Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.
Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.
I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.
Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."
L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.
L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.
Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.
Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).
Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.
Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro.
Dr Antonio Giangrande
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ANNO 2020
GLI STATISTI
PRIMA PARTE
DI ANTONIO GIANGRANDE
L’ITALIA ALLO SPECCHIO
IL DNA DEGLI ITALIANI
L’APOTEOSI
DI UN POPOLO DIFETTATO
Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2019, consequenziale a quello del 2018. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.
Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.
IL GOVERNO
UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.
UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.
PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.
LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.
LA SOLITA ITALIOPOLI.
SOLITA LADRONIA.
SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.
SOLITA APPALTOPOLI.
SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.
ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.
SOLITO SPRECOPOLI.
SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.
L’AMMINISTRAZIONE
SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.
SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.
IL COGLIONAVIRUS.
L’ACCOGLIENZA
SOLITA ITALIA RAZZISTA.
SOLITI PROFUGHI E FOIBE.
SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.
GLI STATISTI
IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.
IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.
SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.
SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.
IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.
I PARTITI
SOLITI 5 STELLE… CADENTI.
SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.
SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.
IL SOLITO AMICO TERRORISTA.
1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.
LA GIUSTIZIA
SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.
LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.
LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.
SOLITO DELITTO DI PERUGIA.
SOLITA ABUSOPOLI.
SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.
SOLITA GIUSTIZIOPOLI.
SOLITA MANETTOPOLI.
SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.
I SOLITI MISTERI ITALIANI.
BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.
LA MAFIOSITA’
SOLITA MAFIOPOLI.
SOLITE MAFIE IN ITALIA.
SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.
SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.
SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.
LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.
SOLITA CASTOPOLI.
LA SOLITA MASSONERIOPOLI.
CONTRO TUTTE LE MAFIE.
LA CULTURA ED I MEDIA
LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.
SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.
SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.
SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.
SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.
LO SPETTACOLO E LO SPORT
SOLITO SPETTACOLOPOLI.
SOLITO SANREMO.
SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.
LA SOCIETA’
GLI ANNIVERSARI DEL 2019.
I MORTI FAMOSI.
ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.
MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?
L’AMBIENTE
LA SOLITA AGROFRODOPOLI.
SOLITO ANIMALOPOLI.
IL SOLITO TERREMOTO E…
IL SOLITO AMBIENTOPOLI.
IL TERRITORIO
SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.
SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.
SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.
SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.
SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.
SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.
SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.
SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.
SOLITA SIENA.
SOLITA SARDEGNA.
SOLITE MARCHE.
SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.
SOLITA ROMA ED IL LAZIO.
SOLITO ABRUZZO.
SOLITO MOLISE.
SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.
SOLITA BARI.
SOLITA FOGGIA.
SOLITA TARANTO.
SOLITA BRINDISI.
SOLITA LECCE.
SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.
SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.
SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.
LE RELIGIONI
SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.
FEMMINE E LGBTI
SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.
GLI STATISTI
INDICE PRIMA PARTE
IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO. (Ho scritto un saggio dedicato)
Essere Aldo Moro.
I Nemici di Aldo Moro.
IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE. (Ho scritto un saggio dedicato)
Essere Giulio Andreotti: il Divo Re.
SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE. (Ho scritto un saggio dedicato)
Socialismo e scissioni.
La Biografia di Craxi.
La Ricorrenza della morte.
Craxi grande Statista. Dalle Stelle alle Stalle.
Craxi ed i Comunisti.
Craxi e l’impunità dei comunisti.
Craxi e l’ombra delle influenze esterne.
Craxi ed i Socialisti.
Craxi ed i Fascisti.
Craxi e Berlusconi.
Craxi e le Donne.
Craxi e la Famiglia.
Craxi ed i giornalisti amici.
Craxi ed i giornalisti nemici.
Craxi ed il finanziamento della Politica.
Craxi e Mani Pulite - Tangentopoli.
Prima della Morte.
Essere Bettino Craxi.
La pellicola su Bettino Craxi.
Ridateci i Leaders, anche se lupi famelici.
Non era Mafia, ma Tangentopoli Siciliana.
Quelli che…al tempo di Tangentopoli.
INDICE SECONDA PARTE
SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA. (Ho scritto un saggio dedicato)
L’Imperituro.
Berlusconi e la Famiglia.
Berlusconi e le Donne.
Berlusconi e la Giustizia.
Berlusconi e la Mafia.
Berlusconi e l’Arte.
Chi lo ha accompagnato.
Quelli che l’hanno abbandonato.
Quelli con Problemi Giudiziari.
IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Ai Tempi del Nazismo.
Quando arrestarono Garibaldi.
Dopo il Nazismo.
Prima del Fascismo.
Socialismo e scissioni.
L’Alba Rossa del Fascismo.
Le Corporazioni. Ossia: Il Sindacato del fascismo rosso.
I nemici del Duce.
I Peccati del Duce.
Mussolini ha fatto cose buone.
L’8 settembre: corsi e ricorsi storici.
Le Partigiane liberali che lottarono per un'Italia non rossa.
Il Vate: non era Fascista.
I Figli del Duce.
Dio, Patria, Famiglia Spa.
GLI STATISTI
PRIMA PARTE
IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO. (Ho scritto un saggio dedicato)
· Essere Aldo Moro.
Nicola Rana, il fedele custode dei segreti di Aldo Moro: nelle sue mani l'ultima lettera. Le parole finali: «Sapevo che non sarebbe finita bene». Giuseppe Mazzarino il 06 Settembre 2020 su La Gazzetta del Mezzogiorno. Nicola Rana, scomparso venerdì all’età di 86 anni in Taranto, dove si era ritirato in giugno, ammalato, è stato a lungo il depositario dei segreti politici e delle confidenze private di Aldo Moro, del quale fu per 25 anni - fino alla strage di via Fani, ai 55 giorni ed all’assassinio del presidente della Dc da parte delle Brigate rosse - il capo della segreteria particolare. Accanto a Moro, del quale era anche assistente nella cattedra di Diritto e procedura penale nella Facoltà di Scienze politiche della Sapienza di Roma, negli anni del governo (presidenza del Consiglio dei ministri, ministero di Grazia e Giustizia, della Pubblica istruzione, degli Esteri) e del partito (segretario nazionale della Democrazia cristiana, poi suo presidente), Rana fu tra i pochissimi «amici di Moro» a non tradire lo statista nei giorni convulsi della prigionia di Moro nel «carcere del popolo» dei terroristi. Fu a lui ricevere, nello studio di Moro in via Savoia, la telefonata dei brigatisti che indicavano dove trovare le prime lettere dalla prigionia del leader Dc; o perlomeno le prime che le Br fecero recapitare: una indirizzata alla moglie Eleonora, una al ministro dell’Interno Cossiga, la terza proprio a Rana. E fu lui a ricevere l’ultima delle missive di Moro, prima della spietata esecuzione. Rana si adoperò in ogni modo per istituire un canale di comunicazione fra le Br e Moro loro prigioniero da un lato, governo e partito dall’altro; ma anche a cercare di costruire un ancor più complesso contatto biunivoco fra Moro e la sua famiglia. Purtroppo non vi riuscì.
Anche su quanto accaduto durante i 55 giorni Nicola Rana ha mantenuto uno stretto riserbo, mai divagando rispetto a quanto richiestogli nelle commissioni d’inchiesta. E soprattutto non ha mai fatto parola, se non per confermare pochi tratti caratteriali del «presidente», peraltro a tutti noti, del Moro privato. L’avrebbe considerato scorretto in assoluto, volgare da parte di chi di Moro era stato davvero amico e confidente. Avvocato, giornalista pubblicista, allievo prima di Moro all’Università di Bari, poi suo collaboratore al ministero di Grazia e Giustizia quindi assistente ordinario nella cattedra di Moro a Scienze politiche (la sera prima del rapimento, fra le altre cose, aveva discusso col presidente delle lauree alle quali, dopo il dibattito alla Camera sulla fiducia al governo Andreotti, Moro avrebbe dovuto presenziare come relatore), fu in seguito consigliere della Corte dei Conti (nomina governativa, sotto la presidenza Ciampi), della quale era presidente onorario. Chiamato nel 1978 alla presidenza dell’Agenzia giornalistica Italia (Agi), la seconda per importanza delle agenzie giornalistiche italiane, da Pietro Sette, presidente dell’Eni (proprietario dell’Agi), fu brutalmente estromesso nell’agosto 1989 dal presidente dell’epoca, Franco Reviglio, al culmine di una polemica per le pesanti intromissioni di Reviglio stesso nella conduzione aziendale dell’Agi, inclusa la nomina irrituale da parte dell’Eni di un direttore generale dell’agenzia («senza alcun rispetto - denunciò - delle regole giuridiche e del metodo democratico, svuotando di qualsiasi significato la funzione degli organi societari»); una «manovra da caserma», la definì Rana, avvenuta pochi giorni prima dell’assemblea degli azionisti (ovvero l’Eni) dove si sarebbe potuto procedere al cambio al vertice. Nei primi anni ’80 fu consigliere d’amministrazione dell’Edisud, la società privata che aveva rilevato nel 1978 la gestione della Gazzetta del Mezzogiorno dal Banco di Napoli (che rimase proprietario della testata fino agli anni ’90). Prima della nomina nella Corte dei Conti, Nicola Rana è stato a lungo negli anni ’70 ed ‘80 consigliere d’amministrazione del Formez, il Centro di Formazione e Studi per il Mezzogiorno voluto da Sergio Pastore, fondatore della Cisl e poi ministro per il Mezzogiorno, con il compito di formare classe dirigente pubblica e privata nel Sud. Nelle elezioni del 1979 fu candidato dalla Democrazia cristiana nel difficilissimo collegio senatoriale di Taranto: sfiorò l’elezione ed ottenne comunque il miglior risultato di sempre fra tutti i candidati lì presentati dalla Dc. Due anni fa, nel quarantennale del delitto Moro, aveva confidato a Famiglia Cristiana: «Fui il destinatario della prima e dell’ultima lettera del presidente. Nella prima busta, oltre al biglietto per me, c’erano anche una missiva per la moglie e una per Francesco Cossiga. Ricordo che da subito pensai che non c’erano molte speranze perché la cosa finisse bene. Per la verità lo avevo già pensato guardando come era stata assassinata la scorta di Moro. Non dimenticherò mai il corpo a terra di Iozzino, colpito in testa, con il sangue che ancora fluiva sull’asfalto. Mi sono detto che chi era stato capace di un gesto simile difficilmente avrebbe restituito vivo Aldo Moro».
Quando Aldo Moro salvò l’Italia, storia del luglio ’60. Fabrizio Cicchitto su Il Riformista il 21 Luglio 2020. Il luglio 1960 si è sviluppato come è stato descritto da Claudio Petruccioli e da Fausto Bertinotti. Si sarebbe però risolto in una tragedia peggiore (ci furono comunque manifestanti uccisi dalla polizia in varie città) se non ci fosse stato uno sbocco politico, quello offerto dal Psi con il centro-sinistra. Ciò è sottolineato nella ricostruzione di Petruccioli e in parte anche in quella di Bertinotti. Quello che non ricordano è che quello sbocco alle origini fu costruito non d’intesa, ma contro una parte cospicua del Pci e contro quella parte del Psi che poi ottusamente fece nel 1964 la scissione del Psiup, sulla quale torneremo. In quella vicenda un’autentica stranezza fu il comportamento assai contraddittorio del presidente della Repubblica Giovanni Gronchi. Il vero artefice dell’elezione di Giovanni Gronchi contro il gruppo dirigente democristiano fu Pietro Nenni, che si mosse molto abilmente per aggiungere un tassello nella costruzione del centro-sinistra. Lo fece con una complessa manovra parlamentare che vide combinare insieme i voti di tutta la sinistra (Pci e Psi) e di una larga parte del centro-destra (destra democristiana antifanfaniana e missini). Tambroni era un uomo di Gronchi che gli diede l’incarico proprio nella logica di preparare il centro-sinistra. A loro volta sul terreno del gioco tattico e della manovra, la destra democristiana e quella missina non sbagliarono un colpo e ad un certo punto Tambroni, che era un mediocre avvocato di provincia, sfuggì sia alla gestione di Gronchi sia al controllo del gruppo dirigente democristiano che non voleva certo trovarsi in mezzo al decollo di una guerra civile. Ma Tambroni era stato per anni ministro degli Interni e in quel mondo opaco c’erano forze che in nome dell’anticomunismo, ideale che poi nel 1964 si tradusse in antisocialismo assai pratico, erano pronte. Tambroni sfuggì a tutti, non solo al suo originario sponsor Giovanni Gronchi, ma anche al gruppo dirigente democristiano. Sarebbero stati guai serissimi, con tutti quei morti per le strade ma anche con quella mobilitazione della polizia, se Moro non fosse stato in grado di proporre una soluzione di tregua che si fondava sul fatto che per il futuro era possibile una soluzione politica organica di stampo riformista, che era quella del centro-sinistra. Quello sbocco politico non ci sarebbe stato se a suo tempo, cioè dai tempi del rapporto segreto di Kruscev e specialmente dell’occupazione sovietica dell’Ungheria, da un lato Pietro Nenni non avesse rotto con il Pci e ricostruito l’autonomia politica e culturale del Psi e dall’altro lato Riccardo Lombardi, su questo totalmente concorde con Nenni, non avesse costruito, insieme ad Antonio Giolitti, agli amici de Il Mondo e a Ugo La Malfa i punti programmatici dell’eventuale intesa con la Dc, che aveva come punti chiave la nazionalizzazione dell’energia elettrica, la riforma urbanistica, la riforma della federconsorzi, la riforma della scuola. L’autonomia socialista fu riconquistata non d’intesa, ma contro larga parte del Pci e anche contro un bel pezzo di Psi che non a caso al Congresso di Venezia del Psi nel 1957 impallinò Nenni nell’elezione del Comitato centrale. Fortunatamente prima del luglio del 1960 c’era stato il Congresso del Psi nel 1959 vinto da Nenni per cui lo sbocco politico dal 1960 in poi era possibile, altrimenti l’esplosione del movimento del luglio del ’60 si sarebbe trovato in un tragico cul de sac. Certamente di fronte all’autentica provocazione di un monocolore democristiano con l’appoggio determinante del Msi, ma specialmente all’autentica provocazione costituita dalla convocazione a Genova del Congresso del Msi, nella città ligure si scatenò di tutto: quel pezzo di resistenza partigiana, molto forte in Liguria, che si sentiva “tradita” dalle vicende successive al 1945, i “camalli del porto”, forti nuclei di classe operaia, un’inattesa ribellione giovanile, anche vaste aree di ceto medio intellettuale: tutto ciò – espresso poi in modo icastico dal comizio di Pertini e dalla battuta di Riccardo Lombardi («non c’è il rischio di guerra civile, la guerra civile c’è già») – fece capire al gruppo dirigente democristiano che la coppia Gronchi-Tambroni aveva provocato una situazione pericolosissima per tutti da cui bisognava uscire. Ma se il Psi non fosse stato quello affermatosi (grazie a Nenni, a Riccardo Lombardi, a Fernando Santi e a molti altri) dai Congressi di Venezia e Napoli, ma fosse rimasto quello del 1955, lo sbocco politico non ci sarebbe stato, la situazione si sarebbe presentata senza via d’uscita e l’avventurismo di Tambroni e di tutto un mondo che stava alle sue spalle avrebbe potuto fare anche in presenza di quel movimento danni devastanti. Per capirci, già nel 1955 nel suo Congresso di Torino il Psi aveva parlato di “dialogo con i cattolici”, ma lo aveva fatto mantenendo in piedi il frontismo col Pci e anche lo stalinismo ideologico con effetti politici molto scarsi. Quindi quando si esaminano vicende assai complesse come quelle imperniate sul luglio 1960 bisogna porre in essere quella che Palmiro Togliatti ha chiamato «l’analisi differenziata»: un metodo di analisi che, però, a suo tempo egli ha adottato in modo assai discontinuo, assai serio quando lo ha applicato ai fascisti («il corso sugli avversari», Lezioni sul fascismo), del tutto reticente o addirittura inconsistente quando si è occupato dell’Unione Sovietica. Ma questa ricostruzione deve riguardare non solo ciò che avvenne prima del 1960, ma anche ciò che avvenne dopo, perché la sinistra ha commesso gravissimi errori non solo dopo il 1989, ne ha commessi di gravissimi anche prima. A proposito del centro-sinistra, Bertinotti parla sia delle sue importanti realizzazioni, sia della sua involuzione moderata e del suo fallimento nell’obiettivo di trasformazione della società. A nostro avviso comunque in centro-sinistra per un verso ha salvato la democrazia nel nostro paese, per altro verso ha contribuito a modernizzarlo, per un altro verso ancora è stato segnato da un’involuzione moderata. Esso è stato certamente pieno di contraddizioni e per molti aspetti gli anni ’64-’68 non sono stati brillanti, anche se riforme assai importanti furono fatte nella fase Rumor-De Martino, ma, messi nel conto tutti gli errori del gruppo dirigente socialista nelle sue molteplici articolazioni (Nenni, De Martino, Mancini, Lombardi, Giolitti), dobbiamo anche parlare degli incredibili errori (mi riferisco al Pci) e di qualcosa di molto peggio (mi riferisco al gruppo dirigente del Psiup) posto in essere dai suoi critici e oppositori di sinistra. Rispetto al centro-sinistra all’inizio Togliatti fece una perfetta analisi differenziata: «il centro-sinistra è un nuovo e più avanzato terreno di lotta, il suo sbocco può essere di stampo riformista o risolversi in un’involuzione moderata». Come in tante altre cose (la Fiat, il ’68, il sindacato) Amendola, a nostro avviso, sul centro-sinistra assunse una posizione giusta: egli partiva dal giudizio di Togliatti per dislocare il Pc in uno stretto rapporto con il Psi, La Malfa, con il sindacalismo cattolico. Invece per Ingrao il centro-sinistra era un’operazione di modernizzazione neocapitalista dell’Italia, le sue riforme erano tutte intrinseche al sistema, per cui la contestazione del Pci doveva essere globale. L’analisi di Ingrao era del tutto ideologica e astratta anche per cogliere la dialettica e le contraddizioni reali del centro-sinistra. In questo quadro Ingrao fu del tutto favorevole alla scissione del Psiup. Nella sostanza, poi, quasi tutto il Pci, tranne Amendola, nel corso di quegli anni si spostò sulla linea della contestazione frontale del centro-sinistra nel timore che, se fosse decollato il suo riformismo, il Psi avrebbe potuto modificare a suo vantaggio i rapporti di forza nella sinistra italiana. Così, quando ancora la partita era del tutto aperta sulla caratterizzazione riformista o moderata del centro-sinistra, la sinistra del Psi (quella di Valori e Vecchietti, ma anche di Basso e Foa) fece la scissione e fondò il Psiup nel 1964. Anche a tanti anni di distanza non posso fare a meno di rilevare che si trattò o di un atto di totale ottusità politica o di criminalità politica pura. Per definirla basta ricordare chi la finanziò: il Kgb e l’Eni di Cefis su sollecitazione di Antonio Segni allora in ottimi rapporti personali con Lelio Basso. È evidente che il Kgb lo fece per indebolire il Psi e aiutare il Pci. Quanto a Segni e a Basso chi vide giusto fu certamente il primo. Allora Segni, oltre che presidente della Repubblica, era anche il leader dei dorotei e quindi collocato oltre gli orientamenti della corrente della Dc moderata (tant’è che poco dopo, di fronte al piano Solo, anche Scelba gli disse di non essere per niente d’accordo con lui). Giustamente Segni, attraverso la scissione, voleva indebolire i socialisti e smontare il centro-sinistra riformista. Non sorprendono Valori e Vecchietti, legati al Pcus più dello stesso Pci, sorprende invece Lelio Basso che ai tempi del Psi staliniano fu addirittura perseguitato dagli sgherri morandiani (l’ha raccontato lui stesso nelle sue memorie, dicendo che solo Pertini, Lombardi e Santi lo salutavano e che dovette a Pajetta e ad Amendola se non fu espulso dal Psi, ma comunque escluso dalla Direzione e dal Comitato Centrale lo fu: stiamo parlando di un uomo della storia e dalla storia di Lelio Basso). Probabilmente Lelio Basso era troppo suggestionato dalla storia della Rivoluzione russa: pensava di viaggiare verso la rivoluzione sul treno blindato dell’esercito tedesco e invece, in quella circostanza, fu utilizzato dal leader della destra democristiana per indebolire gli odiati riformisti (Nenni e Lombardi). Come si vede, se si adotta davvero non solo per un pezzo il metodo togliattiano dell’analisi differenziata si scopre che la storia italiana non sopporta proprio nessuno schema prefabbricato e neanche la mitologia.
Che abbaglio tirare in ballo Moro…Marco Follini il 10 gennaio 2020 su Il Dubbio. Moro lanciò una sfida e rivendicò una politica. Non chiese complicità. Quella volta, in difesa di Luigi Gui sull’affare Lockheed, Moro scrisse inizialmente un testo anodino, tutto in punta di diritto, senza concessioni di sorta alla controversia politica del tempo. Fu il suo portavoce, Corrado Guerzoni, che era un consigliere discreto e influente, a convincerlo a dare uno spessore assai più politico e assai più controverso alle sue parole. Così andò, e il giorno dopo, viste le reazioni di mezzo mondo, Moro ebbe il dubbio di avere reagito in modo troppo forte. Punto e a capo. Ora, però, converrebbe evitare che l’eco di quelle parole lontane riempisse il vuoto della nostra attualità politica. Infatti, si può liberamente decidere di affidare Salvini alle cure della magistratura, oppure fargli da scudo in nome di una immunità parlamentare che ha le sue ragioni. Liberamente, appunto. Magari senza confondere gli anni Settanta con i nostri giorni, e il fu presidente della Dc con il leader della Lega. Moro lanciò una sfida e rivendicò una politica. Non chiese complicità. Mentre oggi sembra piuttosto che la ricerca della complicità venga prima del ritrovamento della politica. Questione di tempi, e di uomini. Basterebbe non mescolarli per avere riguardo degli uni e degli altri.
Gli anni del Male: quando eravamo democristiani. Fulvio Abbate de Il Riformista l'8 Novembre 2019. Nella romana cornice di marmo già littorio dell’ex GIL, in largo Ascianghi, a ridosso del non meno rinomato cinema “Nuovo Sacher”, angolo estremo di Trastevere comprensivo di piazzola destinata al parcheggio, luogo di rissa per gli irriducibili spettatori ritardatari di Nanni Moretti, nei giorni scorsi, nella luce incerta di ciò che Pasolini chiamava “Dopostoria”, si è svolto un significativo e decisamente crudele incontro dedicato all’eredità del più fantasmagorico settimanale di satira che l’ormai malconcio Stivale abbia mai conosciuto, Il Male, l’indimenticato. Un dibattito a compendio di una mirabile mostra che testimonia, tra gigantografie di leggendarie “false” prime pagine, disegni e manufatti originali, la ricostruzione del locale della stessa redazione, memorabilia e ogni altro feticcio della satira passata ormai agli alberi pizzuti della repubblica, un momento di assoluta vitalità nella battaglia delle idee e del necessario sarcasmo da contrapporre alle bassezze altrove dominanti dell’informazione. I protagonisti? Da Vincino a Pino Zac, e ancora Angese, Giuliano, Cinzia Leone, Angelo Pasquini, Sergio Saviane in veste di “fiancheggiatore”, Riccardo Mannelli, Vauro, Jacopo Fo, Alain Denis, Roberto Perini, Mario Canale, Vincenzo Sparagna, Jiga Melik, Piero Lo Sardo, Giovanna Caronia, i disegnatori Tamburini e Liberatore, e lo stesso Andrea Pazienza, già allora alle prese con il suo Pertini, fino a Carlo Zaccagnini, figlio di Benigno, in arte, per pudore familiare, Carlo Cagni. Questi i volti contenuti nell’ideale quadreria-albo d’oro dell’avventura che adesso si rinnovella nell’omaggio intitolato Gli anni del Male 1978-1982. A fronteggiare ogni tavola illustrata del sarcasmo trascorso, sotto bassorilievi che ancora adesso innalzano la gloria italica fin dai giorni delle sanzioni, quando Mario Appellius ebbe modo di coniare l’epiteto “Dio stramaledica gli Inglesi!”, ecco ora, irresistibile, indomabile, Paolo Cirino Pomicino, pronto a far rivista di sé tra disegni e ancora tavole; a seguirlo, Beppe Attene, ex direttore dell’Istituto Luce (e già questa, contemplato il luogo già caro al Ventennio, appare come metafora), distintivo massonico fieramente portato all’occhiello; il non meno eponimo Duca Conte radicale Roberto Cicciomessere; Sergio Staino, volto e postura da antico senatore romano, da attesa dei barbari, così come ne prefigurano l’implacabile arrivo i versi di Kavafis; l’esperto di cose disegnate Luca Raffaelli a moderare l’intera matassa, a contestualizzare fatti, azioni ed espedienti perfino drammaturgici orditi, sempre allora, dalla comitiva del Male, infine Filippo Ceccarelli, romano profondo, collezionista di spigolature, uomo saggio e di mondo, pronto a mettere anche lui ordine nell’ordito di un’avventura editoriale che oggi appare antica e insieme struggente per vitalità, per irritualità, per volontà anarco-situazionista, per ascesa editoriale e infine tracollo e rovina, così nel clima trascorso del compromesso storico in attesa del rapimento e dell’assassinio di Aldo Moro da parte delle ottuse Brigate Rosse… Perfino per irriproducibilità. Evocando la falsa prima pagina che annunciava lo scioglimento della Dc Cicciomessere auspica il ritorno del Male che presto «si contrapponga a La Bestia di Salvini». Attene, nostalgia canaglia del Garofano, ricorda invece che «i socialisti avevano più senso dell’umorismo di tutti gli altri». Viene addirittura evocata, come possibile Belfagor dell’evo politico trapassato, la “signorina” Enea, leggendaria segretaria di Andreotti, la si rammenta “in ciabatte” negli uffici di piazza San Lorenzo in Lucina. Andreotti, diversamente dai comunisti, era tuttavia tra coloro che richiedevano le vignette agli autori, così da metterle tra i trofei, accanto alle foto con i capi di Stato. Altre facce e faccine della cosiddetta prima repubblica si ritrovano intanto chiamate in causa, e così affiancate alle attuali per uno spareggio impietoso. Staino, dal suo ideale trono, evoca il Don Basilio, giornale anticlericale post-bellico che visse poche stagioni, Staino, con faccia da Bobo ormai in pensione, racconta ancora di quando, militante nel più oscuro partito marxista-leninista che la nostra penisola extraparlamentare abbia mai conosciuto, il P.c.d’I., stretta osservanza filocinese e addirittura filoalbanese al tempo di Enver Hoxha, reduce da un dibattito politico, ospite, a Treviso, di una “compagna”, chiese a quest’ultima se avesse, per caso, una copia, metti, di Tex Willer, delizie di lettura cui dedicarsi prima di andare a letto, e la infame militante irreprensibile, denunciò la gravità della richiesta al comitato centrale dell’organizzazione. Sfilano gli invitati davanti alla prima pagina di “Paese Sera” che annuncia Tognazzi essere il capo delle Br, il “grande vecchio” per l’amarezza dell’ex socio Vianello che tuttavia concede: «È pazzo, ma lo perdono». Sfila Stefano Disegni davanti ai falsi gialli Mondadori che insinuano una “tisana assassina” per la dipartita di Papa Luciani. Solleva il capo Luca Sossella ascoltando il racconto della rabbia dei repubblicani per il modo in cui il giornale titolò la scomparsa di Ugo La Malfa: «In fondo era solo una tartaruga». Durante il funerale, i militanti dell’Edera bruciarono addirittura le copie del Male davanti alla bara del leader. Paolo Cirino Pomicino, ’O Ministro, monotipo, pezzo unico, a fronte di una richiesta esplicita degli astanti, non si sottrae dal mettersi in posa, lui, andreottiano, proconsole di quest’ultimo nella Campania Felix, eccolo ora accanto al busto di Andreotti, lo stesso che il collettivo del Male si apprestava a piazzare lassù al Pincio, accanto ai simulacri dei padri nobili della storia nazionale, l’irruzione della polizia, capitanata dal commissario Pompò, consentì il sequestro immediato del manufatto marmoreo. Ne seguì perfino una sventagliata di denunce, nella rete cadde anche Roberto Benigni, lì in veste di “madrina” della cerimonia. Quarant’anni dopo, davanti al busto ritrovato, custodito nel frattempo in casa di Vincino, c’è, sorridente, inaffondabile, magistrale, Paolo Cirino Pomicino, qualcuno, poco prima, auspicava la possibilità che “rinasca la Dc”, lui, l’ex ministro del bilancio, già antologizzato ne Il divo di Paolo Sorrentino, nell’immensa interpretazione di Carlo Buccirosso, è lieto anche di mostrarsi accanto alle altre false prime pagine de l’Unità e di Paese Sera. “Basta con la Dc!” e “La Dc abbandona!”, fa intanto eco la seconda. Sogni infranti. C’era una volta la satira, c’è ancora Cirino Pomicino.
Caso Lockheed, 1977: Moro a difesa di Gui. Redazione de Il Riformista il 13 Dicembre 2019. 9 marzo del 1977, il caso Lokheed (una storia di tangenti sull’acquisto di aeroplani americani) arriva alla Camera. Si tratta di decidere se processare due ex ministri: Luigi Gui, dc, e Mario Tanassi, Psdi. Aldo Moro, giusto un anno prima del suo rapimento, interviene con un discorso formidabile, di impronta davvero garantista, a difesa di Gui, soprattutto, ma anche di Tanassi. Rivendica l’autonomia e l’unicità della politica e il valore dell’impegno politico e dei partiti. Grida: «Non ci faremo processare nelle piazze». Però va in minoranza. I più duri contro di lui sono i comunisti e i radicali. Tanassi e Gui sono rinviati a giudizio davanti alla Corte Costituzionale. Che assolverà Gui e condannerà a 2 anni e 4 mesi di carcere Tanassi.
· I Nemici di Aldo Moro.
Il caso e le menzogne. Tutte le balle sul delitto Moro raccontate da Gero Grassi. Paolo Persichetti su Il Riformista il 13 Novembre 2020. Gero Grassi, l’ex membro della seconda commissione parlamentare d’inchiesta sul rapimento e l’uccisione di Aldo Moro che ha chiuso i battenti nella passata legislatura, è incappato in una nuova querela dopo quella promossa da una coppia di coniugi indicati come i veri carcerieri di Moro nella loro abitazione di via dei Massimi 91, a Roma. A denunciarlo, stavolta è stata la giornalista Birgit Kraatz, corrispondente in Italia per oltre trent’anni delle più importanti testate giornalistiche tedesche. Nella denuncia per «diffamazione aggravata a mezzo stampa e internet» e per altri reati che la procura potrebbe ulteriormente individuare, la giornalista contesta a l’ex parlamentare di aver sostenuto in più occasioni la sua appartenenza al «gruppo eversivo tedesco denominato 2 giugno, noto specialmente in Germania per avere compiuto negli anni 70 atti di terrorismo», insinuando che nel 1978, quando la giornalista abitava a Roma, sempre in Via Massimi 91, avrebbe fiancheggiato «l’attività delle Brigate Rosse durante la prigionia dell’onorevole Aldo Moro», consentendo a Franco Piperno, suo amico, di controllare dalle finestre della sua abitazione l’arrivo nel garage della palazzina del commando brigatista con l’ostaggio. Affermazioni ribadite con ampio risalto in alcune pagine del volume (pp. 143 e 159) Aldo Moro: la verità negata, terza edizione, che Gero Grassi ha pubblicato nel dicembre 2019 col patrocinio della Regione Puglia (scaricabile gratuitamente anche dal suo sito: gerograssi.it). Un racconto grossolanamente falso e inverosimile, protesta la Kraatz che riassume la sua esperienza lavorativa ricordando di essere arrivata in Italia nel 1968 come corrispondente del settimanale Die Weltwoche; di aver successivamente lavorato per la Zdf (il secondo canale della televisione tedesca), nel 1976 per Stern e dal 1980 fino al 1990 per Der Spiegel. In seguito ha collaborato con Rai 3 in occasione del processo politico di riunificazione tedesca. Iscritta alla Spd dal 1974, la Kraatz ha di fatto ha curato i rapporti della socialdemocrazia tedesca con la sinistra italiana, in modo particolare col Pci, intervistando nel 1976 Enrico Berlinguer (è citata nella biografia scritta da Chiara Valentini). Ha pubblicato per Editori riuniti un libro intervista col premier e capo della socialdemocrazia tedesca fautore della Ostpolitik, Willy Brandt, Non siamo nati eroi. Nel corso della sua carriera ha intervistato Helmut Schmidt, Theo Waigel, Oskar Lafontaine e l’intero establishment della politica, della economia e della cultura italiana. Insomma una professionista affermata e molto conosciuta nei circoli della stampa e del mondo politico romano, compagna di Lucio Magri da cui ha avuto una figlia nel 1974. Nella denuncia, Birgit Kraatz precisa anche di «aver sempre abitato da sola in via dei Massimi 91, con la figlia Jessica, all’epoca di 4 anni, e la governante che accudiva la bambina quando era fuori per lavoro», sottolinea inoltre che all’epoca del sequestro Moro «non aveva alcun rapporto sentimentale con il prof. Franco Piperno che aveva conosciuto anni prima durante una intervista». In una intervista a Radio radicale del 22 ottobre scorso, Gero Grassi ha tentato una disperata difesa sostenendo di essersi limitato a riportare quanto sostenuto nella terza relazione della commissione, approvata dalla camera il 13 dicembre 2017 e dunque di non avere colpa se quanto vi era sostenuto non risponde al vero. Un tentativo di trincerarsi dietro l’immunità che protegge i lavori della commissione parlamentare. In realtà, le contestazioni mosse all’ex parlamentare dalla signora Kraatz fanno riferimento ad affermazioni e testi successivi alla decadenza del mandato parlamentare, ma soprattutto reiterate quando ormai era nota e comprovata la loro infondatezza. Nella querela Birgit Kraatz elenca i ripetuti tentativi fatti per informare il presidente della commissione Fioroni dell’errore commesso e chiedere la dovuta rettifica. Avuta notizia di quanto veniva affermato nei suoi confronti in alcune pagine della terza ed ultima relazione della commissione, il 22 febbraio 2018 Birgit Kraatz inviava una prima raccomandata al presidente Fioroni nella quale ricordava tra l’altro che dalle finestre della sua abitazione «l’entrata del garage di via dei Massimi 91 non era né visibile né raggiungibile, come sarebbe stato facile verificare con un semplice sopralluogo». La raccomandata non riceveva risposta. Il 26 aprile 2018 sul quotidiano il Dubbio appariva una intervista a Franco Piperno nella quale erano presenti numerose informazioni che smentivano le affermazioni della Commissione. Il 4 ottobre successivo in una dichiarazione fatta al Senato durante la presentazione del suo libro Moro, il caso non è chiuso. La verità non detta, Giuseppe Fioroni spiegava che ad agosto 2018 era pervenuta una nuova informativa che escludeva il coinvolgimento della Kraatz nell’organizzazione 2 giugno. L’Ansa del giorno successivo ne riprendeva le parole. Il 18 ottobre 2018 gli avvocati di Birgit Kraatz inviavano una seconda raccomandata al presidente Fioroni contenente un documento della Bundeskriminalamt (Ufficio federale della polizia criminale). La più alta autorità pubblica tedesca in materia di polizia affermava che la signora Kraatz: «non ha mai avuto contati o altro legame col gruppo “2 Giugno” che vadano aldilà dell’attinenza del lavoro giornalistico allora svolto sull’argomento di sinistra in Germania e in Italia». I legali chiedevano anche di correggere i passi errati della relazione riferiti alla Kraatz e di far cancellare i medesimi passaggi dai motori di ricerca di Internet. Nonostante queste importanti rettifiche Gero Grassi rilanciava le sue accuse contro Birgit Kraatz nella terza edizione del suo libro su Moro, accuse che ribadita anche in una intervista all’Agi del 5 marzo 2020. Nel frattempo nessuna richiesta di scuse o gesto di cortesia perveniva alla signora Kraatz da parte dell’ex presidente della Commissione Moro 2. Al contrario, lo scorso 16 ottobre presso la biblioteca e archivio storico del Senato, in occasione della presentazione del libro di Gero Grassi oggetto della querela, Giuseppe Fioroni invece di correggere l’errore sulla Kraatz ribadiva che in via dei Massimi 91 «c’era di tutto e di più… c’era qualche fiancheggiatrice della 2 giugno».
