e il merito che gli spettano, nel rigore di una ricerca storica documentata e corretta, senza pretese agiografiche o celebrative, o supposte indulgenze, proibite dal dogma del politicamente corretto e dalle intimazioni della signora Quarzi. Paolo Balbo non chiedeva indulgenza per il padre, ma pretendeva obbiettività storica, e giudizio sereno, come Guerri ha sempre garantito. «Custode della memoria», la sua devozione alla figura del padre lo induceva a difenderne la memoria non solo dalla faziosità di certo antifascismo, ma anche dai tentativi di strumentalizzazione della destra. Il dialogo con me era aperto e franco, e non occorreva che io chiedessi a Guerri di interpretarne fino in fondo lo spirito. Non credo che dovremo rispettare le prescrizioni e i limiti stabiliti dalla signora Quarzi. Per quello che mi riguarda, chiamato in causa senza ragione, per una idea o proposta, nel mio legittimo ruolo di presidente della fabbrica o «officina ferrarese» delle mostre (non di curatore), manterrò fede alla amicizia con Paolo, chiedendo al Sindaco e all'ufficio Toponomastica del Comune di Ferrara di istruire la pratica per dedicare una strada o una piazza all'universalmente ammirato trasvolatore. Non di più, mi raccomando!
Italo Balbo ovvero il Cavaliere del Cielo. Giovanni Vasso il 29 Giugno 2020 su culturaidentita.it. Ottant’anni fa moriva il Maresciallo dell’Aria, Italo Balbo (ve ne abbiamo parlato anche qui). Come scrive Marcello Veneziani “…un mito in America e nel mondo dopo le sue temerarie trasvolate dell’Atlantico”, raggiungendo una popolarità che “insidiò quella del Duce, che a un certo punto lo mandò in Libia come governatore”. Oggi ricordiamo il Maresciallo dell’Aria proponendovi l’articolo di Giovanni Vasso pubblicato sul numero di aprile di CulturaIdentità (Redazione).
Tra storia e leggenda, si racconta che un fin troppo zelante funzionario dell’Ambasciata italiana in America, alla fine della Seconda Guerra Mondiale, chiedesse al sindaco di Chicago di “cancellare” l’intitolazione di una strada al Grande Capo Aquila Volante. E che il sindaco, sbigottito, gli abbia risposto: “Perché? Italo Balbo non ha forse trasvolato l’Atlantico nel ‘33?”. Siamo rinchiusi in casa, con l’illusione d’avere il mondo a portata di mano. Il maledetto virus, vigliacco, ci ha confermato quanto fossimo in errore. Impossibilitati a uscire, anche conquistare il pianerottolo ci risuona quale atto di forza e coraggio. Il senso di conquista, non per forza sinfonia militaresca, non può prescindere dall’esperienza fisica: avere la possibilità di chattare, a ogni ora del giorno e della notte, con qualcuno in Perù non sarà mai come salire sulle Ande. Italo Balbo non fu (solo) una personalità di spicco del regime fascista. Fu, probabilmente, uno degli ultimi esploratori, capace di lanciarsi in imprese che, ben presto, ne fecero una celebrità internazionale, costringendo Benito Mussolini a confinarlo, promoveatur ut amoveatur, governatore nella Libia. Fosse stato docile e quieto, Balbo sarebbe passato alla storia, sì, ma occupando solo qualche pagina locale: il ras di Ferrara, dove era nato nel 1896. Invece non ebbe mai esitazioni a schierarsi, a lottare, a esplorare. Folgorato dai futuristi, in politica divenne più “realista”, ma non tradì mai quell’impostazione “filosofica” nell’approccio alla vita. Dopo aver rimesso ordine alla Milizia, poteva fare il boiardo di Stato. Invece, all’Arma azzurra, decise di celebrarne alla grande il decennale con la crociera nord-atlantica: Orbetello, Chicago, New York, Roma. Un precedente italiano c’era già stato: nel ’30, un’altra crociera aerea guidata da Italo Balbo aveva collegato l’Italia al Brasile. Prima ancora, nel ’27 e nel ’28, due “crociere” furono celebrate nel Mediterraneo, l’una a Ponente, l’altra a Levante. Eppure sarà quella americana a consacrare, nel mondo, il mito di Italo Balbo. Le otto squadriglie, composte da 25 idrovolanti Savoia Marchetti, si alzarono in volo il primo luglio e raggiunsero l’Esposizione Universale di Chicago il 15 luglio. L’atterraggio di Balbo e dei suoi scatenò un entusiasmo generale. Chicago e gli Stati Uniti furono grati all’impresa dei trasvolatori italiani. La città cambiò nome alla 7th Avenue, che prese ora il nome dal comandante ferrarese alla cui impresa, poi, fu dedicato un monumento. Gli indiani Sioux, persino loro, vollero incontrare Balbo: il capo Blackhorn gli conferì un copricapo piumato e il titolo di Grande Capo Aquila Volante. Roosevelt volle riceverli alla Casa Bianca e quando il corteo arrivò a New York, in loro onore, si tennero parate e cerimonie. In quello stesso anno, nel ’33, uscì al cinema il film-documentario “Mussolini speaks”, dello scrittore Lowell Thomas, che fece salire alle stelle la simpatia degli americani verso l’Italia. Fu un’operazione straordinaria, quella. Oggi si chiamerebbe di soft power: senza torcere un capello a nessuno, s’ebbe a ristabilire prestigio e orgoglio, nazionale e internazionale. A maggior ragione in America; si pensi che solo un pugno di anni prima a essere italiani, negli Usa, si rischiava grosso: persino di morire, innocenti, su una sedia elettrica: come Sacco e Vanzetti nel ‘27. La trasvolata diede tanto all’Italia e moltissimo a Balbo. Che, in politica (specialmente estera) aveva idee dissonanti rispetto a quelle del capo del Fascismo. Temendone il prestigio, Mussolini lo spedi in Tripolitania e Cirenaica dove l’Aquila Volante, che rispolverò dalle sabbie del deserto i tesori antichi della grecità e della romanità, riuscì a lavorare per la modernizzazione del Paese, a richiamare con successo le famiglie di coloni italiani e a tessere finalmente un dialogo con le popolazioni locali, lo stesso che la brutalità della repressione organizzata dal generale Rodolfo Graziani sembrava aver reciso per sempre. L’entrata in guerra dell’Italia, il 10 giugno del 1940, la visse da voce fuori dal coro. Come s’era ribellato alle leggi razziali, così aveva tentato di farsi portavoce della neutralità. Eppure dovette accettarlo. Morì pochi giorni dopo a Tobruk, il 28 giugno dello stesso anno, quando un colpo disgraziato della contraerea italiana centrò il velivolo sul quale stava rientrando in Libia. Insieme a lui perse la vita Nello Quilici, amico di una vita, a cui aveva affidato la direzione del giornale Corriere Padano che aveva fondato. La vedova di Balbo non si rassegnò alla disgrazia e come lei furono (e sono ancora…) in tanti a leggere come un delitto quello che sembrò a tutti un tremendo, doloroso e beffardo equivoco di morte.
Regno Unito, quando l'Italia fascista voleva uccidere re Edoardo VIII. Pubblicato lunedì, 29 giugno 2020 da La Repubblica.it. Un re britannico con simpatie per Hitler. Un complotto per assassinare il monarca, coadiuvato dall'ambasciata d'Italia a Londra. E un cover-up dell'Mi5, il controspionaggio di Sua Maestà, per nascondere un imbarazzante errore. O un ancora più imbarazzante doppio gioco per disfarsi di un sovrano filonazista. Sembra un giallo uscito dalla penna di Graham Greene o John Le Carré. Invece è una storia vera, rimasta sepolta per quasi un secolo negli archivi di stato del Regno Unito. Nei quali in effetti continua a essere custodita. Senonché uno storico inglese, facendo ricerche nella biblioteca di un college di Oxford, ha trovato un memoriale che racconta almeno un pezzo di questa incredibile vicenda. I particolari saranno in "The crown in crisis: countdown to abdication" (La corona in crisi: conto alla rovescia verso l'abdicazione), il libro-inchiesta che il professor Alexander Larman pubblicherà in Inghilterra il 9 luglio. Ma la sostanza viene anticipata stamane dal Guardian. Al centro della complicata trama c'è Edoardo VIII, che regnò per alcuni mesi nel 1936, prima di abdicare dal trono per sposare una divorziata americana, Wallis Simpson: uno strappo alla regola che gli avrebbe reso impossibile rimanere alla testa della monarchia. Al suo posto diventò re Giorgio VI, padre dell'attuale regina Elisabetta. Una controversia che aprì una grave crisi per la Gran Bretagna: negli anni seguenti l'ex-re Edoardo, assunto il titolo di duca di Windsor, incontrò in Germania il Fuhrer e tramò a favore del Terzo Reich. Nel breve tempo in cui rimase sul trono, Edoardo subì uno strano attentato. Un giorno, mentre andava a cavallo vicino a Buckingham Palace, un informatore dell'Mi5 di nome George McMahon estrasse una pistola di tasca e prese la mira per sparargli: ma una donna tra la folla se ne accorse, si aggrappò al suo braccio facendogli mancare la mira, un poliziotto intervenne prontamente colpendolo con un pugno e la rivoltella volò in strada finendo per colpire il destriero del re. Arrestato e processato, McMahon sostenne che una potenza straniera lo aveva pagato per assassinare il re, affermando tuttavia di avere deliberatamente mancato il colpo. Descritto come un mezzo squilibrato, fu condannato soltanto a 12 mesi di prigione per possesso illecito di arma da fuoco e comportamento pericoloso. E veniamo ai nostri giorni. Qualche mese fa lo storico Alexander Larman si reca alla biblioteca di Balliol College, presso l'università di Oxford, per fare ricerche sul suo libro su Edoardo VIII. Cerca le memorie di Walter Monckton, un consigliere del re. Ma insieme a questa trova, a sorpresa, un manoscritto inedito e di cui finora nessuno conosceva l'esistenza scritto di suo pugno da McMahon, il tentato assassino del sovrano. Qui entra in gioco il nostro paese, all'epoca sotto la dittatura fascista di Benito Mussolini. Nel manoscritto, infatti, McMahon scrive di essere entrato in contatto con emissari italiani durante la guerra di Abissinia, nella quale era coinvolto come trafficante d'armi, e che tornato a Londra viene assunto dall'Ambasciata d'Italia con vari compiti, tra cui quello di assassinare re Edoardo. Il racconto di un pazzo? Non del tutto, perché Larman rivela che documenti recentemente declassificati dei servizi segreti britannici indicano McMahon come un informatore dell'Mi5, il controspionaggio, al quale passava informazioni sull'ambasciata italiana. Conclude lo storico: "McMahon informò l'Mi5 che nell'estate del 1936 ci sarebbe stato un tentativo di assassinare il re. Ma il controspionaggio ignorò l'informazione, giudicandola poco credibile. Quando l'attentato ci fu davvero, il 16 luglio di quell'anno, fu enormemente imbarazzante per l'Mi5, che mise in moto un cover-up per nascondere il proprio errore di valutazione". Ma è verosimile anche un'altra ipotesi, osserva l'autore: "Che l'Mi5 fosse a conoscenza dei piani di McMahon per assassinare Edoardo VIII e lo abbia lasciato andare avanti per eliminare un re internazionalmente imbarazzante per le sue dichiarate simpatie per il nazismo". La realtà a volte supera la fantasia romanzesca. Non si può escludere che qualcuno, ai vertici dell'intelligence britannica, scoperto il complotto abbia sperato che andasse a buon fine. Un imprevisto lo fece fallire. E un'altra catena di eventi, meno sanguinosa ma ugualmente drammatica, ha poi portato Edoardo a uscire egualmente di scema, abdicando per amore, lasciando a un altro re, suo fratello minore Giorgio VI, e al suo primo ministro Winston Churchill, il compito di sconfiggere Hitler. Rimane un punto oscuro da chiarire: se fu davvero l'Italia a tramare per fare assassinare un sovrano sostenitore della Germania nazista, all'epoca alleata di Mussolini. Che interesse avrebbe avuto il Duce a un risultato simile? Una possibile risposta sta nel nome di colui che era all'epoca l'ambasciatore italiano a Londra: Dino Grandi, capofila dell'ala moderata del fascismo, per anni ministro degli Esteri, rimosso dall'incarico nel 1932 da Mussolini che lo accusava di essere "andato a letto con il Regno Unito" e spedito in una sorta di esilio dorato appunto a Londra nei panni di ambasciatore, incarico mantenuto sino al 1939. Tre anni più tardi fu proprio Grandi a firmare l'ordine del Gran Consiglio che portò alla caduta del fascismo e all'arresto del Duce. C'era dunque il suo zampino anche nel tentato assassino di re Edoardo? Era d'accordo con l'Mi5? Ci vorrebbe un altro giallo per scoprirlo.
· Socialismo e scissioni.
La nascita del Partito Comunista scisso dal Partito Socialista e dal Partito Fascista.
Chiedimi chi erano i comunisti. Simonetta Fiori su La Repubblica il 19 novembre 2020. Lo strappo coi socialisti un secolo fa ha segnato per sempre il Pci e poi la sinistra. Una "dannazione" dice Ezio Mauro. Che in un libro racconta un pezzo della nostra storia. E qui anche un po' della sua. Il grande romanzo della sinistra italiana comincia da un peccato originale che Ezio Mauro nel suo ultimo libro ha chiamato "dannazione". È un sortilegio, una coazione a dividersi, che cent'anni fa - il 21 gennaio del 1921 - trovò la sua culla simbolica nel Congresso di Livorno, con la scissione dei socialisti e la nascita del partito comunista d'Italia. La sua storia è consegnata a un'ampia bibliografia, ma nessuno l'ha raccontata con lo sguardo di un grande giornalista che torna nei luoghi, i passi che dividono il Teatro Goldoni dal vecchio Teatro San Marco, cerca nei palchi a sinistra, nascosto nell'ombra, il busto di Gramsci e in platea, a destra, la barba lunga di Turati. "È una lezione che arriva da Nabokov", dice Mauro dal suo studio romano, alle spalle una parete di libri dedicata alla Russia. "Sono i dettagli a trasformare un materiale inerte in qualcosa che merita di essere letto: li definiva "note a piè di pagina nel volume della vita" che rappresentano "una forma suprema di consapevolezza"". Alle giornate congressuali, ricostruite sotto una luce inedita grazie a un'aggiornata ricerca archivistica, fa da controcanto la tumultuosa storia del socialismo italiano, all'ombra del pericolo fascista che avanza. Una vicenda drammatica che, nell'eterno conflitto tra radicalità e riformismo, avrebbe segnato l'intero Novecento. E dove le ragioni della storia faticano a trovare quelle della politica. A questa epopea della sinistra non è estraneo l'autore, direttore prima della Stampa e poi per vent'anni di Repubblica, di cui è oggi editorialista. "Posso dire di aver sempre cercato la sinistra. L'ho cercata soprattutto attraverso il mio lavoro".
Partiamo dalle convulse giornate di Livorno. Il congresso rappresentò una novità nella politica italiana.
"Per la prima volta comparve una cinepresa a un congresso di partito. E, davanti al teatro Goldoni, i leader venivano immortalati dal fotografo ufficiale con i lampi di magnesio. Fu un grande spettacolo nazionale, ma soprattutto fu una pagina inedita della storia politica: non era mai accaduto che una rivoluzione venisse discussa in pubblico, sotto gli occhi di migliaia di carabinieri, soldati e guardie regie che presidiavano il campo".
Nel libro riveli che c'erano molti agenti segreti in azione. È un aspetto che non è mai stato raccontato.
"Ci fu un intenso lavorìo tra prefettura, questura e ministero degli Interni per intercettare le conversazioni telefoniche dei congressisti accorsi a Livorno. Dovettero dirottare il controllo sulla centrale di Pisa perché nella sede telefonica di Livorno la maggior parte dei lavoratori era iscritta "ai partiti estremi". Questo fa capire come il potere considerasse i socialisti degli eversori. E d'altra parte, indipendentemente dalle correnti - riformista, massimalista e comunista - , non c'era nessuno che non si considerasse rivoluzionario".
La rivoluzione russa era arrivata con una forza irresistibile.
"Era stata una formidabile spallata ai tempi della storia, come se improvvisamente si fosse accorciato l'orizzonte socialista e la rivoluzione fosse a portata di mano. Anche Filippo Turati non aveva saputo resistere al fascino rivoluzionario di Kerenskij, come dimostrano le lettere scambiate tra il 1917 e il '18 con la compagna Anna Kuliscioff. Poi entrambi avrebbero preso le distanze dalla fase bolscevica".
Fu Lenin a chiedere l'espulsione della corrente riformista. La scissione nasce da questo.
"In larga maggioranza il partito votò contro l'ultimatum di Mosca e la frazione comunista abbandonò il Teatro Goldoni per andare a fondare il nuovo partito nel vicino Teatro San Marco. La cosa sorprendente è che il congresso sembra ipnotizzato da se stesso, incapace di capire ciò che accade nel Paese: lo squadrismo fascista è già molto attivo ed è singolare che rimbalzi pochissimo dentro il teatro. Nel profluvio di parole che i congressisti si scagliano addosso, il concetto di libertà non appare quasi mai. In pochi avvertono il pericolo fascista che avanza".
Quasi tutti pensavano che fosse un fuoco di paglia destinato a spegnersi. Solo due anni dopo, in una lettera a Togliatti, Gramsci definirà la scissione di Livorno il "trionfo della reazione".
"Lo dice anche Giacinto Menotti Serrati in una lettera inedita a Jacques Mesnil che ho trovato negli archivi della Fondazione Feltrinelli: "Ci divoreremo tra di noi e la borghesia finirà per avere qualche poco di pace". Non sappiamo se la storia avrebbe cambiato il suo corso, ma certo le divisioni all'interno del movimento operaio favorirono l'ascesa del fascismo. Nel 1919 Mussolini aveva avuto un risultato elettorale deludente".
A Livorno viene sancito un destino permanente della sinistra italiana che è la condanna a dividersi. Un sortilegio che si ripeterà nel tempo.
"In realtà la dannazione si era presentata fin dal principio: già nel 1892 a Genova, nel congresso che dà origine al Partito dei lavoratori, Turati e Prampolini avevano invitato gli anarchici ad andarsene. E ancora nel 1912 c'era stata un'altra scissione con la cacciata dei gradualisti tra cui Bissolati e Bonomi".
Il conflitto tra riformismo e radicalità è una costante della sinistra. Vittorio Foa tendeva a rappresentarla con la sua consueta ironia: tra riformisti e rivoluzionari non c'è alcuna differenza perché i riformisti non fanno le riforme e i rivoluzionari non fanno la rivoluzione.
"Foa è stato uno dei miei punti di riferimento. Ma ora mi viene in mente la battuta di un dirigente locale: "Il socialismo è quello che il suo tempo lo fa". È la storia che di volta in volta privilegia la componente riformista o quella "intransigente". Se uno reinterpreta quegli accadimenti con il senno di poi - ma è troppo facile! - le ragioni della storia sono dalla parte di Turati, del suo gradualismo riformista. Il problema è che il leader socialista non riesce a tradurle in una pratica politica. E queste ragioni non gli vengono riconosciute nel momento in cui vive".
È evidente la tua simpatia per Turati.
"Sì. Ma sono affascinato anche da una figura per molti aspetti agli antipodi che è Antonio Gramsci. Entrambi non sono solo dei militanti, ma provano a mettere in campo una teoria politica. Quella gramsciana dei consigli di fabbrica incontrò molte diffidenze nel partito e nel sindacato. Fu messo sotto accusa per il fallimento della stagione rivoluzionaria con l'occupazione delle fabbriche a Torino. Ed è anche per queste critiche che Gramsci non parlò al congresso. Nonostante il suo nome sia stato invocato più volte dalla platea, preferì non sporgersi dal palco".
A proposito della dannazione, tu scrivi che è come se la dinamica dei corpi sociali fosse indipendente dalla teoria. I socialisti predicano fratellanza e solidarietà ma non riescono a praticarla, dividendosi costantemente in fazioni.
"Il socialismo è stato un'infaticabile fabbrica di teorie e di modelli sociali, ma ha finito per prevalere il settarismo: ogni corrente ha ritenuto che il proprio modello ideale fosse migliore di quello degli altri. Da qui deriva la tragedia della sinistra italiana: gli avversari dentro lo stesso campo politico diventano i principali nemici. Ed è un destino che ha colpito anche la mia generazione".
Nel libro racconti come nasce la scintilla socialista. Ma in te quando è scoccata la fiammella della sinistra?
"Il primo a parlarmi di politica è stato uno zio che abitava accanto a casa mia a Dronero. Era anticlericale come mio padre e lo ricordo seduto in poltrona immerso nella lettura dell'Espresso formato lenzuolo".
Un liberale di sinistra?
"No, decisamente un uomo di sinistra. Poi sono andato avanti confusamente per conto mio. Con un vantaggio enorme rispetto alla leva precedente: la mia generazione è arrivata alla politica adulta con il Sessantotto e l'invasione della Cecoslovacchia per cui non ha dovuto sciogliere il nodo del sovietismo. Ci siamo tutti battezzati alla politica diventando contemporaneamente di sinistra e antisovietici".
Tu facevi politica?
"No, non direttamente. La facevo attraverso i giornali che inventavo ovunque io fossi: prima in collegio, poi al liceo, e nel mio paese, dove ancora escono regolarmente alcune di quelle testate. La prima volta fu in terza media: ero compagno di classe del figlio del tipografo di Dronero che aveva un ciclostile. Ma la preside mise fine bruscamente all'avventura".
Cosa voleva dire essere di sinistra?
"Nella parte d'Italia dove vivevo, nel basso Piemonte al confine con la Francia, significava stare all'opposizione rispetto al potere politico: era una zona fortemente democristiana che in questi ultimi decenni ho visto mutare dai toni felpati della Dc all'urlo leghista. Allora lo scudocrociato era il nostro avversario. Con i miei amici passavamo ore a sfigurare i loro volantini in sostegno di questo o quel sindaco: al posto del "sì" incollavamo un "no" e poi facevamo volantinaggio nel segno del rovesciamento".
Un incontro che ti ha segnato?
"Norberto Bobbio, professore di Filosofia del diritto: è stato il primo corso che ho seguito alla facoltà di Legge, a Torino. Una volta entrò in classe buttando la cartella sul tavolo: erano appena accaduti i fatti di Avola e Battipaglia, le rivolte contadine soffocate dalla polizia nel sangue. Ha cominciato a camminare su e giù davanti alla cattedra e con uno dei suoi scatti nervosi si è rivolto a noi: ma insomma, alla vostra età e con quel che è successo, non avete niente di meglio da chiedermi che farvi lezione? Fece una dissertazione sulla violenza".
Poi hai approfondito l'amicizia grazie al lavoro.
"Mi ricordo la lunga lettera che gli scrissi nel 1990 durante il volo da Mosca a Torino. Ritornavo alla Stampa come condirettore accanto a Paolo Mieli, dopo tre anni di corrispondenza in Urss per Repubblica. Sentivo il bisogno di raccogliere i vari pezzi della mia esperienza giornalistica - cronista del terrorismo, giornalista parlamentare, il lavoro in Russia durante la perestrojka - per impostare la fase nuova che mi aspettava. La Stampa rappresentava un potere forte, la Fiat. Ed era radicata nel quotidiano la linea culturale dell'azionismo. A me interessava l'autonomia del giornale dalla politica, e l'autonomia della politica dai poteri forti. Avvertivo l'urgenza di dialogare su questo con Bobbio. Si può dire che ho sempre cercato la sinistra. Anche attraverso il mio lavoro".
Sulla Stampa, sotto la tua direzione, le voci dell'azionismo erano molto presenti in prima pagina.
"Era giusto che trovassero libera espressione. E anche Repubblica è stata il tentativo di unire la cultura liberalsocialista agli altri pezzi della sinistra italiana. In questi lunghi anni è capitato che qualcuno per insultarmi mi abbia detto: azionista! Io tra me e me rispondevo: magari...".
Nel libro racconti la Torino del primo Dopoguerra dove avviene l'incontro tra Gramsci e Gobetti, tra la matrice comunista e la cultura liberale che si apre al socialismo. Quanto ha contato la memoria storica di Torino nella tua formazione?
"Moltissimo. È qui che è cominciato il mio lavoro di cronista. La Gazzetta del Popolo è stato un grande amore dove ho fatto anche il sindacato: chiuso nel 1974, il giornale continuò a uscire grazie a una cooperativa di giornalisti e poligrafici. Lavoravamo di giorno e di notte occupavamo la redazione, con grandi avventure, grandi amori, grandi amicizie. Quello che ho imparato politicamente lo devo al mestiere. Soprattutto negli anni del terrorismo, che è stata la guerra della mia generazione".
In che modo ne è uscita fortificata la tua coscienza di sinistra?
"Nell'ottobre del 1977 le Br gambizzarono Antonio Cocozzello, un consigliere comunale democristiano che era stato protagonista delle lotte contadine in Basilicata. Aveva studiato grazie al sindacato. Arrivai quando i soccorritori gli stavano tagliando i pantaloni: lo vidi a terra, dolorante, le mutande da mercato che poteva avere mio nonno. Mi indicò una cartellina di plastica marrone: per favore, portala alla Cisl, dentro ci sono le pratiche di due pensionati. Tornato al giornale, lessi il comunicato dei terroristi che lo indicava come "servo delle multinazionali". Il giornalismo mi ha messo sempre davanti i fatti, aiutandomi a capire come stanno veramente le cose".
Hai sempre votato a sinistra?
"Sì, ma ponendomi ogni volta una domanda: cosa serve al Paese che io faccia? E la risposta è sempre stata il voto a sinistra".
Hai avuto rapporti più stretti con qualcuno dei leader storici del Pci?
"Ho incontrato molte volte Giancarlo Pajetta, sia a Torino che a Mosca. E ho avuto un buon rapporto con Enrico Berlinguer, anche se intorno a lui si formava sempre un semicerchio di rispetto: la sua estrema riservatezza ti obbligava a un passo di distanza. Ma alla fine di un'intervista, nella sua stanza di Botteghe Oscure, mi sorprese parlandomi di Juventus".
Chi speravi fosse il suo successore alla guida del partito?
"A un certo punto ho sperato in Luciano Lama, un leader dalla personalità carismatica. Mi ricordo le lunghe chiacchierate davanti alla sua scrivania di ferro. Quando Lama morì, l'avvocato Agnelli mi raccontò di essere andato a trovarlo nei giorni della malattia e che lo fece sedere sul suo letto. "Oggi posso dire quello che disse mio nonno quando morì Bruno Buozzi: è morto un galantuomo"".
Li hai frequentati sempre per lavoro?
"Sì. Anche se posso dire di aver visto Alessandro Natta in pigiama. Lo seguii in Cina per una visita a Deng Xiaoping, che ci apparve con una potenza scenica straordinaria. Una notte arrivò dall'Italia la notizia del conflitto su Sigonella tra il presidente del consiglio Craxi e l'amministrazione americana. Ci precipitammo a svegliare il segretario del Pci. Ma Natta si rifiutò di fare dichiarazioni".
Quando hai visto cambiare i comunisti?
"Il cambiamento era cominciato nel 1981, con lo strappo da Mosca. Ma purtroppo non li ho visti cambiare abbastanza. Berlinguer ha fatto il passo più importante, ma era tutto interno all'orizzonte comunista. È una questione che ho discusso con Gorbaciov a Mosca: anche il segretario del Pcus era riuscito a dare una spallata decisiva al sistema sovietico, ma ne è rimasto dentro. Non è stato capace di trovare l'apriscatole che lo proiettasse fuori".
Dalla Russia ti sei portato indietro amicizie comuniste?
"L'unica fotografia che conservo è quella insieme a Sacharov, il fisico dissidente riabilitato da Gorbaciov nell'86. Ci vedevamo spesso a casa sua, in cucina, insieme alla moglie Elena Bonner. Si sarebbe potuto accomodare nel ruolo dell'ex perseguitato omaggiato dal mondo, invece aveva a cuore il cambiamento radicale del sistema sovietico, con la battaglia per i diritti: immune da qualsiasi spirito vendicativo, guardava in avanti".
Oggi lamenti che la sinistra in Italia non abbia un nome e un'identità.
"I due nomi che l'hanno definita nel secolo precedente sono durati uno troppo a lungo, il comunismo, finito solo dopo il crollo del Muro di Berlino, e l'altro troppo poco, il socialismo, suicidatosi in una pratica politica condannata da Tangentopoli. I socialisti avevano le ragioni della storia, ma non le hanno sapute tradurre nella politica. I comunisti hanno avuto la forza politica senza avere le ragioni della storia. E non sono stati capaci di fare il rendiconto conclusivo. Per anni ho sperato che socialisti e comunisti risolvessero la loro dannazione, ma così non è stato".
Che cosa significa per te essere di sinistra?
"Significa credere nella possibilità di un cambiamento, mettendosi dalla parte di chi ne ha più bisogno. Ho gli stessi amici dai tempi del liceo e ogni volta ci diciamo: ci siamo tutti - più o meno - e siamo ancora intatti, nel senso che siamo rimasti fedeli a un'identità che è anche la cifra del nostro stare insieme".
A chi guardi per il futuro della sinistra italiana?
"Tanti anni fa mi sono augurato un papa straniero. Oggi spero che una nuova figura venga da quella che Turati definiva la "borghesia del lavoro": qualcuno che voglia spendere le sue esperienze di vita e le sue competenze nell'avventura della sinistra italiana. Il problema è che se questo potenziale leader vuole cercare la casa del partito della sinistra italiana fatica a trovarla. Probabilmente non c'è il campanello sul pianerottolo e, se bussa alla porta, nessuno va ad aprirgli. Ma io finisco il mio libro con una ragazza che cuce il simbolo sulla bandiera rossa. Forse è arrivata l'ora del grande rammendo allo strappo del 1921". Sul Venerdì del 20 novembre 2020
A cent'anni dal congresso di Livorno. Croce, Labriola e Gentile sono i veri fondatori del Partito Comunista Italiano. Biagio De Giovanni su Il Riformista l'11 Dicembre 2020. Quello strano animale politico che è stato il PCI nacque storicamente come Pcd’I nel 1921 dalla scissione di Livorno, ma politicamente si costituì nel 1926 quando gli ordinovisti, e soprattutto Gramsci e Togliatti, ne presero la direzione. Esso non sarebbe stato quel potente e non illusorio ircocervo che è stato, se il suo vero atto di nascita culturale non fosse stato in quel dibattito, che si svolse tra fine 800 e primo 900, tra Antonio Labriola, Benedetto Croce e Giovanni Gentile, con il quale Marx entrò nella cultura italiana. Azzardo una ipotesi: una delle ragioni per le quali l’Italia non ha mai salutato la nascita di una socialdemocrazia è proprio in questo passaggio indicato, quanto mai decisivo: Marx non è entrato in Italia attraverso un Bernstein, come in Germania, pensatore che mobilitò il revisionismo riformista e socialista, ma attraverso la potenza di due “categorie” schiettamente legate a una filosofia della forza e del destino della storia: Materialismo storico, con Antonio Labriola; Marx filosofo del rovesciamento della prassi, con Giovanni Gentile, quest’ultimo considerato da Togliatti, ancora nel 1919, “il maestro delle nuove generazioni”. La cultura può avere un effetto dirompente sulla nascita delle formazioni storiche, e il dibattito che ho ricordato, lo ebbe sulla forma e sulla storia del PCI, e determinò largamente la sua originalità, unico partito comunista dell’Occidente governato da una grande e colta aristocrazia politica, non pochi dirigenti educati pure da Benedetto Croce; unico, arrivato alle soglie del governo, e con un ruolo decisivo nella storia d’Italia e nella sua cultura. Con Labriola fu introdotta la concezione materialistica della storia dotata di una raffinata “previsione morfologica” sul destino mondiale del comunismo; con Gentile entrò Marx filosofo della prassi, valorizzato al massimo con la traduzione delle marxiane “Tesi su Feuerbach” operata dallo stesso Gentile, che almeno in parte hanno orientato anche i “Quaderni” di Gramsci e l’insieme del dibattito italiano per lungo tempo. Croce, nel 1917, ripubblicando i suoi scritti su Marx, vide, nella idea di potenza e di genuinità della forza, il contributo decisivo che Marx aveva dato alla nuova elaborazione della politica, liberandola “dalle alcinesche seduzioni della dea Giustizia e della dea Umanità”. Dove poteva trovar spazio ideale una socialdemocrazia? Il partito nascente si liberò del comunismo di sinistra antibolscevico e antistalinista di Bordiga, e si collocò nella cultura di uno storicismo pensato nella prospettiva di un destino necessario, carico di influenze “idealistiche”. La filosofia della prassi di marca gentiliana operò, pure oltre i suoi rigetti ufficiali, inevitabili dopo le scelte politiche del filosofo, come una filosofia del rovesciamento della prassi, tema intorno al quale si svolse la discussione sul marxismo in Italia, oltre i nomi ricordati, fino a Giuseppe Capograssi e Rodolfo Mondolfo. Al centro del dibattito originario non fu “Il Capitale”, se non per la tesi neutralizzante di Benedetto Croce sul significato della teoria marxiana del “valore-lavoro”. Il partito che rinacque nel dopoguerra, con la guida di Togliatti, fu, insieme, stalinista nella visione del destino della storia e “ultra-culturale”, se così si può dire, nella centralità che diede al rapporto con gli intellettuali e a una elaborazione relativamente autonoma sul destino della rivoluzione in Occidente, soprattutto dopo la pubblicazione dei “Quaderni” di Gramsci. Un ircocervo, capace di contribuire alla elaborazione della costituzione e a una forma di governo costante della società italiana, ma che restò irrimediabilmente legato al destino dell’Unione sovietica, tanto che morì insieme ad essa dopo il 1989: simul stabunt, simul cadent, la sempre riaffermata e anche reale autonomia non aveva la forza per opporsi a questo destino. Qui ancora si rivelava qualcosa dell’atto di nascita del partito, spesso irriconoscibile sotto la spinta degli eventi: un materialismo storico dotato di un destino necessario che era nella vittoria mondiale del 1917, l’umanità finalmente liberata; e una filosofia della prassi che doveva, democraticamente, rovesciare il senso di continuità della storia. Ortodossa la visione generale, che impedì ogni vero distacco dall’Unione sovietica, seguendo i ritmi di quella storia, legando ad essa, solo qualche volta problematicamente, il suo destino; tutt’altro che ortodossa la prassi politico-parlamentare e il pensiero che le corrispose, secondo la doppia natura dell’ircocervo. E su questo punto va detto qualcosa di più, per completare quella che chiamerei la prima puntata di una riflessione. Mai il Pci fu una socialdemocrazia, mai penetrato dalla sua cultura; il suo “riformismo”, per quel che operò fortemente nella società italiana, voleva sempre essere “di struttura”, ossia capace di toccare la radice di un rovesciamento della prassi che nessuna socialdemocrazia aveva pensato di smuovere. La democrazia in occidente implicava la lotta per la conquista dell’egemonia, un gran principio innovatore della scienza politica fondata da Gramsci, onde anche l’enorme lavoro culturale e i dibattiti filosofici degli intellettuali legati in forme varie al partito, che formarono il ricco filone del marxismo italiano. Una egemonia che, vincente, avrebbe trasformato la democrazia in “democrazia progressiva”, verso comunismo realizzato, problema tutto da discutere, ma che faceva intravedere una difesa concettualmente strumentale delle istituzioni com’erano. Una “doppiezza” che non va criticata moralisticamente, dato che quella parola si definisce con una vera valenza storica, legata al destino previsto per la storia del mondo. Tema che aprirebbe un altro capitolo, rinviato, Direttore permettendo, a una seconda puntata.
La fine di un mondo. Maledetta Livorno: aveva ragione Turati, non Gramsci. Bobo Craxi, Riccardo Nencini su Il Riformista il 28 Novembre 2020. Il 21 gennaio del 1921, a Livorno, il Congresso del Partito Socialista si concluse con una scissione. La frazione comunista, guidata da Amedeo Bordiga e Antonio Gramsci, si staccò dal partito e fondò il Partito Comunista. “E quando avrete fatto il Partito Comunista Italiano, quando avrete impiantato i Soviet in Italia, se vorrete fare qualcosa che sia rivoluzionaria per davvero, che rimanga come elemento di civiltà nuova, voi sarete forzati, a vostro dispetto, perché siete onesti, a percorrere la via dei socialtraditori, e questo lo dovrete fare perché questo è il socialismo che è solo immortale, che è solo quello che veramente rimane di vitale in tutte queste nostre beghe e diatribe…”. Filippo Turati, il leader della corrente di minoranza del PSI, sconfitto ma non domo ammoniva i compagni della corrente “comunista unitaria” nel tumultuoso Congresso del 1921, e profetizzava che presto o tardi l’illusione di poter fare “come a Mosca” e trasferire la rivoluzione proletaria si sarebbe trasformata in una catastrofe proprio per coloro nel nome della quale essa si era compiuta, e che il Socialismo si sarebbe potuto inverare attraverso altre strade e altri mezzi. C’è dell’altro da considerare. Il Congresso si tiene nel momento del fascismo nascente. La strage di Palazzo d’Accursio del novembre 1920, a Bologna, rappresenta l’aurora dello squadrismo armato. Eppure, a Livorno, solo in pochi si avvedono del cambio di passo. Matteotti, Vacirca, Turati. La corrente comunista giudica il fenomeno passeggero, il singulto della borghesia, la dimostrazione della crisi irreversibile del capitalismo. Anche Gramsci la pensa così. Siamo all’esordio di una storia nuova, terribile, e solo un pugno di delegati, tutti riformisti, ne ha piena contezza. Superfluo ricordare chi avesse ragione. Non fu una rottura ideologica, Turati continuava a professare e ad attuare una inclinazione marxista adattata ai tempi e alle condizioni del Paese ma assieme alla sua corrente “riformista” del PSI si differenziava nella valutazione dei processi che avrebbero condotto a maturazione la società socialista. E la sua fu una differenza radicale che condusse i riformisti, molto tardi nella Storia, ad avere ragione e gli scissionisti che generarono il Partito Comunista Italiano torto. Si contestavano tre punti essenziali: 1) l’uso della violenza 2) la dittatura del Proletariato 3) la coercizione del dissenso. In sintesi “il culto della violenza” eretto a prassi e dottrina politica, cultura che si è tramandata a lungo nella storia della sinistra italiana che prese le mosse dalla scissione del Partito Socialista a Livorno. La vecchia mentalità insurrezionalista, blanquista, giacobina che si era riaccesa durante la Prima guerra mondiale e che fu indiretta causa della illusione rivoluzionaria che causò la prevedibile reazione. (Non sappiamo giudicare se la cosiddetta “rivoluzione italiana” degli anni Novanta abbia prodotto il medesimo effetto, vista l’insorgenza di una robusta destra reazionaria ai giorni nostri: però qualche sospetto ci è venuto). Turati non poté che ribadire a Livorno nel 1921 il valore del riformismo e del gradualismo come metodo, di fronte a un mito, quello della Rivoluzione russa, destinato prima o poi a svanire come tutte le illusioni, e le sue solenne considerazioni rimangono scolpite come una delle più grandi profezie della Storia politica italiana. Le pagine della Storia devono essere rilette perché esse illuminino il futuro, d’altronde è cambiato il secolo, si è trasformata la politica e potremmo dichiarare definitivamente tramontata la stagione delle diatribe e delle divisioni nel campo della sinistra italiana. Tuttavia, se non fossero perdurati a lungo i miasmi della lunga stagione di divisione storica fra il socialismo democratico e il comunismo, in Italia si potrebbe affermare che da tempo la cosiddetta scissione di Livorno sta alle nostre spalle. La verità è che stanno alle nostre spalle le ragioni contemporanee che la produssero ma non le identità che da essa generarono quella scissione che fu un atto di nascita, quello del Comunismo italiano e la sua separazione dal Socialismo. E se lo strappo dal Comunismo mondiale, un minuto dopo e non un minuto prima che accadesse il drammatico decesso, vide la nascita di un’esperienza politica che ne cancellò le insegne, tuttavia non si sanò mai la frattura consumatasi all’interno del percorso materno che resta quello del Socialismo italiano. Rifiutata l’ipotesi del “ritorno al futuro” ovvero del ricongiungimento formale e sostanziale nell’alveo del Socialismo italiano, ciò che fu generato attraverso il mancato superamento e revisionismo della scissione comunista di Livorno fu una perpetua partenogenesi di organizzazioni e movimenti politici senza definita identità e per giunta progressivamente annacquati nell’alleanza e fusione con gruppi e movimenti non consanguinei della storia del Movimento operaio e socialista. Ora la questione che si pone nella sinistra democratica, che si definisce “riformista” nel mondo moderno, riguarda ancora questioni di fondo, di metodo e di prassi nella lotta politica e di interpretazione dei modelli di società, a maggior ragione oggi che nella società globale aggredita dal medesimo incubo pandemico si stagliano all’orizzonte delle esperienze che riecheggiano le mitologie dei primi del secolo scorso. Non è forse “comunista” la potenza che si è affacciata nel mondo con il suo dinamismo e approccio truffaldino, ovvero quel vero e proprio ircocervo ideologico che è rappresentato dalla sintesi cinese di un turbo-capitalismo liberista per giunta guidato dal partito unico e dal suo comitato centrale? E quale rapporto si intende instaurare con le nuove esperienze che non nascondono la propria identità “socialista”, che sono state decisive nella vittoria dei democratici americani, attardatisi negli anni a difendere fallimentari “terze vie” che avrebbero dovuto superare i modelli socialdemocratici e le virtù più che mai attuali della capacità dello stato di essere decisivo negli orientamenti economici, proprio in presenza di un’aggressiva e onnivora ondata capitalista? Affrontiamo quindi l’occasione della celebrazione della nascita del PCI come un’occasione di riflessione politica e ideologica opportuna, nel rispetto e nella considerazione che si deve a una forza politica che è stata essenziale nell’affermazione dei valori nazionali e nella costruzione della Repubblica italiana, che è stata tanta parte della sinistra e che orienta ancora a un secolo di distanza una fetta consistente del suo popolo, dei lavoratori e delle giovani generazioni. La sua attualità, oggi come allora, sta nell’essere argine al populismo e ai nuovi autoritarismi, purché non ne assuma, come è accaduto in diverse fasi della politica del Paese, delle sembianze spurie. Non diciamo che il vento del populismo che spazza l’Europa e le Americhe sia fascismo tour court. No. E però esso va combattuto con tenacia e determinazione correggendo anzitutto gli errori che anche la sinistra ha commesso al tramonto del secolo scorso. Pensiamo all’Italia. La vulgata che lo Stato fosse onnivoro non era una falsità, e però una cosa è limarne le unghie, altro è smantellare pezzi di sanità pubblica e svendere aziende di Stato in settori strategici come è stato fatto dalla Sinistra al Governo. Una cosa è tagliare sedi universitarie in eccesso, altro non scommettere fino in fondo su ricerca e istruzione. Una cosa infine è il rispetto della legalità, altro è l’esaltazione dell’arbitrio giudiziario senza garanzie per gli imputati e l’utilizzo sistematico delle vicende giudiziarie per annientare e umiliare l’avversario politico. Quel che serve oggi, tanto più di fronte all’emergenza da pandemia, è uno Stato umanizzato, un canone sì riformista, dunque quanto mai rivoluzionario, che corregga le distorsioni della globalizzazione guidata da multinazionali e alta finanza, che restituisca all’Europa il ruolo che ebbe al tempo dei pionieri perchè possa inserirsi a pieno titolo nella competizione mondiale arrecandovi i valori del suo canone secolare: libertà, welfare, conoscenza, che, infine, si preoccupi di creare ricchezza senza dimenticare la massa crescente e disperata degli ultimi. Padre di questa storia e di questo futuro è il Socialismo umanitario. Per questa ragione, da socialisti ribadiamo le attualità prevalenti del metodo riformista, e intendiamo continuare a riflettere assieme a tutti coloro che mantengono vivo l’ideale e l’obiettivo di una società più giusta, più libera, solidale e moderna e vogliono richiamarsi ai valori più alti di un Umanesimo socialista adatto ai nostri tempi di cui più che mai sentiamo il bisogno.
La ripubblicazione. Ripubblicati gli interventi di Turati: “Il massimalismo è il male del socialismo”. Giuliano Cazzola su Il Riformista il 2 Ottobre 2020. Le vie maestre del socialismo è un volume curato da Rodolfo Mondolfo che raccoglie i principali interventi di Filippo Turati: dal resoconto sommario del discorso tenuto al Congresso di Imola l’8 settembre 1902 fino al resoconto stenografico dell’intervento svolto il 19 gennaio 1921 al Congresso di Livorno (durate il quale ebbe luogo la scissione da cui nacque il Partito comunista d’Italia). La prima edizione del libro risale al 1921 (la ristampa è del 1981); pertanto la raccolta non contiene gli atti del Congresso di Bologna del 1922 in cui divenne definitiva la rottura del partito con l’espulsione di Turati e della corrente riformista in conformità con le direttive della III Internazionale di indirizzo comunista che aveva imposto 21 condizioni (tra le quali, appunto, l’espulsione dei riformisti) al Psi a maggioranza massimalista per accettarne l’adesione. Nel Congresso dell’anno precedente (il 1921) la richiesta non era stata accolta; tale rifiuto divenne uno dei motivi della scissione comunista. Tuttavia, la precaria unità di Livorno non aveva attenuato i contrasti interni che paralizzavano il partito, proprio mentre stava dilagando lo squadrismo fascista e appariva sempre più urgente una iniziativa del movimento operaio. Turati, critico verso la «intransigenza contemplativa» dei massimalisti, utilizzava il suo prestigio in seno al gruppo parlamentare per rilanciare l’idea di una collaborazione con i popolari e i liberali contro i fascisti, in contrasto – fino alla rottura definitiva – con la direzione del Psi che puntava su una ripresa delle lotte di massa e dell’unità coi comunisti. I riformisti espulsi diedero vita al Partito socialista unitario (Psu.) – di cui fu eletto segretario Giacomo Matteotti – che si ispirava al tradizionale riformismo turatiano, ricercando la collaborazione con le forze politiche borghesi e operando per la riunificazione di tutti i socialisti su una linea di netta demarcazione dai comunisti rivoluzionari. Leggendo i discorsi di Turati si scopre un oratore eccezionale, non solo per la lucidità del pensiero, per l’analisi delle situazioni, per la memoria e l’interpretazione degli eventi nel divenire della storia del partito e del Paese, ma anche per la sottostante cultura classica e filosofica, per la capacità di esposizione, per l’ironia e le metafore che arricchiscono l’esposizione. In verità, a vedere il numero delle pagine dei testi trascritti (veri e propri saggi di politica, di storia ed altre umanità) ci si rende conto che i suoi interventi non avevano limiti di tempo, nonostante che subissero numerose interruzioni e creassero un clima da “botta e risposta” con l’uditorio per via delle divergenti idee e passioni politiche. Ma Turati tirava diritto senza perdere il filo del ragionamento e alla fine riscuoteva l’applauso di tutto il Congresso (con l’eccezione di quanti gli rivolgevano un polemico “viva la Russia”). Tanti sarebbero gli stimoli che provengono da quei discorsi, ma non possiamo affrontarli tutti. Ci soffermiamo sulla polemica di Turati a proposito del “massimalismo” in contrapposizione con la dottrina del “riformismo”, tratta dall’intervento che il grande socialista svolse al Congresso di Bologna del 1919. «Noi non crediamo al “massimalismo” – esordì Turati – Per noi un massimalismo semplicemente non esiste e non è mai esistito. Il massimalismo è il nullismo; è la corrente reazionaria del socialismo». Anche le distinzioni tra rivoluzionari e riformisti, fra transigenti e intransigenti «non sono che equivoci». «Vi è insomma il socialismo dei socialisti e quello degli imbecilli e dei ciarlatani». «La verità è che il suffragio universale, quando diventi consapevole, e questa non può essere che questione di propaganda e di evoluzione economica e civile, è l’arma più formidabile e più direttamente efficace per tutte le conquiste». «Tutta l’esperienza accumulata nelle lotte sindacali, politiche, elettorali, nei Comuni, nelle Province, con la propaganda indefessa, con l’azione parlamentare, con l’azione nei comizi e nei corpi consultivi per la legislazione sociale, nei Congressi nazionali ed internazionali, attraverso le persecuzioni fortemente patite, tutto ciò ha dato i suoi frutti, ha ampliato la nostra visione, ha fatto di noi uno dei partiti più forti in Italia e all’estero (….) Ora tutto questo dovrebbe andare per aria, tutta questa esperienza sarebbe stata pura perdita. Una nuova rivelazione s’è fatta improvvisamente come per prodigio. Al socialismo si sostituisce il comunismo (…) e un gretto ideale di violenza armata e brutale, la cosiddetta dittatura del proletariato che esclude d’un solo colpo dalla vita sociale tutte le altre capacità, tutti gli altri contributi, tutte le altre classi, la stessa grande maggioranza dei lavoratori; onde è chiaro che essa in realtà non sarebbe, non potrebbe essere per lunghissimo tempo, che la dittatura di alcuni uomini sul proletariato». Poi Turati assunse toni implacabili: «La violenza non è altro che il suicidio del proletariato (…. ) Oggi non ci pigliano abbastanza sul serio; ma quando troveranno utile prenderci sul serio, il nostro appello alla violenza sarà raccolto dai nostri nemici, cento volte meglio armati di noi». Sono parole che hanno in sé il dolore della profezia. Turati fu ancora più lucido profeta nel suo discorso al Congresso di Livorno del 1921. Rivolgendosi alla maggioranza massimalista e alla frazione comunista disse: «Ogni scorcione allunga il cammino; la via lunga è anche la più breve perché è la sola». E gettando lo sguardo oltre l’orizzonte di decenni ammonì: «Avrete allora inteso appieno il fenomeno russo che è uno dei più grandi fatti della storia, ma di cui voi farneticate la riproduzione meccanica e mimetistica, che è storicamente e psicologicamente impossibile e, se lo fosse, ci condurrebbe al Medioevo». «Tutte queste cose voi capirete tra breve e allora il programma, che state faticosamente elaborando e che ci vorreste imporre, vi si modificherà tra le mani e non sarà più che il nostro vecchio programma». «Ond’è – Turati si avviava alla conclusione – che quand’anche voi aveste impiantato il Partito comunista e organizzati i Soviet in Italia, se uscirete salvi dalla reazione che avrete provocata e se vorrete fare qualche cosa che sia veramente rivoluzionario, qualcosa che rimanga come elemento di società nuova, voi sarete forzati a vostro dispetto – ma lo farete con convinzione perché siete onesti (questo riconoscimento si è rivelato forse troppo generoso? ndr) – a ripercorrere completamente la nostra via, la via dei social-traditori di una volta; e dovrete farlo perché essa è la via del socialismo, che è il solo immortale, il solo nucleo vitale che rimane dopo queste diatribe». «Voi temete oggi di ricostruire per la borghesia, preferite lasciar cadere la casa comune e fate vostro il “tanto peggio tanto meglio” degli anarchici, senza pensare che il “tanto peggio” non darà incremento che alla Guardia regia e al fascismo». Quando Filippo Turati parlava così era il 19 gennaio del 1921. Il 28 ottobre dell’anno successivo ebbe luogo la Marcia su Roma. Turati morì in esilio a Parigi il 29 marzo del 1932. A Livorno era stato profeta anche di se stesso: «Voi non intendete ancora che questa ricostruzione, fatta dal proletariato con criteri proletari, per se stesso e per tutti, sarà il miglior passo, il miglior slancio, il più saldo fondamento per la rivoluzione completa di un giorno. Allora, in quella noi trionferemo insieme. Io forse non vedrò quel giorno…. Ma le riforme sono la via della rivoluzione e non si conquistano se non con lo sforzo assiduo, continuo, organico di tutte le classi popolari, unite ai rappresentanti dei partiti, con un’azione continua di erosione del privilegio: non v’è altra via».
La biografia. Chi era Filippo Turati, il padre nobile del socialismo democratico. Redazione su Il Riformista il 25 Giugno 2020. Nato a Canzo, provincia di Como, nel 1857, Filippo Turati era figlio di un alto funzionario statale. Intrapresi gli studi giuridici, si laureò nel 1877 all’università di Bologna per poi trasferirsi con la famiglia a Milano, dove frequentò A. Ghisleri e R. Ardigò, e iniziò la carriera di pubblicista come critico letterario. Negli anni successivi si avvicinò agli ambienti operai e socialisti e attraverso Anna Kuliscioff, compagna alla quale si legò per tutta la vita a partire dal 1885, entrò in contatto con alcuni esponenti della socialdemocrazia tedesca. Proprio in questo periodo Turati aderisce al marxismo. Nel 1889, insieme alla Kuliscioff, fondò la Lega socialista milanese, con l’obiettivo di creare un centro di aggregazione delle forze socialiste, primo passo verso la formazione di un partito autonomo della classe operaia. Questa azione, nel cui ambito si collocò la pubblicazione della rivista Critica sociale, culminò nel 1892 nella fondazione del Partito socialista dei lavoratori italiani (che dal 1895 assunse la denominazione Psi), cui Turati diede un contributo decisivo. Deputato a partire dal 1896, fu arrestato in occasione dei moti del 1898 e condannato a dodici anni di reclusione. Ma uscì di prigione l’anno successivo. Leader riconosciuto della corrente riformista, di fronte alla nuova fase politica avviata da G. Giolitti, Turati sostenne la necessità di appoggiare la borghesia liberale in un’ottica gradualistica. Antimilitarista, osteggiò la guerra in Libia (1911) e l’intervento italiano nel conflitto mondiale; nel dopoguerra il suo ruolo all’interno del Psi ormai guidato dalla componente massimalista, scemò. Espulso dal partito, nel 1922 diede vita, con Matteotti, al Psu. Nel 1926, dopo una fortunosa fuga organizzata da Parri, Rosselli e Pertini, si stabilì a Parigi, dove contribuì, nel 1929, alla costituzione della Concentrazione antifascista e, l’anno successivo, alla fusione socialista.
L'anniversario della nascita del Pci. Il problema non fu la scissione, ma i socialisti massimalisti. Giuliano Cazzola su Il Riformista il 6 Dicembre 2020. In vista del Centenario della fondazione del Partito Comunista d’Italia sono schierati ai nastri di partenza storici, saggisti, commentatori, testimoni, politici, pronti a rivisitare la storia di quello che fu il partito di Gramsci, Togliatti, Longo e Berlinguer (alla morte di quest’ultimo venne meno la “sacralità” del segretario generale) e che svolse – nel bene come nel male – un ruolo fondamentale nell’Italia del XX Secolo, non solo nella vita istituzionale, politica e amministrativa. La sua influenza condizionò la cultura, le arti, l’accademia, il sindacato, l’associazionismo, la magistratura e ogni espressione della società. La sua ideologia e la sua prassi orientarono milioni di concittadini che trovarono in quella militanza politica una ragione di lavoro, di vita e di speranza, riuscendo a formare e a selezionare gruppi dirigenti forgiati nello studio, nella lotta e nella disciplina. Eppure nello scenario politico attuale il Pci (questo è il nome che il Partito –ça va sans dire – assunse nel dopoguerra) ha avuto il medesimo destino di Atlantide: un continente scomparso senza lasciare traccia se non nel mito e nella leggenda. Quanti hanno vissuto quella storia – sia pure senza mai essere stati comunisti – non possono non provare un senso di smarrimento al cospetto della fine di un’epopea che non ha lasciato tracce di sé, i cui eredi hanno persino rifiutato di accettare un’eredità tanto gravosa, precipitandosi all’anagrafe della politica a cambiare le generalità. Il Pci, nonostante i giochi di parole delle “prese di distanza”, non ruppe mai con il sistema sovietico, se non quando l’Impero di Mosca, dopo il crollo del Muro di Berlino, si dissolse nel volger di pochi anni. Il partito seppellì il comunismo sotto le macerie e assunse un’altra identità, evitando accuratamente di rientrare nel filone del socialismo da cui era uscito nel 1921. La fine dell’Urss fu come la morte del dio di una religione laica, anch’essa corredata di dogmi, di teologia, di Sacre Scritture, di Santi, Martiri ed Eroi; persino di un catechismo atto a diffondere la dottrina tra le masse popolari. Il comunismo, nato dalla Rivoluzione d’Ottobre, come una Chiesa, condannò le eresie, catechizzò con la violenza intere popolazioni, promosse Concili, istituì la Santa Inquisizione per debellare le deviazioni, privò miliardi di persone della libertà in nome di una promessa di giustizia che non trovò mai posto sulla terra. Eppure, davanti alla miseria della politica e della sua classe dirigente di questa fase storica, anche gli avversari del Pci non possono che constatare – come il poeta davanti alla quercia caduta – «Or vedo era pur grande». Ma ci saranno tempo e occasioni per parlare del comunismo e del Pci; soprattutto argomenti. Con questo scritto vorrei dialogare con l’articolo degli amici e compagni Bobo Craxi e Riccardo Nencini, quando scrivono su Il Riformista: «Filippo Turati, il leader della corrente di minoranza del Psi, sconfitto ma non domo ammoniva i compagni della corrente “comunista unitaria” nel tumultuoso Congresso del 1921, e profetizzava che presto o tardi l’illusione di poter fare “come a Mosca” e trasferire la rivoluzione proletaria si sarebbe trasformata in una catastrofe proprio per coloro nel nome della quale essa si era compiuta, e che il Socialismo si sarebbe potuto inverare attraverso altre strade e altri mezzi». È vero la storia ha dato ragione a Turati («gli scorcioni non servono; la via lunga è anche la più breve, perché è la sola che esista»). Ma non al Psi del 1921, il partito che nell’ottobre del 1922, al Congresso di Roma, espulse la corrente riformista. Dopo la scissione (il pretesto fu trovato nella mancata espulsione dei riformisti in ossequio al diktat della III Internazionale) il PCd’I si rivelò, ben preso, una forza di minoranza. Pochi mesi dopo, nella competizione elettorale del 15 maggio 1921, il Psi ottenne 123 seggi (molti meno dei 156 delle elezioni del 1919), mentre il nuovo partito, nato a Livorno, elesse solo 15 deputati. Ma il dramma della sinistra non fu la scissione del gennaio 1921: Filippo Turati e Antonio Gramsci rappresentavano due minoranze di un Psi in mano ai massimalisti che fu il vero responsabile degli errori che in poco più di un anno aprirono – con la connivenza della Corona, dei poteri istituzionali ed economici – l’accesso al potere del Fascismo (nelle elezioni del 1919 il partito di Benito Mussolini si era presentato solo a Milano e non era riuscito a raggiungere neppure 5mila voti). Anche per la maggioranza del Psi il fascismo non era che «il fenomeno passeggero, il singulto della borghesia, la dimostrazione della crisi irreversibile del capitalismo». E l’obiettivo del «proletariato» in Italia era «fare come la Russia». Basta leggere il resoconto di quel Congresso (nel 1963 la Biblioteca socialista diretta da Lelio Basso pubblicò gli atti dei Congressi socialisti dal 1892 al 1937) che si svolse tra polemiche, contestazioni e interruzioni (Paul Ley nel suo saluto a nome del Partito socialista unificato tedesco affermo che ‘’l’unità del partito non è sempre un bene per il proletariato»). Il dibattito si concentrò subito (anche grazie ad una inversione dell’odg votata a maggioranza) sul punto 6) Indirizzo del Partito, Rapporti con l’Internazionale. Il Psi aveva chiesto l’adesione alla III Internazionale comunista e doveva quindi condividere i 21 punti che ne condizionavano l’accettazione. Tra questi il punto 7 obbligava i Partiti candidati «a riconoscere la completa rottura con il riformismo e con la politica di “centro” e a propagare questa rottura nella più ampia cerchia politica comunista». Nel sollecitare «incondizionatamente e ultimativamente l’effettuazione di questa rottura – proseguiva il testo – l’Internazionale comunista non può tollerare che opportunisti notori quali Turati, Modigliani, Kautsky (più un’altra seria di nomi, ndr) abbiano il diritto di passare per membri della III Internazionale». La frazione che si definiva dei “comunisti unitari” (ne facevano parte i maggiori leader massimalisti), non era determinata ad espellere i “concentrazionisti”, pur richiamandoli ad una più severa disciplina specie nel gruppo parlamentare (lo farà nel Congresso di Roma nell’ottobre 1922 poche settimane prima della Marcia fascista sulla Capitale). La mozione finale (a firma di Giacinto Menotti Serrati ed altri) riconfermava la «piena spontanea adesione alla III Internazionale» ed accettava i 21 punti intendendo che potessero essere interpretati «secondo le condizioni storiche e ambientali del paese’» e chiedendo perciò una sorta di esonero da Mosca. Per questi motivi Amedeo Bordiga (mozione comunista pura) prese la parola ed affermò che la maggioranza del Congresso si era posta fuori della III Internazionale; così invitava i delegati della frazione comunista ad abbandonare l’aula e a recarsi – al canto dell’Internazionale – nel Teatro San Marco dove sarebbe stato costituito il Partito comunista. Molto significativo, in proposito, l’intervento di Antonio Graziadei il quale rimproverò ai massimalisti di separarsi «dai più vicini per andare coi più lontani». Benché, dopo la vittoria socialista nelle elezioni amministrative, alcuni mesi prima a Bologna – il fatto è ricordato anche da Craxi e Nencini – fosse stato espugnato Palazzo d’Accursio ad opera delle squadracce fasciste, l’eco delle violenze, delle distruzioni delle Camere del Lavoro, delle sparatorie e delle spedizioni punitive, si avvertiva casualmente, a Livorno, all’interno di un dibattito di un partito impegnato a guardarsi l’ombelico e a cucirsi addosso un’ideologia che non gli apparteneva, ma i cui capisaldi erano già inseriti nel preambolo dello Statuto: la conquista violenta del potere politico e la dittatura del proletariato in vista della realizzazione del comunismo e della scomparsa delle classi sociali. Ma la sottovalutazione della minaccia fascista non era un limite della sinistra massimalista e comunista in Italia. Anche in Germania, il partito socialdemocratico – che diversamente dal Psi – era la colonna portante delle Repubblica di Weimar, il giorno prima di quello in cui Hitler ricevette l’incarico di formare il governo (30 gennaio 1933), aveva organizzato una grande manifestazione al grido di “Berlino è rossa”, mentre il giornale della socialdemocrazia, il Wortwars, scriveva: «La Germania non è l’Italia, Berlino non è Roma, Hitler non è Mussolini (questa considerazione, in senso inverso e a pelosa difesa del Duce, l’abbiamo sentita troppe volte da noi, ndr). Sbaglia di grosso – continuava il giornale – chi ritiene che qualcuno possa imporre un regime dittatoriale sulla nazione tedesca».
La ricostruzione del Pci. Togliatti, Gramsci e un’assenza: la svolta di Occhetto. Nino Bertoloni Meli su Il Riformista il 20 Novembre 2020. Articolo gentilmente concesso dalla rivista “Ytali”, diretta da Guido Moltedo. Complice il centenario della nascita del Pci (Pcd’I per la precisione) di qui a pochi mesi, è tutto un pullulare di studi, saggi e rievocazioni di quel 21 gennaio del 1921 destinato a segnare le sorti del Paese e di alcuni personaggi che quella storia segnarono e da quella storia furono segnati. A differenza che in altri Paesi, dove di comunisti e comunismo si è spenta ogni eco da tempo (chi si ricorda più di Marchais in Francia, di Carrillo in Spagna, o di Cunhal in Portogallo?) da noi la storia del Pci continua a produrre effetti, a segnare studi e attualità, se non è proprio viva, comunque non è morta. «Perché proprio in Italia nacque, continuò a crescere e produsse storia e politica il più grande Partito comunista dell’Occidente?», è l’interrogativo che si pongono Mario Pendinelli e Marcello Sorgi nel loro Quando c’erano i comunisti per i tipi di Marsilio. La risposta, l’asse attorno al quale ruota l’intero volume, è che da noi ci sono stati un certo Antonio Gramsci e un certo Palmiro Togliatti, più il primo che il secondo, ma comunque entrambi hanno segnato dapprima l’esistenza, quindi la resistenza e ancora dopo il radicamento nella società italiana, attraverso quell’arcinota e ultrastudiata interpretazione del marxismo completamente inserita nella storia e nella migliore tradizione del Paese (la triade De Sanctis, Croce, Labriola), facendo del Pci non tanto lo strumento per una presa del potere en attendent la fatidica ora X, ma un partito utile almeno a una buona parte della società italiana, perfettamente e sapientemente inserito nelle dinamiche politiche e sociali del Paese. Già, ma quale ruolo, quale strategia, quale gramscismo, infine, mettono in rilievo i due autori, giornalisti politici di lungo corso che nella maturità si cimentano con i temi della storia più che della cronaca, come accade sovente ai giornalisti di razza? Il primo capitolo del volume si intitola, a sorpresa, “Gramsci e il banchiere”. Oibò, non è che la vulgata del Pd, in parte erede di quella storia, come partito dei petrolieri, dei banchieri e di élite da ztl risale addirittura al fondatore? No no, il libro di Pendinelli e Sorgi apre con la descrizione dell’Ordine nuovo, il giornale fortemente voluto e diretto da Gramsci, le scale della cui redazione vengono percorse da personaggi che si chiamano Benedetto Croce, Piero Gobetti. E Raffaele Mattioli, il banchiere appunto, che aveva conosciuto il sardo Antonio rimanendone colpito come tanti altri, e che un ruolo di primo piano avrà in seguito nella salvaguardia dei Quaderni, assieme all’altro economista amico fraterno di Gramsci, Piero Sraffa. Mattioli impersona quel tipo di banchiere alfiere di un “capitalismo riformatore”, non rampante e men che meno selvaggio, un capitalismo umano e umanistico. Ne discende l’assunto del libro: quando i comunisti, al di là dell’ideologia, si sono cimentati con i problemi di riforma del capitalismo, anziché declamarne l’abbattimento salvo poi doverci fare i conti anche stando all’opposizione, allora la storia del Pci (e dell’Italia) ha offerto grandi sviluppi, importanti passaggi, si è riusciti insieme, capitalismo e finanza “buoni” assieme a quanti provenivano dal Pci, a tagliare le unghie al capitalismo “cattivo”, famelico, più rendita che investimenti, “l’anarco-capitalismo”, come lo chiamano i due autori. È la politica tenacemente perseguita da Ugo La Malfa che aveva orecchie attente e interlocutori a Botteghe Oscure in leader come Giorgio Amendola e Giorgio Napolitano, e per altri versi anche in Alfredo Reichlin, per citare i più noti. Nel libro c’è anche dell’altro, ovviamente, molto altro. Ci sono i primi anni del Pcd’I strettamente intrecciati con Mosca e l’Internazionale da una parte, e l’avvento del socialista Mussolini, dall’altra. C’è Lenin in formato bunga bunga che nel treno che lo porta in Russia per poi scatenare la rivoluzione porta la moglie e anche l’amante, piombata anch’essa; lo stesso Lenin che ritroviamo poi bacchettone a stigmatizzare l’amore extra coniugale come «deviazione piccolo borghese». C’è Gramsci in formato latin lover, che sposa Giulia Schutz ma che si scopre essere andato a letto anche con la sorella Eugenia (altri storici gossipari giurano anche di una storia con Tatiana, la terza sorella Schutz che lo seguì in Italia fino alla fine). A coronamento del volume, la ripubblicazione dell’intervista di Pendinelli a Umberto Terracini, del 1981, che da sola vale un volume di Spriano. Ci sono poi le testimonianze degli eredi di Gramsci e Togliatti: Veltroni, D’Alema, Fassino, Zingaretti, Salvi, e anche Gentiloni. Balza agli occhi un’assenza vistosa: Achille Occhetto. La svolta della Bolognina, che chiuse il Pci per dar vita al Pds, non trova nel volume particolare trattazione. Alla svolta sono dedicate tre paginette, e per ribadire la nota tesi dalemiana del “grande coraggio” di Occhetto non accompagnato però da un’adeguata cultura politica, la Bolognina come atto di coraggio ma scarso di elaborazione. Eppure è là, in quel 12 novembre del 1989, a pochissimi giorni dalla caduta del Muro, che il Pci decise di sopravvivere, ma con una diversa cultura politica, che si lasciava alle spalle categorie quali la fuoriuscita dal capitalismo, lo scontro capitale-lavoro, il proporzionale come tabù da non infrangere, tralasciava l’alternativa di sistema per approdare alla più occidentale e perseguibile alternanza. Come poi è stato. E propedeutica a tutto questo, la svolta fu accompagnata da una significativa, e contrastata, de-togliattizzazione, proprio a sottolineare che il Pds si lasciava alle spalle tutto un bagaglio da alternativa di sistema. «Togliatti non ha più nulla da dirci», scandì Occhetto, raggelando i Natta, Ingrao, Iotti, D’Alema, Tortorella. Sicché forse è l’ora di ribaltare la vulgata della svolta coraggiosa ma fragile culturalmente: il coraggio che mancò fu quello di sbaraccare l’apparato, la vecchia nomenclatura resistente e conservatrice, mentre le basi culturali permisero ai comunisti italiani di affrontare il mare aperto seguito alla caduta del Muro (e del resto, quali elaborazioni più alte ci sono state dopo la Bolognina, al di là dei programmoni dell’Ulivo prima e dell’Unione dopo, paginate e paginate di elenchi della spesa?).
A spianare la strada furono i socialisti. Marcia su Roma, le responsabilità della sinistra nella presa di potere dei fascisti. Giuliano Cazzola su Il Riformista il 6 Novembre 2020. Il 28 ottobre 1922 fu la giornata della Marcia su Roma (“e dintorni” come Emilio Lussu volle intitolare il racconto di quell’evento). L’organizzazione paramilitare del fascismo – sotto la guida del cosiddetto quadrumvirato, costituito il 16 ottobre, composto da Italo Balbo, Cesare Maria De Vecchi, Emilio De Bono e Michele Bianchi e stanziato a Perugia – iniziò a mobilitarsi il 27 con l’ordine di occupare le Prefetture, gli Uffici postali e telegrafici e le reti telefoniche. “L’esercito delle camicie nere” disponeva di un armamento raffazzonato e non sarebbe stato in grado di reggere uno scontro con le truppe regolari, scaglionate sulle strada di accesso alla Capitale agli ordini del comandante di quella piazza, il generale Pugliese. La mattina del 28 Luigi Facta (il presidente del “nutro fiducia”) portò al sovrano il decreto sulla proclamazione dello stato d’assedio, ma Vittorio Emanuele III non lo volle firmare; così le squadre fasciste entrarono indisturbate a Roma (vi furono tuttavia degli scontri nel Quartiere di San Lorenzo), mettendo a sacco le sedi sindacali, socialiste e comuniste. Nei giorni immediatamente successivi intervennero alcuni tentativi di mediazione, respinti da Mussolini; il Re decise allora di convocare il Duce per conferirgli l’incarico di formare il governo. Cosa che avvenne il 30 ottobre. Mussolini si presentò al Quirinale in camicia nera, scusandosi con il sovrano per non aver potuto indossare un abbigliamento più consono, in quanto – disse – “reduce dalla battaglia” (in verità Benito Mussolini, durante la parata delle sue squadre, si era ritirato a Milano, a un passo dalla Svizzera, dove intendeva rifugiarsi se l’avventura fosse fallita). Rivolgendosi al Re (quando era direttore dell’Avanti! lo definiva il signor Vittorio Savoia) affermò: «Porto a Vostra Maestà l’Italia di Vittorio Veneto, riconsacrata dalla vittoria e sono il fedele servo di Vostra Maestà». La Marcia su Roma fu l’epilogo di quello che gli storici definiscono il “biennio nero” (1921-1922), il periodo in cui cominciò a dilagare – incontrastata – la violenza fascista, con la complicità palese degli apparati dello Stato e il sostegno politico ed economico di ampi settori della borghesia, del mondo dell’impresa e dagli agrari. Il Partito socialista aveva sprecato la grande capacità di lotta che le masse operaie avevano espresso nel biennio precedente (“il biennio rosso”) culminato nell’occupazione delle fabbriche del settembre del 1920. Il gruppo dirigente non era stato in grado di far valere, sul versante istituzionale, il grande successo elettorale ottenuto nel novembre 1919, quando per la prima volta si votò col suffragio universale riconosciuto a tutti gli uomini che avevano compiuto 21 anni o, se più giovani, partecipato al conflitto bellico. Gli iscritti alle liste elettorali erano passati da 8,6 milioni a più di 11 milioni. Le diverse componenti liberali ottennero 178 seggi contro i 310 del 1913; i socialisti massimalisti 156 seggi contro i 52 precedenti; i popolari – al primo cimento elettorale – 100 deputati (il PPI era stato fondato da don Sturzo nel gennaio 1919); 39 i radicali, 27 i socialisti riformisti, 20 gli ex combattenti e 9 i repubblicani. I fascisti si presentarono solo a Milano ma ottennero circa 5mila voti e non elessero alcun parlamentare. Dopo le elezioni amministrative del 1920 in occasione delle quali i socialisti conquistarono più di 2mila comuni (1600 i popolari), nella successiva competizione politica, svoltasi il 15 maggio 1921, già si poteva intravvedere l’inizio del declino del Psi che ottenne 123 seggi (vi era già stata all’inizio del 1921, al Congresso di Livorno, la scissione del Pc d’I che elesse 15 deputati), mentre i popolari guadagnarono 8 eletti in più. I fascisti conquistarono 35 seggi, 10 i nazionalisti (coalizzati nei cosiddetti blocchi nazionali insieme alle liste liberali). Questi risultati del voto sono la prova che il Pnf costituiva una minoranza del Paese e che solo la violenza dello squadrismo e la benevolenza dei poteri economici aprirono a questo partito le porte del potere. Ma enormi furono gli errori e gli ostacoli incontrati dai socialisti e dai popolari a presentarsi come una reale alternativa. Se i popolari dovettero fare i conti con la Chiesa cattolica interessata alla linea di conciliazione offerta da Mussolini e ovviamente ostile al “pericolo rosso”, i socialisti fecero tutto da sé (anche se è innegabile che le milizie fasciste avevano usato il pugno di ferro contro il Partito e la Cgl). A cominciare dalla richiesta di aderire alla III Internazionale. Il loro programma consisteva nel “fare come la Russia”, istituire la Repubblica socialista e la dittatura del proletariato, socializzare i mezzi di produzione e di scambio e quant’altro passava il convento del “mito bolscevico”. Pertanto, nel nome della rivoluzione proletaria, veniva respinto, dalla maggioranza massimalista, ogni possibile intesa con altre forze. A testimonianza dell’impotenza settaria che esprimeva allora il Psi, basterebbe leggere gli atti del XIX Congresso nazionale svoltosi a Roma dall’1 al 4 ottobre 1922 (ossia poche settimane prima della Marcia su Roma) e prendere atto dell’ordine del giorno con cui era stato convocato: “Situazione interna del Partito e sua attività politica nel Paese e nel Parlamento. Appoggio a indirizzo di Governo e partecipazione al potere nell’attuale regime”. Ballando ormai sull’orlo del precipizio, i socialisti portarono a termine quella scissione che era nelle cose da tempo (che era stata evitata a Livorno e a Milano). I massimalisti decisero di espellere la corrente riformista e quella centrista in ossequio ai diktat della III Internazionale (“Il partito socialista, eliminato dal suo seno il blocco riformista-centrista, rinnova la sua adesione alla III Internazionale”). Gli esiti del voto (32mila per i massimalisti contro 29mila per gli unitari) spaccarono il Partito a metà. Il dibattito si caratterizzò per le accuse contro i riformisti (e i loro interventi di difesa). Le prime critiche vennero già nella relazione del segretario Fioritto, il quale attribuì agli avversari interni la responsabilità dell’insuccesso dello sciopero generale del 30 luglio (uno sciopero politico per chiedere alle autorità di contrastare le violenze fasciste): «I riformisti (il gruppo dirigente della CGL, ndr) proclamando tale sciopero all’inizio della crisi e sospendendolo alla sua conclusione e definendolo legalitario, lo avevano fatto apparire al proletariato come uno strascico montecitoriale, snervando le masse più accese». Dopo il segretario intervenne Giacinto Menotti Serrati: «Il nostro compito non è quello di aiutare la borghesia a risolvere la propria crisi, ma quello di trarre dalla crisi i vantaggi rivoluzionari». Per i riformisti Modigliani ironizzò: «Se i riformisti erano colpevoli di aver impedito la rivoluzione, non si sarebbe dovuto aspettare tanto tempo per espellerli». Poi, l’oratore in polemica con Serrati – come è scritto nei resoconti – negò l’esistenza di una crisi del sistema capitalista e borghese, sottolineando la necessità di distinguere fra ristretti gruppi plutocratici (…) e la borghesia democratica. Lazzari, poi, preconizzò che al Partito si apriva un campo d’azione nuovo e illimitato; deplorò l’autonomia del gruppo parlamentare chiedendo una severa punizione per i deputati che avevano trasgredito. I massimalisti criticavano, in particolare, Filippo Turati perché aveva accettato l’invito del sovrano a recarsi al Quirinale per consultazioni. A nulla servirono le argomentazioni di Claudio Treves, il quale smentì che i riformisti volessero cercare una collaborazione permanente con altre forze con le quali sarebbe stata tuttavia possibile una alleanza temporanea per “impedire che la reazione finisse per distruggere le conquiste e il patrimonio del proletariato”. Dopo Giacomo Matteotti, era di nuovo intervenuto Serrati sostenendo che «la logica del collaborazionismo avrebbe portato coloro che di esso si facevano fautori a collaborare col fascismo verso il quale andavano in quel momento le forze della borghesia». La mozione approvata riprendeva questo concetto e deliberava che «tutti gli aderenti alla frazione collaborazionista e quanti approvano le direttive segnate nel manifesto e nella mozione anzidetta, sono espulsi dal Psi». Il discorso di addio venne svolto da Filippo Turati: «Mentre noi ce ne andiamo rientra il comunismo». A Turati rispose Serrati: «Il discorso di Turati ha dimostrato quanto l’operazione fosse necessaria». La mattina del 4 ottobre i riformisti si riunirono e fondarono il PSU, eleggendo segretario Giacomo Matteotti; intanto, il XIX Congresso proseguiva all’insegna del delirio e del compiacimento per la pur tardiva “operazione chirurgica”, avendo la “malattia trascurata per un biennio provocato un danno incalcolabile all’organismo del Partito”. Nel prosieguo del dibattito Giacinto Menotti Serrati fece notare – è scritto nel resoconto – che, indipendentemente dalla pressione reazionaria (tanti municipi governati dai socialisti erano stati attaccati e distrutti, ndr) il Partito non poteva più condividere le responsabilità politiche dei Comuni con i partiti estranei». Per quanto riguardava il sindacato, i Comitati sindacali socialisti erano invitati a portare avanti politiche «per le quali il concetto di classe e di espropriazione economica e politica delle classi dominanti devono essere preminenti». Pochi giorni dopo la Marcia su Roma Menotti partì per partecipare al IV Congresso dell’Internazionale comunista che iniziò a Pietroburgo il 5 novembre.
Lo Stato etico di Gentile è anche un po' socialista. Nel suo testamento spirituale del 1943 il filosofo colloca la collettività davanti all'individuo. Corrado Ocone, Mercoledì 30/09/2020 su Il Giornale. Due belle notizie in una: riprende l'attività la storica casa editrice Vallecchi e subito esce per i suoi tipi la nuova edizione di una delle più importanti opere della filosofia italiana del Novecento: Genesi e struttura della società. Saggio di filosofia pratica, di Giovanni Gentile (pagg. 262, euro 18, introduzione di Marcello Veneziani). Diciamo subito che si tratta di un'opera molto particolare, per più motivi: prima di tutto perché segna per Gentile un ritorno alla speculazione dopo vent'anni di impegno soprattutto politico-culturale; poi perché, per molti aspetti, essa rivolta il senso del suo sistema di pensiero «neoidealistico», così come era andato delineandosi soprattutto nei due primi decenni del secolo. Inoltre perché, giungendo alla fine della sua vita, essa suona quasi come un testamento, e anzi come tale fu scritto, quasi di getto, a Tonghi, presso Firenze, da un Gentile che presagiva la morte. Era il 1943 e il filosofo, che sarebbe stato ucciso da un agguato partigiano il 15 aprile dell'anno successivo, si mise a lavorare per scrivere l'opera subito dopo aver pronunciato a fine giugno un lirico Discorso agli italiani in Campidoglio. In esso, egli proponeva una conciliazione nazionale in grado di far ripartire il Paese dopo la guerra civile che lo stava spaccando in due. A Mario Manlio Rossi, un suo allievo antifascista e che da filosofo farà una strana carriera in Scozia nel dopoguerra come docente di letteratura italiana, Gentile, mostrando il manoscritto finito dell'opera, così disse: «i vostri amici possono uccidermi ora se vogliono, il mio lavoro nella vita è concluso». Quale sia la novità di Genesi e struttura della società è presto detto: l'emersione della comunità all'interno di un pensiero che, per come era stato elaborato, poteva subire facilmente torsioni individualistiche. Se è infatti evidente che l'individuo idealistico non è quello empirico, è pur vero che è nell'uomo concreto in carne e ossa che si consuma tutto il dramma di un Atto puro che, come il fuoco, consuma il combustibile che gli viene dato e trascende sempre le pratiche realizzazioni umane. Ne consegue che, per paradossale che possa sembrare, l'attualismo di Gentile è un «idealismo senza idee», come ebbe a definirlo Vittorio Mathieu, e quindi è molto prossimo al nichilismo e al relativismo. Con questa prospettiva, veniva però a contrastare tutta l'esperienza fascista, e in fondo la stessa voce di Gentile all'interno di essa. Il nazionalismo, l'appello allo Stato etico, l'organicismo, tutti quelli che erano gli elementi essenziali a cui, non senza contrasto con le altre anime del regime, il filosofo di Castelvetrano aveva praticamente aderito, trovano ora una giustificazione teoretica, ma anche una rivisitazione critica. Si fa perciò ancora più forte il distacco di Gentile dal liberalismo, da quella che lui considera hegelianamente una visione atomistica e astratta della società umana. Il «noi» precede l'«io», e l'individuo è un risultato e non un dato. Ed emergono con ancora più nettezza i caratteri del regime politico ideale come Stato etico. Uno Stato, cioè, con una propria religione, un insieme forte di valori da trasmettere ai singoli pedagogicamente e paternalisticamente. È uno Stato e una comunità in interiore homine, certo, quella a cui pensa Gentile, ma l'insistenza sui valori sociali avvicina ora veramente il suo pensiero a quello socialista. D'altronde, il Duce stesso, che egli fino all'ultimo non volle tradire, si ricongiungeva in qualche modo, con l'esperienza di Salò, alle sue origini. In questa direzione teoricamente raffinata e socialisteggiante va anche l'insistenza, in Genesi e struttura della società, su un «umanesimo del lavoro» che deve affiancare quello della cultura che gli italiani elaborarono già in epoca rinascimentale. Comunque sia, la radicalità e la profondità di questo pensatore, di cui pure tanto non condividiamo, ci fa toccare con mano in modo impietoso il deserto culturale dei nostri tempi e la decadenza delle classi dirigenti della nostra povera Italia.
Nel settembre di 50 anni fa. Settembre 1920, quando la rivoluzione fu messa ai voti e perse…Giuliano Cazzola Il Riformista il 14 Settembre 2020. Può essere che mi sia sfuggita qualche rievocazione importante. È possibile che il virus abbia determinato amnesie nella memoria collettiva di una nazione, in particolare nel popolo disorientato e confuso della sinistra (sarebbe bene cominciare ad usare il plurale come si fa con le destre). Il fatto però è evidente: nel settembre di cento anni fa (il 1920) aveva luogo l’episodio culminante del “biennio rosso”: l’occupazione delle fabbriche. Nell’introduzione del saggio “L’occupazione delle fabbriche” (Einaudi), dedicato a quell’evento, Paolo Spriano – lo storico ufficioso del Pci – scrive: «Enorme fu l’emozione che esso produsse in tutto il Paese e non solo allora (Antonio Gramsci, in una nota dal carcere, si riferì all’episodio parlando della “grande paura”, ndr): chè, dopo decenni, l’occupazione delle fabbriche è ancora un richiamo obbligato nella vita sociale e politica italiana». Spriano esprimeva quest’auspicio nell’aprile del 1964. Da allora è trascorso un lasso di tempo molto lungo, ma non abbastanza per stendere, come è accaduto, un velo di oblio su di un pezzo di storia del movimento operaio.
Il “biennio rosso’’. Gli anni 1919-1920 furono definiti “il biennio rosso”, quando si accesero le speranze di “fare come la Russia”, dove erano in corso la rivoluzione dei soviet e la guerra civile. La Grande Guerra era finita da poco e aveva prodotto, oltre alla “inutile strage”, enormi sommovimenti politici e sociali. Nel febbraio del 1919 gli operai metallurgici avevano conquistate le “otto ore”, mentre sul piano politico, nelle elezioni generali, il Psi (forte di 200mila iscritti) aveva eletto 156 deputati alla Camera (affermandosi come il partito di maggioranza relativa). La Confederazione del Lavoro (Cgl) contava poco meno di due milioni di iscritti, di cui più della metà erano operai dell’industria (solo per ricordare le federazioni più importanti: 200mila edili, 160mila metallurgici, 155mila tessili, 60mila statali, 50mila impiegati privati e quant’altro). Sarebbe come sparare sulla Croce rossa, far notare che, nelle confederazioni di oggi, la metà degli iscritti sono pensionati. Ma la Confederazione “rossa” non era l’unico sindacato esistente e attivo. L’Usi – di ispirazione anarco-sindacalista – contava 300mila iscritti, mentre il “sindacato bianco”, la Confederazione italiana del lavoro (Cil), era forte soprattutto nelle campagne dove aveva l’80% dei 1,8 milioni di iscritti complessivi: uno dei suoi principali leader, Guido Miglioli, era definito il “bolsevico bianco”. Vi erano poi formazioni repubblicane in Romagna; il sindacato ferrovieri, autonomo dalla Cgl, con 200mila iscritti. Oltre ai tessili dove era forte la presenza di lavoratrici, il sindacato più importante era sicuramente la Fiom, diretta da Bruno Buozzi. La forza di questo sindacato, scrive Spriano, stava nel fatto che “le sue direttive venivano accolte ed osservate dalla grande maggioranza delle maestranze”. La federazione, attiva già nei primi anni del XX secolo, si “era fatta le ossa’’ durante la guerra, aumentando il suo potere contrattuale. Buozzi e i principali dirigenti, anche a livello periferico, erano socialisti riformisti (come del resto quelli della confederazione). Secondo l’autore, queste persone avevano una «concezione di grande rigidità che fa[ceva] della organizzazione centralizzata, della disciplina all’autorità del sindacato e al suo potere contrattuale una sorta di feticcio». Nella loro esperienza questi sindacalisti avevano visto e combattuto i guasti provocati del sindacalismo rivoluzionario nelle lotte di una decina di anni prima e avevano incanalato il movimento lungo un percorso strettamente attinente al negoziato delle retribuzioni e delle condizioni di lavoro. Secondo Spriano – nelle sue parole si avverte un giudizio politico critico – quel gruppo dirigente non vedeva con favore la nascita di strutture consiliari a cui venivano contrapposte le commissioni interne (istituite dall’accordo Itala-Fiom del 1906); su questo tema vi era disaccordo con i torinesi di “Ordine nuovo’’ (Antonio Gramsci, Palmiro Togliatti, Angelo Tasca, Umberto Terracini e altri) per i quali “il consiglio di fabbrica’’ era “il modello dello Stato proletario’’. Sul piano politico i leader sindacali non condividevano la linea della maggioranza massimalista del Psi (che guardava all’esperienza sovietica e si poneva come obiettivi l’istituzione della Repubblica socialista, la dittatura del proletariato e la socializzazione dei mezzi di produzione e di scambio). Da socialisti riformisti aspiravano «ad una collocazione diversa delle masse operaie e delle loro legittime rappresentanze nel quadro dello Stato democratico» nonché «ad una organizzazione produttiva che rispecchi il peso accresciuto di queste masse nell’economia del Paese». La conflittualità era molto elevata. Oltre al problema dei salari, del cosiddetto carovita (ci furono dei saccheggi nei negozi e nei mercati come reazione all’aumento dei prezzi), erano in corso processi di riconversione industriale post-bellica che provocavano un crescente livello di disoccupazione (in assenza di qualsiasi forma di tutela del reddito). In tutto il 1919 (ricorda Massimo L. Salvadori nella sua “Storia d’Italia’’) si ebbero 1663 scioperi nell’industria e 208 nell’agricoltura con un perdita complessiva di 22 milioni di giornate di lavoro. In agricoltura dopo una durissima lotta dei braccianti durata per mesi, i sindacati avevano ottenuto, con grande disappunto degli agrari, il cosiddetto imponibile di manodopera che costringeva i padroni a negoziare gli organici. Nel 1920 il numero degli scioperi superò i 2 mila.
L’occupazione delle fabbriche. Scrive Salvadori che a metà agosto del 1920 «maturò una situazione destinata a procurare un confronto durissimo fra il movimento operaio, gli industriali e la classe dirigente. Lo scontro – continua lo storico affrontando il nodo cruciale di quella fase – mise a nudo “tutto il velleitarismo e l’inconsistenza del massimalismo del Partito socialista», il quale, mentre propagandava tra le masse una vaga prospettiva rivoluzionaria, non avendo la capacità di prenderne la direzione, «faceva al tempo stesso montare nella borghesia una volontà controrivoluzionaria e inclinazioni autoritarie». La situazione precipitò quando, rotte le trattative contrattuali, la Fiom proclamò lo sciopero bianco ovvero una sorta di boicottaggio della produzione a cui gli industriali risposero, man mano, con la serrata. Si aprì una sorta di processo di botta e risposta tra serrata e occupazione delle fabbriche, fino a quando la Fiom impartì una indicazione di carattere generale in tal senso. Così l’occupazione, iniziata all’Alfa Romeo a Milano, si estese a tutto il triangolo industriale – e non solo tra i metalmeccanici – arrivando a coinvolgere 500mila lavoratori. Gli operai si misero a gestire in proprio la produzione e approntarono una forma di difesa militare armata delle fabbriche, affidata alle cosiddette Guardie rosse. Il loro inno di battaglia iniziava così: «All’appello di Mosca, plotoni roventi, sotto il rosso vessillo dei soviet di Lenin…..». Il Partito socialista si trovò a dover gestire una situazione che in pochi giorni si era aggravata e poteva sfuggire di mano da un momento all’altro. I più radicali tra i massimalisti vedevano in quel movimento, che si era diffuso inaspettatamente e in breve, l’anticipo di un processo rivoluzionario, mentre i riformisti, con i sindacalisti in prima fila, sostenevano che era necessario riportare e mantenere gli obiettivi della lotta su di un piano sindacale. La riunione decisiva si svolse la sera del 10 settembre (giusto un secolo fa) e vi parteciparono le Direzioni del Partito e della Cgl. Nel suo saggio, Spriano cita un brano dell’intervento di Ludovico D’Aragona, il segretario generale della Confederazione: «Voi credete (rivolgendosi ai massimalisti, ndr) che questo sia il momento di far nascere un atto rivoluzionario, ebbene assumetevi la responsabilità. Noi che non ci sentiamo di assumere questa responsabilità di gettare il proletariato al suicidio vi diciamo che ci ritiriamo e che diamo le dimissioni….prendete voi la direzione del movimento». «A questo punto», afferma Spriano, «tutti i membri della Direzione sono d’accordo nel ritenere che senza gli uomini della Cgl alla testa delle masse» il “grande salto” non si poteva fare. Così, l’ordine del giorno, presentato da D’Aragona, prevalse nella votazione finale. Spriano commenta questo esito in modo drammaticamente ironico: «La rivoluzione è respinta a maggioranza». Un altro protagonista di quella fase fu il presidente del Consiglio Giovanni Giolitti, il quale adottò una linea attendista rifiutando – benché sollecitato – di impiegare la forza pubblica a sostegno degli industriali. Anzi, impartì, come ministro degli Affari interni, ordini precisi e rigorosi di moderazione «Anche di fronte all’impiego di armi da parte della folla». Paolo Spriano, in proposito, cita il testo di un telegramma inviato da Giolitti l’11 settembre al Prefetto di Milano, nel quale lo invitava a persuadere gli industriali che «nessuno governo in Italia farà uso della forza, provocando certamente una rivoluzione, per far risparmiare loro qualche somma». E aggiungeva: «Uso della forza significherebbe almeno la rovina delle fabbriche». Si racconta che al sen. Giovanni Agnelli il quale premeva perchè “l’uomo di Dronero” facesse intervenire l’esercito per sgombrare le fabbriche, il presidente rispondesse: «Bene. Comincerò a prendere a cannonate la Fiat». Quando maturò il momento della mediazione Giolitti convocò le parti a Roma, il 19 settembre. Dopo sei ore di discussione fu raggiunta un’intesa molto favorevole per la Fiom: 4 lire di aumento al giorno, minimi di paga, caroviveri, maggiorazioni per il lavoro straordinario, sei giorni di ferie annuali, indennità di licenziamento. Per convincere gli industriali a cedere, Giolitti minacciò di emanare un decreto per istituire il “controllo sindacale” delle aziende. L’accordo sottoscritto fu sottoposto e approvato in un referendum dai lavoratori.
Il biennio nero. «Dopo l’occupazione delle fabbriche, le masse sindacali sentivano confusamente di essere state sconfitte – Spriano cita così un commento del tempo – ma non vedevano chiaramente né come né da chi». Salvadori sottolinea che l’occupazione delle fabbriche ebbe un triplice effetto: diede un colpo gravissimo alla linea politica di Giolitti che si era procurato l’ostilità degli industriali; rappresentò una inesorabile dèbacle del Partito socialista; inasprì ulteriormente i conflitti politici e sociali all’interno del Paese. Tra la fine del 1920 e l’inizio del 1921, il fascismo si sviluppò e prese rapidamente quota. si intensificarono le violenze, gli assalti alle Camere del Lavoro, alle cooperative, alle sedi e ai giornali socialisti (la sede dell’Avanti! venne devastata più volte). Cominciarono a nascere nuovi sindacati fascisti che imponevano con la forza i loro contratti favorevoli ai padroni. Gli iscritti al Fascio – citiamo sempre Salvadori – passarono dai 20mila della fine del 1920 a 200mila a metà dell’anno dopo. Filippo Turati aveva predetto che il rivoluzionarismo inconcludente avrebbe avuto come unico effetto di scatenare la violenza degli avversari. Pietro Nenni trovò, in un breve saggio, una definizione – “Il diciannovismo” – per quel complesso di vicende politiche che avrebbero portato in breve tempo alla sconfitta della classe lavoratrice e al fascismo. In quel saggio, il grande leader socialista, con riferimento alla linea di condotta della sinistra, ricordava una frase di Saint-Just: «Chi fa la rivoluzione a metà, si scava la fossa». In Italia, la rivoluzione era stata persino messa ai voti.
Il dibattito tra massimalisti e riformisti. La lotta e l’accordo, così nel 1920 vinse la strada riformista. Giuliano Cazzola su Il Riformista il 14 Ottobre 2020. Il 19 settembre del 1920 Giovanni Giolitti convocava le parti sociali a Roma, al Viminale allora sede della Presidenza del Consiglio, con l’intento di raggiungere un “concordato” che ponesse fine all’occupazione delle fabbriche (che era in corso, in alcune aree del Paese, da una ventina di giorni e che quindi durò meno del “maggio francese” del 1968). Lo statista liberale si era rifiutato – nonostante le pressioni degli industriali – di usare la forza per liberare le fabbriche dagli occupanti. Aveva intuito che l’unica possibilità di una soluzione incruenta risiedeva nel riuscire a riportare la vertenza sul terreno sindacale da cui era nata, sbandando nell’escalation delle forme di lotta: gli operai avevano adottato metodi di ostruzionismo a cui gli imprenditori avevano risposto con la serrata e i sindacati avevano di conseguenza ordinato l’occupazione delle fabbriche metallurgiche (poi estesa anche ad altri settori dell’industria e non solo). In pochi giorni il movimento aveva coinvolto 500 mila lavoratori, con picchetti armati sui cancelli degli stabilimenti. Giolitti era convinto che gli stessi dirigenti della Cgil e della Fiom, da veri socialisti riformisti, lavorassero per la sua stessa prospettiva, essendo consapevoli che proseguendo in quella lotta – all’inseguimento della chimera della rivoluzione – la classe operaia sarebbe stata condotta al massacro. All’incontro, nella sala del Consiglio dei Ministri al Viminale, erano presenti – scrive Paolo Spriano – oltre a due prefetti (Lusignoli e Taddei) – D’Aragona, Baldesi e Colombino per la Cgil, Marchiaro, Raineri e Missiroli per la Fiom; Conti, Crespi, Olivetti, Falk, Ichino e Pirelli per la Confederazione dell’Industria. Giolitti presiedeva la riunione e volle accanto a sé D’Aragona. Dopo sei ore di discussione il concordato venne sottoscritto. I suoi contenuti economici e normativi rappresentarono un successo per il sindacato, tanto che, il testo, sottoposto a referendum, fu approvato dalla grande maggioranza dei lavoratori. Ma, in quella stagione di miraggi, anche i sindacalisti riformisti non potevano evitare di misurarsi con l’obiettivo della socializzazione dei mezzi di produzione e di scambio; occorreva essere, quindi, convincenti e competitivi con quelli che promettevano di “fare come la Russia”, attraverso la scorciatoia della rivoluzione. In sostanza, non sarebbe bastato un risultato importante sul piano sindacale se non fosse stato considerato una tappa nella marcia del “proletariato” verso il socialismo. Così nel “concordato” la Cgil e la Fiom dovettero trovare una soluzione anche per la questione del “controllo operaio” (che era la “bestia nera” degli industriali) quale alternativa a chi prometteva i Soviet. Giolitti aveva sbloccato lo stallo mediante un decreto legge – scrive Paolo Spriano – che istituiva una “Commissione paritetica di 12 membri, incaricandola di formulare quelle proposte che possono servire al governo per la presentazione di un progetto di legge”. Anche allora vi era la consapevolezza che le Commissioni servissero per accantonare delle questioni difficili, sia pure attribuendo ad esse un valore fittizio rispondente sulla carta ai desiderata delle organizzazioni sindacali. Fatto sta che, in sede politica, la questione del controllo operaio divenne la cartina di tornasole del rilievo (o meno) dell’intesa. Sull’Avanti! del 21 settembre (due giorni dopo l’accordo) Giacinto Menotti Serrati, leader della maggioranza massimalista, iniziò l’offensiva critica. Partendo da un apprezzamento del risultato dal punto di vista sindacale, per quanto riguardava gli aspetti economici e normativi, Serrati sostenne che il concordato non fosse soltanto una vittoria dei metallurgici, ma anche di Giovanni Giolitti. Le critiche più severe, tuttavia, afferivano alla problematica del controllo operaio. «Il conquistato controllo delle fabbriche, quando pure riuscisse a funzionare non potrà che rappresentare una mistificazione o una corruzione. Il controllo – proseguiva l’esponente del Psi – è di per se stesso collaborazione. Se fatto veramente sul serio conduce inevitabilmente a trasformare gli operai in aiuti interessanti della gestione borghese». E di nuovo: «L’ora critica della vita nazionale non si chiude con un concordato di puro carattere sindacale»; aggiungendo poi un auspicio visionario: «Non passerà lungo tempo – saranno forse poche settimane – che una nuova lotta si ingaggerà indubbiamente», perché «la borghesia italiana non si salva con la firma apposta dai signori industriali al concordato imposto da Giovanni Giolitti». Gli rispose Filippo Turati su Critica Sociale (il quindicinale dei riformisti). «La rivendicazione del controllo operaio, mantenuto nei limiti in cui oggi è possibile e fruttuoso esercitarlo, è essa stessa una rivoluzione, la più grande, dal punto di vista socialista, dopo il conquistato diritto di coalizione e il suffragio universale, in quanto incide direttamente il diritto di proprietà, nella sua preminente matrice capitalistica». «Scopi immediati della riforma vogliono essere – in linea con le ripetute dichiarazioni della Confederazione Generale del Lavoro (allora saldamente diretta dai socialisti riformisti, ndr) – rendere il lavoratore partecipe della gestione dell’azienda, elevare la sua dignità, imparargli a conoscere i congegni amministrativi dell’industria, evitare di questa le degenerazioni speculazionistiche, ridestare nel lavoratore la spinta al lavoro, intensamente e gioiosamente produttivo». E da qui partiva la parte politica del ragionamento di Turati: «La futura graduale socializzazione delle industrie è condizionata a questi risultati più prossimi». A un secolo di distanza non siamo in grado di giudicare la buonafede di Turati ovvero se fosse davvero convinto – pur sostenendo un indirizzo politico corretto e condivisibile – che la Commissione paritetica avrebbe portato a compimento l’incarico. È invece palese la malafede di Serrati. Come disse un esponente socialista milanese a commento della sessione della Direzione del Psi che mise all’ordine del giorno la rivoluzione: «Noi sentivamo che la rivoluzione non si sarebbe fatta, perché la rivoluzione non si fa convocando prima un convegno dove si deve andare a discutere se si dovrà fare o non fare la rivoluzione. Questa è roba da Messico che si è voluto trasportare nel nostro Paese».
Un vero revisionista. Vide per primo le origini socialiste del fascismo. Morto il grande storico israeliano: studiò (da sinistra) la destra rivoluzionaria. Marco Gervasoni, Lunedì 22/06/2020 su Il Giornale. Qualcuno ha osato chiamare i distruttori di statue, « revisionisti». Non sappiamo cosa ne pensasse il grande storico Zeev Sternhell, morto ieri a Gerusalemme ma crediamo che, pur essendo un uomo di sinistra, sarebbe inorridito. Nato in Polonia nel 1935 ma trasferitosi prima in Francia e poi nel '51 in Israele, apparteneva infatti alla generazione dei revisionisti veri, quella di Renzo De Felice, di Ernst Nolte, di François Furet i quali, pur di qualche anno più anziani, ci hanno fatto capire il fascismo collocandolo nella storia non solo dell'Italia ma dell'Europa. E anche se si trovavano su posizioni politiche diversissime - conservatori De Felice e Nolte, liberale Furet, sinistra laburista Sternhell - ciò non ha impedito di intrecciare le loro ricerche in modo proficuo; lo storico non è un militante politico, o almeno non lo dovrebbe essere quando scrive Storia, un aspetto dimenticato da molti delle generazioni successive. Se infatti oggi possiamo pensare di conoscere meglio il fascismo, fenomeno non solo italiano ma europeo, lo dobbiamo proprio a Zeev Sternhell. Il suo primo libro, una tesi di dottorato all'Institut d'études politiques di Parigi, fu Maurice Barrès et le nationalisme francais (1972) ancora oggi fondamentale per capire lo scrittore nazionalista, ispiratore tra gli altri di De Gaulle. In nuce vi troviamo le tesi delle due opere storiche maggiori di Sternhell: La droite révolutionnaire, del 1978 (trad. Corbaccio, 1997) e Ni droite in gauche. Les origines françaises du fascisme del 1983 (tradotta da Akropolis nell'84 e poi da Baldini e Castoldi nel '97). Anche se De Felice, sulla scorta delle intuizioni di Augusto del Noce, aveva già collocato il fascismo all'interno di una tradizione di sinistra, figlio del giacobinismo e della Rivoluzione francese, Sternhell si spinge più lontano: pensa che il fascismo, quello francese, ma anche quello italiano, siano nati da un'evoluzione della cultura politica socialista. Ciò dovette costare non poco a Sternhell, già da allora membro del Partito laburista israeliano; anche se per lui non era stato il socialismo nella sua integralità a generare il fascismo, ma unicamente quello rivoluzionario critico del marxismo. Nei due volumi citati, Sternhell avanza poi una tesi ancora più radicale; che, contrariamente alla vulgata, sarebbe esistito un fascismo francese autoctono, già definitosi prima del 1914, a cui poi quello italiano si sarebbe ispirato. Sternhell traccia infine la genealogia storica di una destra rivoluzionaria, che in nome della nazione intende abbattere l'ordine borghese: una destra i cui più eminenti rappresentanti venivano dalla sinistra, irrorando così sangue nuovo in un campo conservatore esangue. Destra e sinistra rivoluzionarie si sarebbero poi fuse nel fascismo in nome del superamento delle due categorie; né destra né sinistra, appunto. Delle tre, oggi ci sembra più resistente la tesi di un fascismo francese come fenomeno originale, negli anni tra le due guerre. Allo stesso modo ci appare ancora plausibile l'interpretazione di un fascismo da inquadrare nella storia della sinistra. Infine, nessun studioso della destra, e non solo francese, oggi potrebbe rinunciare alla categoria di «destra rivoluzionaria». Più caduche invece ci appaiono altre conclusioni di Sternhell, in particolare quella della primogenitura prebellica francese del fascismo: senza la Grande guerra, lo schiaffo degli «alleati» all'Italia a Versailles e le violenze bolsceviche nel biennio rosso, non sarebbe mai nato il fascismo in Italia. E quindi non si sarebbe espanso neanche altrove, neppure in Francia. Ciò non toglie che i due libri citati di Sternhell restino dei classici contemporanei. Quelli successivi, Nascita di Israele (Baldini e Castoldi, 1999) e Contro l'illuminismo: dal XVIII secolo alla guerra fredda (Baldini e Castoldi, 2007), sono a nostro avviso poco riusciti. Nel primo, il tentativo di applicare la ricetta sternhelliana a Israele (sinistra più nazionalismo più attivismo uguale fascismo) con la condanna delle origini di Israele, nel cui esercito pure Sternhell servì più volte da valoroso militare, è stato duramente criticato. Così come lo sforzo di cercare le origini del fascismo nell'anti-illuminismo, a cominciare da Edmund Burke e da Johann Gottfried Herder, descritti alla stregua di ispiratori futuri di Mussolini e Hitler, è subito apparso piuttosto debole. Probabilmente Sternhell ha cercato di conciliare per tutta la sua vita marxismo, illuminismo, socialismo, tre fenomeni intellettuali-politici non sempre sovrapponibili e in alcuni momenti in contrasto tra loro. Ma anche in ragione del metodo storiografico scelto: diversamente da De Felice, non era un frequentatore di archivi, e come Nolte e Furet si poteva definire uno storico delle idee. Ma rispetto ai tre suoi maggiori di età, era meno attento al concreto e al contingente nella storia, che Sternhell tendeva a leggere secondo il lungo dispiegarsi delle culture politiche, senza considerare il fattore individuale e personale: frutto, questo, più del suo marxismo, di un illuminismo razionalistico. Ma sono inezie: ieri è scomparso un grande storico e chi vuole comprendere il '900 dovrà continuare a leggerlo ancora per lungo tempo. E a comportarsi da revisionista, ma in senso vero, di chi studia e non di chi abbatte i monumenti.
Dino Messina per il “Corriere della Sera” l'8 febbraio 2020. L'Alba nera del fascismo, che dà il titolo al bel volume di Antonio Carioti (Solferino) con prefazione di Sergio Romano, presenta in realtà forti striature di rosso. A cominciare dalle origini famigliari e dai primi passi politici del futuro Duce. Fedele al credo socialista del padre Alessandro, fabbro a Dovia di Predappio, Benito Mussolini si affina nelle frequentazioni giovanili in Svizzera dell' esule russa Angelica Balabanoff, per seguire una carriera di militante che, dalla direzione di fogli di provincia e dalla collaborazione al periodico «La Folla» di Paolo Valera, lo porterà nel 1912 alla guida dell'«Avanti!». Un biennio di militanza intensa che si concluderà a fine ottobre 1914 sotto la spinta dei cambiamenti portati dalla guerra mondiale. Il suo ultimo articolo, che lo distacca dal neutralismo socialista, si intitola Dalla neutralità assoluta alla neutralità attiva ed operante. È il salto verso l'interventismo e verso la direzione del «Popolo d' Italia», fondato il 15 novembre 1914. La guerra trasformerà l' Europa. E anche Mussolini non sarà lo stesso: il 15 dicembre 1917 pubblica il fondo Trincerocrazia , che «candida i reduci a classe dirigente del domani, forgiata dalla prova delle armi». E il 10 novembre dell' anno successivo, dopo Vittorio Veneto, così il futuro Duce arringa gli arditi in piazza Cinque Giornate a Milano: «Il balenio dei vostri pugnali e lo scrosciare delle vostre bombe farà giustizia di tutti i miserabili che vorrebbero impedire il cammino della più grande Italia». Sembra l' atto conclusivo del passaggio al nazionalismo e alla destra più retriva. Invece non è così: il programma della riunione che è l' atto iniziale del fascismo, l'assemblea di piazza San Sepolcro a Milano del 23 marzo 1919, oltre a esaltare la guerra, il nazionalismo e l'antibolscevismo, prevede il voto ai diciottenni e alle donne, l'abolizione del Senato di nomina regia, la compartecipazione dei dipendenti nella gestione delle industrie, un prelievo fiscale sui grandi capitali, la nazionalizzazione delle fabbriche d'armi. Si rimane stupiti anche a leggere l'elenco dei partecipanti alla riunione di piazza San Sepolcro: oltre ai figuri che si macchieranno cinque anni dopo dell'uccisione di Giacomo Matteotti, a intellettuali come Filippo Tommaso Marinetti, a esponenti degli arditi e a futuri dirigenti del Pnf, troviamo personaggi inattesi come Ernesto Rossi, il futuro antifascista di Giustizia e Libertà (che aderì da Firenze, ma non fu presente a Milano), ebrei come Piero Jacchia, Riccardo Luzzatto ed Eucardio Momigliano. C'è da aggiungere inoltre che San Sepolcro, tanto mitizzato ex post dal regime, è un episodio passato quasi in sordina in quel tumultuoso 1919, che vede al centro dell' attenzione il trattato di pace (con i dolori italiani per «la vittoria mutilata») e l' impresa a Fiume di Gabriele d' Annunzio. Il racconto di Carioti, che analizza i fatti dal 23 marzo 1919 al 28 ottobre 1922, data della marcia su Roma, è avvincente e non è mai scontato. La narrazione, per chi vuole immergersi completamente nell' atmosfera dell' epoca, rimanda nei punti cruciali a un'appendice con i documenti e gli articoli del periodo, tanti firmati da Mussolini, che a detta dei seguaci, ma anche di molti avversari, fu un genio della comunicazione. Dopo il racconto dei fatti, le interviste agli storici Simona Colarizi, Alessandra Tarquini, Fabio Fabbri e al politologo Marco Tarchi, offrono un quadro delle interpretazioni sui nodi storici del fascismo, come la questione dei ceti medi, le connivenze dello Stato con la violenza squadrista, le differenze con il nazismo e le composite origini culturali riassunte da Zeev Sternhell, lo studioso israeliano che ha influenzato il nostro Renzo De Felice, nello slogan «né destra né sinistra». Nella lunga crisi di un dopoguerra che vede impoverirsi le classi popolari e aumentare le insicurezze dei ceti medi, il fascismo alimenta le violenze con gli attacchi alle sedi dei giornali e delle organizzazioni dei lavoratori protagonisti del «biennio rosso». I vari ras delle province, Italo Balbo a Ferrara, Dino Grandi e Leandro Arpinati a Bologna, Giuseppe Caradonna in Puglia, si mettono alla testa della reazione violenta, interpretando la voglia di rivincita dei possidenti agrari e giocando con le insicurezze del ceto medio urbano. Nello stesso tempo, dopo aver seminato odio e morte, il movimento fascista si presenta come garante dell' ordine. Una veste di normalizzatore che inganna agli inizi anche liberali come Luigi Albertini e Benedetto Croce. Mussolini è abile nell' incanalare politicamente la violenza. Un gioco che gli riesce anche grazie alle incertezze della vecchia classe politica e alla codardia del monarca, che non firma il decreto sullo stato d' assedio presentatogli da Luigi Facta la mattina del 28 ottobre 1922. Gli squadristi della marcia su Roma, che potevano essere facilmente dispersi, hanno vinto. Mussolini il 30 ottobre riceve l' incarico di formare il governo.
Milano, il Benito socialista in otto rarissimi filmati. I video-documenti in Rete da oggi mostrano il leader spesso "al naturale", senza pose studiate. Simone Finotti, Mercoledì 17/06/2020 su Il Giornale. È un Duce fuori Luce ma perfettamente immerso nella macchina da presa, unico fra gli astanti a fissare la camera con consapevolezza acuta e profonda, fiutando la potenza della nascente comunicazione di massa. Lo nota Antonio Scurati, vincitore del 73° Strega con M. Il figlio del secolo (Bompiani, 2018), che introduce così la straordinaria antologia di otto rarissimi filmati riemersi dagli archivi di Fondazione Cineteca Italiana, e disponibili in streaming dal 17 giugno con il titolo Il Duce fuori Luce (sulla piattaforma dedicata del sito cinetecamilano.it, in modalità Premium, 5 euro). Niente immagini e rappresentazioni ufficiali, niente pose studiate o esibizioni muscolari di quelle affidate all'epoca all'Istituto Luce, longa manus cine-fotografica della propaganda di regime: è un Mussolini spesso inquadrato a sua insaputa, da angolazioni mai viste, in riprese semi-artigianali che per quasi un secolo sono rimaste nell'ombra. Non aspettiamoci cedimenti: anche senza «sole in fronte» resta pur sempre l'uomo d'azione che guida le adunate accanto ai «lavoratori del braccio e del pensiero»; il granitico oratore, il giornalista picconatore dello Stato liberale che vediamo all'opera nel suo Covo di Via Paolo da Cannobio, l'ufficio dove prendevano vita gli strali veementi del Popolo d'Italia, che prepararono e accompagnarono l'ascesa dei Fasci di combattimento. Il corto propagandistico Il covo (Minerva film, 12 minuti, con sonoro), tra i più interessanti della silloge, è di Vittorio Carpignano, data 1941 e testimonia le origini milanesi del movimento, nell'humus dei sentimenti irredentisti del primo dopoguerra. Sullo sfondo di una città brumosa e ferita, si esalta il passaggio «sugli uomini e sugli spiriti disorientati» di una «voce nuova, traboccante di fede e volontà assoluta», pronta a «farsi idea e diventare storia». Il vecchio e il nuovo a confronto, la vittoria tradita lascerà spazio a un trionfo pieno e completo. Lo stretto rapporto con Milano è ben testimoniato, visto che quasi tutti i filmati sono stati girati qui; arrivano dall'ampia riserva di cinema amatoriale e documentario che accompagna tutta la vicenda storica del Fascismo, dalla conquista del potere agli anni del massimo consenso e dell'Impero. Dalla fascinazione (fuori tempo massimo) per il dominio universale all'idea (al contrario, lungimirante) di dotare la città di un planetario il passo non fu lungo, e molto del merito va ascritto all'editore Ulrico Hoepli, pronto a finanziarne la costruzione, e al geniale architetto Piero Portaluppi, che lo progettò. E così, il 20 maggio del 1930, ecco un Duce in alta uniforme e fez, affiancato dal podestà Visconti di Modrone, sbucare dalle colonne ioniche dell'edificio appena inaugurato e immergersi nel verde di Porta Venezia. È un breve filmato anonimo (appena 3 minuti, con belle musiche di Francesca Badalini), che mostra anche una parata del 1936 in piazzale Cordusio, a pochi passi dal Circolo dell'Alleanza Industriale di Piazza San Sepolcro dove nel 1919 vennero fondati i Fasci. In un altro anonimo di appena 4 minuti, piazza Duomo si prepara ad accogliere una visita nel 1934. Scene simili in una ripresa dall'archivio della famiglia Castagna, che nel finale strappa anche qualche fotogramma dell'arrivo del Duce, sulla classica auto scoperta, e della sua salita sul palco per arringare la folla. Gli 11 minuti di «Giovinezza, giovinezza, primavera di bellezza» (con l'adunata milanese del marzo 1922, a pochi mesi dalla marcia su Roma) celebrano gli inizi, freschi, vigorosi ed energici: Mussolini che «divide il frugale rancio co' suoi commilitoni», poi mentre incontra le medaglie d'oro della Grande Guerra e si affaccia in camicia nera su una stipata via Vittorio Veneto, appropriandosi del saluto romano dei legionari di Fiume. Il tutto affidato alle riprese di un padre nobile del cinema italiano, il milanese Luca Comerio. Lo stesso che appena ventenne, nel maggio 1898, era sceso in strada a rischio della vita per immortalare i moti popolari duramente repressi dal generale Bava Beccaris. Da un pioniere all'altro (perché il Ventennio, con buona pace di certa critica benpensante, fu epoca fertile di talenti della pellicola), arriviamo a Luigi Liberio Pensuti, maestro dell'animazione tra le due guerre. È a lui che si deve una chicca come La taverna del tibiccì, piccolo capolavoro (peraltro molto attuale, di questi tempi) in cui grazie alla pulizia e all'igiene si sconfigge uno dei nemici più temibili, all'epoca, per la salute pubblica. Colpisce il taglio innovativo, che unisce tecniche di infografica, animazione ed elementi dell'iconografia fascista. È un Duce che spicca anche nell'assenza, come nell'interno domestico ricreato per lo spot delle Assicurazioni Popolari, in cui campeggia il suo ritratto. Le atmosfere esotiche e le inquadrature inusuali rendono preziosi i pochi minuti del Duce in Africa, realizzato da un anonimo francese in occasione di una visita a Tripoli e Garian con rassegna, a cavallo, delle milizie locali. Mussolini, non è un mistero, accarezzava il sogno di una Libia quarta sponda d'Italia. La visita più trionfale in Tripolitania fu nel marzo del 1937, durante la quale, ergendosi a cavallo, si proclamò addirittura protettore dell'Islam. Da Piazza Duomo all'Africa settentrionale rivive così, grazie ai tasselli di un inedito cinemosaico, la grande illusione della Giovinezza. Il programma è il primo di una serie di contenuti sulla Grande Storia. Seguiranno rassegne su Garibaldi e Napoleone.
La ripubblicazione. Ripubblicati gli interventi di Turati: “Il massimalismo è il male del socialismo”. Giuliano Cazzola su Il Riformista il 2 Ottobre 2020. Le vie maestre del socialismo è un volume curato da Rodolfo Mondolfo che raccoglie i principali interventi di Filippo Turati: dal resoconto sommario del discorso tenuto al Congresso di Imola l’8 settembre 1902 fino al resoconto stenografico dell’intervento svolto il 19 gennaio 1921 al Congresso di Livorno (durate il quale ebbe luogo la scissione da cui nacque il Partito comunista d’Italia). La prima edizione del libro risale al 1921 (la ristampa è del 1981); pertanto la raccolta non contiene gli atti del Congresso di Bologna del 1922 in cui divenne definitiva la rottura del partito con l’espulsione di Turati e della corrente riformista in conformità con le direttive della III Internazionale di indirizzo comunista che aveva imposto 21 condizioni (tra le quali, appunto, l’espulsione dei riformisti) al Psi a maggioranza massimalista per accettarne l’adesione. Nel Congresso dell’anno precedente (il 1921) la richiesta non era stata accolta; tale rifiuto divenne uno dei motivi della scissione comunista. Tuttavia, la precaria unità di Livorno non aveva attenuato i contrasti interni che paralizzavano il partito, proprio mentre stava dilagando lo squadrismo fascista e appariva sempre più urgente una iniziativa del movimento operaio. Turati, critico verso la «intransigenza contemplativa» dei massimalisti, utilizzava il suo prestigio in seno al gruppo parlamentare per rilanciare l’idea di una collaborazione con i popolari e i liberali contro i fascisti, in contrasto – fino alla rottura definitiva – con la direzione del Psi che puntava su una ripresa delle lotte di massa e dell’unità coi comunisti. I riformisti espulsi diedero vita al Partito socialista unitario (Psu.) – di cui fu eletto segretario Giacomo Matteotti – che si ispirava al tradizionale riformismo turatiano, ricercando la collaborazione con le forze politiche borghesi e operando per la riunificazione di tutti i socialisti su una linea di netta demarcazione dai comunisti rivoluzionari. Leggendo i discorsi di Turati si scopre un oratore eccezionale, non solo per la lucidità del pensiero, per l’analisi delle situazioni, per la memoria e l’interpretazione degli eventi nel divenire della storia del partito e del Paese, ma anche per la sottostante cultura classica e filosofica, per la capacità di esposizione, per l’ironia e le metafore che arricchiscono l’esposizione. In verità, a vedere il numero delle pagine dei testi trascritti (veri e propri saggi di politica, di storia ed altre umanità) ci si rende conto che i suoi interventi non avevano limiti di tempo, nonostante che subissero numerose interruzioni e creassero un clima da “botta e risposta” con l’uditorio per via delle divergenti idee e passioni politiche. Ma Turati tirava diritto senza perdere il filo del ragionamento e alla fine riscuoteva l’applauso di tutto il Congresso (con l’eccezione di quanti gli rivolgevano un polemico “viva la Russia”). Tanti sarebbero gli stimoli che provengono da quei discorsi, ma non possiamo affrontarli tutti. Ci soffermiamo sulla polemica di Turati a proposito del “massimalismo” in contrapposizione con la dottrina del “riformismo”, tratta dall’intervento che il grande socialista svolse al Congresso di Bologna del 1919. «Noi non crediamo al “massimalismo” – esordì Turati – Per noi un massimalismo semplicemente non esiste e non è mai esistito. Il massimalismo è il nullismo; è la corrente reazionaria del socialismo». Anche le distinzioni tra rivoluzionari e riformisti, fra transigenti e intransigenti «non sono che equivoci». «Vi è insomma il socialismo dei socialisti e quello degli imbecilli e dei ciarlatani». «La verità è che il suffragio universale, quando diventi consapevole, e questa non può essere che questione di propaganda e di evoluzione economica e civile, è l’arma più formidabile e più direttamente efficace per tutte le conquiste». «Tutta l’esperienza accumulata nelle lotte sindacali, politiche, elettorali, nei Comuni, nelle Province, con la propaganda indefessa, con l’azione parlamentare, con l’azione nei comizi e nei corpi consultivi per la legislazione sociale, nei Congressi nazionali ed internazionali, attraverso le persecuzioni fortemente patite, tutto ciò ha dato i suoi frutti, ha ampliato la nostra visione, ha fatto di noi uno dei partiti più forti in Italia e all’estero (….) Ora tutto questo dovrebbe andare per aria, tutta questa esperienza sarebbe stata pura perdita. Una nuova rivelazione s’è fatta improvvisamente come per prodigio. Al socialismo si sostituisce il comunismo (…) e un gretto ideale di violenza armata e brutale, la cosiddetta dittatura del proletariato che esclude d’un solo colpo dalla vita sociale tutte le altre capacità, tutti gli altri contributi, tutte le altre classi, la stessa grande maggioranza dei lavoratori; onde è chiaro che essa in realtà non sarebbe, non potrebbe essere per lunghissimo tempo, che la dittatura di alcuni uomini sul proletariato». Poi Turati assunse toni implacabili: «La violenza non è altro che il suicidio del proletariato (…. ) Oggi non ci pigliano abbastanza sul serio; ma quando troveranno utile prenderci sul serio, il nostro appello alla violenza sarà raccolto dai nostri nemici, cento volte meglio armati di noi». Sono parole che hanno in sé il dolore della profezia. Turati fu ancora più lucido profeta nel suo discorso al Congresso di Livorno del 1921. Rivolgendosi alla maggioranza massimalista e alla frazione comunista disse: «Ogni scorcione allunga il cammino; la via lunga è anche la più breve perché è la sola». E gettando lo sguardo oltre l’orizzonte di decenni ammonì: «Avrete allora inteso appieno il fenomeno russo che è uno dei più grandi fatti della storia, ma di cui voi farneticate la riproduzione meccanica e mimetistica, che è storicamente e psicologicamente impossibile e, se lo fosse, ci condurrebbe al Medioevo». «Tutte queste cose voi capirete tra breve e allora il programma, che state faticosamente elaborando e che ci vorreste imporre, vi si modificherà tra le mani e non sarà più che il nostro vecchio programma». «Ond’è – Turati si avviava alla conclusione – che quand’anche voi aveste impiantato il Partito comunista e organizzati i Soviet in Italia, se uscirete salvi dalla reazione che avrete provocata e se vorrete fare qualche cosa che sia veramente rivoluzionario, qualcosa che rimanga come elemento di società nuova, voi sarete forzati a vostro dispetto – ma lo farete con convinzione perché siete onesti (questo riconoscimento si è rivelato forse troppo generoso? ndr) – a ripercorrere completamente la nostra via, la via dei social-traditori di una volta; e dovrete farlo perché essa è la via del socialismo, che è il solo immortale, il solo nucleo vitale che rimane dopo queste diatribe». «Voi temete oggi di ricostruire per la borghesia, preferite lasciar cadere la casa comune e fate vostro il “tanto peggio tanto meglio” degli anarchici, senza pensare che il “tanto peggio” non darà incremento che alla Guardia regia e al fascismo». Quando Filippo Turati parlava così era il 19 gennaio del 1921. Il 28 ottobre dell’anno successivo ebbe luogo la Marcia su Roma. Turati morì in esilio a Parigi il 29 marzo del 1932. A Livorno era stato profeta anche di se stesso: «Voi non intendete ancora che questa ricostruzione, fatta dal proletariato con criteri proletari, per se stesso e per tutti, sarà il miglior passo, il miglior slancio, il più saldo fondamento per la rivoluzione completa di un giorno. Allora, in quella noi trionferemo insieme. Io forse non vedrò quel giorno…. Ma le riforme sono la via della rivoluzione e non si conquistano se non con lo sforzo assiduo, continuo, organico di tutte le classi popolari, unite ai rappresentanti dei partiti, con un’azione continua di erosione del privilegio: non v’è altra via».
Il dibattito tra massimalisti e riformisti. La lotta e l’accordo, così nel 1920 vinse la strada riformista. Giuliano Cazzola su Il Riformista il 14 Ottobre 2020. Il 19 settembre del 1920 Giovanni Giolitti convocava le parti sociali a Roma, al Viminale allora sede della Presidenza del Consiglio, con l’intento di raggiungere un “concordato” che ponesse fine all’occupazione delle fabbriche (che era in corso, in alcune aree del Paese, da una ventina di giorni e che quindi durò meno del “maggio francese” del 1968). Lo statista liberale si era rifiutato – nonostante le pressioni degli industriali – di usare la forza per liberare le fabbriche dagli occupanti. Aveva intuito che l’unica possibilità di una soluzione incruenta risiedeva nel riuscire a riportare la vertenza sul terreno sindacale da cui era nata, sbandando nell’escalation delle forme di lotta: gli operai avevano adottato metodi di ostruzionismo a cui gli imprenditori avevano risposto con la serrata e i sindacati avevano di conseguenza ordinato l’occupazione delle fabbriche metallurgiche (poi estesa anche ad altri settori dell’industria e non solo). In pochi giorni il movimento aveva coinvolto 500 mila lavoratori, con picchetti armati sui cancelli degli stabilimenti. Giolitti era convinto che gli stessi dirigenti della Cgil e della Fiom, da veri socialisti riformisti, lavorassero per la sua stessa prospettiva, essendo consapevoli che proseguendo in quella lotta – all’inseguimento della chimera della rivoluzione – la classe operaia sarebbe stata condotta al massacro. All’incontro, nella sala del Consiglio dei Ministri al Viminale, erano presenti – scrive Paolo Spriano – oltre a due prefetti (Lusignoli e Taddei) – D’Aragona, Baldesi e Colombino per la Cgil, Marchiaro, Raineri e Missiroli per la Fiom; Conti, Crespi, Olivetti, Falk, Ichino e Pirelli per la Confederazione dell’Industria. Giolitti presiedeva la riunione e volle accanto a sé D’Aragona. Dopo sei ore di discussione il concordato venne sottoscritto. I suoi contenuti economici e normativi rappresentarono un successo per il sindacato, tanto che, il testo, sottoposto a referendum, fu approvato dalla grande maggioranza dei lavoratori. Ma, in quella stagione di miraggi, anche i sindacalisti riformisti non potevano evitare di misurarsi con l’obiettivo della socializzazione dei mezzi di produzione e di scambio; occorreva essere, quindi, convincenti e competitivi con quelli che promettevano di “fare come la Russia”, attraverso la scorciatoia della rivoluzione. In sostanza, non sarebbe bastato un risultato importante sul piano sindacale se non fosse stato considerato una tappa nella marcia del “proletariato” verso il socialismo. Così nel “concordato” la Cgil e la Fiom dovettero trovare una soluzione anche per la questione del “controllo operaio” (che era la “bestia nera” degli industriali) quale alternativa a chi prometteva i Soviet. Giolitti aveva sbloccato lo stallo mediante un decreto legge – scrive Paolo Spriano – che istituiva una “Commissione paritetica di 12 membri, incaricandola di formulare quelle proposte che possono servire al governo per la presentazione di un progetto di legge”. Anche allora vi era la consapevolezza che le Commissioni servissero per accantonare delle questioni difficili, sia pure attribuendo ad esse un valore fittizio rispondente sulla carta ai desiderata delle organizzazioni sindacali. Fatto sta che, in sede politica, la questione del controllo operaio divenne la cartina di tornasole del rilievo (o meno) dell’intesa. Sull’Avanti! del 21 settembre (due giorni dopo l’accordo) Giacinto Menotti Serrati, leader della maggioranza massimalista, iniziò l’offensiva critica. Partendo da un apprezzamento del risultato dal punto di vista sindacale, per quanto riguardava gli aspetti economici e normativi, Serrati sostenne che il concordato non fosse soltanto una vittoria dei metallurgici, ma anche di Giovanni Giolitti. Le critiche più severe, tuttavia, afferivano alla problematica del controllo operaio. «Il conquistato controllo delle fabbriche, quando pure riuscisse a funzionare non potrà che rappresentare una mistificazione o una corruzione. Il controllo – proseguiva l’esponente del Psi – è di per se stesso collaborazione. Se fatto veramente sul serio conduce inevitabilmente a trasformare gli operai in aiuti interessanti della gestione borghese». E di nuovo: «L’ora critica della vita nazionale non si chiude con un concordato di puro carattere sindacale»; aggiungendo poi un auspicio visionario: «Non passerà lungo tempo – saranno forse poche settimane – che una nuova lotta si ingaggerà indubbiamente», perché «la borghesia italiana non si salva con la firma apposta dai signori industriali al concordato imposto da Giovanni Giolitti». Gli rispose Filippo Turati su Critica Sociale (il quindicinale dei riformisti). «La rivendicazione del controllo operaio, mantenuto nei limiti in cui oggi è possibile e fruttuoso esercitarlo, è essa stessa una rivoluzione, la più grande, dal punto di vista socialista, dopo il conquistato diritto di coalizione e il suffragio universale, in quanto incide direttamente il diritto di proprietà, nella sua preminente matrice capitalistica». «Scopi immediati della riforma vogliono essere – in linea con le ripetute dichiarazioni della Confederazione Generale del Lavoro (allora saldamente diretta dai socialisti riformisti, ndr) – rendere il lavoratore partecipe della gestione dell’azienda, elevare la sua dignità, imparargli a conoscere i congegni amministrativi dell’industria, evitare di questa le degenerazioni speculazionistiche, ridestare nel lavoratore la spinta al lavoro, intensamente e gioiosamente produttivo». E da qui partiva la parte politica del ragionamento di Turati: «La futura graduale socializzazione delle industrie è condizionata a questi risultati più prossimi». A un secolo di distanza non siamo in grado di giudicare la buonafede di Turati ovvero se fosse davvero convinto – pur sostenendo un indirizzo politico corretto e condivisibile – che la Commissione paritetica avrebbe portato a compimento l’incarico. È invece palese la malafede di Serrati. Come disse un esponente socialista milanese a commento della sessione della Direzione del Psi che mise all’ordine del giorno la rivoluzione: «Noi sentivamo che la rivoluzione non si sarebbe fatta, perché la rivoluzione non si fa convocando prima un convegno dove si deve andare a discutere se si dovrà fare o non fare la rivoluzione. Questa è roba da Messico che si è voluto trasportare nel nostro Paese».
La lezione di riformismo di Filippo Turati sul come rifare l’Italia. Redazione su Il Riformista il 25 Giugno 2020. Pubblichiamo stralci del discorso pronunciato il 26 giugno del 1920 da Filippo Turati alla Camera dei deputati. Onorevoli colleghi e compagni! L’idea madre del mio modesto discorso è semplice. Vera oggi, come ieri, come domani; ma, nel mutare inevitabile dei tempi, diverso può esserne il punto di applicazione. Se ogni lotta di classe è lotta essenzialmente politica e viceversa, è evidente che ogni politica trae colore e vigore dalla classe sulla quale essenzialmente si appoggia. Rivolgendomi oggi alle classi borghesi, le quali, se anche non nelle proporzioni di una volta, hanno pur sempre la dirigenza della società, in un certo senso posso dir loro: oggi, o non più ! Del resto, questo dell’urgenza, è un sentimento che in diverse forme trapela da ogni discorso, è nello stato d’animo di ciascuno di noi. Lo stesso onorevole Giolitti, cui si imponeva, per il posto che occupa, la maggiore prudenza di parola, non temette, e fece bene, di parlare di fallimento imminente, improrogabile, se non si corre ai ripari. Quale fallimento? Di chi? Come deprecabile? Questo è il tema generale della discussione. II suffragio universale, questa necessità che tutti abbiamo voluto, e di cui siamo i figli, ha generato, nella sua molteplice prole, un figlio cattivo: il gesto demagogico; la gara, dirò meglio, dei gesti demagogici. Noi dovremmo, come Bruto, condannare a morte questo figliolo traditore. Noi dovremmo insorgere contro di esso. Il demagogismo non è affatto, come si pretende, un privilegio dei partiti avanzati. C’e un demagogismo dei conservatori e dei Governi, che è di gran lunga il peggiore. La politica non è questo: non dovrebbe essere questo; e lo sarà sempre meno, quanto più i popoli diverranno consapevoli. La politica non è nell’agguato, non è negli intrighi, non è nell’arrembaggio ai Ministeri, non è nelle sapienti combinazioni parlamentari, non è nelle competizioni degli uomini; non è nei sonanti discorsi. È, o dovrebbe essere, nell’interpretare l’epoca in cui si vive, nel provvedere a che l’evoluzione virtuale delle cose sia agevolata dalle leggi e dall’azione politica. Questa interpretazione e questa azione sono essenzialmente una tecnica. E una tecnica, essenzialmente, è anche il socialismo. Noi stessi lo dimentichiamo troppo spesso, forse, quando nel fervore degli attacchi e dei contro-attacchi, subiamo noi stessi l’avvelenamento di tante illusioni, l’asfissiamento di tanto fumo. Il socialismo, nel suo primo e più grande assertore, è l’espressione ideale dell’evoluzione dello strumento tecnico; è lo sforzo di adeguare le condizioni politiche della vita sociale alle necessità materialistiche del momento storico. In questo senso, e in doppio senso, il socialismo è scientifico: in quanto sorge dalla coscienza storica, e quindi scientifica, dell’evoluzione; e in quanto chiama la scienza a proprio servizio. La schiavitù cessa, secondo il vecchio motto famoso, quando la spola comincia a camminare da sé sul telaio. Il socialismo è nella macchina a vapore, più che negli ordini del giorno; è nella elettricità, più che in molti, cari compagni, dei nostri congressi. Ora voi tutti, signori, cercate, in questo momento, più che mai la salvezza : la salvezza del Paese e la vostra. Anche i socialisti cercano la salvezza del Paese e la loro. Se oggi il partito socialista, così com’è, sembra ad alcuni eccessivo di intransigenza, di vivacità, di precipitazione, pensino coloro, che di questo lo accusano, che ciò è l’effetto fatale della guerra, la quale ha creato nelle masse uno stato di insurrezione psichica che non sarà domato se non da conquiste reali, radicali e profonde. E il partito deve riflettere questo stato delle masse, per interpetrarle, ed eventualmente anche per poterle contenere. Chi spera che le differenze inevitabili di tendenze, che sono in ogni partito vivo, debbano condurci al distacco, allo sfacelo, credo che si inganni. Credo fermamente, e non da oggi e non per opportunità del momento, nella fondamentale necessità dell’unità del partito socialista. (…). Nelle sezioni del nostro gruppo si studiano proposte di legge e provvedimenti positivi, col consenso anche dei nostri più estremi estremisti, che eventualmente potrebbero anche essere l’àncora di salvezza per quel tanto di regime borghese, che è giusto debba per un certo tempo, sopravvivere nella zona del trapasso storico. Questa incoerenza formale è la prova che siamo vivi; che la formula ci serve ma non ci opprime; che sappiamo distinguere, e che non confondiamo quella che sarebbe collaborazione vera e propria di partiti e di classi, pericolosa in dati momenti, specialmente pericolosa per i più deboli, da quella che è coincidenza o comunione inevitabile di interessi vitali, insuperabile in qualunque convivenza sociale; che abbiamo nel nostro programma effettivo, quello che erompe nell’azione la quale è la grande pacificatrice delle tendenze, l’oggi e il domani, l’oggi per il domani, il domani per l’oggi. Certo non è più, oggi, la ormai arcaica distinzione del programma minimo e del programma massimo, come si concepiva una volta, che era un po’ una concezione cattolica, forse più del vecchio che del nuovo cattolicismo. (…) Perciò si parla, non da noi soltanto, di periodo rivoluzionario, di crisi di regime : di regime politico, di regime sociale. Molti di voi ripetono oggi, e molti credo in buonissima fede, che molto bisognerà concedere per non perdere tutto, per mantenere la compagine sociale, dico la compagine, non dico l’attuale compagine; per conservare ciò che è degno di essere conservato, ciò che è necessario ai supposti eredi del domani; per non precipitare insomma nell’anarchia, che è un po’ la sorella, un po’ la figlia del capitalismo, e che sta in diametrale antagonismo teorico, che è la negazione in termini, del socialismo. Molti sentono fra voi che ciò che siamo usi chiamare l’ordinaria amministrazione, non basta più. Lo sentì l’onorevole Nitti, che si ribellò, almeno idealmente, al trattato di Versailles che era (e dico che era perchè si può forse cominciare a parlarne al passato prossimo) il capitalismo, nella sua più cruda espressione, applicato alla politica internazionale; era la pace di guerra, così come il capitalismo, all’interno e all’estero, è sempre la guerra anche in tempo di pace. L’onorevole Nitti prese dai socialisti le principali direttive della sua politica estera; forse avrebbe prese da essi anche molte direttive nella politica interna, se i socialisti gliele avessero offerte. E più volte preluse all’inevitabile, all’augurabile avvento di un Governo laburista in Italia. Ma l’azione, soprattutto nella politica interna, fu impari, forse per acerbità di casi e di tempi, alla fede professata e ne tenne la sua fatale caduta. Così è tornato l’onorevole Giolitti, il cui ritorno a quei banchi sembra l’epilogo solenne di un vasto dramma, non soltanto suo personale, ma nazionale e storico, e trascende di gran lunga l’importanza di uno dei consueti avvicendamenti ministeriali. Bisognerebbe essere un po’ meno che uomini per non sentirlo, a qualunque idea si appartenga, sotto qualunque vessillo si militi (…). Ma dopo di lui molti vedono il buio, il nulla, l’abisso. Altri, dopo di lui, intravvedono l’alba; e ciascuno si sogna l’alba che più gli conviene. Certo è che la monarchia, in questo crollare fragoroso di troni e di dominazioni, non parve mai meno salda di ora anche in Italia. (…) E più si carezza il socialismo, e più esso rilutta e vi sfugge. Ora qui accade di ricordare una frase di Claudio Treves, che chiuse un suo mirabile recente discorso. Nel quale il mio amico analizzò la grande tragedia dell’ora, e a questa tragedia pose il nome: « Espiazione ». Espiazione, egli intese, della borghesia, che volle la guerra, che vinse la guerra, che non seppe e non sa darci la pace. (…) La borghesia, in questo momento, non è più capace di reggere il potere; il proletariato non è ancora pronto a riceverne la successione. Così Treves chiuse il suo discorso. (…) Ogni trapasso, anche se assume forme violente, è sempre un assorbimento del nuovo nel vecchio e del vecchio nel nuovo; con questo vantaggio che il vecchio non si rinnova e il nuovo non si rinvecchia. E questa è la rivoluzione. Perciò, ripeto, chi è assorbito assorbe. La generazione, la procreazione, la fecondità sono a questo patto. (…) Il gradualismo dell’onorevole Giolitti è un gradualismo prebellico, impari alle esigenze del momento, in ritardo di sei anni sul quadrante della storia. Il gradualismo è una magnifica cosa. Io sono accusato ogni giorno da questi miei turbolenti compagni di essere troppo gradualista. Comunque, il gradualismo è una cosa ammessa da tutti (abbiamo persino un massimalismo gradualista !) quando la natura delle cose lo consente. Quando insomma c’è tempo e si può aspettare. Allora, chi va piano va sano, e va qualche volta lontano. (…). Il rimedio primo, il più vero, vorrei dire il solo rimedio, è nel trasformare l’economia, non la finanza del Paese. Ciò che voi ponete dopo, deve venir prima, o almeno contemporaneamente. Tanto più che a rendere più spinose tutte le questioni, più difficili tutti i rimedi, concorre la crisi psicologica, la quale è causa ed effetto insieme della crisi economica, generate entrambe dalla guerra, mantenute dalla pace che non è pace; crisi che è una vera psicosi, diffusa, molteplice, universale, ma più grave in Italia, perchè è paese economicamente fra i più deboli di Europa. Non dirò dei fenomeni più appariscenti: il lusso sfrenato, rivoltante, che fa pensare con nostalgia, per quanto scettica, alle antiche leggi suntuarie. Ciò che più impressiona è lo spirito di indisciplina, che ha invaso tutte le classi sociali. Aggiungete il menomato rispetto della vita umana, dell’altrui come della propria. La guerra ha alterato profondamente tutti i consuetudinarii valori morali. La gente minaccia l’altrui vita, ed espone la propria, con una indifferenza non conosciuta prima della guerra. Il trattato di Versailles, che è – lasciatemi ripeterlo – l’espressione del capitalismo più crudo applicato alla politica internazionale, e la cui revisione si impone. Ora, su ciò tace completamente il programma del Governo. Se non che, forse, anche in questo silenzio è un argomento a favore della mia tesi, della preminenza, necessità ed urgenza assoluta della restaurazione economica del Paese, anche prima delle economie e dei provvedimenti finanziari. Perché, certo, finché noi saremo così strettamente vassalli dell’estero per il pane quotidiano quale voce effettivamente influente potremo avere nei consessi dei potentati, sia pure con le proposte Commissioni parlamentari? Dopo aver demolito la Germania, con nostro danno infinito, oggi dobbiamo pensare ad aiutarla a ricostruirsi per il nostro meglio; dopo aver combattuto la Russia, o almeno essere stati nella combriccola che si ingegnava di combatterla, dobbiamo fare di tutto per rappacificarci al più presto con quel grande ex impero ; dopo aver suscitato la guerra civile in Albania (a proposito, quanto c’è costata, onorevole Meda?) che si ripercuote in un’altra e ben peggiore guerra civile in Italia (e i fattacci di Ancona ammaestrano) dobbiamo dichiarare che rinunziamo (e ahimè! non farà ciò l’impressione della favola dell’uva acerba?) a ogni protettorato. E via via. Non vi è punto del trattato di Versailles che non sia tutto da rifare, da capovolgere. Senza dire che l’onorevole Giolitti, il quale fu già rimproverato, e sia pure a torto, di aver lasciata disarmata l’Italia (e dovette difendersene nel discorso di Dronero) e vuoti i magazzini militari, in un periodo pericoloso, certo non vorrà affrontare oggi la stessa accusa, nell’evento di altre guerre possibili. Ora, onorevole Giolitti, voi avete fatto, con nobili parole, appello all’Internazionale operaia, nel vostro discorso di Dronero, Per la salvaguardia della pace. Ma l’Internazionale proletaria non può esistere, non può essere forte, se non siano forti localmente, in ogni nazione, i proletariati organizzati ed i partiti socialisti. Ora questi proletariati e questi partiti cominciano ad avere la loro politica estera e cominciano ad imporla ai rispettivi Stati. È inutile dirvi che noi vogliamo soppresso il trattato di Versailles perchè esso è una abominazione, perchè esso è la proprietà privata applicata a tutto il mondo a beneficio di una egemonia. Ora l’onorevole Giolitti, nel discorso di Dronero, ha toccato tutta quanta la gamma della restaurazione economica. Agricoltura da industrializzare; emancipazione dal grano estero; chi lascia terre incolte commette un delitto (onde il suo progetto granario); confisca delle terre incolte; il cotone da coltivarsi nell’Eritrea o nel Benadir; irrigazione; istruzione agraria e tecnica serie; industrie che occupino più mano d’opera e meno materie prime, mentre sono ancora tanto care; utilizzazione delle forze idriche e quindi emancipazione dal carbone estero ecc., ecc. Insomma tutto il ricettario. Ossia Giolitti è ancora Nitti. E siamo, ripeto? tutti d’accordo ! Ma la questione non è nell’essere d’accordo in teoria; è nel volere e nel potere realizzare. Direi quasi che il problema è superiore alla volontà dell’uomo. Può il Ministero, con questa Camera, può la borghesia italiana, in questo momento, realizzare questo programma ? Lo vuole essa davvero? ’ Cè nel congegno del capitalismo italiano di quest’ora (poiché anche fra capitalismo e capitalismo bisogna spesso distinguere) qualche attrito invincibile che impedisca questa realizzazione? (…) Tanto più, badate, che in questo caso non si tratta di prestiti allo Stato, ma di prestiti alla Nazione. In altri termini: la soluzione della crisi, politica, economica, morale, crisi di regime, crisi di trapasso, chiamatela come meglio vi garba, consiste nel creare subito le condizioni economiche e politico-morali per cui la Nazione possa in breve termine raddoppiare la sua produzione. Oh Dio, non pigliate la parola « raddoppiare » nel senso strettamente aritmetico; non s’intende dire che si debba produrre il doppio di grano, il doppio di tessuti, ecc., ecc. ; s’intende resuscitare nuove sorgenti naturali, non artificiali, di energia nel Paese, perché esso possa superare il deficit. Quando questo si sarà ottenuto, si sarà molto più che raddoppiata la ricchezza. E ho parlato di condizioni economiche e di condizioni politico-morali, che sembrano due cose diverse e sono invece una sola; perchè non si creano veri miglioramenti economici senza certe riforme politiche – e questo dico alla borghesia – e non si riesce a trar profitto dalle riforme politiche – e questo dico ai miei compagni – senza certi coefficienti economici. Bisogna che il Governo d’Italia – borghese ? comunista? bolscevico?; Giolitti ? Misiano? Non importa il nome e la persona; non importa neppure l’etichetta, perchè “vi può essere un bolscevismo (vedi Russia) che finisce per creare tutto ciò che vi è di più antisocialista, la piccola proprietà: l’economia è più forte di tutte le formule e di tutti i programmi a tavolino; … bisogna, dicevo, che lo Stato italiano, diventi da politico, economico; anticipazione precipitata del comunismo classico, secondo la definizione e il presagio del nostro Engels, per il quale il «Governo degli uomini » doveva, nel comunismo, diventare «l’amministrazione delle cose ». È unicamente a questo patto che la situazione può essere salvata per tutti, per la borghesia e per il socialismo; senza di questo è irremissibilmente perduta per tutti; per noi e per voi. (…) L’uomo è l’operaio, il proletario lo scontento, il ribelle, il rivoluzionario, e sarà tale finché non ne avremo fatto il padrone del lavoro e della produzione. Questo è dunque il programma dell’avvenire. Io non so chi lo eseguirà. Io so che, senza questo elemento, dell’emancipazione dell’operaio, niente di questo si farà. E non occorre essere socialisti. Io ho trovato – mi è arrivato l’altro giorno e lo avrete ricevuto anche voi – in questo libro fatto tutto da parrucconi molto rispettabili – che contiene gli studi e le proposte della Commissione del dopo guerra presieduta da Vittorio Scialoja, a un dipresso le medesime mie conclusioni. Leggete la relazione del nostro ex collega onorevole Fava, presidente della sezione decima. Egli dice le medesime cose: «Se non create le condizioni necessarie all’interessamento degli operai nella produzione, dati i tempi mutati, data la psicologia del dopo guerra, non otterrete nulla di nulla». Una volta era questione di giustizia, oggi è questione di vita o di morte. Conosco altri due uomini che hanno veduto queste cose; e sono un antico ed un moderno. Il moderno è il dottor Ratenhau, forse il più geniale ricostruttore, che abbia dato la guerra ; il quale nella sua Economia nuova dimostra, meglio che io non abbia saputo, come questa valorizzazione dell’uomo in Germania – e oggi là le condizioni sono peggiori che in Italia – sia indispensabile per redimere il paese. Vorrei ottenere che la Economia nuova fosse letta dai colleghi deputati: il mio discorso avrebbe raggiunto tutto intero il suo scopo. Solo quel popolo – afferma l’autore -che prima avrà soppresso l’antagonismo che è fra l’operaio ed il capitale, solo quel popolo trionferà.
L'opinione. Cosa direbbe Turati delle nostre prigioni? Domenico Ciruzzi su Il Riformista il 24 Marzo 2020. «Fuggono anche i detenuti qualche volta, ma troppo di rado, e io vorrei che le evasioni fossero ben più numerose: me lo augurerei di cuore» (F. Turati, Il cimitero dei vivi, da un discorso alla Camera dei Deputati sulle condizioni del sistema carcerario del 1904). A fronte delle grida di dolore che si levano dalle carceri e dal personale penitenziario, il Governo ha tecnicamente risposto con una presa in giro – un “cinico bluff” come definito, con parole vere e chiare, dal presidente dell’Unione camere penali, Gian Domenico Caiazza – che, nella migliore delle ipotesi, consentirà a poche centinaia di detenuti di scontare il residuo di pena all’interno delle proprie abitazioni. La presa in giro si annida nella parte finale del provvedimento: la concessione della detenzione domiciliare è subordinata (salvo che per i detenuti con un residuo di pena inferiore a sei mesi) alla disponibilità dei braccialetti elettronici. Sì, proprio quegli introvabili braccialetti elettronici la cui cronica e colpevole indisponibilità è la causa di quasi la totalità delle custodie cautelari in carcere: è irridente; è disumano. Pochissimi dunque usciranno dal carcere ed, a turno – come in una sorta di tragica riffa – via via che i braccialetti si liberanno. Quella moderazione, quell’evitare fughe in avanti, quella sana logica del miglior compromesso possibile a cui ci si è sottoposti per tentare di raggiungere un risultato intermedio in grado di salvare numerose vite umane sembrerebbe essere risultata vana. Il confronto sembra essere impossibile con gli integralisti delle manette, veicolo sicuro per attrarre il consenso. Ma non vogliamo e non possiamo arrenderci. Continuiamo ad invitare ed esortare il Governo e il Parlamento a cambiare rotta e ad assumere provvedimenti che realmente mettano al sicuro la salute delle decine di migliaia di detenuti, guardie penitenziarie ed operatori del carcere in questo momento sottoposti ad inaccettabili rischi. Aggiungiamo, inoltre – anche attraverso un appello al Presidente della Repubblica perché svolga quel compito di moral suasion che costituisce l’essenza fondamentale del suo ruolo all’interno degli equilibri costituzionali – la necessità di emanare provvedimenti di amnistia ed indulto che possano consentire al nostro paese di rientrare nei confini della civiltà e dell’etica. Mantenere lo status quo significa rappresentarsi ed accettare non già il possibile rischio bensì il più che probabile evento che moltissimi detenuti e guardie penitenziarie possano contrarre il virus ed in alcuni casi morire. Agire (o non agire) pur sapendo che necessariamente una simile condotta produrrà certi risultati significa assumere su di sé la responsabilità politica e giuridica delle eventuali morti. Si è davvero disponibili a tutto questo pur di restare coerenti alla brutale e demagogica propaganda? Quattordici detenuti sono già morti nei giorni delle rivolte, “perlopiù” – come improvvidamente riferito in Parlamento dal Ministro di Grazia e Giustizia – per intossicazione da abuso di farmaci e metadone. Evitiamo tra qualche mese di contare decine di decessi tra i detenuti, perlopiù a causa del coronavirus. Nel 2020, cosa direbbe Filippo Turati sul carcere al tempo del coronavirus?
La biografia. Chi era Filippo Turati, il padre nobile del socialismo democratico. Redazione su Il Riformista il 25 Giugno 2020. Nato a Canzo, provincia di Como, nel 1857, Filippo Turati era figlio di un alto funzionario statale. Intrapresi gli studi giuridici, si laureò nel 1877 all’università di Bologna per poi trasferirsi con la famiglia a Milano, dove frequentò A. Ghisleri e R. Ardigò, e iniziò la carriera di pubblicista come critico letterario. Negli anni successivi si avvicinò agli ambienti operai e socialisti e attraverso Anna Kuliscioff, compagna alla quale si legò per tutta la vita a partire dal 1885, entrò in contatto con alcuni esponenti della socialdemocrazia tedesca. Proprio in questo periodo Turati aderisce al marxismo. Nel 1889, insieme alla Kuliscioff, fondò la Lega socialista milanese, con l’obiettivo di creare un centro di aggregazione delle forze socialiste, primo passo verso la formazione di un partito autonomo della classe operaia. Questa azione, nel cui ambito si collocò la pubblicazione della rivista Critica sociale, culminò nel 1892 nella fondazione del Partito socialista dei lavoratori italiani (che dal 1895 assunse la denominazione Psi), cui Turati diede un contributo decisivo. Deputato a partire dal 1896, fu arrestato in occasione dei moti del 1898 e condannato a dodici anni di reclusione. Ma uscì di prigione l’anno successivo. Leader riconosciuto della corrente riformista, di fronte alla nuova fase politica avviata da G. Giolitti, Turati sostenne la necessità di appoggiare la borghesia liberale in un’ottica gradualistica. Antimilitarista, osteggiò la guerra in Libia (1911) e l’intervento italiano nel conflitto mondiale; nel dopoguerra il suo ruolo all’interno del Psi ormai guidato dalla componente massimalista, scemò. Espulso dal partito, nel 1922 diede vita, con Matteotti, al Psu. Nel 1926, dopo una fortunosa fuga organizzata da Parri, Rosselli e Pertini, si stabilì a Parigi, dove contribuì, nel 1929, alla costituzione della Concentrazione antifascista e, l’anno successivo, alla fusione socialista.
· L’Alba Rossa del Fascismo.
La storia del milite Berto spiega (davvero) il fascio. Il diario romanzato racconta il lungo viaggio nel regime, dalla speranza alla disillusione...Alessandro Gnocchi, Giovedì 12/11/2020 su Il Giornale. Guerra in camicia nera (Garzanti, 1955; e ora Neri Pozza, pagg. 288, euro 17) di Giuseppe Berto è un libro necessario per capire cosa sia stato il regime fascista, quale potere di attrazione abbia avuto e quale disillusione abbia prodotto in coloro i quali non hanno conosciuto altro per una parte non indifferente della propria vita. Se invece preferite non capire, c'è una quantità sterminata di libri, anche molto venduti, che spiano Mussolini dal buco della serratura, illudendosi di cogliere così lo spirito dell'epoca. Berto ha attraversato il regime dall'inizio fino al disastro della Seconda guerra mondiale. Nella sua assenza di retorica, Guerra in camicia nera illustra sogni e incubi del Ventennio meglio di tanta letteratura neorealista. L'opera fu giudicata sciatta (non lo è) e provocò la proscrizione di Berto in quanto «fascista». Al lettore di oggi risulterà incomprensibile, oppure fin troppo comprensibile, come sia stato (quasi) cancellato dalla memoria nazionale un libro così coraggioso. Pare strano che Berto non si rendesse conto delle conseguenze che avrebbe avuto la pubblicazione di Guerra in camicia nera. Fu un'esperienza simile a quella di Mario Tobino. Lo scrittore di Viareggio pubblicò nel 1952 Il deserto della Libia. Anche l'ufficiale medico Tobino, come Berto, era stato in Africa e aveva preso appunti con l'idea di rielaborarli in seguito. Il deserto della Libia, nonostante si presentasse come romanzo e condannasse la tirannia fascista, fu accolto da stroncature (si scomodò Togliatti) e duramente criticato anche all'interno della stessa casa editrice che lo pubblicò: Einaudi. Il diario di Berto offre un punto di vista ancora meno convenzionale sulla disastrosa campagna d'Africa. Berto partecipò come ufficiale della milizia e prese appunti su un taccuino tascabile negli anni 1942-1943. Nel 1955 avvertì il bisogno «di un lavoro semplice e onesto» su quei fatti. Voleva scrivere sulle «camicie nere» parole «libere da quell'accanimento con cui abbiamo combattuto gli uni contro gli altri, e soprattutto libere dalla retorica». Lo scrittore veneto, con sorprendente ingenuità, era convinto che il Paese fosse pronto ad ascoltare e dibattere alcune verità scomode. Si sbagliava. Per i suoi detrattori, aveva confessato: restava un fascista. Anche se non lo era più. Berto conduce il lettore dal trionfalismo della propaganda alla prosaica realtà della disfatta. L'ufficiale ventisettenne sbarcato volontario in Africa nel settembre del 1942 era ancora fiducioso che il regime potesse correggere i suoi errori. Dopo la guerra, sarà necessaria «una rivoluzione nel fascismo e non contro il fascismo». Il fascismo infatti «contiene i principi morali, sociali ed economici necessari alla civile convivenza di un popolo e dei popoli fra loro». La limitazione della libertà in cambio di ordine e giustizia è transitoria. Poi verrà il vero fascismo: «In sostanza, non si tratta d'altro che di eliminare la stupidità e la corruzione, di concedere una maggiore libertà politica perché un governo onesto non può avere paura dell'opposizione, e soprattutto di dare un reale valore dinamico al motto fascista andare verso il popolo». Neppure Mussolini potrà opporsi al cambiamento. Il colonialismo è una colossale opera civilizzatrice che dovrà approdare all'autonomia dei Paesi occupati, con statuti speciali che permettano la convivenza alle genti «di qualsiasi nazionalità e razza». Berto, nascosto nelle buche per evitare i colpi dell'artiglieria britannica, ha tempo di meditare. Il colonialismo come lo immagina lui è impossibile: «Purtroppo, con le tendenze imperialistiche e razziste del fascismo, questo non è che un sogno». La ritirata precipitosa dei reparti, comandi inclusi, riduce i roboanti messaggi del Duce a quello che sono: veline. I soldati sono allo sbando sulle spiagge tunisine di Hammamet, cercano di costruire imbarcazioni con bidoni vuoti e motori recuperati. Le zattere in fuga verso Pantelleria sono mitragliate dagli Spitfire di passaggio e colate a picco nel canale di Sicilia. A bordo non ci sono disertori ma soldati con regolare permesso di rimpatrio abbandonati da un esercito ormai dissolto. La linea di difesa, l'enorme caposaldo nel quale attendere il momento propizio per lanciare la controffensiva di cui vaneggia la propaganda, continua ad arretrare, fino a ridursi a un fazzoletto di terra in riva al mare della Tunisia. I soldati si convincono di poter resistere all'infinito per non impazzire del tutto sotto le bombe nemiche, alle quali non possono rispondere per mancanza di armi e munizioni. In Guerra in camicia nera c'è il senso del dovere e manca l'eroismo o meglio la retorica dell'eroismo. La sconfitta è il frutto inevitabile delle menzogne e dell'opportunismo del regime. È un addio al fascismo senza rinnegare il giovane Berto che nel fascismo aveva creduto al punto tale da regalare a Mussolini sette anni in divisa, spesso in prima linea. Del fascismo, al termine della guerra, mentre i prigionieri sono coperti di insulti al passaggio per le strade, rimane solo l'immagine di una ragazzina che fa il saluto romano agli sconfitti, restituendo loro un po' di dignità. Ma è un simbolo ormai privo di ogni significato politico: «Il suo gesto rimase nella nostra memoria, ma spoglio di qualsiasi carattere di lotta e di resistenza, come un atto di bontà pura». La nuova edizione Neri Pozza riproduce quella Garzanti del 1955, accompagnando il testo con una prefazione e una postfazione di Domenico Scarpa. Sono entrambe ben curate e riuscite ma si fa preferire di una incollatura la postfazione, che produce nuovi documenti sulle modalità di stesura e sulla ricezione editoriale dell'opera. Saranno forse dettagli ma nel dettaglio filologico si nasconde sempre il significato di un'opera e lo stile di un autore. Dunque andranno valutate, con la dovuta calma, le tre stesure di Guerra in camicia nera, e anche il passaggio, dovuto a un disguido postale, del libro da Einaudi a Garzanti, dove uscì per la prima volta.
A spianare la strada furono i socialisti. Marcia su Roma, le responsabilità della sinistra nella presa di potere dei fascisti. Giuliano Cazzola su Il Riformista il 6 Novembre 2020. Il 28 ottobre 1922 fu la giornata della Marcia su Roma (“e dintorni” come Emilio Lussu volle intitolare il racconto di quell’evento). L’organizzazione paramilitare del fascismo – sotto la guida del cosiddetto quadrumvirato, costituito il 16 ottobre, composto da Italo Balbo, Cesare Maria De Vecchi, Emilio De Bono e Michele Bianchi e stanziato a Perugia – iniziò a mobilitarsi il 27 con l’ordine di occupare le Prefetture, gli Uffici postali e telegrafici e le reti telefoniche. “L’esercito delle camicie nere” disponeva di un armamento raffazzonato e non sarebbe stato in grado di reggere uno scontro con le truppe regolari, scaglionate sulle strada di accesso alla Capitale agli ordini del comandante di quella piazza, il generale Pugliese. La mattina del 28 Luigi Facta (il presidente del “nutro fiducia”) portò al sovrano il decreto sulla proclamazione dello stato d’assedio, ma Vittorio Emanuele III non lo volle firmare; così le squadre fasciste entrarono indisturbate a Roma (vi furono tuttavia degli scontri nel Quartiere di San Lorenzo), mettendo a sacco le sedi sindacali, socialiste e comuniste. Nei giorni immediatamente successivi intervennero alcuni tentativi di mediazione, respinti da Mussolini; il Re decise allora di convocare il Duce per conferirgli l’incarico di formare il governo. Cosa che avvenne il 30 ottobre. Mussolini si presentò al Quirinale in camicia nera, scusandosi con il sovrano per non aver potuto indossare un abbigliamento più consono, in quanto – disse – “reduce dalla battaglia” (in verità Benito Mussolini, durante la parata delle sue squadre, si era ritirato a Milano, a un passo dalla Svizzera, dove intendeva rifugiarsi se l’avventura fosse fallita). Rivolgendosi al Re (quando era direttore dell’Avanti! lo definiva il signor Vittorio Savoia) affermò: «Porto a Vostra Maestà l’Italia di Vittorio Veneto, riconsacrata dalla vittoria e sono il fedele servo di Vostra Maestà». La Marcia su Roma fu l’epilogo di quello che gli storici definiscono il “biennio nero” (1921-1922), il periodo in cui cominciò a dilagare – incontrastata – la violenza fascista, con la complicità palese degli apparati dello Stato e il sostegno politico ed economico di ampi settori della borghesia, del mondo dell’impresa e dagli agrari. Il Partito socialista aveva sprecato la grande capacità di lotta che le masse operaie avevano espresso nel biennio precedente (“il biennio rosso”) culminato nell’occupazione delle fabbriche del settembre del 1920. Il gruppo dirigente non era stato in grado di far valere, sul versante istituzionale, il grande successo elettorale ottenuto nel novembre 1919, quando per la prima volta si votò col suffragio universale riconosciuto a tutti gli uomini che avevano compiuto 21 anni o, se più giovani, partecipato al conflitto bellico. Gli iscritti alle liste elettorali erano passati da 8,6 milioni a più di 11 milioni. Le diverse componenti liberali ottennero 178 seggi contro i 310 del 1913; i socialisti massimalisti 156 seggi contro i 52 precedenti; i popolari – al primo cimento elettorale – 100 deputati (il PPI era stato fondato da don Sturzo nel gennaio 1919); 39 i radicali, 27 i socialisti riformisti, 20 gli ex combattenti e 9 i repubblicani. I fascisti si presentarono solo a Milano ma ottennero circa 5mila voti e non elessero alcun parlamentare. Dopo le elezioni amministrative del 1920 in occasione delle quali i socialisti conquistarono più di 2mila comuni (1600 i popolari), nella successiva competizione politica, svoltasi il 15 maggio 1921, già si poteva intravvedere l’inizio del declino del Psi che ottenne 123 seggi (vi era già stata all’inizio del 1921, al Congresso di Livorno, la scissione del Pc d’I che elesse 15 deputati), mentre i popolari guadagnarono 8 eletti in più. I fascisti conquistarono 35 seggi, 10 i nazionalisti (coalizzati nei cosiddetti blocchi nazionali insieme alle liste liberali). Questi risultati del voto sono la prova che il Pnf costituiva una minoranza del Paese e che solo la violenza dello squadrismo e la benevolenza dei poteri economici aprirono a questo partito le porte del potere. Ma enormi furono gli errori e gli ostacoli incontrati dai socialisti e dai popolari a presentarsi come una reale alternativa. Se i popolari dovettero fare i conti con la Chiesa cattolica interessata alla linea di conciliazione offerta da Mussolini e ovviamente ostile al “pericolo rosso”, i socialisti fecero tutto da sé (anche se è innegabile che le milizie fasciste avevano usato il pugno di ferro contro il Partito e la Cgl). A cominciare dalla richiesta di aderire alla III Internazionale. Il loro programma consisteva nel “fare come la Russia”, istituire la Repubblica socialista e la dittatura del proletariato, socializzare i mezzi di produzione e di scambio e quant’altro passava il convento del “mito bolscevico”. Pertanto, nel nome della rivoluzione proletaria, veniva respinto, dalla maggioranza massimalista, ogni possibile intesa con altre forze. A testimonianza dell’impotenza settaria che esprimeva allora il Psi, basterebbe leggere gli atti del XIX Congresso nazionale svoltosi a Roma dall’1 al 4 ottobre 1922 (ossia poche settimane prima della Marcia su Roma) e prendere atto dell’ordine del giorno con cui era stato convocato: “Situazione interna del Partito e sua attività politica nel Paese e nel Parlamento. Appoggio a indirizzo di Governo e partecipazione al potere nell’attuale regime”. Ballando ormai sull’orlo del precipizio, i socialisti portarono a termine quella scissione che era nelle cose da tempo (che era stata evitata a Livorno e a Milano). I massimalisti decisero di espellere la corrente riformista e quella centrista in ossequio ai diktat della III Internazionale (“Il partito socialista, eliminato dal suo seno il blocco riformista-centrista, rinnova la sua adesione alla III Internazionale”). Gli esiti del voto (32mila per i massimalisti contro 29mila per gli unitari) spaccarono il Partito a metà. Il dibattito si caratterizzò per le accuse contro i riformisti (e i loro interventi di difesa). Le prime critiche vennero già nella relazione del segretario Fioritto, il quale attribuì agli avversari interni la responsabilità dell’insuccesso dello sciopero generale del 30 luglio (uno sciopero politico per chiedere alle autorità di contrastare le violenze fasciste): «I riformisti (il gruppo dirigente della CGL, ndr) proclamando tale sciopero all’inizio della crisi e sospendendolo alla sua conclusione e definendolo legalitario, lo avevano fatto apparire al proletariato come uno strascico montecitoriale, snervando le masse più accese». Dopo il segretario intervenne Giacinto Menotti Serrati: «Il nostro compito non è quello di aiutare la borghesia a risolvere la propria crisi, ma quello di trarre dalla crisi i vantaggi rivoluzionari». Per i riformisti Modigliani ironizzò: «Se i riformisti erano colpevoli di aver impedito la rivoluzione, non si sarebbe dovuto aspettare tanto tempo per espellerli». Poi, l’oratore in polemica con Serrati – come è scritto nei resoconti – negò l’esistenza di una crisi del sistema capitalista e borghese, sottolineando la necessità di distinguere fra ristretti gruppi plutocratici (…) e la borghesia democratica. Lazzari, poi, preconizzò che al Partito si apriva un campo d’azione nuovo e illimitato; deplorò l’autonomia del gruppo parlamentare chiedendo una severa punizione per i deputati che avevano trasgredito. I massimalisti criticavano, in particolare, Filippo Turati perché aveva accettato l’invito del sovrano a recarsi al Quirinale per consultazioni. A nulla servirono le argomentazioni di Claudio Treves, il quale smentì che i riformisti volessero cercare una collaborazione permanente con altre forze con le quali sarebbe stata tuttavia possibile una alleanza temporanea per “impedire che la reazione finisse per distruggere le conquiste e il patrimonio del proletariato”. Dopo Giacomo Matteotti, era di nuovo intervenuto Serrati sostenendo che «la logica del collaborazionismo avrebbe portato coloro che di esso si facevano fautori a collaborare col fascismo verso il quale andavano in quel momento le forze della borghesia». La mozione approvata riprendeva questo concetto e deliberava che «tutti gli aderenti alla frazione collaborazionista e quanti approvano le direttive segnate nel manifesto e nella mozione anzidetta, sono espulsi dal Psi». Il discorso di addio venne svolto da Filippo Turati: «Mentre noi ce ne andiamo rientra il comunismo». A Turati rispose Serrati: «Il discorso di Turati ha dimostrato quanto l’operazione fosse necessaria». La mattina del 4 ottobre i riformisti si riunirono e fondarono il PSU, eleggendo segretario Giacomo Matteotti; intanto, il XIX Congresso proseguiva all’insegna del delirio e del compiacimento per la pur tardiva “operazione chirurgica”, avendo la “malattia trascurata per un biennio provocato un danno incalcolabile all’organismo del Partito”. Nel prosieguo del dibattito Giacinto Menotti Serrati fece notare – è scritto nel resoconto – che, indipendentemente dalla pressione reazionaria (tanti municipi governati dai socialisti erano stati attaccati e distrutti, ndr) il Partito non poteva più condividere le responsabilità politiche dei Comuni con i partiti estranei». Per quanto riguardava il sindacato, i Comitati sindacali socialisti erano invitati a portare avanti politiche «per le quali il concetto di classe e di espropriazione economica e politica delle classi dominanti devono essere preminenti». Pochi giorni dopo la Marcia su Roma Menotti partì per partecipare al IV Congresso dell’Internazionale comunista che iniziò a Pietroburgo il 5 novembre.
Lo Stato etico di Gentile è anche un po' socialista. Nel suo testamento spirituale del 1943 il filosofo colloca la collettività davanti all'individuo. Corrado Ocone, Mercoledì 30/09/2020 su Il Giornale. Due belle notizie in una: riprende l'attività la storica casa editrice Vallecchi e subito esce per i suoi tipi la nuova edizione di una delle più importanti opere della filosofia italiana del Novecento: Genesi e struttura della società. Saggio di filosofia pratica, di Giovanni Gentile (pagg. 262, euro 18, introduzione di Marcello Veneziani). Diciamo subito che si tratta di un'opera molto particolare, per più motivi: prima di tutto perché segna per Gentile un ritorno alla speculazione dopo vent'anni di impegno soprattutto politico-culturale; poi perché, per molti aspetti, essa rivolta il senso del suo sistema di pensiero «neoidealistico», così come era andato delineandosi soprattutto nei due primi decenni del secolo. Inoltre perché, giungendo alla fine della sua vita, essa suona quasi come un testamento, e anzi come tale fu scritto, quasi di getto, a Tonghi, presso Firenze, da un Gentile che presagiva la morte. Era il 1943 e il filosofo, che sarebbe stato ucciso da un agguato partigiano il 15 aprile dell'anno successivo, si mise a lavorare per scrivere l'opera subito dopo aver pronunciato a fine giugno un lirico Discorso agli italiani in Campidoglio. In esso, egli proponeva una conciliazione nazionale in grado di far ripartire il Paese dopo la guerra civile che lo stava spaccando in due. A Mario Manlio Rossi, un suo allievo antifascista e che da filosofo farà una strana carriera in Scozia nel dopoguerra come docente di letteratura italiana, Gentile, mostrando il manoscritto finito dell'opera, così disse: «i vostri amici possono uccidermi ora se vogliono, il mio lavoro nella vita è concluso». Quale sia la novità di Genesi e struttura della società è presto detto: l'emersione della comunità all'interno di un pensiero che, per come era stato elaborato, poteva subire facilmente torsioni individualistiche. Se è infatti evidente che l'individuo idealistico non è quello empirico, è pur vero che è nell'uomo concreto in carne e ossa che si consuma tutto il dramma di un Atto puro che, come il fuoco, consuma il combustibile che gli viene dato e trascende sempre le pratiche realizzazioni umane. Ne consegue che, per paradossale che possa sembrare, l'attualismo di Gentile è un «idealismo senza idee», come ebbe a definirlo Vittorio Mathieu, e quindi è molto prossimo al nichilismo e al relativismo. Con questa prospettiva, veniva però a contrastare tutta l'esperienza fascista, e in fondo la stessa voce di Gentile all'interno di essa. Il nazionalismo, l'appello allo Stato etico, l'organicismo, tutti quelli che erano gli elementi essenziali a cui, non senza contrasto con le altre anime del regime, il filosofo di Castelvetrano aveva praticamente aderito, trovano ora una giustificazione teoretica, ma anche una rivisitazione critica. Si fa perciò ancora più forte il distacco di Gentile dal liberalismo, da quella che lui considera hegelianamente una visione atomistica e astratta della società umana. Il «noi» precede l'«io», e l'individuo è un risultato e non un dato. Ed emergono con ancora più nettezza i caratteri del regime politico ideale come Stato etico. Uno Stato, cioè, con una propria religione, un insieme forte di valori da trasmettere ai singoli pedagogicamente e paternalisticamente. È uno Stato e una comunità in interiore homine, certo, quella a cui pensa Gentile, ma l'insistenza sui valori sociali avvicina ora veramente il suo pensiero a quello socialista. D'altronde, il Duce stesso, che egli fino all'ultimo non volle tradire, si ricongiungeva in qualche modo, con l'esperienza di Salò, alle sue origini. In questa direzione teoricamente raffinata e socialisteggiante va anche l'insistenza, in Genesi e struttura della società, su un «umanesimo del lavoro» che deve affiancare quello della cultura che gli italiani elaborarono già in epoca rinascimentale. Comunque sia, la radicalità e la profondità di questo pensatore, di cui pure tanto non condividiamo, ci fa toccare con mano in modo impietoso il deserto culturale dei nostri tempi e la decadenza delle classi dirigenti della nostra povera Italia.
Il biennio rosso. Il racconto di un operaio bolognese. La storia delle occupazioni delle fabbriche di cento anni fa. Redazione su Il Riformista il 14 Settembre 2020. Nel luglio 1920 lo scontro si era ora spostato sulla questione degli aumenti di salario e sulla riduzione dell’orario di lavoro. La FIOM (sindacato metalmeccanici) chiese il rinnovo del contratto per ottenere aumenti salariali e altre richieste, che gli industriali accolsero solo in parte. Venne proclamato in risposta uno sciopero bianco da parte dei lavoratori, a cui gli industriali controbatterono con una serrata, ovvero la chiusura delle fabbriche. Il 1º settembre iniziarono le occupazioni principalmente a Torino, Milano e Genova e poi in tutta Italia. All’interno delle officine della Società Piemontese Automobili si iniziò anche a produrre bombe a mano. Gli operai organizzarono servizi armati di vigilanza disposti a scendere allo scontro anche con l’esercito che assunsero il nome di Guardie Rosse. A favore degli scioperanti intervennero spesso i sindacati dei ferrovieri che organizzarono picchetti armati presso i nodi ferroviari per impedire l’intervento delle guardie regie. Gli operai il 2 settembre occupano le fabbriche a Bologna. l’occupazione delle fabbriche si estende anche nel capoluogo emiliano. Sono 56 le aziende coinvolte nell’agitazione. L’occupazione delle fabbriche a Bologna iniziò il 2 settembre 1920. Io allora ero operaio nella officina meccanica «Zamboni e Troncon» in via Frassinago, dove si fabbricavano macchine da pastifici e c’erano circa cento operai ed ero anche segretario della FIOM. L’occupazione delle fabbriche era stata decisa dal Congresso nazionale della FIOM, tenutosi a Milano il 16 e 17 agosto 1920 a seguito dell’ostinata resistenza dei padroni. Le promesse della guerra non erano state mantenute, il costo della vita era salito alle stelle, i salari erano miseri e le trattative con gli industriali erano fallite. Il Congresso della FIOM aveva deciso di fare l’ostruzionismo, lo sciopero bianco in tutte le fabbriche italiane e di occuparle se, come contromisura, gli industriali avessero fatto la serrata. A Torino, a Milano e in altre città del nord molte fabbriche erano state occupate e il fonogramma della FIOM nazionale a Bologna, dove si diceva di fare altrettanto, arrivò l’1 settembre ed era firmato da Buozzi e Colombini. Il mattino, prestissimo, mi recai alla «Zamboni e Troncon » e qui non incontrai difficoltà; gli operai erano radunati fuori, entrarono e occuparono la fabbrica. Allora corsi subito in bicicletta alla fonderia «Parenti» presso la quale avevo lavorato durante la guerra. Arrivai poco dopo le 6 e fuori c’erano gli operai e dentro i soldati, chiamati dal padrone. Busso alla porta e chiedo di parlare col dottore. Sentii Parenti dire: «Fallo entrare ». Entrai e gli dissi che avevo l’ordine di occupare la fabbrica e di gestirla con un consiglio di fabbrica. Mi fece entrare nel suo ufficio e appena dentro dissi a Michelini, un operaio che era con me, che andasse dai soldati avvertendoli che avevamo l’autorizzazione ad aprire i cancelli. Parenti tace e gli operai entrano e allora io lascio Parenti nell’ufficio, salto su una gru e parlo brevemente: dico il perché dell’occupazione, che bisognava lavorare come prima, proseguire nella produzione e segnare le ore. Dissi anche che si doveva dare prova di senso di disciplina, di capacità e di responsabilità. Poi chiesi scusa se me ne andavo perché c’era ancora molto da fare. Quando arrivai alla «Calzoni Fonderia » tutto era già fatto e allora andai alla «Minganti», allora in via Fontanina dove si fabbricavano macchine per le sigarette. Dissi al sig. Minganti di lasciare la sede e gli spiegai i motivi. Esitò, andò dietro al suo tavolo ed estrasse una rivoltella dal cassetto; poi rimise dentro la rivoltella, chiuse il cassetto e se ne andò dicendo, in bolognese: «Av las anch quella le » (Vi lascio anche quella). Nel pomeriggio ricominciai il giro e andai nell’officina «Barbieri» di Castelmaggiore, dove la fabbrica non era ancora occupata e gli operai erano in grande maggioranza aderenti alla Vecchia Camera del Lavoro anarchico-sindacalista, che non era d’accordo con l’occupazione (Malatesta stesso era contrario). Parlai agli operai, li persuasi e anche quella fabbrica fu occupata. Ad occupazione avvenuta arrivò Clodoveo Bonazzi e aderì. Poi fu la volta dell’officina meccanica «Maccaferri », di Zola Predosa, dove lavoravano circa 150 operai. Feci un’assemblea nella Camera del Lavoro che durò 16 ore. Gli operai non erano d’accordo per l’occupazione, non la volevano, avevano fiducia nel padrone. Riuscii, ma feci molta fatica, a persuadere la maggioranza e allora facemmo un corteo dalla Camera del Lavoro fino alla fabbrica e le donne erano in testa. Ai cancelli trovammo i carabinieri e io dissi al maresciallo che dovevo occupare la fabbrica. «Voi state fuori», fu la risposta e intanto i carabinieri puntavano le armi. Il cancello era sprangato e allora noi andammo in un cantiere, prendemmo una guidana (uno di quei lunghi e grossi pali che servivano per fare i ponteggi nella edilizia) e frattanto fuori gli operai urlavano. Poi ci attaccammo in molti alla guidana e buttammo giù il cancello e appena dentro il maresciallo tentò di sparare, ma noi gli alzammo il braccio costringendolo a sparare in alto. Io presi il maresciallo per la giubba e intanto gli operai occupavano l’officina. Poi lasciai il maresciallo che subito mi inseguì, scavalcai una rete alta non meno di quattro metri, mi buttai sotto, salii sulla bicicletta e arrivai in tempo alla Camera del Lavoro dove era stato convocato il direttivo della FIOM. Quello che avvenne poi è noto. Vi furono riunioni dei direttivi socialista e della CGL: continuare o contrattare. Per me si doveva continuare, tanto più che la lotta era aperta anche nelle campagne. Poi fecero un plebiscito e prevalse la contrattazione. Era finita: Giolitti fu abile: fece delle concessioni, un buon contratto di lavoro per gli industriali, un po’ di demagogia. Anche in campagna finì con la contrattazione e nell’ottobre, verso la fine, ci fu il patto «Paglia-Calda» che fu una importante conquista che non trovò applicazione duratura poiché i padroni della terra dicevano che incideva troppo sulla rendita fondiaria. Gli agrari, sconfitti dalla compattezza dei lavoratori della campagna, organizzarono e stipendiarono allora le squadracce fasciste che trovarono nel governo e nella polizia il pieno appoggio. Seguirono lotte dure per i lavoratori, che furono sconfitti, perché nella lotta non vi era più l’unità.
CHI E’ ALBERTO TREBBI – Alberto Trebbi (1892–1975) ha aderito fin da ragazzo agli ideali socialisti e, nel settembre 1920, ha diretto la Fiom bolognese durante l’occupazione delle fabbriche. I fascisti lo hanno perseguitato per tutto il ventennio: bastonato più volte, assieme alla moglie Ellena Tannini, è stato arrestato nel 1925 e condannato al confino a Lipari per cinque anni. Per tutti gli anni Trenta ha continuato, nonostante la stretta sorveglianza della polizia, ad essere un punto di riferimento per l’organizzazione clandestina antifascista. Il suo negozio di calce e gesso in vicolo Broglio è uno dei centri più importanti della Resistenza in città. Dopo una lunga detenzione nel carcere bolognese e a Castelfranco Emilia, il 21 gennaio 1944 Trebbi sarà deportato nel lager tedesco di Dachau, da dove riuscirà a ritornare, ormai ridotto a 43 chili di peso, nel maggio 1945. Nel dopoguerra sarà presidente del Consorzio provinciale delle cooperative di produzione, lavoro e trasporti di Bologna (ex Consorzio fra birocciai, carrettieri e affini) e della Cooperativa Fornaciai. Questo suo racconto è stato scritto negli anni settanta.
Nel settembre di 50 anni fa. Settembre 1920, quando la rivoluzione fu messa ai voti e perse…Giuliano Cazzola Il Riformista il 14 Settembre 2020. Può essere che mi sia sfuggita qualche rievocazione importante. È possibile che il virus abbia determinato amnesie nella memoria collettiva di una nazione, in particolare nel popolo disorientato e confuso della sinistra (sarebbe bene cominciare ad usare il plurale come si fa con le destre). Il fatto però è evidente: nel settembre di cento anni fa (il 1920) aveva luogo l’episodio culminante del “biennio rosso”: l’occupazione delle fabbriche. Nell’introduzione del saggio “L’occupazione delle fabbriche” (Einaudi), dedicato a quell’evento, Paolo Spriano – lo storico ufficioso del Pci – scrive: «Enorme fu l’emozione che esso produsse in tutto il Paese e non solo allora (Antonio Gramsci, in una nota dal carcere, si riferì all’episodio parlando della “grande paura”, ndr): chè, dopo decenni, l’occupazione delle fabbriche è ancora un richiamo obbligato nella vita sociale e politica italiana». Spriano esprimeva quest’auspicio nell’aprile del 1964. Da allora è trascorso un lasso di tempo molto lungo, ma non abbastanza per stendere, come è accaduto, un velo di oblio su di un pezzo di storia del movimento operaio.
Il “biennio rosso’’. Gli anni 1919-1920 furono definiti “il biennio rosso”, quando si accesero le speranze di “fare come la Russia”, dove erano in corso la rivoluzione dei soviet e la guerra civile. La Grande Guerra era finita da poco e aveva prodotto, oltre alla “inutile strage”, enormi sommovimenti politici e sociali. Nel febbraio del 1919 gli operai metallurgici avevano conquistate le “otto ore”, mentre sul piano politico, nelle elezioni generali, il Psi (forte di 200mila iscritti) aveva eletto 156 deputati alla Camera (affermandosi come il partito di maggioranza relativa). La Confederazione del Lavoro (Cgl) contava poco meno di due milioni di iscritti, di cui più della metà erano operai dell’industria (solo per ricordare le federazioni più importanti: 200mila edili, 160mila metallurgici, 155mila tessili, 60mila statali, 50mila impiegati privati e quant’altro). Sarebbe come sparare sulla Croce rossa, far notare che, nelle confederazioni di oggi, la metà degli iscritti sono pensionati. Ma la Confederazione “rossa” non era l’unico sindacato esistente e attivo. L’Usi – di ispirazione anarco-sindacalista – contava 300mila iscritti, mentre il “sindacato bianco”, la Confederazione italiana del lavoro (Cil), era forte soprattutto nelle campagne dove aveva l’80% dei 1,8 milioni di iscritti complessivi: uno dei suoi principali leader, Guido Miglioli, era definito il “bolsevico bianco”. Vi erano poi formazioni repubblicane in Romagna; il sindacato ferrovieri, autonomo dalla Cgl, con 200mila iscritti. Oltre ai tessili dove era forte la presenza di lavoratrici, il sindacato più importante era sicuramente la Fiom, diretta da Bruno Buozzi. La forza di questo sindacato, scrive Spriano, stava nel fatto che “le sue direttive venivano accolte ed osservate dalla grande maggioranza delle maestranze”. La federazione, attiva già nei primi anni del XX secolo, si “era fatta le ossa’’ durante la guerra, aumentando il suo potere contrattuale. Buozzi e i principali dirigenti, anche a livello periferico, erano socialisti riformisti (come del resto quelli della confederazione). Secondo l’autore, queste persone avevano una «concezione di grande rigidità che fa[ceva] della organizzazione centralizzata, della disciplina all’autorità del sindacato e al suo potere contrattuale una sorta di feticcio». Nella loro esperienza questi sindacalisti avevano visto e combattuto i guasti provocati del sindacalismo rivoluzionario nelle lotte di una decina di anni prima e avevano incanalato il movimento lungo un percorso strettamente attinente al negoziato delle retribuzioni e delle condizioni di lavoro. Secondo Spriano – nelle sue parole si avverte un giudizio politico critico – quel gruppo dirigente non vedeva con favore la nascita di strutture consiliari a cui venivano contrapposte le commissioni interne (istituite dall’accordo Itala-Fiom del 1906); su questo tema vi era disaccordo con i torinesi di “Ordine nuovo’’ (Antonio Gramsci, Palmiro Togliatti, Angelo Tasca, Umberto Terracini e altri) per i quali “il consiglio di fabbrica’’ era “il modello dello Stato proletario’’. Sul piano politico i leader sindacali non condividevano la linea della maggioranza massimalista del Psi (che guardava all’esperienza sovietica e si poneva come obiettivi l’istituzione della Repubblica socialista, la dittatura del proletariato e la socializzazione dei mezzi di produzione e di scambio). Da socialisti riformisti aspiravano «ad una collocazione diversa delle masse operaie e delle loro legittime rappresentanze nel quadro dello Stato democratico» nonché «ad una organizzazione produttiva che rispecchi il peso accresciuto di queste masse nell’economia del Paese». La conflittualità era molto elevata. Oltre al problema dei salari, del cosiddetto carovita (ci furono dei saccheggi nei negozi e nei mercati come reazione all’aumento dei prezzi), erano in corso processi di riconversione industriale post-bellica che provocavano un crescente livello di disoccupazione (in assenza di qualsiasi forma di tutela del reddito). In tutto il 1919 (ricorda Massimo L. Salvadori nella sua “Storia d’Italia’’) si ebbero 1663 scioperi nell’industria e 208 nell’agricoltura con un perdita complessiva di 22 milioni di giornate di lavoro. In agricoltura dopo una durissima lotta dei braccianti durata per mesi, i sindacati avevano ottenuto, con grande disappunto degli agrari, il cosiddetto imponibile di manodopera che costringeva i padroni a negoziare gli organici. Nel 1920 il numero degli scioperi superò i 2 mila.
L’occupazione delle fabbriche. Scrive Salvadori che a metà agosto del 1920 «maturò una situazione destinata a procurare un confronto durissimo fra il movimento operaio, gli industriali e la classe dirigente. Lo scontro – continua lo storico affrontando il nodo cruciale di quella fase – mise a nudo “tutto il velleitarismo e l’inconsistenza del massimalismo del Partito socialista», il quale, mentre propagandava tra le masse una vaga prospettiva rivoluzionaria, non avendo la capacità di prenderne la direzione, «faceva al tempo stesso montare nella borghesia una volontà controrivoluzionaria e inclinazioni autoritarie». La situazione precipitò quando, rotte le trattative contrattuali, la Fiom proclamò lo sciopero bianco ovvero una sorta di boicottaggio della produzione a cui gli industriali risposero, man mano, con la serrata. Si aprì una sorta di processo di botta e risposta tra serrata e occupazione delle fabbriche, fino a quando la Fiom impartì una indicazione di carattere generale in tal senso. Così l’occupazione, iniziata all’Alfa Romeo a Milano, si estese a tutto il triangolo industriale – e non solo tra i metalmeccanici – arrivando a coinvolgere 500mila lavoratori. Gli operai si misero a gestire in proprio la produzione e approntarono una forma di difesa militare armata delle fabbriche, affidata alle cosiddette Guardie rosse. Il loro inno di battaglia iniziava così: «All’appello di Mosca, plotoni roventi, sotto il rosso vessillo dei soviet di Lenin…..». Il Partito socialista si trovò a dover gestire una situazione che in pochi giorni si era aggravata e poteva sfuggire di mano da un momento all’altro. I più radicali tra i massimalisti vedevano in quel movimento, che si era diffuso inaspettatamente e in breve, l’anticipo di un processo rivoluzionario, mentre i riformisti, con i sindacalisti in prima fila, sostenevano che era necessario riportare e mantenere gli obiettivi della lotta su di un piano sindacale. La riunione decisiva si svolse la sera del 10 settembre (giusto un secolo fa) e vi parteciparono le Direzioni del Partito e della Cgl. Nel suo saggio, Spriano cita un brano dell’intervento di Ludovico D’Aragona, il segretario generale della Confederazione: «Voi credete (rivolgendosi ai massimalisti, ndr) che questo sia il momento di far nascere un atto rivoluzionario, ebbene assumetevi la responsabilità. Noi che non ci sentiamo di assumere questa responsabilità di gettare il proletariato al suicidio vi diciamo che ci ritiriamo e che diamo le dimissioni….prendete voi la direzione del movimento». «A questo punto», afferma Spriano, «tutti i membri della Direzione sono d’accordo nel ritenere che senza gli uomini della Cgl alla testa delle masse» il “grande salto” non si poteva fare. Così, l’ordine del giorno, presentato da D’Aragona, prevalse nella votazione finale. Spriano commenta questo esito in modo drammaticamente ironico: «La rivoluzione è respinta a maggioranza». Un altro protagonista di quella fase fu il presidente del Consiglio Giovanni Giolitti, il quale adottò una linea attendista rifiutando – benché sollecitato – di impiegare la forza pubblica a sostegno degli industriali. Anzi, impartì, come ministro degli Affari interni, ordini precisi e rigorosi di moderazione «Anche di fronte all’impiego di armi da parte della folla». Paolo Spriano, in proposito, cita il testo di un telegramma inviato da Giolitti l’11 settembre al Prefetto di Milano, nel quale lo invitava a persuadere gli industriali che «nessuno governo in Italia farà uso della forza, provocando certamente una rivoluzione, per far risparmiare loro qualche somma». E aggiungeva: «Uso della forza significherebbe almeno la rovina delle fabbriche». Si racconta che al sen. Giovanni Agnelli il quale premeva perchè “l’uomo di Dronero” facesse intervenire l’esercito per sgombrare le fabbriche, il presidente rispondesse: «Bene. Comincerò a prendere a cannonate la Fiat». Quando maturò il momento della mediazione Giolitti convocò le parti a Roma, il 19 settembre. Dopo sei ore di discussione fu raggiunta un’intesa molto favorevole per la Fiom: 4 lire di aumento al giorno, minimi di paga, caroviveri, maggiorazioni per il lavoro straordinario, sei giorni di ferie annuali, indennità di licenziamento. Per convincere gli industriali a cedere, Giolitti minacciò di emanare un decreto per istituire il “controllo sindacale” delle aziende. L’accordo sottoscritto fu sottoposto e approvato in un referendum dai lavoratori.