Come siamo usciti dal terrorismo. C’erano gli eroi come Dalla Chiesa e chi strizzava l’occhio ai brigatisti. Danilo Breschi il 27 Settembre 2020 su Culturaidentità. Tra il 1° gennaio 1969 e il 31 dicembre 1987 le vittime del terrorismo furono 491, i feriti 1181 e 14591 gli atti di violenza “politicamente motivati” contro persone e cose. Nel periodo di maggiore virulenza, tra il 1976 e il 1980, gli atti di violenza furono 9673, quindi una media di cinque episodi al giorno. Nel solo 1979 gli atti eversivi furono 2513, il che significa che la media toccò quota sette azioni di violenza politica ogni 24 ore. Nei soli primi tre mesi del 1980 si ebbero 437 attentati e atti di violenza politica, tanto che da gennaio a marzo furono assassinate 27 persone, ferite 94 e 340 i danneggiamenti alle cose. Insomma per circa diciotto anni l’attentato è stato una componente costante della vita pubblica nazionale. Ancora nel 1988 si ebbe l’assassinio del senatore democristiano Roberto Ruffilli e tra 1999 e 2003 gli omicidi di D’Antona, Biagi e l’agente Emanuele Petri ad opera delle “nuove Br”. Il fenomeno terroristico si palesò tra il 1969 e il 1973, seppure nella confusione e nell’incertezza su mandanti ed esecutori, dividendosi spesso su natura spontanea ed autonoma oppure artificiale ed eterodiretta di stragi, sequestri e attentati. Con ministro dell’Interno Taviani e della Difesa Andreotti, nel maggio del 1974 fu creato il primo nucleo antiterroristico all’interno del corpo dei carabinieri per iniziativa del generale Carlo Alberto dalla Chiesa. Questi colse l’aspetto più pericoloso e destabilizzante per le istituzioni dello Stato e la loro tenuta democratica: la “zona grigia”, quell’ampia rete di relazioni e contatti, simpatie e appoggi più o meno concreti, che circondavano il fenomeno della lotta armata. Come si comprende dalle memorie del maresciallo Antonio Brunetti (I 31 uomini del Generale, 2018), gli italiani di ieri e di oggi devono moltissimo a Dalla Chiesa e al suo ristretto nucleo di fidati collaboratori, un drappello di trentuno servitori dello Stato che seppero entrare nella testa dei terroristi, “pensare come loro”, penetrarne le logiche di ragionamento e di azione e così progressivamente sgominarli. L’anno successivo, il 22 maggio 1975, venne approvata la cosiddetta legge Reale, dal nome dell’esponente del PRI, ministro di Grazia e Giustizia nel IV governo presieduto da Aldo Moro. La legge sanciva il diritto delle forze dell’ordine a utilizzare armi da fuoco quando strettamente necessario anche per mantenere l’ordine pubblico. revedeva l’estensione anche in assenza di flagranza di reato del ricorso alla custodia preventiva, misura prevista in caso di pericolo di fuga, possibile reiterazione del reato o turbamento delle indagini. Si potevano effettuare fermi preventivi di quattro giorni, entro i quali il giudice doveva poi decretare la convalida. Fu ribadito che non si potevano utilizzare caschi o altri elementi che rendessero non riconoscibili i cittadini, salvo specifiche eccezioni. Nel 1982 sarebbe poi giunta la legge sui pentiti che contribuì in modo decisivo a scardinare un movimento terroristico che stava mostrando i primi segnali di incertezza e debolezza, di fronte ad una società in via di profonda transizione post-ideologica. La prima crepa dentro la vasta area di simpatie e sostegno attivo al movimento terroristico si ebbe con l’uccisione da parte delle Br dell’operaio e sindacalista comunista Guido Rossa a Genova nel gennaio 1979. Il coraggio nel denunciare un collega affiliato alle Br gli costò la vita. Altro esempio di eroe della nostra democrazia. Proprio quella ultradecennale, travagliata vicenda, piena di violenze e lutti, nonché i suoi prolungati strascichi, induce ad una necessaria riflessione contemporanea. Tra le pieghe della società italiana è circolata a lungo una mentalità refrattaria al senso dello Stato, un’attitudine psicologica anti-istituzionale, permeabile a culture politiche antisistema e apertamente eversive. La tattica adottata fu quella di una risposta graduale, tesa a non alimentare questa temperie ideologica, che una reazione più rapida, diretta e massiccia avrebbe probabilmente finito per convalidare. La scelta dei vertici della Dc e dei suoi alleati seppe tener conto della tesi brigatista, e dell’intero terrorismo di sinistra, che era poi quella dell’antica tradizione anarchico-rivoluzionaria, e poi terzinternazionalista, secondo cui lo Stato “borghese” ha un’essenza autoritaria, un volto “fascista”, che mostra solo se aggredito, nel qual caso si spoglia della maschera legalitaria e garantista rivelandosi per ciò che è, uno Stato di polizia. A ciò si associò una frazione importante della cultura cattolica più radicale, anticapitalistica e terzomondista. Va detto che il mondo della stampa non brillò all’epoca, comprese testate tradizionalmente distanti dall’estrema sinistra. Si avallò a lungo la formula delle “sedicenti” Brigate Rosse, preferendo far rientrare la crescente azione eversiva del terrorismo rosso nelle cosiddette “trame nere”, come se tutto fosse riconducibile a servizi segreti più o meno deviati. La formula “né con lo Stato né con le Br” espresse e sintetizzò tristemente una fase non breve di isolamento di chi operò anche a costo della propria vita per contrastare il fenomeno. Ci furono però anche lodevoli eccezioni e persino vittime del terrorismo tra i giornalisti, come Carlo Casalegno e Walter Tobagi. Proprio la stagione del terrorismo e le modalità con cui ne uscimmo ci suggeriscono alcune considerazioni su pregi e difetti del sistema politico della Prima Repubblica che, sotto molti aspetti, si è protratto sino ad oggi. In primo luogo l’Italia, come e più di altre nazioni europee, deve molti dei successi della propria storia politica all’intelligenza e abnegazione di autentici servitori dello Stato, come Carlo Alberto dalla Chiesa. Il suo stesso nome, ironia della storia, rievoca quello spirito risorgimentale che è filtrato tra le generazioni di uomini e donne che hanno contribuito a creare lo Stato nazionale e a preservarlo di fronte a immani sciagure. In secondo luogo buona parte della fase della Prima Repubblica che va dal centrosinistra in poi si è contraddistinta per una riposta della classe politica sempre più povera di atti di governo coraggiosi e incisivi per evitare l’impopolarità, preferendo modelli distributivi privi di altra strategia che non fosse quella di attutire la conflittualità. Fu questa la linea prediletta dalla DC morotea e andreottiana, con o senza il sostegno del PCI, che sul punto era però sostanzialmente convergente. Strategia che consentì alla maggioranza silenziosa di riprendere fiato e alla società italiana di riassorbire e spegnere negli anni Ottanta l’alta tensione ideologica innescatasi a fine anni Sessanta. Si esaurì l’opzione terroristica, anche per implosione del mondo comunista, ma restò il sottofondo culturale sensibile all’estremismo, che si sarebbe tramutato in antipolitica, giustizialismo e populismo tra anni Novanta e Duemila.
Marco Gregoretti per il suo sito il 23 settembre 2020. Stanno per iniziare i lavori della Commissione Moro. Questo mio articolo del 2001/2002 racconta l’incontro con l’agente del Sid a Praga. Lo chiamavano dottor Franz e tutti credevano che fosse un dentista.
Prologo. Cabras, terra di bottarga di muggine e di spiagge colorate, di boschi impenetrabili a picco sul mare e di cuniculi sotterranei scavati dai Fenici. È la Sardegna dell’oristanese: bella e poco turistica. Un sabato di settembre la sala del museo civico si popola di uomini con facce particolari, segnate dall’esperienza, circospette in ogni minima postura. Nascoste da Ray-Ban neri. Molti di questi, sebbene arrivino da diverse parti d’Italia, in passato si sono già incontrati. Si salutano con battute strane, chiamandosi per sigla. Efisio Trincas, il sindaco di Cabras, sta presentando alcuni scrittori locali. Quando pronuncia il titolo “Ultima missione”, l’autore, Antonino Arconte, e la sigla G-71, quelle facce di agenti segreti, di ex agenti segreti, di uomini del controspionaggio italiano, si contraggono come per trattenere un: «G-71, sei tutti noi!». ”Ultima missione” è il libro di memorie dell’agente segreto scovato due anni fa da GQ. Più di 600 pagine sconvolgenti, con documenti inediti: da Gheddafi a Moro, da Bourghiba a Craxi, da Andreotti a Cossiga, racconta tutte le missioni segrete che lui (soldato della Marina militare, comsubin, gladiatore del super Sid) e altri militari in incognito hanno fatto in giro per il mondo per conto del governo italiano. G71 il suo libro se l’è scritto da solo, si è fatto da solo il progetto grafico, copertina compresa, e l’ha messo on line. Migliaia di copie vendute con il semplice tam-tam. Ammiratori in ogni continente, davvero. Posta elettronica intasata. E uno Stato, quello italiano, che lo perseguita e l’ha “cancellato” perché sa troppo e non vuole stare zitto. Ma questa è un’altra storia…
«Quello è del Sismi…». Mescolato tra i tanti colleghi ed ex colleghi, vicino al buffet offerto dal comune di Cabras, c’è uno che ha l’aria di essere, oltre G71, il pezzo da novanta. Lo capisci da come tutti “gli spioni” si rivolgono a lui. È sicuramente sardo, ma può sembrare arabo o, perfino, non è uno scherzo, tedesco. Parla il dialetto sardo, si esprime in arabo, conosce un tedesco perfetto, il cecoslovacco, l’inglese, il francese e lo spagnolo. Per gli Stati Uniti è laureato in medicina e fa il dentista. Per l’Italia no: è un abusivo. I modi e il look non sono appariscenti, ma si percepisce il carisma. Avvicinarlo, pur essendo in una sala piccola, è difficile. Capita sempre qualcosa sul più bello: uno che lo chiama, un altro che “involontariamente” lo urta e il bicchiere cade per terra, il cellulare che squilla, ma nessuno risponde. È lui, poi, che risolve la situazione: «So che le interessa sapere qualcosa sulle nuove Brigate rosse. Che poi sono le vecchie: non è cambiato nulla». Sussurra: «Sono Franz. Il dottor Franz. Per i servizi segreti di mezzo mondo questo nome di battaglia vuol dire qualcosa. Ma qui c’è troppa gente, non mi fido. Ci vediamo domani ad Alghero». Ma chi è il dottor Franz? «Un bravo dentista», dice lui. Ci vuole proprio una gitarella ad Alghero. Seduti intorno al tavolo della cucina, nell’appartamento di un amico che non c’è, Franz sembra più tranquillo. L’inizio del racconto è assai umano: «Sono entrato nei servizi segreti italiani per amore. Per amore di una donna dell’Est». Fino a quel momento Franz era un mozzo che lavorava sulle navi e guadagnava molto bene per i primi anni Settanta: un milione e mezzo al mese. «D’altronde dovevo mantenere una famiglia numerosa (mamma, due fratelli e tre sorelle), che dopo la morte di mio padre non aveva alcun sostegno».
«Ho visto Franceschini in Cecoslovacchia». Girando per il mondo conosce la figlia di un colonnello della Stasi, che vive in Cecoslovacchia. «Appena rientravo da un viaggio in nave, la raggiungevo al suo Paese. Così ho imparato la sua lingua e soprattutto a muovermi con grande disinvoltura in uno Stato così vicino, ma anche così lontano». Nel 1974 la proposta indecente. «Ero in via Colli della Farnesina, a Roma. Stavo bevendo qualcosa al bar vicino all’ambasciata. Mi avvicinano due tizi che non conoscevo. Che, invece, di me sapevano tutto. Uno era Antonio La Bruna, incaricato dal Sid di ingaggiare personale civile. Non sapevo che fosse la Gladio. Mi chiedono se voglio collaborare. Se voglio entrare nei servizi segreti. “Ci pensi un paio di mesi”, mi dice La Bruna con garbo, “poi mi chiami a questo numero”». Franz è un freddo. Passionale, ma freddo. Gli offrivano un milione al mese fisso per fare quella che lui riteneva una vacanza: vivere nel Paese della sua donna. «Dopo due mesi ho accettato. La Bruna mi ha convocato a Roma, in via XX settembre, presso l’ufficio decimo. E mi ha affidato i compiti: pedinare i terroristi che dall’Italia andavano in Cecoslovacchia per addestrarsi. L’ho fatto per cinque anni. Anche dopo il rapimento Moro. Ogni volta La Bruna mi chiamava da un telefono pubblico. Mi convocava. Mi segnalava tipo di macchina, targa e luogo di partenza… Neanche mia madre sapeva nulla». Per esempio. Il furgoncino targato… parte da Padova alle ore… «Io mi mettevo dietro. Lo seguivo, fino a Linz, alla frontiera austriaca con la Cecoslovacchia. Avevo notizia di chi proseguiva il pedinamento dopo di me, per non rischiare di perdere i terroristi al posto di blocco. Oppure li prendevo io a Ceske Budejovice, la prima città in Cecoslovacchia e gli stavo addosso fino a Brno. I campi di addestramento erano a Carlovi Vari, oppure vicino a Brno, a Litomerice, a ovest di Praga. Ufficialmente erano delle terme. Già, perché magari, dopo qualche rapina fatta in Italia, dovevano riposarsi un po’…». Una bomba! Francesco Cossiga ha appena detto, a proposito delle Brigate rosse, che non esiste alcuna connessione internazionale, che sono un fenomeno soltanto italiano. Ipotesi confermata anche dalle dichiarazioni di Mario Moretti e di Paolo Persichetti, l’ex Br recentemente estradato dalla Francia. Dottor Franz, ma lei è certo di quel che dice? «Io li ho pedinati e fotografati. Anche dopo il rapimento e l’uccisione dell’onorevole Aldo Moro. So da chi compravano le armi e l’esplosivo. Li ho visti entrare nei ristoranti popolari, mangiare senape e würstel. Li ho visti che si beccavano qualche cameriera. Non solo per copertura. Li ho visti parlare con i loro addestratori, tutti agenti del Kgb e con i terroristi della Raf, dell’Eta, e quelli libici. Noi seguivamo i loro. La polizia ceka seguiva noi. Come mai? Direi a Cossiga che ho lavorato per il mio Paese in condizioni difficili: pedinare in Cecoslovacchia un terrorista che ha la copertura del Kgb è quantomeno arduo. Non parlo a vanvera: il materiale scritto e fotografico io l’ho regolarmente spedito in Italia o consegnato ad agenti italiani. Uno, Tano Giacomina, è morto in uno strano incidente. Due mesi fa mi ha cercato Franco Ionta (il magistrato che indaga sul delitto Moro, ndr). Ho parlato con un maresciallo dei Ros, il reparto operativo speciale dei Carabinieri. Ma non è successo nulla». Incredibile: sono documenti che provano l’esistenza di un collegamento tra colonne delle Br e servizi segreti stranieri. E nessuno fa niente. Nomi? «Niet». Franz, dai. «Guardi che è pericoloso. Perché io ho pedinato e seguito gente che non è mai stata arrestata…». Qualcuno di quelli arrestati può dircelo? «Per esempio Alberto Franceschini. L’ho seguito e l’ho segnalato. Quindi non è vero, come è stato detto, che lui arrivava dalla Germania dell’Est. Lui arrivava da Praga. L’ho visto recentemente, in tv. Com’è cambiato: sembra un professore». Franz a Praga prende una casa in affitto da un dissidente: tra i suoi compiti c’era anche quello di aiutare gli oppositori o i perseguitati dal regime a scappare in Occidente. Per farlo rischia la vita. «Un giorno La Bruna mi dice: scusa, ma perché non metti su a casa tua uno studio dentistico come attività di copertura? Avevo molti pazienti. Anche la mia donna. Che essendo figlia di un generale della Stasi, mi dava un sacco di notizie… Per tutti diventai il dottor Franz. In realtà ero il responsabile della base di Gladio in Cecoslovacchia. La parola d’ordine era: ho male al dente numero…».
«Ieri si chiamava kgb, oggi Mafia russa». Questo pezzo di racconto è da shock. Sono le 11 di mattina e Franz si è già fumato mezzo pacchetto di sigarette. Nella sua mente investigativa si susseguono i pensieri. Spegne l’undicesima cicca. E dice secco: «È da un mese e mezzo che hanno ricominciato a minacciarmi. A farmi certi discorsetti via e-mail. Fanno così, “loro”. Poi, bum-bum. E tu sei morto. Come è successo a quei due, D’Antona e Biagi. E Landi, quella specie di hacker che aveva scoperto troppo. Suicidato, ma va’… Io i miei figli voglio vederli crescere in diretta. E non dall’alto dei cieli. Non voglio fare una brutta fine ed essere consolato da un ministro che si dimette. Ora mi sono rotto». Dietro la facciata aggressiva, strafottente e ironica, adesso si legge tanta paura. «Guardi, io lo so per certo: sia D’Antona che Biagi avevano ricevuto un sacco di minacce. Tutti e due stavano indagando sulla provenienza degli attacchi minatori. Avevano scoperto i mittenti. Sapevano chi sono i terroristi e chi li protegge. Ma sono stati fatti fuori». Franz racconta un fatto davvero inquietante che riguarda il presunto strano suicidio (giovedì 4 aprile 2002) del tecnico informatico Michele Landi. «Poco prima di morire aveva mandato un’e-mail a un mio amico che era nei servizi con me. C’era scritto che aveva scoperto la provenienza delle rivendicazioni dell’omicidio Biagi. Arrivavano dal computer di un ministero». Ecco perché ha paura il dottor Franz: lui sa tutto quello che sapevano le tre persone uccise. E forse anche molto di più. Sa per esempio nomi e cognomi. Conosce le connessioni internazionali. Su un fatto il nostro uomo è certo: «Dietro ci sono sempre gli stessi. Ieri si chiamava Kgb. Oggi si chiama mafia russa. Il terrorismo non può vivere senza una potenza alle spalle. E il disfacimento dell’Urss ha fatto sì che fosse messo in vendita l’arsenale di una superpotenza» . “Loro” sarebbero ex agenti del Kgb, che nel frattempo sono diventati miliardari della mafia russa, che partecipano al gioco mondiale della destabilizzazione finanziando e fornendo armi ai terroristi occidentali. «Che agiscono insieme ai terroristi islamici: niente è cambiato. Ho visto documenti esplosivi che lo dimostrano. Come quello che riguarda il mitico Sciacallo. Non ci sono nuove Br, nuova Eta, nuova Ira. Ci sono Br, Eta e Ira. Usano le armi di ieri e l’esplosivo di ieri: i kalashnikov e il Semtex, fabbricato, guarda caso, in Cecoslovacchia. L’unica differenza è che hanno stretto un patto d’acciaio tra loro». Tanta paura? «Sì, ma anche lei deve averne: le ho parlato di fatti che non ho voluto dire neanche ai Ros».
Proiettili, volantini, divise. Dal sottosuolo riemerge il deposito segreto delle Br. Giovanni Bianconi su Il Corriere della Sera il 13 settembre 2020. Il segreto viene svelato dal fischio intermittente del metal detector, e dal braccio meccanico che scava tra sassi, terra e arbusti fino a scoprire una lastra di ferro diventata ruggine. Dalle viscere di un bosco nell’alto Lazio, nel cuore della Sabina, riemergono frammenti di storia del terrorismo italiano: documenti e volantini delle Brigate rosse, mangiati dal tempo e dall’umidità; munizioni e proiettili per pistole e mitragliatori; indumenti militari e giubbotti antiproiettile, targhe, timbri e altri reperti di difficile identificazione perché troppo deteriorati. È un deposito clandestino dell’organizzazione che più ha imperversato negli «anni di piombo», interrato da qualche militante quando ancora i brigatisti tentavano «l’attacco al cuore dello Stato»; i documenti leggibili si fermano al 1977, prima del sequestro e dell’omicidio di Aldo Moro. Sono resti della lotta armata che ha insanguinato l’Italia nel secolo scorso, spuntati dal sottosuolo com’è accaduto in passato con i residuati bellici della Seconda guerra mondiale, o le armi dei partigiani durante e dopo la Resistenza. La polizia li ha trovati dopo aver ricevuto una segnalazione e cercato per quasi due giorni, riportando alla luce il materiale probabilmente spostato da qualche covo brigatista nelle vicinanze e occultato per essere recuperato a tempo debito. Ma quel tempo non è mai arrivato, e dopo più di quarant’anni era ancora lì, forse dimenticato pure da chi ce l’aveva nascosto; calpestato nel corso dei decenni da ignari cacciatori di animali e cercatori di funghi, amanti del trekking, villeggianti e abitanti del borgo antico di Poggio Catino e dintorni, durante le loro passeggiate in questa selva di querce.
Digos in azione. I segnali delle apparecchiature e la perlustrazione palmo a palmo, con l’aiuto di una ruspa dei Vigili del fuoco e dei cani delle unità cinofile, hanno condotto gli investigatori della Digos di Roma ad aprire due pozzetti rivestiti di eternit, in altrettante radure in mezzo alle querce, distanti venti metri l’uno dall’altro. Nel primo, custoditi in una busta di plastica, c’erano i documenti cartacei firmati con il simbolo della stella brigatista a cinque punte chiusa nel cerchio: uno scritto nel dicembre ’75 dai «compagni militanti detenuti» nel carcere di Torino; uno del comitato rivoluzionario toscano in data 2 giugno ’77, quando le Br spararono alle gambe di Indro Montanelli e altri nella campagna contro «i giornalisti di regime»; una scheda informativa sul leader democristiano Antonio Bisaglia, completa dell’indirizzo della casa di Rovigo «dove abita con la sorella», il nome dell’autista, i passaggi della sua carriera politica e gli incarichi ricoperti a partire dal 1954; uno schema intitolato «attuale organigramma del potere», che parte dal presidente del Consiglio e arriva al generale Carlo Alberto dalla Chiesa, all’epoca responsabile della sicurezza nelle carceri, passando per la magistratura. Molti fogli sono illeggibili o attaccati uno all’altro, e servirà il lavoro della Polizia scientifica per provare a separarli e vedere se ancora si può decifrare qualcosa tra ritagli di giornali e pubblicazioni di altro tipo. Assieme al calco in legno di una chiave, per aprire chissà quale porta.
Munizioni e artificieri. Dalla stessa buca, in mezzo all’acqua infiltratasi nel sottosuolo durante gli anni, saltano fuori varie scatole con centinaia di proiettili per armi lunghe, ossidati e arrugginiti, e involucri sigillati con lo scotch da pacchi. Per capire che cosa ci fosse dentro sono arrivati gli artificieri, che hanno analizzato il contenuto ai raggi X, riconosciuto altre cartucce e aperto i pacchetti. Si tratta di proiettili per pistole e fucili, calibro 7,65 e 308, conservati un po’ meglio grazie alla maggiore cura di chi li aveva riposti. Tra i brandelli di una borsa di cuoio, forse da postino, ecco un timbro della motorizzazione civile, vecchi punzonatori per documenti, buste di plastica con altri reperti di difficile interpretazione. Nessuna arma, così come nell’altro pozzetto dissotterrato poco più avanti. Se nel primo il metal detector suonava a causa delle cartucce, qui è per via di una targa svizzera del Canton Ticino, risalente a chissà quando e finita chissà come nelle mani dei brigatisti. Era dentro un bidone con i resti di alcune divise: si distinguono una camicia militare, una tuta da benzinaio con il logo della «Fina», il nero della stoffa forse delle uniformi dei carabinieri (separato c’è anche un fregio con il simbolo dell’Arma), un giubbotto antiproiettile con placche da infilare negli appositi spazi, per proteggere i punti vitali.
Il vecchio covo. Tutto il materiale è stato repertato dagli agenti della polizia scientifica, per essere analizzato capo per capo, alla ricerca di tracce e indizi che possano far risalire con maggiore precisione all’epoca dell’interramento e magari ai brigatisti che all’epoca crearono e riempirono i nascondigli. In questa zona — a Vescovio, quindici chilometri più a nord — nel 1979 venne scoperto un covo delle Br con pistole, mitra, munizioni, documenti e materiale per la prigione di un ostaggio. Chissà se questi due nascondigli, presumibilmente inviolati per oltre quarant’anni, sono collegati a quella base brigatista; e chissà se e quanti altri depositi nascosti dai terroristi sono ancora interrati, da queste parti e altrove. La ruspa dei pompieri e gli uomini della Digos hanno continuato a scavare ancora, in altri tratti limitrofi, ma senza successo. Le ricerche sono finite, l’indagine per provare a svelare il mistero su questi residuati da guerriglia urbana va avanti.
Br, il deposito segreto riemerge dal boschetto con divise e proiettili. Il deposito delle Br è stato scoperto grazie ad una segnalazione in un bosco nell’alto Lazio. All’interno armi e documenti per la "guerra" allo Stato. Gabriele Laganà, Domenica 13/09/2020 su Il Giornale. Erano così ben nascosti sotto terra che per oltre 40 anni nessuno li ha mai rinvenuti. Di tempo ne è passato: chi conosceva l’ubicazione del nascondiglio non li ha più recuperati. Ma oggi sono stati riportati alla luce grazie ad una segnalazione. Non sono oggetti comuni né un tesoro sepolto da banditi bensì armi, documenti e altro materiale in possesso delle Br, le Brigate rosse, negli "anni di piombo". Strumenti che servivano per "l’attacco al cuore dello Stato". Non si sa se siano mai stati utilizzati. Quel che è certo è che il ritrovamento fa ritornare alla mente il periodo più buio della storia recente italiana. Un periodo segnato da una violenza folle condotta dagli estremisti di sinistra e vergato dal sangue di innocenti. Come racconta il Corriere della Sera, il deposito clandestino della spietata organizzazione terroristica è stato scoperto in un bosco di Poggio Catino nell’alto Lazio, nel cuore della Sabina. Un luogo tranquillo dove la natura è la sola protagonista. Eppure qui, tra sassi, terra e arbusti ecco quei frammenti di storia italiana che hanno segnato, nel male, un’epoca. Munizioni e proiettili per pistole e mitragliatori, indumenti militari e giubbotti antiproiettile, targhe, timbri e altri reperti di difficile identificazione perché troppo deteriorati. I documenti leggibili si fermano al 1977. Una sorta di capsula del tempo che contiene oggetti usati, o conservati per essere adoperati, da criminali per la loro guerra allo Stato in nome della "stella rossa". La polizia li ha trovati dopo aver ricevuto una segnalazione. Nonostante l’indicazione, alle forze dell’ordine sono serviti quasi due giorni per individuare il punto esatto dove erano interrati. Nella caccia sono stati impegnati anche i Vigili del fuoco e i cani delle unità cinofile. Poi ecco che gli investigatori della Digos di Roma sono riusciti ad aprire due pozzetti rivestiti di eternit, in altrettante radure in mezzo alle querce, distanti venti metri l’uno dall’altro. Nel primo c’erano alcuni documenti cartacei firmati con il simbolo delle Br tra cui uno scritto nel dicembre ’75 dai "compagni militanti detenuti" nel carcere di Torino. Un altro testo era del comitato rivoluzionario toscano in data 2 giugno ’77 (quando i terroristi spararono alle gambe di Indro Montanelli e altri nella campagna contro "i giornalisti di regime"). Inoltre vi erano una scheda informativa con informazioni dettagliate sulla vita privata e pubblica del leader democristiano Antonio Bisaglia, uno schema intitolato "attuale organigramma del potere" che parte dal presidente del Consiglio e arriva al generale Carlo Alberto dalla Chiesa, all’epoca responsabile della sicurezza nelle carceri, passando per la magistratura. Molti fogli sono illeggibili. Ma non tutto è perduto. Ora tocca alla Polizia scientifica cercare di individuare qualche altra informazione utile. Poi ci sono le armi. Ecco che dalla stessa buca spuntano diverse scatole con centinaia di proiettili per armi lunghe e involucri sigillati con lo scotch da pacchi. Per capire cosa contenessero sono arrivati gli artificieri che hanno analizzato il contenuto ai raggi X: al loro interno proiettili per pistole e fucili, calibro 7,65 e 308 in uno stato di conservazione leggermente migliore rispetto al resto dell’altro materiale. Dal deposito clandestino sono spuntati anche un timbro della motorizzazione civile, vecchi punzonatori per documenti, buste di plastica con altri reperti mal conservati. Con sorpresa è stata rinvenuta anche una targa svizzera del Canton Ticino: si trovava dentro un bidone con i resti di alcune divise tra cui una camicia militare, una tuta da benzinaio con il logo della "Fina", il nero della stoffa forse delle uniformi dei carabinieri, un fregio con il simbolo dell’Arma, un giubbotto antiproiettile. Ciò fa supporre un buon grado di preparazione dei terroristi. Tutto il materiale è stato repertato dagli agenti della polizia scientifica allo scopo di essere analizzato successivamente. Non va dimenticato che nel 1979 a Vescovio, quindici chilometri più a nord dal luogo di questo ritrovamento, venne scoperto un covo delle Br con pistole, mitra, munizioni, documenti e materiale per la prigione di un ostaggio. Probabile che sparsi in altre zone d’Italia ci siano altri depositi usati dalle Br per nascondere armi e altri strumenti utili per la loro guerra. Al momento non si sa se esiste un collegamento tra questo nascondiglio e quello rinvenuto nella zona a fine anni '70. Forse anche su questo si concentrerà il lavoro degli investigatori. L’odio rosso ha macchiato la terra di sangue innocente ma, per fortuna, non ha trionfato.
Caso Moro, non dimentichiamo cosa (non) fece Berlinguer. Fabrizio Cicchitto su Il Riformista il 30 Giugno 2020. Sul Corriere della Sera del 20 giugno è comparsa un’intervista di Walter Veltroni a Claudio Signorile sul tentativo socialista di salvare Moro facendo compiere allo Stato “atti autonomi” che mettessero le Br in una condizione di difficoltà politica nell’eseguire la condanna a morte che esse avevano proclamato. L’intervista è molto bella per merito di entrambi, dell’intervistatore e dell’intervistato, e rompe un singolare silenzio dei media che aveva circondato l’azione socialista sulla trattativa. In seguito al valore positivo dell’intervista, interloquiamo con alcune affermazioni fatte da Signorile. Il dato di fondo che Signorile e Veltroni non affrontano è il seguente: Aldo Moro non era uno dei tanti dirigenti della Dc. Aldo Moro, dopo De Gasperi, è stato il più significativo esponente della Dc che ha guidato quel partito a fare unitariamente le sue due scelte politiche più importanti dopo quella centrista, cioè prima il centro-sinistra e poi la strategia dell’attenzione nei confronti del Pci con i governi Andreotti di unità nazionale. A un leader politico di quella caratura è stato riservato dallo Stato, dal governo, dagli apparati un trattamento inusitato: prima, ma, cosa ancor più grave, anche dopo l’uccisione di Moro, non c’è stato governo italiano che non abbia “trattato” in caso di rapimenti. Anche dopo Moro infatti, fino ai giorni nostri, lo Stato italiano ha sempre “trattato” spesso pagando riscatti. Addirittura, per preservare l’Italia da futuri atti terroristici, abbiamo liberato terroristi palestinesi che già avevano fatto azioni sul nostro territorio. Quello che provocò “la pazzia” di Moro durante la sua prigionia è stata la lucida consapevolezza che nel suo caso questo criterio non veniva seguito, anzi veniva rovesciato. Non a caso più volte nelle sue lettere egli chiese che venisse richiamato in Italia il colonnello Giovannone che aveva in diverse occasioni messo in atto l’opzione trattativista e che aveva rapporti con tutti i gruppi palestinesi che, insieme ai servizi cecoslovacchi (ricordiamo la battuta di Pertini), avevano rapporti con i brigatisti anche perché li rifornivano di armi. Moro, poi, non poteva sapere che dopo il suo assassinio questa linea della trattativa sarebbe stata interamente ripristinata in primo luogo dalla Dc, come dimostrò tutto quello che ha fatto per salvare Cirillo, un assessore regionale campano che faceva parte del sistema di potere di Antonio Gava. Sul piano internazionale, poi, molti Stati non seguono una linea rigida, ma sono molto pragmatici, come la Germania e Israele, a seconda delle circostanze e degli interlocutori. I più ipocriti sono tuttora gli Stati Uniti: negano in linea di principio come Stato qualunque trattativa e pagamento di riscatto, poi aggirano questi proclami attraverso le assicurazioni private e i contractor. Ma come mai a Moro, e solo a lui, è stato riservato questo trattamento? Sia Veltroni che Signorile tendono a evitare il nodo: fondamentale fu l’atteggiamento del Pci. Berlinguer e Pecchioli furono molto chiari in primo luogo con Andreotti presidente del Consiglio e con Zaccagnini e Galloni, segretario e vicesegretario della Dc: al primo accenno di trattativa il governo sarebbe saltato. Quindi Andreotti non ebbe l’atteggiamento notarile che Signorile gli attribuisce: no, Andreotti fu attivo nell’impedire o bloccare sul nascere ogni ipotesi di trattativa. Giustamente Veltroni ricorda che egli intervenne anche per infilare due parole nell’appello che Paolo VI rivolse ai brigatisti e che sostanzialmente lo vanificò: le due parole furono «senza condizioni». Invece Paolo VI, che dai tempi della Fuci negli anni ’30 aveva con Aldo Moro un rapporto profondissimo, fece di tutto per salvarlo e, disperato, morì qualche mese dopo. Quindi Andreotti remò contro raccogliendo in modo totale l’ultimatum di Berlinguer-Pecchioli (un autentico tandem in quella vicenda), mentre Cossiga, ha ragione Signorile, si mosse tenendo conto della posizione americana di cui, giorno per giorno, si faceva latore al ministero dell’Interno quell’inquietante professor Steve Pieczenik, ingaggiato come “esperto”: ma era un esperto o un controllore/supervisore forse dello stesso tipo di quello o di quelli che, sull’altro versante, diede ordini decisivi a Moretti? Come ricorda Signorile anche tutto il contesto internazionale era contro Moro, non per ragioni personali (è noto che a Kissinger Moro stava proprio antipatico), ma per il tipo di operazioni che egli stava portando avanti: l’ingresso del Pci nell’area di governo in un paese come l’Italia che allora (non è il caso attuale) rivestiva una grande importanza sia in Europa sia nel Mediterraneo. È agli atti la presenza alle lezioni di Moro di un singolare studente di nome Sokolov che attirò l’attenzione dello stesso Moro e del caposcorta Leonardi. Perché anche questo avvenne: Moro e Leonardi prima dell’attacco erano molto inquieti perché avvertirono pedinamenti e altro. Ma non ottennero (da Andreotti e da Cossiga) un’auto blindata mentre non possiamo non dire che la scorta era tecnicamente e quantitativamente inadeguata. Non a caso l’idea originaria dei brigatisti era quella di rapire Andreotti, ma dalle loro “inchieste” ricavarono il giudizio che il presidente del Consiglio era “blindato” e che invece il presidente della Dc era vulnerabile. La dottrina della fermezza impostata da Berlinguer-Pecchioli si tradusse nella prassi della sciatteria e dell’inerzia. Clamoroso il caso Gradoli. Prodi aveva avuto dal suo “piattino” (che probabilmente era il corrispettivo dell’autonomia bolognese di Piperno e di Pace) la “dritta” giusta: se le forze dell’ordine fossero allora arrivate a via Gradoli comunque il rapimento di Moro sarebbe finito molto prima, visto che lì alloggiavano Moretti e la Balzarani e di tanto in tanto passava anche la Faranda. Comunque, è chiaro che, dal lancio del documento apocrifo del lago della Duchessa, scesero in campo altri soggetti che interloquivano per loro conto con le Br. Ciò detto, sarei più cauto di Signorile nella descrizione dei rapporti di forza all’interno del Psi che allora erano molto bilanciati: nessuno, né Craxi né Signorile, aveva in tasca una maggioranza certa. Direi piuttosto che a influenzare molto la situazione interna del Psi sia stato il comportamento del Pci e quello che poi, nel 1980, accadde nella Dc. Pesò molto lo schematismo e il settarismo di Berlinguer. Non vorrei scandalizzare Veltroni, ma a mio avviso, paradossalmente, vista la linea politica che Berlinguer portava avanti nei confronti della Dc e del mondo cattolico, proprio lui avrebbe dovuto sostenere la linea scelta da Craxi per salvare Moro. Nel momento di maggiore difficoltà della Dc, Berlinguer avrebbe dovuto darle una sponda, non metterle il coltello alla gola come invece fece e come teorizzò nelle sue lettere Tatò. Berlinguer avrebbe dovuto anche fare i conti con un dato elementare: tutta la sua strategia si fondava sulla persona di Moro. Senza Moro, nella Dc non andava avanti nulla, a maggior ragione in una Dc prima costretta a rinchiudersi nella linea della fermezza, poi scioccata dall’uccisione del suo leader. Lo stesso schematismo fu adottato dal Pci nei confronti del Psi a partire dal comportamento sull’incarico di formare il governo dato a Craxi da Pertini nel 1979. Personalmente ho il ricordo nitido di un incontro che con Signorile avemmo con Barca e Chiaromonte: «proprio perché la Dc si sta esprimendo contro il tentativo di Craxi è auspicabile una vostra apertura che avrebbe l’effetto di migliorare i rapporti fra il PSI e il PCI». Non cavammo un ragno dal buco anche perché Berlinguer su Craxi e su tutti noi aveva gli stessi garbati giudizi espressi da Tatò nei suoi appunti. In effetti proprio Berlinguer scelse di piegare la Dc ad una totale subalternità (ma la Dc non era Galloni) e di marcare il suo giudizio sul Psi guidato da Craxi (una banda di avventurieri della politica). In questo modo Berlinguer diede un contributo decisivo alla determinazione della fase politica successiva, quella del pentapartito e della rottura fra il Psi e il Pc.
Beppe Pisanu: «Per salvare Moro Zaccagnini incontrò Craxi. Come poterono le Br passare inosservate?» Walter Veltroni il 2 luglio 2020 su Il Corriere della Sera. L’ex dc: «Uno Stato democratico più forte avrebbe accettato la trattativa e poi affrontato le Br». Signorile: «Convinsi Fanfani ad aprire alle Br per salvare Moro. Poi accadde qualcosa». L’onorevole Beppe Pisanu è stato, nel 1978, capo della segreteria politica di Benigno Zaccagnini. È quindi un testimone privilegiato di quei mesi di travaglio e dolore vissuti a Piazza del Gesù.
Che ricordo hai dei giorni del rapimento Moro?
«Li ho vissuti come un’unica interminabile giornata scandita da paure, incertezze, tribolazioni e qualche barlume di speranza».
Zaccagnini come attraversò quel periodo?
«Lo visse drammaticamente perché lacerato: da un lato il desiderio di salvare la vita del suo più grande amico, leader politico del suo partito e dall’altro l’esigenza di salvaguardare lo Stato e di rispondere adeguatamente alla sfida sanguinosa delle Brigate rosse. Un fenomeno che oggi forse abbiamo inquadrato dopo tanti anni di analisi e ricerche, ma che allora sembrava militarmente organizzato e capace di portare i suoi attacchi in tutta Italia, persino durante i cinquantacinque giorni. Era una forza sconosciuta, che aveva consensi evidenti nelle fabbriche, nel mondo della cultura, nei giornali...».
Il tuo 16 marzo? Dove eri, come sapesti la notizia?
«Stavo uscendo di casa per andare alla Camera, quando mi raggiunse la telefonata di una mia segretaria che mi diceva confusamente di una aggressione a Moro, che era stato sequestrato, che c’erano dei morti e di andare subito a Palazzo Chigi dove mi attendeva Zaccagnini. La voce era talmente alterata che mi apparve uno scherzo di cattivo gusto, mi sembrava quasi che la segretaria ridesse, invece stava piangendo».
Perché le Br scelsero il 16 marzo?
«Io credo perché eravamo alla consacrazione parlamentare del progetto politico di Aldo Moro ed Enrico Berlinguer».
Tu credevi in quel progetto?
«Sì, ci credevo profondamente. Va ricordato che avevamo, col Pci, approcci diversi. Io ovviamente condividevo quello moroteo, la solidarietà nazionale. Berlinguer sottolineava invece l’importanza del compromesso storico come l’esito della riflessione sulla vicenda cilena di Allende, ed esplicitava un richiamo chiarissimo al primo storico compromesso, che era quello della Costituzione. E quel compromesso aveva affascinato Moro. Lui parlava della Costituente con una nostalgia da innamorato. Ricordava i confronti appassionanti, specialmente sui primi tre articoli, tra Dossetti, lui, La Pira da un lato e dall’altro Togliatti, Marchesi, Lelio Basso, Nilde Iotti. E lo ricordava come un periodo politicamente felice, di grandi architetti che diedero vita, nonostante la durezza estrema dei conflitti politici del tempo, alla bellissima Costituzione italiana».
Hai mai avuto la sensazione che ci fosse la reale possibilità che Moro fosse liberato?
«Più che la sensazione, la speranza. E il momento almeno per me più positivo, fu la lettera di Paolo VI agli uomini delle Brigate rosse. Mi illusi che, avendo ottenuto un’interlocuzione così alta, i brigatisti potessero considerare raggiunti gli scopi politico propagandistici della loro impresa e quindi desistere dall’andare oltre. Però al di fuori di quel momento, no, non ci fu mai nulla di così convincente da far sperare nella sua liberazione».
La prospettiva di Moro e quella di Berlinguer non piacevano né agli americani, né ai sovietici...
«Questo era un dato consolidato. Del resto Berlinguer e Moro avevano ricevuto entrambi pressioni veementi, persino minacce. L’uno da Mosca e l’altro da Washington e da almeno altre due capitali dell’alleanza atlantica. Quella operazione politica faceva saltare a gambe all’aria la logica di Yalta, che aveva retto fino ad allora gli equilibri mondiali. E quindi c’erano interessi fortissimi contro questa operazione: dal punto di vista di Mosca avrebbe accreditato l’eurocomunismo, o meglio l’idea berlingueriana del socialismo nella libertà, affrancando definitivamente da Mosca il più grande partito comunista dell’occidente mentre da parte americana si intravedeva il rischio che i comunisti si avvicinassero pericolosamente ai centri di decisione della Nato».
E da questo punto di vista il lago della Duchessa che segnale era?
«Sulle prime al lago della Duchessa ci credemmo un po’ tutti perché era ritenuto un esito possibile. Almeno noi a piazza del Gesù, altri non so».
E poi?
«E poi si scoprì che era un bluff, ma qui parliamo del senno di poi. Io sto cercando di parlare di quei momenti col senno di allora».
Però poi apparve abbastanza rapidamente che era una manovra...
«Era un’operazione orchestrata. È stata rivendicata come un espediente per stanare le Brigate rosse. Ma è lecito dubitare delle intenzioni e dell’efficacia».
Che impressione ti fa che il comitato che indagava attorno a Cossiga fosse composto per la stragrande maggioranza da iscritti alla P2 e che in quei giorni si aggirasse questo singolare consulente americano che sembrava avere a cuore solo il desiderio di vedere Moro morto?
«La scoperta successiva di questi due elementi a me ha provocato grande inquietudine, sapevo dell’ostilità diffusa che c’era in certi ambienti nei confronti della segreteria Zaccagnini e di Moro. Moro ci aveva trasmesso la percezione chiara che nel Paese c’era una destra profonda, annidata negli angoli bui della società e delle istituzioni, contraria ad ogni forma di rinnovamento e pronta ad intervenire con ogni mezzo. Cossiga era un amico di Moro e non aveva nulla da spartire con quel mondo. Certamente fece degli errori e fu lui il primo a riconoscerli quando si dimise da ministro dell’Interno e assumendosi la responsabilità politica di errori e limiti non suoi come quelli degli apparati di sicurezza. Ma da qui a gettare ombre sulla sua rettitudine, ne corre. E ben lo seppero i grandi elettori che, sette anni dopo, lo elessero presidente della Repubblica alla prima votazione».
Le lettere di Moro, fin dall’inizio, vengono fatte passare come totalmente estorte. Invece a leggerle c’è tutto il filo del modo di ragionare, della visione del mondo di Moro. Perché fu fatta questa operazione di cordone, di muro attorno a quelle lettere?
«Parlando sempre col senno di allora, noi avemmo la sensazione che fosse in corso un’azione subdola volta a screditare l’immagine morale e politica di Aldo Moro. Poi la rilettura critica fatta in sedi storiografiche degne di rispetto ha dimostrato che questa operazione le Brigate rosse la fecero veramente, mentendo ripetutamente a Moro e revisionando anche i testi. Questa era allora la nostra preoccupazione. Ma oggi penso che tra i disorientamenti di quei giorni, questo sia stato uno dei più dolorosi. Perché in realtà Moro, a parte i condizionamenti delle Brigate rosse, stava facendo vivere esattamente le idee che aveva sempre sostenuto sul primato della persona umana e sul suo irrinunziabile valore».
C’è una frase nelle lettere di Moro che mi ha molto colpito. In una delle lettere non consegnate e poi ritrovate a Monte Nevoso, ad un certo punto lui dice, te la cito testualmente: «Spero che l’ottimo Giacovazzo si sia inteso con Giunchi». E chi sono Giacovazzo e Giunchi? Erano i due medici che lui si era portato in America e che lo curarono dopo che lui ebbe quel drammatico incontro con Kissinger. Quindi è come se lui stesse dicendo alla moglie che quella era una chiave. È un’interpretazione corretta la mia?
«Non so se è corretta, però è degna di ascolto. I due non si intendevano. Kissinger manifestava rudemente l’insofferenza per Moro. E Moro lo considerava un maleducato. E per uno come lui, che era sempre sorvegliato e gentile, a me suona come un giudizio severissimo».
Lui ti raccontò mai quell’incontro?
«No. Però ne ho sentito parlare dai suoi stretti collaboratori. Corrado Guerzoni ha lasciato testimonianze scritte inequivocabili. Furono incontri duri, dai quali Moro uscì provato, soprattutto quello del G7 di Santo Domingo quando non solo gli americani, ma gli europei, soprattutto i tedeschi, gli fecero capire chiaramente che, con la solidarietà nazionale, sarebbe venuto meno il sostegno dell’Europa all’economia italiana. Il Paese era in gravissime difficoltà: il Pil a meno 4, l’inflazione che marciava verso il 20%, le strade insanguinate dal terrorismo. Gli fecero capire che gli aiuti sarebbero arrivati solo se lui avesse desistito dal progetto politico che stava coltivando. E Moro fu talmente impressionato che esortò i suoi collaboratori a far sapere che stava pensando seriamente di lasciare la politica».
Tu credi alla versione delle Br sull’assassinio di Moro in quel garage di via Montalcini?
«Io credo molto poco a tutto quello che hanno detto i brigatisti rossi. Ho sempre avuto, e ho ancora, l’impressione che abbiano concordato tra di loro una versione comune dell’intera vicenda tacendo più spesso e altre volte mentendo, ma dopo aver concordato silenzi e menzogne anche con loro referenti esterni».
Che quindi esistevano?
«Mi sovviene qui la mia esperienza politica complessiva. Come fa un fenomeno come quello delle Brigate rosse a passare inosservato agli occhi di Servizi segreti oculatissimi e presenti in Italia massicciamente fin dagli inizi della guerra fredda? Non ho nessun elemento concreto per accampare sospetti, penso però che non sia casuale il fatto che terroristi italiani potessero tranquillamente viaggiare da Roma a Parigi, da Parigi al Nordafrica e dal Nordafrica magari in Nicaragua. E che dire di quell’opaca dottrina Mitterrand che consentì a pluriassassini di passare tranquillamente per esuli politici in Francia? Come si fa ad ignorare tutte queste cose? Ripeto io non ho nessun elemento, ma proprio nessuno, per affermare, tanto per essere espliciti, che le Brigate rosse siano state pilotate dall’estero, però mi sembra molto difficile che non avessero collegamenti esterni. E mi spiego perfettamente il fatto che di questo si siano guardati bene dal parlare».
Moretti chiama casa Moro pochi giorni prima dell’assassinio e dice che per evitarlo è necessaria una posizione chiarificatrice di Zaccagnini. Quale fu la su reazione?
«Non si capiva in che cosa doveva consistere la posizione chiarificatrice, c’era molta vaghezza. Quando il Partito Socialista ruppe il fronte della fermezza emerse l’idea che era possibile una qualche forma di trattativa con le Brigate rosse. Quello che ricordo bene è che il 26 aprile Zaccagnini, nonostante i pareri dei capigruppo dc Piccoli e Bartolomei e di altri amici, decise di andare lui da Craxi per chiedergli che cosa esattamente si potesse proporre. Fu piuttosto deluso: Craxi ipotizzò solo la possibilità di concedere la grazia a tre terroristi che non si fossero macchiati le mani di sangue. Questo passo di Zaccagnini suscitò anche critiche da altre parti politiche, dal Partito repubblicano al Partito comunista, che temettero un’intesa tra Craxi e Zaccagnini. Era un tempo di sospetti politici che avvelenavano la ricerca di una soluzione: mentre Pci e Pri temevano una convergenza tra Dc e Psi in casa socialista si temeva invece che l’intesa sulla linea della fermezza tra Zaccagnini e Berlinguer potesse stringersi come una morsa politica sul Partito socialista italiano. Ci furono istanze umanitarie ed esigenze politiche che si intrecciarono ovviamente, talvolta però anche con giochi di più modesta portata».
Come si muoveva in questo labirinto un galantuomo come Zaccagnini?
«In questo intreccio di istanze politiche e umanitarie Zaccagnini tenne una linea rigorosa nel senso che umanamente pensò non bisognasse lasciare nulla di intentato — uso un’espressione che lui dettò a me personalmente — per restituire Aldo Moro alla famiglia e al suo partito. E al tempo stesso si attenne lealmente alle intese che si raggiunsero sulla linea della fermezza nella convinzione politica profonda che non ci fosse alternativa a questa linea. Siamo chiari: l’apertura di una qualche trattativa da parte della Dc avrebbe provocato la caduta immediata del governo e il probabile collasso delle istituzioni già fortemente debilitate. Lasciami aggiungere col senno di poi che uno stato democratico più forte e con una più solida maggioranza parlamentare forse avrebbe accettato la trattativa per la liberazione di Moro e poi avrebbe regolato a suo modo i conti con le Br».
È vero che Leone era disponibile a firmare?
«Per quel che mi risulta al ministero di Grazia e Giustizia si stava studiando il modo di formulare una proposta di grazia senza che ci fosse la richiesta. Si ipotizzava infatti un gesto unilaterale dello Stato, non conseguente ad una trattativa. Si cercò anche di individuare dei brigatisti detenuti che fossero in cattive condizioni di salute. Ed è vero che Leone disse “Ho la penna in mano”».
E la Dc era d’accordo su questo?
«Si lavorò a questa ipotesi ma non fu mai definita perché si percepiva che in tutto questo gran parlare di possibilità di salvezza di Moro, non c’era nulla di concreto. C’erano le sollecitazioni che arrivavano dalle Br e poi le notizie che di rimbalzo giungevano dal Partito Socialista che sembrava avere una sua linea di comunicazione con i brigatisti. Abbiamo appreso dopo che faceva capo a Pace e Piperno. Solo fumi, niente che ci potesse far immaginare a quale gesto avrebbe corrisposto davvero la liberazione di Moro».
Quella di Signorile sull’intenzione di Fanfani di prendere posizione nella riunione della direzione dc del 9 maggio è una ricostruzione che ti convince?
«Non ne sapevo nulla allora e non vorrei far polemiche adesso. Non so cosa Fanfani avrebbe detto in Direzione. La riunione si fece, ma purtroppo fu interrotta perché arrivò la notizia. Arrivò a me. Mi chiamarono al telefono e mi comunicarono che avevano trovato la Renault rossa a via Caetani. Rientrai subito nella sala della Direzione e balbettai qualcosa all’orecchio di Zaccagnini. (A questo punto Pisanu si ferma, commosso). Lui si alzò, pronunziò poche parole. Si fece silenzio e la riunione finì. Sono comunque certo che se Fanfani avesse indicato una via praticabile Zaccagnini lo avrebbe assecondato. Di questo ho la certezza morale».
Voi sapevate che Fanfani stava per fare un discorso di questo tipo?
«No, io almeno non lo sapevo. Può darsi lo sapesse Zaccagnini però negli anni successivi non me ne ha mai parlato. Per la verità era diventato difficilissimo parlare di quelle vicende tra di noi, perché la ferita faceva male davvero. In molti rimanemmo feriti, ma Zaccagnini fu ferito a morte».
Perché la sinistra Dc perde il Congresso dell’80?
«Essenzialmente perché non c’era più Moro. Noi morotei eravamo esattamente l’8,5 per cento della Dc, la corrente più piccola del Partito. Ma Moro era l’equilibratore supremo della vita interna della Democrazia cristiana. Con la sua morte noi zaccagniniani e anche le altre sinistre interne perdemmo la guida vera. La segreteria Zaccagnini era stata una geniale invenzione di Moro, con l’accordo di Fanfani. E tutta l’esperienza di Zaccagnini, fino a via Caetani, fu ispirata dal pensiero di Moro. Zaccagnini era il capo del popolo democristiano, Moro era il leader più prestigioso e aveva già lasciato segni indelebili lungo i primi trent’anni della storia repubblicana. Dalla costituente alla ricostruzione, dal centrismo al centrosinistra e infine alla solidarietà nazionale, Moro fu sempre, all’interno della Dc e nei rapporti con gli altri partiti, l’uomo del dialogo e del confronto. Ma innanzitutto fu un cattolico di profonda fede con un senso alto della laicità della politica e dello Stato. Era stato capace di far evolvere, Dio solo sa con quali resistenze, la politica italiana verso la prospettiva di una democrazia dell’alternanza. Per questo ha pagato. Nessuno può dimenticarlo».
È vero che nel 2006, quando il risultato delle elezioni era incerto, fosti sollecitato, come ministro dell’Interno, a dichiararle non valide?
«Diciamo che ci furono chiacchiere molto confuse da parte di gente che non sapeva che il ministro dell’Interno non aveva alcun potere per interferire sulle procedure elettorali, perché i risultati delle elezioni si proclamano soltanto nelle apposite sezioni delle Corti d’Appello. Non a caso il nostro ordinamento affida alla magistratura e non al ministero dell’Interno la gestione dei processi elettorali. Ci mancherebbe altro, se fosse così saremmo in una dittatura».
Ti chiedo infine di ricordare un momento vissuto con Zaccagnini.
«Un giorno gli chiesi perché mai nel testo di un discorso che doveva di lì a poco pronunciare avesse cancellato per tre volte la parola disoccupazione e l’avesse sostituita con la parola disoccupati. Mi rispose: “Perché disoccupazione evoca astrattamente una questione sociale, mentre disoccupati evoca un padre di famiglia che una sera torna a casa e dice a moglie e figli “ ho perso il posto di lavoro, da domani dobbiamo stringere la cinghia, finché non ne trovo un altro”. Era l’umanità della politica. Era Zaccagnini».
Claudio Signorile: «Convinsi Fanfani ad aprire alle Br per salvare Moro. Poi accadde qualcosa». Walter Veltroni il 20 giugno 2020 su Il Corriere della Sera. La ricostruzione dell’ex socialista: «Cossiga mi chiamò nel suo ufficio e poco dopo fu informato del ritrovamento del corpo. Mi sono chiesto perché io fossi lì, dei sospetti li ho». Claudio Signorile era, nel tempo del rapimento Moro, vicesegretario del Psi. È stato tra i più impegnati nella ricerca di una soluzione politica che salvasse la vita del presidente della Dc. Per questo incontrò più volte esponenti dell’autonomia romana. Qui racconta la sua convinzione, maturata negli anni. Qualcuno ha accelerato la fine di Moro perché consapevole che la mattina del 9 maggio, alla direzione Dc, Amintore Fanfani avrebbe fatto quell’apertura che le Br, in una telefonata di Moretti alla famiglia Moro, avevano richiesto come condizione per non eseguire l’assassinio dello statista. Signorile aveva convinto nei giorni precedenti Fanfani ed altri esponenti Dc a fare un passo. Con lui torniamo a quelle ore. «Quella che avevamo concordato non sarebbe stata una posizione isolata di Fanfani. Altri, come Donat Cattin, Bisaglia, Emo Danesi mi avevano garantito che avrebbero sostenuto quella linea. Ciò avrebbe prodotto una modifica degli orientamenti precedenti e avrebbe messo le Br in una condizione di difficoltà. E insieme un segno di attenzione per quello che stavano facendo i socialisti. Sarebbe stata una riunione importante, molto importante».
Chi avrebbe potuto sostenere la linea di Fanfani?
«I dorotei non erano amici di Moro, però Bisaglia era amico di un rapporto con i socialisti: in politica si intrecciano le convergenze più complesse. Un comportamento ispirato ad una preoccupazione umanitaria corrispondeva anche, in quel momento, ad una logica politica».
L’impressione che tu avesti dai colloqui con Piperno e Pace fu che questa posizione di Fanfani sarebbe stata sufficiente?
«In quel momento ero convinto di sì. Perché ti dico in quel momento? Perché in questi anni mi sono convinto che Piperno pensasse di sapere delle cose che probabilmente non sapeva. Cosa voglio dire? Che forse il tavolo sul quale si stavano giocando le carte era cambiato. Ecco perché io insisto molto sugli ultimi giorni del rapimento. Dopo il lago della Duchessa io comincio ad avere non dei dubbi sulla buona fede di Piperno che si comportò correttamente, ma sulla reale capacità di orientamento delle decisioni da parte del gruppo cosiddetto politico. Per questo è sbagliato, nel ricostruire le cose, affidare tutto al rapporto nostro con Piperno e Pace. Perché molto probabilmente già allora si era stabilito un intreccio fra il sistema dei Servizi e la realtà del brigatismo».
Stai dicendo una cosa importante...
«Faccio una riflessione: nell’estremismo italiano, all’inizio, noi abbiamo due componenti: il braccio armato delle Brigate rosse al cui interno c’è anche una dialettica e poi Autonomia operaia, Potere operaio, cioè le formazioni politiche. Ad un certo punto, prima del rapimento Moro, avviene una rottura. Autonomia operaia, Potere operaio o comunque il gruppo che si forma, di cui Piperno è uno dei portatori, ha una visione, un obiettivo politico, eversivo ma politico, mentre il braccio armato, le Br, coloro che scelgono la lotta armata, hanno bisogno di un alleato che sia in condizioni di dare loro armi e denaro. È quasi fatale, è una verità storica. Non mi metto neanche a discuterne, è fatale».
Quali Servizi?
«Lo dico per l’esperienza diretta di quegli anni. L’Italia era nel cuore di un sistema di Servizi che l’un l’altro si controllavano, si intersecavano, si combattevano. Ma era un sistema. L’Italia è troppo importante strategicamente. Lo è per il suo essere un Paese Nato, per la sua collocazione nel Mediterraneo, per la presenza di un partito comunista al trenta per cento. Io credo che già nel momento dell’organizzazione del rapimento ci sia stata una forma di sostegno, o di aiuto. Tutta la vicenda dei cinquantacinque giorni va letta con un doppio riferimento: i brigatisti che direttamente, fisicamente, compiono l’operazione — anche con una dialettica interna tra la componente più politica e quella militare — e le forze internazionali intenzionate ad assicurare una determinata evoluzione di quel passaggio storico. Quando avviene il depistaggio della Duchessa è chiaro che quel Sistema sta dando un segnale. È il segnale che è cambiata la gestione. L’ho pensato e poi mi è stato confermato. Un cambio di gestione. Da quel momento tutto scivola rapidamente verso l’assassinio».
E tu cosa fai?
«Cosa potevo fare? Vado avanti. Ho convinto Fanfani a fare il passo. Pensavo, forse ingenuamente, che avessimo, comunque, a che fare con un soggetto politico. Le Br avevano chiesto esplicitamente un gesto chiarificatore della Dc e quello si stava per determinare. Loro potevano anche pensare che comunque l’obiettivo fosse stato raggiunto. Dare un colpo alla solidarietà nazionale, ricevere una legittimazione e delegittimare Moro che, anche libero, sarebbe stato politicamente finito. Ma questo era un atteggiamento politico, invece scattarono altre logiche e altri interessi. In quelle ore pensavo ancora che una posizione della Dc, dopo la telefonata di Moretti a casa Moro, non poteva essere ignorata. Bisognava stringere i tempi. Io continuo a ritenere di essere stato intercettato, quando chiamai Craxi dal telefonino della macchina per raccontargli dell’incontro con Fanfani. Tutti noi eravamo seguiti e ascoltati. Forse, sapere che la Dc si stava muovendo, ha spinto chi lo voleva morto a stringere i tempi. È il grande quesito che mi porto dentro. Dopodiché qualcuno ha sparato».
Che idea ti sei fatto sulle ricostruzioni dell’assassinio in via Montalcini?
«Te lo dico onestamente, qualsiasi ricostruzione io abbia visto fino adesso non riesce ad essere convincente. La ricostruzione fatta dai brigatisti non convince, non è palesemente vera, risulta da tante cose. Ci può essere stato un intervento terzo».
Craxi ad un certo punto dice «È venuto qualcuno da fuori»...
«Un intervento terzo. Se sono vere le cose che ti sto dicendo, perché no? Si ha a che fare con figure tipo Moretti che sono assolutamente subalterne, borderline, forse anche più di borderline. È una situazione in cui i Servizi, diversi, conflittuali ma guardiani dell’equilibrio di Yalta, convergono nella volontà che la vicenda si concluda con la morte di Moro, considerato l’artefice della politica di solidarietà nazionale che nessuno dei due blocchi poteva accettare. Anche se, per esempio tra gli americani, esistevano due posizioni diverse, allora. Più contrario il Dipartimento di Stato, più favorevole, sembra incredibile, la Cia. Io ero andato negli Stati Uniti ad ottobre del ’77. Cerco lì di spiegare le cose: ripeto a tutti una frase apparentemente banale: “Il Partito Comunista Italiano, con Berlinguer, ha preso una posizione importante sulla Nato. Ed è il più grande partito comunista dell’occidente? È un bene o un male che questo avvenga?”. Loro ammettono: “Un bene”. Allora di cosa stiamo parlando?».
Perché secondo te tutti, compreso Maccari in punto di morte, sono rimasti su quella posizione? Cioè perché non c’è mai stata una smagliatura?
«Ti faccio una domanda: perché avrebbero dovuto? Con una smagliatura si riapre tutto. Senza quella smagliatura si chiude tutto. Io preferisco morire non lasciando strascichi dietro di me. Messa così si capisce meglio. Tutto si è chiuso, come una porta blindata. Oggi chi vuole la verità?».
Perché la polizia non ha seguito Piperno e Pace che evidentemente, dopo i colloqui con voi, riferivano a qualcuno il contenuto?
«Perché aveva avuto indicazione di non farlo».
Da Cossiga?
«Da chi poteva dargli queste indicazioni. Non lo so, quindi non mi permetto di fare illazioni. Certamente è incredibile che, sapendo che noi avevamo questi incontri, in quei giorni nessuno abbia predisposto pedinamenti... Eravamo sotto uno stretto controllo. Pensa che allora ci davano una pistola per difenderci...».
Rino Formica mi ha detto che «non è vero che non avessimo avvertito, Cossiga e Leone erano informati».
«Leone sì, con Cossiga non avevo un rapporto allora. Non gli parlai mai di queste cose perché non mi fidavo di lui. Leone, per aver dimostrato disponibilità a cercare strade per la liberazione di Moro, ha pagato un prezzo altissimo».
Parlami di Cossiga e Andreotti in questa vicenda. Andreotti sembra sempre defilato...
«È garante dello statu quo, non è defilato. Se si creano le condizioni per la liberazione di Moro lui non le ostacola, ma non fa niente per produrle».
Mette mano all’appello di Paolo VI per chiudere ogni spiraglio...
«Lui è presidente del Consiglio di un governo che non può andare in Parlamento perché non ha maggioranza parlamentare. Andreotti era leale verso gli alleati. In tutta la vicenda non fa nulla in favore di una soluzione. Non facilita, non ostacola. La posizione di Cossiga è diversa. Più che allievo di Moro, lui mi sembrava allievo di se stesso. Cossiga ha sempre avuto un rapporto con i Servizi. Forse era naturale che fosse così. Ma in quel periodo avviene un radicale mutamento degli assetti dei Servizi. È un fatto storico che gran parte dei vertici furono inquinati dalla P2. E non ho mai capito l’uso di quel consulente americano che ha sempre dichiarato esplicitamente di avere come unico obiettivo quello di assicurarsi che Moro non uscisse vivo dalla prigione Br. Cossiga in quel periodo sta costruendo il suo futuro politico. Se Andreotti è il garante dello statu quo, Cossiga è il garante del divenire, di quello che si sta preparando».
La morte di Moro è stato un demone che non lo ha mai lasciato, c’era in lui un dolore autentico...
«Era Presidente della Repubblica. Parlando una volta del 1978 mi capita di dire: “Poi bisogna andare a guardare in quelli che sono i santuari, perché esistono”. La mattina dopo arriva una telefonata del capo dello Stato. “Ti voglio dire subito che questa telefonata è intercettata”. Ho risposto: “Francesco è tuo diritto farlo, fallo, cosa c’è?”. “Volevo dirti che queste cose che tu hai detto non corrispondono a verità”. Ho replicato: “Guarda che tu non c’entri, non c’è nessun riferimento a te”. Insomma mi fa capire che lui allora avrebbe potuto tirare fuori delle altre intercettazioni del periodo dei nostri tentativi. Allora io chiudo: “Non pensavo a te, non ho nessuna intenzione di fare reati di lesa maestà nei confronti del Presidente. Quindi finiamola qui”. C’erano delle cose sulle quali lui era reattivo in maniera impressionante. C’è una circostanza che non finisce di turbarmi. Quando mi chiama da lui la mattina dell’assassinio, prima del momento in cui viene trovato Moro, perché lo fa? Io allora ho pensato che volesse commentare ciò che stava per accadere nella Dc quella mattina. Vado lì, ma lui non fa nessun cenno a questa cosa. Allora penso: forse lui ha la notizia che l’hanno liberato o lo stanno liberando. Se no perché mi ha chiamato? Fa in maniera che io sia lì quando si apprende di Via Caetani. Nel suo ufficio c’era una cicalina collegata con il Prefetto e il capo della Polizia. “È stata individuata un’automobile, andiamo a vedere”. Un attimo di silenzio e poi: ”È la nota personalità”. Cossiga diventa bianco, dice: “Mi devo dimettere”. “Devi farlo”, gli dico. Ci abbracciamo, me ne vado. Perché mi ha fatto andare lì quella mattina? Me lo chiedo ancora oggi».