Il biennio nero. «Dopo l’occupazione delle fabbriche, le masse sindacali sentivano confusamente di essere state sconfitte – Spriano cita così un commento del tempo – ma non vedevano chiaramente né come né da chi». Salvadori sottolinea che l’occupazione delle fabbriche ebbe un triplice effetto: diede un colpo gravissimo alla linea politica di Giolitti che si era procurato l’ostilità degli industriali; rappresentò una inesorabile dèbacle del Partito socialista; inasprì ulteriormente i conflitti politici e sociali all’interno del Paese. Tra la fine del 1920 e l’inizio del 1921, il fascismo si sviluppò e prese rapidamente quota. si intensificarono le violenze, gli assalti alle Camere del Lavoro, alle cooperative, alle sedi e ai giornali socialisti (la sede dell’Avanti! venne devastata più volte). Cominciarono a nascere nuovi sindacati fascisti che imponevano con la forza i loro contratti favorevoli ai padroni. Gli iscritti al Fascio – citiamo sempre Salvadori – passarono dai 20mila della fine del 1920 a 200mila a metà dell’anno dopo. Filippo Turati aveva predetto che il rivoluzionarismo inconcludente avrebbe avuto come unico effetto di scatenare la violenza degli avversari. Pietro Nenni trovò, in un breve saggio, una definizione – “Il diciannovismo” – per quel complesso di vicende politiche che avrebbero portato in breve tempo alla sconfitta della classe lavoratrice e al fascismo. In quel saggio, il grande leader socialista, con riferimento alla linea di condotta della sinistra, ricordava una frase di Saint-Just: «Chi fa la rivoluzione a metà, si scava la fossa». In Italia, la rivoluzione era stata persino messa ai voti.
Il dibattito tra massimalisti e riformisti. La lotta e l’accordo, così nel 1920 vinse la strada riformista. Giuliano Cazzola su Il Riformista il 14 Ottobre 2020. Il 19 settembre del 1920 Giovanni Giolitti convocava le parti sociali a Roma, al Viminale allora sede della Presidenza del Consiglio, con l’intento di raggiungere un “concordato” che ponesse fine all’occupazione delle fabbriche (che era in corso, in alcune aree del Paese, da una ventina di giorni e che quindi durò meno del “maggio francese” del 1968). Lo statista liberale si era rifiutato – nonostante le pressioni degli industriali – di usare la forza per liberare le fabbriche dagli occupanti. Aveva intuito che l’unica possibilità di una soluzione incruenta risiedeva nel riuscire a riportare la vertenza sul terreno sindacale da cui era nata, sbandando nell’escalation delle forme di lotta: gli operai avevano adottato metodi di ostruzionismo a cui gli imprenditori avevano risposto con la serrata e i sindacati avevano di conseguenza ordinato l’occupazione delle fabbriche metallurgiche (poi estesa anche ad altri settori dell’industria e non solo). In pochi giorni il movimento aveva coinvolto 500 mila lavoratori, con picchetti armati sui cancelli degli stabilimenti. Giolitti era convinto che gli stessi dirigenti della Cgil e della Fiom, da veri socialisti riformisti, lavorassero per la sua stessa prospettiva, essendo consapevoli che proseguendo in quella lotta – all’inseguimento della chimera della rivoluzione – la classe operaia sarebbe stata condotta al massacro. All’incontro, nella sala del Consiglio dei Ministri al Viminale, erano presenti – scrive Paolo Spriano – oltre a due prefetti (Lusignoli e Taddei) – D’Aragona, Baldesi e Colombino per la Cgil, Marchiaro, Raineri e Missiroli per la Fiom; Conti, Crespi, Olivetti, Falk, Ichino e Pirelli per la Confederazione dell’Industria. Giolitti presiedeva la riunione e volle accanto a sé D’Aragona. Dopo sei ore di discussione il concordato venne sottoscritto. I suoi contenuti economici e normativi rappresentarono un successo per il sindacato, tanto che, il testo, sottoposto a referendum, fu approvato dalla grande maggioranza dei lavoratori. Ma, in quella stagione di miraggi, anche i sindacalisti riformisti non potevano evitare di misurarsi con l’obiettivo della socializzazione dei mezzi di produzione e di scambio; occorreva essere, quindi, convincenti e competitivi con quelli che promettevano di “fare come la Russia”, attraverso la scorciatoia della rivoluzione. In sostanza, non sarebbe bastato un risultato importante sul piano sindacale se non fosse stato considerato una tappa nella marcia del “proletariato” verso il socialismo. Così nel “concordato” la Cgil e la Fiom dovettero trovare una soluzione anche per la questione del “controllo operaio” (che era la “bestia nera” degli industriali) quale alternativa a chi prometteva i Soviet. Giolitti aveva sbloccato lo stallo mediante un decreto legge – scrive Paolo Spriano – che istituiva una “Commissione paritetica di 12 membri, incaricandola di formulare quelle proposte che possono servire al governo per la presentazione di un progetto di legge”. Anche allora vi era la consapevolezza che le Commissioni servissero per accantonare delle questioni difficili, sia pure attribuendo ad esse un valore fittizio rispondente sulla carta ai desiderata delle organizzazioni sindacali. Fatto sta che, in sede politica, la questione del controllo operaio divenne la cartina di tornasole del rilievo (o meno) dell’intesa. Sull’Avanti! del 21 settembre (due giorni dopo l’accordo) Giacinto Menotti Serrati, leader della maggioranza massimalista, iniziò l’offensiva critica. Partendo da un apprezzamento del risultato dal punto di vista sindacale, per quanto riguardava gli aspetti economici e normativi, Serrati sostenne che il concordato non fosse soltanto una vittoria dei metallurgici, ma anche di Giovanni Giolitti. Le critiche più severe, tuttavia, afferivano alla problematica del controllo operaio. «Il conquistato controllo delle fabbriche, quando pure riuscisse a funzionare non potrà che rappresentare una mistificazione o una corruzione. Il controllo – proseguiva l’esponente del Psi – è di per se stesso collaborazione. Se fatto veramente sul serio conduce inevitabilmente a trasformare gli operai in aiuti interessanti della gestione borghese». E di nuovo: «L’ora critica della vita nazionale non si chiude con un concordato di puro carattere sindacale»; aggiungendo poi un auspicio visionario: «Non passerà lungo tempo – saranno forse poche settimane – che una nuova lotta si ingaggerà indubbiamente», perché «la borghesia italiana non si salva con la firma apposta dai signori industriali al concordato imposto da Giovanni Giolitti». Gli rispose Filippo Turati su Critica Sociale (il quindicinale dei riformisti). «La rivendicazione del controllo operaio, mantenuto nei limiti in cui oggi è possibile e fruttuoso esercitarlo, è essa stessa una rivoluzione, la più grande, dal punto di vista socialista, dopo il conquistato diritto di coalizione e il suffragio universale, in quanto incide direttamente il diritto di proprietà, nella sua preminente matrice capitalistica». «Scopi immediati della riforma vogliono essere – in linea con le ripetute dichiarazioni della Confederazione Generale del Lavoro (allora saldamente diretta dai socialisti riformisti, ndr) – rendere il lavoratore partecipe della gestione dell’azienda, elevare la sua dignità, imparargli a conoscere i congegni amministrativi dell’industria, evitare di questa le degenerazioni speculazionistiche, ridestare nel lavoratore la spinta al lavoro, intensamente e gioiosamente produttivo». E da qui partiva la parte politica del ragionamento di Turati: «La futura graduale socializzazione delle industrie è condizionata a questi risultati più prossimi». A un secolo di distanza non siamo in grado di giudicare la buonafede di Turati ovvero se fosse davvero convinto – pur sostenendo un indirizzo politico corretto e condivisibile – che la Commissione paritetica avrebbe portato a compimento l’incarico. È invece palese la malafede di Serrati. Come disse un esponente socialista milanese a commento della sessione della Direzione del Psi che mise all’ordine del giorno la rivoluzione: «Noi sentivamo che la rivoluzione non si sarebbe fatta, perché la rivoluzione non si fa convocando prima un convegno dove si deve andare a discutere se si dovrà fare o non fare la rivoluzione. Questa è roba da Messico che si è voluto trasportare nel nostro Paese».
Un vero revisionista. Vide per primo le origini socialiste del fascismo. Morto il grande storico israeliano: studiò (da sinistra) la destra rivoluzionaria. Marco Gervasoni, Lunedì 22/06/2020 su Il Giornale. Qualcuno ha osato chiamare i distruttori di statue, « revisionisti». Non sappiamo cosa ne pensasse il grande storico Zeev Sternhell, morto ieri a Gerusalemme ma crediamo che, pur essendo un uomo di sinistra, sarebbe inorridito. Nato in Polonia nel 1935 ma trasferitosi prima in Francia e poi nel '51 in Israele, apparteneva infatti alla generazione dei revisionisti veri, quella di Renzo De Felice, di Ernst Nolte, di François Furet i quali, pur di qualche anno più anziani, ci hanno fatto capire il fascismo collocandolo nella storia non solo dell'Italia ma dell'Europa. E anche se si trovavano su posizioni politiche diversissime - conservatori De Felice e Nolte, liberale Furet, sinistra laburista Sternhell - ciò non ha impedito di intrecciare le loro ricerche in modo proficuo; lo storico non è un militante politico, o almeno non lo dovrebbe essere quando scrive Storia, un aspetto dimenticato da molti delle generazioni successive. Se infatti oggi possiamo pensare di conoscere meglio il fascismo, fenomeno non solo italiano ma europeo, lo dobbiamo proprio a Zeev Sternhell. Il suo primo libro, una tesi di dottorato all'Institut d'études politiques di Parigi, fu Maurice Barrès et le nationalisme francais (1972) ancora oggi fondamentale per capire lo scrittore nazionalista, ispiratore tra gli altri di De Gaulle. In nuce vi troviamo le tesi delle due opere storiche maggiori di Sternhell: La droite révolutionnaire, del 1978 (trad. Corbaccio, 1997) e Ni droite in gauche. Les origines françaises du fascisme del 1983 (tradotta da Akropolis nell'84 e poi da Baldini e Castoldi nel '97). Anche se De Felice, sulla scorta delle intuizioni di Augusto del Noce, aveva già collocato il fascismo all'interno di una tradizione di sinistra, figlio del giacobinismo e della Rivoluzione francese, Sternhell si spinge più lontano: pensa che il fascismo, quello francese, ma anche quello italiano, siano nati da un'evoluzione della cultura politica socialista. Ciò dovette costare non poco a Sternhell, già da allora membro del Partito laburista israeliano; anche se per lui non era stato il socialismo nella sua integralità a generare il fascismo, ma unicamente quello rivoluzionario critico del marxismo. Nei due volumi citati, Sternhell avanza poi una tesi ancora più radicale; che, contrariamente alla vulgata, sarebbe esistito un fascismo francese autoctono, già definitosi prima del 1914, a cui poi quello italiano si sarebbe ispirato. Sternhell traccia infine la genealogia storica di una destra rivoluzionaria, che in nome della nazione intende abbattere l'ordine borghese: una destra i cui più eminenti rappresentanti venivano dalla sinistra, irrorando così sangue nuovo in un campo conservatore esangue. Destra e sinistra rivoluzionarie si sarebbero poi fuse nel fascismo in nome del superamento delle due categorie; né destra né sinistra, appunto. Delle tre, oggi ci sembra più resistente la tesi di un fascismo francese come fenomeno originale, negli anni tra le due guerre. Allo stesso modo ci appare ancora plausibile l'interpretazione di un fascismo da inquadrare nella storia della sinistra. Infine, nessun studioso della destra, e non solo francese, oggi potrebbe rinunciare alla categoria di «destra rivoluzionaria». Più caduche invece ci appaiono altre conclusioni di Sternhell, in particolare quella della primogenitura prebellica francese del fascismo: senza la Grande guerra, lo schiaffo degli «alleati» all'Italia a Versailles e le violenze bolsceviche nel biennio rosso, non sarebbe mai nato il fascismo in Italia. E quindi non si sarebbe espanso neanche altrove, neppure in Francia. Ciò non toglie che i due libri citati di Sternhell restino dei classici contemporanei. Quelli successivi, Nascita di Israele (Baldini e Castoldi, 1999) e Contro l'illuminismo: dal XVIII secolo alla guerra fredda (Baldini e Castoldi, 2007), sono a nostro avviso poco riusciti. Nel primo, il tentativo di applicare la ricetta sternhelliana a Israele (sinistra più nazionalismo più attivismo uguale fascismo) con la condanna delle origini di Israele, nel cui esercito pure Sternhell servì più volte da valoroso militare, è stato duramente criticato. Così come lo sforzo di cercare le origini del fascismo nell'anti-illuminismo, a cominciare da Edmund Burke e da Johann Gottfried Herder, descritti alla stregua di ispiratori futuri di Mussolini e Hitler, è subito apparso piuttosto debole. Probabilmente Sternhell ha cercato di conciliare per tutta la sua vita marxismo, illuminismo, socialismo, tre fenomeni intellettuali-politici non sempre sovrapponibili e in alcuni momenti in contrasto tra loro. Ma anche in ragione del metodo storiografico scelto: diversamente da De Felice, non era un frequentatore di archivi, e come Nolte e Furet si poteva definire uno storico delle idee. Ma rispetto ai tre suoi maggiori di età, era meno attento al concreto e al contingente nella storia, che Sternhell tendeva a leggere secondo il lungo dispiegarsi delle culture politiche, senza considerare il fattore individuale e personale: frutto, questo, più del suo marxismo, di un illuminismo razionalistico. Ma sono inezie: ieri è scomparso un grande storico e chi vuole comprendere il '900 dovrà continuare a leggerlo ancora per lungo tempo. E a comportarsi da revisionista, ma in senso vero, di chi studia e non di chi abbatte i monumenti.
Dino Messina per il “Corriere della Sera” l'8 febbraio 2020. L'Alba nera del fascismo, che dà il titolo al bel volume di Antonio Carioti (Solferino) con prefazione di Sergio Romano, presenta in realtà forti striature di rosso. A cominciare dalle origini famigliari e dai primi passi politici del futuro Duce. Fedele al credo socialista del padre Alessandro, fabbro a Dovia di Predappio, Benito Mussolini si affina nelle frequentazioni giovanili in Svizzera dell' esule russa Angelica Balabanoff, per seguire una carriera di militante che, dalla direzione di fogli di provincia e dalla collaborazione al periodico «La Folla» di Paolo Valera, lo porterà nel 1912 alla guida dell'«Avanti!». Un biennio di militanza intensa che si concluderà a fine ottobre 1914 sotto la spinta dei cambiamenti portati dalla guerra mondiale. Il suo ultimo articolo, che lo distacca dal neutralismo socialista, si intitola Dalla neutralità assoluta alla neutralità attiva ed operante. È il salto verso l'interventismo e verso la direzione del «Popolo d' Italia», fondato il 15 novembre 1914. La guerra trasformerà l' Europa. E anche Mussolini non sarà lo stesso: il 15 dicembre 1917 pubblica il fondo Trincerocrazia , che «candida i reduci a classe dirigente del domani, forgiata dalla prova delle armi». E il 10 novembre dell' anno successivo, dopo Vittorio Veneto, così il futuro Duce arringa gli arditi in piazza Cinque Giornate a Milano: «Il balenio dei vostri pugnali e lo scrosciare delle vostre bombe farà giustizia di tutti i miserabili che vorrebbero impedire il cammino della più grande Italia». Sembra l' atto conclusivo del passaggio al nazionalismo e alla destra più retriva. Invece non è così: il programma della riunione che è l' atto iniziale del fascismo, l'assemblea di piazza San Sepolcro a Milano del 23 marzo 1919, oltre a esaltare la guerra, il nazionalismo e l'antibolscevismo, prevede il voto ai diciottenni e alle donne, l'abolizione del Senato di nomina regia, la compartecipazione dei dipendenti nella gestione delle industrie, un prelievo fiscale sui grandi capitali, la nazionalizzazione delle fabbriche d'armi. Si rimane stupiti anche a leggere l'elenco dei partecipanti alla riunione di piazza San Sepolcro: oltre ai figuri che si macchieranno cinque anni dopo dell'uccisione di Giacomo Matteotti, a intellettuali come Filippo Tommaso Marinetti, a esponenti degli arditi e a futuri dirigenti del Pnf, troviamo personaggi inattesi come Ernesto Rossi, il futuro antifascista di Giustizia e Libertà (che aderì da Firenze, ma non fu presente a Milano), ebrei come Piero Jacchia, Riccardo Luzzatto ed Eucardio Momigliano. C'è da aggiungere inoltre che San Sepolcro, tanto mitizzato ex post dal regime, è un episodio passato quasi in sordina in quel tumultuoso 1919, che vede al centro dell' attenzione il trattato di pace (con i dolori italiani per «la vittoria mutilata») e l' impresa a Fiume di Gabriele d' Annunzio. Il racconto di Carioti, che analizza i fatti dal 23 marzo 1919 al 28 ottobre 1922, data della marcia su Roma, è avvincente e non è mai scontato. La narrazione, per chi vuole immergersi completamente nell' atmosfera dell' epoca, rimanda nei punti cruciali a un'appendice con i documenti e gli articoli del periodo, tanti firmati da Mussolini, che a detta dei seguaci, ma anche di molti avversari, fu un genio della comunicazione. Dopo il racconto dei fatti, le interviste agli storici Simona Colarizi, Alessandra Tarquini, Fabio Fabbri e al politologo Marco Tarchi, offrono un quadro delle interpretazioni sui nodi storici del fascismo, come la questione dei ceti medi, le connivenze dello Stato con la violenza squadrista, le differenze con il nazismo e le composite origini culturali riassunte da Zeev Sternhell, lo studioso israeliano che ha influenzato il nostro Renzo De Felice, nello slogan «né destra né sinistra». Nella lunga crisi di un dopoguerra che vede impoverirsi le classi popolari e aumentare le insicurezze dei ceti medi, il fascismo alimenta le violenze con gli attacchi alle sedi dei giornali e delle organizzazioni dei lavoratori protagonisti del «biennio rosso». I vari ras delle province, Italo Balbo a Ferrara, Dino Grandi e Leandro Arpinati a Bologna, Giuseppe Caradonna in Puglia, si mettono alla testa della reazione violenta, interpretando la voglia di rivincita dei possidenti agrari e giocando con le insicurezze del ceto medio urbano. Nello stesso tempo, dopo aver seminato odio e morte, il movimento fascista si presenta come garante dell' ordine. Una veste di normalizzatore che inganna agli inizi anche liberali come Luigi Albertini e Benedetto Croce. Mussolini è abile nell' incanalare politicamente la violenza. Un gioco che gli riesce anche grazie alle incertezze della vecchia classe politica e alla codardia del monarca, che non firma il decreto sullo stato d' assedio presentatogli da Luigi Facta la mattina del 28 ottobre 1922. Gli squadristi della marcia su Roma, che potevano essere facilmente dispersi, hanno vinto. Mussolini il 30 ottobre riceve l' incarico di formare il governo.
Milano, il Benito socialista in otto rarissimi filmati. I video-documenti in Rete da oggi mostrano il leader spesso "al naturale", senza pose studiate. Simone Finotti, Mercoledì 17/06/2020 su Il Giornale. È un Duce fuori Luce ma perfettamente immerso nella macchina da presa, unico fra gli astanti a fissare la camera con consapevolezza acuta e profonda, fiutando la potenza della nascente comunicazione di massa. Lo nota Antonio Scurati, vincitore del 73° Strega con M. Il figlio del secolo (Bompiani, 2018), che introduce così la straordinaria antologia di otto rarissimi filmati riemersi dagli archivi di Fondazione Cineteca Italiana, e disponibili in streaming dal 17 giugno con il titolo Il Duce fuori Luce (sulla piattaforma dedicata del sito cinetecamilano.it, in modalità Premium, 5 euro). Niente immagini e rappresentazioni ufficiali, niente pose studiate o esibizioni muscolari di quelle affidate all'epoca all'Istituto Luce, longa manus cine-fotografica della propaganda di regime: è un Mussolini spesso inquadrato a sua insaputa, da angolazioni mai viste, in riprese semi-artigianali che per quasi un secolo sono rimaste nell'ombra. Non aspettiamoci cedimenti: anche senza «sole in fronte» resta pur sempre l'uomo d'azione che guida le adunate accanto ai «lavoratori del braccio e del pensiero»; il granitico oratore, il giornalista picconatore dello Stato liberale che vediamo all'opera nel suo Covo di Via Paolo da Cannobio, l'ufficio dove prendevano vita gli strali veementi del Popolo d'Italia, che prepararono e accompagnarono l'ascesa dei Fasci di combattimento. Il corto propagandistico Il covo (Minerva film, 12 minuti, con sonoro), tra i più interessanti della silloge, è di Vittorio Carpignano, data 1941 e testimonia le origini milanesi del movimento, nell'humus dei sentimenti irredentisti del primo dopoguerra. Sullo sfondo di una città brumosa e ferita, si esalta il passaggio «sugli uomini e sugli spiriti disorientati» di una «voce nuova, traboccante di fede e volontà assoluta», pronta a «farsi idea e diventare storia». Il vecchio e il nuovo a confronto, la vittoria tradita lascerà spazio a un trionfo pieno e completo. Lo stretto rapporto con Milano è ben testimoniato, visto che quasi tutti i filmati sono stati girati qui; arrivano dall'ampia riserva di cinema amatoriale e documentario che accompagna tutta la vicenda storica del Fascismo, dalla conquista del potere agli anni del massimo consenso e dell'Impero. Dalla fascinazione (fuori tempo massimo) per il dominio universale all'idea (al contrario, lungimirante) di dotare la città di un planetario il passo non fu lungo, e molto del merito va ascritto all'editore Ulrico Hoepli, pronto a finanziarne la costruzione, e al geniale architetto Piero Portaluppi, che lo progettò. E così, il 20 maggio del 1930, ecco un Duce in alta uniforme e fez, affiancato dal podestà Visconti di Modrone, sbucare dalle colonne ioniche dell'edificio appena inaugurato e immergersi nel verde di Porta Venezia. È un breve filmato anonimo (appena 3 minuti, con belle musiche di Francesca Badalini), che mostra anche una parata del 1936 in piazzale Cordusio, a pochi passi dal Circolo dell'Alleanza Industriale di Piazza San Sepolcro dove nel 1919 vennero fondati i Fasci. In un altro anonimo di appena 4 minuti, piazza Duomo si prepara ad accogliere una visita nel 1934. Scene simili in una ripresa dall'archivio della famiglia Castagna, che nel finale strappa anche qualche fotogramma dell'arrivo del Duce, sulla classica auto scoperta, e della sua salita sul palco per arringare la folla. Gli 11 minuti di «Giovinezza, giovinezza, primavera di bellezza» (con l'adunata milanese del marzo 1922, a pochi mesi dalla marcia su Roma) celebrano gli inizi, freschi, vigorosi ed energici: Mussolini che «divide il frugale rancio co' suoi commilitoni», poi mentre incontra le medaglie d'oro della Grande Guerra e si affaccia in camicia nera su una stipata via Vittorio Veneto, appropriandosi del saluto romano dei legionari di Fiume. Il tutto affidato alle riprese di un padre nobile del cinema italiano, il milanese Luca Comerio. Lo stesso che appena ventenne, nel maggio 1898, era sceso in strada a rischio della vita per immortalare i moti popolari duramente repressi dal generale Bava Beccaris. Da un pioniere all'altro (perché il Ventennio, con buona pace di certa critica benpensante, fu epoca fertile di talenti della pellicola), arriviamo a Luigi Liberio Pensuti, maestro dell'animazione tra le due guerre. È a lui che si deve una chicca come La taverna del tibiccì, piccolo capolavoro (peraltro molto attuale, di questi tempi) in cui grazie alla pulizia e all'igiene si sconfigge uno dei nemici più temibili, all'epoca, per la salute pubblica. Colpisce il taglio innovativo, che unisce tecniche di infografica, animazione ed elementi dell'iconografia fascista. È un Duce che spicca anche nell'assenza, come nell'interno domestico ricreato per lo spot delle Assicurazioni Popolari, in cui campeggia il suo ritratto. Le atmosfere esotiche e le inquadrature inusuali rendono preziosi i pochi minuti del Duce in Africa, realizzato da un anonimo francese in occasione di una visita a Tripoli e Garian con rassegna, a cavallo, delle milizie locali. Mussolini, non è un mistero, accarezzava il sogno di una Libia quarta sponda d'Italia. La visita più trionfale in Tripolitania fu nel marzo del 1937, durante la quale, ergendosi a cavallo, si proclamò addirittura protettore dell'Islam. Da Piazza Duomo all'Africa settentrionale rivive così, grazie ai tasselli di un inedito cinemosaico, la grande illusione della Giovinezza. Il programma è il primo di una serie di contenuti sulla Grande Storia. Seguiranno rassegne su Garibaldi e Napoleone.
· Le Corporazioni. Ossia: Il Sindacato del fascismo rosso.
"Memorie da carcere di Verona di Tullio Cianetti a cura di Renzo De Felice. Lavoro ed organizzazione sindacale in epoca fascista nella testimonianza inedita dell'ultimo Ministro delle Corporazioni.
Perchè fu anticipato quel 25 luglio 1943, di Filippo Giannini. 25 luglio 1943, le logge massoniche-liberalcapitaliste in quegli anni, anche se fortemente domate, ancora resistevano negli ambienti industriali e vicini alla Corona. Riprendiamo alcune pagine del mio volume “Il sangue e l’oro” per proporre ai lettori un fatto poco noto o, comunque, trascurato per spiegare certi avvenimenti accaduti in quei giorni. Il 21 aprile 1943 Vittorio Emanuele III aveva ricevuto alcuni uomini politici che lo sollecitavano ad allontanare il Capo del Governo. La cosa era stata segnalata a Mussolini il quale rispose che era a conoscenza di questo incontro, ma che fidava nella lealtà del Re: Lealtà, aveva sottolineato "di cui non era lecito dubitare".
Due giorni prima il Duce aveva nominato Tullio Cianetti ministro delle Corporazioni. Cianetti, quando nell’agosto 1939 apprese dell’accordo Ribbentrop-Molotov, reagì con soddisfazione. Infatti aveva scritto: "consideravo il sovietismo, il nazionalsocialismo ed il fascismo molto più vicini e simili di quanto non lo fossero nei confronti delle grandi democrazie plutocratiche". Proprio per queste idee Tullio Cianetti era considerato negli ambienti di Corte "elemento troppo spinto e pericoloso". Ma, almeno in parte, le idee di Cianetti erano condivise anche da Mussolini: che egli fosse anticomunista è fuori discussione, ma non era antisovietico. Ad accreditare questa tesi è sufficiente ricordare gli insistenti tentativi di Mussolini per indurre, nel corso della guerra, Hitler a trovare il mezzo per giungere ad una pace separata con l’URSS e rivolgere così tutti gli sforzi contro i reali nemici del fascismo: le democrazie plutocratiche.
Ma torniamo al più rosso dei neri o al <comunista del Littorio, come era chiamato Cianetti in un certo ambiente. La stesura di questa sezione di capitolo è suggerita da un esame del libro di “Memorie” del Ministro delle Corporazioni, che nella Prefazione avverte: "Queste pagine non sono state scritte per piacere a qualcuno. Le ho scritte nelle carceri della Repubblica Sociale Italiana: i capitoli essenziali mentre attendevo il processo nelle carceri di Verona; gli altri secondari, subito dopo le tragiche giornate di Castelvecchio". Mussolini, che trascorreva in casa un periodo di convalescenza, ricevette Cianetti a Villa Torlonia in un pomeriggio degli ultimi di maggio 1943. Il colloquio durò più di due ore. Il Duce appariva stanco e dimagrito, Cianetti avrebbe voluto parlargli brevemente, ma Mussolini gli disse: "Non vi preoccupate e ditemi con schiettezza tutto quello che avete intenzione di espormi".
Cianetti: "<Duce, desidero innanzi tutto fare una premessa, dichiarandovi che io credo al corporativismo forse come al vangelo di Nostro Signore".
Mussolini: "Perché dite questo?
Cianetti: "Perché ce ne è bisogno".
Mussolini: "Anch’io credo al corporativismo (…). Avete un progetto?.
Cianetti: "Si parla molto di concentrazioni industriali e lo si fa senza rendersi conto della portata di un così vasto problema. La concentrazione delle industrie presuppone quella del capitale e quando questo ha raggiunto un certo stadio si slitta con più facilità verso i monopoli, nei confronti dei quali desidero manifestarvi, fin da questo momento, la mia più netta avversione".
Mussolini si dice d’accordo e invita Cianetti a continuare.
Cianetti: "Desidero prospettarvi qualche cosa di più importante in merito agli sviluppi della politica sociale. In questi ultimi anni il Regime, per effetto della guerra, ha dovuto deviare da alcune linee maestre. La quasi carenza corporativa e l’enorme accrescimento dei complessi industriali hanno alterato, a danno dei lavoratori, un equilibrio che potrebbe compromettere l’attuazione definitiva del corporativismo (…). Ricordo che qualche anno fa voi mi diceste che, finché vivrete, non sarebbero sorti più complessi industriali dell’entità della FIAT e della Montecatini; purtroppo quel pericolo che volevate scongiurare esiste e si potrebbe dire che è già in atto. Vi chiedo pertanto che si dia valore e sostanza ad un principio già enunciato e cioè: quando i complessi industriali superano un certo limite, perdono il loro carattere privatistico ed assumono un aspetto pubblico e conseguentemente collettivo".
Il Duce, nel corso dell’esposizione, aveva continuamente fatto cenno di condividere il punto di vista del suo interlocutore. "E allora?" chiese.
Cianetti: "Allora non c’è che un rimedio: stroncare la tendenza al monopolio e socializzare le aziende più importanti".
Mussolini: "Voi pensate che siamo maturi per la socializzazione?".
Cianetti: "Penso che siamo in notevole ritardo, Duce. La socializzazione è cosa troppo seria perché si possa attuare di colpo (…). Siamo al quarto anno di guerra e le guerre accelerano fatalmente i tempi dell’evoluzione sociale. Avremo reazioni violente da parte di alcuni capitalisti, ma questi signori si devono convincere che oggi non si sfugge più al dilemma: o corporativismo o collettivismo".
In pratica il Duce accettò in toto il programma di Cianetti, poi disse: "E’ importantissimo: potremmo presentarlo al Consiglio dei Ministri nel mese di ottobre".
Ma Cianetti osserva: "No, Duce, mi permetto di insistere sull’urgenza del provvedimento, data la inevitabile perdita di tempo alla quale ho accennato. Vi propongo, quindi, di non andare oltre il mese di luglio o agosto".
Mussolini: "Sta bene, parlate con il Ministro della Giustizia e superate con lui gli ostacoli formali".
Uscendo da Villa Torlonia Cianetti sapeva "di andare incontro a difficoltà non comuni".
Interessante è leggere le motivazioni con le quali Alfredo De Marsico, Ministro della Giustizia, bocciò il progetto di Mussolini e Cianetti (“Memorie”, pag. 385):
De Marsico: "Tu, caro Cianetti, con questa legge mi calpesti e mi devasti addirittura tutto il diritto tradizionale".
Cianetti: "Non lo metto in dubbio, ma osservo soltanto che il diritto non può congelare la vita e l’evoluzione degli uomini; o serve ad entrambe o sarà spazzato quando si rivelerà un ostacolo al progresso sociale".
De Marsico: "Ma io non posso ignorarlo, questo diritto, e tanto meno infirmarlo".
Cianetti: "Chi pretende questo? Io ti chiedo soltanto di trovare le formule che siano atte alla preparazione di un clima giuridico che possa accogliere le innovazioni sociali che propongo. Tu non puoi chiuderti nel sancta santorum del tuo tempio, ignorando un fermento sociale che va incanalato".
De Marsico: "D’accordo, ma mentre tu sei la fiumana che avanza, io non posso essere che la diga che frena".
Cianetti: "Scusa se ti interrompo, caro De Marsico, ma il paragone non regge. Ammesso che io rappresenti la fiumana, non ti pare che sia poco saggia l’esistenza di una diga? La fiumana deve andare al mare; opporle una diga vuol dire provocare inondazioni e disastri. Alla fiumana si preparano il letto, gli argini e le piccole serre a cascata per regolarne il corso verso il mare; è proprio quello che io ti chiedo. Non parliamo, quindi, di dighe, ma predisponiamoci a costruire gli argini".
Ci siamo soffermati a lungo sulle memorie di Cianetti perché siamo convinti che la “congiura di Corte e militare”, già in programma per rovesciare il Governo fascista, fu accelerata nell’invitare Cianetti a parlare con il Ministro della Giustizia, che vedremo in prima linea la notte del 24/25 luglio. Uomo della destra liberale, legatissimo alla Dinastia della quale rappresentava, oltretutto, gli interessi, De Marsico oppose il più deciso rifiuto anche all’esame del provvedimento, minacciando addirittura le dimissioni.
Il Duce, data la situazione militare difficilissima, cercò di evitare che a quella si aggiungesse anche una crisi ministeriale. Sicché fu costretto a soprassedere; ma, come ricorda Cianetti, lo rassicurò garantendogli che il provvedimento sarebbe comunque stato varato, ma non prima del mese di ottobre.
Scrive a conclusione di questa vicenda Santorre Salvioli (“StoriaVerità”, N° 16) e del quale condividiamo l’opinione: "Non è da escludere che, riferito dal De Marsico ai vertici del Quirinale e dell’organizzazione capitalistica, la intenzione svoltista di Mussolini sia stata fra le cause scatenanti del Colpo di Stato del 25 luglio, posto paradossalmente in essere con l’ausilio involontario – non determinante - di Tullio Cianetti e del suo gruppo".
Tullio Cianetti, quasi al termine della sua vita osserva: "Come è avvenuto nel passato, si continuerà a truffare il mondo in nome della libertà e della democrazia di cui sarebbero depositari perenni – non si sa perché – i responsabili principali delle più grandi ingiustizie e schiavitù".
Il colloquio con Cianetti in quel lontano giugno 1943, probabilmente va letto nella consapevolezza di Mussolini che la guerra per l’Asse era fortemente compromessa, e il suo animo di vecchio socialista gli imponeva di lasciare l’Italia, anche se sconfitta militarmente, socializzata, cioè vincitrice sul piano delle innovazioni sociali. La stessa operazione verrà riproposta l’anno successivo. Cianetti al termine della guerra, nel 1947, si trasferì in Mozambico dove morì nel 1976.
Documento inserito il: 27/12/2014
Facebook. Roberto Dell'Arte il 6 aprile 2020. CIANETTI: “MUSSOLINI? PRIMA DEL 25 LUGLIO MI FECE UNA PROMESSA”. Tullio Cianetti era forte. Era umbro, nato ad Assisi, la famosa città che diede i natali a San Francesco. Era un fascista, ma un fascista "di sinistra", che non vuol dire antifascista, bensì più fascista degli altri. Per Cianetti il principio fascista della collaborazione fra le classi richiedeva infatti una lotta su due fronti: da una parte contro «l'ubriacatura bolscevica», e dall'altra contro quei capitalisti «che del capitale si servono per basse speculazioni contro la Nazione». Lui al sindacalismo e a Sansepolcro ci credeva per davvero. Difatti egli era un sindacalista di punta durante il Ventennio. Nel 1934 divenne presidente della Cnsfi (Confederazione Nazionale Sindacati Fascisti Italiani) e nell'aprile del 1943 riuscì ad arrivare alla consacrazione, con la nomina a Ministro delle Corporazioni, rimanendo, in virtù di tale incarico, membro di diritto del Gran Consiglio del Fascismo. La notte del 24 luglio commise il tragico errore di votare a favore dell'ordine Grandi, che costrinse il Duce alle dimissioni e ne causò conseguentemente il successivo arresto per ordine del re. Non l'avesse mai fatto. Era la caduta del Regime, e il giorno successivo, dopo appena tre mesi, perse il Ministero tanto agognato. Secondo alcuni storici - tra cui Philip Morgan - Cianetti fu probabilmente convinto da Grandi che l'ordine del giorno non fosse che un espediente per costringere il re a condividere con Mussolini le responsabilità negative della presagibile sconfitta bellica. Vero o no, come andarono per certo i fatti lo sa solo il Padreterno. Fatto sta che il giorno dopo, saputo dell'arresto, scrive a Mussolini una lettera di scuse nella quale si dichiara pentito del voto espresso. Intanto, però, il 23 settembre nasce la Rsi e Cianetti viene arrestato il 13 ottobre a Zagaralo, nel Lazio. Alla vista dell'ordine di cattura si mise a ridere: «Camerati, ma questo è uno sbaglio — disse ai poliziotti — Mussolini sa bene come sono andate le cose». Scherzo del destino volle che la sua lettera di ritrattazione nel frattempo si era persa, sennonché, prima che iniziasse il processo di Verona, fu Mussolini stesso a confermare di averla ricevuta. La testimonianza di Mussolini gli consentì di avere salva la vita: riconosciuto colpevole, gli furono riconosciute le attenuanti generiche e fu l'unico condannato a trent'anni di carcere, mentre tutti gli altri imputati furono condannati a morte: cinque fucilati (Giovanni Marinelli, Carlo Pareschi, Luciano Gottardi, Emilio De Bono e Galeazzo Ciano), e gli altri tredici condannati in contumacia. Durante la prigionia Cianetti si dedicò alla stesura di una serie di “Memorie”, nella cui prefazione avverte testualmente: «Queste pagine non sono state scritte per piacere a qualcuno. Le ho scritte nelle carceri della Repubblica Sociale Italiana: i capitoli essenziali mentre attendevo il processo nelle carceri di Verona; gli altri secondari, subito dopo le tragiche giornate di Castelvecchio». Nelle sue “Memorie”, pubblicate nel 1983 a cura di Renzo De Felice, Cianetti riporta molteplici vicissitudini che lo hanno riguardato durante tutta la sua carriera. Una di particolare interesse riguarda il dialogo avuto col Duce dopo la nomina a Ministro delle Corporazioni, dialogo di cui riporteremo fedelmente il testo, secondo quanto scritto dallo stesso Cianetti. Mussolini ricevette Cianetti a Villa Torlonia in un pomeriggio, verso la fine del maggio 1943. Il colloquio durò più di due ore. Il Duce apparse a Cianetti stanco e dimagrito, e quest'ultimo avrebbe voluto parlargli brevemente, ma Mussolini gli disse: «Non vi preoccupate e ditemi con schiettezza tutto quello che avete intenzione di espormi».
Cianetti: «Duce, desidero innanzi tutto fare una premessa, dichiarandovi che io credo al corporativismo forse come al vangelo di Nostro Signore».
Mussolini: «Perché dite questo?».
Cianetti: «Perché ce ne è bisogno».
Mussolini: «Anch’io credo al corporativismo (…). Avete un progetto?».
Cianetti: «Si parla molto di concentrazioni industriali e lo si fa senza rendersi conto della portata di un così vasto problema. La concentrazione delle industrie presuppone quella del capitale e quando questo ha raggiunto un certo stadio si slitta con più facilità verso i monopoli, nei confronti dei quali desidero manifestarvi, fin da questo momento, la mia più netta avversione».
Mussolini si dice d’accordo e invita Cianetti a continuare.
Cianetti: «Desidero prospettarvi qualche cosa di più importante in merito agli sviluppi della politica sociale. In questi ultimi anni il Regime, per effetto della guerra, ha dovuto deviare da alcune linee maestre. La quasi carenza corporativa e l’enorme accrescimento dei complessi industriali hanno alterato, a danno dei lavoratori, un equilibrio che potrebbe compromettere l’attuazione definitiva del corporativismo (…). Ricordo che qualche anno fa voi mi diceste che, finché vivrete, non sarebbero sorti più complessi industriali dell’entità della Fiat e della Montecatini; purtroppo quel pericolo che volevate scongiurare esiste e si potrebbe dire che è già in atto. Vi chiedo pertanto che si dia valore e sostanza ad un principio già enunciato e cioè: quando i complessi industriali superano un certo limite, perdono il loro carattere privatistico ed assumono un aspetto pubblico e conseguentemente collettivo».
Il Duce nel corso dell'esposizione aveva continuamente fatto intendere di condividere il punto di vista del suo interlocutore. «E allora?», chiese.
Cianetti: «Allora non c’è che un rimedio: stroncare la tendenza al monopolio e socializzare le aziende più importanti».
Mussolini: «Voi pensate che siamo maturi per la socializzazione?».
Cianetti: «Penso che siamo in notevole ritardo, Duce. La socializzazione è cosa troppo seria perché si possa attuare di colpo (…). Siamo al quarto anno di guerra e le guerre accelerano fatalmente i tempi dell’evoluzione sociale. Avremo reazioni violente da parte di alcuni capitalisti, ma questi signori si devono convincere che oggi non si sfugge più al dilemma: o corporativismo o collettivismo».
In pratica il Duce accettò in toto il programma di Cianetti, poi disse: «E’ importantissimo: potremmo presentarlo al Consiglio dei Ministri nel mese di ottobre».
Ma Cianetti osserva: «No, Duce, mi permetto di insistere sull’urgenza del provvedimento, data la inevitabile perdita di tempo alla quale ho accennato. Vi propongo, quindi, di non andare oltre il mese di luglio o agosto».
Mussolini: «Sta bene, parlate con il Ministro della Giustizia e superate con lui gli ostacoli formali».
Uscendo da Villa Torlonia Cianetti sapeva «di andare incontro a difficoltà non comuni».
Interessante è leggere le motivazioni con le quali Alfredo De Marsico, Ministro della Giustizia, bocciò il progetto di Mussolini e Cianetti.
De Marsico: «Tu, caro Cianetti, con questa legge mi calpesti e mi devasti addirittura tutto il diritto tradizionale».
Cianetti: «Non lo metto in dubbio, ma osservo soltanto che il diritto non può congelare la vita e l’evoluzione degli uomini; o serve ad entrambe o sarà spazzato quando si rivelerà un ostacolo al progresso sociale».
De Marsico: «Ma io non posso ignorarlo, questo diritto, e tanto meno infirmarlo».
Cianetti: «Chi pretende questo? Io ti chiedo soltanto di trovare le formule che siano atte alla preparazione di un clima giuridico che possa accogliere le innovazioni sociali che propongo. Tu non puoi chiuderti nel sancta santorum del tuo tempio, ignorando un fermento sociale che va incanalato».
De Marsico: «D’accordo, ma mentre tu sei la fiumana che avanza, io non posso essere che la diga che frena».
Cianetti: «Scusa se ti interrompo, caro De Marsico, ma il paragone non regge. Ammesso che io rappresenti la fiumana, non ti pare che sia poco saggia l’esistenza di una diga? La fiumana deve andare al mare; opporle una diga vuol dire provocare inondazioni e disastri. Alla fiumana si preparano il letto, gli argini e le piccole serre a cascata per regolarne il corso verso il mare; è proprio quello che io ti chiedo. Non parliamo, quindi, di dighe, ma predisponiamoci a costruire gli argini».
De Marsico, esponente della destra liberale, legatissimo alla Monarchia della quale rappresentava gli interessi, oppose il più deciso rifiuto anche all’esame del provvedimento, minacciando addirittura le dimissioni. Mussolini, data la situazione militare difficilissima, cercò di evitare che a quella si aggiungesse anche una crisi ministeriale. Sicché fu costretto a soprassedere; ma, come ricorda Cianetti, lo rassicurò promettendogli che il provvedimento sarebbe stato comunque varato, «ma non prima del mese di ottobre». Nel frattempo però ci fu il 25 luglio, e il progetto di Cianetti andò a farsi benedire. Ma non la socializzazione, che invece venne ereditata e portata avanti dalla Rsi, perché se è vero che Cianetti nel frattempo trascorrerà il suo tempo a scrivere dietro le sbarre, è altrettanto vero che il fascismo fuori dalle sbarre, «gettata la zavorra», tornerà alle sue origini più rivoluzionarie.
· I nemici del Duce.
Benjamin Brimelow per it.businessinsider.com il 16 novembre 2020. Nell’autunno del 1940, gli inglesi affrontarono una terribile situazione nel Mediterraneo, dove la grande flotta italiana rappresentava una grave minaccia. Per neutralizzarla, la marina britannica lanciò un audace attacco aereo contro le navi italiane mentre erano in porto. Il successo del raid a Taranto permise agli inglesi di dominare il Mediterraneo e diede ai giapponesi un’idea per un attacco simile agli Stati Uniti un anno dopo. All’inizio della primavera del 1941, gli strateghi militari giapponesi erano al lavoro per pianificare il loro blitz nel sud est asiatico. Gli strateghi, in particolare l’ammiraglio Isoroku Yamamoto, sapevano che questa espansione era possibile solo se i Paesi occidentali, in particolare gli Stati Uniti, non fossero stati in grado di resistere. Il Giappone doveva garantire che la flotta del Pacifico della Marina degli Stati Uniti non potesse interferire. I funzionari giapponesi decisero di attaccare a sorpresa le navi della Marina americana a Pearl Harbor, mettendole a tappeto e guadagnando tempo per raggiungere gli altri obiettivi. Sebbene ambizioso, Yamamoto aveva buone ragioni per credere che l’attacco avrebbe avuto successo: poco più di un anno prima, gli inglesi avevano condotto un attacco simile alla marina italiana nel porto di Taranto. L’operazione britannica – il primo attacco navale effettuato solo con aerei della storia – paralizzò la marina italiana dimostrando che gli attacchi con siluri contro le navi in porto erano possibili. Anche la campagna del Nord Africa contro i nazisti era ben avviata, ma la resa della Francia alla Germania a giugno significava che la Gran Bretagna non aveva più il sostegno della marina francese. L’Italia invase anche la Grecia nell’ottobre di quell’anno, facendo ulteriore pressione sugli inglesi. (I tedeschi si unirono al fianco dell’Italia in Grecia all’inizio del 1941, costringendo alla fine a una ritirata britannica). La piccola forza mediterranea della Royal Navy affrontò la Regia Marina italiana, allora la quarta marina più grande del mondo. Gli inglesi erano a corto di risorse e rifornire Malta, un’isola strategicamente situata nel mezzo del Mediterraneo, si stava rivelando difficile. Particolarmente preoccupante per gli inglesi era la flotta italiana nel porto di Taranto, nell’Italia sud-orientale. Comprendeva tutte e sei le corazzate italiane, 16 incrociatori e 13 cacciatorpediniere. Nonostante la superiorità numerica, la Regia Marina rifiutò di incontrare gli inglesi in un decisivo scontro su larga scala. Ciò costrinse la Royal Navy a operare sempre come una singola unità, temendo che se le sue forze si fossero divise, sarebbero potuto essere eliminate. Gli inglesi decisero che dovevano portare la lotta direttamente contro gli italiani. Un’operazione unica nel suo genere. Gli inglesi selezionarono Taranto come potenziale bersaglio prima ancora che la guerra fosse iniziata, decidendo che un raid aereo notturno sarebbe stato l’attacco più efficace. Il piano prevedeva che le portaerei HMS Illustrious e HMS Eagle e le loro scorte salpassero con un convoglio verso Malta per ingannare gli italiani. Le portaerei sarebbero quindi salpate fino a un punto a 170 miglia da Taranto, dove 32 aerosiluranti Fairey Swordfish – un vecchio biplano rivestito in tessuto e considerato ampiamente obsoleto – si sarebbero lanciati in due ondate per attaccare le navi da guerra italiane con siluri e bombe. Lo Swordfish fu modificato con l’aggiunta di un altro serbatoio di carburante, che prese il posto di uno dei tre membri dell’equipaggio. Alcuni portarono anche razzi per illuminare l’area per altri piloti. Sarebbe stata la prima volta che le navi nemiche venivano attaccate in porto da aerosiluranti, cosa considerata impossibile a causa delle acque poco profonde del porto e delle centinaia di mitragliatrici e cannoni antiaerei che di solito erano presenti. L’attacco era previsto per il 21 ottobre ma fu ritardato da un incendio a bordo di Illustrious. Anche il sistema di alimentazione di Eagle subì guasti che gli impedirono di partecipare all’attacco. L’attacco fu riprogrammato per l’11 novembre, con la forza britannica in partenza da Alessandria il 6 novembre. Con Eagle fuori causa, la forza d’attacco fu ridotta a 21 Swordfish, cinque dei quali furono trasferiti da Eagle. La prima ondata di 12 aerei arrivò poco prima delle 23:00. Gli inglesi furono aiutati anche da un colpo di fortuna, dato che gli italiani avevano rimosso alcune delle loro reti antisiluro a causa di un’esercitazione di artiglieria programmata. Le reti rimanenti non raggiungevano il fondo del porto, il che significava che i siluri britannici potevano passare sotto di loro. La metà gli Swordfish trasportava siluri e l’altra metà bombe. Dopo che i razzi furono lanciati, dal porto esplose la contraerea, ma gli Swordfish volavano all’altezza delle onde, costringendo gli italiani a rischiare di sparare alle proprie navi. La prima ondata colpì due corazzate con siluri. Anche un certo numero di incrociatori e cacciatorpediniere furono colpiti con bombe, e anche un vicino impianto di stoccaggio del petrolio e una base di idrovolanti furono attaccati. Uno Swordfish fu abbattuto e il suo equipaggio catturato. La seconda ondata di nove aerei arrivò quasi un’ora dopo. Silurarono una terza corazzata e colpirono una di quelle danneggiate in precedenza. Un altro Swordfish fu abbattuto, uccidendone l’equipaggio. Altri aerei che trasportavano bombe colpirono diverse altre navi, causando danni di vario grado.
Una flotta paralizzata e un’idea per il Giappone. L’attacco paralizzò la marina italiana. Tre corazzate – Littorio, Caio Duilio e Conte di Cavour – giacevano sul fondo del porto. Littorio e Caio Duilio avrebbero impiegato mesi per essere riparati, mentre il Conte di Cavour non tornò mai più in servizio. Anche due incrociatori e due cacciatorpediniere furono danneggiati, oltre 50 marinai furono uccisi, 600 furono feriti e l‘impianto petrolifero fu distrutto. In sole due ore, una manciata di aerosiluranti britannici obsoleti disattivò metà delle corazzate italiane. Gli altri furono costretti a operare dai porti più a nord, rendendoli meno pericolosi per la Royal Navy, che ora dominava il Mediterraneo. Il primo ministro Winston Churchill disse al Parlamento in un discorso che l’attacco aveva “suscitato reazioni sulla situazione navale in ogni parte del globo”. Pochi giorni dopo l’attacco, il tenente Takeshi Naito, assistente addetto aereo presso l’ambasciata giapponese a Berlino, arrivò a Taranto per indagare. Una delegazione militare giapponese più numerosa lo seguì in primavera e redigendo un ampio rapporto. Poco più di un mese prima dell’attacco giapponese a Pearl Harbor, Naito incontrò la Cmdr. Mitsuo Fuchida, che avrebbe guidato l’attacco aereo alla base americana. Discussero a lungo di Taranto. Dopo la guerra, Naito ha ricordato “il problema più difficile [a Pearl Harbor] è stato il lancio di siluri in acque poco profonde. La Marina britannica ha attaccato la flotta italiana a Taranto, e devo molto per questa lezione di lancio in acque poco profonde”. Anche la Marina americana aveva un esperto a Taranto. Il tenente John Opie, un assistente addetto navale presso l’ambasciata degli Stati Uniti a Londra, che fu effettivamente a bordo di Illustrious come osservatore durante l’attacco. Opie scrisse rapidamente un rapporto e chiese persino di visitare Pearl Harbor per discutere di ciò che aveva appreso. Ma le sue richieste furono ignorate e nel dicembre 1941 il Giappone condusse la propria Taranto, affondando o danneggiando 19 navi della Marina americana e uccidendo più di 2.000 americani a Pearl Harbor.
Bombacci, il comunista che morì da fascista. Marcello Veneziani, prefazione a A sognare la repubblica di Fabrizio Vincenti, Eclettica edizioni (2020). Gli scherzi della storia. Il primo comunista italiano, amico personale di Lenin, morì da fascista, fucilato a Dongo e poi appeso per i piedi dai suoi ex-compagni a Piazzale Loreto, accanto a Mussolini. Era Nicolino Bombacci e fu eletto nel 1919 alla guida del partito socialista. Era il capo dei massimalisti, somigliava non solo fisicamente a Che Guevara e ricordava Garibaldi. Era un puro e un confusionario; rappresentava, per dirla con De Felice, il comunismo-movimento, rispetto a chi poi si arroccò nel comunismo-regime. Finì col rappresentare il fascismo socialrivoluzionario. A sognare la repubblica di Fabrizio Vincenti si occupa in particolare, con dovizia di fonti e di particolari, del ruolo di Bombacci nella Repubblica Sociale a Salò, ne ricostruisce i nessi e la storia, le sue relazioni con Mussolini. E restituisce un personaggio controverso ma cruciale, rimasto a lungo nella penombra perché imbarazzante quasi per tutti, fascisti, antifascisti e comunisti. Bombacci fu una figura leggendaria, un personaggio che meriterebbe un film, una fiction televisiva, una narrazione popolare perché racchiude nella sua esperienza le due principali rivoluzioni del Novecento che si incrociarono nel sangue dopo la Prima guerra mondiale e poi negli ultimi due anni della seconda. Nel 1921 Nicola Bombacci fondò insieme a Gramsci, Togliatti, Tasca e ad altri fuorusciti dal Psi il Partito Comunista d’Italia. Fu proprio lui a volere la falce e martello nella bandiera rossa, sull’esempio sovietico. “Deve la sua fortuna di sovversivo a un paio d’occhi di ceramica olandese e a una barba bionda come quella di Cristo” così Mussolini dipinse il suo antico compagno, poi nemico e infine camerata. Romagnolo come lui, quattro anni più di Mussolini, maestro elementare pure lui, cacciato anch’egli dalla scuola perché sovversivo, compagno di lotte, di prigione e di giornali del futuro duce, e come lui nemico dei riformisti, Bombacci si separò da Mussolini dopo la svolta interventista e fascista. Per tornare al suo fianco a Salò ed essere ucciso ed esposto con lui a piazzale Loreto, dopo aver gridato “Viva il socialismo, viva Mussolini (o “l’Italia,” secondo altri). A differenza di Mussolini, Bombacci veniva dal seminario (come Stalin) e da una famiglia cattolica e papalina di Civitella di Romagna; egli dunque attraversò nella sua vita tutte le fedi nazionali: il cristianesimo, il socialismo, il comunismo e il fascismo. Pagando sempre di persona. L’anno in cui fondò il Pcd’I, Bombacci diventò il principale bersaglio dei fascisti che gli urlavano “Con la barba di Bombacci/ faremo spazzolini. Per lucidare le scarpe di Mussolini” (la stessa canzone fu riadattata al Negus quando l’Italia fascista conquistò l’Etiopia). I fascisti lo trascinarono alla gogna, tagliandogli la barba fluente. Barba e zazzera biondastre e incolte, volto magro, zigomi sporgenti, malinconici occhi turchini e una voce lenta e appassionata, impetuoso oratore e trascinatore di piazza. Così lo ricordava Pietro Nenni: “una selva di capelli spettinati, uno scoppio di parole spesso senza capo né coda. Nessun tentativo di convincere, ma lo sforzo di piacere. Un’innegabile potenza di seduzione. E in tutto questo, un soffio di passione…” Sposato in chiesa, tre figli e varie storie d’amore alle spalle, perché i suoi occhi e la sua parola stregavano le donne, Bombacci si schierò con Gramsci dalla parte di D’Annunzio quando questi proclamò a Fiume la Carta del Carnaro. Quando nacque il Pcd’I, Mussolini dirà in un discorso alla Camera: “li conosco i comunisti, sono figli miei”. Fu Bombacci a organizzare la clamorosa uscita del folto gruppo parlamentare socialista alla Camera il giorno dell’insediamento, prima che parlasse il Re, al grido di Viva il socialismo. Bombacci fu l’unico dei comunisti italiani ad essere ricevuto in separata sede da Lenin nel 1920. Prima di partire, Bombacci ricevette da Lenin denaro, oro e platino per la propaganda. A Mosca, Bombacci tornò coi vertici del Partito nel quinto anniversario della rivoluzione bolscevica, il 9 novembre del 1922 che nel calendario russo coincise, forse non casualmente, con il 28 ottobre del 1922 quando i fascisti marciarono su Roma. Fu così che mentre i leader comunisti italiani erano a Mosca a festeggiare la rivoluzione bolscevica, Mussolini conquistava senza resistenze rosse il potere a Roma. Da allora Bombacci, collaboratore della Pravda, diventò un sostenitore dell’intesa tra l’Italia fascista e l’Urss comunista, anche in parlamento. Bombacci poi sostenne la necessità per i comunisti di infiltrarsi nei sindacati fascisti (strategia che Togliatti poi teorizzò come entrismo negli anni 30). Fu lui il primo comunista a entrare nella Camera dopo l’avvento di Mussolini al potere. Non fu arrestato né aggredito, come si temeva. Continuò a far la spola con Mosca, soprattutto dopo che l’Italia di Mussolini era stata il primo paese occidentale a riconoscere l’Urss e ad avviare rapporti economici, a quanto pare, suo tramite. Bombacci andò a Mosca il 1924 ai funerali di Lenin, e fu il più apprezzato tra gli italiani. Incontrò più volte anche Stalin. Bombacci fu espulso dal partito per deviazionismo e indegnità politico-morale il 1928, dopo aver dato vita al primo traffico commerciale tra l’Italia e l’Urss attraverso un’agenzia di export-import con l’est comunista; Bombacci fu il precursore delle coop rosse. Anche allora si parlò di tangenti, i comunisti lasciarono cadere i sospetti su di lui, ma Bombacci continuò per tutta la sua vita a navigare tra i debiti, aiutato poi proprio dal suo antico compagno e rivale Mussolini. Che prima aiutò i suoi famigliari e poi gli trovò un’occupazione all’Istituto di cinematografia educativa, in una palazzina di Villa Torlonia, proprio dove risiedeva il Duce. Mussolini gli finanziò pure l’unico giornale fasciocomunista degli anni Trenta, La Verità, che già nella testata ricordava la Pravda. Un giornale odiato da Starace e dai fascisti, che continuò a uscire fino al 1943. Dalle sue pagine fu anche teorizzata l’Autarchia. Bombacci perseguì nella rivista il progetto di unificare le rivoluzioni di Roma, Mosca e Berlino fino al ’41, quando la rottura del patto Molotov-Ribbentrop e l’alleanza del comunismo con le plutocrazie occidentali lo portò a condannare l’abbraccio con il capitalismo e a schierarsi con il fascismo. Ai tempi di Salò Bombacci aveva i capelli corti e la barba non era più quella rivoluzionaria e incolta, da Garibaldi o Che Guevara; una palpebra gli si era abbassata davanti all’occhio, vestiva con abiti gessati e più borghesi. Ma coltivava ancora il suo velleitario socialismo. A Salò il sindacalista fascista Francesco Grossi lo ricorda così: “con le inflessioni romagnole ineliminabili”, “caloroso nell’esporre, gli brillavano gli occhi chiari ed acuti che rivelavano una totale pulizia interiore”. Il suo ruolo nella Rsi fu decisivo: si deve a lui l’uso del termine socializzazione e fu lui a scrivere la prima bozza che dette vita alla Carta di Verona e a sognare, insieme al fascismo di sinistra, la nascita dell’Urse, l’unione delle repubbliche socialiste europee. In quel tempo Bombacci e Carlo Silvestri volevano riaprire il caso Matteotti per dimostrare che quel delitto fu messo di traverso tra Mussolini e il socialismo per evitare il riavvicinamento: Vincenti qui ne approfondisce i passaggi. Con Silvestri Bombacci promosse e sostenne l’estremo tentativo di Mussolini di consegnare le sorti della Rsi al partito socialista di unità proletaria attraverso un messaggio consegnato a Pertini e a Lombardi, che i due leader partigiani cestinarono. Bombacci continuò a predicare tra gli operai la rivoluzione sociale: memorabile fu il suo ultimo discorso a Genova il 15 marzo del 1945, in cui ritrovò la foga della sua gioventù; lo raccontò in un’ingenua lettera entusiasta a Mussolini. Era ancora convinto che la forza dei discorsi potesse superare la forza delle armi e modificare la realtà. Fu così che Bombacci si ritrovò fino all’ultimo con Mussolini, nella colonna fermata a Dongo. Per essere poi fucilato ed esposto con il cartello di supertraditore. Di lui caduto si ricordano gli occhi azzurri rivolti verso il cielo, come si addice a un sognatore ad occhi aperti. MV, prefazione a A sognare la repubblica di Fabrizio Vincenti, Eclettica edizioni (2020)
Antonio Carioti per “la Lettura - Corriere della Sera” il 3 novembre 2020. Piazzale Loreto evoca subito i cadaveri di Benito Mussolini, di Clara Petacci e di altri fascisti appesi a testa in giù il 29 aprile 1945. Assai meno presente nell' immaginario nazionale è il retroterra sanguinoso di alcuni mesi prima, che poi è il motivo per cui i corpi del Duce e degli altri fucilati sul Lago di Como vennero esposti in quel luogo di Milano. Nello stesso posto infatti il 10 agosto 1944 erano stati massacrati quindici antifascisti, l' eccidio al quale Massimo Castoldi dedica il volume Piazzale Loreto (Donzelli), una ricerca minuziosa per un opportuno riequilibro della memoria collettiva. Se è inevitabile che la fine di Mussolini occupi il proscenio, nulla giustifica una carenza di attenzione verso quelli che vennero chiamati i «quindici martiri»: alcuni lavoratori industriali di Sesto San Giovanni, altri cospiratori milanesi, un cattolico bergamasco in contatto con gli Alleati, Vittorio Gasparini. Castoldi è nipote del più anziano dei fucilati in piazzale Loreto, il maestro socialista Salvatore Principato, di 52 anni. Ciò ha influito nel motivarne il lavoro certosino alla caccia di documenti e testimonianze, durato a lungo e condotto con l' accuratezza del filologo, attività che esercita all' Università di Pavia. Uno spazio notevole nel libro è dedicato anche alla nonna di Castoldi, Marcella Chiorri, che entrò nella Resistenza dopo l' uccisione del marito. Ma conviene riprendere il filo dall' inizio. L' 8 agosto 1944, in viale Abruzzi, scoppia un ordigno sotto un camion della Wehrmacht. Qualcuno cerca di soccorrere i feriti e un' altra esplosione miete nuove vittime. Tra gli uccisi sul colpo e i deceduti in ospedale, i morti sono almeno dieci (forse di più), tutti civili italiani, tra i quali due donne e un ragazzo di 13 anni. L' unico militare tedesco a bordo dell' autocarro resta leggermente ferito. La propaganda neofascista racconterà che era lì per distribuire viveri agli abitanti, ma è pura invenzione. I partigiani smentiranno sempre che l' azione fosse opera loro, mentre rivendicano l' uccisione di un ufficiale fascista il giorno dopo. Di certo, nota Castoldi, quello di viale Abruzzi è un «attentato anomalo». All' alba del 10 agosto scatta la rappresaglia, decisa dagli occupanti nazisti, ma compiuta da repubblichini della legione autonoma Ettore Muti. Le vittime, il cui elenco è stato stilato dal capitano delle SS Theodor Saevecke, sono prelevate dal carcere di San Vittore e portate in piazzale Loreto. L' eccidio si consuma intorno alle 5.30. I militi raggruppano i prigionieri alla rinfusa e sparano all' impazzata. «Non fu un' esecuzione, ma una carneficina», scrive Castoldi. Nella confusione uno degli antifascisti, Eraldo Soncini, riesce a fuggire, ma viene raggiunto e trucidato dentro un palazzo. I cadaveri crivellati rimangono sul posto nell' afa agostana fin verso le 18, ben presidiati, in modo che l' orribile spettacolo serva di esempio. Piazzale Loreto è stato scelto anche perché è un capolinea di linee tranviarie e vi passa molta gente. In mezzo al carnaio si staglia un cartello con una scritta intimidatoria. Poi qualcuno lo toglie e alle spalle dei corpi senza vita viene affisso un manifesto della Repubblica sociale, opera del famoso Gino Boccasile, che minaccia la fucilazione «Ad ogni traditore, ad ogni sabotatore». Castoldi è stato il primo a notare questo dettaglio, che mostra come la strage sia stata non solo eseguita in ossequio alle direttive tedesche, ma attivamente «rivendicata» dai fascisti. L' impressione destata da tanta ferocia induce mesi dopo i partigiani a trasportare ed esporre in piazzale Loreto le salme di Mussolini e dei suoi seguaci. Ma qui la situazione sfugge di mano. Mentre il 10 agosto 1944 gli spettatori avevano assistito sgomenti e in silenzio, il 29 aprile 1945 la folla si scaglia sui cadaveri con l' intento d' infierire. I vigili del fuoco cercano di fermare il tumulto con gli idranti, poi tra le 10 e le 11 del mattino si decide di appendere i corpi alla pensilina di un distributore di carburante, per consentire a tutti di vederli e nel contempo evitarne lo scempio. Non è una scelta felice, perché le relative immagini gettano un' ombra sull' Italia e sulla lotta di Liberazione. Avviene già allora ma soprattutto adesso, a decenni di distanza, perché è più difficile contestualizzare l' evento. Alle 13.30 le autorità fanno portare i cadaveri all' obitorio, ma è tardi. Alcuni tra gli esecutori fascisti dell' eccidio del 10 agosto verranno uccisi anch' essi nei giorni dell' insurrezione. Altri, condannati, fruiranno di sconti e amnistie. Chi se la cava meglio però sono i responsabili nazisti, perché il fascicolo delle indagini su piazzale Loreto finisce insabbiato, con molti altri, nel famigerato «armadio della vergogna». Così Saevecke, in virtù della sua esperienza nell' intelligence, viene assoldato dalla Cia americana, poi vive indisturbato per decenni. Dopo il ritrovamento del materiale istruttorio finisce sotto processo ed è condannato all' ergastolo nel 1999. Ma muore a fine 2000, quasi novantenne, impunito. Speriamo almeno che alla ferita della giustizia monca e tardiva, per i quindici di piazzale Loreto, non si aggiunga il velo dell' oblio.
Estratto del libro “Perché l’Italia amò Mussolini” di Bruno Vespa pubblicato da “la Verità” il 29 ottobre 2020. Al forte consenso al regime contribuirono le generose elargizioni del governo al mondo intellettuale. In L' Italia di Mussolini in 50 ritratti, Paolo Mieli e Francesco Cundari ricordano lo sterminato esercito di beneficiari reso noto nel dopoguerra, quando si scopri anche l' elevato numero di voltagabbana che si erano prontamente riciclati salendo sul carro dei nuovi vincitori. Giuseppe Ungaretti, uno dei più celebri «assistiti», giustificava così il suo atteggiamento: «Era una sovvenzione che s' usava dare - e uso esistente in tutti i paesi del mondo - e la ricevettero persone onorevolissime perché potessero proseguire con tranquillità il loro lavoro L' accettavo perché essa ai miei occhi non aveva diverso carattere della sovvenzione dello Stato all' agricoltore perché possa portare a termine lavori di bonifica». Lo storico Giovanni Sedita, in Gli intellettuali di Mussolini, pubblica le petizioni rivolte dagli scrittori ai gerarchi per ottenere il sussidio, quasi sempre generoso. Vincenzo Cardarelli chiede a Galeazzo Ciano una sovvenzione fissa («Solo un soccorso non momentaneo potrebbe mettermi al riparo dalla miseria in cui mi dibatto»). Salvatore Quasimodo: «L' urgenza di essere aiutato in qualsiasi modo interessa nel vivo i più elementari bisogni cotidiani di vita». Vitaliano Brancati denuncia «quegli scrittori mediocri e di passato antifascista che vengono aiutati dal regime». Elio Vittorini, diffidato per frequentazioni antifasciste, si difende con energia: «Il sottoscritto resta fortemente sorpreso nella sua qualità di fascista non recente e di scrittore fascista che sin da quando ha preso la penna in mano l' ha adoperata al servizio delle idee fasciste su giornali fascisti». (Nell' ottobre 1942 Vittorini partecipò a Weimar al convegno degli intellettuali nazisti, si iscrisse contemporaneamente al Partito comunista clandestino e nel 1945 diresse L' Unità di Milano). Assegni importanti vengono elargiti a Filippo Tommaso Marinetti, che li ottiene anche per futuristi del suo gruppo, a Fortunato Depero, Pietro Mascagni, alle attrici Paola Borboni e Andreina Pagnani, a Corrado Alvaro, a Giovanni Ansaldo (geniale voltagabbana). Alla Ruota, rivista che alimenta la propaganda razzista e antisemita, collaborano dopo il 1940 Mario Alicata, Renato Guttuso, Concetto Marchesi, Carlo Muscetta, che nel dopoguerra faranno tutti parte della crema del Pci. L' Oscar dei voltagabbana va comunque alla scrittrice Sibilla Aleramo: durante il regime e fino al 1943 chiede soldi in maniera ossessiva a Mussolini e a Ciano, ma già nel 1945 - parlando di una conversazione tra intellettuali - scrive: «Io ero la sola a parteggiare senza restrizioni per l' avvenire che la Russia ci prepara di giustizia e di pace, quando tutti avremo accettato i suoi principi (rivoluzione francese più marxismo)». Nel 1932 fu inaugurata a Roma una Mostra della Rivoluzione fascista. In quell' occasione, Ottavio Dinale, vecchio amico di Mussolini, che lo aveva anche nominato prefetto, diede così il suo contributo al misticismo del capo: «La sua figura spicca, già monolitica, nell' attualità, nella storia, nelle proiezioni dell' avvenire, dominante uomini e cose, come principe degli uomini di Stato, come genio della Stirpe, come salvatore dell' Italia Mussolini è tutto l' Eroe in una luminosità solare, è il Genio ispiratore e creatore, è l' animatore che trascina e conquista, è Lui: l' interezza massiccia del mito e della realtà». Alla mostra venivano accompagnate tutte le autorità straniere in visita a Roma. Con la perfidia del giovane fascista deluso, Zangrandi racconta che ogni giorno un diverso drappello era obbligato a fare la scorta d' onore alla rassegna: «Balilla e avanguardisti, deputati e senatori, gerarchi di periferia e italiani venuti dall' estero, generali e magistrati, ministri e accademici d' Italia, scrittori, poeti, artisti, filosofi, scienziati: a ognuno toccò il suo turno. Indrappellati, in divisa o in orbace, distinti in "mute" per darsi il cambio, all' esterno o all' interno dell' edifizio, uomini con i capelli grigi e magari con la pancia si alternavano in posizione di presentat-arm nei punti stabiliti. E, tra mezzogiorno e il tocco, venivano condotti in giardino, a consumare il rancio, invero eccellente, a base di rigatoni al sugo e carne lessa». E confessa di non essersi divertito affatto, da diciassettenne, a vedere con i propri occhi lo spettacolo di queste fiumane discendere per via Nazionale. Ma, la delusione maggiore, la ebbe dal mondo dell' accademia. Come abbiamo visto, soltanto 12 professori universitari su oltre 1200 rifiutarono di firmare fedeltà al regime fascista. Come esempio di trasformismo tra fascismo e postfascismo, Zangrandi fa il nome di uno dei maggiori storici italiani, Luigi Salvatorelli. Non dovette giurare (non insegnava all' università) e, pur essendo stato antifascista fino al 1925, si allineò al regime dagli anni Trenta all' inizio dei Quaranta. Nel Corso di Storia per i licei del 1935, ristampato da Einaudi fino al 1942, Salvatorelli ignorò fra l' altro completamente sia il delitto Matteotti sia la protesta dell' Aventino, due eventi chiave della prima fase del fascismo. Naturalmente, l' edizione del 1952 fu di tutt' altro tono.
Pier Luigi Vercesi per il Corriere della Sera l'1 maggio 2020. Chiedersi chi sia stato Benito Mussolini, come se fosse un enigma da sciogliere, non è stata la principale domanda che si sono posti gli storici italiani negli ultimi settantacinque anni, da quando il suo cadavere venne appeso per i piedi in piazzale Loreto a Milano. Chi è nato e vissuto in questo lembo di terra, se è onesto con se stesso, nel Duce, nei gerarchi e nell' affollamento delle piazze, riconosce molti dei difetti, delle ambiguità e dei calcoli di convenienza degli italiani. Non di tutti, certo, ma di molti. Tanto più alla luce di ciò che è accaduto nella Penisola nell' ultimo quarto di secolo, con i rigurgiti populisti, gli atteggiamenti di alcuni politici, il seguito di massa che hanno avuto. Per noi italiani, dunque, è sempre stato più importante ricostruire i fatti e valutare gli effetti della dittatura fascista, persino nella mastodontica, discussa ma imprescindibile, biografia a cura di Renzo De Felice. All' estero, invece, dove si fatica a comprendere la Bisanzio-Italia, fin dal primo giorno della Liberazione pensarono fosse necessario trovare nel cervello di Mussolini le tracce di una devianza. Gli americani, irritati che qualcuno potesse mettere in dubbio la bontà dei loro ideali, si convinsero che il Duce fosse semplicemente pazzo. Così il suo corpo e il suo cervello divennero materia di studio per cercare di dimostrare che la sifilide, contratta da giovane, aveva contribuito a trasformare l' uomo maturo in quella «testa bacata» che condusse l' Italia nel tunnel cieco della dittatura e in una guerra mondiale con il ruolo di gregario del folle per eccellenza, Adolf Hitler, già catalogato con una psicoanalisi in absentia. Venne così operata l' autopsia sul corpo del Duce, ma persino l' ulcera, di cui si lamentava di soffrire fin dai tempi del delitto Matteotti, parve poca cosa. Probabilmente i dolori avevano più origine psicosomatica. Non fidandosi poi dei medici italiani, il cervello venne messo in sei provette di vetro e spedito all' ospedale psichiatrico St. Elizabeth di Washington con la targhetta «Mussolinni», con due enne. Ci volle del tempo per avere il responso, anche se in Italia chi doveva sapere già sapeva, perché qualche brandello di tessuto cerebrale era stato trafugato e inviato all' Istituto neurologico Mondino di Pavia, dove venne analizzato in gran segreto senza che venissero rilevate tracce di neurosifilide. Il Duce, dunque, non era pazzo, e lo ammisero anche gli americani quando, con la Guerra fredda, perse d' importanza nella demonologia statunitense. Nel 1966, il St. Elizabeth si prese persino la briga di rispedire le provette alla vedova di quel tal «Mussolinni» di cui, in clinica, si era quasi persa memoria. Il giudizio sul dittatore italiano, nel mondo anglosassone, tornò così ad essere quello espresso da quel gentiluomo inglese, abitualmente compassato, di Anthony Eden: «Mussolini è, temo, un gangster assoluto e la sua parola non significa nulla nemmeno sotto giuramento». Confusione, millanteria, vanità gigionesca, crudeltà meschina: ecco i termini associati più di frequente a Mussolini, che ne hanno fatto una figura più comica che terribile, al contrario di quanto è avvenuto per i dittatori a lui coevi, Hitler e Stalin. Questi due furono temibili tiranni totalitari. Mussolini si rivelò piuttosto un «Cesare di cartapesta», nulla più di un buffone. E questo, con il senno di poi, gli ha addirittura giovato, lasciandolo nell' ombra sul palcoscenico degli orrori del Novecento. Da qui prende le mosse il saggio dello storico australiano Richard J.B. Bosworth, secondo volume della serie «Storia del ventennio fascista» dedicata alla comprensione degli anni della dittatura in Italia in edicola oggi con il «Corriere della Sera». È il punto di partenza, però, non quello di arrivo, come sbrigativamente la storiografia anglosassone aveva liquidato la figura di Mussolini. Un approccio interessante, fuori dagli schemi tradizionali, anche perché frutto del lavoro di uno studioso assolutamente distaccato, maturato in un mondo che più distante dalle passioni italiane non potrebbe essere. Il Duce ne esce come un mentitore assoluto: lo fu sempre, però, dall' inizio alla fine della sua vita, e con tale naturalezza da non rendersi conto lui stesso, a volte, di mentire. Questa sua natura era chiara al fratello minore Arnaldo, l' unico che riusciva a esercitare su Benito una minima influenza moderatrice. Quando, nel 1931, morì, venne a mancare anche quella minima stampella equilibratrice. Ma Mussolini non mentiva per una qualche tara, come avrebbero voluto gli americani, il suo era assoluto disprezzo per gli uomini, intercambiabili ai suoi occhi, amici o nemici che fossero, complici o avversari, tutti semplicemente pedoni nel suo cerebrale gioco di scacchi per la conquista e la gestione del potere.
Lorenzo Nicolao per corriere.it il 27 aprile 2020. Il calciatore, l’idraulico, il partigiano, ma soprattutto il giustiziere di Mussolini. Quella di Michele Moretti, conosciuto dai compagni della Resistenza come Pietro Gatti, è una storia quasi leggendaria, ma che intreccia sport e politica in uno dei momenti più drammatici e significativi per la storia d’Italia. Nato a Como nel 1908 da padre ferroviere, le sue imprese sportive vennero presto dimenticate di fronte al ruolo che ebbe con i partigiani nella cattura e nell’esecuzione del Duce, tanto dall’aver combattuto con i partigiani prima e l’esser fuggito in Jugoslavia e Unione Sovietica poi, quando dietro la fuga rimase irrisolto il mistero di un presunto bottino in milioni di lire dell’epoca sottratto alla Repubblica di Salò e agli ultimi gerarchi fascisti. Ma quello che pochi ricordano è che come calciatore giocò come terzino e poi ala nella Comense fra il 1927 e il 1935, protagonista di una stagione fantastica in serie C, dove la squadra non perse neanche una partita con ben 90 gol segnati. Nel complesso giocò 4 campionati cadetti con 83 presenze all’attivo, fino alla stagione del 1933-34 quando, perdendo per 4-2 con il Bari, vide sfumare all’ultima giornata la promozione in A conquistata invece dalla Sampierdarenese (antenata della Sampdoria). Ebbe anche la possibilità di vestire la maglia della Nazionale i giocatori visionati da Vittorio Pozzo, unico allenatore a detenere ancora oggi il record di due Mondiali di calcio vinti, giocando fra gli azzurrabili ebbe un comportamento altalenante, focoso e discutibile, mostrando presto la sua indole combattiva, anche nella vita. A casa, il ragazzo che per sopravvivere all’epoca lavorava in realtà come idraulico a Maslianico (Como), aveva sempre ascoltato il pensiero di alcuni esponenti del socialismo italiano e straniero, come Costa, Turati, Prampolini e naturalmente Marx. Nel 1944 prese parte anche a degli scioperi, prima di lavorare in Austria, in una succursale della Gerenzana a Pols, quando la sua storia sarebbe diventata famosa. Era fuggito, ma mantenendo sempre i contatti con i vertici comunisti nell’Italia settentrionale durante la Resistenza. Fu il 25 aprile del 1944, esattamente un anno prima della Liberazione, ad abbracciare pienamente la causa dei partigiani sulle Alpi Lepontine, sulla sponda occidentale del lago di Como e del lago di Mezzola. I compagni raccontavano che avesse tante vite quante ne hanno i gatti, fino a quando non fu chiaro che il fascismo era caduto e che il Duce stava fuggendo oltreconfine. Come commissario politico della 52esima Brigata Garibaldi «Luigi Clerici», operante sul monte Berlinghera, intercettò un gruppo di soldati tedeschi, che fuggendo provava a razziare abitazioni, opere d’arte, ricchezze e quello che potevano. Catturati i fuggiaschi la scoperta: Benito Mussolini e la compagna Clara Petacci, insieme ad altri fedeli gerarchi erano nascosti fra gli ostaggi. Moretti chiese consiglio ai vertici militari comunisti, ma presto si decise per l’esecuzione del Duce. Dal posto di blocco di Dongo a Bonzanigo, frazione di Mezzegra, giunsero i capi partigiani Walter Audisio e Aldo Lampredi. La storia si fa confusa, ma sembra che Moretti prese parte alla fucilazione con una MAS-38 francese di calibro 7,65. Da quel momento, in una fase storica estremamente confusa, l’ex calciatore venne accusato di essere fuggito con 33 milioni di lire, parte del tesoro della Repubblica di Salò, precedentemente sequestrato ai prigionieri. Un aspetto che fu oggetto anche di un processo nel 1957, ribattezzato “L’Oro di Dongo” ma il partigiano Gatti era già scappato in Jugoslavia, prima di riprendere nel dopoguerra il proprio lavoro di idraulico nell’allora Unione Sovietica. Si racconta della perdita della moglie, di quella di un figlio, anche se il resto della sua vita fu in buona parte avvolta nel mistero, compresa la sua testimonianza diretta sulla morte del Duce. Il calciatore-partigiano fu premiato con l’Abbondino d’Oro nel 1993, massima onorificenza del Comune di Como, dove nel frattempo era rientrato nell’ultimo periodo della sua vita, prima di morire per cause naturali il 5 marzo del 1995. Una storia fra le tante di anni complessi, ma che mostra come lo sport e la vita rimangano sempre componenti difficili da slegare e che si intrecciano nello svolgersi degli eventi.
· I Peccati del Duce.
Mussolini voleva una moschea: il retroscena nascosto sul duce. Benito Mussolini era favorevole alla costruzione di una moschea in Italia, ma il Vaticano si oppose. Ecco cos'è spuntato tra le carteggi dell'epoca. Francesco Boezi, Mercoledì 09/12/2020 su Il Giornale. L'apertura degli archivi segreti del Vaticano su Pio XII consentono di apprendere informazioni sul rapporto tra la Santa Sede ed il fascismo, ma anche su come il regime gestiva gli "affari religiosi". Se non altro per via della contemporaneità di certi documenti. Quelli che peraltro dimostrano come Mussolini non fosse affatto contrario ad una moschea. Papa Francesco non ha avuto paura della storia. Mentre emergono dettagli rilevanti sui tentativi messi in campo da Hitler per ostacolare l'azione del pontefice nato Pacelli, un particolare rischia di far discutere storici, politologi ed analisti. Benito Mussolini - come si deduce dalle carte - avrebbe voluto istituire una moschea in Italia. Meglio, il capo del fascismo sosteneva che una moschea fosse necessaria per soddisfare le esigenze spirituali di tutte le persone di fede islamica che dimoravano all'epoca nel Belpaese. Al netto della propaganda sulla "spada dell'islam" e delle posizioni geopolitiche assunte dal regime durante il ventennio, Benito Mussolini sentiva la necessità di edificare qualcosa che assomigliasse ai templi che venivano costruiti per i cristiani non cattolici. Il duce non supponeva l'esistenza di pericoli. Lo sappiamo - come ripercorso dall'edizione odierna d'Italia Oggi - per via del carteggio tra il nunzio apostolico Francesco Borgongini, che tuttavia si oppose all'idea. La Santa Sede, a differenza del vertice esecutivo italiano, non era così convinta della bontà di predisporre dei luoghi di culto per i musulmani. Il duca e nunzio apostolico, appresa la volontà del duce, si affrettò a parlarne con il ministro degli Esteri Galeazzo Ciano, che poi darà vita all'ordine del giorno del 25 luglio per cui tra l'altro verrà fucilato a Verona. Borgongini espresse ferma contrarietà, sottolineando cosa la moschea avrebbe rappresentato a suo parere, e cioè "una ferita al sentimento cristiano e cattolico da noi e in tutto il mondo". Tempi molto diversi rispetto a quelli odierni, in cui Santa Sede ed autorità islamiche dialogano al punto di sottoscrivere in maniera comune dichiarazioni sulla fratellanza universale. Il Concilio Vaticano II contribuirà, poi, a modificare l'atteggiamento della Chiesa cattolica nei confronti della altre confessioni religiose. Prima di allora, i canali aperti con le autorità islamiche erano piuttosto limitati. Sarà fondamentale, in questo senso, la pubblicazione del documento conciliare Nostra Aetate. Chi si stupisce delle posizioni assunte da Mussolini in merito alla moschea, può per esempio prendere nota delle radici "atee e materialiste" del pensiero mussoliniano, che è stato circoscritto in "Dio non esiste", un libro curato dal professor Francesco Agnoli. Mussolini, in buona sostanza, non fondava il suo pensiero sulla dottrina cristiano-cattolica, anzi. E la ricerca del consenso, compreso quello dei cittadini di fede musulmana, sembra costituire, pure in questo caso, la ratio alla base della favorevolezza ad una moschea. I documenti però raccontano anche altro. La Santa Sede, oltre al "no" alla moschea, aveva avanzato qualche perplessità anche in merito alla nomina di Benedetto Croce come presidente dell'Accademia d'Italia. L'illuminismo dei liberali non era digerito con facilità dai contesti ecclesiastici, che addirittura evidenziarono la natura di possibile "offesa" ai cattolici in relazione a quella scelta. E ancora un virgolettato di Pio XII che può contribuire a spiegare il perché la Chiesa cattolica non abbia tuonato in modo fermo contro le persecuzioni subite dagli ebrei all'interno dei campi di concentramento: "Gli italiani sanno sicuramente le orribili cose che avvengono in Polonia. Noi dovremmo dire parole di fuoco contro simili cose, e solo ci trattiene dal farlo il sapere che renderemmo la condizione di quegli infelici, se parlassimo, ancora più dura". Il Papa temeva che i suoi moniti comportassero effetti peggiori di quelli già esistenti. Com'è noto, l'apporto di Pio XII per la salvezza degli ebrei, in specie di quelli di Roma, è molto discusso. Poi, scorrendo tra le pagine, emergono il principio della parabola politica di Giulio Andreotti e il sentimento oppositivo di Alcide De Gasperi nei confronti di un summit tenutosi tra un cardinale palermitano ed un gruppo di appartenenti al Movimento Sociale Italiano.
BRUNO VESPA PERCHE' L'ITALIA AMO' MUSSOLINI. Dagospia il 18 novembre 2020. Estratto dal libro “Perché l’Italia amò Mussolini”, di Bruno Vespa (Rai Libri – Mondadori). Sesso sul tappeto e nel vano della finestra. Quinto Navarra, il ciambellano di palazzo Venezia, nelle sue memorie e categorico: Mussolini ha ricevuto una donna al giorno, tutti i giorni, per vent’anni, fino all’ultimo istante di potere. Destituito la notte del 24 luglio, fece rinviare l’incontro con la signora S. di Ferrara fissato per l’indomani. Per indicare questo genere di interlocutrici – chiamiamole cosi – Navarra ha coniato una definizione rimasta celebre: «visitatrici fasciste». Scrivevano a migliaia da tutt’Italia per incontrare il Duce: alcune per esporre seri problemi familiari, altre per avere un piccolo sussidio, che spesso ricevevano in via diretta. Mussolini prelevava contanti da un cassetto della scrivania o, preferibilmente, metteva le banconote tra le pagine di un libro che poi faceva recapitare a domicilio. Altre donne arrivavano a palazzo Venezia soltanto per conoscerlo, soprattutto in senso biblico. Un ufficio smistava la corrispondenza e, ovviamente, nella Sala del Mappamondo venivano ammesse soltanto quelle che offrivano garanzie di sicurezza. Non erano giovanissime (l’unica eccezione fu Claretta Petacci), ne necessariamente belle. Avevano una sola caratteristica comune: le forme morbide. Ed erano quasi tutte donne borghesi. Mussolini non ha mai amato l’aristocrazia e non ha mai frequentato i salotti della nobilta romana, che pure facevano a gara per invitarlo. Ne era attratto dal proletariato: la sola, fedelissima amante di quella estrazione sociale fu la milanese Angela Cucciati. Le «visitatrici» si trattenevano per non piu di mezz’ora: meta del tempo era destinata a un amplesso furioso, consumato sul tappeto che copriva il pavimento davanti all’enorme scrivania, o su un cuscino scarlatto nel vano di una delle finestre quattrocentesche affacciate su piazza Venezia. In rarissime occasioni (per la Cucciati e per la Petacci) Navarra faceva accomodare le ospiti nella piccola Sala dello Zodiaco dell’appartamento Cybo, dal nome del cardinale Lorenzo, nipote di Innocenzo VIII, che lo abito alla fine del Quattrocento. Li – testimone un soffitto decorato con immagini di astri – i convegni erano piu romantici. Monelli ironizza sulla tempistica e la qualita degli incontri descritti da Navarra. «Il buon uomo esagera» annota, ammettendo, peraltro, che il cameriere «doveva ogni tanto sprimacciare il materassino collocato sul sedile di pietra sotto la finestra della Sala del Mappamondo o raccattare dal tappeto che stava davanti alla scrivania qualche forcina. Con le vecchie amanti che tornavano periodicamente a visitarlo pare che andasse subito a finire sul tappeto (antica abitudine fin da quando stava in via Rasella dove non c’erano tappeti e la coppia si rotolava sul duro impiantito). Ma con le donne nuove, e con le visitatrici solo vagamente disposte all’avventura, non e detto che la cosa dovesse finire sempre sull’appiccicoso.» Lo stesso Mussolini tendeva a non ingigantire le sue doti amatorie. Confido all’amico Nino D’Aroma: «In fatto di donne, ho la mia esperienza uguale a quella di tutti gli uomini sani che nella vita fanno la loro parte ne piu ne meno degli altri, perche se io, Mussolini, dovessi addossarmi tutte le donne che mi si attribuiscono, francamente avrei dovuto essere, piu che un uomo, uno stallone». Il Duce non era generoso con le sue ospiti. Non offriva un te, un cioccolatino, una bibita. Mai un regalino. Non usava profumi (ma molta acqua di Colonia) e non li cercava nelle donne. («Mi piacciono allo stato brado» confesso una volta a Claretta.) Se era di buonumore, dopo l’amplesso – e sempre all’interno della mezz’ora prevista – si esibiva in un pezzo al violino. Il quarto d’ora di sesso era imprevedibile. Una donna che era stata spesso da lui ha raccontato a Monelli: «Sapeva essere brutale, sgarbato, violento, iniziava il colloquio con bestemmie e parolacce, porco questo, porca quella, boia qui, boia la. Ma sapeva anche essere tenero, carezzevole, addirittura paterno». Nonostante la rapidità dell’incontro, non riusciva a mantenere lo stesso umore: brusco e volgare all’inizio, zuccheroso alla fine. E viceversa. «Non era l’amante silenzioso e delicato: per tutto il tempo che si teneva la donna tra le braccia urlava, sbraitava, commentava la vicenda con esclamazioni, con imprecazioni, con rauchi gridi.» (Per fortuna Navarra, che stava in anticamera, era sordo.) Naturalmente le giornaliste, soprattutto se straniere, avevano un accesso privilegiato. Magda de Fontanges era un’attrice molto intrigante gia nel 1925 quando, all’eta di 20 anni, comincio a frequentare i salotti parigini. Decise poi di diventare giornalista e nel 1935 si fece accreditare come corrispondente da Roma del quotidiano «Le Matin». Il suo scopo principale non era quello d’intervistare Mussolini, ma di andarci a letto (si fa per dire). Un giorno Magda si reco a palazzo Venezia con un gruppo di giornalisti e subito dopo Navarra fu avvertito che la donna sarebbe tornata nel pomeriggio. Mussolini le concesse una prima intervista, che fu pubblicata dal «Matin», e altre – privatissime – che rimasero riservate, s’immagina per volere del Duce. Risulta che Magda si fosse sinceramente e furiosamente innamorata. «I suoi occhi» scrisse di Mussolini «hanno uno splendore incomparabile, affascinante, e io sfido chiunque ad affrontarlo per la prima volta senza restarne profondamente turbato.» Lui ricambio portandola con se in cerimonie come quella in cui con l’aratro a motore traccio i confini della nuova città di Aprilia. Ma se ne stanco abbastanza presto e la rispedi in Francia con una liquidazione di 15.000 lire. Lei non si rassegno. Prima tento (davvero) il suicidio con i barbiturici e fu salvata da una lavanda gastrica, poi si vendico pubblicando sulla rivista americana «Liberty» i dettagli delle loro sedute di sesso a palazzo Venezia sotto il titolo My love affair with Mussolini. Magda immagino che la sua caduta in disgrazia dipendesse dall’ambasciatore francese a Roma, il conte Charles de Chambrun. Il diplomatico ne aveva parlato al Duce come di una donna pagata da quelli che noi chiameremmo i servizi segreti «deviati» della Repubblica francese coinvolti nell’affaire Stavisky, una torbida questione politico-finanziaria che aveva turbato l’opinione pubblica. Cosi, la sera del 17 marzo 1937, si apposto alla stazione della Gare du Nord a Parigi e sparo all’ambasciatore colpendolo «nelle parti basse», come testimonia Galeazzo Ciano nel suo diario. Un’irruzione nel suo appartamento lascio la polizia di stucco: c’erano trecento foto di Mussolini. Su una il Duce aveva scritto: «Per un’ora con te darei tutta l’Etiopia». Il problema e che le donne gli credevano. Quando i tedeschi occuparono Parigi, Magda – spregiudicata e doppiogiochista come sempre – si mise al loro servizio nelle vesti di agente segreto.