Tu che spiegazione ti sei dato?
«Non me la sono voluta dare. Però il pensiero peggiore è che lui consapevole che la vicenda si stava concludendo volesse un testimone inattaccabile in grado di dare conto della sua sorpresa e del suo sgomento. Devo pensare questo. Non ne ho mai parlato, non ho mai aperto polemiche su questo. Ma Cossiga, in quel tempo, guardava “oltre”».
Quando Craxi parla del grande vecchio a chi si riferisce?
«Non a una persona, a un sistema. È il destino disgraziato di questo Paese di frontiera attraversato dagli interessi pesanti della Guerra fredda. Eravamo in piena Seconda Guerra fredda, alla fine degli anni Settanta. C’è Ustica due anni dopo, e gli euromissili...».
Cosa morì, politicamente, con l’uccisione di Moro?
«C’è stata sempre confusione su questo. La solidarietà nazionale non finisce subito dopo il 9 maggio. Resiste due anni. Perché Berlinguer, che non era un estremista irresponsabile, voleva chiudere il percorso iniziato in quella legislatura. Nel Psi il fatto che io avessi la maggioranza poteva scongiurare l’idea di un governo senza il Pci, suggestione che pure si faceva strada. Berlinguer voleva essere il leader del Pci che completava la legittimazione del suo partito, che apriva la strada alla praticabilità di quella democrazia dell’alternanza che era la sola formula possibile per la governabilità italiana. Non l’alternativa, non la semplice solidarietà nazionale, ma uno schema nel quale Dc e sinistra — che avrebbe regolato all’interno il tema dei rapporti di forza tra socialisti e comunisti — potevano tornare a competere. Un disegno lucido. Era quello di Moro, “la terza fase”. Per questo la storia del rapimento è finita in quel modo. Quel progetto, utile per la democrazia italiana, era incompatibile con gli equilibri della Seconda Guerra fredda».
E la Dc?
«Dc e Pci vanno alle elezioni, nel 1979, pensando che ne uscisse un risultato non dissimile da quello del 1976 e questo consentisse di continuare quel processo politico. Ma non fu così. Persero voti ambedue. A quel punto Berlinguer comincia a cambiare rotta ma, soprattutto, comincia a cambiare rotta Craxi. Io ho ancora la maggioranza nel partito, De Michelis non ha ancora fatto il passaggio con gli autonomisti. Dopo le elezioni c’è l’incarico a Craxi, il primo incarico. L’idea era Craxi presidente con la maggioranza di Moro. Io mi faccio il giro del mondo, visti i precedenti, per convincere. C’è il sì di tutti, meno della Dc. Il Pci non si oppone, forse pensando che la cosa sarebbe morta per l’opposizione democristiana. Nel 1980 il congresso della Dc si apre con la maggioranza di Moro. Nel senso che la relazione di Zaccagnini parla di emergenza senza alternative: voleva dire governo di solidarietà nazionale. La maggioranza sulla carta c’è: Zaccagnini, Andreotti, e i dorotei che portano a casa il segretario del partito, Piccoli. Galloni, che era vicesegretario uscente, convince invece i suoi ad andare da Zaccagnini per dire che la sinistra dopo la morte di Moro non poteva accettare un segretario che non fosse della sinistra, cioè lui. Si sfascia così la maggioranza. I dorotei capiscono l’aria, prendono armi e bagagli e fanno l’accordo con Donat Cattin e con Forlani. La stupidità fu non aver capito, cosa che a me era chiara, che i dorotei erano il punto di interlocuzione. Se il congresso della Dc si fosse chiuso come si era aperto, cioè con la maggioranza Andreotti, Zaccagnini, dorotei, probabilmente parleremmo di un’altra storia nazionale. Poi la domanda vera è: avrebbe retto la Dc senza un leader forte? Fatto sta che nasce, senza il Pci e con l’appoggio esterno del Psi, un governo Cossiga. Il garante dell’avvenire».
In una puntata della bellissima trasmissione di Zavoli «Notte della Repubblica» tu, parlando delle riunioni di quei giorni con la Dc, dici: «Mi fermo perché dovrei raccontare episodi imbarazzanti».
«In quell’incontro tra le due delegazioni, Zaccagnini non aprì bocca, disse solo a Craxi: “Vuoi bere qualcosa? Portate due bottiglie d’acqua”. Tutto qui, in una riunione di sette ore. Disse solo questo perché parlava sempre Galloni. Lui non profferì parola. Era una riunione inutile, nella quale loro si tenevano accuratamente lontani dal problema».
Come interpretasti il loro atteggiamento?
«Non potevano far nulla perché avevano, come priorità, il rapporto col Pci come rapporto dominante. Non rendendosi conto, così dicevo a Bisaglia, “che se i socialisti dicono di no, voi non potete fare niente con il Partito comunista, neanche andare a prendere un caffè. Senza il Psi non potete avere un rapporto con il Pci”».
Faccio a te, in conclusione, la stessa domanda che ho rivolto a Hollande. Il socialismo, egemone in Europa negli anni Novanta, è stato consumato dagli scenari del nuovo millennio?
«No, assolutamente. Abbiamo vissuto una lunga stagione di globalizzazione economica finanziaria in cui il mainstream culturale è stato il neoliberismo. Siamo stati tutti, in qualche modo, vittime o comunque partecipi di questo. Siamo entrati ora in una globalizzazione della sopravvivenza nella quale è il socialismo quasi necessariamente il punto di riferimento culturale ideologico. Quello che è morto è il socialismo classista, antagonista, autoreferenziale. Quello che sta crescendo è invece un socialismo umanitario, comunitario. È la globalizzazione per la sopravvivenza e non per il puro profitto. La globalizzazione comunitaria sul piano sanitario, sociale, ambientale. Un mondo nuovo».
La Cia non si fidava di Dc e Psi e puntò su Berlinguer. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 22 Novembre 2019. Ieri abbiamo raccontato come gli Stati Uniti e gli alleati occidentali fossero inclini a portare i comunisti italiani al governo durante gli anni del Compromesso storico (fallito per la soppressione del contraente e garante Aldo Moro) per due ragioni solide. La prima era incoraggiare lo strappo del Pci da Mosca, iniziato da Enrico Berlinguer con la scelta dell’ombrello della Nato e il riconoscimento della fine della “spinta propulsiva della Rivoluzione d’ottobre”, ma poi rimasto senza una vera conclusione, ciò che impediva agli alleati occidentali di condividere i segreti militari. La seconda era il desiderio di liberarsi di democristiani e socialisti che si erano rivelati infidi o addirittura nemici. Per questo era cominciata una marcia di avvicinamento fra il Dipartimento di Stato e la stessa Central Intelligence Agency, verso il Pci. La nota amicizia e reciproca stima fra Giorgio Napolitano ed Henry Kissinger non sono casuali. E credo che quando Giuliano Ferrara dice di aver lavorato per la Cia, intenda dire di avere aderito a questo progetto, anche se bisognerebbe chiederlo a lui. Nel Partito dunque si era formata e consolidata una forte corrente filoamericana duramente contrastata da quella filosovietica di Armando Cossutta. Ciò che interessava agli Occidentali non era affatto – come sosteneva la propaganda ispirata dall’Urss – imporre governi golpisti, reazionari, padronali e nemici dei sindacati, ma semmai il contrario: la Cia ha sempre perseguito una linea dura antisovietica, ma per quanto possibile riformista e anche apertamente di sinistra purché schierata contro l’Urss. Al Dipartimento di Stato americano interessava aver la certezza che il personale di governo in Italia non andasse a spifferare ai russi segreti di natura militare e strategica. Ciò che invece era accaduto in alcuni casi con il personale specialmente democristiano. Le informazioni che sto cercando di ordinare hanno le loro fonti in alcuni testi fondamentali, ascoltati negli anni della mia presidenza della Commissione bicamerale d’Inchiesta sulle influenze sovietiche in Italia, nel lavoro che ho svolto in quanto appartenente, per molti anni, alla delegazione parlamentare italiana presso la Nato. D’altra parte, il racconto che sto per fare non contiene alcun segreto ma solo molto buon senso e può essere facilmente verificato e confermato con ricerche accessibili. Cominciamo da Michail Gorbaciov. Chi era costui? Era il pupillo, il prescelto e selezionato dall’uomo più intelligente, anche spietato, ma molto ben informato dirigente che l’Unione Sovietica abbia avuto. Stiamo parlando di Yuri Andropov, che fu prima il sovrano direttore del KGB per ben quindici anni, dal 1967 al 1982, anno in cui successe a Leonid Breznev, l’uomo immobile dalle enormi sopracciglia. Andropov vide che la partita fra Urss e Stati Uniti con i loro alleati, era in prospettiva una partita persa. E allevò, come suo successore e uomo di fiducia, Gorbaciov, che aveva un appeal di tipo occidentale per vivacità intellettuale, età e anche per avere una moglie elegante come Raissa che poteva fare bella figura sulla scena internazionale. Poi le cose si svolsero in maniera convulsa e imprevista perché Andropov morì prematuramente il 9 febbraio 1984, troppo presto per consolidare la successione del suo candidato Gorbaciov, sicché le vecchie cariatidi del Cremlino insediarono il più immobilista della loro cerchia, Konstantin Cernienko. Gorbaciov fu costretto a saltare un turno e aspettare la morte di costui per salire sul podio più alto del governo sovietico. Per comprendere la natura della politica militare di quella fase, che riguardò direttamente la politica italiana per la vicenda dei cosiddetti Euromissili, occorre fare un passo indietro, piuttosto lungo. Bisogna cioè risalire all’inizio della Guerra Fredda, quando i Paesi occidentali si erano riuniti nell’Alleanza Atlantica della Nato e quelli dell’Est, sotto stretto comando sovietico, nel Patto di Varsavia da cui si sfilò soltanto la Romania di Ceausescu, che pagò con la vita il suo sgarro in epoca gorbacioviana. Esiste un libro che si chiama A Cardboard Castle? – An inside story of the Warsaw Pact 1955-1991, che nessun editore italiano ha trovato conveniente tradurre e pubblicare. Questo testo, certificato dai documenti originali, lo si può acquistare via Internet e vale quel che costa. Il volume contiene, insieme a due eccellenti saggi, tutti i verbali di tutte le riunioni del Patto di Varsavia, dalla prima – 1955 – all’ultima – 1991 – seduta. Se si ha la pazienza di leggere, si scopre che ogni riunione ripete con alcune varianti, lo stesso schema: le potenze occidentali attaccano proditoriamente il blocco dell’Est che, dopo aver fermato l’aggressione, prontamente contrattacca penetrando nell’Europa occidentale con operazioni velocissime e brutali, e uso di un buon numero di armi atomiche tattiche (cioè relativamente piccole ma capaci di polverizzare una città) per sigillare le coste atlantiche e rendere uno sbarco americano impossibile. Per questo il Patto di Varsavia aveva bisogno di missili “a medio raggio” (cioè non in grado di attraversare l’Atlantico e colpire gli Stati Uniti) ma capaci di mettere a tacere le difese europee. Qualcuno si chiederà a quale scopo l’Urss e i suoi satelliti avrebbero compiuto una tale azione. Sia Gorbaciov che Eltsin hanno fornito la spiegazione, ben illustrata anche dall’intellettuale dissidente russo residente a Londra Vladimir Bukowski, mio caro amico scomparso da poco, che scrisse un magistrale Urss, come l’Unione Sovietica voleva inghiottire l’Europa dopo essere stato internato proprio da Yuri Andropov in un lager in cui i prigionieri venivano mantenuti in stato di sonnolenza perenne. In breve, il programma che Andropov tentò disperatamente di spingere e che poi fallì, prevedeva una conquista fulminea dell’Europa occidentale, Italia compresa naturalmente, in cui sarebbero stati instaurati dei governi fantoccio ma con finte coalizioni precotte con ecologisti, finti socialdemocratici, non troppi comunisti per dare una parvenza “democratica”. I missili SS20 a testata multipla furono installati dai russi nei Balcani e in Italia si scatenò un inferno politico contro l’installazione di missili Cruise e Pershing 2 in Sicilia, capaci di contrastare tali armi. L’installazione cominciò nel 1983 e in Italia, come nei principali Paesi europei, le sinistre e i movimenti pacifisti dimostrarono duramente contro questi missili di risposta. Nella lotta politica che si svolse in Parlamento e sulla stampa, oltre che nelle piazze, il Pci dopo alcuni contorcimenti e qualche dissenso interno, si schierò sulla linea gradita all’Unione Sovietica. Questo causò una frattura molto profonda anche nell’Italian Desk di Washington, dove gli americani avevano sperato a lungo che il Partito comunista italiano seguisse l’indicazione di Berlinguer, che nel frattempo era scomparso, secondo cui ci si sentiva più protetti sotto l’ombrello della Nato. Ma anche con questa frattura, peraltro prevista realisticamente, non furono annullati i rapporti speciali tra la frazione filoamericana del Partito comunista e Washington.
Dagospia il 28 maggio 2020. (estratti dal libro “Moro, il caso, non è chiuso”, LINDAU , 2019, di M.Antonietta Calabrò e Giuseppe Fioroni). La strage di via Fracchia, a Genova, che si svolse in piena notte il 28 marzo del 1980, rappresenta una delle vicende più complesse della storia delle Brigate Rosse e delle azioni che le contrastarono, lasciando molti interrogativi sul reale svolgimento dell’irruzione, divenuto poi un evento cui si riferì simbolicamente la lotta armata, con la costituzione di un gruppo milanese denominato appunto «XXVIII marzo». Fu la Brigata “XXVIII marzo” che uccise l’inviato del «Corriere della Sera», Walter Tobagi, proprio a due mesi dall’irruzione di Genova da parte degli uomini del generale Dalla Chiesa, il 28 maggio 1980. Domani, vent’anni fa. Il «Corriere della Sera», il 2 aprile 1980, negli articoli che illustravano l’irruzione in via Fracchia segnala che sarebbe stata trovata nel covo br una cartellina con un appunto «materiale da decentrare sotto terra». I giornalisti presenti erano Antonio Ferrari inviato a Genova dal direttore Franco Di Bella insieme a Giancarlo Pertegato e Tobagi, appunto, cattolico, socialista, vicino al segretario Bettino Craxi, che ebbe un ruolo nella «trattativa» milanese del segretario del Psi Bettino Craxi, durante il sequestro Moro, emersa solo negli ultimi anni grazie alle indagini della Commissione Moro2 che ha chiuso i battenti nel dicembre 2018. Facendo emergere tanti fatti e circostanze che illuminano gli ultimi anni della vita di Tobagi, e forse, anche della sua morte. Perchè la conoscenza di quegli anni è molto progredita, portando alla luce fatti sorprendenti. Lo dobbiamo alla memoria di Walter, un grande giornalista.
L’impegno di Walter Tobagi per salvare Moro. Umberto Giovine, iscritto al Psi sin da ragazzo, militando nella Federazione milanese, aveva avuto incarichi nell’ambito dell’Internazionale socialista ed era divenuto direttore di «Critica Sociale» alla fine degli anni ’60, ha dichiarato alla Commissione d’inchiesta Moro2 che: l’input per cercare d’intervenire nella vicenda Moro per salvare la vita del sequestrato avvenne qualche giorno dopo il sequestro, a Torino, durante il congresso del Psi. “Ebbi modo di parlare con Walter Tobagi che conoscevo da molti anni e mi disse che secondo lui avrei potuto e dovuto fare qualcosa attraverso «Critica Sociale» visto che lui personalmente, data la sua posizione al «Corriere della Sera» non poteva agire”. Questa attività milanese era speculare ad un’attività con le medesime finalità e medesimi contenuti, una vera trattativa, che era stata avviata a Roma dal segretario Craxi. “Craxi - continua Giovine - in ogni caso poteva contare sull’appoggio e il contributo del generale Dalla Chiesa che era responsabile nazionale delle carceri di massima sicurezza e che in tale veste poteva muoversi anche in modo indipendente e senza specifiche autorizzazioni del Governo. In quelle settimane non ebbi incontri personali con Craxi ma solo colloqui telefonici protetti in quanto lo chiamavo nel ristorante dove andava a pranzo o a cena”.
Il “tesoro” di Genova: tutte le carte di Moro. Massimo Caprara scriverà più volte, in date diverse: «Disse a caldo (dopo l’irruzione nel covo brigatista di via Fracchia, NdA) l’allora procuratore della Repubblica di Genova, Antonio Squadrito: “La verità è che abbiamo trovato un tesoro. Un arsenale di armi… Soprattutto una trentina di cartelle scritte meticolosamente da Aldo Moro alla Dc, al Paese”». I due articoli sono stati pubblicati anni dopo la barbara uccisione di Tobagi, nel numero 1 di «Pagina», del 25 febbraio 1982, e nel periodico «Illustrazione Italiana», n. 32, luglio 1986. La rivelazione di Caprara, ex segretario di Palmiro Togliatti, è precisa e circostanziata. Ma di quelle trenta cartelle «meticolosamente scritte da Aldo Moro», indicate dal magistrato che nel 1980 era al vertice della Procura del capoluogo ligure, non è stata trovata alcuna traccia agli atti del processo. I lavori della Commissione Moro 2 sono partiti da qui. La quantità e l’importanza del materiale sequestrato in via Fracchia si desumono esaminando il verbale di perquisizione e sequestro (acquisito agli atti della Commissione) che reca un impressionante elenco di 753 reperti, che certamente dal punto di vista investigativo poteva essere considerato un «tesoro». Tenuto conto degli interrogativi che sono nati dai parziali ritrovamenti documentali avvenuti nel covo di via Monte Nevoso a Milano (nel 1978 e nel 1990) , la citata esternazione di Squadrito, è apparsa meritevole di serio approfondimento, anche alla luce delle indicazioni sul ruolo che la colonna genovese guidata da Riccardo Dura ha giocato, secondo la Commissione, nel sequestro Moro. Solo agli inizi degli Anni Duemila, sono cominciati ad emergere nuovi fatti. Nell’articolo intitolato “Via Fracchia, ricordi indelebili. Quella donna in giardino, l’uomo con il piccone, pubblicato venerdì 13 febbraio 2004, firmato da Simone Traverso sul Corriere Mercantile, storico quotidiano della città della Lanterna, vengono riportati i ricordi raccolti dalla «gente del civico 12», tra cui quello di «un uomo misterioso, forse Riccardo Dura , che scavava con un piccone nell’erba alta delle aiuole». Testimonianza questa che descrive una caratteristica peculiare del covo: la presenza anche di un giardino di pertinenza, a cui si accedeva dalla cucina e dalla sala da pranzo, e che conduceva alla parte posteriore dell’edificio. «Un giardino che, incredibilmente – annota la Commissione Moro 2 – non trova esplicita menzione negli atti processuali, né viene evidenziato nella ricostruzione della planimetria dell’appartamento». Che sia stato effettuato uno scavo nel giardino pertinenziale è stato confermato ai consulenti della Commissione Moro 2 da Filippo Maffeo, intervenuto sul posto in qualità di pubblico ministero di turno. Il magistrato ha indicato con certezza il particolare che in giardino il terreno appariva smosso da poco tempo, precisando le rilevanti dimensioni dello scavo, corrispondente, a suo avviso, al volume di tre valigie di media grandezza. Uno scavo immediato e verosimilmente mirato non poteva che scaturire dalla disponibilità di indicazioni precise. Quell’operazione dovette durare ore ed ore e terminare, appunto, prima dell’arrivo del magistrato di turno. Anche lo scavo di un’ampia buca nel giardino del covo non fu riferito negli atti giudiziari del 1980, ma è stato esplicitamente rievocato solo il 15 marzo 2017 nel corso delle dichiarazioni a Palazzo San Macuto dal pm Maffeo.
L’agente tedesco nella palazzina di Tobagi, le carte “segrete” di Moro. Umberto Giovine (che ha illustrato da qualche anno il ruolo di Tobagi nella trattativa per Moro) ha anche parlato della opaca vicenda di Volker Weingraber (alias Karl Heinz Goldmann), un agente tedesco occidentale che operò in Italia durante il sequestro Moro.
6 informative del Sisde che lo riguardavano sono state desecretate dall’AISE (l’attuale servizio segreto estero) nel giugno 2017. In particolare, dagli atti del nostro servizio segreto – solo ora resi noti – risulta che Weingraber giunse a Milano nel febbraio 1978 e che si mise in contatto con diverse persone, tra cui il terrorista Oreste Strano e un gruppo che preparava il sequestro di un imprenditore svizzero. L’informativa del 6 novembre 1978 precisava inoltre che «la fonte infiltrata ha avuto contatti con Aldo Bonomi il quale gli avrebbe confermato di essere in grado di procurare armi e documenti falsi per sviluppare attività eversive». La fonte – continua la citazione – «ritiene che Bonomi sia un provocatore e un confidente della Polizia. Sarebbe stato isolato dalle Br perché ha sempre evitato di assumersi compiti rischiosi nell’ambito dell’organizzazione». Ma «la fonte infiltrata» – come risulta da un’altra lettera desecretata del 2 novembre 1990 inviata dall’ammiraglio Martini, capo del Sismi, al capo della Polizia, prefetto Vincenzo Parisi oggi desecretata – altri non era che proprio Weingraber, il quale lavorava in un’operazione congiunta del Sismi e dei servizi segreti tedesco e svizzero. Risulta inoltre che Weingraber – come confermato dal colonnello Giorgio Parisi al giudice Priore il 28 settembre 1990 – entrò in contatto, tramite Strano (che aveva una compagna tedesca), anche con Nadia Mantovani, cioè la persona che aveva avuto l’incarico di battere a macchina il Memoriale Moro, e che prima del suo arresto, a Novara frequentava una radio di sinistra extraparlamentare collegata alla Rote Armee Fraktion. Va pure segnalato che Weingraber alloggiò a partire dal 1978 in Italia nello stesso palazzo dove abitava Tobagi, ucciso il 28 maggio 1980. Ma poi fu lo stesso Strano a denunciare Weingraber pubblicamente come un infiltrato, dopo che al valico del Brennero vennero sequestrati a quattro cittadini tedeschi 800 fogli di documenti: ciò accadde poche settimane prima della seconda scoperta di materiale proveniente dal sequestro Moro nel covo di via Monte Nevoso 8, a Milano, nel novembre 1990”. Moro per sempre, dunque. Il caso non è chiuso!
Aldo Moro e la pietas di Sciascia, medicina contro stalinisti e forcaioli. Filippo La Porta su Il Riformista il 12 Maggio 2020. Il 9 maggio del 1978 veniva trovato il corpo senza vita di Moro nel bagagliaio di una Renault 4 rossa, abbandonata in via Caetani, a conclusione di 55 giorni di prigionia da parte delle Brigate Rosse: uno degli episodi cruciali e più drammatici della storia della nostra Repubblica. Riparliamo di Moro prendendo spunto da un interessante articolo di un blog e da un libro utile e accurato. Nel blog Minima & Moralia Virginia Fattori si occupa di uno dei testi più belli di Leonardo Sciascia, L’affaire Moro, scritto nei giorni del sequestro. Dal punto di vista letterario si tratta di un felice ibrido tra pamphlet, diario in pubblico, reportage, meditazione morale. Un esempio unico di filologia morale, scritto con una lingua riflessiva e acuminata, memore del Manzoni della Colonna infame, dell’esprit volterriano e della prosa labirintica di Borges. Com’è noto Sciascia fu uno dei pochi a difendere la autenticità delle lettere di Moro dal carcere (ben 97), insieme ai familiari, sfidando gli anatemi di Scalfari e Amendola, o la linea ufficiale dei capi democristiani. Certo lettere “condizionate” (dal contesto), ma moralmente e intellettualmente autentiche. A ben vedere tutti i personaggi di Sciascia si progettano come uomini in rivolta, dal capitano Bellodi del Giorno della civetta all’avvocato Di Blasi del (meraviglioso) Consiglio d’Egitto, dall’ispettore Rogas del Contesto fino allo stesso Moro in carcere, e tutti verranno ammazzati. In rivolta contro che? Contro il potere, che proprio sulla morte – limite oscuro dell’esistenza – costruisce il suo spaventevole edificio di bugie e soprusi. Fattori osserva che Sofri, benché schierato dalla parte di quel libro, definisce Sciascia e Moro intellettuali meridionali, dunque disincantati, «poco fiduciosi nell’agire umano contro l’immanenza della realtà». Poi chiosa: eppure «chi potrebbe negare ad Aldo Moro l’assoluta fiducia nel riformismo della sua In Amare il nostro tempo. Appunti sul giovane Moro (Domani d’Italia) Lucio D’Ubaldo, ex senatore della Margherita e nella Dc vicino ai morotei, ricostruisce il pensiero dello statista a partire dalla formazione giovanile, a metà degli anni ‘40: originalità nella lettura della società italiana, tensione costante tra utopia e realismo, riformulazione personale di certi apporti (l’“umanesimo integrale” di Maritain diventa “cristianesimo umano”) e di categorie nate in ambiti diversi (il “postfascismo di Carlo Rosselli”, fondatore del movimento “Giustizia e Libertà”, come radicale riforma, morale e politica, della società italiana), e soprattutto l’idea che la politica “non deve essere una tecnica arida del potere, ma un omaggio reso quotidianamente alla verità e alla bellezza della vita” (enunciata nel 1977, tuttavia impregnata della formazione giovanile di Moro). D’Ubaldo rivela la sua genuina vocazione di storico delle idee, totalmente a suo agio con la ricostruzione della filosofia cattolica che ispira gli orientamenti politici (ad esempio il ruolo di Del Noce e Rodano), ma anche con opere letterarie (sorprendentemente Il giovane Holden di Salinger), con Pasolini, con la teoria critica della società dei francofortesi e dell’epigono Marcuse. Indispensabile la meticolosa ricostruzione dell’atteggiamento dei cattolici e della Dc verso il ‘68, la comprensione delle sue istanze più radicali, il riferimento a un convegno delle Acli del 1967, con la critica della società opulenta che vi fu espressa. Ma non bisogna occultare la vera natura del libro di D’Ubaldo, il suo essere una proposta politica “militante” per l’oggi, un tentativo di rilancio del centrismo, a partire dal crollo della Dc dovuto a immobilismo e perdita di motivazioni ideali, e dal rifluire dei cattolici nell’“universo fluttuante della società civile”, tra volontariato e assistenza. E il centro si rilancia a partire da Moro (al di fuori di qualsiasi mitologia), dal suo appello (nel 1944) alla sensibilità di ogni cattolico, che “non può sopportare di convivere con l’ingiustizia”. Concludo sull’Affaire Moro di Sciascia (purtroppo non citato da D’Ubaldo). Un libro non solo letterariamente sperimentale (virtuosistico montaggio d’autore di materiali giornalistici) ma a suo modo “religioso”, intriso di pietas e conoscenza dell’animo umano, che volle denunciare lo “stalinismo” delle Brigate Rosse e anche del “partito della fermezza” e insieme difendere la dignità offesa di Moro. Sciascia volle mettersi dalla parte di Moro, e poi di Enzo Tortora, dalla parte degli inermi e degli indifesi, di chi ha paura e viene calunniato, in nome della parte di infermità e debolezza che è cristianamente in ogni essere umano.
ALDO MORO, L’ASSASSINIO 42 ANNI FA. “Ma la verità deve ancora venire a galla”. Davide Giancristofaro Alberti su Il Sussidiario il 9.05.2020. Aldo Moro venne ucciso oggi 42 anni fa: era il 9 maggio del 1978 e il suo corpo venne ritrovato in una Renault 4 in via Caetani a Roma. Quattro decadi di misteri, silenzi e omissioni. Il 9 maggio di 42 anni fa, era il 1978, veniva ucciso Aldo Moro, ex numero uno della Dc. Sono passati più di quattro decadi da quella giornata, considerata fra le pagine più buie della storia della Repubblica, ma la verità non è ancora venuta a galla in toto. Molti sono infatti quelli convinti che vi siano ancora diversi aspetti della vicenda da chiarire, a cominciare da Roberto Della Rocca (all’epoca dei fatti, direttore del personale di Fincantieri, oggi numero uno dell’Aiviter, l’Associazione italiana vittime del terrorismo), ferito in un agguato dalle Brigate Rosse due anni dopo la morte di Moro: «La morte di Aldo Moro – le sue parole riportate oggi dall’edizione online de La Stampa – fu uno spartiacque terribile per la lotta al terrorismo. La verità ancora non è dietro l’angolo e sinceramente non so se ci arriveremo mai: è passato troppo tempo, ci sono state cose che sembrano inverosimili. Ma dobbiamo capire, sapere se sia stato un fenomeno endogeno, esclusivamente italiano, o se non sia stato anche un qualcosa che veniva da fuori, in termini di possibili mandanti». (aggiornamento di Davide Giancristofaro)
ALDO MORO, 42 ANNI FA L’ASSASSINIO, IL SEQUESTRO, LA PRIGIONIA DI 55 GG, L’UCCISIONE. Esattamente oggi, 9 maggio, 42 anni fa, era il 1978, moriva Aldo Moro, segretario della Democrazia Cristiana. Venne rapito dalle Brigate Rosse poi ucciso, e il suo corpo venne ritrovato all’interno di una Renault 4 posteggiata in via Caetani a Roma. Fu una delle pagine di cronaca nera più toccanti e segnanti della storia moderna dell’Italia, con Moro che venne assassinato da un commando che l’aveva sequestrato in via Fani, dopo aver sterminato a colpi di mitra la sua scorta. Il sequestro era avvenuto 55 giorni prima, quasi due mesi di prigionia durante i quali l’allora leader della Dc, il partito numero uno in Italia, fu sottoposto ad una sorta di processo, perchè “colpevole”, stando ai brigatisti, di voler “unire” Dc e Pci. Nonostante trattative varie, alla fine non si riuscì ad ottenere la liberazione di Moro, e le Brigate Rosse decisero quindi di giustiziare l’onorevole, provocando una crisi politica senza precedenti. Per ricordare Moro, in Italia è stata istituita una giornata speciale dal 2008, in cui vengono appunto ricordate le vittime del terrorismo.
ALDO MORO, IL MESSAGGIO DI MATTARELLA: “BARBARIE BRIGATISTA GIUNSE ALL’APICE”. «Il 9 maggio è il giorno in cui Aldo Moro venne ucciso – la nota di oggi del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, nel Giorno della memoria per le vittime del terrorismo – la barbarie brigatista giunse allora all’apice dell’aggressione allo Stato democratico. Lo straziante supplizio a cui Moro venne sottoposto resterà una ferita insanabile nella nostra storia democratica. Respinta la minaccia terroristica – ha aggiunto il Capo dello Stato – oggi ancor più sentiamo il dovere di liberare Moro e ogni altra vittima da un ricordo esclusivamente legato alle azioni criminali dei loro assassini». Raffaele Iozzino, fratello di uno degli agenti della scorta di Moro assassinati, ha invece commentato in maniera polemica: «Sono stati scritti libri, si è parlato tanto, eppure la verità è così lontana – afferma all’agenzia Adnkronos – il giorno della sua morte e quello del ritrovamento del corpo di Moro sono gli unici due giorni in cui ci chiamano. Mi piacerebbe che le Istituzioni si ricordassero di noi familiari, non che ci riservassero un canale preferenziale, per carità. All’epoca siamo stati aiutati, oggi ho ancora due ragazzi a casa che con questa crisi non lavorano. Spero si aggiustino le cose, per tutti i ragazzi che qui rischiano di finire in mano alla malavita». Questa mattina, come si evince dal video che trovate più in basso, i Corazzieri dei carabinieri, con rigorosa mascherina, hanno posto una corona di fiori della Presidenza della Repubblica in via Caetani.
ALDO MORO. E la lettera a Craxi che svela il disegno perverso dell’ideologia italiana. Gianluigi Da Rold su Il Sussidiario il 09.05.2020. Il 9 maggio 1978 veniva ritrovato in via Caetani il cadavere di Aldo Moro. La posizione di Craxi non fu strumentale, quella della Dc, sì. La vicenda del delitto Moro, di cui oggi, 9 maggio 2020, ricorre il 42esimo anniversario del tragico epilogo, dell’esecuzione e del ritrovamento del cadavere, rappresenta sempre, nel ricordo che è stato fatto dalla maggioranza della cosiddetta “intelligencija” e dei “detective politicizzati per caso”, uno degli aspetti più perversi di quella che si può definire “ideologia italiana”. Commissioni di inchiesta di durata interminabile e conclusioni tutte approssimative e spesso mescolate ad altre realtà. Deposizioni surreali su presunti “pendolini” che lasciano esterrefatti. Quindi i processi e le rivelazioni improvvise, promosse subito a “verità storiche”, dettagli ripescati qua e là, ma mai, ripetiamo mai, un quadro sufficientemente chiaro e complessivo della ricostruzione dettagliata, delle cause, della ragione autentica, del perché di tutta quella tragedia italiana. Non è ancora ben chiaro, dopo tutti questi anni, in quanti parteciparono all’azione del rapimento e della strage della scorta di Moro il 16 marzo 1978 in via Mario Fani, e neppure chi veramente sparò al leader della Dc, prima che fosse ritrovato sulla Renault rossa in via Caetani il 9 maggio dopo 55 giorni, è stato identificato con sicurezza. Lasciamo poi perdere “le voci e le certezze” sull’appartamento-covo di via Montalcini, lo scambio piuttosto ambiguo tra via Gradoli a Roma e Gradoli paese, con l’escursione di forze dello Stato sul Lago della Duchessa. In questi 42 anni, accanto ai volumi editi, ai discorsi, ai ricordi “volgari” (quello della statua a Maglie dedicata al leader democristiano con l’Unità sotto il braccio, come se fosse un simpatizzante comunista), ci sono state le tesi depistanti confezionate in modo grossolano, quelle ideologiche appena più falsamente raffinate, quelle opportuniste, quelle dettate solo dalle mistificazioni cocciute e ripetute. Tutto questo, in fondo, è il nocciolo vero, appunto, dell’“ideologia italiana”: rimuovere, manipolare, improvvisare, creare dietrologie e tenersi sempre lontani dalla verità. Sembrerà paradossale, ma un passo avanti si è fatto con l’ammissione che furono le Brigate rosse a rapire e uccidere Aldo Moro. Per anni, infatti, famosi giornalisti hanno scritto su giornali importanti le “cosiddette Brigate rosse”, alludendo a manovre di servizi segreti, più o meno deviati. Più avanti, e ancora adesso, si fa una distinzione tra le prime Brigate rosse, quelle “pure” di Renato Curcio, Mara Cagol e Alberto Franceschini, da quelle, “meno pure” e magari “infiltrate”, di Mario Moretti, Prospero Gallinari, Adriana Faranda e Valerio Morucci. In realtà, come ha scritto nel trentesimo anniversario del delitto Moro su Critica sociale uno storico come Ugo Finetti, le due principali mistificazioni sarebbero queste: da un lato Moro sarebbe stato ucciso dalla Cia su istigazione di Henry Kissinger per evitare che portasse i comunisti nel cuore della Nato; dall’altro il leader Dc “sarebbe stato soppresso dal Kgb per evitare che destabilizzasse il sistema di potere dell’Urss portando al governo l’euro-comunista Berlinguer”. Sono due tesi senza fondamento, di comodo e di opportunismo politico da basso livello, formulate senza tenere conto della realtà. Nel 1978 Kissinger non aveva alcun potere, dopo la caduta di Nixon e il Watergate; alla Casa Bianca ci stava il democratico Jimmy Carter e il nuovo segretario di Stato era Cyrus Vance. Il Cremlino di Breznev era in tutte altre faccende affaccendato: con i problemi che aveva in casa sfoderava il suo aspetto imperiale, mettendosi all’offensiva in Africa e in Asia. Quanto ai rapporti tra Berlinguer e l’Unione Sovietica, dopo alcune distinzioni anche tollerate, nel 1977, in occasione del 60esimo anniversario della Rivoluzione d’Ottobre l’eurocomunismo era in crisi e stava letteralmente evaporando. A Mosca, il segretario comunista francese Georges Marchais non andò; allo spagnolo Santiago Carrillo non venne concessa la parola; Enrico Berlinguer parlò invece per 6 minuti e 32 secondi, per dire che intendeva difendere “tutte le libertà personali e collettive, civili e religiose”. Dichiarazioni che nemmeno i sovietici potevano permettersi di contestare. Non ci sono più polemiche nel discorso di Berlinguer, ma un riavvicinamento sancito dall’onore che gli tributano i dirigenti sovietici con la successiva pubblicazione del suo intervento sulla Pravda. Due anni dopo, nel novembre del 1979, Berlinguer parlerà in pieno comitato centrale dell’attualità delle lezioni del leninismo e griderà furente a Giorgio Amendola “Non capisci nulla di marxismo–leninismo”. Ma se dal contesto internazionale si passava a quello italiano, la realtà era ancora più concitata. Moro aveva risposto duramente ai comunisti nel 1977, in occasione dello scandalo Lockheed: “Non ci faremo processare da voi nelle piazze”. Poi a novembre, il repubblicano Ugo La Malfa apre una crisi e invoca l’ingresso del Pci nella maggioranza di un nuovo governo. Moro trova una situazione di compromesso con un accordo con Craxi: un governo monocolore democristiano, con i comunisti in maggioranza, ma senza i “tecnici” che il Pci richiede e che provocano reazioni sia in Berlinguer che in Pajetta. Lo sfondo politico che porta al governo del 16 marzo 1978 è questo, ma viene sempre dimenticato, smarrito, confuso, Potenza dell’“ideologia italiana”, che in quel momento a tutti i livelli è innamorata del catto–comunismo. Capitano spesso queste sbandate a chi si è dimenticato persino il nome del capo della Resistenza. Chissà se i nostri valenti insegnanti di storia e i nostri studenti conoscono la figura di Alfredo Pizzoni, mai onorato in tutti i 25 aprile? Recentemente un “guitto” italo–bulgaro parlava in televisione di un’Italia liberata dal nazifascismo per la grande tenuta dell’Urss di Stalin contro Hitler, dimenticandosi ovviamente della V e dell’VIII armata anglo–americana che risalivano l’Italia e pagavano pure la diaria ai partigiani dopo i patti di Roma del novembre 1944 (Harold Macmillan, Diari di guerra 1943–1945, il Mulino). Ma la potenza della disinformazione dell’ideologia italiana è travolgente. Quando il 16 marzo 1978 Moro è “nella prigione del popolo”, scompare dalla terza pagina di Repubblica questo titolo: “Antelope Cobbler? Semplicissimo è Aldo Moro segretario della Dc”. Migliaia di copie del quotidiano progressista vengono mandate al macero, ma qualcuno ne mantiene copie per un ricordo indelebile della vergogna. Nella stessa mattinata Ugo Pecchioli, uomo del Pci che si è sempre occupato dei rapporti (anche della rete di radio clandestine) con l’Urss, si presenta nella sede della Dc e sentenzia: “Per noi è morto”. Traduzione: nessuna trattativa. Dal “carcere del popolo” Moro comincia a scrivere lettere che invocano una trattativa e poi lancia accuse ben precise. La risposta degli intellettuali di matrice cattolica compare con una lettera e un lungo elenco di firme e spiega: “Moro non è responsabile di quello che scrive”. Praticamente viene abbandonato e visto come una specie di pazzoide. Una vergogna infame. A questo punto la politica italiana si spacca. Bettino Craxi, il leader del Psi, suggerisce una trattativa. Si unisce a questa iniziativa anche Marco Pannella. Naturalmente la proposta di Craxi è vista come una manovra per rompere l’asse catto–comunista e guadagnare consensi, sparigliare un inevitabile processo di unità nazionale tra Pci e Dc. È un’altra mistificazione oscena. Moro ha scritto 51 lettere. Nella dodicesima, inviata il 12 aprile a Craxi, e recapitata nella sede del Psi in via del Corso a Roma, Moro è disperato: “Caro Craxi, poiché ho colto, pur tra le notizie frammentare che mi pervengono, una forte sensibilità umanitaria del tuo partito in questa dolorosa vicenda, sono qui a scongiurarti di continuare e anzi di accentuare la tua importante iniziativa”. Moro implora una trattativa. Scrive ancora: “Ogni ora che passa potrebbe renderla vana. E allora ti scongiuro di fare in ogni sede opportuna tutto il possibile nell’unica direzione giusta, che non è quella della declamazione”. Più avanti spiega: “Anche la Dc sembra non capire. Ti sarei grato se glielo spiegassi subito. Non c’è un minuto da perdere”. Quando Craxi legge queste parole su un foglietto di quaderno a quadretti non trattiene le lacrime e ricomincia la sua battaglia. Ma contro di lui c’è il blocco del “fronte delle fermezza”, costituito dai maggiori partiti e da quelli laici, ma soprattutto dalla grande stampa. Si contendono il primato del “fronte della fermezza” il Corriere della Sera, che in quel momento era mantenuto e più o meno al servizio dal “maestro venerabile” Licio Gelli, e la rampante Repubblica dell’ex fascista Eugenio Scalfari, poi diventato azionista, forse radicale, quindi socialista e infine filo–berlingueriano. Un uomo di coerenza! Nella visione di Craxi non c’era un calcolo politico di smarcamento, ma soprattutto di un principio della nostra Costituzione, che non è “la più bella del mondo”, ma è almeno figlia del compromesso di Yalta. Fu proprio il giovane giurista Aldo Moro, ai tempi della Costituente, a difendere il principio che le persone vengono prima dello Stato, che la ragione di Stato non si baratta con una vita umana. Quello Stato del 1978 che alla fine si arrese all’esecuzione di Moro da parte delle Br senza trattare per non riconoscerle formalmente, venne ben descritto nel libro di Leonardo Sciascia L’affaire Moro, dove il grande scrittore paragonava quello Stato a una sorta di moribondo che sta in un letto di ospedale e all’improvviso impettisce, scende in strada e minaccia sfracelli, andando inevitabilmente verso il disastro annunciato.
PS: Chi scrive questo articolo non cambia idea da 42 anni. E ancora oggi è fiero di aver ritirato la firma dal Corriere per un anno, proprio per come era stato descritto il caso Moro. Quello che accadde si può vedere da un comunicato Ansa dell’epoca.
Servizi di sicurezza, a che servono se non ci sono problemi specifici incombenti? Frank Cimini de Il Riformista il 19 Marzo 2020. La preoccupazione maggiore dei nostri apparati di sicurezza sembra rivolta a una lettura diversa dei cosiddetti anni di piombo rispetto alla storiografia ufficiale che rischia di trovare consensi “nell’uditorio giovanile”. Usano proprio questo termine gli apparati nella loro relazione annuale al Parlamento presentata nei giorni scorsi con un po’ di ritardo e che è passata inosservata sui giornali soprattutto perché mancavano indicazioni su pericoli specifici incombenti. Ma è meglio lasciare direttamente la parola ai “servizi” prima di spiegare la ragione di queste povere righe. «L’attività di costante monitoraggio informativo assicurata dal comparto intelligence ha rilevato in linea di continuità con gli ultimi anni il proseguire dell’impegno divulgativo specie attraverso la testimonianza di militanti storici e detenuti “irriducibili”, volto a tramandare la memoria degli “anni di piombo” e dell’esperienza delle organizzazioni combattenti. La propaganda si è in particolare rivolta in un’ottica di proselitismo a un uditorio giovanile con un occhio di riguardo alla composita area dell’antagonismo di sinistra sulla cui sensibilità risulta tarata una lettura trasversale in chiave rivoluzionaria dell’antifascismo dell‘antimilitarismo e dell’antiimperialismo nonché delle questioni correlate al disagio sociale dall’emergenza abitativa a quella migratoria passando per le criticità del mondo del lavoro». Bisogna ricordare che nel nostro paese esistono apparati costosissimi e spropositati rispetto alla bisogna dal momento che ormai da molto tempo quel po’ di conflitti sociali in essere non sembra in grado di costituire “un pericolo per la democrazia”. Ma di queste strutture e soprattutto dei loro costi appare pressoché impossibile parlare nel senso di suscitare un dibattito pubblico sui mezzi di informazione. Vige una sorta di segreto di stato di fatto che nessuno è disposto dentro il circuito istituzionale a mettere in discussione. Gli apparati al fine di giustificare sia loro esistenza sia il privilegio di disporre di quantità molto rilevanti di fondi scriverebbero qualsiasi cosa e sanno benissimo che il solo evocare il tentativo di rivoluzione, il più serio nel cuore del capitalismo occidentale, fallito quarant’anni fa li mette al riparo da qualsiasi osservazione critica. Succede tanto per fare un esempio che il raggruppamento speciale dei carabinieri arrivi a chiedere di investire l’attività del mitico Ris di Parma per rilevare il Dna di un gruppetto di ventenni responsabile di uno striscione pro-palestinesi davanti alla sede del Corriere della Sera. Nel caso specifico pare che la procura di Milano non abbia dato seguito all’iniziativa. E parliamo della procura che di recente ha in pratica azzerato le lotte per la casa con misure cautelari e reati associativi per un collettivo dì militanti pur specificando che il tutto non aveva scopo di lucro. Da tempo siamo in presenza di una repressione di tipo preventivo che ha il compito di ammazzare nella culla eventuali azioni “sovversive”. Di questo quadro si giocano i nostri apparati di sicurezza dove chi ne fa parte teme di veder finire la vita nella bambagia e di essere “mandato a lavorare”. Ma si tratta di rischi puramente teorici sia perché la politica è debole incapace di prendere decisioni forti sia perché gli uffici inquirenti le procure anche quando non danno seguito agli input degli apparati (con i quali dovrebbero avere nulla a che fare ma tutti sanno che non è così) però ne coprono le gesta perché tra poteri come dicono a Napoli “si apparano”. In tempi di spending review non sarebbe male avviare una discussione seria in merito. Ma ricordiamo che siamo nel paese in cui a quarant’anni dai fatti sono andati con il laser in via Fani per stabilire se a sparare alla scorta di Moro erano state solo le Br. L’esperimento portò a concludere che sì solo le Br. E tutto si chiuse con 18 righe sul Sole 24 ore. Quanti soldi nell’occasione buttati dal balcone? Impossibile saperlo dalla commissione parlamentare e dalla procura generale di Roma. Ma si sa che il procuratore generale di Roma poi è diventato il pg della Cassazione. Insomma se la cantano e se la suonano. Tutto in famiglia.
Scoop dei dietrologi: risolto il caso Moro, è stato ucciso da un barista. Frank Cimini de Il Riformista il 25 Febbraio 2020. Abbiamo a che fare con le dietrologie incrociate sulle quali disserta frequentemente il Manette Daily alias Cappio Quotidiano. «Bologna, strage crocevia di due storie criminali» è il titolo dell’ultimo articolo sul tema. Le due storie legate tra loro dalla chiusura indagine sulla strage di Bologna del 2 agosto 1980 sono il crac del Banco Ambrosiano e il sequestro Moro. E con pezze di appoggio da far tremare i polsi e accapponare la pelle: «Sia i soldi mancanti della bancarotta dell’Ambrosiano sia il brigatista Alessio Casimirri che non ha scontato un giorno di carcere negli stessi anni trovarono il loro “paradiso sicuro” in Nicaragua». Un paese del quale il figlio di Licio Gelli (condannato sia per il crac sia per il depistaggio sulla strage) è da anni ambasciatore prima in Uruguay e poi in Canada. E solo oggi sappiamo, è la tesi del Fatto, perché esiste un documento desecretato dal governo nel 2014, che Tullio Olivetti, proprietario dell’insolito caffè di via Fani a lungo copertura di un grosso traffico di armi con mafia terrorismo interno e internazionale, era presente nel capoluogo emiliano il giorno della strage della stazione, ma non fu mai interrogato. Da sempre i dietrologi di mezzo mondo favoleggiano di questo famoso bar Olivetti raccontando che ci andavano i mafiosi a far colazione perché aveva i migliori maritozzi della capitale. “L’insolito caffè di via Fani”, comunque, la mattina del 16 marzo del 1978, come è stato infinitamente accertato, era chiuso… Ma i cultori del mistero legato al bar Olivetti non demordono. Sul caso Moro tutto vale, anche la panna dei maritozzi. Se l’informazione si è ridotta a questo non può meravigliare che chiedendo ai liceali di adesso chi mise la bomba in piazza Fontana arrivi la risposta inevitabile a sto punto: le Brigate Rosse. E ormai le Br sarebbero responsabili anche della strage di Bologna e pure della bancarotta dell’Ambrosiano. Alla confusione sul tema hanno dato un rilevante contributo le commissioni parlamentari di inchiesta sul caso Moro che tra l’altro ascoltarono, dandogli dignità di oracolo, Raimondo Etro “pentito” e dietrologo acquisito, balzato recentemente agli onori della cronaca perché cacciato dallo studio tv di Giletti. Un paese che rifiuta di fare i conti con il tentativo di rivoluzione fallito a cavallo degli anni 70 e 80 non può che continuare a dare spazio a una dietrologia troppo interessata a nascondere la verità e di cui la sinistra appare più responsabile di altre fazioni politiche. Insomma a sinistra non hanno ancora digerito che in pieno sequestro Moro, Rossana Rossanda gridò in faccia al Pci che le Brigate Rosse erano comuniste con due famosi articoli sull’album di famiglia. E oggi a sinistra si sollazzano leggendo il Manette Daily.
Dieci anni senza Francesco Cossiga. A differenza di altri, fu un vero presidente della Repubblica. Carlo Marini domenica 16 agosto 2020 su Il Secolo D'Italia. «Talvolta ho gridato, ma se ho gridato è perché soltanto temevo di non farmi sentire». Sono le parole di Francesco Cossiga, morto il 17 agosto di dieci anni fa, nel suo messaggio agli italiani, prima di lasciare il Quirinale. Un presidente unico nella storia della Repubblica, che ha avuto il coraggio di dire cose scomode alla sinistra. Che dalla sinistra è stato combattuto con ogni mezzo. E che ha sempre messo l’interesse degli italiani al di sopra di tutto. Impossibile non rimpiangerlo. E, nei tempi che stiamo vivendo, il rimpianto è ancora più forte.
Francesco Cossiga, da studente prodigio a politico. Francesco Cossiga ha avuto una carriera formidabile. Non solo politica. Maturità a 16 anni, laurea in giurisprudenza a 20 anni. Professore ordinario all’Università di Sassari, a 30 anni. Fate il paragone con uno dei ministri, uno a caso, del governo Conte. La carriera politica è stata conseguente. E altrettanto formidabile. Deputato dal 1958 al 1983, poi senatore; sottosegretario, ministro dell’Interno durante i drammatici giorni del sequestro Moro. Poi, presidente del Consiglio, quindi del Senato. Infine, nel più alto incarico istituzionale, quello di Presidente della Repubblica.
Da presidente notaio a picconatore. Eletto al primo scrutinio con la cifra record di 752 voti su 977. Passò da presidente notaio a picconatore, Cossiga è stato un Capo dello Stato unico nel suo genere nella storia della Repubblica, fuori dagli schemi fino a quel momento conosciuti, diverso dai suoi predecessori e dai suoi successori soprattutto per il modo con cui, specialmente negli ultimi due anni del settennato, ha trattato e affrontato i temi della vita politica e dei partiti. «È vero, io facevo cose un po’ strambe, ma le facevo – raccontò a Claudio Sabelli Fioretti – perché non avevo dietro di me potentati economici, né potentati politici, né potentati culturali. Ero stato abbandonato anche dalla Dc. Per farmi ascoltare dovevo fare follie, dovevo dire cose che avevano la forma della follia».
Le due presidenze di Francesco Cossiga. La presidenza Cossiga ha avuto dunque due fasi distinte. La prima, contraddistinta da una rigorosa osservanza delle forme dettate dalla Costituzione: Cossiga, essendo tra l’altro docente di diritto costituzionale, fu il classico “presidente notaio” nei primi cinque anni di mandato, dal 1985 al 1990. Poi, dopo la caduta del Muro di Berlino, Cossiga capì che Dc e Pci avrebbero subito gravi conseguenze dal mutamento radicale del quadro politico internazionale, convinto che i partiti e le stesse istituzioni si rifiutavano di riconoscerlo. Da quel momento iniziò una fase di conflitto e polemica politica, spesso provocatoria, che portò al Cossiga “grande esternatore” e, negli ultimi due anni al Quirinale, al “picconatore”, un appellativo che non l’avrebbe più abbandonato.
La coraggiosa difesa di Gladio. Il mito del Picconatore nacque anche sull’onda emotiva di due vicende che hanno segnato la vita politica italiana all’inizio degli anni Novanta: Gladio e Tangentopoli. La scoperta dell’organizzazione segreta della Nato, creata per rispondere ad un eventuale attacco portato dall’Unione sovietica, colpì l’opinione pubblica e la classe politica italiana. E Cossiga assunse una posizione che fu all’origine di fortissime polemiche, difendendo i “gladiatori” e sostenendo che essi andavano onorati come i partigiani, perché il loro obiettivo era quello di difendere l’indipendenza e la democrazia in Italia.
“Occhetto, lo zombie coi baffi”. E proprio la vicenda di Gladio costò a Cossiga la richiesta di messa in stato d’accusa da parte della minoranza parlamentare, nel dicembre del 1991. Il Comitato parlamentare, però, ritenne tutte le accuse manifestamente infondate, come si può leggere negli atti parlamentari, e la Procura di Roma chiese l’archiviazione a favore di Cossiga, richiesta poi accolta dal Tribunale dei ministri. Su Tangentopoli, Cossiga non negò l’esistenza del malaffare, ma nello stesso tempo nel corso degli anni si chiese perché “inchieste da anni dimenticate” fossero “state di colpo lanciate tra i piedi del ceto politico”.
Francesco Cossiga lasciò il Quirinale il 25 aprile. Forse perché, ipotizzò, qualcuno, non solo in Italia, voleva liberarsi di un sistema politico “logoro e dal loro punto di vista ormai inservibile”. Con dieci settimane d’anticipo sulla scadenza naturale del mandato, il 28 aprile del 1992, Cossiga si dimise dalla Presidenza della Repubblica, per evitare all’inizio dell’undicesima legislatura l’ingorgo istituzionale, legato all’elezione del suo successore e alla nascita del nuovo governo. L’annuncio in un discorso televisivo di 45 minuti, pronunciato simbolicamente il 25 aprile, Festa della Liberazione. Perché Cossiga non faceva niente per caso. Un presidente che, dieci anni dopo, manca ancora di più a tutti noi.
Il primato della Politica e il teatrino del potere. Andrea Cangini, senatore di Forza Italia, Lunedì 17/08/2020 su Il Giornale. Nei giorni scorsi, a dieci anni esatti dalla morte, ho avuto nostalgia della passione con cui Francesco Cossiga difendeva il primato della Politica. Difendeva, cioè, la qualità della democrazia, l'efficacia dei governi, la forza dello Stato. Perché quando la Politica perde il suo primato altri poteri, poteri illegittimi, ne occupano gli spazi vitali: la democrazia diviene così oligarchia, i governi divengono impotenti e gli Stati si svuotano di sovranità. «Ma il presupposto perché il primato della Politica sopravviva è che le forze e le alleanze politiche esprimano una qualche cultura politica», diceva il Presidente. Parole sante, anche se in evidente contrasto con lo spirito dei tempi; tempi caratterizzati da narcisismo, improvvisazione, sradicamento, perdita di memoria... Parole che trovano conferma nell'inefficacia e nell'inefficienza degli ultimi due governi, quello gialloverde come quello giallorosso. Governi non a caso imperniati su partiti e personalità del tutto privi di qualsivoglia cultura politica. Canne al vento, situazionismo politico. Non poteva andare diversamente. Senza un'idea precisa della Storia e della natura umana, senza un'idea radicata di società e di sviluppo la politica perde la bussola, smarrisce la rotta e, fatalmente, si avvita su se stessa vivacchiando alla giornata. Durare diventa l'unico obiettivo possibile, tutto diventa possibile pur di durare. Anche smentire la propria natura dichiarata, anche ribaltare principi ed alleanze, anche indossare barbe e baffi finti per assumere oggi identità politiche in antitesi rispetto a quelle assunte ieri. L'ipocrita camaleontismo del Movimento 5stelle e la triste condizione di «utile idiota» di un partito fondato da un comico in cui si è voluttuosamente calato il Pd sono lì a testimoniarcelo. Che cultura politica ha il Movimento 5stelle? A quale cultura politica intende oggi riferirsi il Partito democratico? Su quale cultura politica comune si baserà la loro annunciata alleanza strategica? Domande senza risposte, misteri insondabili. L'inconcludenza dei governi e il conseguente declino dell'Italia sono e ancor più saranno la logica conseguenza di questo stato di cose. Il vecchio «dimmi con chi vai e ti dirò chi sei» non porta ad alcuna certezza. Occorre ribaltarne i termini: dimmi chi sei, e, forse, ti dirò con chi andrai.
Dieci anni fa moriva il presidente Cossiga “il picconatore”. Antonello de Gennaro su Il Corriere del Giorno il 17 Agosto 2020. La missione costante che emerge nell’attività politica di Francesco Cossiga è la difesa dell’interesse nazionale, che per essere perseguita ha bisogno di rappresentanti con il senso dello Stato, chiamati a svolgere funzioni istituzionali dopo avere maturato una serie di competenze. Non si può dimenticare la sua illuminante capacità di analisi e previsione, quell’ intuizione mentale continua che gli consentiva di prevedere un futuro, seppure lontanissimo. Cossiga già prevedeva come sarebbe stato il mondo di oggi, anche se erano pochi coloro in grado di dargliene atto. Era il 17 agosto 2010 quando il nostro amato ed indimenticabile presidente Francesco Cossiga chiuse per l’ultima volta i suoi occhi, lasciando un segno indelebile ed indimenticabile nella politica italiana. Francesco Cossiga nasce a Sassari il 26 luglio 1928, si diploma al classico a 16 anni, si laurea in giurisprudenza a 20, diventando prima libero docente di diritto pubblico e poi professore di diritto costituzionale regionale all’Università di Sassari. Da giovanissimo aderisce alla Dc e capeggia la rivolta dei “giovani turchi” che il 19 marzo 1956 conquista inaspettatamente il partito della sua provincia, sconfiggendo Antonio Segni, uno dei leader nazionali dello scudo crociato. Nel 1958 viene eletto deputato e nel 1966 sottosegretario alla Difesa nel III governo guidato da Aldo Moro, che ne apprezza le doti e lo valorizza. Nell’occasione si occupa del Piano Solo e della trasformazione del SIFAR in SID. Cossiga è stato ministro dell’Interno durante quei drammatici giorni del rapimento e poi omicidio di Aldo Moro da parte dell Brigate Rosse. Poi presidente del Consiglio dei ministri, presidente del Senato della Repubblica, arrivando a ricoprire il più alto incarico istituzionale dello Stato, diventando Presidente della Repubblica, eletto al primo scrutinio con la cifra record di 752 voti su 977 votanti. Da “presidente notaio“, Cossiga viene ricordato per essere stato il “presidente picconatore” interpretando il suo ruolo di Capo dello Stato unico per le sue caratteristiche nella storia della nostra Repubblica, fuori dagli schemi tradizionali, differente il suo stile da quello dei predecessori e successori. Sono passati dieci anni dalla morte di Francesco Cossiga, maestro prezioso a cui non mi permisi mai di dare di dare del tu (come lui mi chiese più volte, e che per me restò sempre “il presidente”, anzi “il mio presidente” come mi piaceva chiamarlo quando mi telefonava per parlare dei nuovi computers Apple, che era una delle sue passioni segrete, chiedendomi di accompagnarlo in un negozio di via Flaminia che era un pò la sua Disneyland informatica. Cossiga non c’è più, e, oggi più di ieri, non si può dimenticare la sua illuminante capacità di analisi e previsione, quell’ intuizione mentale continua che gli consentiva di prevedere un futuro, seppure lontanissimo. Cossiga già prevedeva come sarebbe stato il mondo di oggi, anche se erano pochi coloro in grado di dargliene atto. “Il Brigadiere a titolo onorifico dell’Arma dei carabinieri Francesco Cossiga non era un conformista, non si allineava al pensiero unico e tantomeno al politically correct e restano indimenticabili alcune sue dichiarazioni e apparizioni tv. “Facevo il matto per farmi ascoltare dal mondo politico” raccontò in un libro, dice Giorgia Meloni, leader di Fdi, ricordando Francesco Cossiga. “Lui è stato un capo dello Stato unico nel suo genere, fuori dagli schemi fino a quel momento conosciuti, diverso dai suoi predecessori e dai suoi successori. A Cossiga -conclude – va riconosciuto di aver difeso con forza e amore le istituzioni e, semmai, ha picconato giustamente la cattiva politica con coraggio e sottile ironia”. “Fui io a portare il giudice Giovanni Falcone all’allora Presidente della Repubblica Francesco Cossiga. Una mattina alle 8 Cossiga aprì la porta e si trovò dietro la porta me e Falcone. Il magistrato era molto amareggiato per la mancata nomina a giudice istruttore ma anche al Csm e voleva andare all’Onu, a Vienna, ma Cossiga lo fermò e gli disse che si doveva prima occupare del maxiprocesso”. A raccontare l’aneddoto all’agenzia Adnkronos è l’ex ministro democristiano Calogero Mannino, ricordando l’ex Capo dello Stato Francesco Cossiga alla vigilia dell’anniversario della sua scomparsa. “Cossiga – racconta Mannino – fu il vero artefice della nomina di Giovanni Falcone agli Affari penali al Ministero della Giustizia. Pur rendendo onore a Claudio Martelli, a cui va riconosciuta la nomina, fu un pensiero di Cossiga, una proposta dell’ex ministro della Giustizia Giuliano Vassalli che era, però, alla fine del suo mandato perché venne nominato giudice costituzionale”. “Cossiga è stato un personaggio scomodo sia con gli amici che con gli avversari, capace di grande generosità e di incredibili scene di ira. Il suo carattere era tutt’altro che facile.. Però è stato una personalità capace di leggere il segno dei tempi prima degli altri”. Ha detto l’ex presidente della Camera Pier Ferdinando Casini ricordando Cossiga. “Visto con gli occhi di oggi – aggiunge Casini – è stato l’uomo politico della Dc che ha capito prima di tutti le conseguenze della svolta epocale che stava avvenendo con la caduta del muro di Berlino e dell’Unione sovietica. Ha capito che nel momento della maggiore vittoria politica della Dc rischiavano di venirne fatalmente meno le condizioni dell’egemonia nella società italiana”. “Un paradosso, quello della Dc che ha dovuto abbandonare il campo (e non l’ha abbandonato per Tangentopoli) per esaurimento dell’obiettivo che aveva raggiunto. Mentre noi festeggiavamo Cossiga diventava sempre più preoccupato e ha cercato in qualche modo di prevenire la fine della Dc con le sue picconate ma non è stato assecondato da nessuno”, continua Casini. Poi, l’ex presidente della Camera, pupillo di Arnaldo Forlani, ricorda un episodio: “Cossiga ha sempre raccontato del mio invito al Crest Hotel a Bologna per fare il primo discorso pubblico dopo le sue dimissioni da ministro dell’Interno, rompendo il silenzio in cui si era ritirato e in una città che aveva visto la scritta “Kossiga” sui muri (lui aveva mandato blindati per l’ordine pubblico). La storia di Cossiga è piena di ferite, ma anche di grandi intuizioni e generosità”, conclude l’ex presidente della Camera. “Di mio padre ho ricordi allegri, così come ricordi tristi, ma il Cossiga politico io non lo conosco, non c’ho avuto molto a che fare, non sono un “cossigologo”. Ricordo, però, che ha mandato al diavolo De Mita ma mai Andreotti”, ricorda Giuseppe Cossiga figlio del Presidente emerito. Una figura, quella di Francesco Cossiga, che ha sempre diviso, “ma io, in questo senso, mi colloco nel limbo del completo disinteresse”, evidenzia il figlio di Cossiga, “nel senso che non so dire se è stato una grande presidente della Repubblica o un pessimo ministro dell’Interno, so solo che è stato mio padre, quindi ai posteri l’ardua sentenza, però io non faccio parte né dei denigratori né degli adulatori, non di mio padre”. “Non è mai stato un notaio né una persona facile da capire – prosegue -, in più, com’è noto, era bipolare, lo diceva anche lui, e quindi è ovvio che anche quello che ha fatto o non ha fatto venga percepito in maniera diversa, e siccome siamo una democrazia ognuno si fa un’idea ed emette un giudizio”. Quanto al nome di Cossiga scritto con la K sui muri negli anni ’70, il figlio Giuseppe non ha dubbi: “Beh, lui mandava i Carabinieri coi blindati a fare gli sgomberi, quindi per quei giovani era un nazista, e il suo nome scritto anche con la doppia esse delle SS naziste era divertente, tanto che mia sorella ha fatto anche una mostra su quelle foto”. La missione costante che emerge nell’attività politica di Francesco Cossiga è la difesa dell’interesse nazionale, che per essere perseguita ha bisogno di rappresentanti con il senso dello Stato, chiamati a svolgere funzioni istituzionali dopo avere maturato una serie di competenze. Il suo è stato un messaggio per tutti noi ma soprattutto per le giovani generazioni. Infatti, nelle dimissioni da Presidente della Repubblica ricordava: “Ai giovani voglio dire di amare la Patria, di onorare la Nazione, di servire la Repubblica, di credere nella libertà e di credere nel nostro Paese”. È un invito ad affidarsi alla democrazia quanto mai attuale, perché la democrazia non è solo la meno imperfetta forma di governo, ma anche la meno imperfetta forma di giustizia sociale. E non a caso Cossiga sosteneva che “Questa è la ricetta democratica: spegnere la fiamma prima che divampi l’incendio”. Con le sue parole ci stava mettendo in guardia su quanto potrebbe presto accadere. Ed è accaduto. Impossibile non ricordarlo. E capire quanto mi manchino le sue telefonate, e quanto manchi allo Stato italiano un uomo ed un politico come lui. Ciao Presidente.
Marzio Breda per corriere.it il 17 agosto 2020. Oggi ricorrono i dieci anni della morte di Francesco Cossiga. Per ricordare il presidente emerito, ecco un’intervista a sua figlia Anna Maria. Signora Cossiga, poco prima di morire suo padre confessò al «Corriere» che se avesse potuto tornare indietro non avrebbe più usato il piccone, perché quella profezia della catastrofe fu un’ingenuità: «Il potere non vuole rigenerarsi». Era davvero pentito? «Non ne sono convinta. Infatti, anche dopo esser uscito dal Quirinale ha continuato a lanciare presagi alla sua maniera mordace. Quando gli contestavo i toni troppo veementi, mi smontava con un sorriso sornione e il giorno dopo ricominciava. Insomma: escludo passi indietro, nella sua critica alla partitocrazia. Quell’intervista con il Corriere era un atto d’orgoglio, semmai. Un modo per sollecitare un’analisi finalmente senza pregiudizi della sua “scossa” al sistema. In troppi non avevano voluto capirne il significato, al di là delle picconate».
Allude allo snobbato messaggio alle Camere?
«Certo. Era un testo importante, più di 80 pagine nelle quali proponeva una riforma di sistema, per offrire una chance di sopravvivenza a una Repubblica già malata. Lo considerarono un progetto ad alto rischio democratico, ignorando che nella stesura babbo aveva coinvolto Mino Martinazzoli e Giuliano Amato, non proprio sospettabili di “frenesie autoritarie”, come si disse di lui. Mio padre ci teneva molto, perciò si sentì tradito. Specie dalla Dc, cui aveva dedicato tutto sé stesso e che da quel momento abbandonò».
Lo deluse pure la richiesta d’impeachment del Pci, che era il partito di Berlinguer, vostro cugino. Che rapporti avevate?