Gianluca Veneziani per “Libero quotidiano” il 24 novembre 2020. Meglio vivere un giorno da Topolino che cento da pecora. Sarà stato per la sua mise nera, per la M di Mickey Mouse o per le sue doti da leader. Di certo Topolino, il celebre personaggio Disney, piaceva molto a Mussolini, il quale lo risparmiò dalla stretta sui fumetti Usa del 1938. Ora il libro Eccetto Topolino (NPE, pp. 496, euro 35) di Fabio Gadducci, Leonardo Gori e Sergio Lama, ripubblicato in versione aggiornata, fa luce su quella vicenda, ricostruendo gli anni in cui il regime proibì le pubblicazioni fumettistiche d' Oltreoceano. A muovere la stretta censoria a partire dal 1936, quando al ministero della Cultura Popolare giunse Dino Alfieri, c' erano due ragioni: da un lato, la sempre più marcata politica autarchica del regime con relativo rifiuto di ogni esterofilia; dall' altro l' approccio educativo bigotto che tendeva a proibire contenuti per l' infanzia ritenuti «violenti» (le storie di gangster) o caratterizzati da «fantasia aberrante». In un paio d' anni, e in particolare nel 1938 quando Alfieri esortò gli editori italiani a «far scomparire entro tre mesi ogni vignetta d' importazione o d' imitazione americana», caddero sotto la scure della censura fumetti come Flash Gordon, Mandrake, L' uomo mascherato e Braccio di Ferro. Dal catalogo proibito delle strisce a stelle e strisce vennero tuttavia esclusi i fumetti Disney, in particolare Topolino. Gli autori del libro ricordano a proposito un episodio riportato da Ezio Ferraro in Storia del giornalinismo, secondo cui il Duce in persona si sarebbe speso per garantire l' immunità di Topolino. Quando Ezio Mario Gray, gerarca fascista addetto alla "bonifica culturale", presentò a Mussolini la lista del materiale da mettere all' indice, si sarebbe visto tornare indietro il foglio con la postilla del Duce: «Eccetto Topolino!». Vero o verosimile questo episodio, Topolino fu risparmiato e pubblicato fino al febbraio '42, quando l' Italia era già in guerra contro gli Usa. Per quale ragione? Ufficialmente, stando alle parole di Alfieri, i personaggi Disney erano connotati da alto «valore artistico» e «intrinseca moralità» e, come tali, risultavano ancora spendibili per l' educazione dei fanciulli italiani. In realtà, dietro quell' eccezione, si muovevano motivazioni personali, culturali ed ideologiche. In primo luogo dovette pesare l' amore che i figli del Duce, Romano e Anna Maria, provavano verso i fumetti Disney, al punto che quest' ultima vide pubblicato un proprio disegno su «Topolino». In nome di quell' amore, Mussolini stesso iniziò ad ammirare i cartoni Disney. Come rivelò il figlio Romano in un' intervista sulla rivista «If», il Duce apprezzava in particolare i Tre porcellini e Biancaneve: «Il motivo musicale dei Tre Porcellini alcune volte l' ho sentito canticchiare persino da mio padre»», avvertiva lui, ricordando anche come a Mussolini «piacque enormemente» Biancaneve e i sette nani. Altro aspetto importante fu il rapporto di stima reciproca tra il Duce e Walt Disney, forse alimentato da un loro incontro a Roma nel '35. Quell' abboccamento avvenne realmente secondo la testimonianza di Romano che lo definì «un incontro simpaticissimo». E sarebbe confermato, fa notare Francesco Manetti in Disney e Mussolini sulla rivista Antarès, anche dal fratello di Walt, Roy, che disse: «Walt fu ricevuto da Mussolini che conosceva Walt e fu molto cordiale». Non è da escludere, del resto, che la simpatia vicendevole fosse favorita dalle convinzioni politiche di Disney che, per dirla con Manetti, «aveva una posizione non avversa ai socialismi nazionali europei» e di sicuro «anti-bolscevica». Ma, oltre a ciò, il valore aggiunto era rappresentato dalla simbologia dei cartoon Disney. Personaggi come Topolino o Paperino erano ritenuti non politicizzabili in chiave antifascista. Piuttosto doveva piacere al regime lo spirito pugnace di un Topolino che, scriveva The Times nel '38, «per essere piccolo, dava delle prove di singolare e grintosa abilità» e rappresentava «qualcuno a cui i giovani italiani possano guardare senza trarne un demoralizzante amore per gli agi». Più in generale, i fumetti Disney dovevano apparire rivoluzionari, anti-passatisti, perfetti per l' immaginario fascista. Tanto da essere apprezzati da intellettuali orbitanti attorno al regime o dichiaratamente fascisti. Si pensi a D' Annunzio che, notava Silvia Ronchey, al Vittoriale «aveva fatto costruire una sala cinematografica dove vedeva la sera i film Disney». O al francese Robert Brasillach, il quale giudicava Biancaneve e i sette nani «un capolavoro», come ricorda Claudio Siniscalchi nel saggio a lui dedicato su Nuova Storia Contemporanea. Lo tengano a mente anche oggi i censori interni al mondo Disney che vorrebbero bonificare alcuni cartoni in nome di una dittatura di segno opposto: quella del Politicamente Corretto.
Quando il Parlamento è sotto attacco. Mussolini umiliò “l’aula sorda e grigia”, i parlamentari con il silenzio spalancarono le porte al regime. David Romoli su Il Riformista il 14 Agosto 2020. Nel pomeriggio del 16 novembre 1922 Montecitorio, sede già allora della Camera dei deputati, era gremito come mai prima. Le tribune stampa erano stipate. I corridoio ostruiti da una massa senza precedenti. In quel pomeriggio avrebbe chiesto la fiducia il più giovane presidente del consiglio della storia, Benito Mussolini, appena 39 anni, parlamentare da poco più di un anno. Vantava un’esperienza politica e giornalistica già di lunghissima data, leader del Partito socialista, direttore de l’Avanti!, poi tra i principali esponenti dell’interventismo, fondatore e direttore del quotidiano Il Popolo d’Italia, capo del fascismo che da due anni metteva a ferro e fuoco il Paese. Il discorso del nuovo presidente del Consiglio non avrebbe dovuto lasciare dubbi sulle sue intenzioni, non nella forma e neppure nella sostanza. Mussolini esordì evitando di rivolgersi ai deputati con la formula abituale “Onorevoli colleghi” sostituita da un molto meno deferente e più secco “Signori”. Proseguì chiarendo che la sua richiesta di fiducia era solo “un atto di formale deferenza” dal momento che a consegnare il potere nelle sue mani non erano state le istituzioni democratiche ma la parte migliore dell’Italia dandosi “un governo al di fuori, al di sopra e contro ogni designazione del Parlamento”. Concluse con la famosa minaccia esplicita: “Potevo fare di quest’aula sorda e grigio un bivacco di manipoli. Potevo sprangare il Parlamento e costruire un governo esclusivamente di fascisti. Potevo ma non ho, almeno in questo primo tempo, voluto”. Il capo del fascismo aveva il senso della teatralità. Sapeva che le parole devono essere supportate e confermate dai gesti. Nel corso del dibattito che seguì le sue dichiarazioni ostentò totale disinteresse, spostandosi da un capannello di deputati fascisti all’altro, a tratti spiegando il giornale per leggerlo, o fingere di leggerlo invece di ascoltare gli onorevoli. Prese ogni tanto la parola ma senza spostarsi dal banco in cui gli capitava di essere seduto in quel momento. Al momento della replica si trovava al centro dell’emiciclo e parlò da lì invece che dai banchi del governo. Parole e gesti erano studiati e calibrati per esprimere il massimo disprezzo nei confronti del Parlamento. O più precisamente della Camera. Al Senato, che non era elettivo ma di nomina regia e rappresentava dunque solo le élites, il duce passò dai toni del manganellatore alla blandizie e chiarì anzi che “la prima parte del discorso alla Camera”, quella sprezzante e ostile, “non riguarda minimamente il Senato”. I deputati umiliati non opposero alcuna resistenza, nonostante gli insulti con i quali i fascisti avevano interrotto i loro discorsi. Il presidente della Camera De Nicola si dimise dopo che il quadrumviro della marcia generale De Vecchi aveva chiamato “cialtroni” i Popolari, che peraltro facevano parte del governo. Il deputato socialista Modigliani lanciò un solitario grido, “Viva il Parlamento”, che gli valse solo la minaccia aperta di una spedizione punitiva da parte dei colleghi in camicia nera. In una pausa dei lavori un gruppo di deputati socialisti e popolari si recò da Giolitti per invocare una reazione, forse l’abbandono dell’aula per protesta. L’anziano leader li gelò: “Questa Camera ha il governo che si merita. Non ha saputo darsi un governo in quattro crisi e il governo se lo è dato il Paese da solo”. Mussolini ottenne la fiducia con 306 voti contro 116 e 7 astenuti. A disertare il voto furono 76 deputati. Il verdetto di Giolitti era impietoso ma lucido. La vittoria del fascismo fu in parte essenziale figlia del suicidio del Parlamento. La paura dei socialisti da un lato, i giochi di potere dei principali leader dall’altro avevano impedito nel biennio precedente di dar vita a un governo capace di contrastare la violenza delle camicie nere e l’arrembaggio fascista al potere. Molti vedevano nel “politico” Mussolini la sola possibilità di domare e imbrigliare le squadre fasciste. Sino all’ultimo la speranza dei leader politici dell’epoca era stata quella di “ingabbiare” il capo del fascismo convincendolo a entrare a far parte di un governo guidato da un politico della vecchia guardia. Tra i papabili erano sfilati uno dopo l’altro l’eterno Giovanni Giolitti, il presidente uscente Luigi Facta, che aveva sì chiesto inutilmente al re Vittorio Emanuele III di firmare lo stato d’assedio per bloccare l’insurrezione fascista passata alla storia come”marcia su Roma” ma senza che ciò gli impedisse di trattare con gli stessi fascisti nella speranza di essere confermato a palazzo Chigi, Antonio Salandra. Sulla decisione improvvisa e a tutt’oggi parzialmente inspiegata del re di non firmare lo stato d’assedio per fermare la marcia su Roma, aprendo così i cancelli al governo Mussolini, pesarono probabilmente diverse considerazioni. Certamente Vittorio Emanuele III temeva, come affermò lui stesso decenni più tardi, la guerra civile. Ma è possibile, come ipotizza Emilio Gentile, il principale storico del fascismo contemporaneo, che quella scelta esiziale fosse conseguente anche allo stallo nel quale di era trovato un Parlamento incapace di affrontare la crisi. Il suicidio assistito del Parlamento proseguì nei due anni seguenti. Nel 1923 buona parte dei popolari, dei liberali e l’intera destra non ancora fascista votarono la legge elettorale che portava il nome del sottosegretario alla presidenza del consiglio Giacomo Acerbo. Sostituiva il sistema proporzionale con un maggioritario che assicurava al partito più votato, purché superasse la soglia del 25% dei voti, una maggioranza parlamentare schiacciante, pari a due terzi dei deputati. Nelle elezioni del 6 aprile 1924, le prime e le uniche celebrate con la legge Acerbo, il cosiddetto “listone Mussolini”, nel quale figuravano la maggioranza dei liberali, incluse figure di gran prestigio come Vittorio Emanuele Orlando e Antonio Salandra, moltissimi popolari e le personalità di maggior spicco della destra, ottenne il 60,1% dei voti, ai quali si aggiungeva il 4,1% raccolto da liste fiancheggiatrici. L’ultimo atto del suicidio del Parlamento fu la crisi seguita al sequestro e all’assassinio di Giacomo Matteotti. Il crollo dei consensi nei confronti del fascismo fu reale e massiccio, coinvolse anche numerosi fascisti, specialmente “dell’ultima ora”. La delegittimazione, per la prima volta, minacciava di travolgere lo stesso Mussolini. Tuttavia quel movimento d’opinione, profondo e tale da far tremare le fondamenta stesse del regime nascente, non avrebbe potuto tradursi in insurrezione. Su questo gli storici sono in realtà concordi. La prima linea dello scontro avrebbe potuto e probabilmente dovuto essere proprio il Parlamento. Solo una reazione politica compatta e coordinata delle forze parlamentari avrebbe potuto forzare la mano al re e dare sbocco concreto alla crisi di consensi che avrebbe potuto travolgere il fascismo. La scelta dell’Aventino, l’abbandono dei lavori parlamentari deciso dalle opposizioni il 26 giugno, sortì l’effetto opposto. Offrì a Mussolini il pretesto per chiudere la Camera, eliminando così il solo luogo politico nel quale la protesta diffusa avrebbe potuto sedimentarsi in proposta politica. Il 3 gennaio 1925 Mussolini diede seguito alla minaccia pronunciata due anni prima con uno dei suoi discorsi più efficaci: quello in cui rivendicava personalmente la responsabilità di tutte le azioni fasciste e chiudeva “l’aula sorda e grigia” che non aveva saputo, nei tre anni cruciali precedenti, saputo opporglisi in alcun modo.
Ottanta anni fa la dichiarazione di guerra di Mussolini a Francia e Gran Bretagna. Guido Barlozzetti su Il Riformista il 10 Giugno 2020. Erano le 18 del 10 giugno di ottanta anni fa quando Benito Mussolini, Duce del fascismo, si affacciò al balcone di Palazzo Venezia a Roma e annunciò agli Italiani l’entrata in guerra accanto alla Germania. Disse che era arrivata “l’ora delle decisioni irrevocabili” e che la dichiarazione di guerra era già stata consegnata agli ambasciatori di Francia e Gran Bretagna. Sono parole che abbiamo ascoltato tante volte in questi anni, così come abbiamo visto le immagini di quella serata, diventate ormai una scena canonica in qualunque racconto si faccia del Ventennio fascista, dal 1922 alla sua conclusione che coincise con l’esito disastroso proprio di quella guerra. Ancora risuona quell’urlo strozzato di Mussolini della “parola d’ordine categorica e impegnativa per tutti: Vincere!”. Quante volte in questi mesi abbiamo sentito parlare di una Nuova Guerra, dell’Italia – e poi del mondo – chiamati a un confronto decisivo e drammatico come appunto è un conflitto in cui ne va della stessa sopravvivenza di un Paese e pure dell’Umanità. Una guerra diversa, certo, l’abbiamo ascoltato dai virologi, dai politici, dai commentatori, senza un inizio certo, non dichiarata, contro un nemico invisibile, aggressivo, che avanza con la potenza del contagio, rispetto al quale le difese misurano tutte le difficoltà e le incertezze sulle soluzioni, sui mezzi, sulle strategie, sui comportamenti, sulle difese. Una guerra senza bombe e cannonate, ma non per questo meno micidiale negli esiti, sia quelli tremendi dei bollettini di morte, sia quelli potenzialmente catastrofici sull’economia e la tenuta stessa di un assetto politico-sociale e, allargando lo sguardo, dell’equilibrio geopolitico globale e della sostenibilità di un modo di produrre e consumare. Allora come oggi una stessa parola per descrivere una situazione, per restare – si fa per dire – dalle nostre parti, in cui il Paese si trova di fronte a un’emergenza che introduce una discontinuità e allunga ombre inquietanti sulla capacità di reggere all’urto e sul futuro: Guerra. Allora, Mussolini entrò in una tutta analogica e politica. Analogica perché fatta di eserciti che avanzano, di aerei che bombardano, di fanti che vanno all’attacco. Politica perché quella decisione venne a chiudere una lunga fase in cui Mussolini da un lato era vincolato al Patto d’Acciaio firmato con la Germania, dall’altro era stretto fra la consapevolezza dell’impreparazione militare, l’impressione delle vittorie tedesche e la paura di restare ai margini nel caso di una vittoria della Germania. Ci furono anche trasversalità con Francia e Inghilterra nella convinzione/illusione che l’Italia potesse fare da mediatore nel conflitto senza entrarvi. Alla fine, prevalsero le pressioni tedesche e appunto il timore di restare esclusi da una conferenza di pace. Sappiamo come andarono le cose. La guerra diventò mondiale e l’Italia scontò drammaticamente i limiti militari, di forze e strategie, e quelle di un’industria incapace di sostenere le sforzo bellico. A parte, una questione di fondo che riguarda il modo in cui la guerra sia andata a contestualizzarsi nella parabola stessa del fascismo, se cioè ne fu una conseguenza strutturale o un’avventura in cui in giocatore si sedette al tavolo con scartine in mano, un errore di valutazione, un bluff finito male. Quella guerra sanciva un confronto internazionale in cui l’Europa era quella delle nazioni, tre fra le principali con regimi totalitari, che ancora svolgevano un ruolo centrale nella politica mondiale. L’Italia fascista aveva manifestato un attivismo coerente con un’ideologia imperiale (la Terza Roma..), sia pure sempre più sovrastata dalla coazione bellicista tedesca e con la remora di essere alla fine un vaso di coccio tra i vasi di ferro, e aveva mantenuto sponde aperte con Francia, Gran Bretagna e con gli Stati Uniti ancora isolazionisti. La guerra avrebbe sancito il decentramento del Vecchio Continente e il nuovo bipolarismo USA/URSS. E’ il caso di ricordarlo per capire quanto siamo lontani e anche certe continuità. Oggi c’è l’Europa, più monetaria che politica, e però l’effetto della neo-guerra in corso è stato anche di aver attivato una dimensione comunitaria fino a qualche mese fa impensabile. Non per questo sono tramontate le nazioni, sospese tra una fragile integrazione e la rivendicazione di sé, l’asse che è al tempo stesso una contrapposizione tra Francia e Germania (un’antica storia..), la Gran Bretagna anch’essa presa tra il salto oltre Manica e una volontà all’isolamento post-imperiale sancito dalla Brexit e noi anello debole con un fluttuante politica estera, spesso più congiunturale che realmente strategica. E questa Europa porta con sé il paradosso di una forza tutta potenziale, a fronte di una debolezza nella scena diventata globale con potentati aggressivi vecchi e nuovi, dagli Stati Uniti di Trump meno global e più isolazionisti, alla Cina lanciata alla conquista del mondo e alla Russia di Putin zar indomito ma con debolezze strutturali. E poi il sorgere di India, Brasile, tigri orientali...La neo-guerra del Covid-19, dopo qualche esitazione iniziale, si è dimostrata mondiale, il virus non ha fatto eccezioni, semmai sono gli antagonisti che si sono divisi nella strategia, fra chi ha alzato barriere – mascherine, distanze.. – e chi invece ha lasciato libero il passo, puntando – costi quel che costi – all’immunità di gregge. E in controluce in questa neo-guerra si è continuato a combattere quella di prima, quella per la supremazia internazionale, per il controllo delle risorse e la supremazia militare, economica e finanziaria. La neo-guerra si è sovrapposta a uno scenario e lo ricostituisce. Come? Con quali spostamenti? Con quali egemonie? E lasciando per un momento da parte la geopolitica, questa guerra è diversa dall’ultima che ci toccò anche nella sostanza. Il nemico è un virus di cui stiamo misurando tutta l’ambiguità: è reale ancorché invisibile, e è virtuale perché vive e si moltiplica non solo nel corpo degli infetti ma nel sistema dell’informazione. Ha monopolizzato lo spazio/tempo delle news e dei talk, si è imposto a discorso totalitario fino a creare una bolla contraddittoria come la percezione che se ne ha. E ci ha costretti all’interno del simulacro di una guerra con le sue fasi e le sue strategie. Difficile se non impossibile distinguere. E sarebbe sbagliato pensare a una bolla autoreferenziale. Guai dimenticarsi del Convitato della Politica che lungi dall’essere uno spettatore ha interagito con quella bolla e per quanto possibile l’ha usata e la usa, a tutti i livelli, nella gestione interna del potere e nella scenario internazionale delle relazioni. E basterebbe anche ricordare la vicenda dell’app Immuni, così scivolosamente sul confine tra prevenzione e controllo. E, allora, una domanda che resta aperta, fino a che punto il virus è il Nemico o invece è uno strumento, un paradossale alleato del potere e del suo rapporto con la società? Sarebbe irrispettoso e antistorico paragonare il Balcone di Piazza Venezia alle apparizioni del Presidente del Consiglio dallo schermo della tv. Le guerre sono diverse, e se la democrazia è diversa dal regime di allora, ne constatiamo però ogni giorno l’usura, le difficoltà decisionali, il deficit di rappresentanza, il gap delle disuguglianze. Eravamo già all’interno di un cambiamento confuso, fra paura e rabbia. Che in questa battaglia che si proclama di dover Vincere, il virus non sia un altro, imprevedibile anche negli esiti e tutt’altro che occasionale, protagonista?
Dino Messina per il “Corriere della Sera” il 10 giugno 2020. «Un'ora segnata dal destino batte nel cielo della nostra patria». Alcuni nostri genitori conoscevano a memoria il discorso con cui il Duce del fascismo nel pomeriggio del 10 giugno 1940, ottant' anni fa, annunciò l'entrata in guerra dell'Italia dal balcone su piazza Venezia davanti a una folla plaudente. Un discorso che trasudava retorica, ma era privo di vera sostanza politica, con il datato riferimento alle sanzioni per la guerra d'Africa conclusa da quattro anni. Più che la guerra degli italiani era La guerra di Mussolini , come si intitola il libro firmato da Antonio Carioti e Paolo Rastelli, due giornalisti del «Corriere della Sera» che già hanno dato valide prove nella divulgazione storica. Con questo ricco volume i due autori, come osserva Marcello Flores nella prefazione, fanno fare un passo in avanti alla narrazione di vicende che, se non finite nel dimenticatoio o affidate alla memorialistica, vengono ormai relegate all'ambito specialistico, separando il racconto politico dall'analisi militare. Il discorso pubblico sulla Seconda guerra mondiale è concentrato in Italia soprattutto sul biennio della guerra civile, sulle vicende che vanno dall'armistizio (e dal cambiamento di fronte) dell'8 settembre 1943 alla Liberazione del 25 aprile 1945. C'è invece meno interesse complessivo, se non nella rievocazione di episodi singoli, per il triennio precedente, quello che va dal 10 giugno 1940 al 25 luglio 1943, giorno della destituzione di Mussolini. Eppure la notte drammatica del Gran Consiglio, così come le drammatiche e sanguinose vicende successive, non si capiscono senza conoscere le vicende che portarono alla «disfatta dell'Italia fascista», come recita il sottotitolo del volume. Il libro di Carioti e Rastelli, arricchendo lo schema seguito nel fortunato Alba nera , dedicato al 1919 e all'avvento del fascismo, offre quattro livelli di lettura. Carioti si è dedicato alla narrazione degli eventi e agli intrecci politici che quasi sempre prevalevano sulla soluzione dei problemi militari, mentre Rastelli ha fotografato in pagine di grande interesse la situazione delle tre armi, l'Aeronautica, la Marina e l'Esercito, al momento dell'entrata in guerra, rispondendo a una serie di domande cruciali. Quattro interviste a grandi specialisti come Emilio Gentile, Nicola Labanca, Andrea Santangelo e Maria Teresa Giusti offrono un articolato quadro interpretativo sui vari aspetti del conflitto. Infine una sezione dedicata ai documenti fa sì che questo sia un volume non solo da leggere, ma da custodire e consultare. Perché, si chiede Rastelli, l'Italia, che era il Paese di Giulio Douhet, il teorico del Dominio dell'aria (libro del 1921), e di Italo Balbo, il trasvolatore dell'Atlantico, alla prova dei fatti si era trovata impreparata e con gravi carenze tecnologiche e di addestramento? Perché la nostra Marina, che pure vantava un naviglio agli inizi nel Mediterraneo più potente della rivale britannica, non è stata vincente nel confronto bellico? Quanto ha pesato inoltre nella fallimentare conduzione della guerra una catena di comando in cui sembra che la maggiore aspirazione dei vertici fosse quella di nascondere le proprie responsabilità (e incapacità)? Tuttavia le ragioni della disfatta, al di là dei singoli eroismi italiani (sul fronte russo la carica a cavallo di Izbuenskij contro i sovietici, sul fronte nordafricano il valore dimostrato dai nostri soldati nelle tre battaglie di El Alamein), vanno trovate in pochi scarni numeri così riassunti da Rastelli: «Allo scoppio della guerra avevamo il 2,7 per cento della capacità produttiva mondiale, il Giappone il 3,5, la Germania il 10,7, per un totale del 16,4 per cento. La coalizione avversaria, dopo l'entrata in guerra degli Stati Uniti, ne deteneva circa il 70 per cento». Mussolini non poteva ignorare questi dati di fatto quando dichiarò guerra alla Francia e all'Inghilterra, quando poi volle contribuire alla lotta contro l'Unione Sovietica senza che l'alleato nazista agli inizi lo avesse sollecitato, o quando in maniera sciagurata dichiarò guerra agli Stati Uniti. La causa di tanta temerarietà è che l'ambizione politica del dittatore italiano, come emerge dal racconto di Carioti, prevalse sempre sulla considerazione realistica delle forze in campo. Quando il 1° settembre 1939 Hitler invase la Polonia sfidando Gran Bretagna e Francia senza avvertire l'alleato italiano, Mussolini non era sicuro di voler entrare in guerra. Il ministro degli Esteri Galeazzo Ciano aveva chiesto al suo omologo tedesco Joachim von Ribbentrop tre anni di non belligeranza, ma poi, anche sollecitato dal Duce, aveva firmato una cambiale in bianco, cioè il «Patto d'Acciaio». Con le rapide affermazioni tedesche sul teatro europeo, Mussolini si convinse che doveva sacrificare alcune migliaia di morti per sedersi al tavolo della pace. Sperava in una guerra breve e in una rapida vittoria. Non fu così. Per bilanciare lo strapotere nazista ancora una volta ragionò da politico, quando il 28 ottobre 1940, con la (fallita) invasione della Grecia, tentò la strada di una guerra parallela e si trovò invece sempre più dipendente dal forte alleato. Il dittatore credette di giocare di astuzia quando dichiarò guerra al colosso statunitense, pur sapendo che la sconfitta era sicura. Si illudeva di poter mediare tra Berlino e gli angloamericani. Una delle tanti illusioni che portarono alla disfatta e alla rovina del Paese.
Quegli italiani diventati "eroi" che ci ricordano chi eravamo. Pubblichiamo, per gentile concessione dell'editore, la prefazione del libro "I Ragazzi della Folgore" (Edizioni Libreria Militare) Marco Bertolini, Sabato 24/10/2020 su Il Giornale. Fa un certo effetto leggere oggi un libro come questo, quasi si trattasse di un messaggio in una bottiglia appena recuperata dai flutti, lanciata all’ultimo momento da un bastimento in procinto di affondare tantissimi anni or sono. Fa effetto perché vi si tratta della storia di un gruppo umano, un popolo, che si direbbe perito fino all’ultima persona nel naufragio e privo di una discendenza certa, il cui spazio vitale, le cui case, evidentemente, sarebbero stati occupati da noi, Italiani moderni, così diversi da loro, che con loro non vogliamo avere nulla a che spartire e che siamo solo recentemente arrivati sulla Terra da chissà quale pianeta. Una lettura, quindi, dal vago sapore archeologico, nella quale si parla di persone di un’altra razza, animate da altri ritmi e valori. Persone semplici, educate, ruspanti e coraggiose, che, se potessero essere riportate in superficie dagli abissi nei quali sono sprofondate, non riuscirebbero a capire i nostri vezzi, i nostri lussi, le nostre ipocrisie e complicazioni. Che non ci saprebbero riconoscere. D’altronde, decenni di retorica che ha voluto imporre all’immaginario collettivo il mito (falso) di un soldato italiano cialtrone e vile - agli antipodi del nobile e coraggioso soldato anglosassone e comunque anglofono che, in tutte le salse e sotto tutte le forme, ci invade ogni sera irrompendo dai nostri teleschermi - ha lasciato il segno. Per questo, è con fastidio, oltre che con incredulità, che tanti rifiutano la lettura e la riflessione di pagine come quelle che seguono. Vi si narra, infatti, di una realtà diversa, irritante per i tanti che si sono ridotti a considerare l’arrendevolezza quale vero e originale valore aggiunto della nostra tradizione nazionale. Quella che emerge da questo libro è una realtà fatta di giovani contadini, studenti, operai che accorrevano entusiasti a dar vita ad una nuova e futuristica Arma, nella speranza di poter fronteggiare il nemico di allora dove era più pericoloso. Giovani che, al contrario di quanto imporrebbe il vero dio dei nostri giorni, la viziatissima e ipocritissima opinione pubblica, “volevano” combattere e sentivano forte il richiamo di un dovere la cui voce ci siamo poi abituati ad ignorare o, peggio, ad irridere. Loro, non avvezzi come noi ai viaggi aerei intercontinentali ed alle immagini dallo spazio, seppero affrontare prove incredibili per quei tempi, come il lancio da traballanti aerei a pistoni con ali di tela, affidando la vita a paracadute approssimativi e dondolanti, senza paracadute di riserva, che provocarono molti morti in addestramento. Impiegati in combattimento nel deserto egiziano in un ruolo al quale non erano preparati (erano stati creati per una fulminea invasione di Malta dal cielo), seppero combattere e vincere un nemico molto più forte di loro, sopperendo con la fede ed il coraggio all’eccessiva leggerezza dell’armamento ed alla scarsità numerica e di mezzi. Una volta sopravanzati, rifiutarono la resa e diedero vita ad una resistenza epica che li portò a combattere fino all’ultimo giorno in Africa settentrionale, nel disperato tentativo di impedire o almeno ritardare l’invasione del suolo nazionale, attraversando letteralmente a piedi Egitto, Libia e Tunisia, senza nessun cedimento e dando un esempio di valore impareggiabile. In termini di valori, quindi, esattamente il contrario di quanto vorrebbero i tanti professionisti del pensiero unico che, appunto, discettano di nostre immaginarie caratteristiche dalle quali andrebbe accuratamente esclusa a priori la capacità virile del combattimento. A ben vedere, questo approccio socio-culturale è proprio di una società che si potrebbe definire del “benessere rassegnato”. Una società che vuole ritenere definitivamente acquisita l’era della “pace con la pancia piena” in cui non esistono più interessi nazionali che giustifichino un impegno così sgradevole come quello militare. E quando, tirata per la giacchetta - magari da qualche autorevole alleato - deve rassegnarsi a rimuovere questo suo perbenistico capriccio, lo fa comunque sempre in nome della pace, totem della sua inossidabile fede nel Progresso e frutto naturale del suo spirito democratico. Una pace, però, la cui pronuncia a ben vedere fa semplicemente rima con la parola “resa”. Che poi a poche migliaia o, addirittura, centinaia di chilometri dalle nostre coste questa fantasmagorica pace sia ancora un mito utopico ed improponibile, poco conta.
Così il sacrificio di El Alamein forgia ancora la Folgore. Il 23 ottobre del 1942 iniziò l'ultima battaglia di El Alamein. La Folgore combatté fino all'ultimo uomo. Senza arrendersi mai...Matteo Carnieletto, Venerdì 23/10/2020 su Il Giornale. Il deserto non è mai come te lo immagini. È una distesa infinita di sabbia, di dune e costoni solitari, che affascinano e intimoriscono. Che tutto inghiottono e poco restituiscono. Così è anche quello di El Alamein, che parla solo a chi si sa fermare. "Viandante, arrestati e riverisci" - recitano le parole scritte da Alberto Bechi Luserna ne I ragazzi della Folgore (Edizioni Libreria Militare) e che oggi decorano il Sacrario italiano - "Dio degli eserciti, accogli gli spiriti di questi ragazzi in quell'angolo del cielo che riserbi ai martiri e agli eroi". In questa fetta di terra in Africa settentrionale, la Folgore ebbe il suo battesimo del fuoco. Fu mandata lì quasi per errore. La Divisione era stata infatti addestrata per calare su Malta e conquistarla, ma all'ultimo momento i piani saltarono. Ed è forse in questo cambiamento repentino che bisogna cercare una delle peculiarità della Folgore:la capacità di adattarsi. "I paracadutisti - ci spiega il colonnello Cristiano Maria Dechigi, vicecomandante della Brigata - vengono inviati ad El Alamein perché gli Stati maggiori italiano e tedesco decidono di occupare la Tunisia, che era francese, e chiamano questa operazione C4. L'occupazione doveva avvenire nell'estate del 1942 perché Italia e Germania si erano accorte che tutti i rifornimenti inglesi costeggiavano l'Africa e non venivano mai fermati. C'era un flusso continuo di rifornimento e l'unica soluzione era quella di occupare la Tunisia. Tra il 12 e il 15 luglio, la divisione paracadutisti, che si trovava in Puglia per finire l'addestramento ed essere finalmente mandata a Malta, viene spedita in Africa". Il primo battaglione ad arrivare in terra africana è quello di Bechi Luserna. E lo fa senza portare con sé nulla. I suoi soldati non hanno coperte né cucine. Solo armi e una gran voglia di far la propria parte. Credono di andare a conquistare la Tunisia, ma all'improvviso Rommel cambia idea e così i ragazzi della Folgore, come verranno presto ribattezzati, vengono spediti in prima linea dove capiscono che la guerra non è proprio come se l'erano immaginata: "Questi reparti arrivarono in Africa per fare un altro mestiere e si trovarono a combattere contro i carri armati senza avere nulla - prosegue il colonnello Dechigi - I ragazzi della Folgore faranno del loro meglio in qualsiasi luogo si verranno a trovare. Ci sono i carri armati? Li attacchiamo con quello che abbiamo. Dobbiamo fare delle bombe usando solamente bottiglie piene di benzina e sabbia? Non c'è problema. Quei soldati si adattarono a tutto. C'è stato anche chi è salito sulle torrette dei carri armati per provare a scardinare le porte con un piccone. C'era, in quei ragazzi, la volontà di lasciare un segno". E lo fecero. Il caso forse più eclatante è quello di Guido Visconti di Modrone che, qualche giorno prima di morire, confidò: "Io vorrei avere il tempo, prima di cadere, di gridare: 'Viva il re'. Sapete: come in quelle belle stampe del '48, un po' ingiallite, raffiguranti episodi delle guerre di indipendenza: 'Il luogotenente di S. Martino dà di sprone contro un drappello di ussari e cade al grido di: 'Viva Savoia'". Così fu. Gli inglesi iniziano a bombardare. I boati, poi un urlo: "Viva il Re!". Guido aveva mantenuto la parola. Con le ultime forze che aveva in corpo, disse: "Un Visconti non schiva il piombo dei Windsor". In questo fatto c'è l'essenza del battaglione, come ci spiega il colonnello Dechigi: "C'erano moltissimi ufficiali e soldati semplici che provenivano dalla cavalleria e volontari che provenivano da tutte le armi, portando in questi reparti le caratteristiche dell'arma di appartenenza, fondendole in un insieme unico. Verso la battaglia c'era un atteggiamento distaccato e quasi ottocentesco. Ma c'è anche una cosa terribile nell'affermazione "un Visconti non schiva il piombo dei Windsor": quella fu una guerra tra europei". La Folgore vinse nella sconfitta: "Il modo in cui svanì sul campo di battaglia fu unico", prosegue il colonnello "Al termine di un tentativo di ripiegamento fatto a piedi, combattendo e mantenendo comunque la posizione, questo reparto, quasi distaccato da ciò che gli accadeva intorno, si radunò, si schierò, sotto gli inglesi che guardavano, distrusse le armi e, dopo aver reso gli onori al proprio comandante, aspettò che i soldati britannici venissero avanti per catturarli". La Divisione - o, meglio, ciò che di essa rimaneva - non si arrese. Decise di fermarsi perché non c'era più nulla con cui combattere. A un certo punto, infatti, il colonnello Camosso, che in quel momento comandava il 187esimo reggimento, decise che era stato fatto tutto il possibile. Che l'onore era salvo. "Quelle sono le qualità a cui ancora oggi ci riferiamo e a cui non vogliamo essere da meno", commenta il colonnello Dechigi. "Il paracadutista organizza e pianifica fin nei minimi dettagli. Si prepara lo zaino, mette dentro le cose nell'ordine in cui le userà con maggior frequenza, in modo tale da esser sicuro di poterle usare di giorno e di notte. Dopo di che, per via di un malfunzionamento, lo zaino va perduto. Ma non è che allora non si fa più niente: fa con quello che ha. E questa è la caratteristica dei paracadutisti che andarono in Africa e probabilmente è lì che si è sviluppata". In cinque mesi la Folgore si fece conoscere. Lasciò centinaia di "ragazzi" a terra, che morirono solamente dopo aver fatto il possibile. A prendersi cura di quei corpi inghiottiti dal deserto fu Paolo Caccia Dominioni, una specie di "monaco-combattente" del Medioevo. "Non era un paracadutista - racconta Dechigi - ma con il suo battaglione venne assegnato, subito prima dell'inizio della battaglia, al settore della Folgore per stendere campi minati. Stette tutto il periodo della battaglia al fianco della Divisione".
Forse, l'insegnamento più grande di quei ragazzi fu, come scrisse Alberto Bechi Luserna, che "il vero eroismo non è quello che si concentra in un atto di durata limitatissima se pure intensamente vissuta, come un lancio. Non esiste l'"essenza", l'"estratto" dell'ardimento. Il vero eroismo è diluito nel tempo; è macerazione, è tormento, è logorio". Un insegnamento valido ancora oggi.
Il giorno infinito della Folgore. Così morì l'eroe di El Alamein. Il 10 settembre del 1943 fu ucciso Alberto Bechi Luserna, comandante della divisione "Nembo" e autore de I ragazzi della Folgore. Nell'anniversario della sua morte, ripercorriamo la sua storia. Matteo Carnieletto, Giovedì 10/09/2020 su Il Giornale. Il cavallo, la sciabola, il berretto, gli speroni. È questo che Alberto Bechi Luserna vede quando nasce, il 21 dicembre del 1904. Suo padre Giulio, infatti, è un capitano dell'esercito. Un classico ufficiale di inizio Novecento: baffi all'insù, poche parole, sguardo intenso. E una dote particolare: è un maestro della penna. Grado dopo grado, Giulio gira l'Italia per poi partecipare alla campagna d'Africa orientale (1895/1896) e a quella in Tripolitania contro i turchi. Combatte e scrive. Scrive e combatte, ricevendo anche le lodi di Edmondo De Amicis. Nel 1915 l'Italia entra in guerra, in quello che sarà il primo conflitto mondiale, e Bechi spera di esser mandato in prima linea. I suoi superiori, però, hanno altri progetti per lui. Sa scrivere (e bene), sa infiammare gli animi: il posto più adatto è la Sezione stampa. Da buon militare, Giulio accetta ed esegue gli ordini. Passano due anni e, il 6 marzo del 1917, gli viene chiesto di formare i giovani del 254esimo reggimento fanteria della Brigata Porto Maurizio. Bechi si dà un gran da fare, pensa e sceglie il motto del reggimento: "Con lieto animo". È questo il suo programma. Tutto si deve fare con letizia. Poco più di un mese dopo, il 16 aprile, la Brigata viene inviata in zona di guerra dove ha essenzialmente due compiti: presidiare le trincee e sistemare le strade. A giugno viene spedita nel settore sud per combattere la battaglia dell'Ortigara e, dopo due mesi di lotta, sul fronte dell'Isonzo. Il 28 agosto, Bechi si mette alla testa dei suoi soldati per andare all'attacco: urla la carica, esce dalla trincea e avanza "con lieto animo". Sprona le sue truppe e chiede di resistere. Tutto attorno a lui il sibilare dei proiettili e i ruggiti delle armi pesanti. Il colonnello viene raggiunto da un colpo di artiglieria. La sua divisa si lacera e si macchia di sangue. Si accascia e viene subito portato via. Salvarlo è impossibile: le ferite sono troppe e troppo profonde. Prima di spirare, Bechi soffre per 36 lunghe ore. Nell'agonia chiede informazioni sulla battaglia e implora i suoi uomini di resistere. È il 30 agosto del 1917. Quando Giulio spira, suo figlio Alberto - il protagonista della nostra storia - ha solo 13 anni. Il piccolo Bechi avrebbe potuto odiare la guerra e la divisa che gli avevano strappato il padre. Chi te lo fa fare - avrebbe pensato un altro - di morire in battaglia? Chi te lo fa fare di girare il mondo in cerca di sempre nuove battaglie? Eppure Alberto decide di seguire le orme paterne. Nel 1918 entra prima nel Collegio Militare di Napoli, la prestigiosa Nunziatella di oggi, per poi proseguire gli studi nel Collegio Militare di Roma a Palazzo Salviati. Successivamente entra nell'accademia militare di Modena. Viene infine assegnato - e non poteva essere altrimenti - alla Cavalleria. Ancora una volta: il cavallo, la sciabola, il berretto, gli speroni. Partecipa alla guerre coloniali, in Libia e in Etiopia, dove ottiene tre medaglie di bronzo al valor militare (1929, 1930, 1935). Vicino a Galeazzo Ciano, viene prima mandato nel Regno Unito con l'incarico di addetto militare e poi con quello di direttore dell'Ufficio Finlandia. Quando scoppia la Seconda guerra mondiale, Bechi Luserna viene inviato al Sim (Servizio di informazione militare), ma poi fa richiesta di entrare in una specialità ancora in fasce: quella dei paracadutisti.
Bechi Luserna e la Folgore. Nel giugno del 1940 si cominciano a vedere piccole meduse bianche calare dal cielo di Tarquinia. Sono i primi paracadutisti. Il progetto, in realtà, aveva iniziato a prendere forma qualche anno prima, quando Italo Balbo aveva lanciato i primi "fanti dell'aria" in Libia. Non appena viene a conoscenza di ciò che sta accadendo sul litorale laziale, Bechi Luserna chiede di essere impiegato in questa nuova specialità. Quando arriva nel centro di addestramento dei paracadutisti, rimane a bocca aperta: "Era una legione di bei figlioli, viventi in monastica semplicità entro alcune baracchette assiepate d'intorno ad un aeroporto. Seminudi ed abbronzati come una colonia d'atleti naturisti, li si scorgeva intenti ad esercitarsi da mane a sera con certi loro congegni di uso bizzarro". C'erano uomini di tutte le età, giovani e meno giovani. Pure un anziano monsignore, don Augusto Moglioni, pensò di arruolarsi. Anzi, fu proprio lui, seppur involontariamente, a suggerire il nome Folgore: "Terminava l'epistola, a guisa di saluto e di vaticinio, con il motto "Ex alto fulgor". Lo scritto ci piacque, il motto anche, e l'adottammo. Il nome di 'Folgore' nacque così". Ci si addestra per ore: "L'esercizio quotidiano, ben dosato e metodico, ne completava l'amalgama: i muscoli induriti del lavoratore si scioglievano, quelli dolicomorfi ed un po' anemici dello studente si irrobustivano, qualche sospetto di adipe si scioglieva in sudore. Il sole e la salsedine patinavano ugualmente volti e torsi, talché, dopo qualche settimana, ogni disparità di provenienza era sparita. La massa era irreggimentata in manipoli d'atleti, embrione dei futuri reparti armati". C'è chi arriva con spirito romantico e chi per amore del pericolo. Proseguono i lanci e si spera di venire impiegati a Malta. Ma i paracadutisti devono aspettare. Nell'estate del 1942 la Folgore, scrive Bechi Luserna, "è ormai completa, approntata". Si parte, destinazione Africa: El Alamein.
La sabbia di El Alamein. Dopo poco più di un mese, la Folgore inizia a prender confidenza con quelle che verranno poi ribattezzate "piaghe d'Egitto": mosche, fame, dissenteria. È questo uno dei tanti fronti su cui i giovani soldati devono combattere: "Fronte terrestre, fronte marittimo, fronte aereo, fronte interno... Vi aggiungerei un 'fronte individuale' non meno importante: quello che ha per campo di battaglia il nostro Io e su cui si scontrano quotidianamente gli istinti animali della carne ed i motivi ideali dello spirito, gli uni contro gli altri armati come eserciti in battaglia. Lanciano i primi subdole offensive di malumori e di miseriole - quel tal cibo scarseggia, il sonno interrotto dall'allarme, le ventennali abitudini domestiche sconvolte dal ciclone della guerra. Reagisce lo spirito con contrassalti ispirati a più nobili concezioni: se al termine della giornata le forze spirituali prevalgono, abbiamo vinto la nostra piccola battaglia quotidiana. Piccole battaglie, piccole vittorie: ma la sintesi di tutte queste vittorie con il v minuscolo è uno dei più efficaci coefficienti per raggiungere quella con il V maiuscolo". I ragazzi della Folgore - ormai sono noti così - si distinguono. Escono in battaglia come se dovessero uscire con la ragazza più bella del Paese, organizzano imboscate per cercare di recuperare qualche razione da mangiare o qualcosa da bere: "Partono in avventura con allegria e spigliatezza, prima d'ora inconsuete e in questo perduto angolo di mondo. E tornano sempre a mani piene: un gruppetto d'australiani, una camionetta, un pezzo anticarro: quando va male una cassa di whisky". Sfidano gli aerei e i soldati inglesi usando solamente le armi che hanno a disposizione (anche se a volte non ci sono neppure quelle) e la forza di volontà. In Africa Bechi Luserna ritrova il suo amico Paolo Caccia Dominioni. I due si erano conosciuti anni prima a Gallabat, durante la campagna in Africa orientale. Si erano subito trovati, anche perché Caccia era un grande lettore delle opere di Giulio Bechi: "'Bechi? Quel Bechi, ma anche quell'Eques?' - chiede Caccia Dominioni appena si presentano, memore del contestato libro dell'eroico colonnello caduto sul fronte di Gorizia e, allo stesso tempo, lettore degli articoli che compaiono su varie testate giornalistiche, con la descrizione delle battaglie alle quali l'autore partecipa e dello spirito con cui si combatte al fronte" (Ulderico Piernoli, Dai segreti del Sim al sole di El Alamein: Giovanni Alberto Bechi Luserna, Nuova Argos). I due si piacciono fin da subito. E iniziano a vagheggiare sull'idea di realizzare un libro sull'epopea che stanno vivendo al fronte. Bechi Luserna scrive e Caccia Dominioni disegna. Il titolo, neanche a dirlo, è già pronto: I ragazzi della Folgore. La guerra intanto si fa sempre più intensa. Cadono i primi uomini e, mentre spirano, sono bellissimi: "Sarà frutto di selezione, dell'educazione che abbiamo loro impartito, del tirocinio al rischio derivante dal mestiere di paracadutista, ma ce l'hanno. Avete notato, ad esempio, come sanno cadere i nostri ragazzi? È vero: cadono in bellezza, con un loro stile inconfondibile di soldati e di razza. Da Rossi che si porta a rimorchio un'intera fronte con uno squillo di tromba, a quel ragazzo che cantava sparando in caccia contro i carri: v'è in tutti una tale potenza spirituale da ridurre la guerra alla funzione di cornice, di semplice cornice alla bellezza dell'episodio. L'orrore di questa fronte, le masse polverose degli armati, le tribolazioni, lo squallore desolato della natura, svaniscono nel miraggio, attorno al corpo di un caduto, componendo un lontano e sfocato scenario da Golgota. Il vero protagonista è lui, quel ragazzo disteso bocconi col pugno sanguinante ancora chiuso sulla bomba". Mentre infuria la battaglia, Bechi Luserna viene richiamato in Italia: per lui è già pronta una nuova missione. L'armistizio, però, cambierà per sempre i suoi piani.
L'8 settembre e la morte di Alberto Bechi Luserna. L'8 settembre 1943 spacca l'Italia in due. I soldati non sanno più che fare: restare al fianco del re oppure dei tedeschi? Ognuno va per la sua strada, convinto di essere nel giusto. Come novelli Eteocle e Polinice, i due fratelli tebani divisi fin dopo la morte, i soldati italiani saranno destinati a prendersi la vita a vicenda. La drammaticità di quei giorni emerge dal Diario storico della Nembo, importante documento che, insieme ad altre testimonianze di quei giorni, abbiamo potuto visionare grazie all'ufficio storico dell'esercito italiano: "Appena la notizia dell'avvenuto armistizio fra l'Italia e gli Stati alleati si diffuse fra i reparti della Divisione, un senso di accoramento e di dolore pervase gli animi di tutti". C'è chi spera si tratti di propaganda e chi, invece, comprende che è l'inizio di una guerra fratricida. Il 9 settembre si registrano le prime defezioni. Il maggiore Rizzatti si presenta al generale Basso con il mitra in mano: "Signor generale, voi nel consegnarmi quest'arma mi avete fatto dovere di usarla sino all'ultimo colpo, noi assolviamo il compito ricevuto". Una stretta di mano e le spalle del maggiore si girano, per seguire altre strade e raggiungere i soldati tedeschi.
Badoglio si prepara a firmare l'armistizio. Per Bechi Luserna c'è solo un giuramento da rispettare: quello fatto al re. Il tenente colonnello vuole fare tornare i dissidenti sotto un'unica bandiera e così, insieme altri militari, si mette alla guida di una Fiat 1100 scoperta, fino a quando arriva ad un posto di blocco nei pressi di Macomer. Dalla macchina, si legge nei documenti dello Stato maggiore, parte un colpo di pistola e, subito dopo, inizia il fuoco, che "si propagò a tutto il battaglione, determinando uno stato di crisi, in quanto i militari sparavano in tutte le direzione, spostandosi, d'iniziativa, verso diversi punti della zona, come se il reparto fosse stato attaccato dal nemico". Pochi attimi che però sembrano durare anni. Bechi Luserna viene colpito. L'ufficiale medico del battaglione, il sottotenente Fusar Poli, cerca di soccorrerlo ma non c'è più nulla da fare. Il maggiore Rizzatti fa raccogliere tutti gli oggetti del colonnello e cerca di comprendere ciò che è successo. Nel frattempo arrivano i soldati tedeschi: bisogna partire, non c'è più tempo da perdere. Si legge quindi nei documenti: "La salma fu caricata su di un motocarro e si riprese subito la marcia. Il movimento continuò sino all'estrema punta nord della Sardegna. Durante il percorso non fu possibile dare sepoltura alla salma". Il corpo del colonnello viene così caricato "ai margini di uno zatterone" e infine gettato in acqua. Nessuno, ad oggi, sa dove sia la sua salma. La sua anima si trova invece in quell'angolo di cielo "dove vivono in eterno santi, martiri ed eroi".
Matteo Sacchi per “il Giornale” il 10 giugno 2020. Il 10 giugno 1940, ottant' anni fa, Benito Mussolini scaraventava l'Italia nel Secondo conflitto mondiale. Il Paese militarmente impreparato pagò molto caro quell'azzardo. Ne abbiamo parlato con lo storico Gianni Oliva, il quale ha appena pubblicato La guerra fascista. Dalla vigilia all'armistizio, il secondo conflitto mondiale in Italia (Mondadori) che racconta nel dettaglio gli anni di quella lotta impari.
Professor Oliva, partiamo dal discorso di Mussolini in Piazza Venezia. Perché il Duce scelse l'azzardo?
«Secondo la vulgata fu una sorta di impuntatura caratteriale. A spingere il Duce sarebbe stata la paura che Hitler vincesse da solo. Ma in realtà la questione è decisamente più complessa. Per due motivi. Il primo: il fascismo aveva costruito nel Paese una mistica guerriera tutta basata sulla Prima guerra mondiale. La retorica dell'Italiano soldato rendeva molto difficile mantenere poi una posizione di neutralità nel momento in cui in Europa, e nel mondo, divampava un conflitto enorme. La risposta della folla alla dichiarazione di guerra è un boato. Guardato col senno del poi mette i brividi e ci dice che in quel momento gli italiani, almeno quelli che non avevano contezza della reale situazione di forza, volevano la guerra e Mussolini lo sapeva».
L'altra motivazione?
«La seconda motivazione è geopolitica. Mussolini fu, in un certo qual modo, obbligato dal dinamismo di Hitler. L'Asse con la Germania era tutt' altro che un'alleanza d'elezione. Era stata una scelta contingente, pensata anche per cercare di controllare Hitler. Quando la Germania dà una brusca accelerazione agli eventi l'Italia si trova nella complessa situazione di non riuscire più a giocare un ruolo. La sconfitta repentina della Francia rischiava di proiettare la Germania verso il Mediterraneo in cui l'Italia voleva mantenere un ruolo di potenza. Questo spinse Mussolini verso l'azzardo. C'era più paura dell'alleato che altro».
Era chiaro che di azzardo si trattava?
«Tutte le speranze si basavano sull'idea di un conflitto rapido che si concludesse a breve. Gli stessi vertici militari avevano chiaramente indicato, quando la Germania aveva aperto le ostilità, che l'Italia non sarebbe stata davvero pronta a combattere prima di due o tre anni».
Perché questo livello di impreparazione militare in un Paese pieno di retorica bellicista?
«L'Italia dagli anni Venti era stata coinvolta in un gran numero di conflitti. Dal domare le rivolte in Libia alla guerra d'Abissinia, sino alla Guerra di Spagna. Questo fece sì che si svuotassero gli arsenali e mancassero gli investimenti a lungo termine sul rinnovo delle Forze armate. La preparazione degli stessi tedeschi aveva dei limiti, ma gli italiani erano assolutamente privi dei mezzi necessari ad una guerra moderna. E per convertire, in quel senso, gli apparati industriali serviva del tempo, anche a prescindere dalla cronica mancanza di materie prime del Paese. Di fronte alle nuove teorie sulla guerra lampo anche in Italia si ragionò sul rendere più celeri le nostre divisioni. Ma sa quale fu il risultato? Si passò dalle divisioni ternarie, su tre reggimenti, a quelle binarie, ovvero su due. Rendeva più veloci gli spostamenti delle truppe? No, però moltiplicava i comandi e quindi le promozioni».
Alcuni storici hanno rilevato che in proporzione lo sforzo industriale italiano fu inferiore nella Seconda guerra mondiale rispetto a quello della Prima.
«Nella Grande guerra bisognava fabbricare in gran numero prodotti relativamente semplici: elmetti, mitragliatrici, fucili... Nella Seconda si parlava di carri armati, aerei e portaerei. Serviva una diversa pianificazione industriale, di lungo termine. Il fascismo ha influito su molti aspetti della vita nazionale. Pensi solo all'enorme impulso dato all'architettura, edifici razionalisti costruiti nel Ventennio se ne trovano ovunque. Ma in realtà, a parte la retorica, il settore bellico è uno di quelli in cui ha inciso di meno. Anche perché le forze armate che dipendevano dal Re hanno mantenuto una forte indipendenza dal Regime. Anche se erano al centro della propaganda del Partito fascista».
Agli italiani mancavano anche degli obiettivi strategici chiari?
«L'attacco alla Francia, l'abbiamo detto, è stato una sorta di scelta dell'ultimo minuto. Ma attaccare attraverso le Alpi era onestamente una mossa senza senso. Non funzionò nonostante la Francia fosse ormai militarmente agonizzante. Come diceva Clausewitz: attaccare la Francia attraverso le Alpi è come sollevare un fucile afferrandolo per la lama della baionetta. Più sensato il tentativo di spezzare la presa della Gran Bretagna sul Mediterraneo attaccando l'Egitto. Forse se tutte le forze fossero state concentrate lì, in Nord Africa, avrebbe potuto essere diverso. Ma in questo caso la condotta del generale Graziani, che portò avanti l'offensiva con eccessiva lentezza, consentì ai britannici di convogliare in zona forze da tutto il Commonwealth. E così anche quell'opportunità sfumò...».
E l'attacco alla Grecia?
«Quello sì che, forse, può essere caratterizzato come una impuntatura caratteriale di Mussolini. Resosi conto di essere precipitato in una empasse, in una gabbia, scatenò l'attacco verso la Grecia in autunno e per di più in una zona montagnosa. A quel punto sì, sull'orlo di crollare contro una nazione non proprio nota per la sua tradizione militare, l'Italia si trovò a passare in una condizione completamente subalterna ai tedeschi».
Non fummo particolarmente abili a gestire la guerra ma nemmeno a uscirne dopo la caduta di Mussolini.
«Il Re, capendo che la monarchia era a rischio, fu abile a gestire l'allontanamento del Duce dal potere e nel favorire lo scioglimento del Partito fascista. Ma coloro che festeggiavano per le strade il 25 luglio non volevano tanto la caduta di Mussolini quanto la pace. Il Re e Badoglio volevano, però, una pace negoziata che garantisse il perdurare della monarchia. Le dichiarazioni sul continuare la guerra come alleati dei tedeschi erano chiaramente ingannevoli. Ma quei 40 giorni, sino all'8 settembre, hanno consentito ai tedeschi di portare nella Penisola tutte le truppe che volevano. Per salvare la monarchia si è condannato il Paese. Quando si pensa alla guerra bisognerebbe esaminare le responsabilità di una intera classe dirigente, non si può ridurre tutto a Mussolini e qualche gerarca».
Giovanni De Luna per “la Stampa” il 14 aprile 2020. Mussolini accettò di farsi fotografare assumendo spesso pose che ai nostri occhi sfiorano il grottesco. Durante il Ventennio, furono circa 2000 le sue foto ufficiali, alle quali vanno sommate quelle (alcune migliaia) scattate da fotografi locali; a questi originali sono poi da aggiungere le riproduzioni il cui numero è stato calcolato tra gli 8 e i 30 milioni di esemplari. Minatore, aviatore, trebbiatore, condottiero, sportivo, nuotatore: su queste si fondò il «culto del Duce» che ispirò gran parte dell' iconografia ufficiale del regime, affidata alle sue fattezze ossessivamente replicate in manifesti, scenografie, affreschi murali, ritratti disseminati ovunque, riproposti in ogni paese, in ogni città, sulle facciate degli edifici pubblici e delle case private degli italiani. E proprio a queste immagini è dedicata una sezione della mostra «Propaganda. The Art of Political Indoctrination» organizzata a New York da Casa Italiana Zerilli-Marimò (New York University), curata da Nicola Lucchi e visitabile ora, a causa del coronavirus, solo online (casaitaliananyu.org). il 14 aprile 2020. Tra i reperti esposti, due in particolare sono quanto mai efficaci nel raccontarci il rapporto tra il capo e la folla che fu alla base della religione politica del fascismo. Il primo è una scultura di Renato Bertelli del 1933, Il profilo continuo di Mussolini, famosissima, riprodotta in continuazione in maioliche gigantesche o anche in umili fermacarte. Si tratta di una testa del Duce raffigurata in un contesto decisamente futurista, con una rappresentazione che ne suggerisce un movimento rotatorio, proponendo una sorta di Giano bifronte a 360 gradi, quasi che il dittatore potesse vedere ovunque, seguire con lo sguardo ogni movimento dei suoi fedeli: un' opera di gusto straordinariamente moderno che sottolineava il ruolo decisivo del Duce nell' organizzazione del consenso al regime. In questo senso, ancora più esplicito è un secondo reperto in mostra, un manifesto dello svizzero Xanti Schawinsky realizzato in occasione del plebiscito del 1934, il secondo dopo quello del 1929. I «plebisciti nazionali» erano la sola parvenza di consultazione elettorale tollerata dal regime: per gli italiani si trattava di andare alle urne per votare l'elezione della Camera fascista esprimendo un «sì» o un «no» su una lista di 400 nomi, predeterminata dal Gran Consiglio, unica per l'intero territorio nazionale. «Il popolo voterà perfettamente libero. Ho appena bisogno di ricordare, tuttavia, che una Rivoluzione può farsi consacrare da un plebiscito, giammai rovesciare», erano state le minacciose dichiarazioni di Mussolini alla vigilia del voto del 1929. Gli elettori per i «sì» utilizzavano schede tricolori, per i «no» schede bianche, così che la segretezza del voto era totalmente vanificata. Anche nel 1934 vinsero ovviamente i «sì» con una maggioranza schiacciante, 99,84%. Per celebrare il successo Schawinsky immaginò un Duce il cui corpo era fatto di folla, con in primo piano un gigantesco SÌ in cui erano racchiusi i trionfali risultati elettorali. Il manifesto riusciva così a cogliere l' essenza del regime, quel «mussolinismo» senza il quale il fascismo non sarebbe esistito. Tra i dittatori del XX secolo, Mussolini fu uno dei primi a capire l'importanza della politica spettacolo. Per restare all' Italia, fu il primo capo di governo a doversi confrontare con il cinema, con la radio, con i giornali, con i mezzi di comunicazione di massa. Tutti i suoi predecessori avevano potuto governare dal chiuso delle stanze di Montecitorio o di Palazzo Chigi; Mussolini scelse di fare politica nelle piazze, ai microfoni della radio, davanti alle cineprese dei documentari Luce. Le «masse oceaniche» che accorrevano ad ascoltare i suoi discorsi erano elementi essenziali di una scenografia studiata nei minimi particolari. E il culto del capo si sostituì a ogni altra istanza politica o ideologica. Si aveva fiducia nel regime perché si aveva fiducia nel Duce, e il suo stesso corpo divenne un oggetto da adorare. Lo scempio finale di piazzale Loreto fu in questo senso l' applicazione di una tragica legge del contrappasso: su quel corpo che era stato un idolo capace di attivare passioni e entusiasmi tumultuosi si scatenarono l' ira e il disprezzo delle stesse masse che lo avevano adorato. Ma c'è un'altra sezione della mostra - quella dedicata al rapporto tra il fascismo e la società italiana - che oggi appare la più innovativa dal punto di vista storiografico. Un manifesto attira subito l'attenzione ed è quello per la pubblicità della birra Metzger: vi campeggia una gigantesca M, iniziale del marchio aziendale ma anche di Mussolini, quasi a suggerire un sorta di osmosi tra i simboli classici del regime e il mondo della pubblicità e dei consumi. Di fatto molte delle firme eccellenti che dominavano il mercato pubblicitario, come Dudovich e Diulgheroff, si prestavano volentieri a illustrare le «opere del regime», lasciando affiorare nel cupo universo dell' iconografia fascista i tratti di un' Italia che stava per aprirsi ai consumi e alle mode, lasciando affiorare i primi vagiti di quella grande trasformazione che nel dopoguerra avrebbe accompagnato il boom economico. All'italiano fascista voluto dal regime si affiancava l' italiano consumatore: il primo risultò una creatura effimera, il secondo celebrerà il suo trionfo mostrando subito i limiti di un progetto totalitario segnato da una marcata subalternità alle esigenze commerciali imposte dal mercato.
"Quei peccati inconfessabili del confessore del Duce". L'autore di «Sotto il radioso dominio di Dio» spiega il suo lavoro di scavo nella vita del prozio Pietro Tacchi Venturi. Stefania Vitulli, Sabato 29/02/2020 su Il Giornale. Quando l'eredità familiare ha un peso che non grava soltanto sulle proprie spalle, ma anche sulla storia intera di un Paese, per uno scrittore è difficile farci i conti. Prima o poi però la decisione va presa: parlarne, con la presa di rischio morale che ne consegue, o tacere, soffiando sulle braci dell'ambiguità? Giorgio Zanchini, classe 1965, giornalista e saggista romano, conduttore radiofonico, ha optato per dare voce a fantasmi e ossessioni del passato con una forma particolare di autofiction storica: Sotto il radioso dominio di Dio (Marsilio, pagg. 222, euro 26) è il suo esordio e vede protagonista padre Pietro Tacchi Venturi, noto ai più come confessore del Duce, sì, e come «strumento normale» per i messaggi tra il Papa e Mussolini. Per Zanchini, però, Tacchi Venturi è prima di tutto un parente, il prozio del padre, il fratello della bisnonna, un pilastro del lessico famigliare con cui fare i conti, ogni giorno, per la vita. Prima del perdono s'impone l'indagine, prima dell'assoluzione, la ricostruzione: nel romanzo non ci sono risposte né rivelazioni, ma un doloroso percorso di scavo - condotto nella finzione dal personaggio radicale di Matteo, che analizza carte, lettere e diari del gesuita insieme alla più indulgente cugina Giulia - per appurare soprattutto se la figura cardine della propria famiglia sia stata o meno antisemita.
Come racconterebbe la trama del romanzo a un lettore che non conoscesse gli eventi storici?
«È un breve viaggio all'interno di una famiglia italiana, romana, nel corso del Novecento. Una famiglia in cui ad alcuni membri capita anche di essere protagonisti, minori o maggiori, di vicende storicamente rilevanti: il fascismo, il rapporto tra Chiesa e regime, la tragica spedizione italiana in Russia».
Come descriverebbe la figura ispiratrice?
«Il protagonista, o se non il protagonista senz'altro la figura più ingombrante del racconto, è Pietro Tacchi Venturi, segretario generale della compagnia di Gesù, tramite fra i Papi e Mussolini lungo tutto il Ventennio. Il suo ruolo durante il fascismo è stato rilevante, ambiguo, controverso. Attorno a quella figura e a quel ruolo si sviluppa il romanzo».
«Un luogo in cui regnava un ordine perfetto, fraternità e armonia, regolato da squilli di tromba e rintocchi di campane, sotto il radioso dominio di Dio»: il titolo è preso da una frase di Anatomia di un istante di Javier Cercas. Come mai?
«Riassume l'idea del mondo che aveva il colonnello golpista spagnolo Tejero. Un'idea secondo me non molto distante da quella di Tacchi Venturi».
Quali sono i lati ancora oscuri della biografia del suo prozio?
«Su di lui sappiamo già molto, gli storici sulla sua figura hanno molto lavorato e di recente i gesuiti hanno reso accessibili i suoi archivi, non a caso escono saggi che ne tengono conto. Sinché però non saranno desecretati tutti gli archivi di Pio XII, e gli studiosi non produrranno nuove ricerche, non sapremo fino in fondo quale sia stata la posizione di Papa Pacelli sulla questione ebraica, e consequenzialmente il ruolo di Tacchi Venturi».
Quali, invece, i falsi storici o i fraintendimenti?
«Non parlerei di falsi storici. Più che altro di disinteresse, di indifferenza. Per la figura di Tacchi Venturi, il che è già comprensibile. Ma anche per le responsabilità della Chiesa sulla questione ebraica e, peggio, sulle leggi razziali. Gli italiani temo facciano sempre un po' di fatica a discutere il proprio passato più scomodo».
In che cosa consiste esattamente una «educazione cattolica»?
«Tema enorme, e in continua evoluzione, su cui il romanzo fa intuire molto. Per le generazioni del primo Novecento la religione era davvero la bussola quotidiana, il progetto di vita, il baricentro delle relazioni. Oggi tutto è più lasco: la secolarizzazione mi pare un fatto compiuto».
Quando ha sentito parlare per la prima volta del suo prozio?
«Nemmeno lo ricordo più, ma è un nome che ha aleggiato nella mia famiglia da sempre. Quando sono nato, Tacchi Venturi era morto da dieci anni, ma il suo ruolo, il suo magistero, le sue parole, le ho sentite sin da bambino».
Come per Tacchi Venturi le parole di Giannetto, Giannettino e Pinocchio.
«Sono tra i primissimi libri che lesse, l'ho trovato in una sua biografia. Libri che consigliava alla gioventù, sconsigliando invece quelli dell'irreligioso De Amicis».
Quali difficoltà ha incontrato a esordire con una vicenda così personale?
«Ho cercato di chiarire questo punto nella postfazione, per far capire come io sia sospettoso nei confronti dell'autofiction e come preferisca usare altri strumenti per elaborare una materia che può avere tratti autobiografici. Devo dire che un po' di preoccupazione per le reazioni dei parenti le ho».
C'è una sentenza di Tacchi Venturi che citate spesso tra voi in famiglia?
«Una frase terribile: Non siete venuti al mondo per divertirvi, ma per lavorare per la gloria di Dio e della Santa Chiesa. Devo dire che mio padre e i miei zii la usavano ridendo».
· Mussolini ha fatto cose buone.
Fabio Isman per "Il Messaggero" il 15 novembre 2020. È il 1937: al secondo conflitto mondiale, mancano ancora tre anni. Il fascismo è ormai consolidato, e in Spagna infuria la guerra civile, cui, dalle due parti, offrono apporto pure degli italiani. Ma nella Capitale, c'era già chi pensava al peggio. E vi provvedeva. Alla stazione Termini, ad esempio, nasce un bunker lungo quasi 40 metri, senza eguali e che esiste ancora, anche se (e per fortuna) non è stato quasi mai utilizzato: una volta, ma per prova. Verificato che tutto funzionasse, è rimasto lì: inattivo e intonso; non c'è mai stato bisogno di lui. Sarebbe servito a muovere i treni; a permettergli di viaggiare anche sotto le bombe nemiche. Ora, la Fondazione delle Ferrovie dello Stato, del Gruppo omonimo, lavora per renderlo agibile: potrebbe aprire tra un paio d'anni (almeno) i propri segreti al pubblico.
ALA MAZZONIANA. Siamo, guardandola, a destra della stazione; in fondo a quella che si chiama «ala mazzoniana», perché progettata da Angelo Mazzoni del Grande (1884-1979), celebre costruttore di edifici postali stupendi, come a Latina, Palermo, Ostia, Grosseto, Sabaudia e Trento; di interventi per le Ferrovie anche a Firenze, Messina e Milano; nonché del progetto per Termini del 1938, sospeso per motivi bellici, e mutato nel dopoguerra. Ne restano le ali laterali sulle vie Giolitti e Marsala; dei fabbricati; due singolari serbatoi. Non, e questo è forse un bene, il grandioso porticato che egli voleva davanti. Ecco: su via Giolitti, quasi sotto un edificio mazzoniano che è pure «Ferro hotel», albergo per i ferrovieri, e quasi accanto a uno dei suoi serbatoi, dieci metri sotto dove transitano i treni, c'è il nostro bunker, che avrebbe dovuto instradarli.
COMANDI BIS. È l'esatta ripetizione della cabina di comando che allora, era 30 metri più in alto: in cima a un edificio da cui si traguardava il fascio dei binari, usato fino al 1999. Quando il bunker sorge, Termini possedeva 28 binari (oggi, 32); e un grande quadro luminoso di questa sala li mostra, indicando se sono liberi, e quali semafori e scambi sono attivi. I cuori del bunker sono due: le tre planimetrie illuminate (Termini e i suoi approcci); e 737 leve, che azionavano ognuna uno scambio. Da qui, si potevano far arrivare, e partire, oltre 300 treni al giorno. Ma quel luogo doveva essere isolato, protetto, autosufficiente: la blindatura dell'ingresso è spessa quattro dita; e tre filtri purificavano l'aria, proteggendo la trentina di addetti dagli avvelenamenti biologici; poi, c'erano anche sei serbatoi, marca Pirelli: contenevano la calce con cui assorbire l'anidride carbonica, anche quella emessa dal respiro umano: se ne vedono ancora i contenitori, stivati ordinatamente in un locale attiguo.
UN INTERO MONDO. Qui sotto c'erano tutti gli apparati sussidiari, per fare funzionare la cabina-bis: trasformatori di corrente a 260 e 150 volt; 25 armadi metallici, con 55 relè ognuno; sotto il pavimento, chilometri di cavi; quattro alternatori. Dentro, ricorda qualcuno, «il rumore era infernale»: il soffitto è piuttosto basso, non esistevano sistemi fonoassorbenti, e dieci metri sopra, passavano i convogli. Esisteva perfino una cella: per rinchiudervi eventuali sabotatori. E c'era addirittura un registratore cronologico di eventi, che pare un orologio: con dieci punte scriventi, certificava tutti i dettagli dello stato di ogni treno.
UNA SOLA VOLTA. Per l'epoca, l'impianto era assai avanzato. E' stato messo in allerta, pronto a funzionare, una sola volta: era l'11 luglio 1943; Roma era sotto attacco dal cielo. Ma gli aerei alleati, forse ce lo ricordiamo, puntarono sulla zona di San Lorenzo: quattromila bombe, per oltre mille tonnellate; tremila morti e 11 mila feriti in città, 1.500 vittime e quattromila feriti solo nel quartiere. Nemmeno quella volta, però, ci fu bisogno del bunker, mai inaugurato e rimasto segretissimo.
Mussolini: gli aspetti meno conosciuti della vita del Duce in una avvincente biografia. Cristiano Puglisi il 9 novembre su Il Giornale. Di biografie di Benito Mussolini ne sono state scritte diverse. Quella tracciata da Marco Pizzuti, divulgatore controcorrente con all’attivo saggi tradotti in tutto il mondo, nel suo “M – Biografia non Autorizzata di Benito Mussolini. I segreti del regime fascista dall’ascesa alla morte del Duce”, edito da Uno Editori, è però un’opera che, con le sue 560 pagine, si candida a indagare gli aspetti meno noti della vita del fondatore del fascismo. La cui ricostruzione è ben lungi dall’essere un capitolo chiuso. “Purtroppo – spiega Pizzuti – è proprio così. Mussolini è uno dei personaggi su cui, a livello mondiale, si è parlato e scritto di più ma ciononostante, ancora non è mai stata mai raccontata la verità, dall’inizio alla fine. Ovviamente, quando accadono dei fatti simili, c’è sempre un buon motivo e ora, dopo quasi un secolo di menzogne di comodo, possiamo finalmente ricostruire cosa è accaduto realmente durante l’Italia fascista e spiegare il motivo per cui Mussolini è stato ucciso senza un regolare processo in cui, da accusato sarebbe potuto divenire accusatore. Mussolini è stato indubbiamente un dittatore come Hitler e Stalin e anche se è stato più tollerante e meno sanguinario degli altri, ha avuto comunque molte colpe per avere conquistato il consenso con la violenza, avere approvato le leggi razziali contro gli ebrei e altro ancora. Nessuno quindi intende fare di lui un santo ma la storia ufficiale è stata scritta dalle potenze vincitrici a cui ha fatto molto comodo ingigantire le responsabilità di Mussolini sulla guerra per nascondere le proprie. Ciò che ho fatto quindi, è stato separare la storia dal giudizio politico e non dare peso alle conseguenze perché fino ad ora anche i grandi storici più obiettivi come Renzo De Felice, non hanno potuto scavare troppo proprio per non essere screditati con infamanti accuse di carattere politico. Voglio infatti ricordare che quando De Felice pubblicò il primo volume della sua monumentale biografia di Mussolini, dovette subire pesanti attacchi personali perché chiunque provi a contraddire l’interpretazione storiografica prevalente del fascismo, di Mussolini e della guerra di liberazione, si espone a forti critiche e pesanti polemiche di natura ideologica che non hanno niente a che vedere con la storia. De Felice però, seppur con molta discrezione, ha lasciato delle porte aperte sulla verità storica esprimendo dubbi, incertezze e misteri su tutti gli eventi chiave più insabbiati e mistificati che riguardano Mussolini e il fascismo. E se per tutta la sua carriera ha affermato ad esempio che i famosi carteggi con Churchill erano una leggenda, pochi sanno che negli ultimi anni della sua vita ha ammesso il contrario. Ho quindi ripercorso i suoi studi e colto gli indizi da cui si è aperto il vaso di Pandora”. Quando si parla di Mussolini e della cattiva fama che lo ha accompagnato non si può non pensare al delitto Matteotti. Liquidato spesso come responsabilità esclusiva del regime e di Mussolini, quell’efferato omicidio, però, nel tempo, ha aperto numerosi e inquietanti interrogativi…“Mussolini – prosegue l’autore – era stato direttore dell’Avanti e il più apprezzato esponente del socialismo rivoluzionario e posso dimostrare che quando venne brutalmente assassinato Matteotti, Mussolini stava preparando un governo di coalizione con i socialisti per ricucire i rapporti con i suoi ex-compagni. Questa sua intenzione però era indigesta a molti gerarchi, ai reali e a buona parte del capitalismo italiano che avevano tutto l’interesse a rendere impossibile qualsiasi tipo di riavvicinamento con la sinistra. Matteotti inoltre stava per pubblicare un dossier scandaloso sulla corruzione dei gerarchi che sarebbe arrivato a coinvolgere lo stesso re. Eliminarlo, faceva comodo a molti personaggi potenti ma non certo a Mussolini che si ritrovò subito additato come il mandante dell’omicidio e il capo del fascismo non era certamente uno stupido. Il suo principale accusatore Carlo Silvestri infatti, capì che era stato incastrato e tornò sui suoi passi scagionandolo completamente così come hanno fatto la vedova e lo stesso figlio della vittima che ha continuato ad indagare anche nel dopoguerra”. Anche sulla morte dello stesso Duce, del resto, ci sono opinioni contrastanti. In passato già Giorgio Pisanò si era spinto a raccontarne una versione ben diversa da quella contenuta sui libri di testo scolastici. “Le indagini di Pisanò – aggiunge Pizzuti – erano nella giusta direzione e sono giunte molto vicino alla verità anche se non è riuscito a rimettere insieme tutte le tessere del puzzle. Il suo contributo è stato comunque notevole per ricostruire l’epilogo di Mussolini e oggi disponiamo delle perizie scientifiche con cui è stato dimostrato in modo inconfutabile che il capo del fascismo venne ucciso prima della fucilazione farsa (senza testimoni) di Villa Belmonte, dove giunse già cadavere. Il suo corpo infatti, presentava fori di arma da fuoco che non corrispondevano a quelli sugli abiti colpiti dai proiettili di mitragliatrice del pomeriggio del 28 aprile perché in realtà venne ucciso prima, nella mattina dello stesso giorno, quando era ancora in canottiera. Ad ucciderlo furono gli uomini dell’intelligence britannica che lo stavano braccando su mandato di Churchill e l’intera vicenda venne poi insabbiata come un regolamento di conti interno tra italiani. Tutti i partigiani che avevano saputo la verità e che avrebbero voluto processare Mussolini, furono trucidati affinché non parlassero. Sappiamo poi per certo dagli archivi britannici che l’intelligence di Londra gestiva un fondo per il finanziamento di centinaia di giornalisti, deputati, intellettuali, alti prelati e personaggi influenti della società, allo scopo di dirigere i governi italiani su posizioni filoinglesi. Ora chiunque può leggere i loro nomi e negli ultimi anni, sono persino saltati fuori i documenti che dimostrano come Londra nel 1976 stesse progettando un colpo di Stato in Italia (due anni dopo si verificò l’omicidio di Aldo Moro). Tra le personalità considerate una minaccia c’era anche Enrico Mattei (assassinato con una bomba sul suo aereo), reo di avere seguito una politica petrolifera troppo indipendente dagli interessi Britannici. E fu sempre sul Panfilo Britannia della corona inglese che nel 1992 furono assunte le decisioni più importanti che riguardavano lo smantellamento economico dell’Italia, iniziato con una grande campagna di privatizzazioni (nel 1987 il nostro paese era diventato la quarta potenza mondiale, lasciandosi dietro la Gran Bretagna)”. Prima della guerra, i rapporti dell’Italia di Mussolini con Francia e Inghilterra non erano tesi come ci si potrebbe immaginare. Anzi. Neppure il rapporto con Hitler era così saldo come potrebbe lasciar pensare la frequentemente utilizzata locuzione di “nazifascismo”. “Prima del conflitto – spiega ancora Pizzuti – Mussolini godeva di grande stima sia negli USA che in Francia e in Gran Bretagna. Nonostante fosse una dittatura, spesso l’Italia fascista, venne addirittura indicata dalla stampa estera come un paese modello e Churchill espresse pubblicamente grande ammirazione per Mussolini. E anche se nella sua biografia ufficiale è stato opportunisticamente censurato, il premier britannico volle recarsi a Roma per conoscere personalmente il duce con il quale, oltre a stabilire cordialissimi rapporti, concluse anche un proficuo contratto editoriale. I rapporti con Hitler invece, erano tutt’altro che rosei perché Mussolini vedeva l’imperialismo tedesco come una minaccia e aveva fatto dispiegare le migliori divisioni italiane sul Brennero. Il suo obiettivo quindi, era quello di fungere da mediatore per la pace in Europa facendo da ago della bilancia nel braccio di ferro tra Berlino, Londra e Parigi in modo da prendere tempo e portare l’Italia allo stesso livello delle altre potenze (non aveva ancora i mezzi per affrontare un conflitto alla pari). Sapeva però che Hitler non avrebbe accettato a lungo la neutralità dell’Italia e prima di stringere l’alleanza, tenne in piedi un pericoloso doppio gioco con Francia e Gran Bretagna a cui propose persino la vendita di forniture belliche da usare contro la Germania. Alla luce della vulgata ufficiale tutto ciò può apparire assurdo ma ho raccolto tutte le prove e i documenti ufficiali che lo dimostrano. Infine, quando la Francia era già stata militarmente annientata, gli alleati chiesero a Mussolini di partecipare alle trattative per un armistizio con Hitler e moderare le sue pretese in cambio di concessioni nel mediterraneo. Il presidente americano Roosevelt si propose come garante del patto ma Mussolini replicò che se si fosse seduto al tavolo dei negoziati su semplice invito anglo francese e nessuna parte in causa, non avrebbe potuto esercitare alcuna reale pressione su Hitler. Mussolini affermò che l’unico modo per avere voce in capitolo durante le trattative di pace, era parteciparvi in veste di belligerante. Il suo intervento in guerra quindi doveva essere un conflitto di facciata contro gli alleati. Quando però il corso degli eventi prese un’altra piega e le truppe britanniche riuscirono a evacuare da Dunkerque e a mettersi in salvo, Churchill, pensò di non avere più bisogno di Mussolini perché nel frattempo, stavano arrivando gli aiuti americani e Hitler doveva occuparsi anche di Stalin. L’Italia insomma, era da lui considerata il ‘ventre molle’ della fortezza europea nazista e concluse che era meglio averla come reale nemico per indebolire la Germania, piuttosto che come debole alleato che non avrebbe potuto resistere più di due settimane a una invasione tedesca. Tutta la vulgata storica ufficiale è stata scritta ad uso e consumo della Gran Bretagna e dei paesi vincitori ma adesso è giunto il momento di fare chiarezza anche sui ‘misteri’ del 25 luglio, della fuga del re, della ‘liberazione’ dal Gran Sasso, della fucilazione di Ciano e molto altro ancora. Si tratta della verità che gli italiani aspettano di sapere dal 28 aprile 1945”.
IMPARIAMO DALLA STORIA. Circolo Culturale Excalibur. Come fece il Fascismo a sconfiggere la Tubercolosi (TBC) senza mascherine e distanziamento? Silvio Berlusconi a 84 anni ha contratto il virus del Covid19 e, nonostante l'elevata carica virale che l'ha colpito, dopo due settimane è uscito dalla clinica allegro e pimpante come il presidente Americano Trump (74 anni) dopo due giorni di degenza. Questi due esempi ci dimostrano che chiunque abbia contratto il virus può guarire. Le migliaia di morti che abbiamo registrato nel pieno della pandemia (e che speriamo di non rivedere), sarebbero state infinitamente meno se quelle persone fossero state curate adeguatamente. Non è il Virus che uccide, ma la mancanza di cure, a parte il caso di pazienti affetti da gravi patologie poi aggravate dal Covid. Negli anni venti, prima dell'avvento del Fascismo, in Italia la Tubercolosi (TBC) infettava ogni anno 600mila persone e causava oltre 60mila vittime, soprattutto fra i bambini. Eppure nel giro di pochi anni il Regime riuscì a depotenziarlo fino a sconfiggerlo del tutto. Come fece? Prendendolo a manganellate o annegandolo nell'olio di ricino? Battute a parte, la risposta è semplice: costruendo ospedali e dotandoli delle più moderne strumentazioni tecnico-scientifiche e applicando procedure mediche all'avanguardia nella cura delle malattie infettive. Furono realizzate negli anni del Fascismo quelle eccellenze in campo ospedaliero che tutto il mondo guardava con ammirazione e che ancora oggi rappresentano l'ossatura del sistema sanitario pubblico: a Roma lo Spallanzani, il San Camillo e il Forlanini, a Napoli il Cardarelli, a Genova il Gaslini solo per citare i più noti, cui si aggiunsero le centinaia di ospedali minori e le molteplici strutture specializzate per la cura delle patologie polmonari come, ad esempio, il Villaggio Sanatoriali di Sondalo. In pochi anni dal 1929 al 1936 furono creati oltre 20mila posti letto in sessantuno nuovi ospedali. In ogni località termale sorgevano le Colonie Elioterapiche per la cura delle patologie polmonari e tutti gli anni i bambini potevano andare a respirare aria salubre al mare o in montagna grazie alle colonie estive. In quegli anni nessuna nazione europea investì nella sanità pubblica come l'Italia fascista. Altro che mascherine, distanziamento sociale e banchi a rotelle nelle scuole...Per saperne di più è disponibile il libro di Gianfredo Ruggiero: In pochi anni dal 1929 al 1936 furono creati oltre 20mila posti letto in sessantuno nuovi ospedali. In ogni località termale sorgevano le Colonie Elioterapiche per la cura delle patologie polmonari e tutti gli anni i bambini potevano andare a respirare aria salubre al mare o in montagna grazie alle colonie estive. In quegli anni nessuna nazione europea investì nella sanità pubblica come l'Italia fascista. Altro che mascherine, distanziamento sociale e banchi a rotelle nelle scuole...
Sul fascismo molto si è scritto, ma poco si è compreso a causa del conformismo degli storici che pur sapendo come realmente si svolsero i fatti, tacciono e si adeguano. In questo libro, chiaramente di parte, di quella parte di storia sul fascismo volutamente ignorata, sono affrontate le maggiori colpe attribuite a Mussolini e al suo regime: dalla presa del potere con la violenza al delitto Matteotti, dalla morte di Gramsci all'omicidio dei Fratelli Rosselli, dall'uso dei gas nella guerra d'Abissinia alle leggi razziali, dall'entrata nel secondo conflitto mondiale ai crimini della guerra civile. Fatti e circostanze descritti con rigore storico che, di conseguenza, fanno vacillare molte delle certezze che ci sono imposte fin dai banchi di scuola. Nella seconda parte sono descritte e documentate le principali realizzazioni del fascismo. Opere, istituzioni e leggi (molte delle quali ancora in vigore a conferma della loro validità) che nei libri di testo sono ignorate o sminuite nella loro portata. Nella terza parte, quella dedicata agli approfondimenti, si parla di come il regime, senza mascherine e distanziamento sociale, ha sconfitto la tubercolosi, una malattia infettiva che ogni anno mieteva molte più vittime del Coronavirus di oggi, soprattutto tra i bambini. Di come l'industria chimica italiana si è imposta a livello mondiale e un capitolo sul rapporto tra fascismo e turismo, sport e cultura. Sono infine smentite molte delle cosiddette "bufale sul fascismo". Il fascismo, piaccia o no, è parte integrante della nostra storia e non può essere racchiuso tra due parentesi come fosse una sorta d'incidente e sbrigativamente relegato in un angolo della nostra memoria collettiva, salvo poi riprenderlo per usarlo come spauracchio o come etichetta per denigrare l'avversario politico. I suoi meriti e le sue colpe vanno dibattuti con distacco e serenità. Solo così potremmo togliere spazio al fanatismo delle frange estreme e alla strumentalizzazione della politica. Historia Magistra Vitae, affermava Cicerone. Quella vera aggiungiamo noi.
Aldo Grasso per il “Corriere della Sera” l'8 ottobre 2020. Chi era veramente Margherita Sarfatti? Perché questa donna affascinante, colta, raffinata pensò bene di «sgrezzare» Benito Mussolini, di farlo accettare alla Milano «bene» introducendolo nel suo salotto borghese di corso Venezia? Perché un'ebrea, la cui famiglia non fu poi risparmiata dalle leggi razziali, fu l'amante del Duce? Il segno delle donne è una serie di Rai Cultura che, sotto forma di docu-fiction, propone i ritratti di sei donne che hanno lasciato una traccia profonda nella storia culturale, politica e sociale del nostro Paese: Margherita Sarfatti, Ondina Valla, Adele Faccio, Vera Vergani, Chiara Lubich e Lalla Romano (in onda su Rai Storia). Il modello originale è quello delle «interviste impossibili», uno dei format più straordinari della storia della radio italiana (ma irripetibile in tv). Un'intervistatrice, Rachele Ferrario (dice di sé: «sono una scrittrice e una storica d'arte», la classica «coazione al dicolon», tipo «giornalista e scrittore»), intervista l'attrice Sonia Bergamasco, truccata da Margherita Sarfatti, che risponde attingendo a frasi dette o scritte dalla vera protagonista. Per rafforzare la «storicità» del colloquio, intervengono testimoni accreditati che cercano di spiegarci la complessa figura di questa intellettuale di «una bellezza trionfante». Quando Mussolini, dopo i trascorsi socialisti, s' inventò il fascismo e divenne capo del governo, la sua musa toccò il cielo con un dito: ne influenzò sempre più il giudizio, guidò l'esperienza della rivista di teoria politica Gerarchia, scrisse la biografia Dux , che sarà poi tradotta in diciannove lingue. Il libro, uscito per la prima volta nel 1925, fu ristampato fino al 1982 e rese celebre la Sarfatti anche all'estero. Animò la «Mostra del Novecento italiano». Resta un mistero come una donna di tanta cultura, un'autorità in campo estetico, abbia visto in Mussolini l'idea di una società dominata dall'arte.
Giordano Bruno Guerri per “il Giornale” l'8 ottobre 2020. Gli anni fra la marcia su Roma e il 1932, importantissimi dal punto di vista storiografico, da quello narrativo sono i meno appassionanti in una biografia di Mussolini. Ci sarebbe da raccontare soprattutto l'assestamento al potere, la nascita della dittatura e dello Stato fascista, le nuove leggi e la trasformazione della società. Insomma, dev' essere stato un problema per Antonio Scurati trovare una chiave narrativa non uggiosa per il secondo volume del suo M (L'uomo della provvidenza, Bompiani, pagg. 648, euro 23). L'ha risolto rendendo protagonista del libro non tanto il duce, quanto il suo corpo. Fin dall'incipit, per esempio, il delitto Matteotti non è visto analizzando cause e conseguenze, bensì raccontando con perizia clinico-romanzesca l'ulcera che gli avrebbe provocato e il peso del dolore fisico nei suoi comportamenti e nelle sue decisioni. «Io sono il mulo nazionale, io, il bue nazionale. E allora io non posso morire», spiega il duce nelle prime pagine. Di conseguenza Mussolini ha un corpo pubblico, che «esulta» sempre, e uno privato, che esulta di tanto in tanto, specialmente quando «tutti i muscoli del corpo sono pronti per l'accoppiamento» (è il verso di una canzone di Franco Battiato, lo so, Scurati si diverte a citarlo senza virgolette). Si tratta di una chiave di lettura interessante nell'analisi psicologica di un personaggio semivero, ma che poco aggiunge e qualcosa toglie alla comprensione di un periodo storico e del suo protagonista. Niente di male, per carità, se lo si tiene presente e si aggiunge che il tutto è pure filtrato attraverso la fantasia e l'estro di uno scrittore. Raccontare attraverso il corpo significa anche - altro esempio sviluppare il rapporto complesso con Margherita Sarfatti (musa politica, educatrice di buone maniere, influenza culturale) attraverso le pieghe dei rapporti sessuali, delle gelosie, dell'abbandono. Significa, soprattutto, usare come fonte più evidente le memorie dell'autista Ercole Boratto e moltissimo quelle del cameriere-usciere Quinto Navarra. I due, infatti, non hanno alcun ruolo politico, sono addetti esclusivamente al corpo dell'uomo Benito, e attraverso di loro è come vedere la storia dal buco della serratura, oltre a rispettare l'antico motto «Nessun uomo è grande, per il suo cameriere». È un gioco da storici intravedere, chiarissima, la bibliografia usata e non citata. Uno per tutti è, non sarebbe possibile altrimenti, il magnifico Il corpo del duce, di Sergio Luzzatto. Un altro gioco è scoprire forzature e invenzioni. La fantasia e l'estro di Scurati dichiarano, in una nota iniziale, che «in un numero molto limitato di casi l'autore, governato dalle esigenze del racconto, si è concesso l'arbitrio di minimi sfasamenti temporali». Non ci dice quali, eccone uno: Scurati fa mietere il grano a Mussolini, a torso nudo, nel 1931, mentre l'episodio risale al 1935, però anticiparlo gli fa comodo per spiegare il rapporto di Mussolini con il proprio corpo, e l'effetto che fa sul popolo: «Si tratta di un corpo inaudito. Che sia muscoloso, vigoroso, possente poco importa. Quel che conta è che mai prima di questo momento, nell'era moderna un capo di Stato si sia mostrato nudo in mezzo al suo popolo». Narrativamente è utile, storiograficamente è deviante, perché fra il Mussolini in abiti civili e quello a petto nudo c'è il passaggio fondamentale del Mussolini che si militarizza, in divisa (la caccia all'errore non è una mia passione, ma la definizione di Mussolini «capo di Stato» viene ripetuta più volte: il duce non lo era, essendoci un re, e anzi gli dispiaceva tanto che nelle occasioni ufficiali come la visita di Hitler dovesse cedere al re il posto accanto all'ospite). Ancora più devianti, storiograficamente, sono le decine e decine di pagine dedicate alle efferatezze e alle stragi di Rodolfo Graziani in Libia. Tutto vero, tutto preciso, ma quell'orrenda pagina della storia, gravissima, fu irrilevante in Italia, mentre vengono dedicate pochissime righe alla Carta del lavoro, alla Conciliazione e alla «rivoluzione corporativa», meno suggestive da raccontare ma enormemente più influenti nelle vicende del periodo: far west fascismo, insomma. Far west personaggi, anche, come quando Scurati fa intendere al lettore, senza dichiararlo, che il giovane Galeazzo Ciano in Cina partecipava a disgustose perversioni sessuali che non gli appartenevano. Con lo stesso criterio, c'è molto Farinacci e niente Bottai, e con la stessa filosofia l'autore dedica puntigliosa attenzione ai cinque attentati, male organizzati e falliti, che Mussolini subì in quegli anni. Scurati ne fa una piccola enciclopedia di bella lettura, mentre al povero Antonio Gramsci, al suo pensiero, al suo arresto e alla sua condanna al carcere vengono dedicate poche righe. Così va, quando più che alla storia si bada alle esigenze narrative. Tutto ciò detto, è un bel libro? Sì, lo si legge con piacere, Scurati è uno scrittore bravo, anche se personalmente avrei preferito che rinunciasse all'ambizione Buddenbrook tagliando due o trecento pagine.
Luigi Mascheroni per ''il Giornale'' il 2 ottobre 2020. Brescia. Su... su... su.../ Se ci monti tu,/ questa Balilla qua/ come una freccia va..., versi di Luciano Ramo, musica di Vittorio Mascheroni, due vere icone musicali fra gli anni Venti e Trenta quando tutto in Italia parlava di fascismo - che la Fiat scritturò per la pubblicità dell'automobile Balilla...Eccone qui un esemplare, originale e rilucente, nel cortile interno di Palazzo Martinengo. Poco più avanti, prima dell'entrata, tre sagome di piccoli Balilla: fez in lana nera con fregio dorato, pantalone corto in lana grigioverde e saluto (che sembra un «Ciao, ciao») romano...E poi, dentro, lungo tutto il piano terra del palazzo, centinaia di pezzi originali, tutti provenienti da collezioni private, mai visti prima - tra fotografie di padri, nonni, parenti in orbace, libri e moschetti, e lettere di familiari sorprendentemente osannanti il Duce che ricostruiscono l'universo plasmato dal fascismo, vero esperimento collettivo di rivoluzione antropologica (straordinariamente copiato da dittatori di ben altra tempra, come Hitler e Stalin) volto a rigenerare il carattere di un popolo per fare degli «italiani nuovi». Oggi Balilla, domani soldati di un'Italia in guerra per l'edificazione di un Impero. Crescere, obbedire, divertirsi, e un domani combattere...«Noi siamo, come in Russia, per il senso collettivo della vita, e questo noi vogliamo rinforzare, a costo della vita individuale... Naturalmente questo stupisce gli stranieri! L'uomo già a sei anni viene tolto in un certo senso alla famiglia, e viene restituito allo Stato a sessant'anni». Benito Mussolini, 1932. Brescia, 2020. Benvenuti alla grande mostra I giovani sotto il fascismo. Il progetto educativo di un dittatore curata da Roberto Chiarini e Elena Pala (da oggi al 22 novembre): sei sale, un percorso che unisce allestimenti scenografici e rigore scientifico, una rilettura critica del Ventennio senza demonizzazioni o esaltazioni, un catalogo iconograficamente ricchissimo (con interventi, fra gli altri, di Emilio Gentile, Daria Gabuti, Marco Cuzzi, Emanuela Scarpellini, Giuseppe Parlato e Emanuele Cerutti), e centinaia di oggetti di vita quotidiana, provenienti in particolare dalle collezioni di Mario Valzelli, bresciano, e Franco Mesturini, di Mortara, quest'ultimo proprietario di un fondo di 44mila fotografie solo sulla gioventù negli anni del fascismo. Ed eccola qui quella gioventù, foto ricordo dopo foto ricordo, divisa dopo divisa, adunata dopo adunata: come crescere da Figlio della Lupa (tra i quattro e gli otto anni) a Balilla (dagli otto ai tredici), da Avanguardista (da quattordici a diciassette) a Giovane fascista (da diciassette a ventuno) fino a Militare. Ecco come si forgia un popolo che crede ciecamente al proprio Duce: immergendolo fin dalla nascita (qui c'è una partecipazione di Battesimo per il nuovo arrivato della famiglia Cerino, nome: Bruno Benito Vittorio, 2 febbraio 1942, con il disegno di un neonato, nudo, ma con fez e bandoliera) in un mondo fatto di oggetti fascisti, parole fasciste, gesti fascisti. Diventare tutti figli di Mussolini senza accorgersene...«Creare un ordine nuovo comportava creare un nuovo italiano - ci dice accompagnandoci fra le sale Roberto Chiarini, per anni docente di Storia contemporanea all'Università degli Studi di Milano - e chi meglio dei giovani si offriva al dittatore come docile creta con cui forgiare un futuro soldato, votato a donare la vita alla causa del nazionalismo?». «Sulla generazione dei nati nel Ventennio - fa eco Elena Pala, professore a contratto alla stessa Università, mentre sistema le ultime didascalie e chiude le bacheche - il regime riversò tutte le sue energie. I grandi erano già perduti, i piccoli erano ancora vergini, da formare. E così li immerse in un universo di simboli, riti, pratiche educative e ricreative che ne plagiarono la coscienza». Ordine e disciplina. E la mostra, ordinatamente, ricostruisce il percorso attraverso il quale Italia e fascismo costituirono un'identità perfetta, indissoluta, inalterabile. La sezione «La patria in camicia nera» apre le porte alla fabbrica del consenso del regime, che investiva ogni assetto della quotidianità: il marchio Balilla ovunque, bicchierini Balilla, lamette da barba Balilla, una pianola giocattolo che suona solo l'Inno Balilla, il calendario dell'Anno fascista, un set fascistissimo da scrivania, soldatini in orbace, medaglie e gagliardetti, e la radio Balilla costruita con materiale autarchici... E su una parete della seconda sala è stato riprodotto un affresco degli anni Trenta, recentemente restaurato, della chiesa di Bagnolo Mella, a pochi chilometri da Brescia, con il vescovo e tre Balilla che lo accompagnano. Ecco il significato di «Dio, Patria e famiglia». Poi «La Scuola»: con la ricostruzione di un'aula dell'epoca, con il pavimento originale, i banchi dell'asilo e delle elementari (nel legno è incisa la frase «Credere, obbedire, combattere»), il crocifisso, la foto del Re e quella di Mussolini (del resto «Bisogna che la scuola sia profondamente fascista in tutte le sue manifestazioni», Benito Mussolini, 1935), la lavagna e le cartine geografiche dell'Impero con tanto di bandierine per segnare le nuove conquiste. E se raccoglievi abbastanza punti con le caramelle Elah potevi vincere la mappa dell'Etiopia. «L'Italia fascista è un'immensa legione che marcia sotto i simboli del Littorio verso un più grande domani nessuno può fermarla, nessuno la fermerà». Lì, su una parete - ma quasi non te ne accorgi, così come non ti ricordi i trascorsi di certi intellettuali - c'è la fotocomposizione fatta da Bruno Munari per la Rivista illustrata del Popolo d'Italia della statua in marmo di Carrara Era fascista (ma detta da tutti Il Bigio) realizzata nel '32 dallo scultore Arturo Dazzi e collocata in piazza della Vittoria qui Brescia (ma oggi è in un magazzino, per evitare proteste dell'Anpi). Le mostre, i libri, la ricerca scientifica servono proprio a questo: a contrastare i furori della cancel culture. Si prosegue nella lunga marcia del Fascismo. «Le colonie», «Il tempo libero» - e qui le foto sono spettacolari, nel loro spensierato consenso - e «Lo sport»: c'è persino la maglia del campione mondiale di ciclismo su pista del '34, Benedetto Pola, con la prima pagina della Gazzetta dello sport... Erano gli anni dei due Mondiali vinti dalla squadra degli Azzurri, delle avventure di Mandrache (ecco l'albo Il mago dello sport) e dei Littoriali. «L'atleta è l'espressione più sublime della vitalità di un popolo» recita l'Annuario dei Littoriali dello Sport del 1940. In una saletta di raccordo c'è anche un lungo video, di oltre un'ora, con i filmati dell'Istituto Luce su la «migliore» gioventù fascista. Si continua. Una sala è dedicata alla «Gioventù del Littorio» con baionette e manuali (in una teca un vero Moschetto, funzionante, con due proiettili), giberne e divise (una è di un signore che oggi ha 95 anni) e una riservata al «Cinema». Mussolini intuì che per conquistare gli italiani occorreva non solo permeare i comportamenti, ma le coscienze. E per farlo, l'età giusta è quella della scuola, dello sport, dei divertimenti. Poi, la tragedia. Le ultime stanze sono dedicate, una, all'8 settembre, «La scelta»: entrando in una saletta puoi scegliere di leggere, da un lato, sopra un tricolore, le motivazioni di chi scelse le brigate partigiane, e dal lato opposto, sopra una bandiera nera, quelle di chi scelse la Repubblica sociale. Quando bastava un nulla per trascinarti da una parte o dall'altra... ecco il vero dramma di una generazione. E l'altra sala, prima dell'uscita, è riservata alle «Testimonianze»: ci sono soltanto due monitor dove passano - frutto di un lavoro di interviste lunghissimo, iniziato prima del lockdown - i racconti di un milite della X Mas e di una partigiana che incarnano, su fronti contrapposti, ma con intricati legami fra le due famiglie, la guerra «armata» dopo l'Armistizio. Poi, certo, ci fu anche quella «senza armi». Della maggioranza degli italiani.
La proposta M5s: A Roma museo del fascismo. No secco dei partigiani. Redazione de Il Riformista il 3 Agosto 2020. La proposta era quella di aprire un museo del fascismo a Roma. L’iniziativa era stata promossa da un gruppo di consiglieri pentastellati con una mozione. Tra i primi firmatari Maria Gemma Guerrini che lo aveva definito “un grande museo” da realizzarsi in un sito di archeologia industriale che “funga da polo attrattore per scolaresche, curiosi, appassionati ma anche turisti da tutto il mondo”, prendendo a modello – sarebbe specificato nel testo – “operazioni culturali di analisi critica del periodo del nazismo”. Finalità culturale del museo sarebbe la “necessità di contrastare il negazionismo e l’ignoranza”. Il testo della mozione citerebbe inoltre i rigurgiti neofascisti che “anche recentemente hanno offeso Roma e i suoi cittadini”, come riporta il quotidiano Repubblica. Appena si è diffusa la notizia subito dall’Associazione Nazionale dei Partigiani è arrivato un no secco. “Manifestiamo – afferma il comitato provinciale Anpi di Roma – la nostra più viva contrarietà all’approvazione di simile mozione e invitiamo i proponenti a ritirarla”. A quel punto alla sindaca Virginia Raggi è toccato bloccare tutto: “Roma è una città antifascista, nessun fraintendimento in merito”, ha detto. “Apprendiamo che è in programma la discussione in Consiglio comunale della mozione che si propone di far nascere a Roma un Museo sul fascismo – scrive l’Anpi – dopo aver letto la mozione siamo allarmati: non si prevede esplicitamente un museo sui crimini del fascismo, sull’esempio di quanto realizzato in Germania, ma semplicemente sul fascismo. Immaginiamo quanti non vedano l’ora di poter dimostrare che il fascismo ha fatto anche cose buone. Nella mozione si fa inoltre riferimento sia al nazismo che alla guerra fredda e si arriva a citare il museo in Ungheria che a Budapest, oscenamente, accomuna nazisti e comunisti”. Tutto ciò, conclude l’Associazione dei partigiani, “viene previsto per un museo che verrà realizzato e gestito dalla prossima consiliatura capitolina, sui cui valori antifascisti nulla possiamo oggi prevedere, quando nel nostro paese non ci si vergogna più di citare Mussolini e dove il fascismo si esprime addirittura formando partiti che esplicitamente ad esso fanno riferimento e che tardano ad essere sciolti”.
Un museo del fascismo può essere solo antifascista. Giuliano Cazzola de Il Riformista il 7 Agosto 2020. Poco dopo la Marcia su Roma, Piero Gobetti, sulle colonne della rivista la Rivoluzione Liberale, definiva il fascismo come «autobiografia della nazione» facendo riferimento allo stretto collegamento esistente fra il successo del fascismo e il carattere profondo degli Italiani. L’analisi si è rivelata corretta non solo per le caratteristiche del Ventennio, ma soprattutto per descrivere il tasso di fascismo presente del dna degli italiani (e non solo di loro). Questo è un passaggio importante che ha accompagnato – anche a sinistra – il dibattito sulla natura dei movimenti sovranpopulisti, diffusi nelle grandi democrazie dell’emisfero occidentale e in Europa, addirittura a rischio di vittoria in Italia. Su questo aspetto si sono confrontate diverse tesi: la prima, prevalente, circoscriveva il fascismo ai regimi che raggiunsero il potere nella prima metà del secolo scorso e alle ‘’succursali’’ da loro aperte senza successo in altre nazioni (in tutta Europa e non solo vi furono partiti che si richiamavano alle teorie nazi-fasciste). Ne deriva, secondo questa tesi, che la situazione politica attuale non può essere paragonata a quella del ‘’fascismo realizzato’’ né i partiti sovranpopulisti possono accostati a quelle esperienze politiche. Quest’analisi condusse l’anno scorso, dopo l’autoaffondamento di Matteo Salvini, alcuni autorevoli intellettuali democratici e storici militanti della sinistra, a condividere la richiesta di elezioni anticipate, nonostante fosse prevedibile una vittoria del centrodestra a trazione neoleghista. La seconda tesi partiva da un’analisi differente del fascismo, inteso come una questione di valori, che si ripropongono nel tempo, magari con diverse modalità e forme adeguate ai cambiamenti intervenuti nella storia. Ma è pur sempre fascismo quello insito nelle «passioni tristi dell’Europa» messe all’indice da Macron nel discorso alla Sorbona: il nazionalismo, lo sciovinismo, l’identitarismo, il sovranismo e – perché no? – il razzismo. Quando si assumono questi disvalori quali riferimenti della propria azione politica non c’è bisogno di indossare il fez e la camicia nera, prendere d’assalto ed incendiare le Camere del Lavoro o la tipografia de l’Avanti!, usare il ‘’santo manganello’’ o purgare gli avversari con una buona dose di olio di ricino (quando non venivano uccisi nell’indifferenza dei Reali Carabinieri). Come scisse Primo Levi, ogni tempo ha il suo fascismo ed è possibile arrivare a quella situazione estrema «non necessariamente col terrore dell’intimidazione poliziesca, ma anche negando o distorcendo l’informazione, inquinando la giustizia, paralizzando la scuola, diffondendo in molti modi sottili la nostalgia per un mondo in cui regnava sovrano l’ordine». Gli argomenti di Levi sono stati ripresi nel saggio Fascismo. Un avvertimento da Madeline Albright già Segretario di Stato di Bill Clinton, e rivolti criticamente alle opposizioni. «Anzichè mobilitarsi – scrive ancora Albright – vanno avanti come se niente fosse, sperando che in futuro le cose migliorino, fino a che un giorno apriranno gli occhi, scosteranno le tende e si ritroveranno in uno Stato semifascista». Tutto ciò perché «il fascismo si nutre di malcontento sociale ed economico, per esempio della convinzione che le persone che stanno al potere ricevano molto di più di quello che meritano, mentre loro non ottengono ciò che gli spetta. L’impressione – prosegue l’ex segretario di Stato – è che oggi tutti abbiano un motivo di malcontento». Ecco perché le persone convinte di questa analisi hanno considerato con attenzione il formarsi di una coalizione giallo-rossa, allineata, nonostante le evidenti difficoltà, con l’Unione europea (questo confine strategico è custodito dal Pd), quale presidio irrinunciabile dello Stato di diritto e di ordinamenti solidali e democratici. È su questo sfondo che si è aperto un dibattito estivo sulla proposta di alcuni consiglieri grillini di Roma di istituire un Museo storico sul regime fascista (Msrf), allo scopo, tra gli altri, di sostenere il turismo. La prima a dichiararsi contraria – anche per il tipo di turismo che sarebbe sollecitato a visitare il Museo – è stata la sindaca Virginia Raggi, oltre al solito seguito dell’antifascismo militante. Ma in questi giorni vi sono state personalità al di sopra di ogni sospetto che hanno ritenuto utile ed importante una iniziativa siffatta, in nome di una visione complessiva della nostra storia. È certamente, questa, una giusta presa di distanza dalla disperata ed insensata follia iconoclasta che percorre in lungo e in largo l’Occidente, facendo pagare alle statue e ai monumenti le colpe attribuite ‘’ora per allora’’ ai personaggi raffigurati. Ma davvero esiste la necessità di un giudizio storico del fascismo che non sia unilaterale e schematico? La storiografia da Renzo De Felice in poi ha promosso una revisione di quel periodo, approfondendo le ragioni di fondo (non solo il ricorso alla violenza e la connivenza delle istituzioni e del potere economico) che decretarono il successo, l’affermarsi e il consenso del regime, a partire dai gravi errori degli avversari. Purtroppo, in Italia è presente un antifascismo prigioniero del passato (magari sottovalutando quello di oggi senza camicia nera) al pari del neofascismo che si dichiara esplicitamente. Basti pensare che nella passata legislatura la Camera approvò un progetto di legge (per fortuna lasciato cadere dal Senato) presentato da un deputato colto ed intelligente, come Emanuele Fiano, che se la prendeva soltanto con i riti, i simboli e i gadget del fascismo e del nazionalsocialismo ‘’tedesco’’. Ciò significava – paradossalmente – che sarebbe stato possibile collezionare le cianfrusaglie degli Ustascia croati di Ante Pavelic o della Falange franchista, oppure delle Croci Frecciate ungheresi. E magari anche i simboli della Guardia di ferro rumena o della British Union of Fascists o delle Camice blu irlandesi oppure della Nasjonal Samling norvegese e del Movimento patriottico del popolo in Finlandia. È altrettanto rappresentativa la canea che hanno suscitato i romanzi storici attraverso i quali Giampaolo Pansa ha tentato di suscitare un minimo di pietas per quanti combatterono la guerra civile dalla parte sbagliata (come affermò Luciano Violante, da presidente della Camera, in un celebre discorso). Tutto ciò premesso, penso che un Msrf – anche se fosse istituito – sarebbe destinato necessariamente a diventare un Museo dell’antifascismo, perché il giudizio su questo pezzo di storia italiana è stato dato ed è irrevocabile. E, quindi, non potrebbe che essere l’antifascismo la premessa culturale del museo. Una Costituzione, che stabilisce l’ordinamento di un Paese, nasce sempre da una rottura radicale e polemica con il suo passato. Così è stato anche per la Carta del 1948. Nessuno penserebbe di rivedere il giudizio storico sul Risorgimento e l’Unità di Italia, anche se è necessario sfrondarlo da un’agiografia priva di fondamento (Cavour diceva di Mazzini «se lo prendo lo faccio impiccare»; Garibaldi fu ferito dai bersaglieri, ecc.), magari raccontando la oscura verità sulla repressione del c.d. banditismo. E stigmatizzando il trattamento riservato, alla stregua di traditori, ai soldati che avevano combattuto agli ordini degli Stati sovrani preunitari. Ma che senso avrebbe un Museo sul Regno dei Borboni? Magari potrebbe servire a ristabilire una narrazione più oggettiva e meno caricaturale. Il punto di osservazione, tuttavia, non potrebbe che essere quello dell’Unità d’Italia, perché la storia la scrivono sempre i vincitori.
Niente Museo del Fascismo perché l'ignoranza fa comodo. Un museo del fascismo, allestito come si deve, sarebbe utile. Le istituzioni di questo tipo non sono luoghi di svago, ma di cultura e ricerca di prima mano. Alessandro Gnocchi, Martedì 04/08/2020 su Il Giornale. Un museo del fascismo, allestito come si deve, sarebbe utile. Le istituzioni di questo tipo non sono luoghi di svago, ma di cultura e ricerca di prima mano. Non si può capire un certo ambiente futurista senza conoscere l'archivio del Mart di Rovereto. Inutile rompersi la testa su Gabriele d'Annunzio se poi si trascura l'Archivio del Vittoriale. Per questo è sbagliato il muro d'ostilità verso la proposta, lanciata a Roma, di aprire un museo dedicato al Fascismo. Già un progetto analogo a Predappio è naufragato ancora prima di partire. Chi si oppone ha il timore che, anche involontariamente, l'esposizione diventi un'apologia della dittatura mussoliniana. Perché mai dovrebbe esserlo, se ben fatto? Nei Paesi dell'Est ci sono numerosi musei del Comunismo. Non risulta che i più noti siano diventati covi di nostalgici. In Italia esistono le persone qualificate per realizzare un lavoro con i fiocchi. Un museo del Fascismo serve a storicizzare, comprendere e superare il passato che ancora ci tormenta. Appena il livello dello scontro si alza, il dibattito pubblico ripiomba ogni volta nelle accuse (reciproche) di fascismo. Davvero qualcuno crede che i totalitarismi e la dittatura possano ancora riproporsi nelle forme novecentesche? Allora, a maggior ragione, dovrebbe sostenere l'idea di un museo del Fascismo. Come evitare di ripetere gli errori del passato, se non incentivandone la conoscenza? Sarebbe un'occasione per studiare a dovere anche gli aspetti scabrosi e criminali del Ventennio, a partire dalle leggi razziali. La mostra alla Fondazione Prada, Post Zang Zang Tumb Tuuum. Art Life Politics: Italia 1918-1943, a cura di Germano Celant, è stata tra le più importanti nell'ultimo periodo (era il 2018). Ha dimostrato che il fascismo aveva una cultura. Bella, brutta, ideologicamente da condannare? Il giudizio era lasciato al visitatore, ma l'esposizione non era certo liquidabile con il bollino «propaganda neofascista». Al MuSa di Salò c'è un'ampia sezione dedicata alla Repubblica Sociale e alla guerra civile, con un'attenzione particolare alla propaganda. Anche in queste sale, nonostante le polemiche preventive, non c'è nulla se non il desiderio di essere consapevoli della propria storia. In ottobre, a Brescia, aprirà la mostra Giovani sotto il fascismo organizzata dal Centro Studi sulla Rsi diretto da Roberto Chiarini. L'apparato fotografico si annuncia straordinario per il valore scientifico. Non c'è alternativa alla ricerca, a meno che non si voglia utilizzare l'ignoranza per fini politici, in una direzione o nell'altra.
«Il popolo è una puttana e va col maschio che vince» (Mussolini a proposito del sentimento filotedesco in Italia dopo i primi successi della Wermacht) (Renzo De Felice, Breve storia del fascismo, Mondadori)
“Le spie del Duce”. Un libro racconta chi erano. Cristiano Puglisi il 27 giugno 2020 su Il Giornale. “Stato di polizia”. Negli ultimi mesi, segnati dall’emergenza Covid e dal lockdown, questa definizione è stata più volte accostata all’approccio adottato dal governo italiano nel gestire il confinamento dei suoi cittadini. Qualcuno ha anche parlato, impropriamente, di “fascismo”. Già, ma com’era la rete del controllo sociale nell’Italia del Ventennio? Un racconto dettagliato è contenuto nell’ultimo libro di Domenico Vecchioni, “Le spie del Duce”, pubblicato dalle Edizioni del Capricorno. Vecchioni, classe 1945, è uomo di profonda cultura e competenza: saggista e divulgatore con all’attivo decine di pubblicazioni, ha alle spalle una lunga carriera nel corpo diplomatico, avendo ricoperto, tra gli altri, i ruoli di consigliere alla NATO a Bruxelles, console generale d’Italia a Nizza, vice rappresentante permanente al Consiglio d’Europa a Strasburgo, ambasciatore d’Italia a Cuba. Questo suo ultimo lavoro è un testo che, come ci tiene a precisare, non da del fascismo un giudizio storico o politico. “Mi limito a raccontare – spiega – a fini meramente divulgativi, il funzionamento degli apparati di polizia politica inventati dal regime per verificare la ‘qualità del consenso’ degli italiani, controllare le correnti politiche di opposizione, mantenere il potere e proteggere il Duce. Durante il Ventennio in Italia si verificò il classico fenomeno (comune a tutti i regimi dittatoriali) di identificazione del partito vincitore con le strutture dello Stato conquistato. Il regime fascista insomma si statalizzò o meglio lo Stato italiano si fascistizzò. Gli interessi della collettività dovevano fondersi con i superiori ideali della nuova dottrina tesa a forgiare l’uomo nuovo, in una nuova società dove tutti settori istituzionali avrebbero dovuto adeguarsi alle esigenze del regime. Insomma essere un buon cittadino voleva dire essere un buon fascista e viceversa. Io credo che la peggiore colpa delle dittature (che finiscono per somigliarsi nelle loro strategie di sopravvivenza, a qualsiasi ideologia si ispirino) consiste forse proprio in questa drammatica deriva costituzionale che mette il Partito Unico al di sopra dello Stato e delle sue istituzioni, spingendo verso estremismi ideologici che non conoscono più limiti. Deriva peraltro in Italia in qualche modo temperata, rispetto ad esempio a quanto avvenne in Germania o in Unione Sovietica, dalla presenza di istituzioni storiche come la Chiesa cattolica e la Monarchia”. Temperata, certo, ma questo comunque non impedì al regime di intercettare il dissenso, attraverso un variegato apparato di spie. “L’apparato era molto efficiente – spiega ancora l’autore – Soprattutto l’OVRA, la polizia politica creata da Arturo Bocchini, abilissimo capo della Pubblica sicurezza, grand commis dello Stato fascista, il Fouché di Mussolini, come venne definito, non senza una punta di ammirazione, dai suoi stessi avversari. Intanto sgombriamo il campo dal dibattito sul significato dell’acronimo. Molte furono le interpretazioni date. La più gettonata fu Organismo di Vigilanza e di Repressione dell’Antifascismo. In realtà il termine OVRA fu scelto a tavolino, probabilmente dallo stesso Mussolini che da grande giornalista aveva il segreto delle formule ad effetto, per la poco rassicurante assonanza con la parola PIOVRA. Si voleva insomma impressionare il paese evocando l’esistenza di una temibile rete informativa che operava al di fuori delle strutture ufficiali. Una piovra invisibile avvolgeva tutto il paese e sarebbe stata l’occhio del regime che tutto vedeva e tutto controllava, costantemente puntato contro chi fosse stato tentato di atteggiamenti poco ortodossi. Insomma una sorta di orwelliano Grande Fratello ante litteram. L’OVRA ebbe sostanzialmente successo nella missione che le era stata affidata: salvaguardare il regime e proteggere il suo Duce. Era un organismo snello (non più di 500/600 elementi) e professionale. Non aveva bisogno di organici elefantiaci. Gli altri organismi di sicurezza avevano in effetti l’ordine di collaborare pienamente con i super ispettori dell’OVRA. D’altra parte le informazioni affluivano in abbondanza per via dei delatori occasionali, ‘free lance’ per così dire. Sotto il fascismo ce ne furono a migliaia, presenti in tutte le classi sociali, animati da motivazioni diverse: ideologia, soldi, vendetta, ma anche auto-protezione. Il sistema operativo dell’OVRA era basato, più che sulla repressione, sull’infiltrazione in tutti i settori di attività. Non si sporcava cioè direttamente le mani. A completare il lavoro ci pensava il Tribunale Speciale per la Sicurezza dello Stato, cui l’OVRA forniva molto materiale. Agiva in maniera capillare, con freddezza ed obiettività, preferendo in genere minacciare l’uso della forza piuttosto che esercitarla e cercando di reclutare invece di arrestare, prevenire per non reprimere. Il periodo di maggiore successo fu dal 1927 al 1935. Il regime si consolidò, la delazione fece meraviglie, le lance dell’antifascismo si spuntarono e l’opposizione fu inchiodata al muro. Oramai l’OVRA poteva pensare anche ad altro. Ad esempio prendere di mira i corrotti e i profittatori del regime. Con la guerra iniziò lo sfaldamento delle sue strutture”.
Il controllo non si limitava ai confini nazionali, ma si estendeva anche all’estero. “Qui – spiega Vecchioni – bisognerebbe fare una distinzione tra la diplomazia ufficiale e la rete dei falsi diplomatici che infestarono ambasciate e consolati italiani (di cui parlo nel mio libro). La diplomazia ufficiale, come altri corpi dello Stato, contribuì senza dubbio a promuovere il regime e le sue opere sia presso le autorità locali che nell’ambito delle comunità italiane emigrate. All’insegna appunto di quella identificazione Stato/fascismo di cui parlavo prima e nella prospettiva di una politica estera molto più attiva rispetto al passato, con estensione a nuovi teatri operativi (ad esempio i Balcani o il Giappone). L’attività di spionaggio politico fu invece portata avanti dagli agenti della Ceka prima e dell’OVRA poi, distaccati presso i nostri uffici all’estero (soprattutto i Consolati) sotto varie coperture diplomatiche, in genere notificati come Vice Consoli. Compito di queste spie, falsi diplomatici? Infiltrare i raggruppamenti di fuoriusciti, disinformarli, tentare di divederli, di metterli in competizione e procedere magari a qualche ‘esfiltrazione’ o arresto illegale per riportare in patria qualche ricercato. Insomma tenerli d’occhio. Uno dei principali centri di questo tipo era inserito nel Consolato Generale di Nizza (dove peraltro io sono stato Console Generale dal 1999 al 2003), molto attivo in Costa Azzurra, primo approdo per gli esuli antifascisti. Il tutto nel quadro di una strettissima collaborazione tra il Ministero degli Esteri e quello dell’Interno, facilitata dal fatto che il ministro era lo stesso: Benito Mussolini! Il Duce in effetti tenne l’interim dei due strategici ministeri per molti anni. Per l’aneddoto, a Nizza, nella sede del Consolato (un bell’edificio in puro stile littorio) , c’è ancora quella che chiamano la “prigione del Consolato”, una camera vera e propria camera di sicurezza utilizzata per chissà quali iniziative segrete…Anche lo spionaggio militare fu ristrutturato con la creazione del SIM (Servizio Informazioni Militari) per una gestione coordinata dei servizi segreti esistenti presso ciascuna Arma. In tale contesto gli addetti militari presso le nostre ambasciate furono caldamente invitati a collaborare, facendo la loro parte…”.
Nel libro un buono spazio è dedicato anche alle storie personali delle più importanti “spie del Duce”. “Molto interessante – dice al riguardo Vecchioni – è la figura di Luca Osteria, la Primula nera del regime fascista. Abilissimo soprattutto nelle operazioni di infiltrazione negli ambienti antifascisti all’estero, come quella che realizzò a Marsiglia nel 1928. Fu talmente abile nel farsi credere un sincero antifascista, che nel 1929 il partito comunista italiano, in esilio in Francia, lo inviò a Berlino come suo rappresentante alla prima conferenza internazionale antifascista. Così una spia del Duce intervenne in maniera credibile e apprezzata come delegato del PCI! Ma fu anche un temibile agente operativo. Fu protagonista di una rocambolesca “esfiltrazione” dall’Australia di un italiano che minacciava di fare dichiarazioni eclatanti sul caso Matteotti, riaprendo così una ferita politica appena rimarginata. Primula nera tuttavia che fiutando con diabolica abilità il cambiamento del vento della Storia, avviò un sofisticato doppio gioco con i colleghi tedeschi della Gestapo, per salvare la vita a diversi resistenti. Lo stesso Indro Montanelli lo testimonierà, affermando che la sua evasione nel 1944 dal carcere di San Vittore, dove era stato rinchiuso per antifascismo, fu organizzata proprio da Luca Osteria. Il ‘dottor Ugo’ (uno dei tanti nomi in codice di Osteria) finì per collaborare addirittura con Ferruccio Parri, quando il leader azionista divenne capo del governo. Insomma la migliore spia del regime nel dopoguerra ricevette lettere di ringraziamento e di gratitudine anche da parte dei resistenti da lui aiutati”.
Maurizio Caverzan per la Verità l'11 giugno 2020. Bisogna essere grati a Pietro Suber per il lavoro che ha portato alla realizzazione di Lili Marlene - La guerra degli italiani, il documentario in onda stasera e domani su Focus, il canale Mediaset al tasto 35 del digitale terrestre e al 414 della piattaforma Sky, a ottant’anni dalla dichiarazione di guerra del 10 giugno 1940. Bisogna essere grati a Videonews che ha dato risorse e tempo necessari per confezionare questo film che andrebbe mostrato nelle scuole, più utile di tanti libri di storia, per far capire davvero chi siamo e da dove veniamo. Il merito di autori e produttori risiede anche nel fatto che in Lili Marlene non ci sono tesi precostituite come quelle che pilotano tanti doc approntati per la narrazione mainstream. Una nota a parte merita anche la scelta felice di alternare grandi pezzi rock con le canzoni d’epoca che abbiamo sentito cantare dai nostri genitori. Avvalendosi della collaborazione dello storico del fascismo, Amedeo Osti Guerrazzi, e della sceneggiatrice Donatella Scuderi, Suber ha coinvolto fra gli altri l’ex presidente della Repubblica Giorgio Napolitano che si racconta balilla, Eugenio Scalfari che ricorda che tutti gli italiani erano fascisti salvo diventare antifascisti quando il regime cadde, Pupi Avati, che rivela il fremito dal quale è percorso ancor oggi quando sente parlare in tedesco, Dacia Maraini che parla della fame che spinge a mangiare «anche serpenti». La parabola del regime, dalla proclamazione delle leggi razziali alle vendette della Resistenza, è vista attraverso le immagini dell’Istituto Luce e gli occhi di Pierfrancesco Ciano, nipote di Galeazzo, il genero del Duce che fu ucciso dopo che, il 25 luglio 1943, aveva votato per la destituzione di Mussolini. L’autore ha scovato nelle pieghe di alcuni eventi poco frequentati dalla storiografia corrente come la strage di Castro dei Volsci e la tragedia dell’Arandora Star, i racconti di persone scampate ad agguati e sevizie. Tra i quali è difficile isolare quelli più strazianti o le ammissioni più dolorose. Come quella dell’ex capo partigiano Edoardo Succhielli, che con l’uccisione di due tedeschi provocò la cruenta rappresaglia di Civitella Val di Chiana: «La Resistenza non è mica tutta fatta di azioni ben studiate, ben congegnate. Quella fu un’azione sbagliata, noi abbiamo purtroppo portato la rovina in quel paese». O come la storia di Fiamma Morini, ex ausiliaria della decima Mas che si dichiara «fascista dentro», e di Carlo Bretzel, ex partigiano sul Grappa che, messi a confronto, documentano il permanere di una riconciliazione difficile. Testimonianze proposte senza pregiudizi. Da ascoltare e meditare.
Romano Prodi invita a imitare Mussolini. Fase 2 e modello Iri, l'ultimo fronte. Fausto Carioti su Libero Quotidiano il 04 maggio 2020. Mussolini ha fatto cose buone. Che ora meritano di essere replicate. Firmato Romano Prodi. Ci volevano il Covid-19 e il Mortadellone del parastato industriale per svelare quello che tutti sanno eppure pochi hanno il coraggio di dire, e che ovviamente nulla toglie all' infamia delle leggi razziali, alla scelleratezza dell' entrata in guerra e al carattere liberticida del regime. Tira infatti aria di interventismo e grandi nazionalizzazioni. Aria di un nuovo Istituto per la ricostruzione industriale, anche se stavolta si chiamerà Cassa depositi e prestiti o in altro modo. E se Iri ai giorni nostri vuol dire Prodi, per la Storia significa Benito Mussolini e Alberto Beneduce. Ambedue eredi, ognuno a modo proprio, dell' Idea Nuova Socialista (in maiuscolo, perché è anche il nome che Beneduce diede a una delle sue figlie, la quale andò in sposa ad Enrico Cuccia, signore di Mediobanca e della finanza laica del dopoguerra). Era il gennaio del 1933 quando l' Iri nacque: il fascismo e l' antifascismo di matrice azionista andavano a braccetto già da qualche anno, sotto il cielo delle partecipazioni statali. Prodi lo sa, e nell' articolo che ha firmato per Il Messaggero di ieri dà un contributo, sebbene piccolo e tardivo, a questa verità storica. «Quando divenni presidente dell' Iri, nel 1982», scrive, «per prima cosa andai a chiedere al professor Pasquale Saraceno, che da giovane laureato, a fianco di Alberto Beneduce, aveva presenziato all' incontro con Mussolini sulla fondazione dell' Iri, quale era stata la motivazione ideologica che stava alla base di quella decisione». La richiesta del Duce, racconta l' ex leader dell' Ulivo, «si era espressa con una semplice frase: "Fate qualcosa per queste imprese"». E anche oggi, prosegue Prodi, «bisogna fare "qualcosa". Non certo un' altra Iri, perché il contesto economico è totalmente cambiato, ma occorre certamente una politica pubblica che aiuti la ripresa delle nostre imprese». Ricetta corretta - Un lungo discorso per dire che la ricetta di Mussolini era corretta. Così azzeccata, a partire dalla «motivazione ideologica» che vi era dietro, da dover essere riprodotta adesso. Allora fu per salvare la Banca Commerciale e gli altri istituti travolti dalla crisi del '29, dalla cui sopravvivenza dipendevano le sorti delle industrie italiane, e poi andò come si sa. Oggi è per ricapitalizzare le imprese ridotte sul lastrico dall' epidemia, ed è facile prevedere che il risorgente "capitalismo di Stato" pure stavolta durerà a lungo, partirà con le migliori intenzioni e ne combinerà poi di tutti i colori. Il resto di quel sodalizio, innaturale solo in apparenza e su cui la storiografia repubblicana ha sempre preferito sorvolare, lo raccontano i documenti dell' epoca. Il fatto che Beneduce, classe 1877, fosse stato parlamentare e ministro social-riformista nel governo Bonomi e fosse notoriamente massone, Gran Sorvegliante del Grande Oriente d' Italia dal 1912, non impedì a Mussolini di affidargli pieni poteri nel disegnare l' assetto finanziario e industriale dell' Italia fascista, preferendolo per la presidenza dell' Iri ad altri personaggi che gli erano stati proposti dai gerarchi, non adatti alla «ampiezza e l' importanza» - scriveva al ministro delle Finanze Guido Jung - del progetto che aveva in mente. Come a Deng Xiaoping, a Mussolini non importava che il gatto fosse bianco o nero, ma solo che acchiappasse topi. Né il fatto di essere socialista impediva a Beneduce di allinearsi al regime, in camicia bianca anziché nera, e scrivere allo stesso Jung, nelle lettere in cui perorava la costituzione dell' Iri, frasi come «un solo pensiero domina il mio spirito: servire il Paese, il Regime, e il Duce che merita la devozione di ogni italiano». Queste, piaccia o meno, sono le radici del grande intervento dello Stato italiano nell' economia, che oggi Prodi, i suoi compagni del Pd e i miracolati a Cinque Stelle vogliono replicare. (Tutto ciò per tacere della Rai, fondata nel 1927 da Mussolini con il nome di Eiar, dell' Inps, creato nel 1933, e del resto del parastato industriale, previdenziale e assistenzialistico costruito nel ventennio dal capo del fascismo. Quando certi giornalisti del servizio pubblico e gli alfieri progressisti dello Stato sociale negano che la Buonanima abbia fatto qualcosa di buono, insultano pure se stessi e la loro storia).
Alberto Busacca per “Libero quotidiano” il 5 maggio 2020. Quando si parla dei rapporti tra Benito Mussolini e la Gran Bretagna viene in mente, per prima cosa, il mitico e misterioso "carteggio" tra il Duce e l' ex primo ministro del Regno Unito Winston Churchill. Oppure, in alternativa, i duri attacchi del fondatore del fascismo contro la "perfida Albione" (che, per chi non lo sapesse, era l' antico nome, forse celtico, dell' isola). O ancora possono tornare alla memoria le vecchie canzoni di guerra del Regime, come la Sagra di Giarabub ("Colonnello, non voglio encomi, sono morto per la mia terra, ma la fine dell' Inghilterra incomincia da Giarabub") o l' inno della Decima Flottiglia Mas ("Decima Flottiglia nostra che beffasti l' Inghilterra, vittoriosa ad Alessandria, Malta, Suda e Gibilterra"). Insomma, per farla breve, quello tra Mussolini e la Gran Bretagna non è stato propriamente un rapporto facile. Non è stata una storia tutta rose e fiori, neanche un po'. Eppure, almeno all' inizio, sembrava che potesse nascere un grande amore. Sembrava. Poco prima del Natale del 1922 Mussolini non è ancora il padrone assoluto dell' Italia. Ma, da meno di due mesi, dopo la Marcia su Roma, è comunque diventato presidente del Consiglio. E il primo viaggio da "premier" in una capitale estera lo fa proprio a Londra, dal 9 al 12 dicembre, per i lavori della Conferenza interalleata, che deve occuparsi dei debiti tra le nazioni vincitrici del primo conflitto mondiale e dei risarcimenti dovuti dalla Germania e dall' Austria. Non proprio una vacanza, quindi, però per Mussolini si rivela una bella sorpresa. Gli inglesi, infatti, dalla classe politica alla gente per la strada, lo guardano con curiosità e rispetto, considerandolo l' uomo che ha fermato l' avanzata del comunismo in Italia. A raccontare e ricostruire quel viaggio, dopo decenni passati nel dimenticatoio, ci ha pensato oggi Fabrizio Vincenti nel suo Welcome signor Mussolini. L' unico viaggio del Duce a Londra (Eclettica Edizioni, pp.192, 16 euro). E fa impressione, quasi un secolo dopo, rileggere il ricordo di Quinto Navarra, "cameriere" e uomo di fiducia del capo del fascismo per oltre vent' anni: «Non ricordo entusiasmo pari a quello, nemmeno in Germania. Il delirio con cui la folla ci accolse alla stazione Victoria è indimenticabile. Procedevamo a stento tra una marea umana che gridava, accecati dai lampi di magnesio dei fotografi».
A PALAZZO. Un' accoglienza da rockstar, accompagnata perfino da qualche saluto romano, che lascia di stucco gli stessi protagonisti. E non è ancora tutto. Perché poi Mussolini, ex socialista, figlio di un fabbro e di una maestra, viene anche ricevuto a Buckingham Palace da Re Giorgio V, che l' anno successivo lo insignirà dell' Ordine del Bagno, importante ordine cavalleresco. Il Duce, come i politici di oggi, ci tiene poi a far sapere di conoscere le lingue. Pur non nascondendo qualche difficoltà. «Mussolini», scrive il Popolo d' Italia, «non essendo mai stato precedentemente oltre Manica, non possiede la pronuncia inglese, ma conosce correttamente la lingua, che imparò da solo in due mesi di ospedale di guerra». Inoltre, continua l' articolo, «segue ogni giorno l' attitudine dei principali giornali d' Inghilterra, perciò il mondo giornalistico britannico non gli è sconosciuto. Anche in queste ore di lavoro febbrile, tra un colloquio a Downing Street e lo studio di documenti al Claridge Hotel, egli si interessa con passione a quanto scrivono i giornali d' Inghilterra in tutte le loro edizioni». Già. E quanto scrivono i giornali, per il premier italiano, è motivo di orgoglio e soddisfazione. «L' avvento dell' on. Mussolini costituisce un evento eccezionale», lo esalta il Daily Mail. «Nell' odierna conferenza», spiega invece il Daily Express, «avremo un attore preminente. L' on. Mussolini ha ereditato e sviluppato il dono di chi sa concentrare su di sé la generale attenzione. L' on. Mussolini è sorprendente».
VERSO LA GUERRA. Nonostante la bella esperienza, però, il Duce a Londra non torna più. Anzi, i rapporti tra lui e la Gran Bretagna peggiorano rapidamente, sebbene l' anglofilo ministro degli Esteri Dino Grandi tenti invano di coltivare l' amicizia tra i due Paesi. «Sono stufo», si sfoga Mussolini nel 1935, «di questi dannati inglesi che pretendono di vedere tutto il mondo ai loro piedi». E nel 1939 è ancora più duro: «Il pensiero anglosassone è la peste del mondo. Gli inglesi un popolo che pensa al culo». Sono gli anni dell' asse con Berlino, e la strada è ormai segnata. Il 10 giugno 1940 il Duce dichiara guerra alla Gran Bretagna, e come è finita lo sappiamo. Del viaggio di Benito a Londra non si parla più. Forse anche perché gli inglesi un po' si sono vergognati di quella marea umana che ha accolto festante il fondatore del fascismo alla stazione Victoria.
· L’8 settembre: corsi e ricorsi storici.
Fino all'ultimo giorno: la guerra giapponese dei sommergibili Cappellini e Torelli. Andrea Cionci su Libero Quotidiano il 22 agosto 2020.
Andrea Cionci. Storico dell'arte, giornalista e scrittore, si occupa di storia, archeologia e religione. Cultore di opera lirica, ideatore del metodo “Mimerito” sperimentato dal Miur e promotore del progetto di risonanza internazionale “Plinio”, è stato reporter dall'Afghanistan e dall'Himalaya. Ha appena pubblicato il romanzo "Eugénie" (Bibliotheka). Ricercatore del bello, del sano e del vero – per quanto scomodi - vive una relazione complicata con l'Italia che ama alla follia sebbene, non di rado, gli spezzi il cuore.
Per la maggior parte dei 3.430.000 militari italiani, la guerra finì l’8 settembre 1943; per i 140.000 dell'Esercito cobelligerante del Sud e per gli 850.000 combattenti di Salò terminò con la resa della Germania l’8 maggio ’45, ma uno sparuto gruppo di nostri marinai depose le armi solo il 2 settembre 1945, con la formalizzazione della resa del Giappone che era stata già preannunciata, pure, dal discorso radiofonico di Hirohito due settimane prima, il 15 agosto. E’ la storia dei sommergibili “Comandante Cappellini” e “Luigi Torelli”, sulla cui tolda sventolarono ben tre bandiere: il tricolore con lo scudo sabaudo, la svastica e infine il sol levante rosso in campo bianco. Non basta: l’ultimo aereo americano abbattuto della guerra si deve, secondo numerose testimonianze, proprio alla mitragliera di uno di questi. L’episodio si verificò nella baia di Kobe esattamente 75 anni fa, il 22 agosto del ’45. La carenza di materiali strategici era stata, per tutto il conflitto, un’ossessione delle potenze dell’Asse. I tedeschi avevano stretto un accordo coi giapponesi per barattare prodotti chimici sofisticati (chinino e mercurio) in cambio di gomma grezza, stagno e metalli rari. Visto però che le navi per l’estremo Oriente venivano spesso affondate dagli Alleati, il comandante della Kriegsmarine, Großadmiral Karl Dönitz, propose di impiegare per il trasporto sommergibili atlantici italiani, più capienti e adatti alla lunga navigazione, ma meno agili degli U-Boot tedeschi, che sarebbero stati forniti, in egual numero, all’Italia. Lo scambio fu gradito da tutti i cobelligeranti, così furono messi a disposizione della Germania cinque nostri sommergibili che presero il nome di ”Flotta del Monsone”: due vennero affondati in Atlantico mentre altri tre, il Giuliani, il Torelli e il Cappellini, proseguirono verso l’estremo Oriente con il loro carico. Dopo un viaggio lungo e difficile, l’8 settembre ’43 colse i primi due a Singapore, il terzo a Sabang, in Indonesia. I giapponesi imprigionarono i nostri equipaggi, ma dopo qualche settimana di dura prigionia, la costituzione della Repubblica sociale italiana permise alla gran parte dei marinai, escluso un buon numero di ufficiali che scelsero la fedeltà al Re, di proseguire la guerra con l’Asse. I tre sommergibili passarono, quindi, al Terzo Reich che li nominò U.IT. (italienische Unterseeboot) 23, 24, 25, con equipaggi misti italo-tedeschi. L’U.IT 23, ex-Giuliani, fu affondato nello Stretto di Malacca nel ’44 mentre il 24, ex-Cappellini, e il 25, ex Torelli, proseguirono le loro missioni fino all’8 maggio ’45, quando la Germania depose le armi. Anche stavolta gli equipaggi vennero prudenzialmente internati dai nipponici, ma un paio di mesi dopo, con l’integrazione dei sommergibili nella marina giapponese, alcuni marinai tedeschi e una ventina di italiani scelsero di continuare la guerra, stavolta al servizio dell’Imperatore Hirohito. Una volta issata la Kyokujitsu-ki, la bandiera col sole nascente, i battelli vennero rinominati I-503 e I-504 ed essendo molto usurati vennero ormeggiati nel porto di Kobe per essere sottoposti a lavori di ripristino. Né dopo le atomiche, né dal cantiere rifiutarono il combattimento: durante il bombardamento americano del 22 agosto su Kobe, l’equipaggio italiano del Cappellini (o del Torelli, secondo altre fonti) con la mitragliera Breda da 13,2 mm, abbatté un bombardiere Usa B-25 “Mitchell”. Fu con ogni probabilità l’ultimo successo militare nello spirito del Patto tripartito. Come per tutti i militari della RSI, anche questi marinai furono privati, dopo la guerra, del grado e della pensione. Nota è la scelta del sergente motorista Raffaello Sanzio che, per protesta verso il trattamento, scelse di rimanere in Giappone, dove si sposò e cambiò il proprio cognome con quello della moglie, Kobayashi.
L’8 settembre che torna. Marcello Veneziani, La Verità 8 settembre 2019. Italiani, oggi è la nostra vera festa nazionale. Viviamo un ciclico, perenne otto settembre. Anche se non c’è la guerra, anche se non c’è il fascismo, la sindrome del voltafaccia, del tradimento versipelle e della cessione di sovranità si ripete a ogni giro di boa, a un livello sempre più basso, e sempre più infame, inventandosi ogni volta un fascismo che non c’è più, un tiranno da rovesciare e un’inesistente guerra alle porte da sventare. Lo spirito dell’8 settembre è ancora vivo e operante. Non a caso, l’8 settembre è pure il dodicesimo anniversario del Vaffa day di Beppe Grillo. Un movimento nato o consacrato l’8 settembre contro tutti i poteri e i potentati; e con quella parola chiave non poteva che concludere la sua parabola ingloriosa negli stessi giorni di settembre, nel modo a cui stiamo assistendo, asservito all’eurocrazia e alla cupola della sinistra, tramite un pregiato maggiordomo, il prof.avv. Giuseppe Conte e il suo Badoglio bis. L’8 settembre è la sintesi della nostra storia e del carattere proprio delle nostre classi dirigenti, sovrastanti e dominanti, ben riassunto in un verbo inventato dagli angloamericani, il verbo badogliare (to badogliate) dal famoso Maresciallo d’Italia Pietro Badoglio, capo provvisorio del governo italiano. Per gli storici Renzo De Felice ed Ernesto Galli della Loggia l’8 settembre segnò la morte della patria; a me pare invece che si sciolse il nesso tra gli italiani e lo Stato, tra il Paese e le istituzioni e ciascuno fu lasciato in balia degli eventi e di se stesso. Fu sicuramente il giorno in cui gli italiani avvertirono lo spaesamento e lasciarono l’Italia all’ufficio oggetti smarriti. Sul piano storico l’8 settembre è una data fittizia, o quantomeno convenzionale. Il nuovo governo italiano voleva che la data dell’Armistizio fosse resa nota più tardi; gli americani invece desideravano anticiparla perché avevano urgenza di dare psicologicamente un supporto allo sbarco dei loro soldati a Salerno. L’8 settembre è una data simbolica e teatrale, perché è la rappresentazione pubblica e drammaturgica di un fatto già avvenuto e che avrebbe preso corpo solo successivamente. L’evento cruciale risale, in realtà, all’armistizio di Cassibile del 3 settembre; e l’armistizio lungo fu sancito a Malta il 29 settembre col passaggio di fronte dalla parte degli Alleati angloamericani. Infine ci fu la dichiarazione di guerra dell’Italia post fascista alla Germania, il 13 ottobre, più di un mese dopo rispetto all’Armistizio. Cosa resta negli italiani dell’8 settembre del ’43? Nella memoria poco o niente, nel carattere tanto o tutto. Resta lo spaesamento, nel senso etimologico di perdita del Paese. Resta la desolazione, anche nel senso di perdita del suolo. Resta la fine dello Stato, alibi sontuoso per il sisalvichipuò dell’egoismo e del familismo amorale. Resta la religione di Kazzimiei; badiamo ai fatti nostri che qui non si capisce niente e il potere cambia, si rovescia da un giorno all’altro. Dell’8 settembre resta poi il disprezzo per le classi dirigenti, la voglia di scappare dalla storia o di defilarsi, la via del tradimento e della resa pur di non caricarsi di responsabilità e la sub-filosofia italiena del tirare a campare. Restano i rancori tra le fazioni, anche se si è dimenticata la ragione storica e ideale che le animava. Resta il peggiore degli antifascismi, quello a babbo morto, ossia a fascismo caduto e poi sepolto, usato per criminalizzare l’avversario e accreditarsi come salvatori. L’8 settembre non ricorda l’Italia divisa in due, come ripetono i somari e i sommari di storia, perché l’Italia non si spaccò in due ma in quattro: l’Italia fascista, l’Italia partigiana, l’Italia sabaudo-badogliana e l’Italia neutrale, democristiana in pectore. L’8 settembre non fu il bivio tra chi restò a fianco dei tedeschi e chi passò al fianco degli alleati; prevalse la frantumazione del Paese, l’individualismo e il rifugio nel privato. L’Italia si fece in quattro, come quando si traccia una croce su un cerchio. Ci fu l’Italia che si strinse intorno alla monarchia e riconobbe nel Re l’ultimo straccio di legittimità dello Stato, un’Italia in prevalenza moderata e centro-meridionale. Ci fu un’Italia che si sentì fascista malgrado tutto, o solidale con Mussolini e il regime, che identificava con l’Italia; o almeno legata a un patto d’onore, per una guerra intrapresa. Ci fu poi un’Italia che si riconobbe nella lotta partigiana nel nome della libertà ma per molti di loro lo scopo finale era la rivoluzione per instaurare in Italia il comunismo, i soviet e la dittatura del proletariato. E ci fu infine un’Italia neutrale che non si riconosceva nelle italie configgenti, ma si teneva alla larga, prudente, impolitica e cattolica, innalzava il suo “Tengo famiglia”; arretrò nel privato, si rifugiò in famiglia e nella Provvidenza e ritenne l’8 settembre, proprio come Alberto Sordi, una “chiamata a casa, un ritorno a casa, sciogliete le righe, siamo ormai privati cittadini”. Ciascuno dei quattro spicchi era una fetta verace d’Italia; alla fine prevalse però l’ultimo, che assorbì anche il primo, il segmento monarchico-moderato, lasciando agli estremi le due ali, nostalgica e antifascista. L’8 settembre non ci fu la morte della patria ma si sciolse il nesso tra gli italiani e lo spirito pubblico. Una nazione allo sbando, in cui gli sbandati si sentirono divisi in bande che poi divennero partiti. Il senso civico fu sostituito dal senso cinico, e lo Stato dai Partiti, la fede ideale dall’ideologia. Ma secoli di dominazioni straniere, guerre mondiali e civili, regimi e orrori possono ferire e mortificare ma non abolire un’identità. Da allora la patria cominciò a morire ma restò conficcata e sommersa nell’anima profonda degli italiani, gravidi di una resurrezione che deve ancora avvenire. L’8 settembre gli italiani furono spaesati e si barricarono in casa; ma l’Italia restò l’Italia, nel bene e nel male, inghiottì le sue tragedie dentro il suo grembo atavico. Perché una patria è quel che resta dopo l’uragano. MV, La Verità 8 settembre 2019
Le Partigiane liberali che lottarono per un'Italia non rossa.
Le Partigiane liberali che lottarono per un'Italia non rossa. Lo studio di Rossella Pace racconta un pezzo di Resistenza dimenticata. E non per caso. Dino Cofrancesco, Martedì 04/08/2020 su Il Giornale. Segretario Generale dell'Istituto Storico per il Pensiero liberale Internazionale e allieva del compianto Fabio Grassi Orsini - al quale si deve l'imponente Dizionario del liberalismo italiano, 2 vol. Ed. Rubbettino 2011 e 2015 - Rossella Pace, con il nuovo saggio, Partigiane liberali. Organizzazione, cultura, guerra e azione civile (Ed. Rubbettino), prosegue la ricerca iniziata con La Resistenza liberale nelle memorie di Cristina Casana (Rubbettino 2018), già recensita su queste colonne. Competenza filologica e passione intellettuale sono qualità della studiosa che escono qui pienamente riconfermate. Grazie a una meticolosa e completa esplorazione degli archivi, delle memorie, dei diari, dei documenti più vari, Rossella Pace ricostruisce un ambiente culturale e politico resistenziale che la storiografia aveva rimosso. È la Resistenza delle donne, in genere, e la Resistenza delle donne liberali che tanta parte ebbe nel destino della Resistenza liberale. «La Resistenza, in quanto lotta armata, fu vissuta essenzialmente come una esperienza maschile. Le donne che vi parteciparono nella loro differente appartenenza politica furono molte di più di quante siano state poi riconosciute come partigiane, e il loro ruolo è stato taciuto per molto tempo». Le partigiane combattenti furono 35mila e 70mila fecero parte di quelle reti che assicuravano ai partigiani importanti supporti logistici, assistenza sanitaria, rifornimento di armi e di vettovaglie, sostegno alle famiglie, passaporti e lasciapassare falsi. In questa opera, si distingue l'eroina della storia in esame, Virginia Minoletti Quarello, grande figura di donna liberale che, in Liguria e in Lombardia, svolse un compito fondamentale di raccordo, anche politico, tra le più eminenti figure del liberalismo italiano, dal mitico comandante Edgardo Sogno ad Anton Dante Coda (il cui diario, scritto tra il 1946 e il 1952, si può leggere nel bellissimo libro Un malinconico leggero pessimismo -Ed. Olschki - di Gerardo Nicolosi, altro degno allievo di Fabio Grassi Orsini). Virginia Minoletti scrisse un libro di memorie Via privata Siracusa (1946) - ripubblicato da Ultima spiaggia, collana Isole, nel 2016 -in cui rievocò la sua attività negli anni difficili della RSI ma, grazie allo scavo negli archivi di Rossella Pace, emerge un quadro della sua personalità, del suo impegno civile, della sua filosofia politica assai più completo ed esauriente. La cifra della Minoletti, e del cenacolo liberale di cui fu animatrice era duplice: un patriottismo sincero di matrice risorgimentale e un senso altissimo, einaudiano e crociano, della libertà politica unito a un femminismo autentico che rivendicava il diritto delle donne alla pari dignità e la loro piena idoneità a svolgere le funzioni sociali e politiche riservate per tradizione al sesso maschile. «Il Partito liberale, scrive l'autore, diede molti uomini e donne alla lotta di liberazione, i quali ricoprirono un ruolo attivo fin dall'inizio del movimento resistenziale». Come mai, si chiede allora, fu quasi l'unico partito a non ammantarsi di benemerenze resistenziali? Rossella Pace fa bene a illuminare una zona della storia della Resistenza rimasta in ombra ma quella che lei considera quasi una colpa dei liberali - non tanto l'aver quasi ignorato il contributo delle donne liberali alla lotta antifascista, e (su questo ha ragione, quanto la messa in sordina dello stesso apporto liberale - a ben riflettere, aveva una motivazione civile che oggi comprendiamo sempre di più. «La memoria della partecipazione dei militanti liberali alla Resistenza - si legge nelle Conclusioni del libro - divenne per molti versi imbarazzante, troppo divisiva, e venne quindi raccontata poco, male, in maniera rapsodica, se non spesso addirittura abbandonata da molti protagonisti (i Minoletti tra questi) a causa della loro delusione per l'esperienza politica successiva». In realtà, per i liberali - se dalla categoria si escludono gli ossessi di azionismo come Franco Antonicelli - la legittimità della Resistenza stava nella restaurazione delle libertà civili e politiche conculcate dalla dittatura fascista. Compiuto il loro dovere, combattendo in montagna e cospirando in città, pensavano a una grande riconciliazione nazionale, in grado di assicurare il beneficio della democrazia anche a quanti - spesso in buona fede - avevano creduto nel duce e nelle sue promesse. Con i suoi umori rivoluzionari e palingenetici, l'antifascismo azionista, socialista, comunista, consapevolmente o no, avrebbe voluto, invece, protrarre sine die la guerra civile, fino alla rigenerazione morale, politica e sociale di un paese corrotto dall'esecrato ventennio. Era difficile, per un liberale, identificare la legalità democratica con la legittimità antifascista e ritenere la volontà espressa dal demos (che nel dopoguerra mostrava attitudini moderate e conservatrici) valida solo se in linea con le direttive ideali dell'ANPI, come si pretese nelle gloriose giornate del giugno 1960. Debbo dire, però, che anche tra i socialisti riformisti il mito della Resistenza aveva poca presa. L'indimenticabile Giuseppe Faravelli, successore di Ugo Guido Mondolfo alla direzione di Critica Sociale, era quasi infastidito quando gli si ricordavano i tanti anni passati in galera per la sua attività antifascista. Un Paese civile non dimentica la storia ma non sta sempre lì a esaltare i vincitori di una guerra civile e a processare i vinti. Ho l'impressione, che Rossella Pace, a forza di frequentare gli Istituti Storici della Resistenza, tenda a sopravvalutare «il contributo dei partigiani alla vittoria alleata in Italia», a suo avviso, notevole e al di là delle «più ottimistiche previsioni». Che senza le «vittorie partigiane non vi sarebbe stata in Italia una vittoria alleata così rapida, così schiacciante, e così a poco prezzo» è una citazione che poteva trovare solo sul sito anpi.it/storia/storie-della-resistenza-italiana. Forse citare fonti più realistiche sarebbe stato più prudente. Questo rilievo e altri che si potrebbero fare al libro (come la confusione tra Giovanni Battista Canepa e Giuseppe Canepa) non tolgono nulla, però, ai meriti acquisiti dalla giovane ricercatrice.
· Il Vate: non era Fascista.
Dagli arditi di Fiume al pitale: Keller, il pirata che fece la Storia. L'impresa di Fiume, la conquista della città che affaccia sul Carnaro e fu sogno rivoluzionario per 500 giorni non ebbe solo Gabriele d'Annunzio come protagonista: c'era anche Guido Keller asso dei cieli e spirito libero. Davide Bartoccini, Sabato 12/09/2020 su Il Giornale. Non fu solo Gabriele d'Annunzio a "fare" Fiume: un sogno rivoluzionario che ancora fa eco dopo cento anni dall'impresa. Furono altri uomini straordinari, degni d'essere illustrati da Alan Moore, se li avesse conosciuti. Uno di loro era Guido Keller. Un pirata dei cieli. Compagno di squadriglia di Baracca, l'asso degli assi, il nobile milanese di origini elvetiche arrivò a Fiume il 12 settembre del 1919 alla testa dei legionari comandati dal Vate, e ci rimase per tutti i cinquecento giorni di quella storica impresa. Creando un circolo di spiriti liberi che sarebbe sopravvissuto al tempo di quell'impresa: il Gruppo Yoga. Esso era, o mirava ad essere, una "unione di spiriti liberi che miravano alla perfezione". Un circolo di ribelli, socialisti, arditi, avventurieri, dandy, sognatori, e visionari; che disquisivano di esoterismo, metafisica, criticando l'alienazione delle masse operaie che nell'epoca moderna erano destinate a diventare "inumane". Il loro simbolo, passato alla storia come presagio di morte, era la swastika. Non inclinata come quella del pittore dilettante austriaco che avrebbe conquistato il potere in Germania 13 anni dopo, ma l'antico simbolo del sole impiegato nell'antichità dalle più remote culture eurasiatiche. Occhi vispi e nerissimi, capigliatura da tigre di Mompracem, Keller è uno dei grandi protagonisti intellettuali della città-stato creata da d'Annunzio. E da animo ribelle, non potrà fare altro che escogitare la "beffa del pitale" quando viene firmato il Trattato di Rapallo del novembre 1920. Così sale su un aeroplano e con la destrezza dell'asso che era stato nella Grande Guerra, vola su Roma. Lì lancia una pioggia di rose rosse sul Vaticano "per Frate Francesco" e sul Palazzo del Quirinale "alla Regina e al Popolo". Poi su Palazzo Montecitorio un pitale di ferro. Un messaggio emblematico. Quando l'avventura di Fiume, la città del Sole dei giovani ribelli in uniforme che anticipano il '68 di quarant'anni e la vittoria di "ogni" battaglia dei diritti civili di quasi un secolo, Keller si trova perso e spaesato. Come tutti quei reduci che si trovano a disagio nella vita di tutti i giorni, dove manca l'azione e l'epica della cavalleria. Sprofonda, ma in realtà già sprofondava, nel vortice della cocaina, che nella festa mobile di Fiume era divenuta palliativo in voga. Il suo declino personale e psicologico è evidente e va a caccia di avventure prima in Turchia, poi nell'America Latina, alla ricerca della leggendaria Eldorado. Sperpererà i suoi ultimi risparmi, quelli che aveva ereditato dalla sua ricca famiglia e quelli che si era guadagnato sul campo come aviatore asceta. Tornato in Italia vivrà sulle spalle degli amici, che nonostante il fallimento della sua folle spedizione e in parte della sua esistenza, non perderanno mai la stima per il superuomo che si cela in lui. Si stabilisce alla porte di Roma, a Ostia, di fronte al mare. Muore il 9 di novembre 1929. Correndo in una Fiat di grossa cilindrata, diretto in Umbria per una scampagnata goliardica con degli amici, tra loro era anche l’eroe di guerra Vittorio Montiglio. Da allora le sue spoglie riposano accanto a quelle del Vate, nel Vittoriale degli Italiani. La sua anima indomabile non è dato saperlo.
Gianluca Veneziani per “Libero quotidiano” il 29 maggio 2020. Ogni artista deve compiere un parricidio rituale. Per dimostrarsi all' altezza dei suoi predecessori o addirittura superarne la gloria, deve recidere la testa del gigante sulle cui spalle sta seduto. È quanto fece un giovane Filippo Tommaso Marinetti, allorché non era ancora futurista né famoso e il panorama letterario italiano era dominato dalla figura ingombrante di Gabriele D'Annunzio. In alcuni scritti, pubblicati tra fine '800 e inizio '900 sulla rivista francese La Vogue e quindi raccolti in un libro dato alle stampe dall' editore Sansot nel 1906, Marinetti si faceva beffe del poeta, descrivendolo come uno snob dai modi effemminati, nonché come un «poetino» che plagiava i testi dai francesi e profanava i grandi del passato, credendosene erede. In due parole, un «ciarlatano». Quell' antologia di articoli al curaro ora viene per la prima volta pubblicata in italiano sotto il titolo di D' Annunzio intimo. Gli dei se ne vanno, D' Annunzio resta (pp. 232, euro 25, in uscita oggi), grazie alla meritoria azione dell' editore Aspis e alla traduzione di Camilla Scarpa. Gli scritti testimoniano un misto indissolubile di «ammirazione e odio profondo», come scrive Guido Andrea Pautasso nell' Introduzione, una sorta di ossessione che induce Marinetti a cercare D' Annunzio anche dove non c' è, o a seguirlo nelle sue uscite pubbliche su e giù per l'Italia. Ecco che allora Marinetti si reca al funerale di Giosuè Carducci nel 1907 e, mentre commemora la grandezza del poeta toscano, si accorge dell' assenza di D' Annunzio: «Ha commesso un inelegante passo falso, davvero imperdonabile», commenta, a maggior ragione che il Vate aveva profanato il nome di discepolo, coll' essersi proclamato erede di Carducci, dopo aver già avuto «l' ardire di proclamarsi l' unico erede di Dante», pur non essendone altro che «una caricatura».
IL COMIZIO A ORTONA. Ma già da tempo Marinetti aveva iniziato a fare le poste al poeta abruzzese, per metterne alla berlina il carisma da oratore. È il 1897 quando colui che diventerà il padre del futurismo si reca in Abruzzo per assistere a un comizio di D' Annunzio a Ortona, dove era candidato. In una sala «appestata da straccioni alcolizzati» appare la figura di questo «cantore aristocratico» dalla «sensualità molle» e dai «gesti femminei» che tutto sembra meno che un uomo destinato a trascinare il popolo. Anche quando, poco tempo dopo, lo rivede a Milano a un banchetto di letterati, D' Annunzio continua a sembrargli «un giovane snob» caratterizzato da «esaltazioni puerili» come il desiderio di «assoggettare le folle a un formidabile impero di Roma, di cui egli sarebbe l' imperatore». Il Vate, annota Marinetti, «sogna di stravolgere il mondo con un giro di frase» e «attribuisce al libro una diretta influenza sulle masse», ma non ha capito che «le folle vivono nell' ignoranza più completa dei poeti». Così, ogniqualvolta crede che ogni sua parola avrà una ricaduta politica, rischia di apparire solo come un «ciarlatano». Marinetti si sofferma, a mo' di scherno, anche su alcuni episodi della biografia del Vate, che ne mettono in luce le vanterie sterili, quei gesti frivoli e comportamenti eccentrici, da lui costruiti ad hoc per far credere che la propria vita sia un' opera ad arte. Vedi allora D' Annunzio vestirsi «tutto di bianco (stivali, panciotto, cravatta, cappello), inerpicato su un cavallo più bianco del marmo di Carrara», evidentemente allo scopo di far «le prove per il suo monumento equestre». E poi lo ritrovi impegnato in un bizzarro processo contro il suo fattore, accusato di avergli ucciso un levriero: stavolta D' Annunzio si presenta «tutto vestito di nero», ostentando a favor di giornalisti il «lutto per il suo cane». Poi lo trovi coinvolto in un duello contro il direttore del giornale L' Abruzzo, reo di averlo attaccato in una rubrica: la spavalderia, che lo aveva portato a chiedere quello scontro per vendicare l' onore ferito, viene meno nel bel mezzo del duello, allorché D' Annunzio viene scalfito alla tempia. A quel punto la singolar tenzone si interrompe, per codardia di uno dei due sfidanti. Colui che sarebbe diventato il Poeta-Soldato non è che all' inizio brillasse per coraggio.
LO SCANDALO DEI PLAGI Non meno feroce è l' attacco di Marinetti sui meriti artistici del Vate. Ricorda quando D' Annunzio venne coinvolto nello «scandalo dei plagi», sostenendo che lui si serviva «dai migliori sarti del simbolismo francese!», in sostanza riprendeva interi passi dai poeti transalpini; trova le sue opere caratterizzate da «lirismo soffocante» e «assenza di originalità», da «rammollimento del fraseggiare» e da un «fuoco di fila di banalità». Ragion per cui, come sosterrà anni dopo, D' Annunzio rappresenta per la poesia un «peso morto», «dannosissimo ai giovani». Tempo sarebbe passato prima che Marinetti rivalutasse il Vate arrivando a considerarlo il «precursore» del futurismo e «il più grande Poeta del mondo». Ma a inizio '900 D' Annunzio gli appariva niente più che come «un arrivista tenace» connotato dallo «strisciare sinuoso di un verme». Uno che aveva addirittura barattato la chioma con l' ambizione: «Giacché la gloria l' ha afferrato per i capelli con troppa violenza», chiosa Marinetti con sarcasmo fulminante, «Gabriele d' Annunzio è rimasto calvo in tenera età».
· I Figli del Duce.
Da corriere.it il 3 agosto 2020. L’audace colpo dei soliti ignoti sarebbe avvenuto passata la metà di giugno. Dall’Archivio Centrale di Stato all’Eur — ovvero l’immensa sede di gran parte della nostra documentazione proveniente dagli organi di Stato ed enti pubblici — sono stati trafugati 970 labari della marcia su Roma, il «golpe» che il 28 ottobre 1922 portò al potere Mussolini. Si tratta di cimeli dal valore affatto disprezzabile. Nel mondo del collezionismo — basta dare un’occhiata ai numeri su Ebay riguardanti l’offerta di oggetti celebrativi simili, tipo francobolli e altre affrancature — ciascuno di quei «pezzi» potrebbe essere venduto a cifre variabili tra i 1.000 euro e i 10.000 euro. L’ammontare complessivo del bottino potrebbe aggirarsi dunque attorno ai cinque milioni di euro (cifra però rivista assai al ribasso gli investigatori che seguono il caso). Un furto denunciato da Elisabetta Reale, la direttrice (sino a poche settimane fa, poi c’è stato un avvicendamento) dell’Archivio — racconta Brunella Bolloli sul quotidiano Libero che ha dato la notizia nell’edizione di domenica — ai carabinieri. Sono gli investigatori del reparto operativo Nucleo tutela patrimonio artistico a condurre l’indagine attorno alla quale c’è il più stretto riserbo. L’ipotesi è che il trafugamento degli oggetti sia avvenuto «in modo graduale», difficile infatti immaginare che i gagliardetti siano stati portati via «nello stesso momento». Quanto alla segnalazione del furto, dall’Archivio filtra questa sola frase: «Tutto quello che doveva essere fatto è stato fatto».
Assai probabile che i gagliardetti siano già stati «piazzati» tutti. Non è escluso che il colpo sia stato effettuato tramite l’aiuto di una «talpa». Ed è assai probabile che stendardi e insegne— è l’opinione di un «insider» — siano già stati «piazzati» tutti, venduti a collezionisti più o meno consapevoli del fatto che si trattasse di oggetti rubati. Usa il termine «vergogna» Pietro Cappellari, direttore della biblioteca di storia contemporanea «Coppola» di Paderno (Forlì), storico e ricercatore assiduo frequentatore dell’Archivio che già nel 2013 chiese «di poter fotografare labari e bandiere» conservati all’Eur «senza ricevere risposta. Molto strano».
L’indagine. Filtra per ora poco sulle modalità del furto favorito forse dal «lockdown» che ha ridotto le presenze del personale nell’Archivio. I labari erano custoditi nello sconfinato magazzino in piazzale degli Archivi, nel cuore dell’elegante quartiere romano dell’Eur progettato e costruito durante il Ventennio per celebrare l’Esposizione universale prevista nel 1942 che non si tenne per via della guerra. « Memorabilia» che facevano parte di una mostra sulle origini del fascismo ideata nel 1928 da Dino Alfieri, ex ministro della cultura popolare in uno dei governi Mussolini.
Lucio Lombardo Radice, commissario liquidatore della mostra. Una mostra che in origine comprendeva documenti, libri e fotografie, cimeli quali ad esempio la stampella di Enrico Toti, camicie nere, elmetti, armi e oggetti diversi indossati dagli squadristi fascisti. E ancora: l’elica dell’apparecchio su cui volò Francesco Baracca. Tutto custodito in cento casse che fecero la spola tra Roma, Salò e ancora Roma tra il 1944 e la fine della conflitto. Peregrinazioni durante le quali molto del contenuto sparì. Forse già venduto a fascisti e collezionisti. O forse addirittura preso dagli «007» alleati, interessatissimi ai segreti della Rsi e del regime. Ciò che restò, finì all’Archivio dell’Eur. Quanto ai libri, agli opuscoli e ai giornali, il commissario liquidatore della mostra, il grande matematico, pedagogo e partigiano Lucio Lombardo Radice, provvide a versarli presso la Biblioteca nazionale centrale di Roma che aveva già ricevuto in deposito parte del materiale bibliografico nel settembre 1943 da alcuni rappresentanti del partito fascista, e presso la Biblioteca di storia moderna e contemporanea di Roma. Ora l’ultimo capitolo di quella storia. Ma chissà se definitivo.
Rubano la Storia del Fascismo, i labari della Marcia su Roma. Furto clamoroso all’Archivio Centrale dello Stato a Roma nel Quartiere dell’EUR. Carlo Franza il 12 agosto 2020 su Il Giornale. Un furto di Storia. Il furto di una parte gloriosa della storia italiana. A Roma, all’Archivio Centrale dello Stato, sito nel quartiere dell’Eur, sono scomparsi i 970 labari che accompagnarono la Marcia su Roma il 28 ottobre del 1922. La notizia è stata data dal quotidiano Libero con un articolo della collega Brunella Bolloli. Il valore dei cimeli rubati è di circa 5 milioni di euro. La denuncia è stata fatta più di un mese fa e le indagini finora non hanno portato a nulla. Chi abbia potuto far ciò e chi abbia potuto pensare di cancellare la Storia del Fascismo in questo modo, non sa che la storia -ogni storia bella o brutta che sia- non si cancella mai. Riporta Alessandro Fulloni del Corriere della Sera che il furto è stato denunciato ai Carabinieri del Nucleo Tutela Patrimonio Artistico da Elisabetta Reale, direttrice dell’Archivio sino all’avvicendamento, già previsto dal Mibact, con Stefano Vitali poche settimane fa. Ciascuno di quei pezzi può essere venduto a cifre tra i 1.000 e i 10.000 euro per un valore complessivo intorno ai cinque milioni di euro. Sulle ipotesi del furto indubbiamente non c’è chiarezza. Ma è un fatto che “il furto sarebbe avvenuto proprio nel momento in cui -era la seconda metà di giugno- a Roma via dell’Amba Aradam di notte è stata ribattezzata da un gruppo antifascista ‘via George Floyd’, in onore del nero ucciso dai poliziotti nel Minnesota”. Vi sarebbe dunque la furia iconoclasta degli antifà alla base della sparizione dei labari e non il desiderio di possesso di qualche collezionista nostalgico. Ma è pur vero che per i collezionisti quei labari hanno un valore altissimo. “Questi stendardi erano ciò che restava della Mostra della Rivoluzione fascista allestita nel ’32 presso il Palazzo delle Esposizioni. Pezzi dal valore inestimabile per i collezionisti: un labaro della Marcia su Roma può valere infatti fino a diecimila euro sul mercato nero”. Dato da non trascurare è anche il fatto che i Carabinieri che si stanno occupando del caso e del furto non hanno rilevato segni di scasso. Potrebbe essere che “Qualcuno magari ha approfittato dei lavori di ristrutturazione in corso per introdursi nella struttura e mettere a segno il colpo”. I labari sono i vessilli che i fascisti portarono con loro durante la Marcia su Roma in rappresentanza dei comuni italiani. Sul mercato si identificano con quella categoria nota come “memorabilia”. Alcuni collezionisti potrebbero spendere cifre congrue per possederli. Secondo gli esperti probabilmente torneranno fuori nel 2022 in occasione del centenario della marcia. Che il furto sia passato così sotto silenzio per diverso tempo fa pensare che i ladri abbiano avuto l’aiuto di una talpa all’interno. Secondo i carabinieri, il furto è deve essere avvenuto poco per volta, perché nessuno si è accorto di niente. Sono diverse le persone che in questi giorni i carabinieri del reparto operativo del Comando carabinieri Tutela Patrimonio Culturale stanno ascoltando per raccogliere informazioni nell’ambito delle indagini sul furto di oltre 700 labari della marcia su Roma. Tra le persone ascoltate dagli inquirenti ci sono anche i dipendenti della struttura e chiunque è ritenuto possa fornire elementi e indicazioni per risalire ai ladri. Secondo gli investigatori, chi ha sottratto i labari probabilmente aveva già uno o più acquirenti a cui vendere gli oggetti rubati, ma al momento non può essere del tutto esclusa la pista di un furto in cui potrebbero essere coinvolti soggetti che gravitano in ambienti di estrema destra. Secondo alcune valutazioni, l’intera refurtiva potrebbe fruttare qualche milione di euro se venduta in ambienti del collezionismo. L’ipotesi di un investigatore del Reparto operativo è che il trafugamento sia avvenuto in modo graduale. Non è escluso che ci sia stata una ‘talpa’, qualcuno che all’Archivio, un bunker con chilometri di scaffali, conosceva tutto: posizione delle telecamere, allarmi, le stanze in cui gli stendardi erano custoditi. E’ certo che un furto del genere è avvenuto nel cuore dello Stato, dentro lo Stato. Ha dell’incredibile. Ma i Carabinieri ne verranno presto a capo dell’inverosimile situazione. Ne sono sicuro. Carlo Franza
GIUSEPPE SCARPA, MARCO CARTA per il Messaggero il 26 agosto 2020. Gagliardetti militari, labari e bandiere dei fasci di combattimento risalenti alla marcia su Roma. Cimeli di grandissimo valore dal punto di vista storico, rubati e rivenduti nel mercato nero a un collezionista romano. Sono almeno tre gli indagati per ricettazione nell'inchiesta sul furto all'Archivio Centrale dello Stato dell'ingente patrimonio del Fondo Mostra della Rivoluzione Fascista. Ma il numero delle persone coinvolte potrebbe aumentare. Le indagini, condotte dal pm Nicola Maiorano, cercano di ricostruire le modalità con cui tutto il materiale è stato sottratto nel tempo dall'Archivio. Verificando anche se il furto sia avvenuto con la complicità di qualcuno che aveva libero accesso agli spazi e ai cimeli, oggetti di culto molto ambiti per particolari collezionisti, disposti a pagare migliaia di euro. A far emergere la sottrazione dei labari e dei gagliardetti fascisti era stata una denuncia presentata a giugno, dal Direttore pro tempore dell'Istituto, Elisabetta Reale, che quasi per caso si era accorta delle sparizioni, notando delle evidenti discrepanze tra i beni effettivamente disponibili e l'intera collezione, 1065 esemplari, che erano stati inventariati nei primi mesi del 2018. Proprio il ridotto lasso di tempo ha permesso ai Carabinieri per la Tutela del Patrimonio Culturale, capitanati dal generale Roberto Riccardi, di indirizzare immediatamente le indagini, individuando, per ora tre delle persone che avrebbero avuto una parte attiva nel colpo. Tutta la refurtiva era finita nella disponibilità di un collezionista romano. Sul suo conto sono in corso accertamenti, ma al momento non risulta indagato. Il collezionista era convinto di aver recuperato cimeli andati dispersi nel biennio 1943-1944, successivo alla caduta del regime fascista. Invece i beni in suo possesso sono risultati tutti rubati. Dai gagliardetti di colore nero, con sopra ricamato un motto il nome, ed uno stemma, solitamente un teschio, simbolo degli squadristi, che venivano portati nei cortei. Alle bandiere rosse, appartenute ai movimenti operai, sottratte nel corso di alcune delle violente incursioni compiute da parte delle Camicie nere, contro le sedi di partito o di camere del lavoro. La prima esposizione di tali cimeli avvenne nel 1932, per il decennale della Marcia su Roma, e si tenne, per due anni, presso il Palazzo delle Esposizioni di via Nazionale a Roma. Nell'ottobre del 1934, parte del materiale venne trasportato presso la Galleria nazionale d'arte moderna a Valle Giulia, in attesa della costruzione del palazzo che avrebbe dovuto ospitare il Centro Studi sul Fascismo. Dopo l'armistizio del settembre 1943, il fondo della Mostra, insieme ad altri archivi fascisti, fu imballato e trasportato a Salò, ma le casse collocate presso il Museo Lapidario di Salò non furono mai aperte per l'intero periodo della loro permanenza al nord. Al termine del conflitto furono riportate a Roma. Mentre il materiale rimasto nei locali di Valle Giulia subì probabili manomissioni e asportazioni durante i mesi dell'occupazione nazi-fascista.
Pietrangelo Buttafuoco per ''il Fatto Quotidiano'' il 3 febbraio 2020. Tre sarebbero i problemi della destra in Italia: il Fascismo, l’establishment e la Chiesa. Sono problemi nel senso che la destra – i cui limiti ed errori fanno vincere la sinistra che, di suo, non è maggioranza nel Paese – non li risolve mai. E dunque: staccarsi dal Ventennio, avere un rapporto organico con le élite che controllano il sistema e rapportarsi, infine, col Vaticano al quale questa destra, sembra essersi capovolta nel sembiante al punto di sostituire nell’immaginario il comunismo contro cui, l’allora pontefice regnante, nel 1948 alzò la Diga. I tre problemi di cui sopra sono stati elencati da Ernesto Galli della Loggia in un interessante fondo pubblicato, giovedì scorso, sul Corriere della Sera. Sul primo, si sa, c’è il grande equivoco: pensare il fascismo come espressione per antonomasia della destra. Tutti quelli che sono schierati contro il pensiero corrente, dunque contro la sinistra, sono considerati – annota Galli della Loggia – “battistrada del fascismo”. E, infatti, Amintore Fanfani è Fanfascista, Bettino Craxi è disegnato con gli stivali del Duce, perfino Silvio Berlusconi – come nelle copertine dell’Espresso – è in orbace e Indro Montanelli, ancora prima di essere accolto alle Feste dell’Unità, è solo un basco nero cui sparare a vista. Un fascista, appunto. Il primo dei problemi si risolve studiandolo: il fascismo non fu fascista per come lo s’intende con gli strumenti pavloviani della retorica di Stato. Fu prassi che visse e si contraddisse nel preciso contesto di un’Italia ormai conclusa: in avvio di modernità – fa testo il lascito di scienza, urbanistica e tecnologia – e nel pieno dell’ideologia sociale e socialista. Tutt’altro che destra, comunque. Il terzo dei problemi impegna più il soggetto mugugnante – la Chiesa – che i mugugnati, ossia i destri. I vescovi di oggi, e il Papa con loro, non saprebbero che farsene di un Giovannino Guareschi, non gli chiederebbero – come fece a suo tempo Giovanni XXIII – di redigere un catechismo. E infatti la cristianità rifulge più tra le cupole a cipolla del Cremlino, un tempo casa dell’Anticristo, che nelle parrocchie d’Italia. Il secondo dei problemi è più interessante: “La destra”, scrive Galli della Loggia, “è poco o nulla radicata nell’establishment del Paese”. Il problema è un problemone, se ne deduce, perché questa destra si trova nella condizione di non avere un solo nome – si legge ancora nel fondo del Corriere – “di nomi significativi per incarichi di prestigio come quello fondamentale della presidenza della Repubblica”. Sicuro sia così? Se c’è stata fretta – e furia – nell’imbastire col Pd il Conte2 altro spavento non c’era che ritrovarsi, per la prima volta nella storia repubblicana, un Capo dello Stato fuori sistema, ovvero un estraneo al vivaio catto-comunista. Fosse durato il governo giallo-verde, ossia l’alleanza Lega-M5S, i due movimenti anti-sistema, i nomi erano in verità già pronti: Giulia Bongiorno, Carlo Nordio, Ilaria Capua, Luca Ricolfi, Giulio Tremonti, Annamaria Bernini, Erika Stefani, Franco Frattini in quota Luigi Di Maio, Sebastiano Ardita e, perché no – in considerazione al suo essere controcorrente, intellettualmente onesto – lo stesso Ernesto Galli della Loggia. La destra segnatamente impresentabile, e cioè il sovranismo, secondo i codici della vita sociale corrente, governa – e con uno standard di qualità superiore al resto del Paese – Piemonte, Liguria, Lombardia, Veneto, Friuli Venezia Giulia e Trentino Alto Adige. Sono, per dirla con Massimo Cacciari, “la Repubblica cisalpina e gli ex territori asburgici”, ovvero, qualcosa che se non è l’establishment, molto gli somiglia.
Lettera a una destra mai nata (ma solo annunciata e lontana dalla barricata). Emanuele Ricucci su Il Giornale il 26 ottobre 2020.
Emanuele Ricucci, classe 1987. Scrive di cultura per Il Tempo e Il Giornale. Lavora per la comunicazione di Vittorio Sgarbi. È autore di satira ed è stato caporedattore de "Il Giornale OFF", inserto culturale del sabato de "Il Giornale", e nello staff dei collaboratori “tecnici” di Marcello Veneziani. Ha scritto per le pagine culturali di "Libero" ed è stato editorialista del "Candido", mensile di satira fondato nel 1945 da Giovannino Guareschi. Ha studiato Scienze Politiche e scritto cinque libri: Diario del Ritorno (Eclettica, Massa 2014, con prefazione di Marcello Veneziani), Il coraggio di essere ultraitaliani (edito da Il Giornale, Milano 2016, scritto con A. Rapisarda e N. Bovalino), La Satira è una cosa seria (edito da Il Giornale, Milano 2017; tradotto in lingua tedesca, è in previsione l’uscita in Germania con la prefazione di Pierfrancesco Pingitore e la postfazione del prof. Francesco Alfieri) e Torniamo Uomini (edito da Il Giornale, Milano 2017). Questi ultimi prodotti e distribuiti in allegato con Il Giornale. Antico Futuro. Richiami dell’origine (Edizioni Solfanelli, Chieti, 2018, scritto con Vitaldo Conte e Dalmazio Frau). Dal 2015 scrive anche sul suo blog Contraerea su ilgiornale.it. È stato direttore culturale del Centro Studi Ricerca “Il Leone” di Viterbo.
“La pazienza è finita”. Che significa Giorgia? Tempo fa la Meloni ebbe a scrivere quanto appena enunciato in un post giusto e battagliero. Cosa significa Giorgia che la pazienza è finita? In che senso? Mentre piovono post di indignazione sui social network dai leader della destra, qualche mattina fa proprio Meloni e Salvini hanno condannato la prima manifestazione napoletana. Aspettativa chiaramente colmata in via istituzionale. Crosetto, dall’altro lato, se l’è presa brutalmente con le infiltrazioni della defunta Forza Nuova nell’escalation di rabbia di ieri sera, colpevole di aver provocato una violenza che lo Stato deve reprimere. Insomma, tutta la destra contro la stanchezza popolare sfociata nella prima piazza di Napoli. Ma cosa vuole allora questa destra? Vuole solo astenersi in aula quando si vota? Vuole solo farsi i selfie coi Nutella biscuits? Come vuole raggiungere il bene comune in questo momento? Cosa intende fare per scassinare il fortino governativo ed essere alternativa allo Stato del terrore e dell’emergenza infinita? Insomma, se noi siamo dei fottuti trogloditi nel manifestare rabbia popolare, magari anche in piazza, noi impotenti, eterni precari, fragili, svuotati e sottovalutati, condannati ai domiciliari, costretti a ritenere la vita un’eccezione, un atto innecessario, sacrificabile, impossibilitati a farci ascoltare dal governo degli aborti umani – classe di mai nati come uomini, figuriamoci come politici -, spetterebbe a loro garantire i nostri diritti, o sbaglio? Spetterebbe a loro occupare l’aula di Montecitorio per impedire alla nuova junta venezuelana di imporsi ancor più – a proposito Capezzone fornisce un’idea precisa di quanto avviene in tal senso: “Si procede a passi lunghi e ben distesi verso una junta alla sudamericana, naturalmente presentata in modo soft-normalizzante-empatico-benevolo, tra gli applausi di “sinistra” e “intellettuali”. Parola vietata? Libertà. Chi paga il conto? Il settore privato” -. Insomma, proprio nei giorni della grande rabbia se l’Italia è “violenta” non va bene, se l’Italia rallenta non va bene, se è banalmente arrabbiata non va bene, se tenta di innescare una reazione che spinge l’opposizione ad agire concretamente non va bene. Ma cosa deve fare l’Italia, cara opposizione, e soprattutto, cosa deve fare l’opposizione, cara Italia? Gentile destra, come si può ancora chiamare Stato un guazzabuglio di pericolosi incompetenti, di analfabeti del lavoro e della cultura che hanno normalizzato il lussuoso atto politico, un tempo riservato a minoranza qualificate, come lo chiamerebbe Ortega y Gasset, al loro infimo livello, che hanno trasformato l’opinione pubblica in emozione pubblica, che hanno elevato le chiacchiere da bar a rango di legge, i capricci in diritto di prendersi ogni potere? La mandria dell’atto amministrativo a scopo di sopravvivenza, replicante, arroccata dietro agli occhi piccoli e furbi di un faraone che sputa editti. Cara Giorgia, cosa significa “la pazienza è finita”? Caro Matteo, oltre i social c’è di più? Lo scrivo chiaramente nel mio ultimo libro (Contro la folla. Il tempo degli uomini sovrani): se la destra vuole contaminare il tempo in cui vive, fornire un’alternativa all’imposto e non limitarsi a completare il compitino istituzionale per colmare un’ inferiorità spesso troppo evidente, viepiù sul territorio, facendosi relegare nel campo dell’inutile (che si declina dai social, alle sue richieste parlamentari) non può utilizzare le stesse armi di chi vuole estinguerla, non può compiacerlo, non può servirsi degli stessi uomini folla, replicanti di cui si serve il governo degli aborti umani. L’avversario non ci inviterà mai a cena, né ci concederà spazi, fedele alla sua missione totalizzante. Sicuramente mi sbaglio ma un paio di domande, magari, è lecito farsele. La pazienza è finita, andate in pace. Agisci, per Dio, agisci, destra. Ti chiamo “destra” per sbrigare le pratiche semantiche, ti chiamo così per i ricordi di una vita, nostalgia del presente, di quando mi hai cresciuto, ora che ogni significato si scioglie in un’estrema relativizzazione. Non immaginare di cercare, ora, il consenso. Non ora, non qui. Non con la più bassa speculazione che riserviamo, volentieri, ad altri. Non immaginare di farlo, magari, utilizzando in maniera politicamente corretta le regioni che governi. Usale come grimaldello, usale per barricare la residua dignità degli italiani. La sinistra lo avrebbe fatto. Usale per sovvertire il drammatico jingle di questo tempo di sconsiderata irrazionalità: discolparsi da tutto per l’impossibilità di assumersi le proprie responsabilità. “Noi fummo da secoli calpesti, derisi”. Che senso hanno le parole del nostro inno, ora? Quell’inno che tu, destra, hai contribuito a difendere e diffondere in tempo in cui il terreno di coltura batterica ideale per la vita in società prevede un mondo distopico, globale, ipertrofizzato, senza Dio, né confine, senza patria, né memoria storica che ne definisce i contorni dell’identità. Compone i tratti del volto dei nostri padri e dei nostri fratelli maggiori. Che senso hanno quelle parole se, ieri come oggi, torniamo ad essere calpesti e derisi? Dove sei, destra? Mostra i denti, impara a concepire il sacrificio estremo, impara a superare i tuoi antichissimi vizi innati, quel feudalesimo di piccoli eserciti contrapposti e autonarranti, quel nepotismo e quei cerchi magici che troppo spesso inquinano le tue leve promettenti, le tue giornate di grandi ideali, di uomini e di tempi avversi a cui mostrare la fronte e tirare le stampelle. Giornate passate troppo spesso a tinteggiare la torre d’avorio che hai preso in affitto, scegliendo i mobili per arredare il ghetto. Quei vizi che impediscono di essere una rete, che impediscono a questo nostro pensare di contaminare il tempo. No, destra, non è colpa tua se ci troviamo nel più buio tramonto italiano. Ma adesso è il momento non del consenso ma della lucida azione concreta. Cara destra, anche io sono un tuo figlio, disperso, orfano. Lettera a una destra mai nata, ma solo annunciata dai sondaggi. Che si alimenta della certezza del neoreale, di quella sondocrazia che offre un’esatta percezione del reale, quasi fosse vero, quasi si possa toccare. Ma che reale non è. Così come quel nozionismo che affligge il nostro tempo che non forma un pensiero critico, santo e benedetto, aggregato sulla conoscenza, ma costruisce una percezione di conoscenza che nella fretta ossessiva del nostro tempo, nella bulimia di informazione, permette di unire fugacemente bocconi di dichiarazioni, pescate un po’ dai talk show, un po’ dai social, un po’ dai leader, un altro po’ dai giornali. Punti che non si collegano. Il tuo uomo deve essere altro, destra, deve tornare a coltivare sé stesso, a generare un pensiero critico, a dedicarsi la vita e il tempo, a riconnettersi con la profondità delle proprie dimensioni. Lucido e integro deve arrivare alla metà di una psicotica e surreale porzione di storia. Oggi è nel ribelle l’uomo sano, ma soprattutto l’uomo sovrano di sé stesso. Questa guerra psico-sanitaria la vincerà solo chi si manterrà lucido e integro nelle proprie intenzioni di libertà, mentre tutela la propria salute e quella altrui. Banalmente. Poiché è inutile compiere una sciatta dimostrazione di forza culturale per evocare questi pensieri. Destati, destra. Traduci il tuo sentire, traduci il tuo pensare.
Donzelli, il Gian Burrasca della destra. Giovanni Donzelli, capo dell'organizzazione di FdI, è l’enfant prodige della destra, il Gian Burrasca della politica italiana che ha iniziato a combattere la sinistra toscana sin dall’età di 19 anni. Francesco Curridori, Venerdì 30/10/2020 su Il Giornale. Preciso, iperattivo e guastafeste. Giovanni Donzelli è il Gian Burrasca della destra italiana che, pur di fare le pulci ai "kompagni" toscani, si scorda di mangiare e lascia a bocca asciutta persino i suoi collaboratori. Chi lo conosce bene racconta che va matto per la cioccolata, una passione nata probabilmente per addolcirsi le giornate di questi ultimi suoi 25 anni dedicati alla politica. "Particolarmente impegnato nel combattere il sistema di potere rosso che ha portato al declino Firenze e la Toscana, in prima linea per difendere la trasparenza e denunciare sprechi, privilegi e clientele”, si legge sul sito di questo 44enne deputato meloniano che dal 2018 è alla sua prima esperienza in Parlamento. “Inutile cercarmi per chiedere raccomandazioni o agevolazioni personali”, scrive nella pagina dedicata alla sua breve biografia. In gioventù ha fatto l’animatore nei villaggi, proprio come il Cavaliere, ma ha anche lavorato come strillone per la Speedy srl, la società dei genitori di Matteo Renzi, il quale“si faceva vedere verso le 11, a ritirare le copie incedute”. “Voleva spiegare a noi come si vendevano i giornali ai semafori senza averne mai venduto uno”, ha raccontato Donzelli al quotidiano Libero. “Mi critica, ma quello l’ho pure votato quando si candidò alle elezioni universitarie”, è la confessione che pare si sia lasciato sfuggire l’attuale leader di Italia Viva. Sì, perché il ‘nostro Gian Burrasca’ ha iniziato la sua carriera politica nel ’94 tra le fila del Fuan e, nel giro di pochissimi anni, è diventato presidente di Azione Universitaria e, in seguito, portavoce nazionale della Giovane Italia. Donzelli, insomma, sembra rientrare a pieno titolo in quella che il collega Francesco Boezi ha definito “la generazione Atreju”. Dai banchi universitari a quelli di Montecitorio il passo è breve, ma è arricchito dall’esperienza da consigliere comunale Firenze nel 2004 e da quella di consigliere regionale dal 2010. È dalla sua Firenze che Donzelli si costruisce la fama di rompiscatole denunciando favoritismi, smascherando il clientelismo imperante e costringendo i politici locali alle dimissioni. Nel 2018 si improvvisa curatore di una singolare mostra fotografica sui rapporti tra la Chil, azienda dei Renzi, e la Fidi Toscana, la finanziaria della Regione che si fece garante con soldi pubblici che la famiglia del leader di Italia Viva non restituì mai. Gli addetti ai lavori, però, non descrivono Donzelli come un politico ossessionato da “Il Bomba”, soprannome che accompagna Renzi sin dalla giovinezza. No, il ‘nostro Gian Burrasca’ è stato anche promotore, prima nella sua regione e poi alla Camera, della legge “taglia-business immigrati" per fermare la mangiatoia delle cooperative rosse nel settore dell’accoglienza. La sua ultima battaglia riguarda il caso dei tamponi irregolari acquistati dalla Regione Toscana e che hanno dato esiti sballati. I ben informati assicurano che sia stata proprio questa sua indole da guastafeste ad averlo fatto entrare nelle grazie di Giorgia Meloni che lo ha voluto come responsabile dell’organizzazione del partito.
Giorgia Meloni, le informazioni riservate di Pietro Senaldi: "Le vere ragioni del suo successo in Europa". Pietro Senaldi su Libero Quotidiano l'1 ottobre 2020. «Mi chiamo Giorgia, sono una donna, sono una madre, sono cristiana» e da lunedì sera sono il primo politico italiano a presiedere un gruppo europeo e la prima donna a guidare un partito della Ue. Il tormentone che fece scalpore un anno fa, al comizio unificato dei leader di centrodestra a Roma, si è arricchito di una preziosa definizione. E brava Meloni, la nuova leader dell'Ecr, la forza dei conservatori al Parlamento di Strasburgo. Il fatto che Giorgia in Italia sia l'unico capo politico donna già rappresentava uno smacco per la sinistra e tutte quelle femministe progressiste, vestali delle quote rosa e odiatrici del maschio fascista, che vengono sistematicamente sfruttate dai compagni, i quali le agitano come spaventapasseri di fronte all'opinione pubblica e poi le relegano sempre in posti di seconda fila. Ma l'incoronazione di Giorgia a livello europeo è molto di più. È la prova che se hai i numeri il sesso non è decisivo e che quindi 1) la leader di Fratelli d'Italia è più brava delle pari genere giallorosse; 2) in Europa si sa far valere meglio dei colleghi maschi; 3) il lavoro paga più di mille slogan, tatticismi e battaglie di comodo; 4) ancora di più, specie a livello internazionale, contano coerenza e capacità di essere se stessi a prescindere dagli altri.
LA LEZIONE DI GIORGIA. Questo è da sempre il limite dei politici italiani quando mettono il naso oltre frontiera: sono ossessionati dal riconoscimento e, per ottenerlo, perdono potere contrattuale e non incidono. È capitato al centrodestra moderato, con Forza Italia che pur di essere accettata nel Partito Popolare Europeo ha lasciato umiliare il proprio leader dalla Merkel e dai francesi. È capitato al Pd, che ha sempre spedito in Europa parlamentari di terza fila e commissari che, come la Mogherini, si sono rivenduti appena sbarcati a Bruxelles. E forse in parte è capitato anche alla Lega, che senza accorgersi di essere il partito leader dei sovranisti in Europa ha stretto rapporti che la hanno indebolita anziché rafforzarla. Il partito guidato dalla Meloni rappresenta trenta delegazioni ed è composto da una quarantina di sigle nel mondo. Al di là del peso specifico, che non è da poco, conta il segnale, che smentisce la narrazione della maggioranza giallorossa di una destra italiana isolata in Europa e che sarebbe la palla al piede del Paese nell'Unione. Non è così, Fdi e Lega sono all'opposizione ma in posizioni di primo piano nei rispettivi schieramenti. Puntano su un'idea di Europa federale, con una netta distinzione degli Stati, liberi di inseguire i propri interessi e attuare le proprie politiche nazionali all'interno di un'istituzione compatta e capace di porsi come entità unica nei confronti delle superpotenze mondiali. L'opposto dell'attuale Ue, un campo aperto e confuso dove, in nome di una finta unità d'intenti e sotto l'ombrello della difesa di sacri principi e buoni sentimenti, si consuma una guerra interna tra Stati nella quale vince il più forte. Cioè non noi.