«Non i rapporti che di solito si hanno tra parenti, ma babbo parlava sempre di Enrico con rispetto e stima, ricambiati dal cugino pur stando loro in campi politici diversi. Io ho conosciuto Bianca più tardi ed è stata molto affettuosa quando mio padre è mancato».
Che tipo di padre è stato, Cossiga?
«Apparteneva alla generazione che aveva qualche impaccio con i bambini, quindi pure con me e mio fratello Giuseppe quando eravamo piccoli. Un rapporto destinato comunque a evolversi. Presto volle coinvolgerci in discussioni con lui — su storia e religione, ad esempio, meno invece sulla politica — affinché sviluppassimo la capacità critica. Da cattolico fervente, su alcune cose era rigido e severo, distinguendo tra maschi e femmine. Per capirci: io non potevo andare in discoteca, mentre mio fratello sì, anche se era più giovane di me».
Era presente, in famiglia?
«Dipendeva dagli incarichi che ricopriva. Ricordo dei pranzi bellissimi, che si trasformavano in dibattiti infiniti. Io, che sono sempre stata piuttosto apolitica, in una certa fase sviluppai un interesse per la sinistra. E lui, pur senza censurarmi o pretendere d’impormi le sue idee, prese a stuzzicarmi chiamandomi “bolscevica”».
Lei non lo seguì mai nei viaggi da presidente.
«Stavo all’estero da anni, in Inghilterra e in America, per studio e lavoro. Perciò era lui a venirmi a trovare, in particolare a Londra, da dove spesso ci spostavamo in Irlanda. Amava l’atmosfera dei piccoli villaggi sul mare e insisteva spesso per andare a pranzo in un ristorante appena fuori Dublino, nel quale la gente si esibiva in canti e balli tradizionali. Un episodio curioso accadde a New York, dove lavoravo all’Onu...».
In che senso curioso?
«Una mattina mi telefonò per avvertirmi che stava per scoppiare quella che sarebbe stata la prima Guerra del Golfo. “Sei sicura di voler restare lì?”. Non lo ero, perché si respirava un clima pesante. Quando glielo spiegai, mandò da Roma una scorta a prendermi. Tempo dopo scoprii che aveva battezzato quel mio viaggio di rientro “Operazione Biancaneve”, perché — ecco come la presentò agli agenti — la bimba torna a casa e bisogna proteggerla. Rispecchiava un po’ la sua mania di giocare con i servizi segreti».
Cosa provò, negli anni di piombo, vedendo sui muri delle città il suo cognome storpiato con la K di amerikano, nel senso di golpista, e la doppia esse runica, alla nazista?
«Avevo 16 anni e in famiglia cercavamo di scherzarci su e sdrammatizzare, con la sventatezza dell’età giovanile. Non era facile cancellare il problema: andavamo a scuola scortati ogni giorno con una macchina diversa e seguendo itinerari mai uguali. Tutto cambiò con il delitto Moro, che mi fece preoccupare, per babbo, perché aveva un enorme affetto per Moro, che era stato il suo maestro politico».
Infatti la sua storia resta associata a quel dramma e ad altri misteri italiani. Che cosa le raccontò di questo?
«Per un lungo periodo non ne ha parlato. Lo capivo: si fa fatica a confidarsi con i figli quando sono ragazzi. Ma il suo dolore era visibilmente somatizzato: i capelli gli diventarono bianchi, la pelle macchiata dalla vitiligine. Si sentiva responsabile di quella morte. E sì, capitava che di notte si svegliasse dicendo: “L’ho ucciso io”».
Colpisce ancora oggi il suo dialogo con i terroristi.
«Li aveva combattuti, da ministro degli Interni. Passata la stagione del sangue, dopo che lo Stato aveva vinto, voleva comprenderne le ragioni e avviare la pacificazione del Paese».
Negli ultimi tempi trasmetteva un’immagine di uomo tormentato, solo e sofferente. Come lo aiutavate a tenere sotto controllo la sua fragilità da ciclotimico?
«Chi gli aveva dato del matto, quand’era al Quirinale, si sarà magari sentito confortato nella propria ipocrisia. Per noi non era una tragedia di cui vergognarci: lo consideravamo un disturbo al pari di tanti altri. E sapevamo che c’erano momenti nei quali bisognava stargli più vicini. Lui stesso non nascondeva nulla della malattia. Ha dimenticato che coniò la metafora dell’Omino nero e dell’Omino bianco?».
Già, il primo ipercritico, pessimista e distruttore. Il secondo impegnato a piacere, divertirsi e sedurre.
«Sapeva di avere una personalità ambivalente e ne aveva fatto una tecnica di combattimento politico. Gli ho regalato un mio disegno con questo suo doppio ritratto».
Che cosa pensò quando, dopo 5 anni da presidente-notaio, cominciò a picconare? Vi aveva anticipato la svolta?
«No. Tanto è vero che stupì anche noi. Gli telefonai da Londra e gli domandai: “Ba’ (diminutivo di babbo, alla sarda, ndr), ma che succede?”. “Nulla di preoccupante, Anna. Cerco di divertirmi e dico tutte le cose che penso, in libertà”. Considerato quel che è accaduto dopo, non so quanto si sia divertito, ma ha almeno saputo guardare lontano. Come la profetessa Cassandra, condannata a non esser mai creduta e sulla quale scrivemmo un libro a quattro mani».
Il decennale della scomparsa. L’addio a Cossiga è stato l’inizio dell’antipolitica. Luigi Compagna su Il Riformista l'1 Ottobre 2020. Il decennale della scomparsa di Francesco Cossiga rischiava di svolgersi nel modo peggiore. Opposte fazioni di storiografi improvvisati e improvvisatori si preparavano a scendere in campo. Giancarlo Caselli, prevenuto accusatore di ieri e di oggi, andava adoperandosi per risvegliare ogni desiderio di menar le mani. Solo la compostezza di argomenti e la finezza di sentimenti con cui la figlia Annamaria, in una bella intervista al Corriere della sera di agosto, ha saputo poi diradare il pessimo clima che si annunciava. Certo, la riflessione su un personaggio controverso e perfino contraddittorio, ma tutt’altro che indegno, meritava pacatezza, intelligenza e profondità di riflessione, sempre più difficile nell’Italia di oggi. Lo riconosceva Rino Formica sul Domani di ieri avvalendosi dell’equilibrio democristiano, nel senso meno angusto del termine, della commemorazione sassarese di Sergio Mattarella il 24 settembre. Entrambi, Mattarella e Formica, hanno reso onore alla memoria di Cossiga prendendo le mosse soprattutto dal messaggio impegnativo e coraggioso con cui l’allora presidente della Repubblica si era rivolto alle Camere il 26 giugno del ’91. Con buona pace dei cultori di due fasi distinte e diverse della presidenza Cossiga, una anteriore e l’altra successiva a quel messaggio, una cosiddetta demitiana e berlingueriana e una, invece, esplicitamente forlaniana e craxiana, quel messaggio conteneva e anticipava il dramma della nostra storia nazionale. A rileggerlo a tanti anni di distanza, grazie alle citazioni proposte da Mattarella e Formica, vengono quasi i brividi. Vi si rivendicava la piena continuità con il mandato assunto sin dal suo insediamento al Quirinale e che dalla metà degli anni ottanta imponeva l’apertura di una nuova fase costituente: senza adeguato rinnovamento istituzionale sarebbero venute meno le basi della nostra convivenza. Vi si dischiudeva una prospettiva di politica costituzionale che superasse i ruoli di presidente notaio o presidente imperatore (per dirla con Ludovico Ortona). Il Parlamento non volle far sentire la sua su quel messaggio, bloccando ogni prospettiva che qualche mese prima si era dischiusa nella Commissione Bozzi. Cossiga venne rubricato fra i presidenzialisti (con evidente scortesia per presidenzialisti veri come il suo amico Zamberletti), mentre il senso del messaggio era soltanto di massima libertà di soluzioni e di modelli. In realtà quello del presidenzialismo fu, un po’ come per Craxi, l’alibi per evitare un confronto di idee e per inoltrarsi nello scontro di demonizzazione degli avversari politici. Si approdò così a una stagione che contemplava il trionfo dell’esercizio dell’azione penale più puro e più duro, ci si liberò della politica e dei partiti. A suo modo ci si inchinò precocemente alla forza dell’antiparlamentarismo prossimo venturo. Cossiga fece in tempo a comprenderlo e a vivere ancora una stagione di sofferenza interiore. Per lui fra i mali dell’Italia repubblicana c’era stata anche una degenerazione “andreottiana”. Nel suo “ex-partito” il profilo degasperiano si era appannato. Ma la sua furia anti-Andreotti ebbe sempre il limite di un grande rispetto, e forse affetto, per le ragioni che anche ad Andreotti erano pur sempre da riconoscere. Da quando aveva iniziato a muoversi la procura di Caselli, Cossiga decise di astenersi da ogni esternazione contro Andreotti. Era il suo modo, profondo e autentico, di voler bene alla Costituzione, all’Italia.
Paolo Guzzanti per “il Riformista” il 17 agosto 2020. Un’Italia senza Cossiga è un teatro vuoto, anche se affollato. Sono dieci anni che se ne è andato e io ho avuto questo privilegio, per sua scelta, di essergli vicino e poi amico, anche se non poche vote mi ha mandato fuori dai gangheri quando gli prendevano certe sue piccole manie che derivavano dalla sardità, da una parola che non ricordo ma che vuol dire comportarsi come hidalgo, come cavalieri di punta e di taglio, cose così. Ma Cossiga va ricordato perché è stato il profeta in patria (pessima posizione) e perché, come dice la nota favola, aveva visto da tempo che il re era nudo anche se tutti facevano finta che fosse vestito. Quale re? Lo schema di gioco della politica ai tempi della guerra fredda, quando l’Italia faceva un bel po’ il porco comodo suo giocando con l’Est e con l’Ovest, con il Sud e con il Nord del mondo, approfittandosi della posizione di cerniera, quando era una cerniera. Con la caduta del sistema sovietico l’Italia si è ritrovata nuda come un verme e sotto i fari. È’ stato il momento in cui il sistema italiano è crollato a domino: la Democrazia cristiana non aveva più ragione di esistere, il Partito comunista cambiava nome indirizzo e ragione sociale, i socialisti facevano la fine dei dinosauri, tutto saltava e cambiava ma tutti facevano finta di niente. Cossiga non era un esperto di spionaggio, come si dice: nella materia era un dilettante pasticcione, con una passionaccia adolescenziale per i giocattoli tecnologici. Ma era esperto di intelligence che non vuol dire spionaggio, ma capacità di lettura di ciò che non è scritto. Aveva imparato quel mestiere lavorando con Aldo Moro, il quale era certamente un grande maestro di intelligence internazionale e di cui Cossiga era il braccio destro nel ministero degli Interni, o come sottosegretario alla Presidenza del Consiglio. Come in un romanzo di John LeCarrè trattava la guerra fredda come un grande gioco in cui la prima regola è: ama il tuo nemico come te stesso, se vuoi carpire i suoi segreti. Cossiga amava i comunisti e provava un certo risentimento per suo cugino Enrico Berlinguer il quale gli diceva gelidamente che con i cugini “al massimo si mangia l’agnello a Pasqua”. Il cugino Berlinguer non esitò a metterlo in stato d’accusa davanti al Palamento perché il Parlamento era il grande tempio della democrazia e anche dei sacrifici umani, non quella specie di bocciofila da bingo che è adesso, sotto la gestione dei nemici della Repubblica e della democrazia parlamentare. Ai tempi della Repubblica Italiana la politica era una religione complicatissima con riti, regole, opacità, delitti, reticenze, urla e odi ravvicinati. Cossiga fu ministro degli interni durante il rapimento Moro che restò prigioniero sotto interrogatorio dei suoi carcerieri per quasi due mesi. Non sappiamo e non sapremo forse mai che cosa accadde realmente in quelle settimane, ma Cossiga dovette schierarsi col cosiddetto “partito della fermezza” che voleva Moro morto, piuttosto che Moro liberato dopo uno scambio. Io penso che scambi ci furono e che riguardassero questioni di altissima strategia militare perché troppi documenti scomparivano e ritornavano nelle casseforti e Moro fu ammazzato come un cane, disteso nel portabagagli di una Renault, con gli assassini che gli puntavano le pistole al cuore, solo, la barba lunga, spaventato ma in perfetta dignità. Quando Cossiga ebbe la notizia del ritrovamento a via Caetani ebbe un attacco nervoso, o meglio un crollo, uno shock che di colpo gli fece imbiancare i capelli. Il suo volto si riempì di eruzioni per la vitiligine psicosomatica. Come se quella morte ampiamente prevista e attesa, lo avesse sorpreso. Lui e Andreotti non credo che abbiano mai detto tutto ciò che fecero e ciò che omisero. So però che Cossiga, dopo la chiusura dell’evento che mise la parola fine al tentativo di Compromesso Storico (in cui Moro avrebbe dovuto agire da garante nei confronti degli alleati occidentali, insediato al Quirinale) andò a visitare uno per uno tutti i brigatisti rossi in galera e alla fine di questo accurato pellegrinaggio certificò che i brigatisti rossi erano in fondo dei bravi ragazzi, i “boy scout” della rivoluzione che avevano sbagliato e che si erano dissociati se non pentiti. La questione non è stata chiusa e io voglio ricordare (con lui ne parlai molte volte) che quando guidai una rogatoria internazionale a Budapest dove la Procura generale ci aveva promesso i documenti chiusi in una valigia verde con le prove delle connessioni fra alcuni brigatisti, la Stasi tedesca, il terrorista Carlos che viveva in Ungheria e il Kgb sovietico, nessuno fiatò e tutti anzi fischiettavano guardando da un’altra parte. Cossiga mi disse che quelle erano cose ormai andate come erano andate e non mi volle dire di più, anche se in Senato mi difese coraggiosamente quando fu decisa la mia “character assassination” che consistette nel sigillare i risultati enormi e per nulla segreti o segretati, raggiunti dalla Commissione Mitrokhin che, in origine e per scelta di Massimo D’Alema, doveva essere presieduta proprio da Francesco Cossiga. Morì molto solo e la sua fine fu triste perché lo abbandonarono tutti. Eugenio Scalfari mi raccontò di essere stato lui a suggerire a Ciriaco De Mita di recuperare Cossiga disoccupato e depresso, quando Amintore Fanfani lasciò la presidenza del Senato per formare un ultimo governicchio estivo. Bisognava trovare un nuovo presidente del Senato e chi meglio dell’ex primo ministro, ministro degli Interni e sodale di Moro? Così lui accettò e fu eletto con numeri plebiscitari. E quando si dovette fare il Presidente della Repubblica, la scelta del suo nome fu morbida e matematica: altro plebiscito, poi il silenzio. Dentro al Quirinale stava zitto. Che fa? Che pensa? O che dice? Non si sapeva. In realtà stava detestando e analizzando tutto il sistema di potere, in particolare quello dei magistrati e del Consiglio superiore della magistratura. Poi cominciò a togliersi i sassi dalla scarpa e fare cose che non erano nel protocollo. Alla fine si permetteva licenze metafisiche come intervenire nella trasmissione della Latella che aveva ospite Palamara e dire al magistrato che la sua faccia non gli piaceva, che non gli piaceva il suo nome da tonno e lo insultava e provocava sfidandolo col, suo accento sardo dalle doppie: “Ah, dimenticavvo: lei se vuolle può anche querellarmi, lo sa, verro? che può querellarmi?”. E quello, basito, diceva: grazie. Al Csm mandò i carabinieri in tenuta antisommossa e attaccò frontalmente il sistema trovandosi sotto il tiro di tutta la stampa liberal. I suoi vecchi amici Scalfari e De Benedetti erano ora i suoi nemici, benché a casa di Scalfari usasse andare a pranzo una volta alla settimana. Io, che come cronista della vicenda mi trovavo incredibilmente sotto tiro, vedevo gli amici che, al vedermi, cambiavano marciapiede. Ricordo Tullio de Mauro, con cui ero in rapporti d’amicizia che mi sibilò: “Ma che cazzo scrivi?” e mi tolse il saluto, come decine di altri. Caddi in disgrazia come narratore scrupoloso e non cretino di quel che accadeva, mentre quasi tutti si dilettavano a insistere sulla pazzia di Cossiga, sulle sue pastiglie di liquerizia, i suoi antidepressivi al litio, le sue piccole manie. E io che spiegavo che non era pazzo: potete odiarlo, ma l’uomo ha le idee chiarissime e voi lo sapete. Tentarono di buttarlo fuori dal Quirinale con un certificato medico psichiatrico che ne dichiarasse l’inabilità fisica e riuscimmo a bloccare il tentativo. Dico riuscimmo, perché non ero solo: tutte le teste matte, specialmente di sinistra, erano con lui anche quando non lo dicevano: al Quirinale alle sette del mattino partecipavo ad alcune prime colazioni con cappuccino e cornetto, dove trovavo Valentino Parlato, Andrea Barbato, Alessandro Curzi e a rotazione tutte le teste d’uovo della sinistra della Repubblica. Il sistema crollò come Cossiga aveva previsto e predetto ma la Dc non ebbe la forza di cambiare, come fece Occhetto che trasformò il Pci in Pds, uscendo incredibilmente indenne dalla furia dell’operazione Mani Pulite che scatenò l’odio italiano per il Parlamento, odio che da allora si è sviluppato passando per le monetine a Craxi, i processi a Berlusconi, le campagne d’odio scatenato con il sistema che Sansonetti ha descritto molto bene come coda vivente dello stalinismo italiano: la prosa del procuratore Viscvinski che mandava a morte tutti coloro che Stalin voleva liquidare. La furia che distrugge, il processo senza prove, quel genere di aggressione che il nazional socialismo tedesco hitleriano copiò e imitò con l’introduzione di alcuni accorgimenti come quello di mandare gli imputati davanti al giudice senza cintura dei pantaloni in modo che gli cadessero le braghe, prima della forca. Tutto ciò Cossiga lo sapeva, l’aveva predetto, aveva sempre citato Viscvinski e conosceva i suoi polli e anche le sue volpi. Scrissi il giorno dopo la sua morte un raccontino in cui dicevo di averlo contattato nell’aldilà grazie ad uno dei suoi aggeggi spionistici. Come va dall’altra parte? Chiedevo. Sono molto dissorgannizzatti, rispondeva. Il check in è lentissimo. Non sappevvo che tutto fosse così scalcagnatto.
LA BIOGRAFIA
26 luglio 1928 – Francesco Cossiga nasce a Sassari. Suo nonno è cugino del nonno di Berlinguer.
1956 – Fonda un gruppo politico di giovanissimi democristiani che si chiameranno i giovani turchi. Danno l’assalto ai vertici del partito sardo e lo conquistano.
1958 – Cossiga, a trent’anni, è eletto deputato.
1966 – Entra nel governo Moro III come sottosegretario alla difesa. Ha un ruolo probabilmente nel porre gli omissis nel rapporto Manes sul piano Solo. Il piano Solo è stato un tentativo (agosto 64) di imporre all’Italia una svolta autoritaria o addirittura di realizzare un colpo di Stato. Fu denunciato dall’Espresso di Scalfari. Cossiga resta sottosegretario fino alla fine della legislatura.
1976 – C’è il vero salto politico. Cossiga, corrente di Base (cioè Marcora) ma molto vicino a Moro, diventa ministro dell’Interno nel primo governo (Andreotti III) sostenuto dall’astensione del Pci.
1977 – In Italia la situazione dell’ordine pubblico è tesissima. I movimenti dell’estrema sinistra hanno in mano le piazze. Cossiga è il loro nemico. Sui muri scrivono il suo nome con il K. Lui organizza la repressione, ha la mano dura. Il 12 maggio a Roma viene uccisa una militante radicale durante una manifestazione. Pannella accusa Cossiga di avere mandato agenti provocatori e dice che son loro ad aver sparato.
9 Maggio 1978 – Le Br fanno ritrovare il cadavere di Aldo Moro, rapito 55 giorni prima. Per Cossiga è una tragedia politica e umana. Si dimette.
4 agosto 1979 – Dopo un periodo dietro le quinte torna alla ribalta. È presidente del Consiglio dopo il fallimento del governo di unità nazionale.
Luglio ‘80. E’ accusato di aver favorito la fuga in Francia di un militante di Prima Linea figlio di Carlo Donat Cattin.
12 luglio 1983 – È eletto presidente del Senato.
Estate 1985 – È eletto presidente della repubblica a 57 anni. Il più giovane di sempre.
Primi anni 90 – Inizia a rilasciare continuamente dichiarazioni politiche polemiche. La Dc lo definisce il presidente picconatore. Il 5 aprile del 92 si dimette.
Dal 92 fino alla morte – diventa il più lucido analista della politica italiana. Sostiene alcuni governi di centrosinistra.
Critica in modo feroce la magistratura. Muore il 17 agosto del 2010.
TRA GLI ITALIOTI UOMO SOLO CONTRO LO STRAPOTERE DELLA MAGISTRATURA.
Quando Cossiga mandò i carabinieri al Csm (con l'appoggio del Pci). Accadde nel '91, il 14 novembre, quando il presidente-picconatore ritirò la convocazione di una riunione del plenum nella quale erano state inserite cinque pratiche sui rapporti tra capi degli uffici e loro sostituti sull'assegnazione degli incarichi. Cossiga riteneva che la questione non fosse di competenza del plenum e avvertì che se la riunione avesse avuto luogo avrebbe preso «misure esecutive per prevenire la consumazione di gravi illegalità». I consiglieri del Csm si opposero con un documento e si riunirono. In piazza Indipendenza, alla sede del Csm, affluirono i blindati dei carabinieri e due colonnelli dell'Arma vennero inviati a seguire la seduta. Ma il caso fu risolto subito, perché il vicepresidente, Giovanni Galloni, non permise la discussione. Sono le 17,20 del 14 giugno 1991, quando, del tutto inaspettata, l'Alfa 164 blindata di Cossiga si presenta al portone del Consiglio superiore della magistratura, scrive Franco Coppola su “La Repubblica”. Un consigliere in maniche di camicia incontra il presidente in attesa dell'ascensore. Un po' di imbarazzo, un rapido saluto e il capo dello Stato raggiunge al terzo piano, proprio a fianco all'aula Bachelet, la sua stanza, quella di cui aveva chiesto la disponibilità, senza però mai occuparla, alla fine dell' '89, dopo averla lasciata per anni al comitato di presidenza. In quella stanza lo hanno preceduto e ora lo aspettano i mobili nuovi, arrivati proprio in mattinata, divani e poltrone damascate, segnale inequivocabile di una occupazione nello stesso tempo concreta e simbolica, di un volersi riappropriare del ruolo anche se, negli auspici di Cossiga esternati nel plenum di mercoledì, si fa strada l'ipotesi della provvisorietà della cosa. E' la seconda volta in ventiquattr'ore che Cossiga varca il portone di palazzo dei Marescialli. E questa mattina ci sarà una terza volta. Lo attende una seduta del tribunale dei giudici, quella sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura che, mercoledì, comunicando ufficialmente di voler sostituire il vicepresidente Giovanni Galloni a tutto campo, il capo dello Stato ha deciso di presiedere. E la visita di ieri va messa in relazione proprio a questo impegno. E' entrato nel suo studio, ne ha verificato l'arredamento, si è messo a studiare gli atti relativi ai processi disciplinari previsti per oggi, si è aggirato per i corridoi, ha chiesto spiegazioni ai funzionari addetti alla sezione, si è incontrato con l'ex presidente della corte costituzionale Antonio Saja, ha convocato i componenti la disciplinare per oggi alle 9,15, mezz'ora prima dell'inizio della seduta. Non commettere errori procedurali. Si tratta di studiare i processi, ma soprattutto di non commettere errori procedurali. Infatti, la decisione del capo dello Stato di presiedere anche la disciplinare trascina con sé, inevitabilmente, un carico di problemi. Proprio di fronte al più delicato di questi, Cossiga ha ceduto di un passo, permettendo che Galloni presieda uno dei processi in calendario ed evitando così un immediato e pericoloso braccio di ferro. Il primo problema faceva riferimento al fatto che, secondo le norme, se un processo è stato già incardinato, il collegio giudicante non può essere cambiato. All'ordine del giorno di oggi sono iscritte sette pratiche, quattro processi e tre camere di consiglio, cioè decisioni da prendere senza una preventiva discussione pubblica. Uno dei processi, quello contro il consigliere della corte d'appello di Genova Vincenzo Ferraro, è segnato a ruolo in prosecuzione della seduta del 13 maggio 1991. Quella seduta era presieduta, come sempre, da Giovanni Galloni. Oggi, la pratica avrebbe dovuto essere rinviata a nuovo ruolo oppure si sarebbe dovuto annullare quanto già fatto e ricominciare tutto daccapo. Cossiga ha preferito farsi da parte e così Galloni presiederà quell'unico processo. Il secondo problema, il meno importante, lo sottolinea Franco Coccia, consigliere eletto su indicazione del Pds, che della disciplinare è vicepresidente: I ritmi di lavoro della disciplinare appaiono difficilmente conciliabili con le incombenze ordinarie del presidente della Repubblica. Lunedì scorso, la sezione è stata impegnata per circa dodici ore e le sue sedute, generalmente, sono molto impegnative. Anche l'ordine del giorno della prossima seduta è assai denso. Legittimità costituzionale Terzo problema: non più tardi di undici mesi fa, nel primo dei due messaggi sulla giustizia (il secondo è di febbraio) inviati alle Camere, Cossiga scriveva: Per quanto riguarda la presidenza della sezione disciplinare da parte del presidente della Repubblica, l'articolo 18 della legge del 1958 sul Csm attribuisce al capo dello Stato la facoltà di convocare e presiedere la sezione disciplinare in tutti i casi in cui lo ritiene opportuno. Questa norma non può non apparire quanto meno sospetta sotto il profilo della sua legittimità costituzionale, dato che consente di alterare la composizione di un collegio che esercita funzioni giurisdizionali senza che, a fondamento di tale modifica della composizione, vi siano oggettive esigenze o soggettive incompatibilità normativamente predeterminate, ma tutto lasciando ad una scelta discrezionale del presidente della Repubblica. E allora? La sezione disciplinare potrebbe sollevare la questione di costituzionalità, proprio sulla base delle obiezioni di Cossiga. O l'iniziativa potrebbe essere presa da Cossiga in persona. Sul conflitto, o bisticcio che dir si voglia, che separa Cossiga da Galloni si saprà qualcosa di più mercoledì prossimo, quando le clamorose conseguenze minacciate dal capo dello Stato dopo l'intervento del suo vice in difesa dell'indipendenza della magistratura dovranno concretizzarsi. Il presidente vorrebbe risolvere il problema insieme con il Consiglio tutto, che, benché una volta tanto incolpevole, rischia di pagare a duro prezzo le incomprensioni tra i due. La linea emersa tra i consiglieri è semplice: siamo solidali con Galloni, ma i contrasti insorti tra lui ed il capo dello Stato non ci riguardano e non possono costituire motivo di scioglimento. E' nel potere di Cossiga di assumere direttamente la presidenza, è stato detto ma se poi per altri impegni non può essere sempre presente, che non addossi a noi la colpa di un eventuale scarso funzionamento, per poi considerarlo motivo di scioglimento del Consiglio.
Qualche anno fa nel corso di una delle periodiche aspre polemiche fra alcuni partiti politici ed il Consiglio superiore della magistratura Francesco Cossiga con un'un'intervista invitava senza mezzi termini il capo dello Stato ad intervenire: "Come feci io", scrive “Il Velino”. Il 5 dicembre del 1985, quando stava per essere votata una mozione di censura del presidente del Consiglio dell'epoca, Bettino Craxi, aveva inviato una lettera al vice presidente del Csm, (Giancarlo De Carolis) nella quale l'allora inquilino del Colle, esprimeva la ''ferma opinione sulla inammissibilità di un dibattito o intervento del consiglio su atti, comportamenti o dichiarazioni del presidente del Consiglio dei ministri''. Dibattito sollecitato da alcuni magistrati di Milano "a difesa" in relazione alle polemiche sul processo per l'omicidio di Walter Tobagi e sulla condanna di alcuni esponenti socialisti querelati dal sostituto procuratore di Milano, Armando Spataro, che in quel processo fu pubblico ministero. "Io minacciai - raccontava Cossiga nell'intervista - di recarmi di persona al Csm e di estrometterlo com'era mio diritto dalla presidenza e, se avesse opposto resistenza, dall'aula; di rifiutarmi di porre l'argomento all'ordine del giorno, ritenendolo inammissibile, e dove fosse ammesso, cancellarlo, dopo avere espulso tre o quattro membri del plenum. E se avessero per protestato occupato l'aula, avrei fatto sgombrare il Palazzo dei Marescialli. A tal fine, avuta l'intesa del procuratore della Repubblica di Roma e del ministro dell'Interno (Oscar Luigi Scalfaro), feci schierare un battaglione mobile di carabinieri in assetto antisommossa, al comando di un generale di brigata". Cossiga raccontava ancora: "Avevo l'appoggio del Pci. Giunsero al Quirinale il giudice della Corte costituzionale Malagugini e il presidente dei senatori comunisti Perna a dirmi che avevo perfettamente ragione e che non mollassi: Altrimenti quelli lì ci travolgono tutti". Nella storia repubblicana con Giuseppe Saragat e Sandro Pertini, è stato il presidente che più ha tentato di arginare lo strapotere del Csm. Uno strapotere che da presidente emerito ancora qualche che anno fa così denunciava: "Il CSM continua imperterrito nel cercare di affermarsi pericolosamente quale terza Camera del Parlamento nazionale, non elettiva, non democratica, ed anche nel cercare di affermarsi quale organo Costituzionale, posto al vertice del potere giudiziario. E su questa strada, chiaramente più che incostituzionale, in realtà potenzialmente eversiva. Il Consiglio è sostenuto da costituzionalisti democratici, un tempo largamente rappresentati, ahinoi, anche nella Corte Costituzionale e ... da non pochi elementi della sinistra giudiziaria dell'Unione prodiana" . Nel corso dei suoi quasi sette anni al Quirinale, Cossiga non soltanto minacciò l'intervento dei carabinieri per far si che il plenum non trattasse ordini del giorno da lui non approvati, ma con Giovanni Galloni, nel '91, ricorse perfino alla sospensione temporanea della delega a presiedere i lavori del Csm e a Cesare Mirabelli, vicepresidente del Csm un anno prima di Galloni, ribadì che l'Organo di autogoverno non era un "potere dello Stato" come invece lo intendevano già settori della magistratura e le correnti più politicizzate dell'Anm.
Citazioni Celebri di Francesco Cossiga:
I sardi rimangono amici anche se uno commette reati.
Lo Stato è in ritardo.
L'Italia è sempre stato un Paese "incompiuto": il Risorgimento incompleto, la Vittoria mutilata, la Resistenza tradita, la Costituzione inattuata, la democrazia incompiuta. Il paradigma culturale dell'imperfezione genetica lega con un filo forte la storia dello sviluppo politico dell'Italia unita.
Sono certo che questa circostanza della riunione della Gran Loggia potrà offrire alla massoneria italiana l'opportunità di confermare e consolidare il nobile impegno, sempre testimoniato dal Grande Oriente, per l'elevazione spirituale dell'uomo, condotta attraverso la difesa e la promozione dei valori di libertà, di giustizia e di solidarietà.
Sono depresso: nessuno intercetta le mie telefonate.
So tutto su Gladio: come era fatta e come non era fatta. Per filo e per segno. E quindi, quando ne parlo, ne parlo con perfetta cognizione di causa. E mi sono immediatamente sbracciato per garantire che era una cosa perfettamente lecita, anzi doverosa, e senza doppi fondi, esponendomi in prima persona.
Si potrebbe fare un libro con i nomi dei sovrani inglesi decapitati per aver attentato alla Costituzione. Magari aggiungendoci Francesco Cossiga, perché ha firmato il decreto di arruolamento per Gladio.
Se ho i capelli bianchi e le macchie sulla pelle è per questo. Perché mentre lasciavamo uccidere Moro, me ne rendevo conto. Perché la nostra sofferenza era in sintonia con quella di Moro.
I gladiatori sono stati additati al pubblico ludibrio dei patrioti. Brava gente che qualcuno ha tentato di confondere con stragisti. e questa è un'altra delle vergogne nazionali.
Di questa questione della P2 non mi sono mai impicciato, non so di cosa si tratti, non mi sento vincolato dalle risultanze della commissione parlamentare di tre legislature fa, così come non mi sento vincolato dalla commissione parlamentare sui fatti di Lissa e dell'ammiraglio Persano. Rispetto molto di più gli uomini, le persone, il principio della certezza del diritto, la presunzione d'innocenza e sono in attesa di conoscere i giudizi definitivi della magistratura su questo problema. Io non so se alcune persone che sono state messe nelle liste ci fossero o no, io ho detto semplicemente che alcune di quelle persone le conosco, sono dei grandi galantuomini e per i servizi che hanno reso, essendo io al governo del paese, sono dei patrioti.
Craxi è un balente, da "balentia", che in sardo significa coraggio, sposato con la capacità e l'abilità, e con il senso dell'onore.
[Sulle proteste degli studenti universitari] Lasciarli fare. Ritirare le forze di polizia dalle strade e dalle università, infiltrare il movimento con agenti provocatori pronti a tutto, e lasciare che per una decina di giorni i manifestanti devastino i negozi, diano fuoco alle macchine e mettano a ferro e fuoco le città.[...] Dopo di che, forti del consenso popolare, il suono delle sirene delle ambulanze dovrà sovrastare quello delle auto di polizia e carabinieri. [...] Nel senso che le forze dell'ordine dovrebbero massacrare i manifestanti senza pietà e mandarli tutti in ospedale. Non arrestarli, che tanto poi i magistrati li rimetterebbero subito in libertà, ma picchiarli a sangue e picchiare a sangue anche quei docenti che li fomentano.
Se fossi ministro dell'interno darei incarico ai servizi segreti di controllare l'Anm in base alla legge sull'associazione eversiva.
Di Pietro dice che è tornata tangentopoli? Lui è un famoso cretino e gli voglio molto bene perché voglio bene ai cretini e lui è sempre più cretino. Però ora sta diventando presuntuoso, crede di essere diventato anche un politico. Ha aumentato i consensi? Quando dissero a Churchill che c'erano cretini in Parlamento, lui rispose "meno male, è la prova che siamo una democrazia rappresentativa". Vuol dire che i cretini in Italia, cioè quelli che votano l'Italia dei... disvalori, è bene che emergano.
Veltroni si intende di cinema e Africa. Non costringiamolo a capire anche questa cosa. Lui è il ma anche, è per il giustizialismo e l'antigiustizialismo, per il freddo e per il caldo.
[Perché le piace tanto D'Alema?] Perché come me per attaccare i manifesti elettorali è andato di giro nottetempo con il secchio di colla di farina a far botte. Perché è un comunista nazionale e democratico, un berlingueriano di ferro, e quindi un quasi affine mio, non della mia bella nipote Bianca Berlinguer che invece è bella, brava e veltroniana. E poi è uno con i coglioni. Antigiustizialista vero, e per questo minacciato dalla magistratura.
Veltroni è un perfetto doroteo: parla molto, e bene, senza dire nulla.
Noi galantuomini stiamo con la Pompadour.
Era il 1974, io ero da poco ministro. Passeggiavo per Roma con il collega Adolfo Sarti quando incontrai Roberto Gervaso, che ci invitò a cena per conoscere un personaggio interessante. Era lui [Silvio Berlusconi]. Parlò per tutta la sera dei suoi progetti: Milano 2 e Publitalia. Non ho mai votato per Berlusconi, ma da allora siamo stati sempre amici, e sarò testimone al matrimonio di sua figlia Barbara. Certo, poteva fare a meno di far ammazzare Caio Giulio Cesare e Abramo Lincoln.
In Italia i magistrati, salvo qualcuno, non sono mai stati eroi.
Io relativizzo tutto quello che non attiene all'eterno.
Totò Cuffaro è stato condannato per un reato ridicolo.
Nominare Di Pietro Ministro della Giustizia, altrimenti arrestano anche la moglie del Presidente del Consiglio.
[Rivolgendosi al segretario dell'Associazione nazionale magistrati Luca Palamara] I nomi esprimono la realtà. Lei si chiama Palamara e ricorda benissimo l'ottimo tonno che si chiama Palamara. [...] Io con uno che ha quella faccia e che ha detto quella serie di cazzate non parlo. Maria, fai tacere quella faccia da tonno.
La Nunziatella, oltre ad essere un luogo di formazione militare, è un luogo di grandissima formazione culturale e civile. Qui è racchiusa la storia di tutto il nostro Paese. Io credo che l'Italia Repubblicana deve far tesoro di tutte quelle che sono le grandi tradizioni militari e per ciò stesso civili che si sono formate in tutto il paese anche quando questo non aveva raggiunto l'unità politica. La mia presenza alla Nunziatella vuol dire dunque onorare l'Italia in tutta quella che è la sua storia.
[In risposta ad una dichiarazione della Bruni] Anche noi italiani siamo ben lieti che Carla Bruni non sia più italiana, anzi siamo addirittura felici. Chissà che un giorno Carla Brunì non sia costretta dalla sua burrascosa vita a richiedere la cittadinanza italiana.
Un'efficace politica dell'ordine pubblico deve basarsi su un vasto consenso popolare, e il consenso si forma sulla paura, non verso le forze di polizia, ma verso i manifestanti[...]l'ideale sarebbe che di queste manifestazioni fosse vittima un passante, meglio un vecchio, una donna o un bambino, rimanendo ferito da qualche colpo di arma da fuoco sparato dai dimostranti: basterebbe una ferita lieve, ma meglio sarebbe se fosse grave, ma senza pericolo per la vita[...]io aspetterei ancora un po' e solo dopo che la situazione si aggravasse e colonne di studenti con militanti dei centri sociali, al canto di Bella ciao, devastassero strade, negozi, infrastrutture pubbliche e aggredissero forze di polizia in tenuta ordinaria e non antisommossa e ferissero qualcuno di loro, anche uccidendolo, farei intervenire massicciamente e pesantemente le forze dell'ordine contro i manifestanti.
Non accetto lezioni di etica politica dalla Bindi: è brutta, cattiva e cretina.
[Parlando di sé] Italiano per volontà come sono tutti i sardi.
[A proposito del caso Visco-Speciale] Cosa sarebbe l'Italia senza Arlecchino e Pulcinella.
[Sull'11 settembre] Tutti gli ambienti democratici d'America e d'Europa, con in prima linea quelli del centrosinistra italiano, sanno ormai bene che il disastroso attentato è stato pianificato e realizzato dalla Cia americana e dal Mossad con l'aiuto del mondo sionista per mettere sotto accusa i Paesi arabi e per indurre le potenze occidentali ad intervenire sia in Iraq sia in Afghanistan.
Il Vaticano è filoarabo perché ha necessità di tutelare gli spazi e l'esistenza dei propri fedeli che risiedono in quei paesi. Del resto la vecchia tradizione popolare cattolica è sempre stata intrisa di antiamericanismo, ed ha disprezzato innanzitutto ciò che sapeva di protestantesimo.
Fra Prodi e i DS scelgo cento volte i DS, perché i DS so chi sono, Prodi non so chi è.
Dopo le famiglie distrutte da mani pulite senza nessun contributo alla moralizzazione del Paese, ora con gli stessi attori non avremo grazie a calciopoli nessuna moralizzazione: o se la danno i club o non sarà certamente Borrelli a darla loro. E corriamo il rischio di avere un'altra sequela di suicidi, tentati suicidi e famiglie distrutte. I ragazzi della nazionale stanno reggendo a questa persecuzione psicologica ed hanno retto anche al dolore per la vicenda di Pessotto. Per questo dico loro bravi.
Di Pietro ha le qualità morali per andare al Quirinale.
Di Pietro è un ottimo investigatore e un buon politico. Vedrei bene per lui un seggio in Parlamento.
I magistrati di Mani Pulite hanno e avranno il mio appoggio.
Rovinerò Bossi facendogli trovare la sua automobile imbottita di droga; lo incastrerò. E quanto ai cittadini che votano per la Lega li farò pentire: nelle località che più simpatizzano per il vostro movimento aumenteremo gli agenti della Guardia di Finanza e della Polizia, anzi li aumenteremo in proporzione al voto registrato. I negozianti e i piccoli e grossi imprenditori che vi aiutano verranno passati al setaccio: manderemo a controllare i loro registri fiscali e le loro partite Iva; non li lasceremo in pace un momento. Tutta questa pagliacciata della Lega deve finire.
[Gianfranco Fini] È il migliore. Porta avanti il suo gioco politico con una buona lucidità. Ma è privo dei supporti dottrinari. Non so se legga qualche libro. So che mischia un po' tutto: Evola e il liberismo, la conservazione e il libertarismo.
Nel 1993 in Italia c'è stata una rivoluzione inutile, anzi un colpo di Stato. Purtroppo la DC non capì o sottovalutò la situazione, impegnata com'era a dare giudizi sul mio presunto stato mentale. Oggi direi che Di Pietro potrebbe essere un bravo dirigente di squadra mobile, uno di quelli a cui si perdonano certi eccessi. Quanto alla morale, se io alla sua età, quando ero sottosegretario alla Difesa, avessi accettato denaro da amici... cosa mi sarebbe successo?
Le intercettazioni hanno ormai il posto che avevano prima i pentiti. Ma i primi mafiosi stanno al CSM. [Sta scherzando?] Come no? Sono loro che hanno ammazzato Giovanni Falcone negandogli la DNA e prima sottoponendolo a un interrogatorio. Quel giorno lui uscì dal CSM e venne da me piangendo. Voleva andar via. Ero stato io a imporre a Claudio Martelli di prenderlo al Ministero della Giustizia.
La battaglia contro la magistratura è stata perduta quando abbiamo abrogato le immunità parlamentari che esistono in tutto il mondo e quando Mastella, da me avvertito, si è abbassato i pantaloni scrivendo sotto dettatura di quell'associazione tra sovversiva e di stampo mafioso che è l'Associazione nazionale magistrati.
Questa è la ricetta democratica: spegnere la fiamma prima che divampi l'incendio.
Craxi e Martinazzoli avrebbero dovuto riconoscere che la DC e il PSI sono i soci fondatori di Tangentopoli.
Gesù è chiamato, nella tradizione musulmana, il "Soffio di Dio nella Madonna", ma l'aspetto temporale della nascita di nostro Signore è una donna che dice Fiat!
Alla mia veneranda età accade di dover essere alle prese con i medici. Ma la malattia finisce per essere una cosa bellissima, quando aiuta ad allontanare la tentazione della politica.
Vorrei sapere quanti omicidi devono compiere i pentiti per essere credibili.
I magistrati fanno bene quando da pubblici ministeri fanno i pubblici ministeri e non i poliziotti o i giudici; quando da giudici fanno i giudici e non i pubblici ministeri o i poliziotti; quando rimangono indipendenti ed evitano anche di non apparirlo; quando rispettano gli altri poteri dello Stato e non cercano vie pseudogiudiziarie a discutibili riforme politiche; quando difendono la loro indipendenza, ma non camuffano da indipendenza i loro interessi corporativi; quando agiscono su, fatti e non su teoremi.
Io non sono, comunque, uno di quelli che crede che la giustizia sia estranea alla cultura, tanto meno alla cultura politica.
L'uomo viene ucciso più dal cibo che dalla spada, ma le istituzioni vengono uccise dal ridicolo.
L'esercizio delle funzioni di magistrato dell'ordine giudiziario, giudice e pubblico ministero incide così profondamente e talvolta irreversibilmente su i diritti della persona e sulla sua stessa vita psichico-fisica che particolare equilibrio mentale e specifiche attitudini psichiche debbono essere richieste per la assunzione della qualità di magistrato e per la permanenza nella carriera.
Il Csm è il braccio armato, il killer dell'Associazione nazionale magistrati.
Lo sciopero (dei magistrati) che si terrà domani è un vero e proprio atto di eversione contro la Costituzione cui purtroppo nè noi, nè il governo, nè il Parlamento abbiamo finora voluto e saputo reagire.
Cosa direbbe Cossiga del circo giudiziario allestito dalla Boccassini, si chiede Alessandro Nardone su “L’Intraprendente”. Non sono mai stato un ultrà berlusconiano e, anzi, dalla nascita del PdL in poi, non ho di certo lesinato critiche all’ex premier. Perché? I motivi sono essenzialmente due, inscindibili e consequenziali: il primo riguarda il sostanziale fallimento (per altro da lui stesso ammesso) della realizzazione di quello che veniva presentato come il vero e proprio “core business” dell’esperienza di governo del centrodestra, ovvero la rivoluzione liberale. La seconda ragione che, poi, a mio modestissimo avviso, è la madre della prima, riguarda i criteri – certamente non meritocratici – di selezione della classe dirigente del suo partito. Questi, però, non sono certo argomenti in nome dei quali gettare il bambino con l’acqua sporca, cascando nel trappolone di un antiberlusconismo becero e aprioristico, negando la realtà di una leadership – quella del Cav. – ancora in grado di calamitare una fetta importantissima di consensi. Operazione folle e suicida se vista da sinistra, figuriamoci per chi, come noi, ha in animo di ricostruire il centrodestra. Insomma, credo che chiunque si assuma l’onere di rappresentare una visione realmente onesta intellettualmente, non possa assolutamente permettersi di essere obiettivo ad intermittenza. Tutto questo per dire che mi fanno sorridere coloro i quali, anche a fronte degli accadimenti degli ultimi anni, si ostinano a non ravvisare un disequilibrio tra il potere politico e quello della magistratura. Ce lo spiega benissimo il compianto Presidente Cossiga che, in un libro – intervista di Andrea Cangini (Fotti il potere, Aliberti Editore) ci spiega, con il suo consueto modo assai esplicito, alcuni passaggi a mio avviso fondamentali per meglio mettere a fuoco una questione che, prima o poi, qualcuno dovrà farsi carico di risolvere. Ve li riporto di seguito. Buona lettura.
L’ideale dei magistrati è che le leggi le facciano loro.
Dal potere, informale, della massoneria, al potere a volte arbitrario della magistratura. Organo nei confronti del quale il Presidente nutre un’istintiva diffidenza figlia di quel primato della politica cui ama spesso richiamarsi. È così diffidente, Francesco Cossiga, che non appena gli si chiede del potere dei giudici sulle cose della politica cita Carl Schmitt: “Il quale scrisse che l’invenzione della Corte costituzionale era una solenne sciocchezza, nonché un pericolo perché un giudice che può giudicare le leggi è, di fatto, un organo politico. Di più: è un organo politico superiore all’organo politico per eccellenza, il Parlamento. Non a caso i due Paesi che nel Novecento per primi si diedero una Corte costituzionale furono tutti e due travolti: prima l’Austria della dittatura antitedesca ma patriottica del fascista Eglebert Dollfuss, poi la Germania di Weimar, sulle cui ceneri nacque il Terzo Reich. La gente non sa che negli Stati Uniti vi è una durissima polemica contro la Corte Suprema, e i più critici sono i cattolici teocon, gli ebrei praticanti, i battisti e gli altri evangelici che fanno capo alla rivista First Think. Ambienti diversi, ma accomunati dalla preoccupazione per un organismo giustamente accusato di emettere sentenze “politiche”. Personalmente, ho sempre sostenuto che la Corte costituzionale italiana è un organo di arbitraggio politico esercitato in finta forma giurisdizionale”. Tutto questo, ragionando in termini generali. Ma secondo Cossiga il caso particolare italiano è anche peggiore dei casi di scuola. È peggiore perché “da noi la magistratura s’è arbitrariamente trasformata da ordine in potere”. La conversione risale ai tempi di Mani Pulite e gli elementi che l’hanno resa possibile sono due: “La conclamata crisi del sistema politico della cosiddetta Prima Repubblica ed il fatto che buona parte del Pci/Pds fece da sponda a quell’operazione ritenendo di trarne vantaggi politici”. Ma la responsabilità di tutto questo, naturalmente, è a monte. Quando un ordine o un potere tracimano e invadono gli spazi vitali dei poteri limitrofi è sempre perché gli argini hanno ceduto. E in questo caso gli argini sono rappresentati dalla politica. I politici erano deboli, i partiti annichiliti e i magistrati ne hanno dunque invaso i territori con facilità. “Oggi” dice Cossiga, “l’ideale dei magistrati è che le leggi le devono fare loro. Devono farle loro perché loro sono i migliori. Punto e Basta. Cos’era, del resto, il proclama del pool di Milano, “ribalteremo l’Italia come un calzino”, se non un programma politico?”. Le avvisaglie, però, ci furono per tempo. Ma come spesso accade non furono colte. Per Francesco Cossiga il primo “segnale emblematico” fu quel che accadde nel ’73 durante l’iter parlamentare della legge Breganzone. “Quella legge che” spiega, “previde l’avanzamento in carriera dei magistrati per pura anzianità “senza demerito”. Senza demerito, capisce? Il merito non conta e l’eventuale demerito del magistrato puo’ essere rilevato solo da altri magistrati, cosa che di conseguenza non accade. Beh, ricordo che alla Camera parlarono contro solo il repubblicano Reale, l’onorevole Ricci, poi sequestrato in Sardegna e ucciso, Peppino Gargani e io. Ricci, Gargani e io, tutti democristiani, fummo immediatamente convocati al gruppo parlamentare del partito, dove un membro della Direzione ci ingiunse di votare a favore e di tacere “perché se no – disse esibendo i polsi – ci arrestano tutti”. Non si piegarono. Il repubblicano e i tre sparuti democristiani furono gli unici a votare contro. “Ma ciò nonostante” sorride il Presidente, “fummo tutti arrestati lo stesso”. Il problema è che da allora la politica non ha più trovato un equilibrio col potere giudiziario: non si è corretta, ne è riuscita a imporsi. “Oggi tocca infatti a Silvio Berlusconi: un outsider, per i poteri forti del Paese; una staffetta del grande corruttore Bettino Craxi, per i giudici. Dunque, una preda due volte ghiotta. Ma è bene non dimenticare che è storia recente la crisi di un governo (quello presieduto nel 2008 da Romano Prodi) innescata da un’inchiesta giudiziaria (quella contro il guardasigilli Clemente Mastella). Per non dire dell’imbarazzo del Viminale di fronte a una sentenza del Consiglio di Stato che, se non fosse stato ritirato il ricorso, avrebbe seriamente messo in discussione la data delle scorse elezioni politiche. Per tutelare il diritto di uno pseudo partito dello 0,2 per cento, la Democrazia cristiana di Giuseppe Pizza, si sarebbe così irrimediabilmente danneggiato l’interesse generale incidendo sui tempi, e dunque sul risultato, di quello che della la democrazia è il momento supremo: le elezioni, appunto. Giochetto recentemente riproposto nel Lazio in occasione delle elezioni regionali…”. “Vicende ai limiti del golpe”, è il commento del Presidente.
Sarebbe uno scontato eufemismo dire che Cossiga non lascia un buon ricordo a Palazzo dei Marescialli, scrive Paolo Menghini su “Il Corriere della Sera”. Ma anche quello secondo cui il Capo dello Stato non verserà lacrime di commozione nel separarsi da molti dei componenti del Consiglio superiore della magistratura, ai quali è apparso legato in questi anni da "profonda disistima". Nessun altro organismo istituzionale è mai riuscito a mandarlo fuori dai gangheri come ha fatto il Consiglio superiore della magistratura e nessun governo dei giudici si è mai lamentato tanto del suo presidente. Insomma un'incompatibilità di fondo che si è manifestata in frizioni continue, guerre di nervi, fragili tregue, molti scontri plateali. Si lasciano, il Consiglio e il suo presidente, cui i temi della giustizia sono stati particolarmente a cuore e ne ha fatto oggetto di due messaggi al Parlamento, proprio col ricordo fresco di un ennesimo "corpo a corpo" avvenuto una settimana fa: alcuni consiglieri annunciano di voler disertare la seduta dedicata al caso Sicilia, presente il Capo dello Stato, Cossiga s'infuria, dice che il Csm "e' una delle ultime sacche di socialismo reale del nostro paese", e ai protagonisti dello sgarbo dà dei "maleducati". Record, questo tormentato rapporto ne ha battuti parecchi. Non era mai successo che un componente del Csm si dimettesse per protestare contro il Presidente della Repubblica: Elena Paciotti, di "Magistratura democratica" se ne andò nel giugno del 1990 dopo che Cossiga aveva accusato il Csm di volersi assumere compiti non suoi. Non era mai successo che venisse revocata dal Capo dello stato al vicepresidente del Csm la delega conferita al momento dell'elezione. Non era mai successo che un presidente "sconvocasse" una seduta del Consiglio perchè la maggioranza dei componenti aveva deciso di inserire all'ordine del giorno cinque pratiche giudicate da Cossiga fuori dalla competenza del plenum. Non si era mai sentita infine tanta durezza di linguaggio nell'affrontare i contrasti scoppiati tra Quirinale e Palazzo dei Marescialli. Eppure le premesse sembravano le migliori. Il Presidente della Repubblica, nella sua qualità di presidente del Consiglio superiore della magistratura, non aveva esitato a sottoscrivere, all'atto del suo insediamento, una delega più ampia di quella concessa dai suoi predecessori al vicepresidente del Csm. A Giovanni Galloni, dunque, piena fiducia. Quando, poi, dopo gravi incomprensioni, si riappropriò delle sue prerogative, lo ha fatto in maniera clamorosa e dirompente per sottolineare in maniera anche "scenografica" tutto il suo disappunto. Un camion partito dal Quirinale, un pomeriggio del giugno 1991, consegnò a Palazzo dei Marescialli un arredo completo per lo studio di Cossiga che aveva deciso di installarsi nel suo ufficio dopo aver ovviamente ritirato la delega a Galloni anche per la normalissima amministrazione. Alcune date scandiscono le tappe più importanti della storia del Csm e del suo presidente. Dicembre 1985: il plenum vuole replicare all'allora presidente del Consiglio Bettino Craxi che aveva criticato alcuni giudici. Cossiga lo impedisce E cominciano i contrasti sull'interpretazione da attribuire alle funzioni del Csm. Il Capo dello Stato segue la corrente di pensiero secondo cui l'organo di autogoverno dei giudici debba svolgere funzioni di alta amministrazione mentre altri, soprattutto i togati, difendono il ruolo anche politico e di indirizzo generale di palazzo dei Marescialli. Marzo 1990: Cossiga blocca la discussione sulla mancata promozione di un giudice bolognese iscritto ad una loggia massonica. Luglio 1990: il presidente rinnova i suoi dubbi sui poteri del Csm e non partecipa alla elezione di Galloni. Novembre 1990: anche il "caso Casson", il giudice che aveva chiesto la testimonianza di Cossiga per Gladio, diventa motivo di contrasto: può il vicepresidente del Csm porre in discussione argomenti senza il previo assenso del presidente? Il quesito diventa pressante e nel febbraio 1991 il Capo dello Stato decide di affidare ad una commissione di studio, presieduta dall'ex presidente della Corte costituzionale Livio Paladin, il compito di valutare eventuali correttivi alle regole sul funzionamento del Consiglio. Una data storica è sicuramente giugno 1991. I rapporti precipitano. Il Quirinale giudica offensive una serie di dichiarazioni di Galloni. Il vice aveva polemizzato con Cossiga che aveva deplorato l'abitudine di mandare contro la criminalità organizzata i giudici ragazzini sostenendo invece che bisognava essere grati a quei giovani. E poi a Vasto, al congresso nazionale dei magistrati, Galloni aveva affermato che non si era mai dato il caso di rivoluzioni guidate dai vertici delle istituzioni. La rabbia di Cossiga sale a mille. Parla di "demagogia eversiva" e di "inaudito attacco personale al Capo dello Stato". E chiude minaccioso: "L' episodio non rimarrà senza conseguenze". La lite si conclude con la revoca della delega e con l'attesa, vana, da parte di Cossiga delle dimissioni di Galloni. Successivamente, anche per interventi esterni al Consiglio, il dissidio viene sanato ma i contrasti non tardarono a riaffacciarsi sul medesimo tema: chi al Consiglio ha il potere di formare l'ordine del giorno. Una volta, per bloccare una seduta, Cossiga non esitò a minacciare il Csm: "Mando i Carabinieri".
La prima volta mi fece chiamare al telefono dell’Espresso dalla Batteria del Viminale, che era il febbraio o il marzo del ’68, e io e Scalfari eravamo appena stati condannati dal Tribunale di Roma per aver diffamato il generale Giovanni De Lorenzo attribuendogli il tentativo di eversione del “Piano Solo”, scrive Lino Jannuzzi su “Il Foglio”. Dopo la sentenza, Scalfari aveva pubblicato sull’Espresso una durissima lettera aperta al presidente del Consiglio Aldo Moro, accusandolo di aver nascosto la verità ai giudici cancellando con i 71 omissis le denunce dell’inchiesta del generale Manes. Francesco Cossiga era sottosegretario alla Difesa e al telefono fu secco e perentorio: “Devi dire a Scalfari che sbaglia a prendersela con Moro. Gli omissis li ho messi io, Moro non capisce niente di queste questioni, e, fosse stato per lui, avrebbe messo in piazza i segreti più delicati della Repubblica”. Un anno dopo, nel frattempo io e Scalfari eravamo stati eletti in Parlamento, ed era stata costituita la commissione d’inchiesta sui fatti dell’estate del ’64 Cossiga venne a pranzo da me, in via della Croce, e si vantò due volte: “Io li ho messi, gli omissis, quando ho mandato il rapporto Manes al tribunale, e io li ho tolti, ora che ho rimandato il rapporto alla commissione. Ma questo non servirà a dare ragione a te e a Scalfari”. In effetti, la relazione di maggioranza della commissione ci trattò benissimo, riempiendoci di elogi per le nostre qualità di grandi giornalisti, ma in sostanza confermò l’assoluzione di De Lorenzo. E Cossiga non ha mai più cambiato idea. In occasione del suo settantasettesimo compleanno, nel luglio del 2005, quando lo intervistai e annunciò che dal primo gennaio 2006 si sarebbe ritirato dalla politica e fece un rapido bilancio di cinquant’anni di vita, gli chiesi: “Se un giornalista riprendesse e rilanciasse oggi la famosa inchiesta di quarant’anni fa sul ‘colpo di stato’ del generale De Lorenzo, riscenderebbe in campo per difendere il generale e l’allora presidente della Repubblica Antonio Segni, suo conterraneo e maestro?”. E lui: “Certamente, e accuserei quel giornalista di essersi inventato tutto… Il che non mi impedirebbe di diventare suo amico e di rimanerlo per quarant’anni, e di levarmi a parlare in Senato, riscuotendo la solidarietà di tutti i settori, in sua difesa, quando lo volessero arrestare per le sue sacrosanti critiche ai professionisti dell’antimafia…”. Per l’occasione, Cossiga fece di più. Quando mi condannarono e il Tribunale di sorveglianza decise che avrei dovuto trascorrere in carcere due anni e quattro mesi, affittò un aereo per venirmi a prendere a Parigi, dov’ero per una riunione del Consiglio d’Europa: “Ti riporto io a Roma e ti accompagno fino a Regina Coeli…”. Non ero entusiasta della generosa proposta, e per fortuna mi tolse d’imbarazzo la grazia concessami dal presidente Ciampi, appena in tempo. L’ultimo suo anno al Quirinale, mi chiamava alle sette del mattino perché andassi a far colazione da lui e, di solito, mi anticipava le sue “picconate”. Come quella volta che doveva andare al Palazzo dei Marescialli a presiedere il Csm e mi recitò, mentre si faceva la barba, il discorso che avrebbe fatto ai pm. Il Consiglio aveva posto all’ordine del giorno una “censura” al presidente del Consiglio dei ministri, che era Craxi, che si era permesso di criticare i magistrati che non avevano indagato a sufficienza sull’assassinio del giornalista Tobagi. Cossiga tolse la delega a presiedere la riunione del Csm al vicepresidente e preannunciò che ci sarebbe andato lui. Mentre si faceva la barba, fece chiamare il comandante dei carabinieri del Quirinale e gli ordinò di precederlo e di “circondare” con i suoi uomini il Palazzo dei Marescialli e di “tenersi pronti a intervenire” se, dopo il suo discorso, il Consiglio non avesse tolto dall’ordine del giorno la minacciata “censura” a Craxi. Ce l’aveva con tutti Cossiga, e non lo mandava a dire, ma ce l’aveva soprattutto coi magistrati. Undici anni dopo quella volta dei carabinieri al Csm, si ripassava dinanzi allo specchio, sempre facendosi la barba, il discorso che avrebbe fatto al Senato per dimettersi da senatore a vita “per difendere il potere del Parlamento, minacciato dall’arrendevolezza e debolezza della classe politica nei confronti della cosiddetta “magistratura militante”, dell’Associazione nazionale dei magistrati e dello strapotere del Consiglio superiore della magistratura…”. Ci tenne a spiegarmi la differenza con la storia dei carabinieri al Csm di undici anni prima: “Allora protestavo direttamente contro i pm e bloccai lo strapotere del Csm. Oggi, che sono solo un senatore a vita, senza patria e casa politica e che non ho alcuna forza politica accanto, vado in Senato per l’ultima volta a protestare contro i ‘politici’, quei politici arrendevoli che non sono stati capaci di arginare lo strapotere dei magistrati militanti, come feci io allora”. E’ la cosa che maggiormente Cossiga rimproverava ai governi di Silvio Berlusconi, quella di polemizzare tanto a parole con i magistrati e di promettere e preannunciare di continuo le riforme della giustizia, ma in pratica di non riuscire a concludere niente, mentre il potere abnorme della magistratura e il suo sconfinamento sui poteri del governo e del Parlamento non facevano che aumentare. E spesso, anche negli ultimi tempi, mi ricordava di una cena che avevo organizzato a casa mia tra lui e Silvio Berlusconi, qualche mese prima che il Cavaliere annunciasse ufficialmente la sua discesa in campo. Per tutta la cena Cossiga non fece altro che sconsigliarlo: “La politica è una cosa maledettamente seria, diceva, e non è per Lei, la faranno a pezzi…”. Berlusconi lo guardava sorridente e rispettoso, ma si capiva che ormai aveva deciso e che non avrebbe tenuto in nessun conto i suoi consigli. Quando, il 27 novembre del 2007, presentò veramente in Senato le sue dimissioni da senatore a vita, Cossiga, più che con i magistrati, se la prese con “quel losco figuro del capo della polizia che si chiama Gianni De Gennaro”, definendolo “un uomo insincero, ipocrita, falso”, e “un personaggio cinico e ambiguo che usa spregiudicatamente la sua influenza”: “Un uomo che è passato indenne da manutengolo dell’Fbi americana, che è passato indenne dalla tragedia di Genova, è passato indenne dopo aver confezionato la polpetta avvelenata che ha portato alle dimissioni di un ministro dell’Interno…”. Passarono settanta giorni senza che nessuno, a cominciare dal presidente del Consiglio e dal ministro dell’Interno, che era Giuliano Amato, rispondessero pubblicamente a Cossiga, finché, il 31 gennaio del 2007, il Senato mise all’ordine del giorno le dimissioni di Cossiga e il senatore a vita dimissionario si alzò dal suo banco nell’Aula, al tavolo delle commissioni, e disse: “Soltanto ieri il ministro dell’Interno ha risposto per iscritto e credo che egli, per quello che sa, abbia detto la verità. A motivo del contenuto della risposta del ministro dell’Interno ritengo mio dovere politico e morale chiedere pubblicamente e formalmente scusa al prefetto Gianni De Gennaro per le dure critiche o accuse da me più volte rivoltegli in quest’Aula e fuori di quest’Aula”. Poi ha confermato le sue dimissioni, che furono respinte a maggioranza. Ma nessuno ha mai saputo, da allora, che c’era scritto in quella misteriosa lettera del ministro dell’Interno, e che ha indotto Cossiga a fare le sue scuse a De Gennaro. Tra tanti misteri, veri o presunti, che Francesco Cossiga si sarebbe portato nella tomba, questo è l’ultimo, ed è forse il più inquietante. A me, che glielo chiesi, rispose: “Ti posso solo dire che quello che mi ha scritto Amato è più grave e scandaloso di tutto ciò che ho rimproverato a De Gennaro”. L’ultima volta sono stato a casa sua a chiedergli di dire qualcosa su Giulio Andreotti,un breve contributo da inserire in un’intervista della Rai, nel programma “Big”, all’ex presidente del Consiglio, e ne disse più bene che male. Ci ripromettemmo di fare l’intervista anche a lui, per lo stesso programma. Non abbiamo fatto in tempo. Sulle questioni che si sono imposte alla cronaca e che non cessano di generare polemiche sia tra i poli sia tra uomini di governo e magistratura, il VeLino con Mauro Bazzucchi ha interpellato l'ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga, i cui rapporti con il Csm, durante il suo mandato, hanno vissuto momenti di conflitto aperto, culminando, circa dieci anni fa, nell'ultimo sciopero proclamato dai magistrati prima di quello previsto per il prossimo 6 giugno. E Cossiga ha risposto da par suo, come un fiume in piena, prendendo spunto proprio dalla recente decisione dell'Anm per contestare la condotta della magistratura associata: "Penso sia una decisione eversiva - dice Cossiga - alla quale l'Anm è giunta anche per la tolleranza benevola di Ciampi e per la debolezza del Governo, aggravata dalle rodomontate del presidente del Consiglio Berlusconi e dalla benevolenza tollerante del presidente della Camera dei deputati Casini. È una decisione eversiva con la quale si vuole affermare, da parte della magistratura militante, che non si vuole rinunciare al potere politico indebitamente conquistato anche per colpa dell'ultima Democrazia Cristiana. La Dc dei Mancino e dei D'Elia, che credevano così di salvarsi dalla valanga giustizialista. Ad aggravare le cose c'è la richiesta di colloquio-confronto fatta dal presidente della Repubblica e dal presidente della Camera tra legislativo ed esecutivo da una parte (unica espressione della sovranità popolare) e la cosiddetta magistratura, che nient'altro è che un corpo di impiegati dello Stato cui un concorso vinto largamente per cooptazione da parte di nonni, padri, zii e cugini o correnti di magistrati non può conferire nessun titolo di sovranità. E allora perché non invitare al confronto-colloquio costruttivo con il legislativo e l'esecutivo la classe degli ufficiali per stabilire quale debba essere la nostra politica militare? Perché non sollecitare il confronto-colloquio costruttivo con la carriera diplomatica per stabilire quale debba essere la politica estera del Paese? E perché non sollecitare anche un summit tra le forze di polizia da una parte e mafia, camorra e 'ndrangheta dall'altra, per delineare la politica della giustizia?"