PROSPETTIVE FUTURE. La Meloni ha preparato la sua nomina intessendo fitti rapporti diplomatici con i polacchi di Diritto e Giustizia, al governo a Varsavia, e con il viaggio del febbraio scorso negli Usa, dove ha parlato alla convention repubblicana, presente Trump. Quale sarà il futuro del centrodestra italiano, in Europa diviso in tre gruppi diversi, Forza Italia in quel grande centro a trazione tedesca che è il Ppe, la Lega tra i nazionalisti di Identità e Democrazia e Fdi là dove sedevano anche i Tory, non è ancora chiaro. È una fase nella quale i tre partiti sono alla ricerca di un nuovo filo comune ed equilibri diversi. Il segnale che ha dato la Meloni è di essere sul pezzo, in Italia come all'estero. Agli alleati sta prenderle le misure o sfruttarne le potenzialità.
Studio Aperto, Andrea Giambruno (compagno di Giorgia Meloni) nuovo conduttore. Marco Leardi martedì 15 settembre 2020 su Davidemaggio.it. Fratelli d’Italia…1. Novità alla conduzione di Studio Aperto: ieri alla guida del notiziario diretto da Andrea Pucci, nell’edizione delle 18.30, ha debuttato Andrea Giambruno, da anni compagno dell’onorevole Giorgia Meloni. Il 39enne giornalista milanese non è un nuovo arrivato a Mediaset, dove lavora in pianta stabile ormai da anni. Recentemente era in forze a Tgcom24. Nella sua carriera, dopo una laurea in filosofia, Giambruno è stato autore per Mtv, poi a Mediaset ha lavorato a programmi quali Kalispera di Alfonso Signorini, Mattino Cinque, Quinta Colonna e Stasera Italia. Proprio dietro le quinte di un programma Mediaset conobbe casualmente l’attuale compagna e leader di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni, dalla quale ha avuto una figlia – Ginevra – nata nel 2016. Più recentemente il giornalista conduceva le edizioni serali e notturne di Tgcom24, il canale all news diretto da Paolo Liguori. Ora il passaggio a Studio Aperto e, ieri (14 settembre) il debutto nell’edizione principale del medesimo notiziario. Per il tg di Italia1 è stata una piccola rivoluzione, visto che le presenze femminili alla guida del telegiornale erano diventate ormai prevalenti (per non dire esclusive) da tempo. Andrea Giambruno ha fatto il suo esordio dietro la scrivania del Tg di Italia 1 il 14 settembre, nell’edizione pomeridiana delle 18,30. Reduce da un percorso come autore di programmi Mediaset e la conduzione delle edizione serali e notturne a TgCom24, Giambruno ha una relazione con l’onorevole di Fratelli d’Italia dal 2015. L’anno dopo è nata la figlia, Ginevra.
Andrea Parrella su tv.fanpage.it martedì 15 settembre 2020. C'è un nuovo volto a Studio Aperto, quello di Andrea Giambruno, il giornalista che ha condotto per la prima volta il telegiornale di Italia 1 delle 18,30 il 14 settembre. Una novità importante, quella della conduzione al maschile di Studio Aperto, visto che il Tg ha scelto di optare prevalentemente per volti femminili alla conduzione negli ultimi anni. Il giornalista, che ha fatto il suo esordio dietro la scrivania della testata diretta da Andrea Pucci, oltre ad essere autore di diversi programmi di Mediaset negli ultimi anni, tra cui i principali talk show politici, è compagno dell'onorevole Giorgia Meloni. Il giornalista 39enne, laureato in filosofia, lavora per la televisione da diversi anni, ma fino ad ora era stato sempre dietro le quinte, lavorando prima come autore per Mtv, per poi passare a Mediaset negli anni successivi, dove ha lavorato ancora alla parte autorale per programmi come Kalispera, programma di qualche anno fa condotto da Alfonso Signorini, per poi passare in rassegna i programmi del daytime, del preserale e della prima serata, da Mattino Cinque a Quinta Colonnta, fino a Stasera Italia. Recentemente aveva lavorato per la redazione di Tgcom24, la testa diretta da Paolo Liguori dove conduceva le edizioni serali e notturne, poco prima del passaggio a Studio Aperto. L'incontro con Giorgia Meloni ha a che fare con la televisione, visto che proprio dietro le quinte di un programma i due si conobbero circa cinque anni fa. Il 30 gennaio del 2016, a circa un anno dall'inizio della loro storia, l'attuale leader di Fratelli d'Italia partecipava al Family Day, dichiarandosi contro il ddl Cirinnà e i diritti delle coppie omosessuali. In quella stessa occasione Giorgia Meloni annunciò di essere incinta del suo compagno. La figlia, Ginevra, è nata nel 2006.
Andrea Giambruno, il compagno di Giorgia Meloni debutta alla conduzione di Studio Aperto: promosso. Francesco Specchia su Libero Quotidiano il 16 settembre 2020. L'apertura sul generale Haftar, il volto oscuro della Libia che intima di restituirci i pescatori sequestrati in mare solo in cambio dei suoi scafisti spacciati per calciatori della Nazionale. E poi Putin che riempie di soldi il dittatore bielorusso. E l'imprescindibile avvicendamento nel partito democratico giapponese. Deve avere una passione per gli Esteri, Andrea Giambruno. Eppure, in piedi american style, con la sua bella giacca blue lucido su cravatta bordeaux Giambruno è il nuovo anchorman di Studio Aperto, dove si produce in una conduzione misurata del tg. In altri casi, sarebbe una non-notizia. Se Giambruno, classe '81, milanese, giornalista di lunga gitatta e provata gavetta, non fosse il compagno di Giorgia Meloni nonché il padre della di lei figlioletta Ginevra. I giornali di gossip si sono nutriti spesso di Giambruno, delle sua discreta presenza, del suo essere quasi ghost writer della vita della prima papabile candidata premier d'Italia («Lo diventerà. L'Italia ha più bisogno d'ordine interno che esterno attualmente, anche se lei nel centrodestra è quella che ha le migliori relazioni internazionali», dice lui di lei). Eppure, dopo variegate esperienze tra Mattino 5, la Quinta Colonna di Del Debbio, Matrix e le lettura notturna delle notizie al TgCom, che Giambruno approdi per meriti esclusivamente giornalistici ad uno dei tiggì più storici del Biscione; be', può essere degno di nota. Giambruno a Italia uno rientra nell'operazione di maquillage e contenuti che Andrea Pucci direttore delle testate Mediaset sta testando per i vari tipi di pubblico. Per esempio, in controtendenza, su Rete4 sono entrati in conduzione ben quattro rinomati professionisti contemporaneamente (tra cui Stefano Messina. Giuseppe Brindisi e Luca Rigoni); e quest' innesto dà una forte connotazione maschile ad una rete ad alta concentrazione di pubblico femminile. Provare Giambruno come nuovo volto è un'operazione che ha varie letture. La prima è, come, si diceva, quelle di un certo eclettismo professionale. Il collega Giambruno è passato indenne dalle forche caudine sia del giornalismo tradizionale che dell'autorato popolare nella sana tradizione dell'infotainment Mediaset di "tutti i colori della cronaca" (roba inaugurata, decenni orsono, da Giorgio Medail e consolidata dal Verissimo di Carlo Rossella): quindi è in grado di approcciare le notizie con tecnica modulare. La seconda è che Giambruno, volutamente mai sotto i riflettori ma per nulla intimorito dalla presenza della compagna («Nella coppia l'uomo sono il, non faccio il mammo. non so neppure fare da mangiare») possiede doti di spin doctoring - forse anche inconsapevoli- ; dato che, da quando sta con lui, la Meloni è cresciuta anche nell'immagine e nell'impatto mediatico, oltre che incredibilmente nei consensi. In più, con quella sua presenza da "uomo del popolo che ce l'ha fatta" (ha fatto il liceo, è laureato in filosofia) Giambruno diventa finanche un'astuta risorsa che Mediaset, in una fase di cambiamento e progressivo ricambio generazionale, può capitalizzare. Nel bene o nel male, da tener d'occhio..
Giorgia Meloni vista da Ignazio La Russa: «Per me lei leader e sorella. Il "quid" di Berlusconi la aiutò». Pubblicato il 5 agosto 2020 su Il Corriere della Sera da Tommaso Labate. Il vicepresidente del Senato racconta la leader di FdI e il passaggio decisivo della sua ascesa: «Quando Berlusconi bloccò Alfano “senza quid”. Lei unica punta, io centrocampista». «Be’, con i se non si può fare la storia. Però questa cosa può essere stata un po’ una sliding door», una di quelle porte scorrevoli della vita che, a seconda che il protagonista riesca a varcarla o meno, cambia il corso degli eventi. Ignazio La Russa sta raccontando la genesi di Fratelli d’Italia e della leadership di Giorgia Meloni quando a un certo punto, dal suo album dei ricordi, riaffiora la storica frase sul «quid» con cui Silvio Berlusconi sbarrò ad Angelino Alfano la strada per la guida dell’allora Popolo della Libertà. Senza quella frase, marzo 2012, il partito dei Fratelli d’Italia (forse) non sarebbe nato e la Meloni (forse) non sarebbe qua a contendere a Salvini la leadership del centrodestra. «Giorgia la conosco da quando aveva sedici anni», racconta La Russa. «Pensi che quando poi è diventata presidente di Azione giovani, l’organizzazione giovanile di Alleanza nazionale, il gruppo mio e di Maurizio Gasparri sosteneva la sua candidatura nonostante lei venisse da un gruppo più vicino alla Destra sociale. Tempo qualche anno, siamo nel 2011, avevo già capito che solo con la sua leadership le nostre idee e i nostri valori avrebbero potuto andare avanti, nel futuro. Infatti la incontro nel mio ufficio e glielo dico a voce: “Giorgia, io punto su di te, per me sei la nostra leader di domani”. Qualche mese dopo, stavamo ancora tutti nel Pdl, Berlusconi apre alla nostra idea di scegliere il segretario con le primarie; io e Gasparri, per evitare che ci ripensasse, prendiamo la palla al balzo e decidiamo di sostenere il suo candidato, che era Alfano. Meloni, però, non fu d’accordo con noi. Mi disse “Ignazio, mi voglio candidare alle primarie”. A Gasparri la cosa non piacque... Per fortuna, poi, Berlusconi se ne uscì con la frase sul quid di Alfano, le primarie non si fecero e il Pdl andò a morire...». La Russa e Meloni, un tandem indissolubile, mai una gelosia, mai una lite pubblica. «Discussioni sì, tante. Ma è come se discutessi con una sorella minore», dice. Quando lui è uno dei leader del Fronte della Gioventù milanese e guadagna una ribalta nazionale anche grazie al filmato finito nei titoli di testa di Sbatti il mostro in prima pagina, film di Marco Bellocchio del 1972, lei non è neanche nata. Si incrociano in An, diventano un tandem nel governo Berlusconi, con lui ministro della Difesa e lei al dicastero della Gioventù. Racconto inedito: le celebrazioni del 150mo anniversario dell’Unità d’Italia li portano, assieme, a un passo dalle dimissioni. «Berlusconi e un pezzo di FI, per non far dispiacere a Bossi, decidono di commutare le celebrazioni del 150mo in una cosa light, due ore di stop dal lavoro e dalle scuole e basta. Io, dopo aver parlato col presidente Napolitano, vado in consiglio dei ministri e minaccio le dimissioni. Giorgia mi segue e minaccia le dimissioni anche lei. Ne nasce una discussione di ore ma alla fine l’abbiamo vinta noi. E le celebrazioni diventano quello che ricordate: la doppia Coppa Italia di calcio, la serata al Festival di Sanremo, la rievocazione del viaggio in treno del milite ignoto...». Neanche due anni dopo, pochi giorni prima del Natale 2012, Fratelli d’Italia vede la luce. «Io ero andato da Berlusconi a dirgli che volevo fare una separazione consensuale e lui, con la cortesia dell’ospite che però non vede l’ora di mandarti a casa, mi diceva “ma no, Ignazio, rimanete, c’è spazio per tutti”. “Silvio, ma tu vuoi rifare Forza Italia, che c’entriamo noi?”. Poi lancio Centrodestra nazionale in diretta da Vespa. Arrivano Giorgia, Guido Crosetto e Rampelli, poi tra cento nomi decidiamo che quello con più appeal è Fratelli d’Italia», dice La Russa. Oggi Meloni studia da presidente del Consiglio. «Ecco, si fermi qua. Vede, noi, che abbiamo vissuto la storia di Gianfranco Fini, siamo vaccinati. E Giorgia quindi sa benissimo che meno lavori con l’obiettivo unico di fare il presidente del Consiglio e più possibilità hai di diventarlo». Schema di gioco? «Meloni fa l’unica punta. Io faccio il centrocampista, non la seconda punta e nemmeno il trequartista o il regista», scandisce La Russa. Il risolvi problemi. «Un po’ alla Lodetti o, per usare un riferimento contemporaneo, alla Niccolò Barella».
Pietro Senaldi per “Libero quotidiano” il 3 agosto 2020. Sul telefonino ha messo un disegno che la ritrae con la tuta gialla da motociclista combattente di Uma Thurman nel film Kill Bill di Quentin Tarantino. Con uno spadone in mano e la scritta «la difesa è sempre legittima». «Adoro quel regista, anche se la sua pellicola che preferisco è Pulp Fiction. Quel manga lo ha pubblicato un ragazzo che neanche conosco e io ho deciso subito di caricarlo sul mio profilo di whatsapp e non l'ho più mosso; almeno lì sembro magra. Certo, mi piacerebbe avere una lama costruita da Hattori Hanzo, di questi tempi non si sa mai». È il momento d'oro di Giorgia Meloni. Fratelli d'Italia è data dai sondaggi di Pagnoncelli al 18%. Solo dodici mesi fa, alle Europee, prese il 6,4%, mentre alle Politiche dell'anno prima si fermò al 4,2. «Ma davvero non mi aspettavo di arrivare così in alto in un anno» giura, e forse per una volta è il caso di non crederle troppo, «anche se questi voti aspetto di prenderli davvero, andando a elezioni, piuttosto che vederli solo attribuiti dagli istituti demoscopici». «Dei sondaggi non mi fido» è la frase scaramantica per eccellenza dei politici, sia che siano alti sia che siano bassi, e la leader di Fdi non fa eccezione. Ma a fotografare la crescita record ci sono tanti altri indizi. Per esempio la richiesta ossessiva di selfie. Dalla scaletta dell'aereo all'uscita di Fiumicino Giorgia impiega almeno venti minuti perché ogni due metri deve fermarsi per una foto. Proprio come un anno fa accadeva solo a Salvini, che però era l'uomo forte del governo. Lei ha fretta di tornare a casa, se l'è presa a venti minuti dello scalo apposta, ma aspetta pazientemente che tutti siano soddisfatti. Questa però non è la causa del balzo in avanti, semmai l'effetto.
Chi deve avere più paura di quello spadone, gli alleati o i rivali?
«Gli alleati? E perché? Io per combattere ho bisogno di rappresentare qualcuno, devo sapere che porto una bandiera e faccio parte di una squadra. Non ha sentito il mio discorso alla Camera contro il prolungamento dell'emergenza? Dicevo noi del centrodestra non vi daremo tregua, non solo noi di Fratelli d'Italia».
Cosa che Salvini non avrebbe mai fatto. Discorso da aspirante leader della coalizione?
«Questo è il tipico trappolone della sinistra. Prima che con me fu tentato con Salvini, poco prima del sorpasso della Lega su Forza Italia. L'unico a cascarci è stato Fini».
È cambiato l'atteggiamento di Berlusconi e Salvini nei suoi confronti dopo l'exploit nei sondaggi?
«Francamente no, anche se la sinistra prova in tutti i modi a farci litigare. Basta vedere come era titolato il sondaggio di Pagnoncelli: "la Meloni a 5 punti dalla Lega". A me pare più notizia che io sia a un punto da M5S e a un punto e mezzo dal Pd».
Maschilismo?
«Rapporti sempre schietti e consapevolezza che sulle questioni fondamentali ci siamo tutti».
Lei però sta rubando voti all'uno e all'altro.
«Fdi ha sempre avuto un potenziale tra il 12 e il 15%, che è poi quello della vecchia An, ma finché eravamo piccoli, a rischio di non superare le soglie di sbarramento, era difficile ottimizzare il consenso perché gli italiani non amano rischiare di buttare via il loro voto. Oggi stanno rientrando a casa molti voti cosiddetti utili. La cosa che nessuno ha voluto notare del sondaggio di Pagnoncelli comunque è che la parte più significativa della crescita arriva dagli indecisi e dagli astenuti».
Cosa li ha riavvicinati?
«La coerenza e il fatto di essere quasi gli unici a non aver mai votato la fiducia a Conte».
Cosa pensa del Parlamento che ha mandato alla sbarra Salvini?
«È spaventoso, apre un precedente drammatico. Da adesso ogni ministro sa che può essere processato non per avere violato la legge ma per aver fatto cose contrarie a quello che vuole la sinistra. Nessuno è più al sicuro, nessuno è più libero di eseguire il mandato dei cittadini, perché non dimentichiamoci che Salvini era stato votato per fare quello che stava facendo».
Ogni ministro non di sinistra?
«Precisazione opportuna. Fino a qualche tempo fa anche io pensavo "male non fare, paura non avere". Oggi guardo i sondaggi al 18% e mi dico: "Giorgia, la prossima nel mirino sarai tu". Chissà cosa si inventeranno».
E del caso Fontana cosa pensa?
«Che se avesse la tessera del Pd metà dei suoi problemi sarebbero già risolti. Lui è indagato per aver fornito dei camici che la Regione non ha pagato. La Regione Lazio ha pagato dodici milioni di euro per mascherine mai consegnate e Zingaretti è lì giulivo a dar lezioni. Ma se fosse un magistrato, lei quale fatto riterrebbe più grave?».
È stata lapidata su internet per la sfuriata contro Conte in Parlamento, dove la veemenza l'ha quasi trasfigurata.
«Quelle invece non sono cose importanti. In effetti in certe foto ero orrenda. Quando ho visto il fotomontaggio in cui mi hanno messo il corpo dell'incredibile Hulk o sul corpo delle bambine di Shining, ho riso per ore. In effetti me la sono presa troppo; è che Conte».
È elegante ma poco galante verso le donne?
«Non è questione di donne. Un premier non può ridere in faccia all'avversario, è una mancanza di rispetto totale. La cosa che mi dà più fastidio non sono le prese in giro ma il fatto che la sinistra non mi riconosca mai l'onore delle armi. Sempre a darmi della borgatara, della incompetente, di quella che non sa di cosa parla. Invece a me pare di aver mostrato in questi anni molta più competenza di certi governanti».
Questo destino la accomuna agli altri leader del centrodestra.
«Accomuna tutti, leader ed elettori del centrodestra. La sinistra caviale e champagne ritiene di elevarsi disprezzando le persone comuni».
Il fatto di essere donna è un vantaggio adesso?
«Charlotte Witton, la sindaca di Ottawa negli anni Sessanta, diceva che una donna deve fare ogni cosa due volte meglio di un uomo per essere considerata la metà. Poi aggiungeva anche che però non è così difficile».
Ma erano gli anni Sessanta.
«Non è che sia cambiato poi così tanto. Per farti prendere sul serio devi lavorare tre volte tanto e fare meno errori. Poi però ci sono anche i vantaggi. Essere sottovalutati in politica alla lunga può convenire».
Non è strano che la prima donna leader di partito in Italia arrivi dalla destra e non dalla sinistra?
«No, è normale, anche la prima leader sindacale donna arrivava dalla destra, come la prima direttrice di un quotidiano politico. La destra, non avendo mai sconti, è per selezione naturale più meritocratica».
Le quote rosa però sono di sinistra.
«Ma quelle non aiutano le donne, anzi La perfetta fotografia di quello che la sinistra pensa delle donne l'ha scattata Eugenio Giani, il candidato del Pd alla Regione Toscana, quando parlando della sua rivale, Susanna Ceccardi, ha detto che sta al guinzaglio di Salvini. La sinistra è per le donne, ma solo se si affermano grazie a un uomo. L'ha detto anche Renzi, quando ha definito il suo partito femminista perché aveva nominato la Boschi e la Bellanova. Gentile concessione del maschio».
Ma perché una donna è contro le quote rosa?
«Perché è meritocratica. Il tema della presenza femminile non lo risolvi con le quote rosa, perché intervengono al punto d'arrivo e alla fine favoriscono spesso persone meno preparate di altre solo perché donne. Non sarà un caso se oltre alla Boldrini l'unica donna che si ricordi a sinistra è Nilde Iotti, personaggio del secolo scorso».
Nel suo partito c'è riguardo perché lei è donna?
«No, mi spremono come un limone, ma è naturale. Poi certo, sono benvoluta, almeno spero, ma non penso perché donna».
E allora perché?
«Ci sono due modi di esercitare la gerarchia: facendo paura o facendosi ben volere. Io cerco di optare per la seconda strada».
Ci sono vocine che mi dicono che tra le sue specialità non mancano gli shampoo.
«Sono spigolosa e ho un carattere tremendo. Piena di manie, potrei quasi dire ossessioni. Pretendo che mi si presentino solo testi giustificati o scritti in stampatello. Sono puntigliosa e pretenziosa, e nelle giornate nere divento insopportabile. C'è da dire però che a quel punto almeno tendo a isolarmi».
Sì d'accordo, ma i difetti veri sono altri.
«Per esempio?».
Come sta messa a nepotismo: un partito al 18% deve allargarsi a contaminazioni esterne.
«Fratelli d'Italia sta lavorando alla pratica. La candidatura di Fitto in Puglia ne è la prova».
Ma Fitto è da sempre nel centrodestra.
«Se hai un progetto di governo devi aprirti e saper intercettare e dialogare anche con personalità esterne. Ma sarebbe sbagliato mortificare il lavoro che, con me, ha fatto l'attuale classe dirigente di Fdi. Dietro di me ci sono persone che valgono anche più di me e che non metterò da parte per qualche sconosciuto dal nome altisonante. Non inseguo nomi o figurine per avere titoli di giornale».
Porte chiuse o semiaperte dunque?
«Spalancate alle buone idee e alle persone coraggiose che hanno a cuore la difesa dell'interesse nazionale italiano. Cosa non sempre scontata. Abbiamo avuto intere classi politiche che si sono vendute agli interessi stranieri».
Un altro difetto che le rimproverano è di essere un po' romanocentrica.
«Ma se ho mezza famiglia a Lissone e giro l'Italia come una trottola».
Però non ama l'autonomia.
«Un'altra polemica strumentale e falsa. Nel 2018 il centrodestra ha firmato un programma dove ha risolto la questione, difendendo il tema dell'autonomia e collegandola all'introduzione del presidenzialismo. E poi, mi scusi, se non sono mai esistiti i testi per realizzare l'autonomia, come possiamo essere stati contrari nel merito?».
Salvini l'ha superata a destra e lei l'ha dribblato puntando al centro: è dovuta anche a questa la crescita di Fdi?
«Un'altra balla. Si è fatto un gran discutere perché ho detto che speravo che Conte a Bruxelles si sarebbe fatto valere. Ma da patriota è un discorso normale. Tiferei Italia anche se il premier fosse il mostro di Loch Ness. È a sinistra che esultavano quando consegnavano un avviso a comparire al premier in mondovisione al G8. Io invece guardo prima all'interesse nazionale, i panni sporchi si lavano in casa».
Lei però è più moderata.
«La moderazione in Italia è sinonimo di inciucio, termine dal quale rifuggo. Io ho posizioni nette e le difendo con forza. Certo, poi ritengo che l'istituzione vada rispettata e che la politica implichi serietà e la giusta aplomb, visto che rappresentiamo milioni di persone».
Il suo ultimo intervento in Parlamento era sopra le righe però: perché il prolungamento dei pieni poteri di Conte l'ha infervorata così?
«Sopra le righe ma serio, nonostante il tentativo della sinistra di trasformarmi in una macchietta. Ero furente perché è liberticida tenere i pieni poteri dicendo, in sostanza, che non lo si fa per ragioni sanitarie. Conte lo ha fatto solo perché ha capito che l'emergenza perenne, anche solo nominale, lo aiuta a mantenere consenso, e poi per far sì che il governo continui a farsi gli affari suoi. Per capirci, in pieno lockdown hanno approfittato della distrazione generale per fare circa 300 nomine nelle società pubbliche».
È stato criticato anche da costituzionalisti di sinistra.
«Mi fa piacere che anche lì sia rimasto qualcuno, invero pochi, che ha capito che, se continuiamo ad abbattere tasselli dello stato di diritto per fare gli interessi del potente di turno, devastiamo il futuro della nazione. Se il 29 luglio, giorno della nascita di Mussolini, un premier di destra avesse chiesto la proroga dello stato d'emergenza, la sinistra avrebbe chiamato i caschi blu dell'Onu».
Quanto durerà il consenso di Conte?
«Fintanto che l'Italia non riaprirà e si potrà vedere in che stato il premier l'ha ridotta».
Da ilmessaggero.it il 13 giugno 2020. «Io sono tradizionalista. Matrimonio? Queste cose te le devono chiedere.... ». Giorgia Meloni. leader di FdI parla a ruota libera a «L'intervista» di Maurizio Costanzo, in onda domani sera su Canale 5 rispondendo a una domanda sul perché non sia sposata con il compagno Andrea, padre della figlia Ginevra. «Sono una persona che ama, gelosa, anche lui, anzi più di me», dice poi del compagno. «Sono passionale, mi accorgo di tutto e se ti becco...». E sull'idea di avere un altro figlio ha detto: «Un fratellino per Ginevra? Mi piacerebbe molto ma i bambini li manda Gesù».
IL GRANDE SOGNO. «Cosa voglio fare da grande? Mio grande sogno è fare la radio, amo la dimensione della radio, io l'adoro, anche se non credo di avere una voce radiofonica». E aggiunge: «C'è solo la tua voce, solo il tuo pensiero». Ed è sempre la Meloni a rivelare incalzata da Costanzo che «io non mi sono mai fatta uno spinello. Non ho mai provato la droga per anticonformismo. Secondo me se sei alternativo non ti fumi le canne, visto che lo fanno tutti».
NON ESCLUDE CANDIDATURA AL CAMPIDOGLIO. Sul prossimo futuro la leader di FdI spiega: «Io candidata a sindaca di Roma? No, non nei prossimi mesi, mettiamola così». Ma poi specifica: «Ciò non toglie che la città ha bisogno di un sindaco all'altezza, quello che abbiamo visto negli ultimi anni la capitale non se lo merita». Quasi a sostenere la tesi del mai dire mai.
IL RAPPORTO CON GLI ALTRI LEADER. Giorgia Meloni ha anche parlato del suo rapporto con i leader del centrodestra. «Con Salvini è buono, checché ne dicano i giornali, certo siamo due partiti diversi, a volte litighiamo, siamo un affetto stabile, come direbbe il governo - ha precisato, aggiungendo - Berlusconi? Anche con lui il rapporto è buono».
IL RICORDO DELLA NONNA. Meloni ha anche accettato di parlare della sua famiglia. «Non provo odio, né disprezzo, non sono riuscita a provare una grande emozione nei suoi confronti, neanche quando poi è morto. Una cosa che mi rimprovero», ha continuato rispondendo a una domanda sul padre: «Quando avevo 11 anni - ricorda - ho rotto i rapporti con lui». «A mia madre - ricorda - devo tutto, ha cresciuto due figli da sola». Commozione poi per nonna Maria. La Meloni la ricorda con gli occhi lucidi.
RISCHIO NUOVA ONDATA DEL VIRUS. «Pare che ci sia il rischio di un' altra ondata, ma l'Italia non si può permettere un altro lockdown. La paura oggi è tanta parte della nostra giornata, penso a chi ha dovuto chiudere per decreto». E ancora: «Da Luigi Di Maio politicamente mi divide tutto, ma la contrapposizione politica e il confronto delle idee non devono mai sfociare nell'intolleranza, in nessuna delle sue forme. A lui va la totale solidarietà da parte mia e di Fdi per le minacce ricevute da alcuni haters sui social».
Scontro Calenda-Meloni: "Parli come al bar", "Arroganza e disprezzo". La Meloni replica alle dichiarazioni rilasciate da Calenda durante "Mezz'ora in più": "Tipico della loro arroganza questo disprezzo per le persone comuni, questo disprezzo per il popolo". Federico Garau, Martedì 23/06/2020 su Il Giornale. Acceso scontro a distanza tra Carlo Calenda e Giorgia Meloni, conseguenza diretta di alcune dichiarazioni rilasciate dall'ex ministro economico nei governi Renzi e Gentiloni a Lucia Annunziata durante la trasmissione di Rai Tre "Mezz'ora in più". "La Meloni in televisione cosa fa? Ripete benissimo quello che sente al bar. E noi elettori, perchè la colpa è solo nostra, che cosa facciamo? Diciamo: 'Uuuh, questa dice le stesse cose che dico io, mò la voto. Non pensando che quella stà lì per proporre una soluzione al problema e non per fare l'eco.", ha attaccato il leader di "Azione". "E finchè la consapevolezza di questo, con l'andare di una situazione che peggiorerà, non entrerà dentro gli italiani, da destra a sinistra, questo Paese si sbriciolerà", ha aggiunto. "Noi dal prossimo anno saremo dipendenti da un Quantitative Easing fatto dalla Bce (Banca centrale europea) fatto solo per noi". Un'uscita, quella dell'ex Dem che ha ovviamente provocato l'immediata reazione del presidente di Fratelli D'Italia, raggiunta telefonicamente da "Rtl 102.5" durante una diretta radio. "Guardi ho letto ieri la dichiarazione di un esponente della sinistra che diceva: "Fratelli D'Italia prende i voti perchè la Meloni parla come si parla al bar", esordisce. "Ed è tipico della loro arroganza questo disprezzo per le persone comuni, questo disprezzo per il popolo. Ci hanno detto che alle nostre manifestazioni venivano solo parrucchieri. Ci hanno detto che noi eravamo ridicoli perchè stavamo nelle periferie". Chi ipotizzava che la querelle si sarebbe chiusa lì, tuttavia, sbagliava, dato che Calenda non ha preso bene la replica della leader di Fdi ed anzi ha voluto ulteriormente calcare la mano, utilizzando la propria pagina personale di Twitter. "Non buttarla in tribuna Giorgia Meloni. La vera arroganza è quella di pensare di poter guadagnare 15.000 euro al mese ma di non essere tenuta a fare proposte realizzabili, mentre ti riempi la bocca della parola popolo". Per poi aggiungere poco più tardi: "In che universo insultare è dire che ripete le cose che sente al bar senza fare proposte? Mi sa che “ignorante e arrogante” assomigliano più al genere insulto O no?". Un dibattito che si è acceso anche nei commenti al di sotto dei post incriminati. "Beh… i suoi ex amici Pd, con cui è stato eletto, con lo stesso stipendio di 15.000 euro al mese e con in più la responsabilità di governo non mi pare che brillino in quanto a propositività. Considero il suo come il richiamo della foresta (piddina)", ha affondato un utente. "Calenda è solo la versione riabilitata di Renzi", attacca un altro internauta. "Gode di stima in tutti gli ambienti ma è un voltagabbana e ipocrita. Diffidate da gente come lui".
Gli aspetti più privati della Meloni: "Provo indifferenza per mio padre, devo tutto a mia madre". Giorgia Meloni è stata ospite di Maurizio Costanzo per L'intervista e si è raccontata tra vita politica e privata, con forti rivelazioni sul suo passato e sul suo futuro. Francesca Galici, Mercoledì 10/06/2020 su Il Giornale. Dopo Emanuele Filiberto di Savoia e Luigi di Maio, oltre a Elena Santarelli e Tommaso Paradiso solo per citarne alcuni, Maurizio Costanzo sulla sua poltrona ha ospitato la leader di Fratelli d'Italia, Giorgia Meloni. Sulla poltrona de L'intervista, il giornalista ha fatto accomodare l'unico leader donna del nostro Paese per una lunga chiacchierata nella quale i temi politici sono stati marginali rispetto al racconto personale di Giorgia Meloni. L'intervista andrà in onda domani, giovedì 11 giugno, in seconda serata su Canale 5. Inevitabile per Maurizio Costanzo e per Giorgia Meloni tornare sull'argomento coronavirus, un tema che ha monopolizzato gli ultimi mesi del nostro Paese non senza rumorose polemiche sull'operato del governo. Giorgia Meloni è stata una delle più critiche per come Giuseppe Conte e il suo esecutivo hanno gestito l'emergenza e non nasconde la sua preoccupazione per il futuro, soprattutto per quanto concerne l'economia del Paese. "Pare ci sia il rischio di una seconda ondata, la paura oggi è tanta parte della nostra giornata, ma l'Italia non può permettersi un altro lockdown", ha spiegato la leader di Fratelli d'Italia da Maurizio Costanzo. L'emergenza economica in questo momento fa più paura di quella sanitaria, per le conseguenze sul lungo periodo che avrà la chiusura di marzo-aprile e non sarà sostenibile per il tessuto sociale del Paese un'altra serrata simile. Chiusa la parentesi politica, Maurizio Costanzo e Giorgia Meloni hanno affrontato alcuni temi molto delicati della sfera personale della donna, tra i quali il suo rapporto con i genitori: "Non sono riuscita a odiare mio padre, ho provato sempre indifferenza per lui. Mi sono rammaricata del fatto di non aver provato una grande emozione per lui, nemmeno quando è morto. Ho rotto i rapporti con lui a 11 anni. A mia madre invece devo tutto, ha cresciuto due figli da sola". Da sempre contraria alla legalizzazione delle droghe, Giorgia Meloni ha dichiarato con orgoglio di non averne mai fatto uso, nemmeno in passato: "Non ho mai voluto provare la droga per anticonformismo, mai fumato uno spinello, lo facevano tutti, secondo me sei alternativo se non fumi le canne". Giorgia Meloni guarda al futuro, dove sembra che la politica possa avere un ruolo marginale nella sua vita. Il leader di Fratelli d'Italia ha ammesso con Maurizio Costanzo di voler provare l'esperienza radiofonica, una dimensione totalmente diversa rispetto al suo presente, che sembra affascinarla: "Cosa voglio fare da grande? Un mio grande sogno è fare la radio, amo la dimensione della radio, io l'adoro, anche se non credo di avere una voce radiofonica".
Giorgia Meloni ricorda il “patriota” Almirante, bufera sul web: “Collaborò coi nazisti e fu firmatario delle leggi razziali”. Redazione su Il Riformista il 22 Maggio 2020. Oggi ricorre il 32° anniversario della morte di Giorgio Almirante, storico leader della destra italiana e tra i fondatori del Movimento Sociale Italiano, scomparso nel 1988. Una figura controversa, passato dalla direzione della rivista "La difesa della razza", dove sosteneva come necessaria la protezione dell’Italia da “meticci ed ebrei”, al rispetto per gli avversari politici, con la sua presenza ai funerali del leader comunista Enrico Berlinguer. Su Twitter Giorgia Meloni, la leader di Fratelli d’Italia che rivendica con orgoglio di rappresentare le istanze della destra italiana, lo ha ricordato con parole elogiative. “Ci lasciava 32 anni fa Giorgio Almirante. Politico e Patriota d’altri tempi stimato da amici e avversari. Amore per l’Italia, onestà, coerenza e coraggio sono valori che ha trasmesso alla Destra italiana e che portiamo avanti ogni giorno. Un grande uomo che non dimenticheremo mai”, scrive Meloni. Ci lasciava 32 anni fa Giorgio Almirante. Politico e Patriota d’altri tempi stimato da amici e avversari. Amore per l’Italia, onestà, coerenza e coraggio sono valori che ha trasmesso alla Destra italiana e che portiamo avanti ogni giorno. Un grande uomo che non dimenticheremo mai — Giorgia Meloni May 22, 2020
La leader di FdI dimentica però il passato più oscuro di Almirante, che prontamente gli viene fatto notare dagli stessi utenti di Twitter. “Il 5 maggio 1942 #Almirante scriveva: ‘ll razzismo ha da essere cibo di tutti e per tutti, altrimenti finiremo per fare il gioco dei meticci e degli ebrei… non c’è che un attestato col quale si possa imporre l’altolà al meticciato e all’ebraismo: l’attestato del sangue”, scrive un utente. “Noi invece non dimenticheremo mai che è stato un collaborazionista dei nazisti e un firmatario delle leggi razziali. Beata te che ce la fai a dimenticare. Beata te”, ribadisce un secondo ‘follower’ della Meloni. Anche le Sardine hanno risposto con un tweet alle parole di Giorgia Meloni, ricordando co Almirante: “Il razzismo ha da essere cibo di tutti e per tutti. Così Giorgio Almirante, ricordato oggi da Giorgia Meloni come un grande uomo. A ognuno i suoi modelli”. “Il #razzismo ha da essere cibo di tutti e per tutti” Così Giorgio #Almirante, ricordato oggi da Giorgia #Meloni come un “grande uomo”. A ognuno i suoi modelli. — 6000 Sardine May 22, 2020
Anniversario morte di Almirante, Meloni; "Grande politico e patriota". Sui social è rivolta. Pubblicato venerdì, 22 maggio 2020 su La Repubblica.it da Laura Mari. Polemica per il post su Twitter della leader di Fdi in occasione dei 32 anni dalla scomparsa del fondatore del Msi. I commenti sul web: "Fu il firmatario delle leggi razziali e aderì alla Repubblica di Salò". "Politico e patriota d'altri tempi, stimato da amici e avversari". Così la leader di Fratelli d'Italia, Giorgia Meloni, ha ricordato su Twitter, a 32 anni dalla sua morte, Giorgio Almirante, politico sì, ma anche firmatario delle leggi razziali nel 1938. "Amore per l’Italia, onestà, coerenza e coraggio sono valori che ha trasmesso alla Destra italiana e che portiamo avanti ogni giorno. Un grande uomo che non dimenticheremo mai", scrive nel suo post Meloni, omettendo di ricordare che fu anche ministro durante la Repubblica di Salò e fondatore del Movimento sociale italiano, partito di chiara ispirazione fascista. Ci lasciava 32 anni fa Giorgio Almirante. Politico e Patriota d'altri tempi stimato da amici e avversari. Amore per l'Italia, onestà, coerenza e coraggio sono valori che ha trasmesso alla Destra italiana e che portiamo avanti ogni giorno. Un grande uomo che non dimenticheremo mai Giorgia Meloni ???? ? (@GiorgiaMeloni) May 22, 2020
Parole che non hanno certo lasciato indifferente il popolo social e in pochi minuti la bacheca Facebook di Giorgia Meloni, così come Twitter, si sono riempiti di parole di sdegno e commenti ironici rispetto al post della leader di Fdi. "Il 5 maggio 1942 #Almirante scriveva: 'llrazzismo ha da essere cibo di tutti e per tutti, altrimenti finiremo per fare il gioco dei meticci e degli ebrei... non c’è che un attestato col quale si possa imporre l’altolà al meticciato e all’ebraismo: l’attestato del sangue' " ricorda a Meloni @manginobrioches, mentre @nicolabruniati scrive "Noi invece non dimenticheremo mai che è stato un collaborazionista dei nazisti e un firmatario delle leggi razziali. Beata te che ce la fai a dimenticare. Beata te". il patriota collaboratore dei nazisti. giá. Melania Hamilton (@MelanyHamilton_) May 22, 2020
"Il patriota collaboratore dei nazisti" ricorda @melaniahamilton e @enzobarcel chiarisce "Patriota della Repubblica di Salò". @FPaffy polemizza: "Un fascista non poteva essere un Patriota. E' una contraddizione" e @EnneEsse taglia corto: "Infatti non lo dimentichiamo. In particolare l'abominio della 'difesa della razza' che condannò migliaia di ebrei italiani a deportazione e morte".
E su l loro profilo Twitter le Sardine rispondono a Meloni: " 'l razzismo ha da essere cibo di tutti e per tutti'. CosìGiorgio Almirante, ricordato oggi da Giorgia Meloni come un 'grande uomo'. A ognuno i suoi modelli".
Francesco Merlo per “la Repubblica” il 26 maggio 2020. Giorgia Meloni non ha conosciuto "il grande uomo" che celebra ogni 22 maggio, anniversario della morte. E una volta propone di intitolare ad Almirante strade e piazze, un' altra lo spaccia per campione della democrazia, ma sempre lo ributta nella rissa e lo inchioda all' idea del fucilatore di partigiani, che lui con forza negò sino alla fine. E va detto che le radici di Fratelli d' Italia, il passato che inorgoglisce la Meloni non è quello fascista, di cui Almirante fieramente non si pentì mai. La Meloni onora invece l' album di famiglia del Msi degli Anni 70 con incendi emotivi che mai potrebbero diventare cerimonie di riabilitazione nazionale. È vero che in Parlamento per 40 anni il "mite" Almirante riuscì (quasi) sempre ad essere sobrio e moderato con interventi da grande oratore, ma eleggendolo a Padre della nuova destra sovranista e razzista, la Meloni lo imprigiona per sempre nel fascismo rivendicato e nell' orrendo antisemitismo giovanile che invece da vecchio abiurò, arrivando a inserire il Diario di Anna Frank nella biblioteca ideale del suo partito. Giudicato "revisionista" dalla destra più estrema, Almirante si emozionava ancora al ricordo delle telefonate che, giovane addetto stampa a Salò, gli aveva fatto il Duce, e non fu mai un campione della democrazia, visto che della parola democratico diceva sorridendo: «non mi convince». Né sono un' invenzione della propaganda di sinistra i "picchiatori fascisti" che adoravano Almirante e organizzavano spedizioni punitive e agguati: le famose immagini del 16 marzo del 1968 con Almirante che li guida all' università di Roma sono su YouTube. Qualcuno poi saltò in aria sistemando bombe: c' è stato un terrorismo nero che ha ucciso e ha accoltellato e solo chi ha dimenticato gli Anni 70 - ma chi li ha dimenticati? - può distinguere il manganello dal doppiopetto (si chiamava "fascismo in doppiopetto") esibito da Almirante. È vero che ci furono vittime anche tra quei giovani ed è giusto rendere onore, come fece Veltroni da sindaco, alla memoria dei fratelli Mattei bruciati vivi da un commando di vigliacchi terroristi di Potere Operaio. Ma, al netto della goffaggine, cosa vuole sostenere la Meloni, forse che Almirante liberò l' Italia dai rancori fascisti disinnescandoli dentro un Msi borghese? O ancora che Almirante sconfessò e disarmò il terrorismo nero? O che, rendendo omaggio alla salma di Berlinguer, è stato un pacificatore? L' accanimento nostalgico-ideologico non ha mai prodotto libri, studi, documenti, testimonianze convincenti di un Almirante campione della democrazia. Il 6 settembre del 1987, otto mesi prima di morire, chiuse la festa del suo partito con questa profezia: «Siamo fascisti, siamo il fascismo in movimento, il fascismo non è il nostro passato ma il nostro futuro». La camerata Meloni aveva 5 anni. Come il cadavere di Polidoro che Enea sfruttava per addobbare l' altare della sua città, forse quello di Almirante le mormorerebbe: "parce sepulto", risparmiami.
ANSA il 29 gennaio 2020. - "Ho paura per mia figlia che ha appena 3 anni. La notte non dormo per questa vicenda, per le minacce che quest'uomo mi ha rivolto via Facebook. Lui sosteneva che gliel'ho strappata, che la bambina era sua, che prima o poi sarebbe venuto a riprendersela a Roma". E' la drammatica testimonianza che Giorgia Meloni, leader di Fratelli di Italia, ha tenuto oggi davanti ai giudici della prima sezione penale di Roma nel processo che vede imputato per stalking, Raffaele Nugnes, arrestato dalla Digos lo scorso 31 luglio nella provincia di Caserta.
Giuseppe Scarpa per “il Messaggero” il 30 gennaio 2020. «La notte non dormo, questa vicenda mi ha segnato. Ho paura per mia figlia, ha 3 anni». Dura appena una manciata di minuti la deposizione in aula, ma è sufficiente per capire lo stato d'animo in cui si trova oggi Giorgia Meloni. La leader di FdI rappresenta così ai magistrati la paura che non ha ancora superato nei confronti del suo stalker. Anche perché l'uomo (che è ai domiciliari da questa estate) non aveva preso di mira solo lei, ma anche sua figlia. Lui si chiama Raffaele Nugnes; è stato ascoltato dal giudice dopo la deputata. E ha ripetuto la sua folle teoria: «sono il padre della bambina». Un'affermazione talmente dissennata da spingere il legale della Meloni, il penalista Urbano Del Balzo, a richiedere una perizia psichiatrica nei confronti dell'imputato. In modo tale - qualora la relazione dovesse fornire esito positivo - da avanzare la domanda per la reclusione di Nugnes in un Rems, l'ospedale psichiatrico giudiziario. «Lui sosteneva - ha spiegato Giorgia Meloni rispondendo alle domande del pm Pantaleo Polifemo - che gliel'ho strappata, che la bambina era sua, che prima o poi sarebbe venuto a riprendersela a Roma». Di fatto l'uomo, a luglio, tentò di incontrare la parlamentare. Non prima, però, di aver bombardato con una serie di messaggi privati il profilo social della Meloni, anticipandole la sua visita nella Capitale. La polizia ferroviaria l'aveva atteso alla stazione Termini. Una volta sceso dal treno gli era stato chiesto il motivo del suo viaggio a Roma. Lo stalker, sulle prime, aveva cercato di negare. Poi gli era stato domandato se era venuto per incontrare la Meloni. L'uomo aveva ammesso il motivo della sua visita ed era stato fatto risalire sul treno in direzione di casa, Trentola Ducenta in provincia di Caserta. Pochi giorni dopo venne colpito dalla misura cautelare, gli arresti domiciliari, cui è attualmente sottoposto. «Io vivo spesso fuori casa e il mio stato d'ansia è enormemente cresciuto - ha sottolineato ieri la leader di FdI durante l'udienza - perché ho dovuto prendere particolari cautele. Non bastava più la baby sitter per controllare mia figlia, non può essere mai lasciata sola». La Meloni ha ribadito di non avere mai «visto o conosciuto» Nugnes. «Il mio modo di vivere è ovviamente cambiato. Ho avuto paura anche dopo un messaggio pubblicato dall'imputato in cui scriveva: Hai tempo tre giorni per venire dove sai, se non vieni sai cosa succede, vengo a Garbatella». Dopo la sua drammatica testimonianza in aula, Giorgia Meloni ha ricevuto messaggi di solidarietà del ministro della Salute, Roberto Speranza, della deputata di Italia Viva Maria Chiara Gadda di Stefano Fassina, Mariastella Gelmini parlamentare di Fi e da parte del sindaco di Roma, Virginia Raggi.
Giuseppe Sarcina per il “Corriere della Sera” il 7 febbraio 2020. Una stretta di mano «e solo due parole di saluto» con il Segretario di Stato, Mike Pompeo, nessun contatto con Donald Trump. «Ma non sono venuta qui a cercare la benedizione o la legittimazione di nessuno». Giorgia Meloni è l' unico leader di partito italiano a partecipare alla due giorni della «National Prayer Breakfast» a Washington. Un raduno internazionale promosso dalle comunità religiose americane, per lo più cristiano-evangeliche. Quest' anno, oltre a Trump e a Pompeo, erano presenti il vice presidente Mike Pence, la Speaker della Camera, Nancy Pelosi, e circa 200 tra deputati e senatori. Dall' estero sono arrivate delegazioni da Albania, Austria, Brasile, Bulgaria, Colombia, Croazia, Repubblica Ceca, Ungheria, Polonia, Grecia, Paesi Bassi, Regno Unito, Slovenia, Ucraina. E altre ancora. Alla leader di Fratelli d' Italia il discorso di Donald Trump è piaciuto: «Dio, Patria, Famiglia sono parole che in Italia sembrano quasi eversive, negli Stati Uniti, invece, ispirano l' attività di governo e danno risposte importanti. Io lavoro perché un giorno possa accadere anche da noi». Meloni racconta di aver parlato con diversi parlamentari, in particolare con i repubblicani John Moolenaar, deputato del Michigan e Louie Ghomert, Texas. «Mi hanno fatto domande sulla situazione politica italiana». Ma anche lei aveva un interrogativo irrisolto: «Ho chiesto come mai Trump avesse fatto quel tweet a sostegno di Conte (il 27 agosto 2019, ndr ), nel momento in cui è cambiata la maggioranza. Forse il presidente è stato consigliato male. Conte non è stato trovato sotto un cavolo: è espressione del Movimento Cinque Stelle, un gruppo politico che è molto vicino agli interessi cinesi. Non capisco come Trump possa appoggiarlo. Forse avrà pensato che sono due visto che lo ha chiamato "Giuseppi". Sta di fatto che nessuno qui ha saputo darmi una risposta». Dopodiché l' approccio agli Usa dell' ex ministro della Gioventù è ispirato al realismo. In fondo l' amministrazione di Washington chiede all' Italia sempre le stesse cose, chiunque ci sia a Palazzo Chigi: la tutela delle cinque basi americane, l' impegno dei nostri militari in Iraq e Afghanistan, l' aumento delle spese in ambito Nato: «Penso che in un Paese serio un nuovo governo non debba rimettere in discussione gli impegni presi con gli Stati Uniti.
Il nostro rapporto con loro è solido e deve prescindere dai cambi di maggioranza». Alleati, ma «da patrioti»: «Ci possono essere delle divergenze con gli americani e vanno affrontate senza timidezze. Per esempio è chiaro che non mi piacciono i dazi imposti sull' agroalimentare italiano, anche se lì la responsabilità non va attribuita al sovranismo di Trump, ma piuttosto a Merkel e Macron. Sono loro che hanno costretto l' Unione europea di finanziare il consorzio Airbus che è trazione franco-tedesca. Il Wto ha stabilito che sono aiuti illegittimi e ora tocca anche al nostro settore agroalimentare subire le conseguenze». Da qualche tempo Meloni sta curando con più attenzione i rapporti internazionali. Tanto da incuriosire la stampa estera. Il francese Le Monde , per esempio, si domanda se possa soppiantare Matteo Salvini alla guida della coalizione di centro-destra. «L' attenzione dei media esteri mi fa piacere, però questa storia del dualismo con Salvini è una costruzione giornalistica». Le differenze, però, ci sono, anche in politica estera. Al Dipartimento di Stato americano, per esempio, cominciano a diffidare dell' atteggiamento «filo russo» del capo della Lega. «Penso che la Russia possa essere un partner importante nella lotta al fondamentalismo islamico. Così come, per esempio, non condivido la fiducia che gli americani ripongono nell' Arabia Saudita. Però, guardate, io non sono filo-niente. Sono filo-Italia».
Meloni, dalla Calabria a Trump la rete per scalare il centrodestra. Pubblicato giovedì, 06 febbraio 2020 su Corriere.it da Paola Di Caro. È volata a Washington, invitata da membri del Congresso, per partecipare alla tradizionale due giorni del National prayer breakfast, appuntamento tra il politico e lo spirituale rigorosamente a porte chiuse che terminerà oggi col discorso di Donald Trump. E ne approfitterà Giorgia Meloni per tessere la tela di rapporti internazionali sempre più fitti, nel momento in cui la sua stella comincia a brillare anche in Europa e negli Usa. Accompagnata da paginate di giornali che negli ultimi giorni le hanno dedicato ritratti e focus — da Bloomberg Europaa El Mundo, da Le MondeaEl Pais, con titoli che spaziano da «Giorgia Meloni, figura del postfascismo italiano» a «La regina dell’Ultradestra italiana» — la leader di Fratelli d’Italia si tuffa orgogliosa in una dimensione di politica estera finora sconosciuta al suo partito: «Partecipo a una manifestazione organizzata dal Congresso americano in modo traversale — spiega all’Avvenire —. Il fatto che invitino me lo considero importante, per l’Italia e per tutto il centrodestra. Non si tratta di entrare nei salotti buoni. È il segno che abbiamo lavorato bene e siamo ritenuti in grado di assumere responsabilità di governo». È anche il segno che i voti contano, e attirano l’attenzione. E FdI, che ha sfondato quota 10% — alle Regionali in Calabria e nei sondaggi—, non vuole fermarsi. Successo imprevedibile due anni fa, quando alle Politiche il partito ottenne solo un onorevole 4,4% che, secondo gran parte degli osservatori, sarebbe durato poco. La scelta di Matteo Salvini infatti di formare un governo col M5S sembrava dover avere come conseguenza la cancellazione di FdI, da inglobare in una grande Lega sovranista e pigliatutto. Ma Meloni ha resistito: «È stata la mia più grande sfida — ha raccontato —. Sapevo che non saremmo stati travolti ma anzi premiati per la coerenza e la linearità delle nostre scelte». E sapeva che la prova del nove stava in due punti percentuali: «La cosa più difficile non era arrivare al 10%, ma passare in quei mesi duri dal 4 al 6%. Se ci fossimo riusciti, il resto sarebbe venuto da sé, perché gli elettori ci avrebbero visto come un partito essenziale e non aggiuntivo, da premiare con il “voto utile”». Detto, fatto. Alle Europee del 2019, FdI arriva al 6,7%. E la crescita, da allora, si fa esponenziale, se è vero che gli ultimi sondaggi attribuiscono a FdI un 12%. Numeri che hanno fatto crescere la visibilità e la stessa immagine di Giorgia Meloni, come lei per osmosi ha fatto decollare FdI. Lei che, racconta il presidente dell’Assemblea nazionale del partito, Ignazio La Russa, «ha chiaro il prossimo obiettivo: portare FdI oltre quel 15% che fu il risultato più alto mai raggiunto da An». Già, ma come? Le strade sono due, una legata alla forza personale della leader. L’altra al lavorìo sul territorio nel quale si impegna lo stesso la Russa. Fin dall’inizio l’ambizione di FdI era chiamare a raccolta tutte le anime della diaspora della destra, e assieme aprire le porte a nuovi mondi: missione che sta per essere compiuta, se è vero che da Storace ad Alemanno, dai fedelissimi finiani Menia ad Augello, il vecchio partito è pressoché ricomposto. Ma la conquista di posizioni va oltre, perché l’obiettivo è riportare a casa anche quella classe dirigente sul territorio ex Msi o ex An, potente e catalizzatrice di consenso, che era passata nel tempo con FI e con la Lega. Con un fine chiaro: in un caso, relegare gli azzurri a terza forza della coalizione, nell’altro impedire la crescita della Lega al Sud e impedire il dominio assoluto a Nord. A questo fine è servita prima di tutto l’alleanza organica con Raffaele Fitto, che la Meloni insiste per candidare presidente in Puglia. A questo servono le porte aperte a dirigenti locali che stanno «accorrendo, come mai era accaduto in passato» dice Giovanni Donzelli, responsabile Enti locali, soprattutto da liste civiche di centrodestra, che oggi vanno a formare addirittura gruppi consiliari di FdI dove prima non c’erano (come a Vicenza e a Milano). Ma è da FI che l’affluenza è maggiore: clamorosi (e dolorosi) i casi del Veneto, dove il potente Massimo Giorgetti ed Elisabetta Gardini hanno salutato Berlusconi per la Meloni, o quello dell’Emilia-Romagna, con il passaggio di Galeazzo Bignami, costato carissimo agli azzurri e prezioso per FdI. E in Calabria, raccontano, «abbiamo dovuto chiudere le porte, troppi bussavano...». Silvio Berlusconi lo sa e proprio ieri — mentre FI in Campania confermava la candidatura di Stefano Caldoro — ha annunciato che sarà in campo in un «Tour della libertà» in tutte le regioni che andranno al voto in primavera: «Siamo al 7-8%, dobbiamo crescere». La corsa è aperta. Senza esclusione di colpi.
L'anno di Giorgia Meloni. Il 2019 ha consacrato la leader di Fratelli d'Italia. L'unico problema è che, dietro lei nel partito c'è il vuoto. Marcello Veneziani il 17 gennaio 2020 su Panorama. Il nascente 2020 sarà l’anno del Melone, versione femminile plurale? Giorgia Meloni, la piccola grande sorella di Fratelli d’Italia è uscita meglio di tutti i leader politici dal turbolento 2019 perché è rimasta limpida e coerente, non ha tradito nessuno, tantomeno i suoi elettori e simpatizzanti, non ha stretto spericolate alleanze, non ha giocato su più tavoli, non si è data al trasformismo e ai due forni. E non ha nemmeno rinnegato il suo passato, come è capitato un po’ a tutti. Di destra nacque e di destra resta, e di quella destra nazionale e sociale, populista ma non troppo, da cui era partita. E poi, la Meloni è l’unica donna leader in Italia, nonostante il conclamato femminismo. Per giunta madre e cristiana, come recita il tormentone che doveva essere ironico ed è diventato invece identitario e virale. In tv è grintosa, ha messo ko Lilli Gruber e non si lascia intimidire. I sondaggi la premiano e lei goccia a goccia, ha sfondato il muro delle due cifre, come i partiti grandi, come la vecchia Alleanza nazionale da cui proviene. I suoi punti deboli sono due e risaltano a vista d’occhio: oltre lei, chi c’è, cosa c’è, di notevole nel suo partito, o meglio, c’è una classe dirigente adeguata, a parte vecchie glorie e giovani cognati, più militanti sezionali di Colle Oppio, in grado di andare al governo senza deludere? L’impressione è che Giorgia sia una vivace opinion leader, ma solitaria, senza un gruppo dietro di sé capace di governare. La seconda perplessità riguarda direttamente lei: ma oltre a bucare il video, oltre a saper dire, ridere e comiziare, saprà anche fare, decidere e governare? Non ha precedenti e nulla si può dire al proposito. Così il suo tandem sovranista con Salvini, è oggi l’unica formula politica non ancora provata, dopo averle sperimentate tutte e con esiti più o meno disastrosi. È la prospettiva più probabile ma è un’incognita grande come una casa. Ma ricostruiamo la parabola di Giorgia. Da bambina guidava i giovani di An e per grazia di Fini diventò ministra. A vederla si sarebbe detto che aveva avuto un ministero esagerato. Perché Giorgia non sembrava un ministro della Gioventù ma dell’infanzia. Così piccola con gli occhioni azzurri grandi e spalancati, come un hobbit che si meraviglia. Sembrava un cartoon. Poi la sentivi parlare e ti accorgevi che è cresciuta a cofane di amatriciana e comizi di Almirante, più trippa e puntarelle e oratoria alla Rauti e Fini. Parla un romanesco da femmina tosta e un po’ coatta, però con le manine pulite. Poi un giorno ebbe il coraggio di raccogliere l’eredità di An allo sfascio e insieme a Guido Crosetto (il gigante e la bambina), Fabio Rampelli e i suoi Gabbiani e altri seniores come Ignazio La Russa, fondò Fratelli d’Italia. Partì in piccolo e presto litigò con i colonnelli di An, anche se poi li ha quasi tutti ripescati (resiste Gasparri con Berlusconi). Ora il campo si è allargato e va dai conservatori ex Dc alla Raffaele Fitto all’antica militanza missina. Battagliera senza essere truce, borgatara senza essere volgare, è di destra-destra ma ha una freschezza, un’efficacia, un mix di risate e caratterino che la maternità ha arricchito (anche di chili) ma non ha sfigurato. Un po’ troppo romanesca, simmetrica a Salvini, troppo padano. Forse si bilanciano. A volte ricorda quei cagnetti vivaci, tipo chiwawa, che compensano il loro piccolo formato con l’aggressività e l’abbaiare mordace... Lasciamo stare le battute, lei è permalosa. Con la Meloni si sente odore di vecchia militanza politica; e dire vecchia sembra un po’ ridicolo, con quella faccetta lì (chiara, non nera). Qualcosa dei manifesti che attaccava ai muri le è rimasto affisso sulla fronte (della gioventù). Anni fa sorse pure un quesito estetico, goliardico e un po’ sessista su di lei. Ma Giorgia Meloni è una cozza o una perla? Il quesito, spiritosamente sollevato dalla stessa Meloni, sorgeva dai poster strafighi, aiutati dal photoshop, che ritraevano Giorgia bellissima; ma cozzavano, è il caso di dire, con l’immagine militante di vispa ranocchia della Garbatella. Come spiegare questa radicale ambiguità di Giorgia? La chiave forse era nella variazione degli occhi: a volte sono fari abbaglianti nel loro celeste spalancarsi, ma in posizione da anabbaglianti si notano le borse come parafanghi. Lei appariva un po’ la Signora degli Anelli, fidanzata di Frodo, che non è un pescatore abusivo ma l’hobbit della saga di J.R.R. Tolkien. O la Bambina Imperatrice, regina di Atreju, protagonista de la Storia infinita di Michael Ende, che dà il nome all’incontro annuale del suo movimento. A volte, per restare nella fantasy, somiglia a Puffetta di cui condivide statura e biondezza. Nella saga di Hanna&Barbera, Puffetta è dapprima bruttina e si sospetta che sia mandata da Gargamella per creare scompiglio tra i puffi. Poi, con l’aiuto di Grande Puffo, diventa carina e simpatica. Chi sarà stato il Grande Puffo di Giorgia? Non si sa, Mistero puffo. Resta invece aperto il problema politico a cui accennavamo. Torna in versione femminile, l’antico dilemma della destra italiana, sospesa tra conservatorismo e populismo, ma soprattutto affidata interamente a un capo, Almirante, Fini o Meloni, e poi il deserto. Senza preoccuparsi di formare e selezionare una classe dirigente, riferirsi a un contesto culturale, fronteggiare le idee non solo con gli slogan e i politicanti. Avevano una Fondazione An a disposizione, con un buon patrimonio, ma non l’hanno usata, tra divisioni, cecità strategiche e premure elettoralistiche. Il 2020 potrebbe essere davvero l’anno della Meloni, ma la festa è cominciata e la destra ha una solitaria ballerina.
Luisella Costamagna: "Cara Giorgia Meloni, che cosa ha fatto per l'Italia?". Libero Quotidiano il 18 Gennaio 2020. Luisella Costamagna, con una lettera pubblicata su Il Fatto quotidiano di Marco Travaglio, scrive alla leader di Fratelli d'Italia: "Cara Giorgia Meloni", attacca la giornalista, "l'altra sera da Mario Giordano ho registrato per lei una domanda Fuori dal Coro, che diceva testualmente: 'Il Times l'ha inserita tra le 20 persone che cambieranno il mondo. Per il futuro, vedremo. Ma per il passato, essendo lei in politica da un quarto di secolo, anche con ruoli importanti di governo e istituzionali, com'è che, in tutto questo tempo, non dico il mondo, ma almeno un po' l'Italia non è riuscita a cambiarla?'". Nella sua risposta la presidente di FdI, ricorda la stessa Costamagna, "ha rivendicato quanto fatto da ministro della Gioventù" e ha sottolineato che "per il resto sono sempre stata all'opposizione e pure da lì qualche cosuccia sono riuscita a portarla a casa, tipo i seggiolini Salva Bebè, approvati dal Parlamento in questa legislatura". Ma la giornalista è un fiume in piena e in tutta la sua faziosità attacca: "E' stata a lungo al governo con Berlusconi e la Lega, votando le leggi ad personam (Lodo Alfano, legittimo impedimento), le misure economiche e fiscali che ci rendono il 'paradiso' che siamo oggi". Eppoi, dice ancora, ha votato "i provvedimenti Salva Italia (governo Monti, ndr) cui il suo ex governo ci aveva costretti". Erano altri tempi e altre situazioni. La Meloni da allora ha fatto dei passi avanti clamorosi: ha avuto il coraggio di staccarsi totalmente da Silvio Berlusconi e dal 2012 guida ed è presidente di Fratelli d'Italia. L'unica donna leader di un partito. Che "impazza in tv", come dice la Costamagna. E quindi, che male c'è? Forse la Meloni dà fastidio ai grillini e ai giornali filo grillini, perché è lei e non la Lega a rubare i voti al Movimento 5 stelle.
I limiti di Giorgia Meloni. Antonio Angelini su Il Giornale il 12 gennaio 2020. Apprezzo da sempre Giorgia Meloni e il suo modo popolare di affrontare lo schermo e la piazza. E credo davvero che sia meritato il successo avuto sino ad ora. Scelte coerenti , da quella di uscire da Forza Italia in polemica con alcuni temi troppo filoeuropeisti sino anche ad una certa polemica contro il regime mediatico portata avanti da sempre. Detto questo però, è ora che Giorgia Meloni, adesso che non ha più un partito da 4% ma da 9/10%, dia una svolta dentro al suo partito. Ci vogliono nuove teste che la affianchino e la consiglino. Altrimenti Giorgia nostra incapperà in sfondoni come quelli sul pareggio di bilancio che gli sono costati tante critiche da parte di elettori del centrodestra. In campo economico mi pare che dentro Fratelli D’ Italia non ci sia una mente. E anche in altri campi. Se si esclude la Difesa dove Crosetto è un uomo e testa di primordine, in altri temi importanti mi pare che manchi la squadra. Squadra che invece Salvini si è creato . Dove sono i Giorgetti, Bagnai, Borghi, Rinaldi, Zanni, Garavaglia, Volpi etc dentro Fratelli D’Italia? chi consiglia Giorgia nei vari argomenti soprattutto economici? chi la può degnamente sostituire in tv? Ipotizziamo che si vada ad elezioni come tutti auspichiamo dopo le elezioni regionali. La coalizione FDI – Lega vince assieme o senza Forza Italia (ipotizzo ed auspico senza FI visto che non saprei che farmene di Carfagna, Tajani , Brunetta and co) . Quale sarebbe la squadra di ministri di FDI ? chi potrebbbe fare il MInistro o il vice Ministro dell’ Economia? E il ministro o vice Ministro al MISE? e le nomine da fare ai vertici delle aziende più importanti di Italia? Ad oggi non ci sono. Mi permetto di suggerire a Giorgia Meloni di crearsela per tempo la squadra. E magari di mandare qualcuno in TV oltre sè stessa. Un grande Leader non teme i numeri 2 -3-4-5 del partito. Come Craxi non temeva Martelli o De Michelis. Altrimenti qualcuno potrebbe pensare che è lei che ha paura di avere attorno persone che non siano controfigure. Stesso errore di Berlusconi. Oltretutto oggi si è in campagna elettorale permanente. Regionali, comunali, Europee etc. E in campagna elettorale gli elettori vogliono il leader. Che non avendo il dono dell’ ubiquità deve per forza delegare a persone di grande fiducia e valore la gestione del resto. Il consiglio è di sbrigarsi a fare campagna acquisti NON DI PORTAVOTI, ma di teste pensanti e persone di fiducia. Quest’ ultimo consiglio mi permetto di darlo anche a Matteo Salvini. I portavoti un giorno sono con te , un giorno fanno un gruppo parlamentare separato per poter sorreggere un governo tecnico o governissimo o filoUE voluto dal Napolitano di turno. Ma poi esistono davvero questi portavoti? I voti li portano i leader. Salvini , Meloni etc. La dimostrazione è i 5 stelle. Senza avere una faccia conosciuta o una testa pensante hanno preso il 30% con Grillo che nemmeno era candidato. Ma i voti li hanno portati Taverna, Fioramonti, Crimi, Lombardi, Trenta oppure Grillo? Quelli non portavano manco i voti dei familiari. In bocca al lupo Giorgia. E anche a te Matteo. Che possiate non ripetere errori passati di Berlusconi e altri. Teste pensanti (per Giorgia) e persone fedeli ( per Salvini). Non gente che ancora pensa che la UE sia la nostra mamma.
Dagospia il 15 gennaio 2020. Da “Un giorno da Pecora - Radio1”. “Quanti anni compio? 43. Della mia età possiamo sempre parlare, è del mio peso che non dovete mai chiedermi...” A parlare è una ironica Giorgia Meloni, fondatrice di Fratelli d'Italia, che oggi è intervenuta a Un Giorno da Pecora, su Rai Radio1, nel giorno del suo compleanno. Come sta festeggiando? “Sto malissimo, con raffreddore e febbre da tre giorni. Ieri ho finito di lavorare all'una di notte, con 39 di febbre: un incubo. Oggi mi sono presa mezza giornata per pranzare con la mia famiglia”. Le sono arrivati molti messaggi di auguri? “Sul telefono ho visto 600 messaggi ma non li ho ancora aperti. E ho trovato anche delle chiamate con numero sconosciuto, per cui non so chi mi voleva fare gli auguri...” Che regali ha ricevuto? “Andrea (il compagno, ndr) mi ha regalato 12 rose rosse con un biglietto di amore, i miei amici mi hanno regalato delle rose bianche e Ginevra, mia figlia, ha scelto di regalarmi dei guanti...” Ha spento la torta con le candeline? “Stamattina il mio compagno e Ginevra mi hanno 'riciclato' una candelina, me l'hanno messa su un cornetto e mi hanno portato tutto come colazione. E' stato romantico, molto, mi ha fatto molto felice”, ha spiegato a Rai Radio1 Meloni.
Massimo Falcioni per tvblog.it il 15 gennaio 2020. Giorgia Meloni conquista il disco d’oro, anzi disco super d’oro. Il premio, ribattezzato per l’occasione da Mario Giordano, è stato consegnato alla leader di Fratelli d’Italia nel corso dell’ultima puntata di Fuori dal coro. Merito del successo di "Io sono Giorgia", l’ormai celebre remix realizzato prendendo spunto (e materiale) dal discorso dell’ex ministro in piazza San Giovanni. “Abbiamo pensato che se lo meritasse”, ha detto Giordano citando gli 8,5 milioni di visualizzazioni sul web. “È stupendo – ha replicato una entusiasta Meloni – dopo trent’anni di politica mi darò alla musica. Lo attaccherò nella mia abitazione”. La hit, nata originariamente per sfottere la deputata, si è in breve tempo rivelata un preziosissimo assist a vantaggio della “vittima” con tanto di incremento di popolarità, soprattutto tra i giovanissimi. A fine novembre la Meloni era stata addirittura invitata da Myrta Merlino ad esibirsi in un duetto durante l’ospitata a L’Aria che tira. Episodio che aveva inevitabilmente scatenato critiche e polemiche. Da segnalare inoltre come, sulla sola Rete 4, siano state ben tre le apparizioni della presidente di Fdi negli ultimi cinque giorni. Prima di Giordano, la Meloni era stata intervistata da Paolo Del Debbio a Dritto e Rovescio e da Barbara Palombelli a Stasera Italia.
Voto di scambio, Meloni già condanna il suo consigliere arrestato: “Mi viene il voltastomaco”. Redazione il Riformista il 20 Dicembre 2019. C’è anche l’assessore regionale del Piemonte Roberto Rosso, esponente di Fratelli d’Italia, tra i destinatari del blitz che, dalle prime luci dell’alba di oggi, ha visto la Guardia di Finanza di Torino eseguire 8 ordinanze di custodia cautelare in carcere, su richiesta della Direzione Distrettuale Antimafia torinese, nonché sequestri di beni sul territorio nazionale, nei confronti di soggetti legati alla ‘ndrangheta radicati nel territorio di Carmagnola ed operanti a Torino. Tra le condotte illecite, oltre all’associazione per delinquere di stampo mafioso e reati fiscali per 16 milioni di euro, è stato contestato anche il reato di scambio elettorale politico-mafioso. I dettagli dell’operazione saranno forniti nel corso della conferenza stampa che si terrà in data odierna, alle 10.30, presso la Procura della Repubblica di Torino.
L’ACCUSA – Rosso, 59enne avvocato, secondo l’accusa avrebbe chiesto voti ai clan per essere eletto in Regione alle elezioni dello scorso fino maggio, vinte dal centrodestra: quindicimila euro in cambio della promessa di un “pacchetto” di voti alle elezioni dello scorso 26 maggio. A poche ore dal suo arresto Rosso ha rassegnato la dimissioni e il presidente Cirio assumerà le sue deleghe. Lo spiega il coordinatore di Forza Italia Paolo Zangrillo: “Noi siamo garantisti e speriamo che Rosso possa dimostrare la sua totale estraneità ai fatti di cui è accusato. Ho parlato con Cirio, sarà lui ad assumere le deleghe dell’assessore”.
L’ATTACCO – Poco garantista è invece la leader di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni che scarica Rosso: “Roberto ha aderito a Fratelli d’Italia da poco più di un anno, chiedendo di essere candidato nelle nostre liste. Come facciamo con tutti i nostri candidati, abbiamo verificato con gli strumenti che un partito ha a disposizione se avesse problemi con la giustizia. Non è emerso nulla e abbiamo deciso di sottoporre anche il suo nome al giudizio degli elettori piemontesi. È stato il più votato nelle nostre liste, e per questo è diventato assessore regionale. Apprendiamo che stamattina è stato arrestato con l’accusa più infamante di tutte: voto di scambio politico-mafioso. Mi viene il voltastomaco“. Meloni espelle Rosso augurandosi “dal profondo del cuore che Roberto Rosso dimostri la sua innocenza, che non siano vere le accuse che gli vengono mosse. Ma annuncio fin da ora che Fratelli d’Italia si costituirà parte civile nell’eventuale processo a suo carico, perché in questa vicenda ci consideriamo le prime vittime. Ovviamente, fin quando questa vicenda non sarà chiarita, Rosso è da considerarsi ufficialmente fuori da FdI”.
Silvia Romano, Giorgia Meloni a Che tempo che fa: "Bene la liberazione ma non vorrei che diventasse un buon affare". Libero Quotidiano il 10 maggio 2020. Giorgia Meloni, in collegamento con Fabio Fazio a Che tempo che fa, su Rai due, commenta così la vicenda di Silvia Romano, la giovane cooperante milanese rapita in Kenya un anno e mezzo fa e liberata dai nostri servizi in Sudan: "Una bella notizia. Spero che dopo aver riportato lei lo Stato si prodighi per andare a stanare i suoi carcerieri", esordisce la leader di Fratelli d'Italia. Che attacca: "Sarebbe un dramma se passasse l'idea che rapire gli italiani sia un buon affare". La Meloni aggiunge poi: "Anche sul tema della conversione: non posso non ragionare che sia un modus operandi di buona parte del terrorismo islamico".
Silvia Romano, Meloni: “Farei tutto per portare a casa un compatriota”. Jacopo Bongini il 13/05/2020 su Notizie.it. Intervistata sul caso di Silvia Romano, Giorgia Meloni ha affermato che se fosse stata ministro degli Esteri avrebbe fatto di tutto per farla tornare. Smarcandosi dal sentire comune dei politici di centrodestra sul ritorno in Italia di Silvia Romano, Giorgia Meloni decide di assumere toni più istituzionali sulla vicenda e ai microfoni del programma di La7 L’aria che tira afferma che se fosse stata ministro degli Esteri avrebbe fatto di tutto per riportare a casa un connazionale. Intervistata dalla presentatrice Myrta Merlino, la leader di Fratelli d’Italia si è dunque mostrata sulla stessa linea delle pronunciate negli scorsi giorni da Francesco Storace, per il quale è stato meglio che Silvia Romano sia tornata in Italia viva ma convertita che non all’interno di una bara. Soffermandosi sulla questione del presunto riscatto pagato dal governo per riavere Silvia Romano, Giorgia Meloni ha inoltre affermato che uno stato serio non avrebbe dovuto lanciare un segnale di questo tipo a potenziali rapitori: “È una cosa che non le dirò mai, che un politico normale non le direbbe mai ma posso dirle che, da patriota quale sono, farò e farei tutto quello che posso fare per riportare a casa un compatriota. Ma uno Stato serio dà il segnale che non è remunerativo rapire un italiano, indipendentemente da quello che ha fatto. Quindi adesso deve andare a stanare casa per casa i rapitori perché altrimenti sa quanti connazionali esponiamo al rischio?”. La leader di Fratelli d’Italia ha poi proseguito nel suo intervento aggiungendo come ora sia necessario fare in modo di scovare gli autori del rapimento della cooperante italiana: “Io aspetto di sapere tramite il Copasir che cosa il Governo italiano vuole fare per stanare i rapitori di questa ragazza, come farebbe qualunque governo serio. Sul tema dei riscatti le ricordo che c’è una legge in Italia che dal 1991 impedisce a chi ha un parente sequestrato di pagare dei riscatti, tanto che gli vengono sequestrati i beni per legge ed è una legge che ha dato risultati”.
Pietro Salvatori per huffingtonpost.it l'11 maggio 2020. “Buongiorno dottor Storace”. “Ma quale dottore, sono Francesco”. Ha i modi spicci e un po’ bruschi che sono stati cifra riconosciuta di una carriera politica fatta di successi e cadute Francesco Storace, colonnello di Gianfranco Fini, leader di quella Destra Sociale che lo ha portato fin sulla vetta della Pisana, alla guida della Regione Lazio, e a sedersi al tavolo del consiglio dei Ministri. Esponente di una destra pane e salame che tanto è piaciuta ed è stata odiata per decenni, che oggi lo vede nel partito di Giorgia Meloni alla direzione del destrissimo Secolo d’Italia. E’ tutto questo, Storace, ed è anche una delle poche voci che da quel mondo si sono levate in difesa di Silvia Romano: “Sono cattolicissimo, a livello personale mi è dispiaciuta la conversione. Ma ci manca solo che le chiediamo se è romanista o laziale. Preferivate che tornasse dentro una bara? Perché l’unica immagine da guardare non era quella del velo, ma del suo sorriso una volta tornata. Viva. Un sorriso che mi ha conquistato”.
La sua posizione è molto, diciamo così, originale nel mondo della destra.
«Guardi la fermo subito: ho voluto specificare che è solo una mia opinione. Ma ritengo questo dibattito assurdo. Ci manca solo che le chiediamo se è romanista e laziale. Ma anche a destra ho sentito voci ragionevoli, penso a Crosetto o a Buttafuoco».
Hanno criticato anche Buttafuoco per la sua nota conversione all’Islam.
«Io resto cattolicissimo. E se devo dirle, mi è dispiaciuta la conversione, ma a livello personale. Il problema che è molto più facile stare contro».
In che senso?
«Più facile perché il nostro mondo è all’opposizione, e quindi si fa presto a criticare. Ma non si deve mai dimenticare che Silvia Romano è stata rapita quando c’era un altro governo. Immagino dunque che sia iniziata una trattativa quando Salvini era al governo, saremmo fuori dal mondo a pensare il contrario».
Però le critiche si addensano anche, se non soprattutto, sulla sua conversione. Libero titola secco: “Abbiamo liberato un’islamica”.
«Perché la scelta di presentarsi con il velo è stata vista male. Io dico discutiamone. Perché un dibattito civile fa bene, voglio parteciparvi anche io. Ma ha senso aprire la discussione quando polvere si è depositata. Il giorno della festa si fa polemica? L’ho trovato estremamente fastidioso. Detto questo non solo la destra si è prestata. La foto della Romano postata dalla De Micheli con il simbolo del Pd è sciacallesca, una vergogna».
A proposito del velo, il direttore del Giornale Sallusti ha detto che è come veder tornare un internato in un lager con una divisa nazista.
«Non mi azzardo a dare giudizi sui colleghi. E’ un onore essere accostato a Sallusti. Ma vedo un’esasperazione nel dibattito che non condivido».
Salvini parla di “pubblicità mondiale agli infami” che l’hanno rapita.
«Quando l’ho vista ho pensato che era vestita così da lì, si figuri, la conversione nemmeno mi è passata per la testa. Sì, probabilmente si poteva ostentare di meno. Ma quel che non si capisce è che l’immagine su cui focalizzarci non è lei con il velo, ma lei che è viva. Ho discusso in privato con alcuni. Ho mostrato a chi contestava questa posizione la foto di una salma avvolta dal tricolore per dei funerali di stato. E gli ho chiesto: la volevate così? L’alternativa era tra che ritornasse viva o ritornasse morta. Poi certo, lo dubito, ma spero che si prendano i terroristi che l’hanno rapita».
Secondo lei è giusto che si sia pagato un riscatto?
«Il pagamento di riscatti è la costante della politica italiana. Poi diciamo anche che non è detto che devi fare l’eroe. Quattrocchi è stato un eroe. Ed è tornato in una bara dopo aver detto “adesso vi faccio vedere come muore un italiano”. La volevamo rivedere tornare in una bara? Con il suo sorriso mi ha conquistato. A sinistra c’è chi ha gioito per la morte di Quattrocchi. Mi rifiuto di pensare che a destra abbiamo smarrito l’umanità».
Maurizio Belpietro sostiene che ci è costata di più di un ospedale Covid.
«Senta, lasciamo perdere il coronavirus, che c’entra? Lo spreco sono i 40 milioni spesi da Zingaretti per le mascherine, che c’entra Silvia Romano con la pandemia?»
Vittorio Sgarbi fa un parallelo con Aldo Moro, dice che ci è costata più la Romano che il leader della Dc per cui non fu pagato un riscatto.
«Sgarbi ha passato gli ultimi mesi a immaginare che 30mila persone siano morte di freddo. Il suo è un ragionamento relativista, per cui tutto si deve paragonare a altro. Ma il valore della vita è sacro. La Romano ha meno anni di mia figlia, non era giusto in nessun caso farla morire. Ma si può sindacare sulla vita di una persona? L’Islam ha terroristi? Li prendi e li meni, cosa c’entra che una ragazza è diventata islamica? Certo, poi con calma e con modo mi piacerebbe chiederle se farebbe una battaglia per i diritti dei cattolici in quei paesi. Ma non si può ridurre tutto a un derby».
Belpietro chiede che, nel caso ripartisse, prima saldi il conto del riscatto e poi firmi una assunzione di responsabilità nel caso succedessero fatti simili.
«Questo vale pure per chi va in vacanza in quei posti? Per il suo ritorno provo la stessa gioia di Pippo Civati, che ogni giorno l’ha ricordata sui social».
Sul Giornale Sallusti sostiene che si sia regalata una nuova eroina alla sinistra.
«Se voleva dedicarsi alla politica a Milano sarebbe stato più agevole fare propaganda, ci sono tante sezioni del Pd. Mi riesce difficile accettare una simile argomentazione. Ci sto sulle critiche, alcune le capisco. Ma io parto da un’altra cosa: lei ha fatto una cosa che io non ho il coraggio di fare. Dicono “aiutiamoli a casa loro”, e la criticano perché lei lo ha fatto. Nel momento in cui una ha questo tipo di visione, di coraggio, anche contro la volontà dei genitori, non possiamo derubricarlo a un atto buonista, è un fatto altamente positivo. Si metterà a fare la Carola? La contesterò. Ma è un errore regalarla a uno schieramento che la userà un po’ come ha fatto la De Micheli. Al momento non mi risulta abbia speronato nessuno».
Francesco Storace: “Insulti a Silvia Romano non sono della mia destra”. Aldo Torchiaro de Il Riformista il 14 Maggio 2020. Francesco Storace dirige Il Secolo d’Italia, dopo una vita di passione politica a destra che lo ha portato dalle sezioni del Msi ai banchi di Camera e Senato, dopo essere stato Presidente della Regione Lazio e Ministro della Sanità con il governo Berlusconi. Di quegli anni ricorda le aperture di posti letto e presidi ospedalieri («Mi accusano di aver speso troppo per la sanità») ma non rimpiange di guardare la politica con un piede fuori, da libero osservatore. Rinchiuso in casa anche lui: «Soffro di asma e devo stare attento ai polmoni. Agli inizi di febbraio mi è successa una cosa strana, una polmonite brutta. Sono stato ricoverato qualche giorno. Ma non credo fosse coronavirus».
Su Silvia Romano ha colpito la sua posizione, poi sposata da alcuni di Fdi.
«Vedo una debolezza di cervelli anche a destra. Insulti, minacce. Io ce l’ho con i delinquenti somali che l’hanno rapita e sono felice di festeggiare che sia tornata viva. Convertita? Vedremo. Intanto è viva. Ma tutto questo dileggio sui social network mi deprime, non è di destra. Voglio sperare sia tutto legato all’incattivimento di questo lockdown. Ho preso a selezionare meglio i contenuti, a bloccare degli account».
Non c’è solo la Rete. Alla Camera il deputato leghista Pagano ha parlato di Silvia Romano definendola “terrorista islamica”…
«Sono trasalito. E ho fatto subito un tweet: meno male che non sto più in Parlamento».
Non esiste un vaccino per le sciocchezze.
«Purtroppo no. Invece spero arrivi presto quello per il Covid-19. Io sono sempre stato scettico sull’obbligo vaccinale, ma appena esce stavolta corro a farlo».
Come ha gestito questa crisi sanitaria il governo?
«Se si fosse saputo che c’era un documento segreto sull’emergenza sanitaria, quando ero io ministro, mi avrebbero impiccato. Invece questi fanno quello che vogliono, decreta tutto il Premier».
È singolare per un uomo di destra accusare il governo giallorosso di autoritarismo, no?
«No: la destra è per la politica autorevole, non autoritaria. E per essere autorevoli bisogna avere un’esperienza, che questi non hanno, e un consenso popolare. Di Conte non sappiamo da dove viene né chi lo ha voluto. Sappiamo solo che ci governa con questo piglio uno che non ha mai preso un solo voto nella vita».
Si trova a gestire una crisi inedita e inaudita.
«Io avevo gestito un’altra pandemia, l’aviaria. Un virus che aveva messo in ginocchio l’agroalimentare. Se oggi quella tragedia è sparita dalla mente dei cittadini, vuol dire che non abbiamo fatto danni. C’era concretezza e molta sobrietà. Si seguivano le indicazioni Oms e io curavo ogni giorno l’intesa con le Regioni. Qui siamo al caos, all’improvvisazione al potere».
Conte non le piace proprio.
«Conte è una nullità politica.
Venerdì arriva la mozione di sfiducia su Bonafede al Senato?
«Voglio capire come fanno a salvare uno come Bonafede. Io non sono né forcaiolo né garantista, ma il tema delle scarcerazioni è grave».
Lei cosa avrebbe fatto, li avrebbe fatti morire in carcere?
«All’ospedale Pertini c’è il reparto detenuti, che ho fatto fare io. C’è qualche meccanismo che non funziona, ma in testa. Bonafede è schiavo di un sistema-giustizia che non riesce a dominare».
Del caso Bonafede-Di Matteo cosa pensa?
«Sulla vicenda Bonafede-Di Matteo dice bene Sansonetti, è chiaro: uno dei due mente. O forse in parte mentono entrambi. Probabilmente è vero che a Di Matteo, star dei 5s, offrirono la direzione del Dap, ed è vero che qualcuno poi sconsigliò Bonafede dall’indicarlo per quel posto».
Non è credibile che Cosa nostra avrebbe fatto arrivare il suo veto alle orecchie del Ministro della Giustizia.
«Per sapere la verità c’è un solo metodo, mettere Bonafede davanti a un riflettore e interrogarlo. Se mi legge, voglio dargli un consiglio: prendi carta e penna e firma una lettera di dimissioni adesso, perché più passa il tempo e più la tua strada si farà in salita».
Di Matteo sembra tarantolato, Bonafede è in difficoltà. Lei un’idea se la sarà fatta.
«Qualcuno dice che è stata l’avvocatura a dare il niet e a chiedere di bloccare Di Matteo al Dap. Ma il silenzio elusivo di Bonafede lascia pensare ad altro. Ci costringe a pensare che dietro allo stop c’è Sergio Mattarella».
Lei col Colle gioca pesante.
«Con Napolitano ho vinto in tribunale, rinunciando alla prescrizione per andare a sentenza. Assolto».
Al Presidente Mattarella cosa rimprovera?
«Mattarella ha consentito troppe cose a questo governo. Non lo vede che il premier fa il gradasso? Lo deve richiamare all’ordine».
Il centrodestra si sente escluso?
«Non io, ma che per la prima volta non venga chiesta nemmeno una virgola all’opposizione, peraltro in una fase di emergenza come questa, è davvero singolare».
Parla anche delle nomine?
«Sulle nomine c’è una cosa che vorrei dire: inorridisco nel leggere l’ipotesi di Marco Mancini a capo dell’Aise, i servizi segreti esterni. Bisognerebbe guardare meglio certi curricula, forse».
A proposito di curricula, chi ha quello giusto per guidare il centrodestra?
«Io vedo bene Giorgia Meloni come leader, come guida di un governo di centrodestra. Meglio lei di Salvini, per intenderci. Oggi però contano molto i cerchi magici, e nessuno ne è esente».
Mattia Feltri per “la Stampa” il 14 maggio 2020. Sono già passati vent' anni dalla morte di Marzio Tremaglia. Aveva una testa meravigliosa, era cresciuto nel Msi e le sue idee erano profondamente diverse da quelle di Mirko, il padre, uno che a sedici anni era a Salò a combattere per il Duce. Marzio era colto, curioso, vivace, cercava le contaminazioni, il meticciato del pensiero, i recinti per scavalcarli. Era gentile. Adorava il padre e ne era adorato, per dire del disaccordo che non sposta l' amore di un millimetro. Marzio mi è tornato in mente ieri quando ho visto un' intervista a Guido Crosetto, un altro che non si fa indicare che dire e che fare. Nell' intervista era dolce e comprensivo con Silvia Romano, e il titolo cominciava così: Io, uomo di destra. Eccola la notizia: un uomo di destra senza clava e bava alla bocca. Come se non ne avessimo incontrati sempre, a decine, eleganti, sapienti, ironici, aperti. Potrei stilare l' elenco infinito, da Paolo Isotta a Stenio Solinas, da Pietrangelo Buttafuoco a Franco Cardini, ma niente, nell' immagine quotidiana l' uomo di destra è un cavernicolo, e se non lo è - gasp! - stupefazione somma. Quanto è sciatto e agevole ricacciarli nel ghetto e sicuramente ha ragione Flavia Perina (ex direttore del Secolo d' Italia, donna che provò a cambiare la destra e di destra non si sente più) quando spiega che, del resto, nel ghetto i più ci si ritrovano benissimo, rassicurati dai loro elettori, fan, follower. Pigramente a sinistra gli danno un ruolo e pigramente a destra se lo tengono, ognuno nel suo cantuccio, a coltivarsi il vicendevole pregiudizio e un' identità grossolana e primitiva. La nostra politica tribale viene tutta da lì.
Giuseppe Alberto Falci per huffingtonpost.it il 14 maggio 2020. Una cosa dice appena risponde al telefono: “Penso di poter parlare con tutta onestà della destra perché la conosco bene ma al tempo stesso ho rotto ogni connessione di tipo psicologico e politico con quel mondo”. Flavia Perina, nata nel mondo del Movimento sociale italiano, un passato da direttore del Secolo d’Italia, già parlamentare di Futuro e Libertà, da tempo tornata al giornalismo “senza aggettivi”. Ed eccola in una lunga conversazione con l’Huffington Post nei giorni in cui la destra italiana si divide su Silvia Romano.
Perina, se ha rotto ogni connessione vuole dire che non si definisce più una donna di destra?
«Da molto tempo non riesco a riconoscermi nella destra italiana».
Guido Crosetto, Fabio Rampelli, Francesco Storace difendono Silvia Romano e la sua conversione, e scoppia lo stupore generale. Come se ci fosse un pregiudizio nei confronti della destra. E’ così?
«Ci sorprendiamo giustamente per le posizioni di Guido Crosetto, Fabio Rampelli, Francesco Storace, sulla vicenda di Silvia Romano perché la destra ha sempre ostentato su questi fatti un’alta dose di cattivismo: è un sentimento che non corrisponde al suo dna, ma in genere gli attuali leader giudicano utile assecondare le pulsioni estremiste del loro “popolo”. Da tempo hanno rinunciato all’opera pedagogica che, in tempi passati, la destra considerava fra i suoi doveri anche nei confronti del suo elettorato. A tal proposito torna in mente la figura di Giano Accame, intellettuale di destra, anche lui direttore del Secolo d’Italia. Ecco, Accame pubblicò la foto di Fini con una bambina eritrea. Fu rivoluzionario. E’ un episodio molto citato. Era il 1988, si cominciava a parlare dell’emergenza immigrazione, cominciavano ad emergere istinti razzisti che nell’opinione pubblica facevano riferimento alla destra. Accame pensò bene di stroncarli, di dare un’indicazione precisa, con quella famosa prima pagina che tutti citano ma che forse bisogna raccontare bene».
Lo faccia lei.
«Non c’era solo una foto di Fini durante la visita a una casa famiglia, con una bambina eritrea in braccio, ma anche Il titolo “Solidarietà”. E un sommario che schierava il giornale “con gli esclusi della società opulenta”. L’editoriale di Giano Accame pubblicato a fianco era intitolato: “La compassione contro lo sfruttamento”. Lo stesso Giano Accame che teorizzava il “fascismo immenso e rosso”. E’ il titolo di un suo libro, ma forse la definizione politica più esatta del suo impegno, anche giornalistico, va cercata in un altro saggio e in un altro titolo: Socialismo tricolore».
Ritorniamo alla foto di Fini con la bambina eritrea.
«A quell’epoca, negli ultimi anni del Novecento l’obiettivo principale della destra era trovare occasioni per uscire dal ghetto, mostrare una natura spesso diversa dalla caricatura che ne facevano i suoi avversari».
E oggi ci vuole restare?
«Credo che la destra di oggi si trovi abbastanza bene nel ghetto, intesa come area di opposizione radicale, opposizione “di sistema”. Pensano che quel tipo di isolamento e di “alterità” porti consensi. E che quindi debba assecondare il tipo di elettorato che apprezza il rifiuto di ogni contaminazione e dialogo, sempre percepito come intelligenza col nemico».
Oltre a Giano Accame, la destra è stata anche Giuseppe Tucci, orientalista, storico delle religioni che fondò l’Istituto italiano per il Medio e l’Estremo oriente.
«Ma sì, il rapporto storico della destra anche con l’Oriente e anche con lslam è stato un rapporto di interesse e studio a tutti i livelli. Basta dire che uno degli intellettuali più ascoltati a destra è Pietrangelo Buttafuoco, l’autore de “il feroce saracino”. Ecco, nessuno del suo mondo si è mai sognato di contestargli la sua scelta religiosa. E tuttavia nel racconto pubblico ogni apertura al pluralismo, non solo religioso, sparisce, anzi spesso viene criminalizzata: basti pensare alla lunga battaglia contro le moschee».
La sua direzione del Secolo d’Italia, tuttavia, fu oggettivamente pluralista.
«Altri tempi. Il lavoro principale che affrontai insieme al condirettore Luciano Lanna fu quello di dare voce a segmenti della destra oscurati dalla cosiddetta “linea ufficiale” e aprire interlocuzioni col mondo esterno».
Quali segmenti?
«Esisteva una destra ecologista, aprimmo una rubrica su quei temi e la affidammo a Fiorello Cortiana, una firma che veniva da sinistra ma aveva una sensibilità molto simile alla nostra. C’era una destra amica del protagonismo e dei diritti femminili: ci inventammo “Thelma & Louise”, una rubrica dove si alternavano Isabella Rauti e Roberta Tatafiore, che veniva dall’esperienza più classica del femminismo. Parlammo di Islam con Noi Musulmani di Omar Cammileti, che raccontava storie eterogenee del mondo islamico, dai complessi rock alla moda. Fu il tentativo di sviluppare tanti interessi culturali e politici della destra, oltre le incombenze della “linea ufficiale”».
Una destra molto lontana dal bar sport...
«Sicuramente. Purtroppo il bar sport è diventato uno dei riferimenti principali non solo della destra ma di molti settori politici. Gran parte delle prese di posizione che leggiamo ogni giorno sono fatte immaginando come intercettare il consenso del bar sport. La destra si è adattata, soprattutto perché teme la concorrenza della Lega, abilissima nel gioco di quel tipo di propaganda. Negli ultimi tempi, tuttavia, ho notato un certo ritorno alla serietà, un po’ di smarcamento dal populismo più becero...»
Su Silvia Romano, Giorgia Meloni ha una posizione differente da quella di Crosetto, Storace e Rampelli.
«Vero. Mi ha sorpreso, tuttavia, che in una recente intervista proprio qui sull’Huffington abbia smentito l’esistenza di una pluralità di linea all’interno del suo partito. E’ sempre esistita una pluralità di voci all’interno della destra e non si capisce perché oggi debba essere sparita. Credo che sia una ricchezza, non un fatto da nascondere».
Beppe Niccolai, ad esempio, storico dirigente del Msi, movimentista dentro il partito, diceva di sè: “Io sono molto più a sinistra di Ingrao”.
«Sì, ma questa è paleontologia. A chiunque andasse a chiedere, oggi, chi fosse Beppe Niccolai dubito che saprebbero situarlo nel tempo e nello spazio, e soprattutto nella politica. La destra un po’ ha dimenticato, un po’ preferisce dimenticare».
Si spieghi meglio.
«Faccio un solo esempio, ma potrebbero essercene tanti. Tra le cose paradossali della destra in questa ultima fase c’è l’elogio dei muri che dividono l’Europa, a cominciare dal muro di Viktor Orban. Ma come, mezzo secolo a contestare il Muro di Berlino come una ferita assoluta, una intollerabile lacerazione, un orrore contro i popoli d’Europa, e ora i muri piacciono? C’era un muro anche a Gorizia: Roberto Menia e Gianfranco Fini armati di piccone andarono a tirarlo giù, ovviamente con un’azione dimostrativa. La destra di oggi forse lo ricostruirebbe... La trovo una surreale conversione rispetto alla propria storia. Ma succede perché quella storia non se la ricorda più nessuno».
Qual è il suo giudizio sulla vicenda Silvia Romano?
«L’operazione propagandistica messa su per accogliere all’aeroporto questa ragazza è stata indecente. La si è esposta, ben sapendo che sarebbe stata criticata, sperando di lucrare qualche consenso. E’ una scelta che, tra le altre cose, ci dice anche che il governo non ha compreso l’eccezionalità del momento, la necessità di sospendere ogni tipo di teatrino. Un recente sondaggio di Alessandra Ghisleri ci fotografa come un Paese dove il 96 per cento dei cittadini non si fida più della politica: andando avanti così finiremo al cento per cento».
Appunto, torniamo alla cooperante milanese.
«Io credo che nel linciaggio social di Silvia Romano abbiano agito molte cose, ma soprattutto un sessismo profondo. Quest’anno sono stati liberati quattro ostaggi italiani. Tre erano maschi, una era Silvia Romano. Dei maschi non ci ricordiamo neanche il nome, pure uno di loro si sarebbe convertito e nessuno ha ritenuto di dovere scrivere due righe sulla faccenda. Di Silvia sì, ci ricorderemo: perché forse è la sola vittima di sequestro che dopo la liberazione deve essere protetta dai suoi stessi concittadini. Così come è capitato a tutte le altre finite in ostaggio dei fondamentalisti. Penso alle due Simone, a Greta e a Vanessa. Su tutte si è trovato un motivo per indicarle al pubblico ludibrio».
A questo punto le chiedo: può esistere, nascere, una destra diversa?
«Adesso no. Adesso la destra è questa».
Perché?
«Ogni tentativo in questa direzione è fallito. Bisogna prenderne atto. Siamo un Paese anomalo, siamo un Paese dove hanno vinto le formule populiste. Una destra sul modello di quello tedesco o francese è inimmaginabile. Come è difficilissimo trovare lo spazio per un altro tipo di sinistra, o di centro. La chiave di questo Paese è la competizione populista».
Si sente sconfortata?
«No, per carità, osservo. La sola cosa sconfortante è che, inseguendo questa chiave populista, il Paese sta letteralmente andando a rotoli».
Attaccare Silvia Romano è da bulli: lei creda in quello che vuole, noi nella libertà. Deborah Bergamini su Il Riformista il 14 Maggio 2020. Prendersela con Silvia Romano, oltre che facile, è da bulli, non da forti. Per noi che apparteniamo ad una democrazia laica e liberale non dovrebbe contare ciò in cui crede Silvia, ma ciò in cui crediamo noi: a partire dalla libertà e dai diritti intangibili dell’individuo tanto faticosamente conquistati. A nessuno di noi ha fatto piacere apprendere che Silvia Romano, in quei lunghi mesi di prigionia in Somalia, si era trasformata in Aisha, che aveva cambiato religione. Quello che non capisco è che fine abbiano fatto l’umanità e l’empatia per una ragazza che fino ad una dozzina di giorni fa era prigioniera di sanguinari estremisti islamici. Certo, può non piacerci la veste verde che Silvia indossava al suo rientro, ma quella veste – oltre a rappresentare un grave errore di comunicazione del nostro governo e una vittoria di immagine per i terroristi che la tenevano in ostaggio – rappresenta soprattutto la differenza di fondo tra noi e loro. Da noi quella veste verde è una libera facoltà. Da loro quella veste verde è una vigliacca imposizione maschile sull’integrità femminile. Non si difende l’identità di una grande nazione democratica prendendosela con chi ha scelto una religione diversa da quella della maggioranza. Si difende l’identità di una nazione tutelando tutti i suoi cittadini a prescindere dal genere, dalla razza, dalla religione, dalle opinioni. Abbiamo riportato a casa una cittadina italiana, e questo è ciò che conta. Se Silvia deciderà di mantenere la sua nuova fede o meno sarà un fatto che riguarda lei, non noi. Se davvero abbiamo pagato quattro o più milioni di euro per liberarla, certo non li abbiamo pagati per costringere Silvia a credere a ciò in cui crediamo noi. Questo è quello che hanno fatto i terroristi: l’hanno rapita, indottrinata, convertita e poi venduta. Sì, venduta. Perché a loro non frega niente se credi o non credi in Allah. A loro frega solo dei soldi e del potere che tutto questo può dargli. Se alcuni elementi del centrodestra avessero voluto strumentalizzare la vicenda di Silvia Romano per guadagnare cinicamente un po’ di consenso nell’opinione pubblica, sarebbe bastato criticare l’errore di immagine commesso dal governo, mostrandosi però solidali con la giovane vittima di una lunga prigionia. Invece alcuni, dando il cattivo esempio, hanno deciso di puntare il dito contro Silvia, quando alla fine Silvia è stata solo ostaggio di dinamiche più grandi di quelle che una persona può portare su di sé. Lasciamo a lei e ai suoi familiari il tempo e il diritto di riprendersi in santa pace. Poi, quando sarà pronta, potremo confrontarci su tutti i temi che vorremo. Se “Prima gli italiani” non è solo uno slogan, allora dobbiamo avere rispetto per la vicenda umana di Silvia. Quello che non va fatto è far sentire Silvia prigioniera di un pensiero unico che più che accettarla per quella che è, vuole imporle un certo dover essere. Come se quei quattro milioni di euro ci dessero il diritto di disporre della sua anima. Questo imporre un credo, una fede, un modo di vivere, un’idea, questo voler disporre delle anime delle persone e farne cosa propria è quello che fanno i terroristi, non chi appartiene saldamente ad una destra democratica.
Nuova richiesta di estradizione per Giancarlo Tulliani, ma lui resta a Dubai. Secondo il legale di Tulliani, Alessandro Diddi, la nuova iniziativa della procura è destinata a cadere nel vuoto: "Gli Emirati Arabi hanno già respinto una prima richiesta per mancanza dei presupposti, ci attendiamo una conferma della decisione". Cristina Verdi, Mercoledì 18/12/2019, su Il Giornale. Quella di Giancarlo Tulliani è una prigione dorata fatta di grattacieli avveniristici e lusso smisurato. Uno scrigno che neppure gli uomini della procura di Roma riescono ad aprire. Sembra destinata, infatti, a cadere nel vuoto anche la nuova richiesta di estradizione nei confronti del cognato di Gianfranco Fini, che deve rispondere assieme alla sorella Elisabetta e all’ex presidente della Camera, di riciclaggio internazionale, alle autorità degli Emirati Arabi Uniti. A chiarirlo è l’avvocato di Tulliani, Alessandro Diddi. "Non c'è nessuna nuova ordinanza di custodia cautelare", ha commentato il legale intervistato dall’agenzia di stampa Adnkronos. "Semplicemente – ha ribadito - la Procura di Roma sta cercando di convincere le autorità di Dubai a dare il via libera all'estradizione". "Questo dimostra la fondatezza della nostra posizione – prosegue - infatti gli Emirati Arabi avevano già respinto una prima richiesta della procura per mancanza dei presupposti. Ci attendiamo quindi una nuova conferma della decisione". Insomma, secondo la difesa di Tulliani, nonostante l’entrata in vigore, lo scorso ottobre, del trattato di assistenza giudiziaria tra Italia ed Emirati Arabi, il fratello della moglie di Fini è la polizia emiratina potrebbe continuare a proteggere il cognato dell'ex segretario di Alleanza Nazionale anziché rispedirlo nel nostro Paese. La latitanza dorata di Tulliani, quindi potrebbe proseguire ancora per anni. Tanto che a raggiungerlo è stata anche la fidanzata, Federica Papadia. La donna, secondo quanto riferisce Il Tempo, qualche mese fa avrebbe lasciato il lavoro, o quantomeno preso un’aspettativa, per imbarcarsi su un volo di sola andata diretto a Dubai e trasferirsi in pianta stabile dal fidanzato. La ragazza, 35 anni, lavora come macchinista della metropolitana per l’Atac, la municipalizzata capitolina dei trasporti. Nel 2015, sempre secondo quanto riferisce il Tempo, era stata pure linciata dai passeggeri mentre era in servizio, per un ritardo del treno. Ora ha deciso di cambiare vita e stare accanto al fidanzato, ricercato dalla polizia italiana. E, almeno sulla carta, anche da quella emiratina. Il processo al re delle slot-machine Francesco Corallo, ha preso il via ieri nella quarta sezione penale del tribunale di Roma. Alla sbarra con l’accusa a vario titolo di associazione a delinquere, peculato, riciclaggio internazionale e sottrazione fraudolenta di imposte ci sono anche l’ex presidente della Camera, Gianfranco Fini, la moglie Elisabetta Tulliani, il suocero Sergio, l’ex deputato Amedeo Laboccetta e il cognato Giancarlo, che nel frattempo si gode la vita all’ombra del Burj Khalifa. L’accusa è di aver riciclato attraverso falsi contratti e società off-shore oltre 7 milioni di euro. Al centro dell’inchiesta c’è anche l’acquisto, da parte proprio di Giancarlo Tulliani della celebre casa di Montecarlo, lascito della contessa missina Anna Maria Colleoni ad An. A venderlo ai due fratelli per 300mila euro fu proprio Gianfranco Fini. L’appartamento fu rivenduto nel 2015 e l’affare fruttò oltre un milione di euro.
Pd & pentiti, con i suoi dirigenti imputati tenta di infangare Fabio Rampelli. E’ una vergogna. Francesco Storace venerdì 10 gennaio 2020 su Il Secolo D'Italia. E’ la fine del Pd, che si aggrappa ai pentiti per macchiare Fabio Rampelli. Ma gli dice male, perché il vicepresidente della Camera è persona che tutti conoscono come specchiata. Il Fatto quotidiano ci campa, perché si nutre di malagiustizia, ma che un partito politico si metta a correre appresso ai boss in cerca di sconti di pena è una vergogna. Altro che prescrizione come barbarie, quando parlano di Bonafede. Domattina, addirittura al Nazareno, due signori imputati in un processo che molto probabilmente finirà proprio in prescrizione, Bruno Astorre e Claudio Moscardelli, ci proveranno con una conferenza stampa. I giudici li imputano per i fatti accaduti alla regione Lazio nella legislatura Polverini. E loro due si permettono di giocare a fare i giudici. Accade che un pentito si segga in tribunale e dica che Rampelli, con le minacce, fu indotto nel 2013 a rinunciare al collegio di Latina (Lazio 2) per far entrare in Parlamento Majetta, che lo seguiva in lista. Quest’ultimo – dice un avanzo di galera – “doveva essere eletto alla Camera”. E Rampelli sarebbe stato minacciato. Si sarebbe impaurito. Già questo la dice lunga sulla boutade. In realtà entrò Majetta semplicemente perché Fdi – all’esordio alle politiche – premiò il territorio in cui aveva raccolto il 10 per cento dei voti. Pure scelta politica, altro che storie. Comunque, se uno dice uno sciocchezza in tribunale è ovvio che faccia notizia e che persino Il Fatto ne trascriva la salivazione. Quel che è incredibile è lo sciacallaggio di un partito come il Pd, che manda avanti due imputati in un altro processo per screditare chi non è neanche indagato. A Roma si è celebrato un processo noto come mafia capitale che è finito senza mafia. Il segretario del Pd fu indagato. Si avvalse inizialmente della facoltà di non rispondere. Poi, quando tornò davanti ai giudici, fu un mezzo disastro. Se da domani quel Pd vale scatenare la bagarre su mafia e politica autorizzi pure i suoi imputati ad andare a compiere altre nefandezze al Nazareno.
Landolfi: “Torno a vivere dopo 12 anni”. E ora l’ultima tappa della battaglia giudiziaria. Redazione venerdì 27 dicembre 2019 su Il Secolo d'Italia. “L’indagine che mi ha coinvolto, conclusasi con la sentenza di lunedì 23 dicembre, è stata un’indagine contro di me, e non su di me. Per me è prevalso l’assunto che non potevo non sapere”. “Altri esponenti politici soprattutto di sinistra coinvolti in indagini, potevano invece non sapere. Penso a Lorenzo Diana, e a Bassolino che, nel periodo dell’emergenza rifiuti, firmava tutte le ordinanze”. Così l’ex Ministro delle Telecomunicazioni nonchè ex parlamentare di An e Pdl, Mario Landolfi, commenta in una conferenza stampa appositamente convocata a Caserta, la sentenza emessa dal Tribunale di Santa Maria Capua Vetere. Un pentito di scarsa attendibilità ha fatto condannare Landolfi a due anni di carcere, con pena sospesa e non menzione della condanna nel casellario giudiziario, per una vicenda di corruzione risalente al 2004 e relativa al Comune di Mondragone. Esclusa l’aggravante mafiosa, ovvero la circostanza che “non mi ha fatto vivere per 12 anni”, ha sottolineato Landolfi, affiancato dal suo avvocato Michele Sarno.
Landolfi e le altre vittime della malagiustizia. Presente alla conferenza anche l’ex sindaco di Caserta Pio Del Gaudio. “Fu arrestato come Al Capone – ricorda Landolfi – con tanto di elicottero, ma poi assolto in via definitiva da ogni accusa”. Landolfi cita l’attuale presidente della Provincia di Caserta. “Giorgio Magliocca, in carcere per undici mesi per reati di camorra e poi assolto“. Tutti “vittima come me – dice Landolfi – di un modo di amministrare giustizia che spesso non risponde alle richieste o alle esigenze del cittadino, ma risponde più a convenienze della corporazione giudiziaria. Ma intanto un’intera classe dirigente, quella del Pdl, è stata spazzata via”.
La rinuncia alla prescrizione. Landolfi, che dovrà probabilmente affrontare Appello e Cassazione (“sono convinto che le accuse cadranno del tutto“, dice) ricorda anche Enzo Tortora, e afferma poi che “in Italia c’è un problema irrisolto, anzi incancrenito, che è quello di avere una giustizia più obiettiva, e di eliminare questo rapporto incestuoso tra politica e magistratura, che non era un’ossessione di Berlusconi, ma un dato di fatto. Ma non sono sicuro che avverrà; fa riflettere vedere Bonafede occupare la carica di grandi persone come Rocco o Vassalli, parlare ancora di prescrizione. Cosa cui io, a differenza di tanti politici pagando con questa condanna, ho rinunciato. Ma il livello è questo”.
Caserta, sentenza Landolfi condannato a due anni per corruzione, assolto dall'aggravante camorristica. Pena sospesa. "Felice per la caduta dell'accusa di mafia, ho rinunciato alla prescrizione". La Repubblica il 23 dicembre 2019. Due anni per corruzione, pena sospesa e non menzione, con assoluzione dalla truffa e dall'aggravante camorristica. Questa la sentenza decisa per l'ex ministro delle Telecomunicazioni Mario Landolfi, ex esponente di An e Pdl, sotto processo a Santa Maria Capua Vetere nell'ambito di un'inchiesta sui rifiuti. A caldo l'ex ministro commenta: "Felice per la caduta dell'accusa di mafia, ho rinunciato alla prescrizione. Dimostrata l'assoluta inattendibilità del pentito camorrista". Il pm della Dda aveva chiesto per Landolfi una condanna a tre anni e sei mesi. Il processo a Landolfi, che ha rinunciato alla prescrizione, era una parte del procedimento a carico dell'ex sottosegretario nonché coordinatore campano del Pdl Nicola Cosentino, conclusosi in primo grado con la condanna dell'ex politico di Casal di Principe a nove anni per concorso esterno in associazione camorristica, in quanto ritenuto il "referente politico nazionale" del clan dei Casalesi. Per l'avvocato difensore di Landolfi, Emilio Nicola Buccico, "si tratta di una sentenza pilatesca che dà il contentino a tutte le parti, naturalmente attendiamo le motivazioni in base alle quali è stato valutato il reato di corruzione".
Dagospia il 23 dicembre 2019. «Ho sempre adorato il Natale, anche se, essendo cresciuta senza padre, mi sembrava sempre che mancasse qualcosa... Eravamo noi cinque il 25 dicembre: mamma, mia sorella Arianna, io, nonna e nonno. Eravamo felici, ma mi sarebbe piaciuta una di quelle tavolate numerose con 15, 20 parenti intorno. Da quando c’è mia figlia Ginevra, però, è davvero meraviglioso. È il Natale perfetto, con tutta la sua magia e lo stupore che solo i bambini conservano». Giorgia Meloni, per un giorno depone i panni di leader di “Fratelli d'Italia” e indossa quelli di mamma in una intervista esclusiva al settimanale “Chi”, in edicola da mercoledì 24 dicembre. Con lei, per la prima volta la figlia Ginevra e il compagno Andrea Giambruno, autore di “Stasera Italia” e conduttore del Tgcom Mediaset. «Andrea ha una grande pazienza, è vero. In realtà, però, solo da tre mesi vive con noi stabilmente a Roma», svela Giorgia Meloni a “Chi”. «Prima faceva su è giù dagli studi Mediaset di Milano, dove è nato e dove vivono i suoi genitori. Ci vedevamo solo nel weekend, ma anche adesso, con i suoi orari e il mio lavoro in giro per l’Italia, riusciamo a stare poco insieme». Per la prima volta Girogia Meloni parla anche della sua sfera privata, rivelando un lato inedito. «Io non voglio fare il maschio nella dimensione privata. Se all’esterno devo farmi valere per forza come leader, nel privato mi piace essere protetta e coccolata. Tra i due sono io la più accondiscendente. In passato però ho avuto seri problemi. Alcune relazioni difficili da gestire, con uomini che non mi perdonavano il mio ruolo, anzi, spesso me la facevano pagare. C’era una sorta di rivalsa, di rabbia. Andrea, invece, non ha mai avuto questo problema, è il mio primo tifoso». E alla domanda sul perché non siano ancora sposati, nonostante lei rappresenti un partito fortemente legato ai valori della famiglia risponde: «Intanto perché tu possa sposarti qualcuno deve chiedertelo… In ogni caso non porto avanti le mie posizioni politiche pensando al mio interesse personale. Non sono sposata, ma sono comunque convinta che lo Stato debba privilegiare le coppie che lo fanno, per la responsabilità che si prendono. Io voglio una società nella quale si sia consapevoli che a ogni scelta corrispondono conseguenze e che non esistono solo diritti. Sono credente, ma le mie posizioni politiche non dipendono da una scelta confessionale. Per esempio, sono convinta della sacralità della vita, laicamente convinta».
Landolfi: «Io, “espulso” dalla politica per un reato che non ho mai commesso». Simona Musco il 18 gennaio 2020 su Il Dubbio. L’odissea dell’ex ministro delle Comunicazioni inizia a febbraio 2008, quando riceve un avviso di conclusione indagini che gli stravolge la vita. «È caduta l’accusa più grave e infamante, che mi ha incatenato per dodici lunghi anni, l’accusa cioè di collusione e di aver agevolato la camorra. È rimasta però l’inspiegabile condanna a due anni per corruzione, senza menzione nel casellario giudiziario e pena sospesa, per una limitata vicenda localistica alla quale io sono completamente estraneo. Una sentenza inspiegabile alla luce dell’andamento del processo e delle memorie difensive prodotte. Per me è un’assoluzione piena mascherata». Mario Landolfi, ex ministro delle Comunicazioni del governo Berlusconi, non vuole chiudere la sua partita giudiziaria senza chiarire ogni aspetto di quella vicenda che lo tiene inchiodato da oltre un decennio. Una vicenda iniziata a febbraio 2008, quando il politico riceve un avviso di conclusione indagini che gli stravolge la vita, allontanandolo dalla politica e dal proprio partito, che ne prende le distanze. L’inchiesta è quella relativa alla società Eco4, attiva nel settore dei rifiuti e braccio operativo del Consorzio obbligatorio tra Comuni denominato Ce4. Un’indagine diventata, sotto il profilo mediatico, una costola di quella che ha visto l’onorevole Nicola Cosentino condannato in primo grado, nel 2016, a 9 anni di carcere per concorso esterno in associazione camorristica, ritenuto referente nazionale dei Casalesi. All’ex deputato viene però contestato un singolo fatto risalente al 2004 e avvenuto a Mondragone: secondo l’accusa, Landolfi avrebbe fatto dimettere, ad un mese dalle elezioni, il consigliere comunale di opposizione Massimo Romano per far entrare in Consiglio una persona che avrebbe aiutato l’allora sindaco Ugo Conte, di centrodestra, a mantenere il potere. Manovre che sarebbero servite a non far cambiare maggioranza nel Ce4, secondo la Dda consentendo ai clan di camorra di continuare a gestirlo, attraverso il rapporto con l’Eco4, i cui soci privati – i fratelli Orsi – pagavano mensilmente una tangente al clan La Torre, egemone a Mondragone. In cambio delle dimissioni, Romano avrebbe chiesto ed ottenuto l’incarico di assessore nella giunta post- elettorale per il fratello Agostino ( ispettore di Polizia) e un posto di lavoro trimestrale per la moglie presso la Eco4. Durante il processo, Landolfi rinuncia alla prescrizione, nel tentativo di uscire completamente pulito da una vicenda basata su un «cervellotico capo d’imputazione che non mi avrebbe portato alcun tipo di vantaggio», dice oggi l’ex deputato. Agli atti, spiega, mancano parti fondamentali. Mancano, cioè, testimonianze, intercettazioni – non autorizzate dal Parlamento ma che Landolfi rende pubbliche – e chiamate in correità. Tutto ruota intorno alle telefonate tra i fratelli Romano, in cui Agostino cerca di tranquillizzare il fratello sugli stipendi non pagati alla moglie da parte della Eco4, assicurandogli che «ne avrebbe parlato con Mario». Nessuna delle conversazioni, dunque, contiene la voce di Landolfi, né esiste alcuna telefonata in cui Romano confermi di «aver parlato con Mario». «Nelle carte – sottolinea Landolfi, difeso dagli avvocati Emilio Nicola Buccico e Michele S – ci sono salti logici e conclusioni arbitrarie. Si parla di me, ma nessuno ha mai verificato se ci sono stati incontri tra me e quelle persone. Il mio comportamento non corrispondeva alle aspettative dell’accusa e anziché considerare infondata l’ipotesi formulata contro di me sono stato descritto come un soggetto che aveva tradito i propri sodali. Non c’era alcun elemento per trascinarmi in questa vicenda durata 12 anni. E che ancora durerà chissà quanto» . L’accusatore arriva nel 2014: Giuseppe Valente, ex- Ppi poi passato in Forza Italia, piazzato alla guida del Ce4 proprio da Landolfi e imputato per estorsione aggravata. Dopo essersi costituito, ad ottobre 2013, per scontare oltre un anno di residuo di pena, con scadenza novembre 2014, a febbraio si pente, uscendo dal carcere l’ 11 aprile, ovvero ancor prima di aver fatto passare i canonici 180 giorni necessari dopo una collaborazione e nonostante una doppia conforme a 5 anni e 4 mesi per reati aggravati dall’articolo 7. Valente diventa il teste chiave nel processo Cosentino e, soprattutto, tira in ballo Landolfi. Che, però, si sente vittima di un complotto. A mettergli la pulce nell’orecchio è una lettera che arriva a Montecitorio il dicembre 2004. Il mittente è Augusto La Torre, boss in carcere dal 1996 e pentito di camorra dal 2003, quando si autoaccusa di una cinquantina di omicidi. La Torre chiede a Landolfi, col quale da ragazzino condivideva lo stesso condominio a Mondragone, di poterlo incontrare. Dice di avere delle cose da svelare, ma di volerlo fare di persona. Landolfi è cauto: informa l’allora pm antimafia di Napoli Raffaele Cantone, acquisisce la lettera e declina l’invito ad andarlo a trovare in carcere. «Sono impossibilitato a venire. Mi metta per iscritto quel che avrebbe voluto dirmi a voce», replica. Così arriva la seconda lettera, nella quale La Torre parla di un complotto ai danni del politico ex vicino di casa: «per non aver voluto accusare lei e altri innocenti ( cosa che hanno fatto altri collaboratori) io sono stato scartato». A La Torre, infatti, è appena stato revocato il programma di protezione per una presunta estorsione ai danni di un imprenditore. L’atto d’accusa del pentito è indirizzato soprattutto a Cantone, poi diventato capo dell’Anac, che trascina il collaboratore a processo per calunnia e che testimonia al processo dell’ex ministro come teste della difesa. Landolfi, intanto, invia tutto alla Procura di Napoli e attende che quel complotto venga negato o confermato. La Torre conferma tutto in aula, ma della questione non si saprà più nulla. A giugno scorso la Dda chiede la condanna di Landolfi: una pena a 3 anni e 6 mesi, aggravante mafiosa compresa. Ma il colpo di scena arriva il giorno della sentenza, fissata per il 18 novembre. Quel giorno, dopo una camera di consiglio durata 6 ore, il Tribunale, anziché decidere, emette un’ordinanza per riascoltare Valente. «Ci siamo decisi a riascoltarla – afferma il presidente del collegio una settimana dopo – perché leggendo le sue dichiarazioni ci siamo accorti che c’erano più valutazioni conclusive che fatti puntualmente ripercorsi». Durante la prima camera di consiglio, dunque, i giudici non trovano elementi per condannare Landolfi. E nel dubbio, decidono di allungare ulteriormente un’istruttoria già chiusa. Nella successiva testimonianza, in 30 pagine di verbale, sono 23 i «non ricordo» e tre i «non so» pronunciati da Valente, che si contraddice più volte. Il tutto mentre il collegio a fianco, nel giudicare i coimputati che hanno scelto un altro rito, descrivono un altro scenario: «era talmente forte il malumore di Romano verso Conte Ugo e Giuseppe Valente che era intenzione di Romano informare addirittura Mario Landolfi». E quell’addirittura, commenta il politico, significa che quel Tribunale, leggendo le stesse carte, lo ha considerato estraneo. La sentenza arriva il 23 dicembre scorso: non c’è aggravante mafiosa, ma resiste la corruzione. «È un caso singolare – conclude -. Sono sempre stato un combattente, un politico di strada, ma da quel giorno la mia carriera è finita. E non so se ci sarà un futuro in questo senso».
In mancanza di meglio, la politica litiga sulla cannabis, dopo la sentenza della Cassazione. Redazione open.online il 27 dicembre 2019. La decisione della Cassazione ha risvegliato la politica dal torpore delle feste natalizie. La più dura contro la sentenza delle sezioni unite della Cassazione sulla libera coltivazione di cannabis è stata la leader di Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni, che si è detta «allibita», perché il messaggio che «viene lanciato soprattutto ai più giovani è devastante e rischia di aere pesanti ripercussioni sulla società italiana, che già vive una drammatica emergenza droga». La levata di scudi anima il centrodestra e la società civile da sempre schierata su posizioni proibizioniste. Con la manovra economica ormai varata, la politica, in particolare le opposizioni, si deve accontentare di spaccarsi sul tema della cannabis, visto che il fulmine delle dimissioni da ministro di Lorenzo Fioramonti sembrano ormai una partita tutta interna al M5s. Preoccupato per i giovani è anche l’ex presidente del Parlamento europeo, il forzista Antonio Tajani, che ricorda il suo impegno di volontariato nella comunità per tossicodipendenti In Dialogo a Trivigliano, vicino Fiuggi: «Parlando con genitori, giovani e meno giovani, ho saputo che tutti coloro che fanno uso di cocaina e acidi hanno cominciato con una canna». Dalla Lega Fedriga lancia il sospetto che la sentenza della Cassazione sia solo un primo passo «che di fatto vogliono arrivare alla droga libera». La sentenza ridà voce a Emma Bonino, che rivendica uno delle battaglie storiche per i radicali: «È il risultato di 40 anni di impegno, in particolare del mio impegno». Per la Bonino «si è rotto un tabu, è un primo passo per poter ragionare oltre i cliché e gli stereotipi». Tra le forze di governo, sono i grillini a esultare più degli altri, con Pd e Italia viva quasi silenti, probabilmente più preoccupati a non urtare la sensibilità dell’elettorato meno giovane. Esulta per esempio il senatore Ciampolillo, considerato tra i ribelli del Movimento, che parla chiaro e tondo di «Vittoria» con un attacco frontale anche per il premier Giuseppe Conte , perché finalmente la magistratura «ha recepito questo legittimo bisogno della società italiana. I politici, invece – dice Ciampolillo – troppo occupati a spartirsi poltrone e potere, non hanno mai voluto ascoltare, consentendo così che tanti ragazzi finissero nelle mani della delinquenza e delle forze dell’ordine. Politici codardi e ignavi! Conte non è stato da meno! Vergogna!».
Cannabis, Meloni sulla fiera di Milano: “Ignobile propaganda alla droga”. Le Iene il 26 aprile 2019. Giorgia Meloni attacca l’International cannabis expo che si terrà i primi di maggio a Milano, con lo slogan “Io non sono droga”. Con Matteo Viviani ci siamo occupati proprio della cannabis light, che nel nostro paese si può vendere e comprare. “Io non sono droga”. È questo lo slogan dell’International cannabis expo, che si terrà a Milano i primi di maggio e che ha fatto tanto arrabbiare Giorgia Meloni. La presidente di Fratelli d’Italia ha chiesto non solo di far rimuovere i cartelloni sparsi per la città con questa didascalia e una grande foglia di cannabis disegnata, ma sta anche facendo di tutto per bloccare l’evento. “Chiedo al ministro dell’Interno e al Comune di Milano di fermare la manifestazione. Il messaggio che la pubblicizza è devastante e la manifestazione in sé una ignobile propaganda alla droga libera”. La cannabis light attorno a cui ruota l’evento, in realtà, è legale nel nostro paese. Lo ha stabilito definitivamente una sentenza della Cassazione del febbraio scorso, che ha sancito la liceità della vendita della cannabis light e l'uso dei prodotti derivati. La legge 242 del 2016 entrata in vigore il 14 gennaio 2017 fa del resto già chiarezza: la cannabis sativa si può coltivare senza autorizzazione se il suo contenuto di Thc è inferiore allo 0,2%. Tra lo 0,2 e lo 0,6, chi la coltiva non ha comunque alcuna responsabilità. “Abbiamo organizzato questo evento per far conoscere la canapa, una pianta che ha capacità di ogni genere: terapeutico e industriale, alimentare, cosmetico”, ha risposto a Giorgia Meloni Marco Russo, uno degli organizzatori del festival, noto anche come “4.20 Hemp fest”. “Non è giusto che si pensi soltanto all’aspetto legato alla droga”, conclude. Ma la Meloni non la pensa così: “Non è altro che un’ignobile propaganda per la liberalizzazione della droga”. In realtà, gli usi della cannabis light sono molti e spesso, appunto, terapeutici, come vi abbiamo raccontato nel servizio di Matteo Viviani dedicato proprio alla produzione e vendita di cannabis in Italia. La Iena, nel servizio che vedete qui sopra, intervista due imprenditori della cannabis light, un business, secondo loro, destinato a crescere e creare ricchezza. E alla fine c'è pure la ricetta del decotto del professor Paolo Poli, presidente della Società Scientifica di Ricerca sulla Cannabis.
La coerenza dei proibizionisti: Giorgia Meloni si fa finanziare da una multinazionale della cannabis. Redazione di dolcevitaonline.it l'1 Luglio 2019. Tra i finanziatori ufficiali di Giorgia Meloni, leader del partito sovranista e proibizionista Fratelli d’Italia, c’è anche l’azionista di una multinazionale che è dentro al business della cannabis legale canadese. La cifra versata nelle casse del movimento politico non è di poco conto: 200mila euro. A riportare i fatti è un comunicato emesso dal movimento politico +Europa, che ha ricordato come un’inchiesta del settimanale L’Espresso abbia messo in luce come: “Il contributo di gran lunga più generoso al partito è arrivato da nomi che riconducono a una multinazionale made in Usa: messi insieme Ylenjia Lucaselli, Daniel Hager e la Hc Consulting Srl hanno infatti regalato al piccolo partito nazionalista 200 mila euro. Hager e Lucaselli sono marito e moglie. La famiglia di Hager è azionista della Southern Glazer’s Wine and Spirits, la più grande azienda statunitense della distribuzione di vini e alcolici (secondo stime di Forbes nel 2016 ha fatturato 16,5 miliardi di dollari e distribuito 60 milioni di bottiglie di vino italiane negli States)”. Il fatto è che la Southern Glazer’s Wine and Spirits, si è buttata a capofitto anche nel grande businness della marijuana, diventando il distributore esclusivo della cannabis prodotta dall’azienda canadese Aphria Inc per la quale si occupa di “fornire la copertura distributiva di prodotti a base di cannabis in tutti i punti vendita del Canada”. Un bel colpo alla coerenza per il partito che più di tutti rappresenta il proibizionismo in Italia, non c’è che dire. Solo pochi giorni fa i militanti di Fratelli d’Italia hanno manifestato per chiedere la chiusura dei cannabis shop, ed a questo scopo hanno anche presentato una proposta di legge in Parlamento. Certo, si sa che – come dicevano gli antichi – pecunia non olet, tuttavia di certo la Meloni avrà qualcosa da spiegare ai propri militanti e non sarebbe male se gliene chiedesse conto qualcuno tra i “giornalisti” che conducono i salotti televisivi che quotidianamente ospitano i suoi sproloqui politici.
La donna s’è destra. Domenico Ferrara il 2 gennaio 2020 su Il Giornale. La donna s’è destra. Giorgia Meloni nel podio del quotidiano britannico, tra i venti personaggi che potrebbero cambiare il mondo nel 2020. Unica italiana in classifica. Lei, leader di un partito considerato dai detrattori machista e maschilista oltre che razzista e fascista, è l’immagine del merito. Alla faccia delle quote rose e dei progressisti di sinistra. Perché il tormentone dance sarà pure diventato virale e avrà pure aiutato ad allargare la fama della Meloni, ma le note di Fratelli d’Italia riecheggiano da tempo e fanno proseliti. Non per nulla in un solo anno Fratelli d’Italia è passato dal 4,4% delle elezioni del 2018 alla doppia cifra del 10%, stando agli ultimi sondaggi. Una crescita esponenziale dettata dalla meritocrazia? Può darsi. Ma non ci sono donne in politica e per lo più leader di partito e per lo più di destra che hanno ottenuto questo “riconoscimento”. Non c’è solo il nero a destra, allora, almeno per i britannici. E la destra non è brutta, sporca e cattiva. Può essere anche competente, determinata, costante. Gutta cavat lapidem. Dopo la lunga traversata nel deserto, lei ha iniziato a costruire consenso, con pazienza e anche quando i riflettori puntavano su altri politici. La goccia perfora la pietra. E piano piano la Meloni è riuscita a ottenere dignità, politica, consensuale e personale. Non ci saranno le Boldrini e le femministe di sinistra oggi a esultare, eppure dovrebbero. Anche perché seppur donna, cristiana e italiana è pur sempre una donna, cristiana, italiana. E si chiama Giorgia.
Giorgia Meloni: "Con una donna premier staremmo meglio". La leader di Fratelli d'Italia parla delle donne nella politica: "Sono vittime di alcuni tabù, non credono di potercela fare a competere con gli uomini". Luca Sablone, Giovedì 09/01/2020 su Il Giornale. La guerriera Giorgia Meloni racconta ciò che si aspetta da quello che potrebbe essere davvero il suo anno. Lo fa nel corso di un'intervista rilasciata in esclusiva a Grazia, il magazine diretto da Silvia Grilli. La presidente di Fratelli d'Italia al momento è l'unica donna alla guida di un grande partito in Italia, che negli ultimi mesi sta registrando un boom davvero notevole: "Per me non è stato e non è facile. Ho provato a ritagliarmi qualche giorno di vacanza per stare con mia figlia (Ginevra, 3 anni, ndr), ma oggi ho passato 12 ore al telefono". La leader di FdI ha parlato anche di un ipotetico ruolo di presidente del Consiglio ricoperto da una donna: "Questo dipende dalle donne. Per me i tempi sono sempre stati maturi. Gli italiani hanno una certa resistenza a riconoscere che le donne dimostrano tutti i giorni di saper governare, anche quando escono dai confini domestici".
"Con una donna premier..." Nel colloquio l'ex ministro per la Gioventù ha fatto notare come sia una contraddizione la mancanza di leadership femminili: "La nostra è la stessa nazione che ripone nelle mani delle donne la gestione di tutto ciò che è più prezioso: la famiglia, i figli, la casa". A proposito delle donne ha aggiunto che spesso sono "vittime di alcuni tabù", in quanto non tutte "credono di potercela fare a competere con gli uomini" e dunque finiscono per "competere tra loro stesse, convinte che ci sia un livello più basso nel quale relegare le proprie competenze". "Questo tabù io non ce l’ho mai avuto", ha fatto notare con soddisfazione. A suo giudizio una donna premier farebbe la differenza: "Se l’avessimo già avuta staremmo meglio". La Meloni infine ha parlato della propria attività politica, che svolge quotidianamente con passione, determinazione e adrenalina: "Nel mio lavoro sono abituata a dare il massimo. Non guardo alla politica come un percorso personale, ho il senso della misura e i piedi per terra". La presidente di Fratelli d'Italia a dicembre aveva già parlato della questione femminile all'interno della politica, ammettendo quanto sia difficile emergere nelle vesti di sovranista: "Un po’ scatta quella tentazione di guardarti dall’alto in basso, 'ma tanto non sarà così preparata, così intelligente'. Ma in generale, sono stata molto più rispettata da uomini di destra che dalla sinistra".
Sì, la sinistra odia Giorgia Meloni. E’ stizza per i riconoscimenti, chiedere alla Rai che succede…Francesco Storace sabato 11 gennaio 2020 su Il Secolo D'Italia. In effetti è vero, la sinistra odia Giorgia Meloni. A destra lo si intuisce, diciamo, con una certa esperienza nella pratica. E quel che è insopportabile è l’ipocrisia. Dichiarazioni roboanti contro l’odio e poi i veri hater della politica stanno tutti dalle loro parti. Del resto, non si hanno molte tracce di contestazioni ai loro comizi. Il “nuovo”, le sardine nascono proprio contro le manifestazioni altrui, ad esempio Salvini. Ma è sulla rete che sono sempre attivi i diffamatori, i calunniatori, i leoni da tastiera come li chiamano tutti. Il motivo? Accade quando non si hanno più idee da esibire con orgoglio. La sinistra ha praticamente smarrito la propria superiorità morale, o almeno quella che riteneva di poter mostrare. Le ricette di cui era orgogliosa. Il popolo di cui era fiera. L’analisi non è di parte, ma viene da un cronista esperto, Michele Fusco, che ne ha scritto sul sito glistatigenerali.com raccontando la sua esperienza di conduzione su RadioTre della rubrica Prima Pagina. Titolo tosto, ma efficace “la sinistra disprezza la Meloni come gli italiani disprezzano i migranti“. Che cosa è successo? Di buon mattino alla radio, Fusco commentava la rassegna stampa. “Il Mattino, in prima, aveva scelto di definire il 2019 come “l’anno della donna”, racchiudendo in un grande riquadro fotografico le signore che lo avevano vissuto da protagoniste. C’era Liliana Segre, c’era Christine Lagarde, c’era Ursula von der Leyen, e diverse altre. E nel mazzo, mal gliene incolse, compariva anche Giorgia Meloni”. Concludevo, racconta Fusco, “che certo, Giorgia Meloni, nell’asfittico panorama politico, si era guadagnata uno spazio di un certo rilievo, arrivando al 10%, a mani nude, solo con le sue forze, in un mondo, quello della politica, ad altissima gradazione maschile”. Per giorni, la redazione ha ricevuto decine e decine di messaggi contro Giorgia Meloni e Fusco che ne aveva parlato. Poi, il Times. Con la classifica di quelle venti personalità del mondo tra le quali spicca, unica italiana, proprio la leader della destra. Quello che appariva chiaro – secondo l’analisi di cui parliamo – “è che a persone estranee al conflitto sociale che lacera la piccola Italia, quella donna era apparsa come una personalità di enorme carattere. E come tale meritevole di stare in quel piccolo olimpo”. E qui, il guizzo del cronista che indica con chiarezza che cosa accade nel rapporto tra la sinistra e la Meloni: “La sinistra impazzisce se vede un riconoscimento fuori dal suo stagno. Lo contesta in radice, dice che non è possibile. Che tu sei un ignorante, che non hai studiato, che sei un fascista, che vuoi togliere le libertà che abbiamo conquistato con il sangue dei nostri partigiani”. La sinistra riteneva che le sue idee fossero migliori di tutte le altre. Smarrendo la pretesa di superiorità morale, la sinistra ha giocato semplicemente di rimessa, ha puntato solo il dito contro gli altri. “E siamo arrivati a questo punto – conclude Fusco – dove se il Times mette la Meloni tra le venti personalità politiche del mondo, tu ti incazzi come una bestia, invece di chiederti il perché“. Persino se un capo di Stato come Orban va ad Atreju (vedi foto) perdono la testa. Da applausi a scena aperta. Perché è semplicemente la verità. E non lo dice solo Vittorio Feltri. Per la Meloni come per Salvini. E fino a ieri accadeva a Berlusconi.
Meloni tra i 20 personaggi che influenzeranno il mondo: il riconoscimento di "The Times". Il quotidiano inglese 'The Times' ha inserito la leader di Fratelli d’Italia tra le 20 persone, ognuno nel proprio campo d'azione e nell'ambitodella loro professione, che orienteranno il mondo nel 2020. Gabriele Laganà,Giovedì 02/01/2020, su Il Giornale. Dal quotidiano inglese "The Times" è arrivato un inaspettato quanto gratificante riconoscimento a Giorgia Meloni. La leader di Fratelli d’Italia, infatti, è tra i venti personaggi che, ognuno nel proprio campo d'azione e nell'ambito della loro professione, potrebbero orientare il mondo nel 2020. Per il quotidiano d’Oltremanica, che si colloca nell’area moderata, i “magnifici 20” potrebbero "plasmare il mondo", come sostiene il titolo del servizio, nell'anno appena iniziato. 'The Times' è rimasto particolarmente colpito dal successo ottenuto dal discorso fatto durante il comizio in piazza San Giovanni a Roma dello scorso ottobre, poi ripreso e diventato un vero tormentone rap sul web, nel quale la leader di Fdi gridava a piena voce "sono Giorgia, sono una donna, sono una madre sono cristiana". Come sottolinea ancora il quotidiano, Giorgia Meloni pur essendo molto giovane è una veterana della politica essendo deputata da diverse legislature e alla guida del ministero della Gioventù nel governo Berlusconi IV nel 2008. La stessa deputata, inoltre, ha permesso di far crescere il partito da lei guidato dal 4,4% ottenuto alle elezioni politiche del 2018 al 10% odierno stimato da diversi istituti di sondaggi. Il tutto pur avendo la “concorrenza” di Matteo Salvini e della Lega che raccolgono voti nello stesso bacino elettorale. Grande soddisfazione per il riconoscimento attribuito a Giorgia Meloni è stato espresso dal capogruppo di Fratelli d'Italia alla Camera, Francesco Lollobrigida. "Il Times inserisce Giorgia Meloni tra i 20 personaggi che possono imprimere al nuovo anno un segno di svolta politica significativa. L'ennesima dimostrazione- ha dichiarato il deputato- della solidità del suo progetto, volto alla ricostruzione di una area conservatrice e sovranista realmente autorevole e credibile, capace di rappresentare l'unica vera alternativa alle sinistre e ai populismi italiani”. Secondo Lollobrigida, in Italia “già da tempo Giorgia Meloni e Fratelli d'Italia stanno catalizzando sempre più consenso, finalmente anche sul piano internazionale si sta comprendendo la serietà e la coerenza del nostro percorso". Oltre alla Meloni, ecco secondo The Times i personaggi più o meno emergenti nel panorama globale, destinati a compiere grandi cose nell'anno appena cominciato: Valérie Pécresse, presidente della regione Île-de-France David Hogg, attivista americano per il controllo dell'uso delle armi; Yegor Zhukov, attivista russo; il David Adedeji Adeleke, meglio conosciuto come Davido cantautore e produttore di origine nigeriana; Gideoon Saar, politico israeliano che ha sfidato Netanyauh; Yury Dud, vlogger russo con un futuro in politica; Shinjirō Koizumi, il più giovane membro di gabinetto giapponese; Amit Shah, l'attuale ministro degli affari interni indiano; il turco Ali Babacan; l'economista tedesca Isabel Schnabel; Mikuláš Minář, attivista ceco; Markus Söder, presidente della Baviera e leader della Unione Cristiano-Sociale; l'attrice Florence Pugh e il generale iraniano Qasem Soleimani.
Pietro Senaldi per “Libero quotidiano” il 23 dicembre 2019.
L' appuntamento non era un' ora fa?
«Sì, scusami, è che da settembre mi sono spostato a Roma, dopo tre anni ho fatto il ricongiungimento famigliare. Sono in controtendenza, la bambina mi reclamava».
E hai preso le cattive abitudini del posto?
«No, è stato un incidente. Sono il classico prototipo del milanese piombato nella Capitale e che si lamenta che non funziona nulla».
Ingeneroso
«Sìììììì Ci sono due gocce e la città si è fermata. Ci hanno avvisato alle 21 che l' indomani l' asilo non avrebbe aperto. La Raggi era terrorizzata dal freddo, poi guardi il termometro e la temperatura minima è sette gradi».
Beh tanto adesso Giorgia diventa sindaco e sistema tutto.
«Non credo proprio. È impossibile».
Ma i romani la attendono come il Messia.
«Potevano pensarci prima. Era evidente che fosse la persona giusta. Per amore della città Giorgia si è candidata e ha fatto campagna elettorale con il pancione, ma i romani le hanno preferito la Raggi. E ora si tengano la sindaca grillina e i disastri che combina».
Ma è davvero messa così male Roma?
«Un disastro, non puoi capire. Buche, siepi, sterpaglie, rifiuti anche lungo le arterie principali. Manca la manutenzione ordinaria. E poi, malgrado sia splendida, la città ormai è incapace di essere attrattiva. Non ci sono eventi, nessuna organizzazione».
Dimmi almeno una cosa positiva.
«Cibo e clima, clima e cibo».
Qualcosa di meno scontato?
«Il fatto che ci vive mia figlia Ginevra. E i ritmi più distesi».
La piccola parla già romanesco come la mamma?
«No, sono venuto apposta per correggere l' inflessione. Ginevra al massimo parla filippino, visto che sia io che la madre stiamo troppo fuori casa. Comunque non è vero che Giorgia parli romanesco. Conosce le lingue straniere meglio di qualsiasi suo collega».
Andrea Giambruno, milanese di periferia, 38 anni, da undici giornalista Mediaset, da un lustro compagno della leader di Fratelli d' Italia, non se la prende se qualcuno lo chiama «il signor Meloni».
«Non mi infastidisce essere associato a Giorgia», spiega, «però ho la mia personalità, il mio lavoro, e non le ho mai chiesto niente. Nella coppia l' uomo sono io, non faccio il mammo, non so neppure fare da mangiare».
Anche se, sempre in controtendenza, ha cambiato lui città e lavoro per seguire la compagna. Ora è tra gli autori di Stasera Italia, tutte le sere su Rete4 alle 20.30, in concorrenza con Lilli Gruber, che quando invita Giorgia non resiste mai alla tentazione di ingaggiare un match di pugilato femminile.
«Lilli è furba», punzecchia Andrea, «chiama Giorgia perché sa che garantisce ascolti e lei ci va perché un leader deve essere universale e parlare anche ai tifosi altrui e perché, essendo in genere più preparata degli interlocutori, alla fine ne esce sempre bene».
La prepari tu alle sfide tv?
«Ha gente capace che la segue. La politica vive di comunicazione. Mi intendo di comunicazione politica. È il mio lavoro, non faccio il meccanico ma l' autore».
La trovi migliorata in tv ultimamente?
«Quando cominci ad avere successo e le cose vanno bene, acquisti sicurezza. C' è stato uno scatto di livello, è maturata, ora parla da leader, è diventata trasversale».
Tutto merito tuo?
«No, anche se con lei parliamo di lavoro tutti i giorni e la mia opinione non gliela faccio mai mancare. Quando fai il nostro lavoro la preparazione è continua. Ma la verità è che Giorgia il successo se lo è costruito mattoncino su mattoncino. Si prepara in maniera maniacale, è una secchiona. Nessuno di quelli che vedi in tv è più competente di lei».
Lo studio è il suo segreto?
«Lei cresce perché ha visto un' autostrada dove gli altri non vedevano nulla. Non parla per spot e quindi la sua affermazione è stata più lenta, perché gli italiani, anche noi giornalisti, sono distratti. Oggi però si stanno accorgendo tutti che la Meloni è la più competente in circolazione».
Può diventare la prima donna italiana premier?
«Certo. Anzi, lo diventerà sicuramente. Di uomini forti al comando ne abbiamo provati tanti, e nessuno ha soddisfatto. La gente potrebbe essere titillata ora dall' idea della donna forte».
Già al prossimo giro?
«La Lega per ora ha molti più voti di Fdi e se ci sono le elezioni Salvini vince e arriva prima di Giorgia, è naturale che vorrà per sé la presidenza del Consiglio. Ma non confondiamo i partiti con i leader. Nel consenso personale, lei può insidiare Matteo».
Sarà per questo che il rapporto tra i due è difficile?
«Ma non è difficile, c' è della sana competizione all' interno della medesima squadra, il che ha più conseguenze positive che negative. Se vuoi vincere è meglio avere Ronaldo e Dybala piuttosto che uno solo dei due».
Quindi su che poltrona la vedresti Giorgia?
«Sicuramente in un ruolo di grandissima importanza. All' Interno».
Non agli Esteri?
«L' Italia ha più bisogno di ordine interno che esterno attualmente, anche se lei è quella nel centrodestra che ha le migliori relazioni internazionali. È stato fondamentale il suo viaggio in Usa l' anno scorso alla convention dei conservatori, con Trump presente, dove Giorgia è stata la sola italiana a parlare. In perfetto inglese e non in romanesco».
È vero che presto volerà ancora negli Usa per un faccia a faccia con Trump, che si fida di lei più di tutti gli altri?
«Sono voci credibili, vediamo. Certo Giorgia si è mossa meglio di tutti nello scenario internazionale».
Non è strano che l' unico leader donna italiano sia di destra?
«Lei sostiene, e ha ragione, che per le donne è più difficile sia a destra sia a sinistra. Devono studiare tre volte più degli uomini. Però sostiene anche di essere stata rispettata più dagli uomini di destra che dalla sinistra. Forse questo dipende dal fatto che la destra alla fine è più meritocratica. E poi, sebbene di destra, Giorgia piace anche a molti di sinistra, che le riconoscono preparazione e carisma, oltre al fatto di portare avanti battaglie che il Pd non fa più».
Non è strano che l' unico leader donna non cavalchi le battaglie femminili in un momento in cui portano molto consenso?
«Giorgia non fa politica in modo strumentale, cavalcando argomenti facili. Lei è contro il femminismo a tutti i costi delle quote rosa, per esempio, perché si traduce in favoritismo. Pensa che uomini e donne debbano avere gli stessi diritti e le stesse possibilità. Quindi, niente quote».
Anche nella denuncia delle violenze sulle donne potrebbe essere più presente.
«Non ha bisogno di esporsi su questo, tutti sanno che difenderebbe e rappresenterebbe le donne meglio di chiunque altro. Lo dice la sua storia. Giorgia non cavalca temi facili, non fa una politica di spot, furba come quella di chi a parole difende le donne ma poi non fa nulla per loro. Anzi, se sono delle rivali, le attacca in modo meschino e scava nel privato».
Ogni riferimento personale è casuale?
«No. Repubblica formalmente sta con le donne, poi fa un ritratto di Giorgia definendola poco cavallerescamente la reginetta di Coattonia. Prosegue facendo illazioni sulla nostra storia e rinfacciandole il fatto che non l' ho sposata. Infine la accusa di aver tradito Fini, che si è tradito da solo, e le fa la morale sul padre morto, senza sapere nulla di come è andata tra loro due. E le femministe di sinistra? Zitte e a testa bassa».
Hai smesso di votare a sinistra?
«Ma io non ho mai votato a sinistra. Certo, da ragazzino sei più anarchico e tendi a essere rivoluzionario, ma io non ho mai avuto nessuna tessera. Da ragazzo ho fatto un po' di politica come rappresentante d' istituto e tu sai che a quell' età i fighi stanno a sinistra mentre quelli di destra sono visti come stupidotti».
Ho capito: le tue idee politiche sono orientate dalle donne?
«Diciamo che mi sono stabilizzato anche politicamente».
La Meloni è una donna tradizionale solo a parole o anche nella vita di tutti i giorni?
«È tradizionale, assolutamente, ma non è per nulla una geisha, anche se c' è un riconoscimento preciso dei ruoli. Mi piace anche per questo: io voglio il presepe, la pastasciutta, l' ambiente di casa che mi rassicura, un po' come le atmosfere della nonna».
Secondo me ti mena quando legge il termine nonna.
«Secondo me no. C' è molta intesa, non è una gatta morta, e stai certo che non equivoca».
È dura essere il compagno di una donna leader?
«Ha i suoi vantaggi. Sa ascoltare, prova ad aiutarmi, mi è di sostegno nella crescita professionale».
Ma se sei tradizionalista perché sei a favore delle famiglie arcobaleno e della liberalizzazione della droga?
«Sono a favore delle unioni gay ma contro l' utero in affitto e per le droghe libere perché solo così si batte lo spaccio. Non sono concetti in contraddizione con l' amore per la tradizione».
Non sei geloso di una donna sempre in mezzo agli uomini, con potere su di loro?
«No, quando ci siamo messi insieme sapevo cosa mi prendevo. Non vai all' acquario se ti fanno paura i pesci».
Ti fidi molto di lei?
«Mi fido molto di me stesso».
La lumavi anche prima di conoscerla?
«No, è stato un colpo di fulmine.
Una sera è arrivata da Del Debbio, a Quinta Colonna, dopo una giornata di comizi e aveva fame. La sua portavoce ha tirato fuori dalla borsa una banana ma dopo due morsi Giorgia è stata chiamata in scena, così me l' ha mollata in mano, scambiandomi per un assistente».
Banana galeotta.
«Per me vale più di quella di Cattelan venduta a 120mila euro la scorsa settimana».
E poi chi ha chiamato?
«Lei, ma non è stato casuale, ci ho dovuto lavorare, come sempre con Giorgia».
Testa, carattere, aspetto: cosa ti attrae di più in lei?
«La testa. È una donna di grande intelligenza».
E fisicamente?
«Gli occhi. Hanno la stessa tonalità di quelli di mia figlia Ginevra, per me i più belli in assoluto».
Sarà Ginevra ad avere gli stessi occhi di Giorgia, geneticamente parlando...
«Effettivamente...».
Caratteraccio?
«Tosta, coerente, leale. In una parola, amabile».
Giorgia Meloni a Francesca Fagnani: ''la Mussolini? Cattiva, non la stimo''. Filippo Ceccarelli per “la Repubblica” il 3 gennaio 2020. Ecco, un po' il Times si è accontentato e magari fra gli italiani poteva scegliere meglio; fatto sta che fra i venti personaggi selezionati fra quanti l' anno prossimo potrebbero impegnativamente cambiare (shape) il mondo figura Giorgia Meloni. E allora senza troppo "rosicare", come forse direbbe lei, né assumere un tono di pregiudiziale sufficienza, ma con la documentata consapevolezza che queste classifiche di capodanno lasciano il tempo che trovano, e il mondo procede abbastanza uguale a se stesso, occorre comunque prendere atto che si tratta di un riconoscimento, per giunta internazionale; e che il personaggio s' è impegnata a conseguirlo senza particolari errori né efferatezze, ma anzi trasmettendo una certa autenticità sul piano personale. Su quello politico, in tempi di definitivo disincanto ideologico, la faccenda è già più complicata e opinabile. Pare infatti semplicistico definire Meloni, che tra qualche giorno compirà 43 anni, discendente o superstite del neofascismo, configurandosi piuttosto, nell' era delle forme degli stili e delle visioni digitali, come una sorta di reazionaria pop, inedita esponente di una cultura identitaria ad alto impatto ipercomunicativo. O almeno paiono questi tratti ad aver colpito favorevolmente il quotidiano britannico, a partire dall' ormai celebre sequenza remixata con enorme successo digitale: "Io sono Giorgia,/ sono una donna,/ sono una madre,/ sono cristiana,/ e non me lo toglieranno", bùm, bùm, bùm. Gli stessi autori della clip, Mem e J, hanno ammesso con ingenuo candore che non volevano fare un favore a Meloni, ma "il tono energico e cadenzato" della concatenazione e "l' urlo della vocalist da discoteca" hanno avuto la meglio; e così, scrive il Times , la parodia è diventata un inno. Quanto ai contenuti del messaggio, il fatto che la ultra- semplificazione spettacolare all' italiana ottenga premi anche all' estero può risultare persino consolante. Sennonché è l' intera politica che in tutto il mondo sta mutando grammatica e sintassi; fermo restando, come pure nota il giornale inglese, che dal 4% delle ultime elezioni i sondaggi accreditano Fratelli d' Italia al 10%, confermando che non si trattava di una zattera per i sopravvissuti al naufragio di An. L' altro giorno, su Formiche , il grande Umberto Pizzi ha pubblicato un servizio sul presepe vivente che il partito meloniano, all' insegna dei "valori", ha allestito a Roma e in cui Giorgia si trovava perfettamente a suo agio in mezzo a due nerboruti centurioni. Dotata di una sua allegra e ubiqua vitalità, ormai da anni sfida la sovraesposizione e infatti si commuove, canta e imita i colleghi alla radio, si fa imitare sui maxischermi ai convegni, a casa registra video con pomodori e scatolette di tonno. L'aiuta senz'altro una cadenza marcata e un certo spirito romanesco, secondo il modulo che Giampietro Mazzoleni e Roberta Bracciale, nel loro recente La politica pop online (Mulino) designano come "vernacular creativity"; mentre sul piano dell' intimate politics, tutto o quasi si sa ormai di lei: l' assenza del papà quand' era bambina, il baby sitteraggio a casa di Fiorello, il lavoro (a Mediaset) e le idee politiche (vagamente progressiste) del compagno (ma non marito) Andrea, la gelosia con tanto di perquisizioni dello smartphone, l' amore per la piccola Ginevra pure il fastidio di uno stalker. Il succinto encomio del Times si conclude col fatto che Fratelli d' Italia sta rubando (stealing) voti alla Lega di Salvini: e qui la fantasia vola. Perché i due sono alleati, ma in realtà si pigliano e non si pigliano, così come è chiaro che nessuno meglio di Giorgia può gettarsi o essere gettata fra i piedi di Matteo rallentando la sua corsa. Oltre al precedente di Fini con Berlusconi, esiste già una piccola casistica di reciproci nomignoli, sgarbi e dispetti, il più divertente allorché Salvini disertò una riunione del centrodestra dicendo che doveva stare con la figlia e Meloni raccontò che invece era dalla D' Urso. Di sicuro lei non mostra troppo rispetto per l' Uomo forte. Quando questi invocò i pieni poteri, si limitò a dire: "Ma 'ndo va?". Ciò detto, una gara di scavalcamento a destra non sembra la più rosea prospettiva per chi di destra non è.
Il virus nero. Report Rai. PUNTATA DEL 27/04/2020 di Giorgio Mottola. Oltre al coronavirus, stiamo vivendo una pandemia di disinformazione. Dall’inizio dei contagi hanno iniziato a circolare notizie false o manipolate, che hanno avuto su Whatsapp e su Facebook il loro epicentro di diffusione. Report ha scoperto un filo nero che lega tra di loro alcuni dei contenuti di disinformazione diventati più virali. Siti di destra estrema e di alternative right hanno spinto in tutto il mondo la diffusione di video e post, contribuendo a creare una narrazione complottistica e allarmistica sul coronavirus. Chi li finanzia? Report ha fatto un viaggio nell’impero economico del leader neofascista più longevo della storia recente d’Italia: Roberto Fiore, capo di Forza Nuova. Fuggito a Londra negli anni ‘80, da latitante si è ritrovato a gestire un floridissimo business che arrivava a fatturare oltre 30 milioni di euro all’anno. Con documenti inediti, racconteremo com’è nata la sua fortuna finanziaria e come si è sostenuto il network neofascista europeo. Nel corso dell’inchiesta l’inviato di Report Giorgio Mottola ha raccolto fatti inediti che potrebbero portare a novità rilevanti sulla strage della stazione di Bologna, e soprattutto ha incontrato un latitante dell'estrema destra, tra i trenta ricercati più importanti, che vive indisturbato a Londra e gestisce un piccolo impero economico.
“IL VIRUS NERO” Di Giorgio Mottola Consulenza Andrea Palladino Collaborazione Norma Ferrara – Simona Peluso Immagini Dario D’India – Alfredo Farina Immagini Davide Fonda – Tommaso Javidi Montaggio e grafica Giorgio Vallati.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Il modo in cui il video del TGR Leonardo diventa virale presenta alcune anomalie. Sui motori di ricerca era difficilissimo trovarlo. E così, per cinque anni, il servizio è rimasto sepolto nell’archivio del sito della Rai: fino al mese scorso le visualizzazioni registrate risultavano zero.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Mentre eravamo a casa blindati e anche un po’ irritati perché costretti alla lunga quarantena, è arrivato sui nostri telefonini e anche sui social questo video. Era un vecchio TGR Leonardo dove si parlava di un esperimento fatto in un laboratorio da ricercatori cinesi su un Coronavirus. E il sospetto è venuto a tutti: il SARS-coV-2 è di origine umana, è il frutto amaro dei ricercatori cinesi. L’abbiamo un po’ postato tutti, anche io l’ho postato sul mio profilo anche se specificando che nonostante gli scienziati avessero escluso la mano umana dietro il virus, questo video continuava a diffondersi più velocemente del contagio del Coronavirus. Chi è che lo ha fatto viaggiare così tanto? Chi è che lo ha reso virale? Con quale scopo? E soprattutto la notizia era vera o falsa? Il confine è sottile.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Se avete un profilo sui social network o semplicemente usate Whatsapp, mentre eravate sigillati in casa in quarantena, di sicuro avete visto questo video.
TGR LEONARDO – DEL 16/11/2015 È un esperimento, certo ma preoccupa, preoccupa tanti scienziati. Un gruppo di ricercatori cinesi innesta una proteina presa dai pipistrelli sul virus della Sars. La polmonite acuta, ricavato da topi. E ne esce un supervirus che potrebbe colpire l’uomo. Resta chiuso nei laboratori, ovvio. Serve solo per motivi di studio, ma vale la pena correre il rischio, creare una minaccia così grande solo per poterla esaminare?
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Il servizio dà conto di una notizia vera, basata su un articolo scientifico pubblicato da Nature. Ma il fatto risale al 2015 e pur parlando di coronavirus, non c’è nessun collegamento con il SARS-coV-2, il virus con cui noi tutti siamo alle prese da qualche mese.
ALEX ORLOWSKI – ESPERTO PROPAGANDA ON LINE Non è una fake news, si chiama falso contesto, cioè false contest. Quindi prendere una notizia fatta in maniera corretta a livello giornalistico e cambiare contesto. L’autorevolezza della Rai è conosciuta in tutto il mondo per cui anche per chi non capisce l’italiano, se vede la Rai e vede che è del 2015 e la mette in un falso contesto, cambia il senso dell’informazione.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Sui social il video viene presentato come la dimostrazione che il Covid-19 è stato costruito in laboratorio. E sebbene, subito dopo la pubblicazione, in tanti, a partire dal sito Open, dimostrino la manipolazione di senso del video, sui social e Whatsapp arriva in poche ore a milioni di visualizzazioni.
ALEX ORLOWSKI – ESPERTO PROPAGANDA ON LINE Abbiamo avuto moltissimi diciamo measleading del titolo con cui la gente pubblicava: vedete già la Rai lo aveva scoperto nel 2015. Il Coronavirus lo hanno inventato i cinesi in laboratorio. Poi le persone non conoscendo la lingua spesso, o gli stessi italiani non guardano il video, non cercano di interpretarlo, hanno capito un’altra cosa.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Il modo in cui il video del TGR Leonardo diventa virale presenta alcune anomalie. Sui motori di ricerca era difficilissimo trovarlo. E così, per cinque anni, il servizio è rimasto sepolto nell’archivio del sito della Rai: fino al mese scorso le visualizzazioni registrate risultavano zero. Poi all’improvviso il 25 marzo arriva la prima visualizzazione e tra le 16 e le 18 le visualizzazioni schizzano a 474. La prima piattaforma su cui compare il video è Whatsapp. E Report è riuscito a scoprire chi è la persona che per primo lo ha condiviso. La paziente zero del video virale.
GIORGIO MOTTOLA Quindi lei in qualche modo è la paziente zero di questo video virale su Coronavirus?
CRISTINA ROMIERI Sì, sembra proprio di sì. Perché il 24 marzo ho trovato un appunto, questo esattamente, che stavo buttando via quando vedo scritto “scienziati cinesi hanno creato super virus”. Poi mi sono ricordata che era una trasmissione, anche perché lo avevo scritto, TGR Leonardo del 16/11/2015. E ho cercato naturalmente anche il video per capire se avevo inteso bene, e non l’ho trovato.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Come conferma anche il post pubblicato su Facebook, il 24 marzo la signora Cristina ritrova un suo appunto sul TGR Leonardo e cerca il video online. Non riuscendo a trovarlo, chiede aiuto a un suo amico.
CRISTINA ROMIERI Lo trova il mattino dopo, 25 marzo, un mio amico e verso le 11.30 –ho controllato appunto i messaggini- mi dice sì, l’ho trovato e me lo invia. Allora, sia lui che io lo inviamo, ma in maniera molto ridotta, appunto ad alcune persone.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ed eccola la prova. Alle 11.38 del 25 marzo l’amico della signora Cristina le manda il video su Whatsapp scaricato e tagliato, proprio come nella versione che poi ha iniziato a circolare.
GIORGIO MOTTOLA Ma quando voi avete cominciato a far girare quel video, l’obbiettivo era farlo diventare virale? CRISTINA ROMIERI No. Assolutamente. No, no, non avevamo questa pretesa.
GIORGIO MOTTOLA Quando ha scoperto che questo video cominciava e essere utilizzato per fare sostanzialmente disinformazione, lei che cosa ha pensato? CRISTINA ROMIERI Mi è dispiaciuto naturalmente. Non avevo nessun scopo politico…assolutamente no.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO La disinformazione politica parte quando da Whatsapp il video inizia a diffondersi su Facebook.
GIORGIO MOTTOLA Dov’è che si comincia a visualizzare all’improvviso questo video?
ALEX ORLOWSKI – ESPERTO PROPAGANDA ON LINE I gruppi di Facebook che sono una grande fonte di viralizzazione di certi temi e nello stesso momento su Twitter, che è un altro canale e poi contemporaneamente, e questo è un segnale, un segnale anche della galassia che ha voluto viralizzare questo video, su Vkontank, che è il social network russo. Ci sono certi video che se ad esempio nascono dagli Stati Uniti o nascono dal Sudamerica o dall’Asia, non li troverai mai viralizzati su Vkontakt. Quando invece nascono da certi gruppi di ultradestra, sovranisti o far right, in Europa uno dei canali per la veicolarizzazione è anche Vkontakt.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ma su Vkontak, il social russo divenuto rifugio dell’estrema destra europea, comincia a diffondersi in un secondo momento. Alle 18:20 del 25 marzo, ad appena un’ora e mezza dalla prima visualizzazione, il video del Tgr Leonardo viene pubblicato dal profilo di Matteo Salvini e poi da quello di Giorgia Meloni, raggiungendo oltre 3 milioni di visualizzazioni. Qualche minuto prima, alle 18.07 il video era stato caricato per la prima volta anche su Youtube da Stefano Monti, un attivista dei 5 Stelle, candidato con il Movimento alle regionali in Emilia nel 2014.
STEFANO MONTI Sono Stefano Monti, mi occupo di programmazione, informatica e tecnologia.
ALEX ORLOWSKI – ESPERTO PROPAGANDA ON LINE Questo video è stato spinto sicuramente dalla destra sovranista europea, italiana in particolare, all’inizio, ma in congiunta è stata quasi un’associazione parallela con alcuni simpatizzanti della prima ora del Movimento 5 Stelle. I simpatizzanti che amavano molto le notizie complottiste di Beppe Grillo, questa forma di clickbait, so, conosco, pseudoscience.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Dall’Italia il video ha poi fatto il giro del mondo. Lo hanno ripreso attivisti della chiesa ortodossa in Romania, raggiungendo le 500mila visualizzazioni. Siti dell’alternative right, la destra radicale americana, come Infowars, bannato più volte dai social per la diffusione di notizie false, forum neonazisti europei come Stormfront e Zero Hedge, sito dell’ultradestra bulgara.
ALEX ORLOWSKI – ESPERTO PROPAGANDA ON LINE Questo grafico mostra da che pagine sono stati spinti di più questi contenuti legati a TGR Leonardo.
GIORGIO MOTTOLA E cosa emerge?
ALEX ORLOWSKI – ESPERTO PROPAGANDA ON LINE Emerge che praticamente sono legati in maggior parte al mondo dell’alternative right, ultraright, poi abbiamo una parte che è legata solamente alla pseudoscience, per cui siti di ufologia, moltissimi siti di ufologia, è incredibile. Sovranisti, cospirazionisti eccetera.
GIORGIO MOTTOLA Leggo anche no 5G.
ALEX ORLOWSKI – ESPERTO PROPAGANDA ON LINE No 5G ci sta dando dentro parecchio.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Su facebook il 5G viene indicato come causa del Coronavirus e su molte pagine circolano video di falsi raid per distruggere le antenne.
VOCE FUORI CAMPO Ha preso fuoco un’antenna. Un’antenna Telecom.
GIORGIO MOTTOLA Leggo anche pagine contro il papa.
ALEX ORLOWSKI – ESPERTO PROPAGANDA ON LINE Molte di queste pagine non sono solo di alt right e fake news, ma sono ad esempio basate su fake news contro il papa o fake news contro l’islam ad esempio.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO On line la disinformazione sul Coronavirus si è mossa a una velocità maggiore di quella con cui si è diffuso il contagio. Uno degli esempi è questo video, pubblicato da ByoBlu, denunciato dalla comunità scientifica come pericoloso e antiscientifico, un nanopatologo sostiene che l’emergenza Coronavirus è tutta una bufala.
DA BYOBLU24 STEFANO MONTANARI - NANOPATOLOGO Ma tutte queste bare appartengono ai 650 mila morti che abbiamo tutti gli anni in Italia, non c’è un aumento di mortalità. Qui stiamo parlando di tre morti, sempre che ci siano sempre questi tre morti.
GIORGIO MOTTOLA Qual è stato il principale veicolo di diffusione di disinformazione sul Coronavirus?
LUCA NICOTRA – AVAAZ ONG Dalla nostra indagine emerge chiaramente che Facebook è la principale piattaforma di questa pandemia di disinformazione online. Subito dopo seguita da Whatsapp che è proprietà di Facebook, quindi diciamo maggiore responsabilità da parte di Zuckerberg e la sua compagnia.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Dalle ricerche condotte da Avaaz risulta che Facebook è stato il principale veicolo di disinformazione on line. Contenuti falsi o notizie manipolate sul Coronavirus sono state condivise in Europa oltre un milione di volte e visualizzate circa 117milioni. E l’Italia insieme alla Spagna è il paese in cui la disinformazione sui social è stata maggiormente fuori controllo. Infatti, a differenza di quanto accade per il mondo anglosassone, Facebook ai propri utenti italiani segnala di rado quali sono le notizie false.
LUCA NICOTRA – AVAAZ ONG Il nostro paese come anche in Spagna invece il 70 per cento delle notizie non hanno alcuna avvertenza dopo settimane dalla loro pubblicazione, quindi continuano a essere condivise, decine, centinaia, migliaia di volte ogni giorno, visualizzate da milioni di persone a settimane dalla loro pubblicazione. Addirittura, anche nel caso in cui in seguito ci sia un giornalista, un fact-checker indipendente che dimostri che si tratta in realtà di notizie false, ebbene, anche in quel caso, le milioni di persone che hanno visto quelle notizie false, non lo sapranno mai.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO E in tempi di pandemia questo rischia di avere degli effetti devastanti. Molta disinformazione riguarda ad esempio la salute e i comportamenti da adottare per prevenire il Coronavirus. Ad esempio sullo stesso video di Byoblu si sconsiglia l’utilizzo dei guanti.
DA BYOBLU24 STEFANO MONTANARI - NANOPATOLOGO Il guanto impedisce alle nostre difese immunitarie che stanno sulla pelle, impedisce di agire. Quindi quei guanti fanno infinitamente peggio dei non guanti.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Altri post hanno suggerito invece di bere acqua ogni quindici minuti per far scendere il virus nell’intestino ed espellerlo. Questi post sono stati pubblicati in decine di lingue, adattandoli ai vari paesi e ogni volta indicando una fonte scientifica o istituzionale diversa.
LUCA NICOTRA – AVAAZ ONG Disinformazione che sostanzialmente si comporta esattamente come un virus, cioè muta assumendo in ogni contesto le forme più utili a, in questo caso, infettare le nostre menti e quello che crediamo essere la verità.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO L’altro cavallo di battaglia della disinformazione ha riguardato il ruolo di Bill Gates nella nascita del Coronavirus. La sua fondazione da anni finanzia studi per trovare un vaccino all’influenza e da tempo lancia un allarme sul rischio di una nuova pandemia. Proprio come hanno fatto migliaia di scienziati e capi di Stato. Ma il solo fatto che Bill Gates abbia parlato in passato, lo ha trasformato in probabile untore.
IL VASO PANDORA La Bill e Melinda Gates tre settimane prima del primo scoppio fa una simulazione della pandemia globale proprio da Coronavirus, arrivano i militari americani in occasione di questa festa militare in Cina, due settimane dopo, giusto il tempo dell’incubazione, scoppia il primo caso di Coronavirus e ovviamente la causa è il mercato del pesce.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Tra i partiti italiani più attivi sul fronte della disinformazione online, c’è senza alcun dubbio il movimento neofascista di Forza Nuova, secondo cui molti certificati di morte per Coronavirus sarebbero stati falsificati per far guadagnare più soldi alle onoranze funebri.
GIULIANO CASTELLINO – DIRIGENTE FORZA NUOVA Vi porto decine e decine di quelli che a Roma chiamiamo becchini che continuano a lavorare che vanno nelle sale mortuarie e i dottori, gli infermieri dicono di che è morto? Scrivi Coronavirus perché prendiamo più soldi dalla Comunità Europea.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO All’inizio dell’epidemia il presidente di Forza Nuova, Roberto Fiore, aveva lanciato su Twitter questo appello: “Interrompete la quarantena e usate il Tocilizumab”, il farmaco che ha dato sollievo a molti malati in crisi respiratorie, ma che nessuno studio scientifico ha identificato come la cura definitiva contro i danni causati dal Covid.
GIORGIO MOTTOLA Quand’è che ha studiato medicina e virologia lei?
ROBERTO FIORE – PRESIDENTE FORZA NUOVA Quando io ho parlato di quel farmaco avevo la certezza, la ragionevole certezza che il farmaco funzionasse, avevo già visto cos’era avvenuto in alcuni casi.
GIORGIO MOTTOLA Lei è l’anti Burioni praticamente?
ROBERTO FIORE – PRESIDENTE FORZA NUOVA Non voglio cadere nella polemica.
GIORGIO MOTTOLA No, non è una polemica però è un virologo insomma.
ROBERTO FIORE – PRESIDENTE FORZA NUOVA No, assolutamente no.
GIORGIO MOTTOLA Lei dice fermiamo la quarantena, dice. Usate quel farmaco, blocchiamo la quarantena.
ROBERTO FIORE – PRESIDENTE FORZA NUOVA Era ancora una fase in cui i morti erano ancora bassi.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Forza Nuova ha lanciato una violenta campagna sui social per boicottare la quarantena e un appello per la riapertura delle chiese a Pasqua. L’appello di Forza Nuova è stato rilanciato in televisione dal leader della Lega Matteo Salvini.
DA SKYTG24 MATTEO SALVINI Io sostengo le richieste di coloro che dicono in maniera ordinata, composta, sanitariamente sicura, fateci entrare in chiesa per Pasqua. Fateci assistere anche in 3, 4, in 5 alla messa di Pasqua. Mi dicono: si può andare dal tabaccaio, perché senza sigarette non si sta, per molti anche la cura dell’anima, oltre che la cura del corpo è fondamentale…
GIORGIO MOTTOLA Forse Salvini vi tocca denunciarlo per plagio piuttosto. Visto che negli ultimi anni ha ripreso tutte le vostre parole d’ordine…
ROBERTO FIORE – PRESIDENTE FORZA NUOVA Questo non è un fatto negativo. È un fatto positivo. Diceva Almirante: quando senti dai tuoi avversari dire delle cose che tu hai detto fino a oggi, ecco significa che stai vincendo.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Il tema dell’informazione è da tempo al centro dell’agenda dell’estrema destra italiana. Alla presenza dell’ex ministro e sindaco di Roma, Gianni Alemanno, durante un convegno il portavoce di Casapound Simone Di Stefano ha annunciato in modo chiaro il loro piano, che vede al centro anche la Rai.
SIMONE DI STEFANO – VICEPRESIDENTE CASAPOUND Non bastano i social, non basta avere una pagina Facebook con 4 milioni di like, questo non basta. Dobbiamo andare in Rai. Quest’area sovranista quanti giornalisti ha da mettere sul campo? Ve lo dico io, cinque di punta e una trentina sparsi nelle varie redazioni, trenta, quaranta giornalisti. Non bastano. Bisogna fare di più. Bisogna che quest’area sovranista vasta si metta insieme per creare scuole di giornalismo, per mettere giù più riviste, per comprare una radio.
SIGRIDO RANUCCI IN STUDIO Dubito che in Rai ci siano una cinquantina di giornalisti disposti a fare da cassa di risonanza al portavoce di Casapound. Evidentemente non gli bastano i 4 milioni di like di cui si vanta. Vede la Rai come un terreno da conquistare. Noi di Report avevamo denunciato in una delle scorse puntate quanto dai profili dei suoi militanti erano state spammate invece delle fake news. Casapound e Forza Nuova figliano da Terza Posizione, che è stato un movimento che è stato fondato da Roberto Fiore negli anni ’70. Nell’ottobre dell’80 viene spiccato nei suoi confronti un mandato di arresto perché sospettato di essere coinvolto nella strage di Bologna. Fatto per cui lo diciamo chiaramente è stato prosciolto per mancanza di indizi, anzi, sono stati poi aperti dei processi per calunnia nei confronti di chi aveva ipotizzato un suo coinvolgimento. Tuttavia c’era invece anche l’accusa di appartenere all’associazione sovversiva, fatto che gli è costato anche una condanna di 5 anni e sei mesi. Però non ha fatto un solo giorno di carcere in Italia. Questo perché è stato latitante per lungo tempo in particolare a Londra dove ha costruito da latitante anche un successo imprenditoriale aiutando anche altri neofascisti. È stato sdoganato nel 2008 da Berlusconi e oggi Fiore è legato a doppio filo ai fondatori di un movimento, la coalizione per la vita e la famiglia dell’estremista franco-belga Escada, un movimento che fa una battaglia contro papa Francesco. Però Fiore e Forza Nuova possono invece vantare oggi di essere gli ispiratori dei sovranisti istituzionali. Suo lo slogan “Prima gli italiani” che è stato poi fatto proprio da Salvini e dall’onorevole Meloni, oppure il termine “Sostituzione Etnica”, che è stato usato contro i migranti. Poi quando c’è stato da fare la battaglia per riaprire la liturgia all’interno delle chiese, lui ha lanciato la battaglia e altri son venuti poi dietro. Tutto questo, fa dire poi a Fiore, “sto vincendo io”; lo abbiamo sentito dalle parole raccolte dal nostro Giorgio Mottola. Ma non è l’unico esempio: c’è anche il filo che lega all’ultranazionalismo russo. Nel 2012 Roberto Fiore fonda la società, l’associazione, Alexandrite che era un link tra le imprese italiane e quelle Russe. E nel 2013 fa la stessa cosa il portavoce di Salvini, Savoini, quello coinvolto nella presunta trattativa del Metropol di Mosca, sulla compravendita di gasolio. Lui fonda l’associazione Lombardia Russia con la stessa finalità. Insomma. Dopo 30 anni, Fiore è ancora un leader. È presidente dell’Alleanza per la Pace e per la Libertà, il network che coinvolge, lega tutti i più importanti partiti dell’estrema destra europea. Il sogno di costituire un partito fascista internazionale però risale a vecchia data. Aveva provato anche a fare dietro un santo, San Michele arcangelo, il santo con la spada, una comune dell’internazionale nera nella campagna spagnola. Dove però la terra è po’ rossa, un po’ come su Marte. Il nostro Giorgio Mottola.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Alla metà degli anni Novanta, in questo angolo sperduto di Spagna rurale, alle porte della Mancha dove la terra è argillosa e rossa, Roberto Fiore ha provato a costruire un villaggio neofascista. Si chiama Los Pedriches, è un borgo rurale abbandonato da quasi trent’anni. Qui Roberto Fiore ha mandato un manipolo di neofascisti a costruire quella che nel progetto sarebbe dovuta essere la comune dell’estrema destra europea.
MIGUEL HABA PEREZ - ABITANTE LOS PEDRICHES Questa è una delle case che avevano comprato e in cui vivevano. Li vedevo, buongiorno, buonasera e apposto così. E qui è dove hanno fatto la chiesa.
GIORGIO MOTTOLA Questa è la chiesa che hanno costruita?
MIGUEL HABA PEREZ - ABITANTE LOS PEDRICHES Si, mi dissero che dovevo frequentarla. Io risposi che in chiesa vado dove pare a me.
GIORGIO MOTTOLA Quindi quando sono arrivati non mai hanno spiegato quale fosse il loro progetto?
FINA RODRIGUEZ IBAÑEZ – ABITANTE LOS PEDRICHES No non spiegarono niente. Arrivarono con sei o sette macchine. Sì, tutti vestiti di nero, come se fossero preti.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO In periodi alterni a Los Pedriches hanno vissuto una cinquantina di neo-fascisti. Hanno acquistato terreni e case e quello che non sono riusciti a comprare hanno iniziato a occuparlo.
MIGUEL HABA PEREZ - ABITANTE LOS PEDRICHES Questa è la casa di un colonnello dell’esercito. Loro ci vivevano e dicevano che l’avevano comprata. Ma io glielo dissi: non è vero, non è vostra!
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Insospettiti dall’anomala presenza nel villaggio e dai loro investimenti, gli amministratori locali avviano un’indagine.
JOAN CANARERO - DIRETTORE AGENZIA INVESTIGATIVA RED Erano apparsi all’ improvviso. Persone che non parlavano spagnolo. Venivano dalla Polonia, dalla Romania. Nessuno sapeva il perché. GIORGIO MOTTOLA Avevano molti soldi?
JOAN CANARERO- DIRETTORE AGENZIA INVESTIGATIVA RED Compravano case, spendevano molti soldi. Per questo il comune avviò un’indagine. E così venne fuori che una di queste case era stata comprata dalla moglie di Roberto Fiore. Era una vera e propria operazione immobiliare di cui si era occupato un avvocato di Valencia.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO L’avvocato in questione è lui, Fernando Pazos. Molto noto negli ambienti dell’estrema destra spagnola, qualche tempo fa risaltò agli onori delle cronache per aver sottratto una carta di credito a una dipendente per usarla in un night club.
GIORGIO MOTTOLA C’era un progetto politico: tanti neofascisti che volevano occupare quel posto, giusto?
FERNANDO PAZOS - AVVOCATO Non ricordo, io ricordo che un’organizzazione che si chiama San Michele Arcangelo, mi incaricò dell’acquisto di alcuni terreni.
GIORGIO MOTTOLA Ma lei lo sa che dietro San Michele Arcangelo c’è Roberto Fiore?
FERNANDO PAZOS - AVVOCATO Sì, sì, certo.
GIORGIO MOTTOLA Perché lì a Los Pedriches dicono tutti quanti che in realtà era un villaggio neonazista.
FERNANDO PAZOS - AVVOCATO Ma no, l’intento era fare beneficenza cattolica.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO San Michele Arcangelo è una delle tre fondazioni cattoliche della galassia ultratradizionalista di Roberto Fiore. Basate in Inghilterra, sono state messe sotto inchiesta qualche anno fa per irregolarità nella gestione finanziaria e poi archiviate.
GIORGIO MOTTOLA San Michele Arcangelo ha finanziato la comune che stavate creando a Los Pedriches, in Spagna?
ROBERTO FIORE - PRESIDENTE FORZA NUOVA No, non solo, non solo. Tutta una serie di persone lo finanziano.
GIORGIO MOTTOLA Era una comune neo fascista quella lì? Una comune internazionale neofascista?
ROBERTO FIORE - PRESIDENTE FORZA NUOVA No. Ma anche se fosse stato, qual è la rilevanza che non c’è più da vent’anni?
GIORGIO MOTTOLA Perché avete provato a farla anche in Francia, avete provato a farla anche da altre parti.
ROBERTO FIORE - PRESIDENTE FORZA NUOVA Dov’è il reato? Dov’è la cosa negativa?
GIORGIO MOTTOLA Dove prendevate i soldi.
ROBERTO FIORE - PRESIDENTE FORZA NUOVA Dove abbiamo preso i soldi? Li abbiamo fatti con il nostro duro lavoro.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Il nome della fondazione non è scelto a caso: San Michele Arcangelo ha infatti un valore mistico per Forza Nuova. Davanti a una croce celtica in fiamme, è al santo con la spada che nel ‘97 i militanti neofascisti intitolano il proprio giuramento durante il rito di fondazione di Forza Nuova.
AGOSTINO SANFRATELLO - COFONDATORE FORZA NUOVA – 29/09/1997 Promettiamo, dichiariamo, che mai ci macchieremo di falsità e inganno o percorreremo la via del compromesso per il raggiungimento delle nostre mete. Che sempre cammineremo nei sentieri dell’onore e della verità.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Questo video inedito della nascita di Forza Nuova è stato girato da uno dei fondatori del partito neofascista, Massimo Perrone, stretto collaboratore di Roberto Fiore fin dai tempi di Los Pedriches.
GIORGIO MOTTOLA Lì l’idea alla base quale era?
MASSIMO PERRONE - COFONDATORE FORZA NUOVA Era di creare una sorta di movimento politico che si rifaceva un po’ a Francisco Franco, a Mussolini, quindi prendere piede un po’ lì.
GIORGIO MOTTOLA Ed era finanziata dalla San Michele Arcangelo.
MASSIMO PERRONE - COFONDATORE FORZA NUOVA Era finanziato da Meeting Point che passava da San Michele Arcangelo, forse. Però qualcuno i soldi a San Michele Arcangelo glieli doveva portare. Non ho mai visto scendere San Michele Arcangelo e portarci i soldi.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Ci mancherebbe. Che cosa era poi la Meeting Point, lo vedremo. Qual era il progetto di Fiore e del suo socio Morsello? Quello di costituire una comune dell’internazionale neofascista in un villaggio nella campagna di Valencia. E avevano cominciato ad acquistare case e terreni; poi a un certo punto arrivano anche dei camerati dalla Romania e dalla Polonia. Andavano in giro vestiti di nero e investivano parecchi soldi e hanno insospettito gli abitanti del villaggio e gli amministratori che hanno sguinzagliato alle loro spalle degli investigatori privati. Cosa hanno scoperto? Che uno degli investimenti immobiliari era stato realizzato dalla moglie di Roberto Fiore attraverso a una trattativa fatta da un notaio, da un avvocato di Valencia, legato agli ambienti dell’estrema destra spagnola. Il notaio dice al nostro Giorgio “ma era un’operazione benefica”; forse ci avrà creduto perché i soldi arrivavano da una fondazione con un nome di un santo, San Michele Arcangelo. Quando Fiore e Morsello hanno fondato Forza Nuova, hanno giurato proprio su quel santo di dire la verità, nient’altro che la verità. I soldi, a San Michele Arcangelo, alla fondazione, da dove provenivano? Come hanno fatto da latitanti a riempire la loro cassaforte, la Meeting Point? GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Meeting Point è stato il cuore dell’impero economico e finanziario di Roberto Fiore. Si tratta di una società che a Londra forniva corsi di lingue e alloggi per gli stranieri. Venne fondata alla fine del 1980 dal capo di Forza Nuova e dal suo vice, Massimo Morsello, durante la loro latitanza a Londra. Qui, nel 1980 hanno infatti trovato rifugio Fiore e altri neofascisti italiani per sfuggire ai mandati di cattura e alle condanne per associazione sovversiva emesse in Italia.
MASSIMO PERRONE – COFONDATORE FORZA NUOVA Quando Fiore era ancora esule a Londra per motivi politici, io… GIORGIO MOTTOLA Latitante è il termine giusto.
MASSIMO PERRONE – COFONDATORE FORZA NUOVA Era latitante. Io andavo in giro per tutta Italia a fare proselitismo.
GIORGIO MOTTOLA E come si manteneva?
MASSIMO PERRONE – COFONDATORE FORZA NUOVA Era la Meeting Point che manteneva tutto questo entourage per permettere poi l’attività politica.
GIORGIO MOTTOLA La Meeting point era la cassaforte dell’organizzazione.
MASSIMO PERRONE - COFONDATORE FORZA NUOVA Sì, ma perché se lo poteva permettere in quel periodo.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Alla metà degli anni Novanta la Meeting Point era diventata un colosso del settore. Gestiva oltre duemila posti letto in tutta Londra e arrivava a fatturare il corrispettivo attuale di 15 milioni di euro. In occasione degli europei del 1996, la Fifa arrivò a stipulare con l’azienda di Fiore un accordo per l’accoglienza dei tifosi.
MASSIMO PERRONE - COFONDATORE FORZA NUOVA Si faceva la bella vita: macchine a noleggio, biglietto aereo pagato, hotel pagato, taxi pagato.
GIORGIO MOTTOLA Quanti soldi le dava al mese Fiore?
MASSIMO PERRONE - COFONDATORE FORZA NUOVA Boh, forse una media di 4-5 milioni al mese.
GIORGIO MOTTOLA Lei per la Meeting Point in sé non faceva nulla.
MASSIMO PERRONE - COFONDATORE FORZA NUOVA No, in realtà non lavoravo proprio per la Meeting Point, diciamo che era al servizio di Fiore.
GIORGIO MOTTOLA La Meeting Point è stata la cassaforte delle vostre attività politiche?
ROBERTO FIORE – PRESIDENTE FORZA NUOVA Questo è innegabile e mi sento onorato di averlo fatto. GIORGIO MOTTOLA Come facevate a giustificare queste uscite? Voi distraevate i soldi dalle casse di Meeting Point e finanziavate la politica?
ROBERTO FIORE – PRESIDENTE FORZA NUOVA Chiedetelo all’ufficio delle tasse, prendete la pratica nostra, perché stiamo parlando probabilmente di vent’anni fa.
GIORGIO MOTTOLA Magari fosse facile farlo in Inghilterra! È praticamente impossibile.
ROBERTO FIORE – PRESIDENTE FORZA NUOVA Di che stiamo parlando?
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Per mesi abbiamo cercato i fascicoli della Meeting Point presso l’agenzia del fisco inglese, ma senza alcun successo. Ciò che invece abbiamo scoperto è che durante la sua latitanza Fiore conduceva una vita molto agiata. Oltre alla Meeting Point aveva varie altre società intestate e abitava nel cuore della City in questa casa da un milione e 700mila sterline. Eppure, nel 1980, Roberto Fiore arriva senza una sterlina in tasca, ricercato per associazione sovversiva e con l’accusa, poi risultata infondata, di aver avuto un ruolo nella strage di Bologna. Come è riuscito da latitante a fondare una società e a diventare così ricco?
ROBERTO FIORE – PRESIDENTE FORZA NUOVA In Inghilterra, certo grazie anche al sistema inglese che è particolare, noi da zero riusciamo a costruire un impero.
GIORGIO MOTTOLA Quanti latitanti sono riusciti a diventare ricchi, a creare un’impresa da latitanti in un paese straniero. Questo per me è un mistero…
ROBERTO FIORE - PRESIDENTE FORZA NUOVA Ma no non è un mistero, lei si deve inchinare alla genialità.
GIORGIO MOTTOLA Mi ci inchino pure però restano una marea di dubbi perché ci sono una marea di buchi neri che fanno paura nella sua storia personale; lei sarà d’accordo su questo: ci sono dei buchi enormi.
ROBERTO FIORE - PRESIDENTE FORZA NUOVA No, non ci sono dei buchi neri.
GIORGIO MOTTOLA Come si fa a diventare ricchi da latitanti con dei mandati d’arresto internazionali sulla testa? ROBERTO FIORE - PRESIDENTE FORZA NUOVA C’è una sola spiegazione: l’aiuto di Dio.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ma secondo una testimonianza che viene fatta per la prima davanti a una telecamera italiana, potrebbe esserci stato qualche altro tipo di supporto molto più terreno.
RAYMOND HILL – EX DIRIGENTE MOVIMENTO NEONAZISTA INGLESE Non aveva nemmeno un posto per dormire; Fiore non aveva niente quando è arrivato in Inghilterra. Ora credo sia un uomo molto ricco, ma quando arrivò era messo davvero male.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Raymond Hill conosce bene la storia di Fiore e degli altri latitanti neofascisti. Tra gli anni Settanta e Ottanta è stato uno dei più importanti esponenti del movimento neonazista inglese. Ha intrecciato relazioni con i dirigenti dei partiti di estrema destra di tutta Europa. Ma ad un certo punto è diventato un infiltrato della polizia britannica.
RAYMOND HILL – EX DIRIGENTE MOVIMENTO NEONAZISTA INGLESE All’epoca io ero vicino alla Lega di San Giorgio, feci da intermediario per i latitanti neofascisti. La Lega di San Giorgio gli trovò delle sistemazioni e si è presa cura di loro finché non si sono rimessi in piedi.
GIORGIO MOTTOLA Che cos’è la Lega di San Giorgio?
RAYMOND HILL – EX DIRIGENTE MOVIMENTO NEONAZISTA INGLESE Nazisti convinti, nazisti purosangue. Non molti in realtà, ma forti.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO In queste immagini inedite vedete Ray Hill mentre sfila con la bandiera della Lega di San Giorgio durante un raduno neonazista in Belgio nel 1980. All’epoca la Lega era una delle organizzazioni più misteriose dell’estrema destra britannica. Dichiaratamente razzista e ultra-cristiana, aveva come scopo la creazione di un network neonazista europeo. GIORGIO MOTTOLA Lei sa cos’è la Lega di San Giorgio?
ROBERTO FIORE - PRESIDENTE FORZA NUOVA Sì. GIORGIO MOTTOLA Ha avuto rapporti con la Lega di San Giorgio?
ROBERTO FIORE - PRESIDENTE FORZA NUOVA Li ho conosciuti, totalmente irrilevanti.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO E forse era davvero niente, come dice Fiore; ma stando alla testimonianza di Ray Hill, che ne è stato per anni dirigente, la Lega di San Giorgio disponeva di risorse finanziarie enormi e di radici politiche che affondavano addirittura nel Terzo Reich. GIORGIO MOTTOLA Ma chi la finanziava?
RAYMOND HILL – EX DIRIGENTE MOVIMENTO NEONAZISTA INGLESE C’erano persone molto ricche, come Doyle di Brighton che era un multimilionario e ce n’erano anche altri molto ricchi. Come due ex ufficiali delle SS.
GIORGIO MOTTOLA Davvero? Venivano dal Terzo Reich?
RAYMOND HILL – EX DIRIGENTE MOVIMENTO NEONAZISTA INGLESE Sì, ne ho conosciuti due.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Nel gruppo neonazista inglese di quegli anni c’era anche una donna: Rosine de Bouneville, una ricca aristocratica che per gli incontri politici metteva a disposizione la sua enorme villa in campagna, Forest House. Quando è morta ha lasciato in eredità, la casa, del valore oggi di 700 mila sterline, e gli ettari di bosco in cui è immersa, al San George Educational Trust di cui all’epoca Roberto Fiore era socio e responsabile.
GIORGIO MOTTOLA Cosa sa di Forest House?
RAYMOND HILL – EX DIRIGENTE MOVIMENTO NEONAZISTA INGLESE Quello che sapevano tutti: era un campo d’addestramento militare per neonazisti.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO La storia della Lega di San Giorgio s’incrocia anche con un pezzo dei misteri d’Italia. Dopo il ritrovamento del cadavere di Roberto Calvi sotto al ponte dei frati neri a Londra, la famiglia affidò le indagini alla Kroll, la più importante agenzia investigativa al mondo. La Kroll scoprì legami tra la Lega di San Giorgio e la Sofint, una società utilizzata dalla P2 per operazioni finanziarie.
CARLO CALVI- FIGLIO DI ROBERTO CALVI La Sofint effettuò vari pagamenti che son stati fatti tanto a Losanna e anche alla Lega of Saint George.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO La Lega di San Giorgio nella quale erano confluiti anche dei neofascisti italiani. Secondo Calvi, che aveva incaricato l’agenzia investigatrice privata Kroll, una delle più potenti al mondo, di fare indagini sulla morte del padre, erano confluiti nella Lega anche i soldi provenienti da una società della P2, che era legata alla P2. Roberto Fiore ci ha scritto “le mie fortune le ho iniziate facendo un lavoro umile, il lavapiatti; poi ho chiesto in prestito anche 500 sterline al mio socio Morsello”. Di parere diverso è invece l’infiltrato Hill che Fiore però giudica inattendibile. Secondo l’infiltrato nei movimenti neonazisti, una mano alla struttura economica all’impero economico di Fiore, l’avrebbe data proprio all’inizio la Lega di San Giorgio, dove erano confluiti dentro vecchi ufficiali nazisti, quelli delle SS, milionari neonazisti. Insomma sarebbero finiti i soldi provenienti dal terzo Reich. Poi c’era un’aristocratica neonazista che aveva messo a disposizione la sua villa con tenuta, Forest House, nel sud della Gran Bretagna che era diventata la base logistica dei neonazisti. Lì si tessevano strategie e era anche stata trasformata, sempre secondo Hill, in un campo di addestramento militare. Morta l’aristocratica la villa stimata in circa 700 mila sterline con tenuta, sarebbe finita in eredità in un trust dove Roberto Fiore era socio e responsabile. Poi sempre secondo Calvi ben 9 milioni di dollari, oltre 9 milioni di dollari, sarebbero partiti direttamente da Licio Gelli e sarebbero finiti in ambienti neofascisti londinesi grazie anche al contributo di alcuni antiquari che erano a Londra e che erano in stretto contatto con esponenti della Banda della Magliana. Traccia di questi finanziamenti sono stati anche trovati su documenti sequestrati all’ex capo della P2 e sono oggetto dell’attenzione della magistratura che sta indagando proprio sulla strage di Bologna. Il nostro Giorgio Mottola ha raccolto da Hill una testimonianza clamorosa che potrebbe riscrivere la storia della strage della stazione di Bologna. È in merito a un signore, Enrico Maselli… Non Tomaselli.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Sull’origine della strage e il ruolo dei neofascisti, ulteriori elementi inediti emergono grazie alla testimonianza che Ray Hill fa per la prima volta fa davanti alla nostra telecamera. La storia che ci racconta inizia qualche anno prima della bomba di Bologna in Sudafrica, dove si era trasferito per guidare il movimento neonazista locale sostenitore dell’apartheid.
RAYMOND HILL – EX DIRIGENTE MOVIMENTO NEONAZISTA INGLESE C’era una grande comunità italiana ed è triste dirlo ma molti di loro erano militanti fascisti, le assicuro molto violenti. Immagino che fossero stati attratti dalla politica razziale del Sudafrica.
GIORGIO MOTTOLA Chi ha incontrato?
RAYMOND HILL – EX DIRIGENTE MOVIMENTO NEONAZISTA INGLESE Max Bollo era il più importante. Il suo progetto era creare un’unità o una sorta di alleanza tra i fascisti inglesi e i fascisti italiani emigrati in Sudafrica.
GIORGIO MOTTOLA GUORI CAMPO Max Bollo era uno dei capi del Wit Kommando, l’organizzazione terroristica neonazista, formata da diversi italiani, che in Sudafrica organizzò attentati dimostrativi in difesa dell’apartheid.
MAX BOLLO – EX MEMBRO WIT KOMMANDO Chi era queste persone che hanno continuato a difendere Berlino 1945? Erano tutte persone che non difendevano solo un pezzo di territorio, ma difendevano soprattutto una visione del mondo, un’idea.
GIORGIO MOTTOLA GUORI CAMPO Ed è proprio Max Bollo a presentare a Ray Hill un italiano, Enrico Maselli. È lui il protagonista di questo retroscena inedito che potrebbe riscrivere la storia del legame tra la strage di Bologna e la fuga a Londra di altri estremisti neofascisti. GIORGIO MOTTOLA Chi era Enrico Maselli?
RAYMOND HILL – EX DIRIGENTE MOVIMENTO NEONAZISTA INGLESE Natura violenta, ma molto intelligente.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Nel 1980 Ray Hill lascia il Sudafrica e torna a vivere in Inghilterra. E mentre si trova a Leicester qualche mese prima della strage di Bologna, lo contatta Enrico Maselli.
RAYMOND HILL – EX DIRIGENTE MOVIMENTO NEONAZISTA INGLESE Maselli mi disse: “Abbiamo pianificato una serie di azioni che ci causeranno molti problemi, puoi trovare un rifugio ad alcuni camerati che saranno costretti a scappare dall’Italia”? GIORGIO MOTTOLA Quando glielo disse?
RAYMOND HILL – EX DIRIGENTE MOVIMENTO NEONAZISTA INGLESE Nel 1980.
GIORGIO MOTTOLA Quanti mesi prima della strage di Bologna?
RAYMOND HILL – EX DIRIGENTE MOVIMENTO NEONAZISTA INGLESE Sei mesi prima. GIORGIO MOTTOLA Ma cosa le disse esattamente?
RAYMOND HILL – EX DIRIGENTE MOVIMENTO NEONAZISTA INGLESE Non mi parlò direttamente della bomba alla stazione di Bologna. Ma quando scoppiò capii subito che c’entrava o che aveva avuto un ruolo. Lo capii da quello che mi disse: “Che la violenza era l’unica soluzione e che lo stato italiano era corrotto e doveva essere distrutto.”
GIORGIO MOTTOLA Quindi Enrico Maselli venne a chiederle rifugio?
RAYMOND HILL – EX DIRIGENTE MOVIMENTO NEONAZISTA INGLESE Sì.
GIORGIO MOTTOLA Per i latitanti italiani?
RAYMOND HILL – EX DIRIGENTE MOVIMENTO NEONAZISTA INGLESE Esatto.
GIORGIO MOTTOLA E lei cosa fece?
RAY HILL – EX DIRIGENTE MOVIMENTO NEOFASCISTA INGLESE Li misi in contatto con la Lega di San Giorgio.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO La rivelazione di Ray Hill è clamorosa. Stando alla sua testimonianza, che va interamente riscontrata, Maselli, avrebbe creato un piano di fuga per i neofascisti italiani. Alla luce di queste rivelazioni, ci mettiamo immediatamente sulle tracce di Maselli.
GIORGIO MOTTOLA Buongiorno, stiamo cercando Enrico Maselli.
UOMO Sì, prego.
GIORGIO MOTTOLA Grazie.
UOMO 2 Salve, salve. Eccolo Enrico!
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Indagato e poi prosciolto nel ‘74 per banda armata, subito dopo è stato condannato per detenzione illegali di armi. E per questo è scappato dall’Italia trascorrendo la latitanza tra il Sudafrica e gli Stati Uniti, dove viene assunto da un’industria del settore della difesa.
GIORGIO MOTTOLA Lei conosce Raymond Hill?
ENRICO MASELLI Domanda strana.
GIORGIO MOTTOLA Perché domanda strana?
ENRICO MASELLI Mi spieghi perché vuol sapere questa risposta.
GIORGIO MOTTOLA Ci ha raccontato alcune cose rispetto al vostro incontro.
ENRICO MASELLI Lei sta parlando di un inglese?
GIORGIO MOTTOLA Esatto, di un inglese.
ENRICO MASELLI Che si chiama Ray Hill.
GIORGIO MOTTOLA Ray Hill, esatto.
ENRICO MASELLI Stiamo parlando di un incontro avvenuto nel 1980. Lui era in Sudafrica. Lui raccontò un sacco di cazzate nei miei confronti.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Quindi Maselli conferma che l’incontro con Ray Hill c’è stato e ne conferma anche il periodo, rivelandoci che è avvenuto circa quattro mesi prima della strage di Bologna. Da qui in poi, però, le versioni differiscono completamenti.
GIORGIO MOTTOLA A Leicester, lei avrebbe chiesto ospitalità, anzi rifugio, per una serie di neofascisti che stavamo per scappare.
ENRICO MASELLI No, nella maniera più assoluta.
GIORGIO MOTTOLA E non ha fatto alcun riferimento a una cosa grossa che stava per accadere?
ENRICO MASELLI Assolutamente falso.
GIORGIO MOTTOLA Ma lei aveva informazioni sulla strage prima che accadesse?
ENRICO MASELLI Ma come avrei potuto?
GIORGIO MOTTOLA Quindi lei nella strage di Bologna non ha avuto nessun ruolo.
ENRICO MASELLI Ma come avrei potuto? Nella maniera più assoluta.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Maselli nega di aver avuto in anticipo informazioni sulla strage di Bologna e di aver trattato con la lega di San Giorgio l’aiuto ai neofascisti italiani in fuga. All’inizio della nostra conversazione Maselli nega persino di conoscerli, ma dopo molte insistenti domande, riusciamo a fargli ammettere almeno un incontro.
GIORGIO MOTTOLA E quindi lei ha incontrato anche Fiore e gli altri a Londra?
ENRICO MASELLI Una volta a Londra in un pub. Perché avevo letto sui giornali… e per curiosità li ho incontrati una volta a Londra. Non ci faccia sopra…
GIORGIO MOTTOLA Lei sa chi è Enrico Maselli?
ROBERTO FIORE - PRESIDENTE FORZA NUOVA Enrico?
GIORGIO MOTTOLA Maselli.
ROBERTO FIORE - PRESIDENTE FORZA NUOVA No. Io non ho dormito una notte e non ho avuto una sterlina da quelli di Saint George. Zero. Molte di queste cose sono bluff.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Sarà anche un bluff, ma in questo documento inedito della polizia speciale inglese che abbiamo ritrovato si dice: “Non vi è dubbio che gli italiani stabilitasi in questa nazione abbiano avuto assistenza dalla Lega di San Giorgio”. Una delle fonti di questa informazione è il nostro Raymond Hill, che in quel periodo aveva iniziato a collaborare con le forze dell’ordine.
ENRICO MASELLI Per me gli infami rimangono infami. Allora, io ti spiego come funziona.
GIORGIO MOTTOLA Ray Hill è un infame.
ENRICO MASELLI Ray Hill è assolutamente un infame. È venuto praticamente a carpire delle informazioni che ha gestito come ca… gli è parso e piaciuto a lui.
GIORGIO MOTTOLA Ha mai riferito alla polizia britannica di Maselli?
RAYMOND HILL – EX DIRIGENTE MOVIMENTO NEONAZISTA INGLESE Sì certo.
GIORGIO MOTTOLA Gli ha parlato di Enrico Maselli?
RAYMOND HILL – EX DIRIGENTE MOVIMENTO NEONAZISTA INGLESE Sì, assolutamente.
GIORGIO MOTTOLA E la polizia italiana non l’ha mai cercata per chiederle cosa le disse Enrico Maselli?
RAYMOND HILL – EX DIRIGENTE MOVIMENTO NEONAZISTA INGLESE No, mai. No, ne sono sicuro.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Come mai Ray Hill non è mai stato sentito dagli investigatori italiani? La spiegazione è nelle carte della strage di Bologna ed appare davvero grottesca. Quando le soffiate di Hill arrivarono all’orecchio dei poliziotti italiani, venne chiesto un riscontro alla polizia speciale inglese. Nella richiesta però, c’è un errore madornale. Le autorità italiane infatti non chiedono di appurare i rapporti di Ray Hill con Enrico Maselli, ma con un suo quasi omonimo, Enrico Tomaselli, anche lui all’epoca neofascista, ex membro di terza posizione.
GIORGIO MOTTOLA Lo sa che la polizia italiana ha indagato non sui suoi rapporti con Enrico Maselli, ma con Enrico Tomaselli?
RAYMOND HILL – EX DIRIGENTE MOVIMENTO NEONAZISTA INGLESE Sì, hanno sbagliato.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Se così fosse ci sarebbe poco da ridere. Questo particolare clamoroso, inedito, rischia di riscrivere la storia della strage di Bologna. Che cosa dice Hill? Hill dice “ho conosciuto Enrico Maselli, me lo ha presentato un italiano che è emigrato in Sudafrica, Max Bollo, leader di un’organizzazione neonazista, un’organizzazione che si è anche macchiata di attentati dimostrativi a difesa dell’apartheid. Dice, “Maselli pochi mesi prima della strage di Bologna mi ha chiamato e ha chiesto aiuto, mi ha detto: abbiamo pianificato una serie di azioni che ci causeranno molti problemi, puoi trovare un rifugio ad alcuni camerati che saranno costretti a scappare dall’Italia?”. Hill dice di aver raccontato questi particolari alla polizia inglese, ma quando poi questa informazione arriva a quella italiana, sulle carte non c’è il nome di Enrico Maselli, ma quello di un altro neofascista: Enrico Tomaselli. Quando poi la procura fa indagini, non trova riscontri, chiude con un nulla di fatto e bolla Hill come non credibile. E ci credo. Mentre invece il nostro Giorgio l’ha rintracciato Maselli che ha confermato di conoscere Hill, di averlo incontrato nel 1980, non conferma i contenuti dei colloqui e lo bolla come un infame. Chi ha ragione? Il giudizio deve essere necessariamente sospeso perché a causa di quel vizio incredibile di trascrizione, le indagini non sono state mai fatte. E vedremo che cosa accadrà. Comunque al di là di tutto questo, dalle carte inglesi emerge anche che La lega di San Giorgio, questo movimento strano, ha aiutato latitanti neofascisti scappati dall’Italia. Non c’è nelle carte il nome di Fiore; lo diciamo chiaramente. Mentre invece c’è in altre carte inedite: in una informativa della Digos che identifica la struttura di Fiore e Morsello come una struttura che ha fornito copertura a dei fascisti latitanti che erano scappati dall’Italia. Come è stato possibile che due latitanti potessero agire in maniera indisturbata per anni a Londra? E poi, un giorno proprio a quella società, la Meeting Point, bussa uno che ha un occhio solo. Però giura di vederci bene.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Il mistero di Roberto Fiore ha tolto il sonno anche a uno dei più importanti detective privati inglesi, Jeff Katz. L'uomo che nel 1980, per conto dell’agenzia Kroll, riaorì il caso della morte di Calvi dimostrando che non si trattava di suicidio.
JEFF KATZ - DIRETTORE AGENZIA INVESTIGATIVA BISHOP GROUP Le autorità britanniche dissero che non c’erano basi per arrestarlo, cosa che pensai fosse molto strana, visto che era sospettato di essere coinvolto nella strage della stazione di Bologna. Erano morte 85 persone tra cui due cittadini inglesi. Mi è sempre sembrato strano che non sembrassero interessati.
GIORGIO MOTTOLA Fiore era vicino ai servizi segreti inglesi?
JEFF KATZ - DIRETTORE AGENZIA INVESTIGATIVA BISOHOP GROUP È possibile che potesse essere un informatore per i servizi.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO L’eventuale collegamento di Fiore con i servizi non è stato mai dimostrato in nessun tribunale. Ma in una relazione di una commissione d’inchiesta del parlamento europeo del 1991, Roberto Fiore viene indicato addirittura come agente dei servizi di informazione.
GIORGIO MOTTOLA Questa storia dei suoi rapporti con i servizi segreti?
ROBERTO FIORE -PRESIDENTE FORZA NUOVA Assolutamente no! Per un semplice e preciso motivo. Io sono un rivoluzionario. E non mi posso mettere d’accordo con un servizio segreto. Italiano, inglese… certo, avrei la tentazione con i russi perché hanno delle posizioni buone. Ma nemmeno con i russi ho avuto i servizi segreti.
MASSIMO PERRONE – COFONDATORE FORZA NUOVA Guardi, io ricordo un episodio, è buffa questa cosa. Noi avevamo la sede a Kensigton, della Meeting Point, e sopra c’era un piano della polizia speciale. E tutti dicevano che era l’MI6. Tanto è vero che una volta ho sbagliato piano, sono entrato dentro questa caserma di polizia… Gentilissimi, mi hanno detto: “Ha sbagliato, la Meeting Point è giù”.
GIORGIO MOTTOLA La sensazione è che Fiore avesse comunque una protezione particolare a Londra.
MASSIMO PERRONE – COFONDATORE FORZA NUOVA Fiore secondo me ha la protezione di qualche santo. Perché non si spiega, in tutti i processi il processo non si fa, o viene assolto, o viene prescritto. Fiore in Italia non si è fatto un giorno di galera.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Da latitanti, Roberto Fiore e il suo socio Massimo Morsello non solo si arricchiscono, ma con la Meeting Point finanziano il network europeo neofascista. In questa intercettazione inedita della Procura di Milano, Massimo Morsello, parla con un emissario di Franco Freda, l’ideologo neonazista coinvolto nella strage di Piazza Fontana, poi assolto per mancanza di prove.
UOMO Purtroppo noi abbiamo l’appello.
MASSIMO MORSELLO Quindi servono.
UOMO Esattamente.
MASSIMO MORSELLO E allora come posso farveli avere? Prima di tutto quello che è importante sapere è in che città? UOMO A Milano.
MASSIMO MORSELLO E lo intesto a chi?
UOMO Dunque…. te lo devo saper dire perché…. sarebbe meglio… in Italia c’è una legge dove gli assegni superiori ad un certo importo vengo registrati e tutte queste cose…
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO In quei giorni, ricorreva l’appello di un processo che riguardava l’organizzazione politica di Freda che per questo aveva bisogno di soldi. Ma Morsello si prende cura anche di altre figure del network neonazista. Viene ad esempio intercettato anche quando, per motivi non chiariti, organizza l’invio di denaro all’avvocato romano Paolo Giachini, storico difensore dell’ex ufficiale delle SS Eric Priebke.
PAOLO GIACHINI Non puoi evitare di fare il mio nome? Perché sai, questi, stanno cercando di fare collegamenti allora…. la pubblicità è meglio…
MASSIMO MORSELLO Certo, certo.
PAOLO GIACHINI Poi quando vengono fatti di soldi.
MASSIMO MORSELLO Quant’era l’ammontare, te lo ricordi? Quanto vuoi ritirare che tanto, comunque, lo lasciamo aperto.
PAOLO GIACHINI Ma guarda, era quattro e qualche cosa.
GIORGIO MOTTOLA I soldi non sembrano arrivare in modo trasparente dalle telefonate.
ROBERTO FIORE – PRESIDENTE FORZA NUOVA E da dove arrivano?
GIORGIO MOTTOLA Si parla di prestanomi che devono incassare soldi, si parla di assegni che non devono superare la quota per essere controllati…
ROBERTO FIORE – PRESIDENTE FORZA NUOVA Ma lei non pensa che ci sarebbero stati fior fiore di poliziottoni che ci sarebbero venuti addosso se avessero visto una anticchia di cosa problematica.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO In questa informativa della Digos risalente al ‘97, rimasta sepolta negli archivi giudiziari, senza mai essere usata per avviare un processo, si ritiene che Fiore e Morsello fossero a capo di un’internazionale nera finalizzata al supporto finanziario e logistico della latitanza di estremisti di destra. Una sorta di nuovo Piano Odessa, l’organizzazione che dopo la seconda guerra mondiale pianificò la fuga dei gerarchi nazisti. Secondo la Digos, infatti, la struttura londinese di Fiore e Morsello avrebbe supportato la latitanza di diversi criminali neofascisti tra cui di Angelo Angeli, il neofascista che stuprò Franca Rame, Elio di Scala detto Kapplerino, e l’ex Terza Posizione Pasquale Belsito. Alla fine degli anni Novanta, anche il neofascista Massimo Carminati, detto “Er cecato”, sarebbe arrivato alla corte di Meeting Point. L’ex capo di Mafia Capitale viene visto negli uffici della società londinese di Fiore e Morsello da uno dei fondatori di Forza Nuova, Pietro Minervini.
PIETRO MINERVINI – COFONDATORE FORZA NUOVA Carminati? Io l’ho visto solo una volta, così. Che era venuto a chiedere per un allargamento del suo maneggio.
GIORGIO MOTTOLA Lei ha incontrato Carminati a Londra?
PIETRO MINERVINI - COFONDATORE FORZA NUOVA Ma di sfuggita.
GIORGIO MOTTOLA Lì alla Meeting Point. Ed era venuto a chiedere dei soldi?
PIETRO MINERVINI - COFONDATORE FORZA NUOVA Aveva un progetto tutto suo.
GIORGIO MOTTOLA E che progetto era?
PIETRO MINERVINI - COFONDATORE FORZA NUOVA Per l’ampliamento del maneggio.
GIORGIO MOTTOLA E perché veniva a raccontarlo a Morsello?
PIETRO MINERVINI - COFONDATORE FORZA NUOVA Certamente si conoscevano, no?
GIORGIO MOTTOLA A coinvolgere la Meeting Point nel progetto?
PIETRO MINERVINI - COFONDATORE FORZA NUOVA Forse.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Prima di entrare a far parte della Banda della Magliana, Massimo Carminati è stato militante dei Nar, il gruppo terroristico di estrema destra, con cui ha partecipato a varie azioni criminali.
DA RADIO RADICALE MASSIMO CARMINATI - PROCESSO MAFIA CAPITALE 29/3/2017 Io sono un vecchio fascista degli anni ‘70. Sono contento di essere così. Quella è stata la mia vita. Mi sono morti tanti amici e sono contentissimo di essere quello che sono.
GIORGIO MOTTOLA Un altro dei fondatori di Forza Nuova, Minervini, ci ha detto che ha visto anche Carminati alla Meeting Point, alla metà degli anni Novanta.
ROBERTO FIORE - PRESIDENTE FORZA NUOVA Questo mi fa piacere saperlo.
GIORGIO MOTTOLA Lei ha mai incontrato Carminati a Londra?
ROBERTO FIORE - PRESIDENTE FORZA NUOVA Assolutamente no. Qualche volta a Vigna Clara, perché c’abbiamo lo stesso bar di riferimento. Non ho mai parlato con Carminati. E si vada a leggere bene le carte, capirà più cose, fate il vostro lavoro, studiate le cose...
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO E studiando, appuriamo che Fiore e Carminati hanno condiviso alcune conoscenze. Come quella di Stefano Tiraboschi e Vittorio Spadavecchia, neofascisti appartenenti ai Nar, anche loro come Fiore scappati a Londra all’inizio degli anni ’80.
INTERCETTAZIONE 6 GIUGNO 2013 MASSIMO CARMINATI Li conosci i miei amici, Spadavecchia, Tiraboschi? Negli anni novanta dicevano ricercati. Ricercati poi…
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Stefano Tiraboschi è stato compagno di cella di Roberto Fiore, nonché per un breve periodo suo socio in affari. Stando almeno a quanto scrivono i detective privati della Padfield. Tiraboschi fonda insieme a Vittorio Spadavecchia una società che aveva sede in questo ufficio al centro di Londra; e che come la Meeting Point, forniva alloggi per gli stranieri. Seppure latitanti, condannati in Italia per associazione sovversiva, anche loro da neofascisti ricercati si trasformano presto in imprenditori ricchissimi a capo di un impero immobiliare nella City valutato milioni di sterline. In diverse intercettazioni, Massimo Carminati si fa un vanto del loro successo e nel 2012 vola a Londra per incontrarli.
DA RADIO RADICALE MASSIMO CARMINATI - PROCESSO MAFIA CAPITALE 29/3/2017 Siamo andati perché dovevamo andare da dei nostri amici che stavano là e poi io fra l’altro io dovevo trovare un appartamento per mio figlio. Poi fra l’altro mi faceva piacere vedere quei due amici che stanno là che non vedevo da tanti anni, che fanno parte della mia vita. Che ero contento di vedere, mi faceva piacere.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Queste sono le foto inedite, recuperate da Report, dell’incontro avvenuto a Londra nel 2012 tra Massimo Carminati, Stefano Tiraboschi e Vittorio Spadavecchia. La polizia inglese pedina gli ex militanti dei Nar per tutto il tempo in cui il Cecato resta nella Capitale.
DA RADIO RADICALE MASSIMO CARMINATI - PROCESSO MAFIA CAPITALE 29/3/2017 Hanno continuato a seguirmi pure a Londra soltanto che all’estero sono meno professionali e li vedevo con i loro motorini che mi seguivano. Loro non hanno valutato che sono una persona che fa questa vita da tanti anni, c’ho un occhio solo ma quello vede bene. Mi dia retta avvocato.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Le foto vengono scattate davanti al ristorante di Stefano Tiraboschi, Mediterraneo, frequentato persino da Madonna, come racconta Carminati in un’intercettazione. In questa via, Kensington Road, una delle più esclusive di Londra, Tiraboschi possiede anche altri due ristoranti. In questo quartiere, gli ex-militanti Nar, sono di casa. Qui aveva sede infatti anche la società immobiliare di Vittorio Spadavecchia. Che ancora oggi è nella lista dei trenta ex terroristi ricercati dalle autorità italiane.
ALFONSO BONAFEDE – MINISTRO DELLA GIUSTIZIA Oggi diciamo al mondo che nessuno può sottrarsi alla giustizia italiana.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Per l’ex terrorista di sinistra Cesare Battisti c’è stata una grande mobilitazione di risorse e di forze di polizia. Vittorio Spadavecchia invece che deve ancora scontare 12 anni di prigione, per la giustizia italiana risulta ancora irreperibile. Eppure con una semplice visura a pagamento abbiamo scoperto che Spadavecchia possiede un appartamento nel più lussuoso e ricco dei quartieri di Londra. GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Salve sono Giorgio, cercavo Vittorio.
VOCE AL CITOFONO Il signor Vittorio non c'è, è in ufficio.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ma all’indirizzo dell’ufficio che ci è stato indicato, troviamo dei cinesi con le mascherine che ci invitano ad andare via. Eravamo quasi rassegnati, quando dopo qualche ora lo incontriamo mentre passeggia per strada nei pressi della sua abitazione.
GIORGIO MOTTOLA Vittorio Spadavecchia? Sono Giorgio Mottola, un giornalista di Raitre, le chiedo scusa non voglio disturbarla se… Mi scusi però non voglio inseguirla, se mi dà soltanto un istante. Scusi… Signor Vittorio non voglio inseguirla.
VITTORIO SPADAVECCHIA Mi lasci stare!
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Ha ragione, nessuno l’ha disturbato per 30 anni. Perché dovrebbe accettare di essere disturbato da noi? Ecco, Spadavecchia sono 30 anni che è latitante, il nostro Giorgio ha fatto una semplice visura catastale e ha trovato dove vive, in un appartamento lussuoso in un quartiere lussuoso. Ha anche incontrato in questi anni Carminati, il Cecato. Che è andato anche a bussare alla porta della Meeting Point, di Fiore e Morsello per farsi finanziare l’ampliamento del suo maneggio. La memoria è un po’ come la marea. L’abbiamo detto, restituisce dal passato, improvvisamente, quando meno te l’aspetti, brandelli di un relitto. Questa volta c’ha restituito un’informativa del 1997 della Digos che è rimasta seppellita negli archivi per tanto tempo. In questa informativa si legge che quella di Fiore e Morsello sarebbero stata un’internazionale nera, una struttura che aveva fornito negli anni supporto logistico e finanziario ai latitanti neofascisti che erano scappati dall’Italia. Era il 1997 era il periodo delle indagini sulla strage di piazza Fontana. La procura di Milano intercetta vari esponenti dell’estrema destra tra cui anche, Morsello che non è coinvolto, non risulterà coinvolto nella strage. Nelle intercettazioni finisce anche Maurizio Murelli, neonazista, con una condanna pesante sulle spalle per concorso nell’omicidio di un poliziotto. Fonderà poi l’associazione culturale Orion, dove si mescolavano idee neonaziste e dove si aspirava a un continente euroasiatico sotto l’egemonia russa. Ecco insomma, aveva identificato in un’intercettazione rimasta inedita Gianluca Savoini come punto di riferimento, cavallo di Troia per entrare nella Lega. Quel Savoini che era all’epoca un giornalista della Padania, camminava nella redazione battendo i tacchi e facendo il saluto fascista, e sul suo pc sono state trovate la faccia, la fotografia di Hitler e dei simboli nazisti rivisitati in salsa padana. Poi è rimasto coinvolto nello scandalo del Metropol, diventato portavoce della nuova Lega di Matteo Salvini, ed era rimasto coinvolto come dicevamo nella presunta trattativa di compravendita di gasolio russo finalizzata, secondo i magistrati, a finanziare la Lega di Matteo Salvini per la campagna delle europee. Nelle intercettazioni del 1997 emerge anche che la Meeting Point, la società di Fiore e Morsello aveva a libro paga alcuni giornalisti e perché scrivessero articoli a loro compiacenti, e divulgassero le loro idee, venivano pagati, dice Morsello fino a 10 mila sterline in nero. Nero come il virus nazifascista.
· Dio, Patria, Famiglia Spa.
Dio, Patria, Famiglia Spa. Report Rai PUNTATA DEL 20/04/2020 di Giorgio Mottola collaborazione di Norma Ferrara e Simona Peluso. Con l’esplosione della pandemia il fronte sovranista che si professa ultracattolico è tornato all’attacco di Papa Francesco. Sui siti della destra religiosa americana non hanno dubbi: il coronavirus è la punizione divina per il tradimento di Bergoglio. È solo l’ultima delle accuse mosse al Pontefice, e arriva dopo i violenti attacchi lanciati contro le posizioni assunte su migranti, divorziati, difesa dell’ambiente e omosessuali. Quello degli anti-bergogliani è un network potente che comprende giornali, siti, associazioni, fondazioni e un fiume di soldi che dagli Stati Uniti negli ultimi anni è approdato in Europa e in Italia. Report svelerà in esclusiva quali sono i gruppi politici italiani sostenuti da Oltreoceano e chi sono i cosiddetti dissidenti da Bergoglio all’interno delle gerarchie vaticane e i leader politici che stanno offrendo sponda.
“DIO PATRIA FAMIGLIA SPA” Di Giorgio Mottola Consulenza Andrea Palladino Collaborazione Norma Ferrara – Simona Peluso
PAPA FRANCESCO - BENEDIZIONE URBI ET ORBI 27/03/2020 Dio onnipotente e misericordioso guarda la nostra dolorosa condizione, conforta i tuoi figli e apri i nostri cuori alla speranza.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Sotto ad un cielo cupo coperto da nuvole cariche di pioggia, per la prima volta nella storia, un Papa ha parlato di fronte a una piazza san Pietro completamente vuota.
PAPA FRANCESCO - BENEDIZIONE URBI ET ORBI 27/03/2020 Non abbiamo ascoltato il grido dei poveri e del nostro pianeta gravemente malato. Abbiamo proseguito imperterriti pensando di rimanere sempre sani in un mondo malato.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Dopo l’esplosione della pandemia, il Papa concede l’indulgenza plenaria ai credenti nel mondo. Ma in alcuni ambienti del cattolicesimo è il Papa stesso ad essere considerato la causa del coronavirus.
JOHN-HENRY WESTEN- DIRETTORE LIFESITENEWS È sensato immaginare che, anche solo in parte, questa epidemia sia la conseguenza del tradimento compiuto dal Papa contro nostro Signore?
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Insomma, con il coronavirus Dio avrebbe punito gli uomini per il tradimento del Papa. Ad affermarlo è il direttore di Lifesitenews, uno dei siti ultracattolici più seguiti nel mondo.
JOHN-HENRY WESTEN- DIRETTORE LIFESITENEWS Il pontefice ha dato il suo consenso alle comunioni sacrileghe, concedendo la sacra comunione a divorziati e risposati. Questa profanazione della sacra comunione ha un collegamento diretto con la punizione divina.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Da settimane questa tesi viene rilanciato da decine di siti ultracattolici e da numerosi predicatori americani del web.
TAYLOR MARSHALL – TEOLOGO YOUTUBER Abbiamo avuto un Papa che per la prima volta nella storia ha introdotto l’idolatria a San Pietro e ha fatto un accordo sconsiderato in Cina.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Le accuse di idolatria contro Bergoglio sono iniziate qualche mese fa, quando, in occasione del sinodo sull’Amazzonia, il pontefice ha accolto in vaticano le statue di Pachamama, un’antica divinità Inca, che oggi per i popoli amazzonici simboleggia madre terra.
JOHN-HENRY WESTEN- DIRETTORE LIFESITENEWS Lo sanno tutti che, poco prima dell’esplosione del coronavirus, il Papa abbia acconsentito all’ingresso dell’idolatria nel Vaticano. L’idolatria di Pachamama.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Per il fronte ultraconservatore il sacrilegio compiuto da Bergoglio non poteva restate impunito e così, un ultracattolico austriaco, Alexander Tschugguel, si è filmato mentre ha rubato le statue di Pachamama dalla chiesa di Santa Maria in Traspontina dove erano esposte per poi gettarle nel Tevere.
TAYLOR MARSHALL – TEOLOGO YOUTUBER Dio non è contento di noi e non è contento del Papato. Vuoi fare false adorazioni? Ti faccio vedere chi devi adorare davvero.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ma se il coronavirus è davvero la punizione divina per il tradimento compiuto dal Papa, allora l’ira di Dio deve aver sbagliato clamorosamente mira. All’inizio dell’epidemia infatti, a risultare positivo al Covid è stato proprio Alexander Tschugguel. L’uomo che ha buttato le statue di Pachamama nel Tevere.
TAYLOR MARSHALL – TEOLOGO YOUTUBER Alexander Tschugguel ha il coronavirus ed è a letto con febbre alta da una settimana. Si sente davvero molto male e mi ha chiesto di pregare per la sua guarigione.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Le campagne anti-Bergoglio sul Coronavirus non nascono a caso, ma germogliano dalle dichiarazioni rilasciate da alcuni esponenti delle gerarchie vaticane, come l’arcivescovo Carlo Maria Viganò, ex nunzio apostolico negli Stati Uniti. In varie interviste ha indicato il Coronavirus come punizione divina contro peccati mortali come l’aborto, il divorzio e l’omosessualità. Posizione condivisa e rilanciata da Ralph Drollinger, consulente della Casa Bianca sugli studi biblici, in un documento ufficiale ha collegato di recente l’epidemia al dilagare di omosessualità e lesbismo. Esattamente l’opposto di quanto aveva dichiarato giorni prima il Papa durante un’intervista alla tv spagnola.
PAPA FRANCESCO Dio perdona sempre, noi altri perdoniamo qualche volta. La natura non perdona mai. Cioè, la natura è in crisi. Quindi dobbiamo prenderci cura della natura.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Nessun riferimento a omosessuali, all’ira e alla punizione divina dei peccati. Tanto è bastato perché le parole del Papa scatenassero la furia dei media ultracattolici statunitensi.
JOHN-HENRY WESTEN- DIRETTORE LIFESITENEWS Quando ho sentito per la prima volta Papa Francesco dire che il coronavirus rappresenta una rivolta della natura, provocata dal nostro mancato rispetto dell’ambiente, non potevo credere alle mie orecchie. Ha già sbagliato tante altre volte su argomenti di fede come contraccezione, convivenza, divorziati e risposati e omosessualità.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Nel dibattito ha preso una posizione netta anche il cardinale statunitense Raymond Burke. In un documento ufficiale sul Coronavirus spiega: “È fuori discussione che grandi mali quali la pestilenza siano effetto del peccato originale e dai nostri attuali peccati. È così, scrive il cardinale, che Dio ripara il caos introdotto dal peccato nelle nostre vite e nel nostro mondo”. Le parole di Burke solleticano gli istinti più belligeranti degli ultracattolici americani, e subito iniziano a propagare online il verbo del cardinale.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Un verbo al quale sono sensibili alcuni politici italiani. E qualcuno è anche finanziato, vedremo chi. Insomma, però sentire accusare Papa Bergoglio di essere addirittura la causa della diffusione del virus è un’esperienza che sinceramente ci mancava. E però la lista, la galleria di personaggi che critica Bergoglio è ricca. A partire dall’arcivescovo Carlo Maria Viganò, ex nunzio apostolico negli Stati Uniti, secondo il quale la diffusione del virus è legata a peccati, una punizione contro i peccati, quali l’aborto, il divorzio, l’omosessualità e sulla stessa linea è anche il consulente della Casa Bianca per gli studi biblici, Ralph Drollinger, per il quale il diffondere dell’epidemia è da collegarsi alla omosessualità, il dilagare dell’omosessualità e il lesbismo. Però il punto di riferimento del mondo ultraconservatore che critica di più Bergoglio è da cercarsi a pochi metri da dov’è il Papa nel Vaticano. Ed è il cardinale Raymond Leo Burke. Burke che appartiene anche al collegio del conclave è patrono dell’Ordine Sovrano Militare di Malta, ordine a cui appartengono anche diversi… son appartenuti diversi politici italiani molto importanti e che si comporta un po’ come uno stato a sé, può rilasciare documenti, patenti, passaporti e ha anche dialoghi con gli stati come se fosse uno stato indipendente. Ecco, non è piaciuta a Bergoglio la gestione degli ultimi tempi di questo ordine ha di fatto aperto una commissione per indagare e di fatto l’ha commissariato. Burke però è colui che ha più criticato apertamente il Papa soprattutto per la sua apertura, per il suo dialogo con le altre religioni, per la sua politica sull’accoglienza degli immigranti, e soprattutto per la sua apertura nei confronti dei divorziati. Burke che ha anche criticato il Papa di idolatria, ha detto, ha scritto addirittura spiegando della ragioni della diffusione del virus, “siamo testimoni anche all’interno della Chiesa di un paganesimo che rende culto alla natura. Ci sono quelli, all’interno della Chiesa, che si rivolgono alla terra chiamandola nostra madre, come se noi venissimo dalla terra, un’accusa neanche troppo poco velata insomma. E Burke è stato anche, è presidente di una fondazione per lo più sconosciuta, la Fondazione Sciacca che se da una parte fa attività di beneficienza, opere di beneficienza, dall’atra tesse relazioni. Dentro ci sono finiti i servizi di sicurezza, banchieri e magistrati. Burke è stato anche presidente dell’associazione Dignitatis Humanae, quella che fa riferimento a Steve Bannon, stratega di Trump, è colui che ha fondato Cambridge Analytica, quella che avrebbe violato 50 milioni di profili Facebook e avrebbe condizionato l’esito delle elezioni presidenziali e anche la Brexit. Poi, dopo aver discusso con Trump, cacciato da Trump, ha deciso di porre in Italia la sua scuola internazionale di sovranismo. Ecco, dove l’ha posta? L’ha posta nella splendida Abbazia del 1200 di Trisulti. Una gestione che però avrebbe ottenuta attraverso la presentazione, come ha raccontato Report, di documentazione anomala, non pagando un euro di canone né in ristrutturazione. Ecco, come guardiano ci ha messo quello che possiamo considerare ormai un nostro amico, Benjamin Harnwell. L’unico che ai tempi del coronavirus può passare in completo isolamento la sua quarantena. Il nostro Giorgio Mottola gli ha portato generi di conforto.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Fino a pochi mese fa, Raymond Burke presiedeva la Dignitatis Humanae, l’associazione legata a Steve Bannon che ha preso in gestione la Certosa di Trisulti, in provincia di Frosinone. Qui, nella solitudine dell’antica abbazia, dove la quarantena non ha modificato di una virgola le sue giornate, vive ancora Benjamin Harnwell, l’uomo che per conto dell’ex capo stratega di Trump, Steve Bannon, è diventato custode e concessionario della Certosa di Trisulti, con l’obiettivo di trasformarla in una scuola politica di sovranismo. Vivendo completamente isolato, lontano da supermercati e negozi, l’unica condizione che Benjamin Harnwell ci pone per accettare l’intervista, è un piccolo rifornimento di viveri e sigari.
GIORGIO MOTTOLA Visto che Bannon ti ha abbandonato in quarantena, Report ha pensato a te. Ti ho portato un po’ di viveri, come avevi chiesto, e soprattutto i sigari che mi avevi chiesto.
BENJAMIN HARNWELL – DIRETTORE ASSOCIAZIONE DIGNITATIS HUMANAE Sì, grazie, ma devo mettere i guanti.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO A causa delle irregolarità del bando per l’assegnazione della Certosa che Report aveva portato alla luce, lo scorso giugno il Ministero ci aveva garantito che nel giro di qualche settimana Harnwell e la Dignitatis Humanae sarebbero stati costrette a lasciare la Certosa.
DA REPORT DEL 6 GIUGNO 2019 GIORGIO MOTTOLA Sfratterete Steve Bannon e Benjamin Harnwell dalla Certosa?
GIANLUCA VACCA – SOTTOSEGRETARIO MINISTERO DEI BENI CULTURALI Chiederemo ovviamente la restituzione della Certosa. Cercheremo di capire anche come valorizzare questa stupenda Certosa, questo stupendo monumento che è ricco di tesori al proprio interno.
GIORGIO MOTTOLA Eravamo convinti l’ultima volta di non trovarla più qui.
BENJAMIN HARNWELL – DIRETTORE ASSOCIAZIONE DIGNITATIS HUMANAE Ancora... ci siamo ancora.
GIORGIO MOTTOLA Infatti, fa un sorriso bello furbo, mi pare di capire. Finora ci ha fregati tutti. BENJAMIN HARNWELL – DIRETTORE ASSOCIAZIONE DIGNITATIS HUMANAE Finora siamo ancora qua.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO In attesa dell’ennesima sentenza del Tar, che a causa del coronavirus è ovviamente slittata, Benjamin Harnwell continua a portare avanti le sue idee sul Papato di Bergoglio.
BENJAMIN HARNWELL – DIRETTORE ASSOCIAZIONE DIGNITATIS HUMANAE Il Papa dice le cose che non hanno nessuna radice nella storia della Chiesa.
GIORGIO MOTTOLA Secondo lei Bergoglio dice cose non cristiane.
BENJAMIN HARNWELL – DIRETTORE ASSOCIAZIONE DIGNITATIS HUMANAE Dice delle cose che non sono cristiane.
GIORGIO MOTTOLA È forte come espressione, che il Papa dice cose non cattoliche e non cristiane.
BENJAMIN HARNWELL – DIRETTORE ASSOCIAZIONE DIGNITATIS HUMANAE Giorgio, non so perché lo fa. Può darsi per malizia. Perché è un nemico della Chiesa.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO La tesi di Bergoglio nemico della Chiesa nasce e si consolida oltre oceano. Tale posizione infatti, fin dall’elezione di Trump, ha come capofila politico Steve Bannon, e nonostante il suo isolamento nella Certosa, Benjamin Harnwell ci fa sapere che continua a sentirlo tutti i giorni.
GIORGIO MOTTOLA Steve Bannon del Papa che cosa pensa?
BENJAMIN HARNWELL – DIRETTORE ASSOCIAZIONE DIGNITATIS HUMANAE Steve pensa che in certi rispetti questo Papa sia inadeguato.
GIORGIO MOTTOLA In questa battaglia contro il Papa Bannon ha trovato sponda anche dentro la Chiesa?
BENJAMIN HARNWELL – DIRETTORE ASSOCIAZIONE DIGNITATIS HUMANAE Senz’altro sì.
GIORGIO MOTTOLA E una delle sponde è il cardinale Burke.
BENJAMIN HARNWELL – DIRETTORE ASSOCIAZIONE DIGNITATIS HUMANAE Su queste cose non mi sento sicuro di parlare.
GIORGIO MOTTOLA È Bannon che ha presentato Burke a lei?
BENJAMIN HARNWELL – DIRETTORE ASSOCIAZIONE DIGNITATIS HUMANAE No, io ho presentato Steve Bannon al Cardinale.
GIORGIO MOTTOLA Mi dica la verità, lei avrebbe preferito vedere sul trono pontificio Burke, al posto di Bergoglio. BENJAMIN HARNWELL – DIRETTORE ASSOCIAZIONE DIGNITATIS HUMANAE Sì.
GIORGIO MOTTOLA Questo è il suo sogno proibito.
BENJAMIN HARNWELL – DIRETTORE ASSOCIAZIONE DIGNITATIS HUMANAE Nella pienezza del tempo chi sa.
GIORGIO MOTTOLA Siamo lì che aspettiamo il prossimo conclave insomma.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Patrono dell’Ordine di Malta e punto di riferimento mondiale del fronte ultraconservatore, all’interno della curia romana, il cardinale Burke è una delle voci più critiche nei confronti di Papa Bergoglio. Con documenti ufficiali da tempo ha espresso il suo disappunto riguardo alle aperture del pontefice su divorziati, su dialogo tra le religioni e accoglienza dei migranti. In più di un’occasione, il Cardinale ha chiamato i fedeli alla resistenza contro i cambiamenti che il Pontefice sta provando ad apportare in Vaticano.
RAYMOND BURKE - CARDINALE PATRONO ORDINE DI MALTA Chiaramente in un tempo di grande confusione e errore nella cultura e perfino nella Chiesa siamo veramente chiamati a difendere e combattere per le verità della fede.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Il cardinale Burke coltiva rapporti molto stretti con esponenti dell’amministrazione Trump, sebbene con Steve Bannon la relazione si sia di recente molto raffreddata. In Italia, invece, Burke non ha mai nascosto le sue simpatie per Matteo Salvini. Quando era ministro dell’Interno, durante i blocchi in mare delle ONG, il cardinale lo ha più volte difeso in pubblico.
GIORNALISTA Lei è d'accordo con le azioni del ministro dell'Interno italiano?
RAYMOND BURKE - CARDINALE PATRONO ORDINE DI MALTA Beh, io penso che sia comprensibile. La nazione deve prendersi cura innanzitutto dei propri cittadini e poi esaminare attentamente chi sono questi immigrati se sono davvero rifugiati politici o se sono persone che emigrano soltanto per… per… come dire, migliorare le loro condizioni.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO In Italia Burke presiede anche la Fondazione Sciacca, un’organizzazione filantropica cattolica di orientamento ultraconservatore che ha firmato protocolli d’intesa con il ministero della Giustizia e con la Agenzia Industrie Difesa, l’ente pubblico che si occupa di fornire munizioni ed esplosivi all’esercito. È una fondazione completamente sconosciuta, tranne però, almeno pare, nei posti e tra la gente che davvero conta in Italia. Negli organismi direttivi c’è infatti il capo dei servizi segreti Gennaro Vecchione, generali dell’esercito, giudici del Consiglio di Stato e banchieri come Ettore Gotti Tedeschi, ex direttore dello Ior. L’anima della fondazione è questo prete, Don Bruno Lima. Famoso a L’Aquila per le messe in latino che officia ogni domenica.
GIORGIO MOTTOLA Sono Giorgio Mottola, sono un giornalista di Report, Rai3.
DON BRUNO LIMA AL TELEFONO Mi dica la domanda, io non faccio interviste telefoniche.
GIORGIO MOTTOLA Io volevo soltanto chiederle: come avete fatto nella fondazione a mettere insieme così tanti pezzi grossi, capi dei servizi segreti…
DON BRUNO LIMATOLA AL TELEFONO Non sono interessato alle sue domande, buona sera.
GIORGIO MOTTOLA Però siamo interessati noi a capire come ha fatto, Don Bruno.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Per la sua fondazione infatti Don Bruno nel 2018 ha fatto un nuovo prestigioso acquisto, come testimonia questo video inedito recuperato da Report.
PREMIO INTERNAZIONALE “GIUSEPPE SCIACCA” 27/10/2018 PRESENTATORE A premiare sarà il Ministro Matteo Salvini, presidente del comitato scientifico della Fondazione Giuseppe Sciacca. Buonasera Ministro, intanto siamo contenti e onorati ovviamente di averla quest’anno nella famiglia del premio Sciacca e come presidente del comitato scientifico.
MATTEO SALVINI - EX MINISTRO DELL'INTERNO Ma sono io che mi sento onorato e anche inadeguato, sono l’ultimo dei buoni cristiani. Infatti, quando don Bruno mi ha proposto questa cosa ho detto: "Don Bruno stia attento ho poco da testimoniare, sono un peccatore di quelli…”
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Chissà cosa fa il presidente di un comitato scientifico di una fondazione come quella Sciacca. Ecco sta di fatto però che Salvini che è un divorziato, che per noi non c’è nulla di male, lo chiariamo, viene nominato presidente da chi critica Bergoglio per la sua apertura nei confronti dei divorziati. La fondazione Sciacca va detto che ha effettuato varie iniziative di beneficienza, questo da una parte. Dall’altra però il dubbio che sia tessitrice di una rete di relazioni. E ci ha scritto l’ufficio stampa, ci ha scritto una nota dove esprimono la solidarietà al cardinale Burke, si dicono indignati per il fatto che sia stato accostato ai cosiddetti nemici del Papa. “Sua Eminenza”, scrivono, “è un insigne giurista e teologo noto in tutto il mondo, svolge i suoi alti incarichi istituzionali a servizio della Santa Sede e con spirito di obbedienza verso il Santo Padre”. Poi accusano anche Report di diffondere fake news, va tanto di moda in questo periodo. Una notizia invece emerge da un’intercettazione della Direzione Investigativa Antimafia. Il cardinale Burke viene intercettato a sua insaputa, finisce per una coincidenza in un’intercettazione, non è indagato, lo chiariamo subito, mentre c’è chi gli chiede una spintarella per far avere un incarico di governo a un Senatore un po’ controverso.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Lo scorso anno vi avevamo mostrato le immagini della trasferta italiana di Steve Bannon del 7 settembre 2018: nel viaggio in auto verso il Viminale, si trova con un emissario della Lega, Federico Arata, figlio di Paolo: colui che secondo la procura di Palermo sarebbe socio occulto del re dell’eolico, Vito Nicastri, presunto prestanome di Matteo Messina Denaro. Paola Arata è accusato di aver pagato al sottosegretario leghista Armando Siri una mazzetta da 30mila euro per inserire un emendamento a favore dell’eolico. Ed è proprio con il figlio Federico che Bannon parla di strategie elettorali.
DA “THE BRINK” DI ALISON KLAYMAN STEVE BANNON - EX CAPO STRATEGA CASA BIANCA Intendiamo fornire inchieste, analisi di dati, messaggi dal centro di comando.
FEDERICO ARATA È l’idea che con questo possiamo diventare il partito numero uno in Italia. E poi dovrete dir loro che dobbiamo pianificare. “Pianificare” è la parola chiave… la vittoria per le elezioni europee.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Queste immagini che avete appena visto fanno parte del documentario “The Brink” di Alison Klayman, che Report vi mostra in esclusiva per l’Italia. Dimostrerebbero che Arata è il vero artefice dei rapporti tra Bannon e la Lega.
MISCHAËL MODRIKAMEN - PORTAVOCE THE MOVEMENT Sono Mischaël, dal Belgio. Sono di The Movement.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Per conto di chi Federico Arata fa da intermediario tra Steve Bannon e la Lega? Nei mesi successivi a questo incontro Giancarlo Giorgetti ha assunto Arata a Palazzo Chigi, come consulente esterno. A che titolo?
GIANCARLO GIORGETTI – SOTTOSEGRETARIO PRESIDENZA DEL CONSIGLIO (06/2018-09/2019) I requisiti sono ben documentati da un curriculum che è stato pubblicato credo in tutti i giornali, in tutti i media, e che dimostra come questa persona avesse oltre che tre lauree, un’esperienza internazionale di tutto livello.
GIULIANO MARRUCCI E senta come si giustifica il fatto che Arata avrebbe fatto da mediatore tra Bannon e Salvini.
GIANCARLO GIORGETTI – SOTTOSEGRETARIO PRESIDENZA DEL CONSIGLIO (06/2018-09/2019) Io questo non lo so, dovete chiedere a Bannon, non a me.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ma oltre che a Bannon, forse bisogna domandare anche al cardinale Burke. Nel 2018, al momento della distribuzione delle nomine ministeriali, è infatti al monsignore statunitense che si rivolge Paolo Arata. Come emerge dalle telefonate intercettate dalla Dia di Trapani, a Burke, Arata chiede di far arrivare pressioni a Giorgetti per far ottenere al figlio Federico un incarico governativo.
INTERCETTAZIONE 6 APRILE 2018 Il 6 aprile del 2018 Paolo Arata telefona al cardinale Burke. “Io coglievo l’occasione per ricordarle se può fare quel famoso intervento su Giorgetti dagli Stati Uniti” - dice. E la risposta del cardinale è: “Sì, sì, quando è il momento giusto io sono pronto. Quando lei mi dice, io invierò subito”.
GIORGIO MOTTOLA Buona sera Monsignore, sono Giorgio Mottola sono un giornalista di Report, RaiTre. Volevo farle qualche domanda sulle sue telefonate con Paolo Arata.
RAYMOND BURKE – CARDINALE PATRONO ORDINE DI MALTA No.
GIORGIO MOTTOLA Come no...sua Eminenza. Chi è l'americano a cui lei telefona per raccomandare il figlio di Paolo Arata, sua Eminenza. Mi dice soltanto questo. Come ha conosciuto Paolo Arata?
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ma la cura delle anime ha la priorità, aspettiamo in religioso silenzio e alla fine delle benedizioni proviamo a riproporre i nostri prosaici argomenti terreni.
GIORGIO MOTTOLA Sua Eminenza mi scusi, come mai si è messo a disposizione di Paolo Arata. Ok. Stavo solo facendo alcune domande…
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Secondo la Dia, l’intervento che Paolo Arata chiede a Burke su Giorgetti sarebbe innanzitutto per far ottenere un ministero a un senatore della Lega: Armando Siri.
GIORGIO MOTTOLA Lei conosce molto bene il cardinale Burke, Raymond Burke?
ARMANDO SIRI - SENATORE LEGA SALVINI PREMIER Il cardinale? No, non lo conosco.
GIORGIO MOTTOLA Strano perché si è impegnato davvero tanto, almeno sembra essersi impegnato davvero tanto per la sua nomina a Sottosegretario.
ARMANDO SIRI - SENATORE LEGA SALVINI PREMIER Mah, io non lo so... io non lo conosco...
GIORGIO MOTTOLA E però lo conoscono molto bene Federico Arata e Paolo Arata e lei ha chiesto a Federico Arata una mano per essere nominato…
ARMANDO SIRI - SENATORE LEGA SALVINI PREMIER Ah, ma lei sta dicendo Burke!
GIORGIO MOTTOLA Sì, chiama Burke in realtà è americano.
ARMANDO SIRI - SENATORE LEGA SALVINI PREMIER Ah, si chiama "Burke". GIORGIO MOTTOLA Lei ha chiesto a Federico Arata di fare pressione sull'ambasciatore americano affinché lei venisse nominato sottosegretario.
ARMANDO SIRI - SENATORE LEGA SALVINI PREMIER Addirittura... e cosa c'entra l'ambasciatore americano con il sottosegretario italiano?
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ecco però il testo della telefonata che Federico Arata fa al padre: “Armando mi ha chiamato, mi ha detto se potevo fargli arrivare qualche sponsorizzazione presso l'Ambasciatore americano”. Su questa richiesta però Burke si dimostra pessimista e gli Arata, padre e figlio, ipotizzano di chiedere la spintarella a Bannon. E poche settimane dopo le telefonate in questione, Federico Arata viene assunto a Palazzo Chigi e Armando Siri diventa sottosegretario alle Infrastrutture.
GIORGIO MOTTOLA La sua nomina a sottosegretario quando dipende dall'intervento di Burke?
ARMANDO SIRI - SENATORE LEGA SALVINI PREMIER Credo che la mia nomina a sottosegretario dipenda da Matteo Salvini che è segretario della Lega e che ha deciso che io dovessi fare il sottosegretario. È la cosa più logica in assoluto.
GIORGIO MOTTOLA Però se dipendeva solo da Salvini, perché ha chiesto aiuto a Federico Arata? Evidentemente lei non era così convinto che Salvini l'avrebbe nominata sottosegretario...
ARMANDO SIRI - SENATORE LEGA SALVINI PREMIER Ma no assolutamente...ma io non ho chiesto assolutamente nulla a nessuno. Guardi che queste sono cose che dice lei.
GIORGIO MOTTOLA Dalle telefonate sembra il contrario però…
ARMANDO SIRI - SENATORE LEGA SALVINI PREMIER Eh, ma sa, nelle telefonate... chissà quante cose dice lei nelle telefonate...
GIORGIO MOTTOLA Non di diventare sottosegretario sicuramente.
ARMANDO SIRI - SENATORE LEGA SALVINI PREMIER Eh, magari di avere qualche altra cosa....
GIORGIO MOTTOLA Sicuramente non di diventare sottosegretario…
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Anche perché Il nostro Giorgio fa bene il suo mestiere. Insomma cosa è emerso che Paolo Arata che è il consulente, l’esperto della Lega per le politiche energetiche, finisce sotto intercettazioni della Direzione Investigativa Antimafia perché è accusato di corruzione e soprattutto perché accusato di avere come socio occulto Vito Nicastri. Vito Nicastri a sua volta è accusato di aver finanziato la latitanza del capo di Cosa Nostra, Matteo Messina Denaro. Ora i magistrati dicono che Paolo Arata avrebbe proprio portato in dote al suo socio occulto, i suoi rapporti con la Lega, in particolare con Armando Siri con il quale è indagato per corruzione perché avrebbero tentato di infilare, tentato invano, di infilare un emendamento nella legge di bilancio del 2019 in base al quale avrebbero fatto percepire degli incentivi a tutti coloro che avevano aperto campi eolici nel 2017. Una norma retroattiva della quale avrebbero beneficiato anche loro stessi, Arata e il suo socio. E bene. Che cosa fa Arata? Chiede a Burke, al cardinale Burke una mano perché si rivenga nominato… abbia un incarico di governo. Burke si mette a disposizione, dice sì quando è il momento giusto, io sono pronto. Certamente Burke non conosceva i rapporti di Arata con Vito Nicastri, quello che ha finanziato la latitanza del boss. Tuttavia Arata chiede anche un’altra cortesia. Chiede a Burke di far avere al figlio, Federico, per il nuovo nascente governo della Lega un incarico. E anche qui Burke si dice disponibile, non sappiamo se poi abbia fatto, sia intervenuto. Sta di fatto che quando arriva Steve Bannon a Roma nel 2018 Arata lo va ad accogliere nei panni di consulente della Presidenza del Consiglio. E parla con lui di strategie elettorali come fosse un leader di partito. A che titolo lo fa? Va anche detto che in base anche alle mail che ha raccolto Report in esclusiva dal database del consorzio OCCRP emerge anche che Arata, Federico Arata aveva dei suoi rapporti con gli Stati Uniti già a partire dal 2017, novembre del 2017. È lui che cerca, si presenta come spin doctor della Lega e dice di voler innalzare la Lega a una dimensione internazionale, prepara il viaggio negli Stati Uniti, che poi non si è effettuato, di Giorgetti e Salvini e scrive a Ted Malloch. Ted Malloch è il faccendiere che è stato coinvolto nel Russiagate, colui che ha avuto un ruolo anche nelle mail hackerate dai Russi che erano compomettenti, Hillary Clinton. Insomma, è questo il contesto. E poi Ted Malloch ha contribuito alla campagna elettorale di Trump, è stato in contatto con l’estrema destra americana e anche con quella religiosa, dai cui media partono gli attacchi a Bergoglio. Questa volta le critiche arrivano perché si è deciso di chiudere le chiese per evitare la diffusione del contagio.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Dall’inizio della quarantena le porte delle chiese sono serrate e le messe sospese. Ma a Roma c’è chi si è inventato un modo per continuare a pregare in pubblico senza violare l’isolamento.
SUORE SACRO CUORE DI GESÙ Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Amen. Oh Santissima…
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Tutti i giorni, alle dodici in punto, le suore Apostole del Sacro Cuore di Gesù, salgono sul tetto del loro convento e, per qualche minuto cantano inni di preghiera per il pubblico affacciato alle finestre. GIORGIO MOTTOLA Si può celebrare la Pasqua anche stando a casa?
SUORA - SACRO CUORE DI GESÙ Assolutamente sì, io penso che si può vivere anche in modo più intenso quest’anno.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO In modo completamente diverso la pensano invece i media del mondo ultracattolico americano che sulla chiusura delle chiese in Italia hanno lanciato una violenta campagna che ha come obiettivo Papa Bergoglio.
TAYLOR MARSHALL – TEOLOGO YOUTUBER E la nostra risposta è stare zitti: chiudiamo le porte delle chiese, sospendiamo i sacramenti cosi tutti i mezzi per la grazia divina sono… puffff…
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO La campagna sulla riapertura delle Chiese contro governo e Santa sede è partita dai media ultracattolici americani come Lifesitenews e Churchmilitant ed è dilagata su siti come Breitbart, l’organo di informazione dell’estrema destra americana fondato da Steve Bannon. Gli stessi slogan e le stesse parole d’ordine hanno poi attraversato l’oceano e sono sbarcati in Italia. I primi a rilanciarli sui loro social sono stati i neofascisti di Forza Nuova, capeggiati da Roberto Fiore.
GIORGIO MOTTOLA Salve.
ROBERTO FIORE – PRESIDENTE FORZA NUOVA Salve. Salutiamo tutti…
GIORGIO MOTTOLA Lei sta così “nature” senza mascherina, senza guanti.
ROBERTO FIORE – PRESIDENTE FORZA NUOVA Io ho fede.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Lo scorso anno Fiore si è reso protagonista di una serie di campagne contro il Papa e con l’arrivo del coronavirus il suo partito ha lanciato la teoria del complotto contro i cattolici, avallato da alcune gerarchie vaticane.
ROBERTO FIORE – PRESIDENTE FORZA NUOVA La chiesa ha dovuto cedere a dei poteri forti internazionali che le hanno imposto di chiudere, di non dire più messa, di non dare sacramenti, che è una cosa, ripeto, inedita nella Storia, cioè l’ha fatto il comunismo ma il comunismo è stato più onesto, nel senso: noi siamo atei materialisti non crediamo a ste cose, non le potete fare se no vi sbattiamo in carcere.
GIORGIO MOTTOLA Questi invece vi chiudono le chiese con la scusa dell’emergenza sanitaria?
ROBERTO FIORE – PRESIDENTE FORZA NUOVA Con la scusa dell’emergenza sanitaria, esattamente.
GIORGIO MOTTOLA Vogliono chiudere le Chiese per sempre, secondo lei, è questo l’obiettivo?
ROBERTO FIORE – PRESIDENTE FORZA NUOVA Oh Dio, oh Dio, attenzione, sicuramente questa è un qualche cosa che loro stessi, sto parlando dell’Oms che secondo me è il cuore dell’operazione, stanno vedendo… è in fieri.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Per sventare il complotto anticristiano dell’Organizzazione Mondiale della Sanità e degli altri poteri forti su CitizenGO, piattaforma di fondamentalisti cattolici, Forza Nuova ha lanciato una petizione che ha raccolto l’appoggio di Vittorio Sgarbi, Carlo Taormina, e dei principali esponenti italiani del fronte anti-bergogliano. Fiore e gli altri firmatari chiedono la riapertura immediata delle Chiese e il ripristino delle messe.
GIORGIO MOTTOLA E questa vaga contro-argomentazione per cui invece riaprendo le chiese si rischia di aumentare il contagio come la consideriamo? ROBERTO FIORE – PRESIDENTE FORZA NUOVA Una follia. Il collegamento fra ciò che è fisico e ciò che è spirituale ci dice ma questa è la prima cosa che più una persona è forte spiritualmente e più reagisce alle malattie. Quindi già da quel punto di vista uno dovrebbe dire: non dite scemenze.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO E visto che la fede rende immuni al Coronavirus pochi giorni prima di Pasqua, sui profili social del movimento di Fiore iniziano a comparire post minacciosi come questi.
GIORGIO MOTTOLA Avete annunciato che a Pasqua violerete la quarantena.
ROBERTO FIORE – PRESIDENTE FORZA NUOVA Domenica in modo pacifico, cattolico, noi celebreremo la Pasqua. Il nostro sacrificio perché alla fine sarà un sacrificio di carattere economico, qualsiasi carattere sia, però è una cosa che noi facciamo per tutti.
GIORGIO MOTTOLA Da fascista diventa ghandiano, in qualche modo.
ROBERTO FIORE - FORZA NUOVA No, non è ghandiano. Se il popolo lì non reagisce come ha detto a badilate e allora loro possono dire: domani noi facciamo tutto. Invece noi dobbiamo fare vedere che il popolo reagisce.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO E il giorno di Pasqua ci sono anche le telecamere di Report a documentare l’annunciata processione di Forza Nuova davanti alla Basilica di Santa Maria Maggiore. Ma del sacrificio di Fiore non vi è traccia. Tra i militanti venuti a violare la quarantena manca proprio il leader. AGENTE DIGOS Ragazzi, a casa. Se ce ne avete una!
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Alla fine, i militanti devoti e neofascisti sono solo uno sparuto gruppo e arrivano alla spicciolata.
GIULIANO CASTELLINO - DIRIGENTE FORZA NUOVA Volevamo avere la libertà di ricordare la santissima Pasqua, solamente perché abbiamo detto che questa era la prima libertà che noi vogliamo riprenderci. Io invito tutti i romani e tutti gli italiani a fare attenzione, stiamo vivendo sotto dittatura.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Fatto il comizio in favore di telecamere la Digos se li porta via.
GIULIANO CASTELLINO - DIRIGENTE FORZA NUOVA Viva la libertà, viva l’Italia!
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Tra i leader che siedono in parlamento ce n’è solo uno che ha offerto sponda alla campagna di Forza Nuova, rilanciando la petizione sulle Chiese sulle tv nazionali.
MATTEO SALVINI - INTERVISTA SKY Io sostengo le richieste di coloro che dicono in maniera ordinata, composta, sanitariamente sicura, fateci entrare in Chiesa, per Pasqua fateci assistere anche in tre, in quattro, in cinque, alla messa di Pasqua. Mi dicono: si può andare da tabaccaio, perché senza sigarette non si sta. Eh, per molti anche la cura dell’anima oltre che la cura del corpo è fondamentale.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO L’intervento di Salvini non è arrivato a sorpresa: negli ultimi anni la destra italiana ha iniziato ad usare costantemente la religione come strumento di battaglia politica. Nemmeno ai tempi della vecchia Democrazia Cristiana è accaduto che leader nazionali in campagna elettorale brandissero simboli religiosi come armi di lotta politica.
MATTEO SALVINI E io personalmente affido l’Italia, la mia e la vostra vita al cuore immacolato di Maria che son sicuro ci porterà alla vittoria.
GIORGIA MELONI – PRESIDENTE FRATELLI D’ITALIA Io sono Giorgia, sono una donna, sono una madre, sono italiana, sono cristiana, non me lo toglierete.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO E soprattutto mai avremmo immaginato che leader politici potessero arrivare a recitare preghiere in diretta televisiva.
BARBARA D’URSO - LIVE NON È LA D’URSO Tutte le sere io faccio il rosario, non me ne vergogno, anzi sono orgogliosa di dirlo. Quindi l’eterno riposo dona loro signore...
MATTEO SALVINI - LIVE NON è LA D’URSO Siamo in due Barbara.
BARBARA D’URSO - LIVE NON E’ LA D’URSO Splenda per essi la luce perpetua, riposino in pace amen.
MATTEO SALVINI - LIVE NON E’ LA D’URSO Splenda ad essi la luce perpetua, riposino in pace.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Tuttavia, a tanta devozione cattolica finora sono corrisposte altrettante critiche aspre nei confronti del capo della Chiesa.
MATTEO SALVINI Però il Papa è Benedetto, il suo Papa è Benedetto, il mio Papa è Benedetto. Papa Benedetto sull’Islam e sulla convivenza fra i popoli aveva delle idee molto chiare. Quelli che invitato gli Imam in chiesa non mi piacciono.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ma esattamente quando e come è accaduto che la destra sovranista italiana ha iniziato ad avere una improvvisa vocazione religiosa e a nutrire al contempo un così forse sentimento anti-bergogliano.
PAPA FRANCESCO – TV2000 Ma la xenofobia è una malattia. E le xenofobie tante volte cavalcano sui cosiddetti populismi politici, no? Delle volte sento in alcuni posti, discorsi che somigliano a quelli di Hitler nel ’34. Si vede che c’è un ritornello.
DONALD TRUMP – PRESIDENTE DEGLI STATI UNITI D’AMERICA Il Papa? Il Papa era in Messico lo sapevate? Ha detto cose negative su di me. Se e quando il Vaticano sarà attaccato dall’ISIS e tutti sanno che per ISIS il trofeo più ambito vi garantisco che il Papa si augurerà e pregherà soltanto che Donald Trump sia presidente.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO L’elezione di Trump è stata uno spartiacque: Report ha consultato i bilanci delle più importanti fondazioni della destra religiosa statunitense. E il risultato è davvero impressionante. Da quando Bergoglio è diventato Papa dalle organizzazioni ultra cristiane degli Stati Uniti sono arrivati in Europa oltre un miliardo di dollari.
PETER MONTGOMERY - SENIOR FELLOW RIGHT WING WATCH Si tratta di associazioni cristiane integraliste ricchissime, che vogliono vietare l’aborto e cancellare le leggi in favore degli omosessuali in America e nel mondo. Sicuramente tra i loro obiettivi c’è la destabilizzazione dell’Unione Europea.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Alcune delle fondazioni che hanno inviato denaro in Europa fanno parte del World Congress of Families, l’organizzazione ultra-cristiana che ha avuto nuova vita nel 2013 grazie Konstantin Malofeev, l’oligarca russo estremamente vicino a Putin che Matteo Salvini ha provato ad avere come ospite d’onore al congresso in cui è stato eletto segretario per la prima volta.
DA REPORT DEL 21 OTTOBRE 2019 GIORGIO MOTTOLA Quando ha incontrato Salvini la prima volta?
KONSTANTIN MALOFEEV - FONDATORE MARSHALL CAPITAL Molti anni fa. Sarei dovuto andare al congresso quando fu eletto.
GIORGIO MOTTOLA Era stato invitato?
KONSTANTIN MALOFEEV - FONDATORE MARSHALL CAPITAL Sì, ma non andai perché avevo altri impegni e non riuscii a venire in Italia.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Lo stesso anno in cui Salvini viene eletto segretario, Malofeev vola negli Stati Uniti e come abbiamo ricostruito grazie alle mail che abbiamo ritrovato nel database del consorzio Occrp, in quel viaggio l’oligarca russo ha incontrato deputati repubblicani come Chris Smith, rappresentanti del Family Research Council, una delle più importanti associazioni antiabortiste americane, Nation For Marriage di Brian Brown, presidente del World Congress of Families e rappresentanti dell’Heritage Foundation e del Leadership Institute, due delle più importanti fondazioni repubblicane.
GIORGIO MOTTOLA Qual era l’argomento di questi incontri?
KONSTANTIN MALOFEEV - FONDATORE MARSHALL CAPITAL Abbiamo discusso di come difendere le famiglie dal totalitarismo dell’agenda sodomita che si sta diffondendo in tutto il mondo.
GIORGIO MOTTOLA Quindi è in quel momento che è nata la Santa Alleanza?
KONSTANTIN MALOFEEV - FONDATORE MARSHALL CAPITAL Sì, l’idea è nata lì.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Di questa Santa Alleanza fanno parte anche le fondazioni della destra religiosa americana che hanno mandato più dollari in Europa. Si tratta di associazioni finanziate dai multimiliardari che hanno sostenuto a suon di milioni la campagna elettorale di Donald Trump. La famiglia Koch, industriali ultraconservatori che hanno sborsato per le ultime presidenziali americane quasi un miliardo di euro e la famiglia Mercer, fondatore di Cambridge Analytica ed editore di Breitbart, la rivista di estrema destra già diretta da Steve Bannon.
PETER MONTGOMERY - SENIOR FELLOW RIGHT WING WATCH Le associazioni della destra religiosa americana e i miliardari conservatori hanno stipulato anni fa un’alleanza per ottenere il controllo del Partito Repubblicano. E oggi con la presidenza di Trump hanno ottenuto il loro scopo.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Le fondazioni sostenute dai Koch e dai Mercer in Europa non hanno finanziato solo associazioni religiose. Consultando i bilanci di tutti i partiti del parlamento europeo i loro soldi, 43 mila euro tra il 2016 e il 2017, sono arrivati anche ad un gruppo parlamentare: l’alleanza dei riformisti e conservatori di cui Fratelli d’Italia fa parte dal 2019. Secondo quanto ha scoperto Report, l’alleanza dei Riformisti e Conservatori è l’unico partito a Bruxelles finanziato da Heritage Foundation e da Atlas Network, le potenti e danarose fondazioni legate ai miliardari trumpiani. Ma quello tra il mondo trumpiano e il gruppo europeo della Meloni è un rapporto che sembra essersi molto intensificato negli ultimi anni. Questo è l’intervento fatto dall’ex capo stratega di Trump, Steve Bannon nel 2018 alla festa nazionale di Fratelli d’Italia.
STEVE BANNON – EX CAPO STRATEGA CASA BIANCA Io vi posso aiutare focalizzandoci sulle prossime europee per vincerle. Vi possiamo fornire e far realizzare sondaggi e analisi di big data. Preparare cabine di regia. Tutto quello di cui si ha bisogno per vincere le elezioni. Vi aiutiamo in modo gratuito.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Questa invece è la più importante conferenza della destra americana. L’attrazione principale è l’intervento del presidente degli Stati Uniti Donald Trump. L’anno scorso a scaldare il pubblico c’era anche un politico italiano.
GIORGIA MELONI – PRESIDENTE FRATELLI D’ITALIA Signore e signori, grazie per avermi invitato. GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Insieme all’artefice della Brexit, Nigel Farage, Giorgia Meloni è stato l’unico politico europeo invitato a parlare alla conferenza.
GIORGIA MELONI – PRESIDENTE FRATELLI D’ITALIA La crisi dell’Unione Europea è una crisi di democrazia e di sovranità popolare. Questa entità sovrannaturale e antidemocratica ha imposto sulle nazioni europee le scelte di élite globaliste e nichilistiche guidate dalla finanza internazionale.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO E chi sa se il riferimento era anche alle stesse élites finanziarie che pagano la conferenza. Come l’NRA, la lobby delle armi, che compare come sponsor principale sul palco accanto a compagnie assicurative ultra-cristiane e criptovalute giapponesi. In Europa da qualche tempo le fondazioni della destra americana hanno iniziato a esercitare un ruolo politico sempre più attivo. A inizio febbraio, in uno degli hotel più lussuosi di Roma, le americane Edmund Burke Foundation e l’International RaeganThatcher society hanno organizzato un mega evento politico internazionale tenuto a battesimo da Giorgia Meloni.
GIORGIA MELONI – PRESIDENTE FRATELLI D’ITALIA Questo evento è un evento che sono molto orgogliosa di aprire, come sapete è un evento dedicato al mondo conservatore internazionale, sapete che Fratelli d’Italia in questi anni ha lavorato molto a livello internazionale nella tessitura di una serie di rapporti.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Alla conferenza sponsorizzata dalle fondazioni americane partecipano pezzi grossi della scena conservatrice europea. Come Marion Maréchal-Le Pen, astro nascente dell’ultra destra francese e soprattutto, il premier ungherese Viktor Orban. Che in patria, di recente, per l’emergenza coronavirus, ha assunto pieni poteri. Il titolo della manifestazione è di ispirazione religiosa. “Dio, onore e patria”. E ovviamente il Papato di Bergoglio è uno dei principali argomenti.
GIORGIO MOTTOLA Onorevole, potremo semplificarla con…
ADDETTO STAMPA Facciamo un attimo parlare anche gli altri giornalisti.
GIORGIA MELONI – PRESIDENTE FRATELLI D’ITALIA No, ma lui mi vuole bene. Dimmi, dimmi. Ci tengo. Come vuole semplificare lei?
GIORGIO MOTTOLA Qui ci saranno anche altre figure molto critiche nei confronti di Bergoglio. Qual è la sua posizione? Lei non ha mai espresso pubblicamente una posizione su Bergoglio.
GIORGIA MELONI – PRESIDENTE FRATELLI D’ITALIA Non ho da esprimere una posizione su Bergoglio perché io faccio politica, non faccio il cardinale. Penso che il Papa debba portare avanti le sue… il suo lavoro, ecco. E la politica debba fare un altro lavoro.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ma alla tavola rotonda iniziale il tema è proprio il Vaticano. E le posizioni su Bergoglio vengono esposte in modo estremamente esplicito.
ROBERTO DE MATTEI – PRESIDENTE FONDAZIONE LEPANTO Se noi compariamo i due leader della nostra epoca, Papa Francesco e il presidente Donald Trump, scopriamo che abbiamo a che fare con un’inversione di ruoli: Papa Francesco ha rinunciato a essere un leader spirituale, subordinando i valori morali, come la vita e la famiglia, a istanze politiche e sociali. E perciò Papa Francesco è diventato il leader della sinistra internazionale. Dall’altro lato, Donald Trump, si sta avviando alla sua rielezione attribuendo una maggiore valenza morale al suo mandato politico.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Papa Francesco è identificato come leader della sinistra internazionale. Forse senza girarci troppo intorno i motivi, il segreto degli attacchi a Papa Bergoglio sono racchiuse in queste parole che il nostro Giorgio Mottola ha registrato nell’intervento di un relatore al convengo dove era ospite Giorgia Meloni. Nel vuoto lasciato da alcuni partiti che incarnavano dei valori come quello dell’accoglienza, dell’abbattimento delle disuguaglianze, del socialismo, della difesa dell’ambiente violentato, anche un Papa che abbraccia l’ideale francescano può diventare il bersaglio dell’estrema destra. E poi abbiamo visto anche che c’è chi lo finanzia questo tiro al bersaglio. L’abbiamo sentito dalle parole dell’oligarca ultranazionalista vicino a Putin, Malofeev, l’ha detto che è in contatto dal 2013 con la Lega di Salvini e lui stesso ha ammesso, ho fatto dei viaggi negli Stati Uniti, ho incontrato deputati, ambienti dell’ultra destra americana, quello delle fondazioni più conservatrici, ecco. Con lo scopo di difendere la famiglia dall’attacco sodomita. E in questo viaggio ha incontrato anche fondazioni fra qui, Heritage e Atlas Network. Come ha scoperto Report hanno finanziato direttamente o indirettamente dal 2016 al 2017 per circa 50 mila euro l’alleanza dei conservatori riformisti europei. È il gruppo europeo al quale ha aderito anche Giorgia Meloni nel 2019. È un po’ il cavallo di Troia di Trump all’interno dell’Europa. È poca roba, ma non bisogna dimenticare che Report ha anche scoperto pochi mesi fa che da quando Papa Bergoglio è diventato Papa dalle fondazioni d’ambienti conservatori americani sono arrivati in Europa una pioggia di dollari, circa un miliardo di dollari hanno finanziato dei movimenti della destra, dell’estrema destra anche ultra religiosi per, da una parte, far implodere l’Europa, dall’altra per mettere in crisi il Papato di Bergoglio. Proprio dopo per aver aderito a questo movimento europeo Giorgia Meloni, dopo anche aver instaurato rapporti con Bannon, è stata invitata alle più importanti convention repubblicane. Ecco a febbraio scorso ha partecipato al prestigioso National Prayer Breakfast, l’evento annuale di politica e preghiera che viene organizzato a Washington, dalla potente controversa fondazione Fellowship e c’era anche il presidente Trump. L’onorevole Giorgia Meloni era tra i pochi politici europei presenti. Ma se l’humus è questo, è facile che germogli anti-bergogliani possano sorgere, spuntare qua e là. Ma c’è un filo che li unisce a partire da quello che c’è all’interno di un prestigioso istituto di ricerca dove c’è chi evoca il fumo di Satana fino ad arrivare alla sede di una televisione online Gloria TV che dietro al celestiale nome che evoca la preghiera di lode, però nasconde tre teste, una delle più attive degli attacchi di Bergoglio. Ha una testa in Svizzera, l’altra in Moldavia, la terza in un paradiso che però non è terrestre.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Il fronte degli americani anti-bergogliani ha il suo quartier generale qui a Roma, dietro l’antica basilica di Santa Balbina. Varcata la soglia del cortile interno c’è la sede della Fondazione Lepanto, presieduta dal professor Roberto De Mattei, esponente dell’aristocrazia romana, nominato da Berlusconi nel 2008 vicepresidente del CNR, nonostante l’opposizione del mondo accademico.
GIORGIO MOTTOLA Mi pare di capire è su posizioni anti-evoluzioniste?
ROBERTO DE MATTEI – PRESIDENTE FONDAZIONE LEPANTO Assolutamente. L'evoluzionismo è un mito, è una leggenda.
GIORGIO MOTTOLA Ma in che senso è una leggenda?
ROBERTO DE MATTEI - PRESIDENTE FONDAZIONE LEPANTO È una pura frottola. Tutti gli uomini che esistono discendono da Adamo ed Eva.
GIORGIO MOTTOLA Lei ha anche una teoria interessante sulla caduta dell'impero romano. Che sarebbe la punizione per la diffusione dell'omosessualità nell'impero, è vero?
PRESIDENTE FONDAZIONE LEPANTO L'omosessualità è sicuramente un peccato grave, condannato da Dio. E che può determinare la fine di una civiltà.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Dallo scorso anno la fondazione Lepanto ha iniziato ad organizzare preghiere di protesta in piazza contro la gestione della chiesa da parte di Bergoglio. Si auto definiscono Acies ordinata esercito regolare. La più affollata si è tenuta lo scorso settembre a Roma nel piazzale di Castel Sant’Angelo. Erano presenti i rappresentanti delle più potenti associazioni americane e i direttori di Lifesitenws e di Church Militant, i siti che hanno indicato nella punizione divina inflitta al Papa la causa del coronavirus.
ROBERTO DE MATTEI -PRESIDENTE FONDAZIONE LEPANTO Papa Francesco sta indubbiamente contribuendo a determinare la confusione all'interno della Chiesa.
GIORGIO MOTTOLA Lei ha scritto: il fumo di Satana sta avvolgendo il campo di battaglia.
ROBERTO DE MATTEI -PRESIDENTE FONDAZIONE LEPANTO Normalmente nelle situazioni di confusione che la Chiesa ha conosciuto nella sua storia i Papi sono sempre stati la soluzione dei problemi. Oggi noi ci troviamo per la prima volta nella storia in una situazione in cui il Papa invece di essere la soluzione del problema è la causa del problema. Perché è egli stesso, Papa Francesco, purtroppo tragicamente un fattore di autodemolizione della Chiesa e quindi di diffusione del fumo di satana all'interno della Chiesa.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO La propaganda anti-bergogliana corre e cresce innanzitutto sul web. Ci sono quotidiani on line monotematici con decine di giornalisti e budget illimitati, pagine Facebook contro il Papa e piattaforme on line come Gloria Tv che ogni giorno produce un telegiornale che spesso dà fake news su Bergoglio. TG GLORIA TV Il problema di Papa Francesco sono le sue parole ambigue ed equivoche, la sua reticenza, astuta e sleale, la sua opportunistica negligenza. E il fatto che dia l’impressione di approvare comportamenti omosessuali. In questo modo Papa Francesco sta compromettendo seriamente il suo compito pastorale.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Gloria TV è uno dei siti più violenti e virali della galassia online anti-bergogliana. Funziona come un social network e tutti i giorni pubblica vignette contro Bergoglio come questa, in cui viene rappresentato come un pagliaccio, o questa, in cui il Papa si fa un selfie con il diavolo. O ancora questa, in cui Bergoglio abbandona la cristianità per correre tra le braccia di Satana.
ALEX ORLOWSKI – ESPERTO PROPAGANDA ONLINE Ma c’è una cosa in comune qua. È questa paperella gialla, che ai più non dice nulla ma agli esperti di comunicazione online, la paperella gialla è il simbolo delle proteste contro Putin e la corruzione di Mosca. Per cui praticamente simboleggia il fatto che Bergoglio è contro Putin. È un nemico del popolo russo, è un nemico di Putin e fa capire esattamente da che parte sta Gloria TV.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO La redazione di Gloria TV ha sede in un piccolo paese del cantone tedesco della Svizzera, al piano terra di questa casa. Fuori c’è l’insegna, ma dentro la stanza sembra vuota.
GIORGIO MOTTOLA C’è qualcuno di Gloria Tv?
DONNA No, non c’è nessuno. Proviamo a suonare il campanello.
GIORGIO MOTTOLA E da quando non si vede nessuno? DONNA Non c’è nessuno da un anno.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO I responsabili di Gloria Tv non sono irreperibili solo per noi. In Italia hanno ricevuto diverse denunce ma i loro server sono registrati in Moldavia.
ALEX ORLOWSKI – ESPERTO PROPAGANDA ONLINE E la cosa interessante è che adesso siamo qua nella pagina italiana, se andiamo nelle lingue…
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ci sono tutte le lingue del mondo.
ALEX ORLOWSKI – ESPERTO PROPAGANDA ONLINE Tutte le lingue del mondo. E ovviamente chiunque sia pratico del web e sappia quanto costa gestire queste migliaia di contenuti in queste lingue, più il sistema come un social network, sa che sono cifre di centinaia di migliaia di euro.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ma capire chi ce li mette tutti questi soldi è un’impresa impossibile. L’unica cosa che sappiamo, infatti, è che il dominio appartiene a Church Social Media, una società completamente anonima che ha sede nel Delaware, il paradiso fiscale americano. E pensare che ufficialmente a fondare e gestire il sito è questo semplice prete di provincia, Reto Nay, sostenitore della messa in latino, sospeso dalla Chiesa Cattolica per le sua posizioni estremiste.
RETO NAY- FONDATORE GLORIA TV Il punto importante non è fare il bene, fare il bene è un punto assolutamente secondario! Dunque smettete questi discorsi socialisti, comunisti, di gente povera, del povero. Il primo povero della tua vita sei tu.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Mentre siamo davanti la sede di Gloria TV vediamo un uomo che prende la posta dalla cassetta della redazione. Ci sembra incredibilmente somigliante a una delle foto più recenti in cui compare Reto Nay. GIORGIO MOTTOLA È lei don Reto Nay?
GEMELLO RETO NAY No no.
GIORGIO MOTTOLA No, è lei, è proprio lei.
GEMELLO RETO NAY No, non sono io.
GIORGIO MOTTOLA Però mi scusi, sembra lei.
GEMELLO RETO NAY Sembra, sembra. Siamo fratelli.
GIORGIO MOTTOLA Siete identici.
GEMELLO RETO NAY Siamo, siamo, come si dice, zwilling.
GIORGIO MOTTOLA Perché volevo chiedere chi finanzia Gloria Tv.
GEMELLO RETO NAY Ah, no no no! Non c’entro. Non mi interessa, andate via.
GIORGIO MOTTOLA Come mai la società ha sede nel Delaware.
GEMELLO RETO NAY Non mi interessa. Arrivederci. GIORGIO MOTTOLA Anche i server sono registrati in Moldavia, come mai?
GEMELLO RETO NAY Andate via! Vaffanculo! Non mi interessa. GIORGIO MOTTOLA Ma come vaffanculo, non mi dica così.
GEMELLO RETO NAY Arrivederci! Ciao!
GIORGIO MOTTOLA Però non mi spinga così!
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Dal web alla politica il passo è breve Dal 2016 il fronte anti-bergogliano in Europa ha anche un partito ufficiale di riferimento. Si chiama Coalition pour la vie et la famille e lo ha fondato il belga Alain Escada, estremista di destra noto per le sue posizioni antisemite.
ALAIN ESCADA – PRESIDENTE COALITION POUR LA VIE ET LA FAMILLE L’obiettivo del Papa è rovesciare la chiesa. Insieme a noi ne sono consapevoli cardinali, vescovi, capi di stato cattolici, capi di partito, presidenti di associazioni e movimenti cattolici del mondo. Tutti hanno capito che il Papa è un sovversivo. E quindi bisogna agire per fare in modo che abbandoni il trono pontificio. Dobbiamo al più presto sbarazzarci di Bergoglio.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Destituire il Papa non è un obiettivo da poco. Per questo la Coalition, che in Europa è presente in otto paesi, ha chiesto soldi al Parlamento Europeo, e nel 2017 Bruxelles ha stanziato per il partito di Escada e per la fondazione collegata quasi 500 mila euro. Fondi però, sostiene Escada, che non sarebbero mai veramente arrivati. Nonostante ciò, la macchina di propaganda contro Bergoglio non si è mai fermata.
ALAIN ESCADA – PRESIDENTE COALITION POUR LA VIE ET LA FAMILLE Non è escluso che questo Papa sia manovrato da forze occulte.
GIORGIO MOTTOLA Che intende per forze occulte?
ALAIN ESCADA – PRESIDENTE COALITION POUR LA VIE ET LA FAMILLE Alle Organizzazioni giudaico-massoniche che agiscono nell’ombra per opporsi all’influenza della chiesa cattolica.
GIORGIO MOTTOLA Quindi Papa Francesco è l’espressione di un piano giudaico-massonico in Europa?
ALAIN ESCADA – PRESIDENTE COALITION POUR LA VIE ET LA FAMILLE Oggi Papa Francesco partecipa e collabora al piano del nuovo ordine mondiale.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Cofondatore e segretario della Colation pour la vie et la Famille, è un italiano, Stefano Pistilli.
STEFANO PISTILLI – AMMINISTRATORE DELEGATO ARKUS NETWORK Salve a tutti, sono Stefano Pistilli, amministratore delegato di Arkus Network, amministratore unico di Amanda Tours.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Con le sue società di cui è amministratore lo scorso anno Pistilli ha partecipato all’acquisto del Palermo calcio, senza però riuscire a salvarlo dal fallimento. Ma che c’entra un manager di azienda e aspirante dirigente calcistico come Pistilli con il più anti-bergogliano dei partiti europei, che usa argomenti così neo-nazisti?
GIORGIO MOTTOLA Come ha conosciuto Stefano Pistilli?
ALAIN ESCADA – PRESIDENTE COALITION POUR LA VIE ET LA FAMILLE Una persona che forse conoscete, Roberto Fiore.
GIORGIO MOTTOLA Lo consociamo molto bene.
ALAIN ESCADA – PRESIDENTE COALITION POUR LA VIE ET LA FAMILLE Mi ha presentato molte persone.
GIORGIO MOTTOLA E nella coalizione lui rappresenta Roberto Fiore?
ALAIN ESCADA – PRESIDENTE COALITION POUR LA VIE ET LA FAMILLE Sì, certo. Ma io sono legato anche a molta gente nella Lega.
GIORGIO MOTTOLA Lei con chi ha rapporti nella Lega?
ALAIN ESCADA – PRESIDENTE COALITION POUR LA VIE ET LA FAMILLE Molti europarlamentari della Lega che mi hanno messo in contatto con l’ex ministro per la famiglia Lorenzo Fontana.
GIORGIO MOTTOLA Ha rapporti anche con Fratelli d’Italia? Giorgia Meloni?
ALAIN ESCADA – PRESIDENTE COALITION POUR LA VIE ET LA FAMILLE Certo! Ammiro profondamente la signora Meloni, una vera paladina della famiglia tradizionale.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO E siamo sempre là insomma. Chi è che attacca Bergoglio in nome dell’integralismo cattolico? Ecco c’è l’estremista di destra, il francese Alain Escada che ha in qualche modo fondato il partito, il movimento, la coalizione per la vita e la famiglia. Ha un cofondatore un italiano Stefano Pistilli, che è quello che ha rilevato il Palermo calcio, poi è fallito. E anche l’amministratore delegato di Arkus, un network che fa riferimento all’imprenditore Salvatore Tuttolomondo, un imprenditore coinvolto in vari fallimenti, tra cui quello della Fiscom, la finanziaria legata alle attività di Enrico Nicoletti, considerato il banchiere della banda della Magliana. Poi Pistilli lo troviamo anche in un trust con la figlia di Roberto Fiore. Un trust londinese. Insomma il giro è quello. E poi c’è Gloriai Tv, una tv online che strizza l’occhio alla Russia di Putin, sforna fake news, attacca continuamente Bergoglio, però ha la proprietà in Delaware. Ecco tra le virtù che predica, manca sicuramente la trasparenza. L’unico a metterci la faccia è il fratello dell’anchorman, fratello gemello che però quando gli chiedi spiegazioni, ha il vaffa facile. Almeno in questi casi, pare che l’integralismo cattolico nasconde invece quello politico. Fa eccezione invece chi osserva con rigore la dottrina cattolica il cardinale Raymond Burke però anche lui, quando gli vai a chiedere spiegazioni sulle intercettazioni imbarazzanti dove Paolo Arata gli chiede raccomandazioni per Siri e il figlio, glissa o preferisce negare. È ovvio che se vai a vedere dal buco della serratura la vita di ciascuno di noi, anche quella dei santi, qualche macchia la trovi. Noi preferiamo non entrare nelle critiche di natura teologica, perché è materia delicata e non è nostra competenza. Tuttavia registriamo che le critiche a Bergoglio nascono soprattutto da ambienti ultranazionalisti vicini a Putin e quelli dell’estrema e della destra ultra-cristiana vicini a Trump. E qua vengono rilanciati da ambienti neofascisti e nazi-fascisti. Insomma, più che un obiettivo al centro di una diatriba teologica Bergoglio sembra essere l’obiettivo di una guerra fredda. Proprio oggi che la Chiesa deve essere unita e deve sembrare unita. Perché ci sarà da raccogliere i cocci di un’umanità quando si uscirà dal virus. Non bisogna dimenticare, come dice lo stesso Francesco, che il vero potere è il servizio, prendersi cura delle persone più anziane, delle persone più fragili, quelle che abitano alla periferia del nostro cuore. E ora invece vediamo come le ha raccolte queste persone, la vita di queste persone, un fotografo, Tony Gentile, che ha osservato la vita degli altri dalla finestra, mentre consumava la sua quarantena. È stato il fotografo dei due Papi, soprattutto quello che ha immortalato Falcone e Borsellino, in quello scatto che è diventato simbolo della resilienza alla mafia.