Su come si è giunti a questa decisione, Cossiga ha pochi dubbi: "La decisione dell'Anm è stata presa, come sempre, da un connubio tra la sinistra non garantista (quella che ha portato alla morte di Coiro e all'ingiusta incriminazione di Misiani, fondatore di Magistratura democratica, agli inizi bandiera del garantismo) e la magistratura corporativa (quella, per intenderci, dei Maddalena e dei Cicala), uniti dalla volontà di potere politico senza rischio elettorale. L'ordinamento giudiziario è antidemocraticamente inquinato da costoro, di fronte ad una stragrande maggioranza di magistrati seri, indipendenti e non da teatro. L'ordinamento giudiziario sono i giudici e i Pm e la sovrana funzione giudiziaria è affidata a ciascuno di loro (i quali infatti costituiscono un ordine e non un potere) e non alla 'magistratura' né tantomeno a quel modesto, piccolo consiglio d'amministrazione del personale che vuole scimmiottare il Parlamento che è il Csm". Le prerogative del Csm e le polemiche sulla riforma recentemente approvata evocano a Cossiga alcuni retroscena: "È una vergogna che si faccia passare per riforma contro l'indipendenza del Csm il ritorno al Csm come era prima che la dabbenaggine del Psi non imponesse alla Dc ("non opponetevi", disse un ministro democristiano a me e a Gargani, "altrimenti ci mandano tutti in galera!) il sistema proporzionale, che implicò l'aumento della composizione del plenum, il più numeroso di quelli esistenti in Europa. Le correnti - prosegue Cossiga - hanno corrisposto da un lato all'affermazione di una concezione giacobina o al limite leninista della giustizia e dall'altro alla fame corporativa di una parte dei magistrati, che la Dc ha creduto di comprare con l'introduzione degli automatismi della carriera e con impensabili livelli retributivi, perché non ci mettessero tutti in galera. Ma intanto in galera, nonostante i regali, molti di noi ci sono finiti lo stesso, da Carra a Gava, da Mannino a Mazzotta e, se avessero potuto, da Andreotti a Forlani. Dire di voler combattere per l'indipendenza della magistratura e poi difendere a spada tratta le legittimità delle correnti significa affermare cose contraddittorie o false, perché o le correnti sono piccole consorterie corporative che servono a spartirsi la torta dei posti e delle prebende, o sono gruppi ideali e quindi politici, ognuno portatore di una concezione della politica, della giustizia e dell'amministrazione di essa, e cioè di differenti concezioni politico-ideologiche che contraddicono l'indipendenza della magistratura, la quale postula l'unità di concezione della giustizia secondo le leggi approvate dal Parlamento". Cossiga ha qualche suggerimento da dare anche per le modifiche in discussione, come le riforme della sezione disciplinare e l'introduzione della Scuola della magistratura: "Per quanto riguarda la sezione disciplinare, l'unica riforma possibile è quella di far giudicare i magistrati da un'apposita sezione della Corte costituzionale, così come avviene in Germania, integrata da giudici disciplinari eletti dal Parlamento. Per la Scuola, penso che l'introduzione sarebbe un'utile cosa ma penso anche che questa dovrebbe essere sottratta al controllo e all'influenza dell'Anm, che ne farebbe scuola di arruolamento per la magistratura militante e corporativa. Perché ormai, se un giovane vuole avere successo in magistratura, deve prima iscriversi ad una corrente poi, con l'appoggio di questa, vincere il concorso e quindi, per far carriera, iscriversi all'Anm e fare il galoppino elettorale per i dirigenti delle correnti". Critico e ferocemente ironico il giudizio di Cossiga sulla politica del governo riguardo alla questione della separazione delle carriere: "Alla separazione delle carriere il Governo ha già rinunciato, e la proposta di separazione delle funzioni, a quanto capisco, consisterebbe nella diversificazione di wc per i giudici e per i Pm, pare anche senza differenza di sessi, per dare un carattere avanzato alla riforma.". I ritardi e le lungaggini del nostro sistema giudiziario danno lo slancio all'ex presidente per polemizzare ancora una volta col capo dello Stato: "Basta leggere le sentenze della Corte di giustizia di Strasburgo, dove siamo condannati, quando ci va bene, almeno due volte al giorno. D'altronde, l'Italia europeista, euroentusiasta e perfino eurofantastica di Prodi e Ciampi ha battuto il record di condanne e reprimende per la non applicazione dei principi europei. Un film della serie. 'Siamo europeisti, nessuno lo è più di noi, ma dell'Europa ce ne fottiamo'". Un ultimo fendente Cossiga lo riserva al ministro della Giustizia Castelli, sul cui operato preferisce, sarcasticamente, non pronunciarsi: "Chi se ne intende dice che è un buon fisico acustico".
Da Gladio alla Guerra del Kosovo. Cossiga è stato un Presidente contro tutte le ipocrisie della sinistra, scrive Carlo Panella su “L’Occidentale”. Incontrai Cossiga per la prima volta l’8 febbraio del 1992, in una serata gelida, a Udine, nel mio primo servizio politico per la televisione. Nella prefettura della città, il Presidente incontrò, formalmente, ufficialmente, tutti gli uomini di Gladio, di Stay Behind ancora in vita. Gesto provocatorio, schiaffo in faccia al Pds di Occhetto che, assieme a tutta la sinistra lo aveva formalmente messo in stato d’accusa aprendo la procedura di Impeachement il 6 dicembre del 1991. Un’azione clamorosa, basata su molte accuse fasulle, tra cui spiccava quella di avere sostenuto la piena legittimità della Organizzazione Gladio, la struttura Nato, assolutamente legittima, che aveva il compito di organizzare una resistenza democratica in caso di tentativo di sovversione da parte del Pci – largamente etero diretto e finanziato dall’Urss – ritenuta invece associazione sovversiva e illegale dalla sinistra (e dalla magistratura, in primis dal Pm Felice Casson, oggi non casualmente senatore del Pd). Uno ad uno, vidi uscire quegli anziani signori, tutti sorridenti e felici dell’onore che Cossiga aveva reso loro e parlando con loro, scoprii quel che tanti sapevano, ma che i media di sinistra e il Pds sprezzantemente ignorava. Quasi tutti loro erano stati partigiani “bianchi” della Divisione Osoppo (composta da militanti della Dc, del Partito d’Azione e del Psi) che durante la guerra e avevano combattuto sia i nazifascisti, che i “partigiani” di Tito del IX Corpus che intendevano annettere Trieste, Gorizia e Udine alla Yugoslavia, strappandole all’Italia dopo averle occupate manu militari. Il giorno dopo era prevista una visita alle malghe di Porzùs, dove Cossiga voleva rendere omaggio ai 20 partigiani della Osoppo che erano stati trucidati barbaramente dai partigiani titini, al comando del comunista italiano Mario Toffanin. Un eccidio spregevole, perché i titini si erano presentati alle malghe come amici, ma poi avevano ucciso a freddo, a tradimento, il comandante della Osoppo Francesco De Gregori, il Commissario Politico (del Partito d’Azione) Gastone Valente, Giovanni Comin e Elda Turchetti. Poi, avevano imprigionato gli altri 18 partigiani e per due giorni, li avevano maltrattati e posti di fronte all’aut aut: o passavano col IX° Corpus yugoslavo e combattevano per occupare e annettere le provincie giuliane e Trieste alla Yugoslavia, o li avrebbero fucilati. In 16 rifiutarono di tradire l’Italia e furono trucidati, tra loro Guido Pasolini, il fratello amatissimo di Pierpaolo, solo due accettarono di tradire e passarono con i titini, assassini dei loro compagni. In quella tragedia era nascosta nel modo più oscuro, violento, ma completo, inquietante la verità, il senso dello scontro politico che si sarebbe combattuto in Italia – per fortuna solo sul piano politico – tra le forze democratiche e un Pci legato a Mosca e alle sue mire, nonostante le mediazioni di Palmiro Togliatti. La tragedia dell’eccidio di partigiani democratici per mano di partigiani comunisti metteva in crisi la teoria di un Pci che si voleva egemone nella lotta di Liberazione in piena funzione nazionale, mostrava di quali veleni, di quali terribili militanti come Toffanin, era composta, anche, la storia dei comunisti italiani. Infatti di Porzùs, fino a quel 9 di febbraio del 1992 non si era mai più potuto parlare in Italia (tranne che nel processo, che si tenne nel 1952), era proibito, il Pci e la sua presa sui media erano riusciti non solo a occultarlo. Ma ora, i discendenti di quei comunisti (che continuavano a percepire i loro stipendi grazie all’”Oro di Mosca) arrivavano alla sfrontatezza di accusare Cossiga e il militanti della Gladio, cioè i partigiani della Osoppo, di avere tramato contro la Repubblica, col solido supporto dei magistrati alla Casson. Ma Cossiga non riuscì ad andare alle malghe di Porzùs, lo scandalo di quella “visita di Stato”, di quell’omaggio a quelle vittime del comunismo, era tanto grande che la ebbero vinta i suoi consiglieri che quasi gli imposero di rinunciare a quel gesto di verità. Capii, in quelle ore, quel che già avevo intuito subito dopo il rapimento Moro: Francesco Cossiga aveva la statura, la forza, la vivacità, ma anche le contraddizioni, le angosce dei grandi personaggi di Shakespeare. Ora era Banco, la vittima di Machbeth, ora re Lear, ora, di uno dei tanti re messi in scena a Stratford on Avon che incarnano il dramma del potere esercitato, della sofferenza nel condurre le trame cui l’esercizio del comando obbliga, follia inclusa. Francesco Cossiga era uscito distrutto, umanamente, dall’esperienza del rapimento Moro, perché aveva creduto di dover sacrificare la vita dell’amico, al superiore interesse dello Stato, aveva ceduto al diktat del Pci, che negava la trattativa. Poi, subito dopo, aveva scoperto che era stato solo un gioco sporco, che c’era qualcosa di profondamente oscuro nel sacrificare la vita di un uomo – e che uomo era Aldo Moro! – all’interesse dello Stato e il senso di quella tragedia lo ha perseguitato per tutta la vita, non ultima componente di quella atroce depressione di cui ha da allora sofferto e che ora l’ha portato alla morte. Disse, anni dopo: “Se ho i capelli bianchi e le macchie sulla pelle è per questo. Perché mentre lasciavamo uccidere Moro, me ne rendevo conto. Perché la nostra sofferenza era in sintonia con quella di Moro”. Ma Francesco Cossiga era un uomo retto e forte e, riprese le forze, si ributtò subito nell’agone politico: presidente del Consiglio nel 1979, poi presidente del Senato nel 1983, infine, nel 1985 Presidente della Repubblica (con voto unanime del Parlamento, il primo). E’ fondamentale oggi ricordare le accuse che il Pci e la sinistra gli lanciarono nel 1991 per chiederne l’Impeachement. E’ fondamentale proprio oggi, quando tanta parte dei media politically correct e del Pd menano tanto ipocrita scandalo per le polemiche contro il presidente Giorgio Napolitano che provengono dal Pdl. I firmatari delle mozioni di accusa (ovviamente cassata dal Parlamento nel 1993) – è bene ricordarlo, perché fu un episodio indegno - erano Ugo Pecchioli e Luciano Violante, i massimi responsabili del Pci per i “Problemi dello Stato” e la “Giustizia”, poi Marco Pannella (sì, proprio lui), Nando Dalla Chiesa, Giovanni Russo Spena, Sergio Garavini, Lucio Libertini, Lucio Magri, Leoluca Orlando, Diego Novelli.
Queste le accuse:
a) l'espressione di pesanti giudizi sull'operato della commissione di inchiesta sul terrorismo e le stragi;
b) la lettera del 7 novembre 1990 con la minaccia di «sospendersi» e di sospendere il governo onde bloccare la decisione governativa riguardante il comitato sulla Organizzazione Gladio;
c) le continue dichiarazioni circa la legittimità della struttura denominata Organizzazione Gladio benché fossero in corso indagini giudiziarie e parlamentari;
d) la minaccia del ricorso alle forze dell'ordine per far cessare un'eventuale riunione del consiglio superiore della magistratura, nonché del suo scioglimento in caso di inosservanza del divieto di discutere di certi argomenti;
e) i giudizi sulla Loggia massonica P2, nonostante la legge di scioglimento del 1982 e le conclusioni della commissione parlamentare d'inchiesta;
f) la pressione sul governo affinché non rispondesse alle interpellanze, presentate alla Camera nel maggio 1991 da esponenti del PDS;
g) l'invito ad allontanare il ministro Rino Formica dopo le sue dichiarazioni sulla Organizzazione Gladio;
h) la rivendicazione di un potere esclusivo di scioglimento delle Camere e la sua continua minaccia;
i) la minaccia di far uso dei dossier e la convocazione al Quirinale dei vertici dei servizi segreti;
l) il ricorso continuo alla denigrazione, onde condizionare il comportamento delle persone offese e prevenire possibili critiche politiche.
E’ questa una eccellente sintesi, non delle malefatte, ma, al contrario, dei grandi meriti della presidenza Cossiga, non solo nella difesa intransigente della appartenenza atlantica dell’Italia (che il Pci ha sempre contestato, nonostante le ambiguità di Berlinguer, anche perché finanziato dal Pcus sino alla caduta dell’Urss nel 1989), perché dimostrano che Cossiga aveva perfettamente colto il nodo della anomalia italiana che già si era raggrumato attorno allo strapotere politico di tanta parte della magistratura. La sua minaccia di inviare i Carabinieri per impedire al Csm di discutere un ordine del giorno che lui, che era presidente del Csm, aveva rifiutato (come era nei suoi poteri) e di procedere al suo scioglimento, dimostra che aveva compreso per primo che c’era un varco nel nostro assetto costituzionale che aveva permesso alla magistratura l’assunzione di poteri impropri, tanto dall’essere riuscita trasformare il Csm in una vera e propria “terza Camera”, che si arrogava e si arroga il diritto di fatto eversivo, di impedire alle altre due Camere di legiferare. Il tutto, nella chiara, esplicita, convinzione, che l’intero assetto politico, così come quello costituzionale, del paese fosse ormai inadeguato, che non rispondesse più alle esigenze dell’Italia, che andasse riformato, magari a colpi di piccone (a Cossiga piacque sempre la definizione di Picconatore che gli era stata affibbiata negli ultimi due anni della sua presidenza). Un solo errore – a nostro parere – commise in quegli anni: la sottovalutazione del ruolo eversivo di Mani Pulite. Quelle sue dimissioni anticipate non furono un gesto di correttezza istituzionale (erano motivate dal fatto che avrebbe dovuto formare un governo, subito dopo le imminenti elezioni politiche, in scadenza di mandato, condizionando così il suo successore), ma un gesto politico contro l’accordo che Bettino Craxi e Arnaldo Forlani avevano siglato, che lui non condivideva, e che avrebbe portato il primo alla presidenza del Consiglio e il secondo alla presidenza della Repubblica. Cossiga non comprese, in quel frangente, che quell’assetto di potere incardinato sui due forti leader del Psi e della Dc, sarebbe stato l’unico in grado di impedire alla Procura di Milano non già le indagini contro i corrotti della Prima Repubblica, bensì di ergersi a dominus del quadro politico, eliminando per via giudiziaria la Dc, il Psi, il Pri, il Psdi e il Pli, risparmiando però solo il Pci-Pds, che pure di quella corruzione era pienamente parte, come risultò plasticamente nel formidabile discorso che tenne Bettino Craxi alla Camera il 29 aprile del 1993: “I Partiti specie quelli che contano su apparati grandi, medi o piccoli, giornali, attività propagandistiche, promozionali e associative, e con essi molte e varie strutture politiche e operative, hanno ricorso e ricorrono all’uso di risorse aggiuntive in forma irregolare od illegale. Se gran parte di questa materia deve essere considerata materia puramente criminale allora gran parte del sistema sarebbe un sistema criminale. Non credo che ci sia nessuno in quest’aula, responsabile politico di organizzazioni importanti che possa alzarsi e pronunciare un giuramento in senso contrario a quanto affermo (ndr. nessuno si alzò): presto o tardi i fatti si incaricherebbero di dichiararlo spergiuro”. Abbandonata per alcuni anni la vita politica, Francesco Cossiga intravide nel 1998 la possibilità di riprendere il grande schema di Aldo Moro, che auspicava la collaborazione della grandi forze nazionali di matrice “popolare” e di quelle della sinistra post comunista nella gestione del governo. Mise il suo prestigio e la sua straordinaria capacità di manovra, assieme a Mino Martinazzoli, al servizio del “ribaltone” che sottrasse parlamentari (guidati da Mastella e Rocco Buttiglione) dal Polo della Libertà che li aveva eletti e li portò a garantire quella maggioranza al governo di Massimo D’Alema che non aveva nella sinistra la forza parlamentare per ottenere la fiducia. Indicativa dell’uomo e della sua vocazione, fu la scelta del nome del partito che i transfughi formarono: Udr, Unione Democratica per la Repubblica. L’identica sigla del partito Udr fondato in Francia nel 1971 da Charles de Gaulle, la figura di leader europeo che più sentiva vicina e tra le più ammirate. Fu però un'esperienza effimera e rovinosa, la sua Udr ebbe vita confusa e grama (si trasformò nell’Udeur di Clemente Mastella, dall’inglorioso percorso), trascinata nel vortice di uno dei governi più scialbi, inconcludenti e rovinosi della storia repubblicana che si concluse dopo appena due anni nelle ingloriose dimissioni di Massimo D’Alema. Un obbiettivo però era stato colto dal genio politico del Picconatore: con quella spregiudicata manovra, Cossiga era riuscito ad evitare che il nostro paese provocasse una vera e propria crisi –vergognosa, per come si stava profilando – sul terreno internazionale. Per sua forte, determinata pressione, anche sul piano personale, Massimo D’Alema, obtorto collo, accettò di fare entrare l’Italia a pieno titolo (ma sempre con molte ipocrisie), nella guerra del Kosovo. Guerra in cui la sinistra non voleva assolutamente entrare (Fabio Mussi, capogruppo dei Ds alla Camera, riuscì a far firmare da ben 253 parlamentari della sinistra una mozione più che critica contro la nostra partecipazione bellica) e in cui una defezione italiana sarebbe stata sotto gli occhi del mondo a causa della collocazione strategica del nostro paese (gli aerei Nato decollavano da Aviano), provocando irrisione, irritazione e la ingloriosa fine, di fatto, della appartenenza atlantica dell’Italia. A differenza del Verde tedesco Joschka Fischer che ebbe la statura e la limpida forza di un leader della sinistra che rivendicava apertamente la necessità di inviare la Luftwaffe a bombardare Belgrado, Massimo D’Alema mandò sì la nostra aviazione nelle missioni contro la Yugoslavia, ma con indegna ipocrisia mentì al Parlamento e al paese e sostenne che avevano solo e unicamente un ruolo di ricognizione, mentre invece parteciparono direttamente alle operazioni belliche, bombardamenti inclusi. Chiusa quell’esperienza, Cossiga si ritirò definitivamente dall’agone politico, ma continuò a divertirsi (era fantastico cogliere il senso dell’ironia e dell’intelligenza nei suoi dissacranti sarcasmi), commentando episodi politici e dettando all’amico di sempre Paolo Guzzanti memorie dissacranti, quanto autentiche. Nelle ultime settimane, la “belva”, quella terribile depressione che l’ha sempre perseguitato, si è impadronita di lui, chiuso in se stesso e al mondo come non mai. Infine, l’ha preso, ha vinto, definitivamente e ci ha tolto un uomo, forse l’ultimo in Italia, a cui guardare per capire e capirsi. Con profonda, acuta, divertita, scanzonata “intelligenza” degli uomini e dei fatti. Chapeau! Presidente.
Nostalgia per il Picconatore lungimirante che aveva la Questione meridionale nel cuore. «Aveva un’attenzione costante alla disoccupazione e ai problemi del Mezzogiorno». Fabrizio Rizzi su Il Quotidiano del Sud il 25 settembre 2020. Forse 10 anni sono l’età giusta per lo storico, per sedimentare polvere e (pre)giudizi, valutarne in controluce le qualità ed esprimere lo spirito riformatore attraverso la lungimiranza della prospettiva. Sono passati 10 anni dalla morte di Francesco Cossiga e Sergio Mattarella lo ha ricordato all’Università di Sassari, come uomo legato ai problemi dello sviluppo e del lavoro. Che nel Meridione manca ed è un affare di arretratezza decennale. Ieri, come oggi. La classe dirigente di allora aveva profondamente a cuore – dice Mattarella – i grandi problemi che assillano l’Italia. “Aveva un’attenzione costante alla disoccupazione e alla questione meridionale”. Qualcuno ha letto questo passaggio come una critica ai governanti di oggi. Forse non lo è. Ma se non è una critica è, quantomeno, un incitamento nel fare di più, per dare più lavoro, perché è questa la chiave di volta del problema. Una chiave che ha radici antiche. Quando divenne presidente della Repubblica, “nel discorso di insediamento, Cossiga aveva assunto la gente comune come punto di riferimento per saldare passato e futuro, auspicando una nuova solidarietà per valori non solo personali”. Anche questa sembra una critica agli egoismi di oggi che si traducono nella chiusura sociale. Il presidente mette l’accento su come Cossiga vedeva nei valori di solidarietà un bene collettivo. Anzi, auspicava che per il bene collettivo si sviluppasse una nuova solidarietà, basata su “valori non solo personali ma soprattutto comunitari”. Disse anche che per avere “speranza civile c’è bisogno di una giustizia sociale che non sia calata dall’alto, ma condivisa e prodotta dai cittadini. Aggiungendo che lo sviluppo non si traduce in speranza civile se non si unisce alla capacità di risolvere i due grandi problemi nazionali, disoccupazione e arretratezza delle aree meridionali. Mattarella osserva che malgrado le critiche dell’epoca, “Cossiga avvertiva l’esigenza di riforme costituzionali in Italia e si riassume in questo la ricerca e l’ evoluzione dei rilievi che, dapprima in modo assolutamente misurato e, via via in modo molto più vivace, rivolse sulla questione che animava anche il dibattito tra le forze politiche. Il presidente partiva dalla considerazione che nuocesse al Paese una visione che giustificasse le istituzioni esistenti, fragili, perché in attesa di riforma, richiamando al rispetto di una indeclinabile finalità: le riforme istituzionali – disse nel tradizionale messaggio di fine anno dell’87, devono condurre all’obiettivo essenziale di promuovere la crescita della democrazia”. C’è uno spartiacque nella vita del “Picconatore”: il sequestro e assassinio di Aldo Moro e della sua scorta. “Il ministro Cossiga – rileva Mattarella – si adoperò per la liberazione di Moro, suo amico e punto di riferimento politico, ma gli sforzi non giunsero al risultato sperato. E la sofferenza fu acuita dal susseguirsi di lettere di cui ebbe a riconoscere tratti di autenticità”. Ci fu il ritrovamento del corpo e Cossiga si dimise da ministro dell’Interno, “assumendosi la piena responsabilità politica dell’operato del dicastero”. Quindi c’è la difesa delle istituzioni democratiche contro l’attacco terrorista, “cercando di preservare, come bene indispensabile, l’unità delle forze democratiche nella lotta al terrore e all’eversione”. Quindi l’affondo: “Il ricorso a norme e strumenti nuovi restò sempre iscritto nel solco della difesa dei valori e dell’ordine costituzionale. E il contrasto alle vulgate insurrezionaliste, così come alla inaccettabile predicazione equidistante dei fautori del Né con lo Stato, Né con le Br, fu da parte di Cossiga sempre netto e scevro da ipocrisie e opportunismi”. Successivamente c’è il riconoscimento a Cossiga “cresciuto alla grande scuola della Dc” che tendeva a ricomporre i conflitti del Paese, piuttosto che a esasperarli. Nel suo dichiararsi “cattolico liberale c’era un ossequio, un rispetto per la casa comune e per la sovranità delle istituzioni della Repubblica, che non concedeva spazio a tentazioni confessionali o integralismi di sorta”. Quindi un accenno alle origini. E a quella famiglia che fin da giovane gli ha consentito di coltivare la passione per la politica, “palestra nella quale si è allenato al pluralismo, al confronto, alla laicità delle scelte e dove, l’antifascismo era un fatto discriminante non solo dal punto di vista politico, ma morale”. Infine c’è un ricorso personale di Mattarella che è stato “tra gli elettori di Cossiga”. Ricorda che nel 1983 votò per lui alla presidenza del Senato. “Cossiga si fece apprezzare per solidità e imparzialità, premessa all’elezione della presidenza della Repubblica, avvenuta 2 anni dopo.
Paolo Guzzanti per “il Giornale” il 17 agosto 2020. Dieci anni fa Francesco Cossiga se ne andò in silenzio, solo e malato, lasciando per sempre la scena che aveva occupato con una personalità spropositata ed eccezionale, che stupì tutti. Indignò molti ma che scaturiva da una personalità straordinaria, in grado di prevedere e anticipare le conseguenze che avrebbe avuto in Italia la dissoluzione dell'impero sovietico. Quella dissoluzione avrebbe spodestato il nostro Paese dalla comoda posizione di «cerniera» fra Est e Ovest, che era stata la sua rendita per quasi mezzo secolo. I due grandi protagonisti - la Democrazia cristiana e il Partito comunista - si sarebbero estinti come dinosauri se non si fossero brutalmente modificati anticipando i tempi, o sarebbero stati travolti. Il Pci si trasformò in corso nel Pds, pronto a ricevere l'eredità di un potere ormai disfatto, mentre la Dc tendeva a disperdersi o a congiungersi con la sinistra. Cossiga aveva visto in tempo questa bufera e cominciò a dare segnali di insofferenza e altri di raccomandazione per evitare la catastrofe. Ma poiché nessuno è amato se tenta di essere un profeta in patria, Cossiga fu attaccato specialmente da tutta la sinistra - politica ed editoriale - inventando la bestia nera da uccidere o almeno da imbavagliare ed estromettere. Cossiga aveva un temperamento bizzarro noto a tutti, ma assolutamente non era «matto». La nostra amicizia iniziò quando La Stampa mi mandò a Gela per l'inaugurazione dell'anno giudiziario, per vedere quale altro show il presidente avrebbe messo in scena, come aveva già fatto diverse volte in quei giorni. Io andai un po' di malavoglia e ignoravo che la sera precedente fosse andata in onda una mia intervista con Catherine Spaak nel suo programma settimanale. Cossiga mi prelevò dalla selva dei cronisti confinati dietro le transenne e mi portò con sé nella sala in cui pronunciò un'invettiva contro il giornalista Giorgio Bocca che aveva attaccato i carabinieri coinvolti nei delitti della Uno Bianca. Io pensai che era molto fervente e aggressivo, ma non matto. E lo scrissi senza rendermi conto di avere infranto un tabù, anzi un tacito patto fra giornalisti e politici secondo il quale tutti dovevano dire scrivere e denunciare scandalizzati che il presidente della Repubblica era impazzito per indurlo alle dimissioni o dichiararlo mentalmente inadatto a svolgere il suo ruolo. La giornalista dell'Economist Tana de Zulueta fu portata in trionfo per avere scritto che Cossiga era matto come la lepre marzolina di Alice nel Paese delle meraviglie e l'Italia diventò un Paese molto più matto di quanto lo fosse Cossiga, che non era matto affatto. Cossiga era stato in silenzio per alcuni anni duranti i quali aveva assistito dalle finestre del Quirinale al disfacimento della Repubblica e aveva visto con molta lucidità il piano che prevedeva, con il tifone di Mani Pulite che tagliò la testa a tutti i partiti tranne che al Pci, la sostituzione per via rivoluzionaria della vecchia classe dirigente democristiana, socialista e laica. Fu a quel punto che l'imprenditore Silvio Berlusconi - dopo avere vanamente fatto il tifo per Mario Segni che non fu sostenuto dal segretario democristiano Mino Martinazzoli, che aveva raccolto moltissimi consensi sulla sua linea di rinnovamento - decise di tagliare il nodo gordiano scendendo in campo lui stesso con un partito nuovo di zecca strutturato sull'organizzazione di Publitalia, che raccoglieva la pubblicità per le sue televisioni. Il resto è noto: nacque una coalizione di centrodestra che metteva insieme leghisti ed ex missini, senza farli incontrare, poi la vittoria e l'immediata guerra delle procure e degli avvisi di garanzia. Cossiga non fu neutrale in questa guerra e si schierò sempre contro lo strapotere politico dei magistrati, attirandosi l'odio crescente della sinistra. Ma per la sinistra istituzionale («quei signori comunisti di una volta») cercò sempre di mantenere rapporti personali stretti e rispettosi. Questa fu per lui la maggiore delusione perché tutti coloro che da sinistra, lo avevano eletto e lodato, adesso erano i suoi nemici più feroci. Cossiga era stato per molti anni l'uomo di Aldo Moro che lo aveva voluto con sé per occuparsi dell'intelligence e dei rapporti in particolare con gli americani e gli inglesi e per valutare in maniera intelligente le mosse del Partito comunista, eternamente in mezzo al guado perché non riusciva mai a compiere il passo conclusivo per l'atteso ma mai arrivato «strappo» dall'Unione Sovietica. Si sentì profondamente ferito dall'atteggiamento di suo cugino Enrico Berlinguer, segretario del Pci e autore del progetto di «compromesso storico», il quale rispose alle sue manifestazioni di affetto dichiarando che con i cugini al massimo «si mangia l'agnello a Pasqua». Berlinguer non esitò a metterlo in stato d'accusa davanti al Parlamento quando aiutò Carlo Donat Cattin, capo della corrente sindacale democristiana, a rintracciare suo figlio che era un militante terrorista di Prima Linea. Diventò ben presto un uomo solo, abbandonato da tutti, democristiani e comunisti in particolare. Io scrissi un libro, Cossiga uomo solo per Mondadori e lui venne alla presentazione in via Sicilia a Roma dove inaugurò un termine del tutto nuovo per la politica: il verbo «picconare». Disse di avere svolto il duro mestiere del picconatore per rimuovere gli ingombri della vecchia repubblica e dei suoi parassiti e che stava pagando il prezzo per questa opera di bonifica o, come si direbbe oggi, di sanificazione. Divenne così «il Picconatore», il suo soprannome e la sua funzione repubblicana: colui che abbatteva edifici fatiscenti e pericolosi. Si rivolse con grande dignità alla nazione in uno dei suoi rari messaggi presidenziali, spiegando con competenza e cultura costituzionale i rischi che stava correndo il Paese. Poi venne la stagione delle stragi di mafia e delle strategie politiche a esse connesse. Incaricò, d'accordo con Andreotti presidente del Consiglio, Giovanni Falcone di indagare, con credenziali diplomatiche (Falcone non era più un procuratore ma dirigeva le carceri) sulla fuga del tesoro dell'Unione Sovietica che secondo l'ambasciatore Yuri Adamishin veniva riciclato in Italia con tangenti di entità mostruosa. La fine di Falcone è nota e anche dell'inchiesta. Io accompagnai Cossiga nel suo esilio in Irlanda quando decise di dimettersi con qualche giorno d'anticipo sulla data di scadenza prevista. Mi portò con sé a Dublino e fu un viaggio piuttosto mesto. Ci siamo poi rivisti molte volte, anche come senatori della Repubblica. Quando lo andai a trovare l'ultima volta per prima cosa mi disse: «Guarda che il tuo telefonino è di un modello vecchio. Io ho appena ricevuto il nuovo». Poi mi portò nello studio che era il sancta sanctorum dei suoi oggetti tecnologici e bandiere del regno di Sardegna.
La storia della brutta cena tra i cugini Cossiga e Berlinguer. Piero Sansonetti su Il Riformista il 15 Agosto 2020. Il 22 luglio del 1980, giusto 40 anni fa, il senatore comunista Gerardo Chiaromonte promosse una cena politica “trasversale”. La organizzò a casa di un suo collega di partito, Ugo Pecchioli. Chiaromonte lo fece per ragioni politiche e scelse Pecchioli come ospite perché Pecchioli aveva buoni rapporti con uno dei due invitati di lusso. I due invitati erano due lontani cugini sardi, di Sassari. Enrico Berlinguer e Francesco Cossiga. I loro nonni erano cugini. Berlinguer era il capo carismatico del Partito comunista. Cossiga, esponente della sinistra democristiana, era in quel momento Presidente del Consiglio. Ed era nei guai. Si era scoperto che due mesi prima aveva avvisato uno dei suoi colleghi, e cioè Carlo Donat Cattin vicesegretario della Dc, che uno dei suoi figli era ricercato dalla polizia perché militante di Prima Linea (cioè di un gruppo terroristico) e coinvolto in alcune azioni armate. Forse Cossiga aveva anche aiutato Donat Cattin ad ottenere un passaporto per suo figlio, ma questo non fu mai dimostrato. Non fu mai provato nemmeno che Carlo Donat Cattin avesse avvertito il figlio o lo avesse aiutato a fuggire in Francia. L’opposizione chiese di mettere Cossiga in stato di accusa, cioè di mandarlo a processo. In commissione Inquirente (la commissione parlamentare che funzionava da giudice istruttore per i ministri) la richiesta non passò. Ma l’ultima parola era dell’aula. Cinque giorni di discussione infuocata: il Pci, che era all’opposizione, voleva il processo. Chiaromonte però, che faceva parte dell’ala migliorista del Pci, aveva forti dubbi. Voleva cercare un accordo. Chiaromonte è stato nel Pci per anni uno dei capifila più convinti e autorevoli della pattuglia garantista. Il voto era fissato per la mattina del 23 luglio. La cena da Pecchioli fu il 22 luglio. Fu una cena allegra, spensierata, quasi cameratesca. Cossiga era in forma, Chiaromonte si sforzò di tenere un clima fraterno. Scherzava, raccontava aneddoti. Pecchioli, piemontese austero, dava corda a Chiaromonte. Non si parlò però del merito della questione. Si aspettava il gelato per andare al dunque… Berlinguer taceva. Tacque tutta la sera, ma a lui capitava spesso di tacere quando era in compagnia. Mangiò gli spaghetti, mangiò il brasato, teneva il tovagliolo al collo. Un paio di volte, assaggiando il piatto che arrivava in tavola, commentò: “buono”. Poi silenzio. Finito il gelato Berlinguer finalmente alzò gli occhi dal piatto, guardò il cugino, e pronunciò poche parole, quasi sottovoce, col suo accento sardo forte che faceva saltare tutte le doppie: «Francesco, ti informo che domani mattina il partito comunista italiano voterà la tua messa in stato di accusa». Fu il gelo. Chiaromonte smise di parlare. Cossiga di scherzare. Pecchioli muto. Berlinguer si alzò, si salutarono. Molto formalmente. Forse da allora Berlinguer e Cossiga non si sono più parlati.
P.S. Questo racconto, proprio così come l’ho scritto, me lo ha fatto tanti anni fa Gerardo Chiaromonte.
P.S. 2. Il giorno dopo la cena, la Camera votò a scrutinio palese. La maggioranza fu compatta e il Pci quindi fu sconfitto. Il governo si salvò. Vivacchiò ancora un paio di mesi appena, poi saltò perché i franchi tiratori impallinarono Cossiga sulla legge finanziaria. La carriera di Donat Cattin, gran protagonista delle lotte sociali e sindacali e della politica italiana negli anni Sessanta e Settanta, finì di colpo. Il figlio fu arrestato in dicembre. Condannato a 7 anni. Ne scontò 5 in cella, poi ottenne la semilibertà. Fece un figlio. Una notte, nell’estate del 1988, si fermò sull’autostrada per soccorrere dei feriti in un incidente. Provò a fermare il traffico. Lo travolsero: morì a 35 anni, con un figlio di otto mesi.
DAGONOTA il 17 agosto 2020. Il decennale della morte di Cossiga non poteva non riaprire la botola dei misteri d’Italia. Ma c’è poco da chiarire se si analizza la politica al di là del proprio ombelico. Per anni ho frequentato Cossiga, che intervenne frequentemente su Dagospia allorché non solo i giornali ma perfino le agenzie di stampa decisero che era un “pazzo con piccone” e non andava più pubblicato. Correvano i primi anni Duemila e il Gattosardo mi venne a trovare accompagnato da Barbara Palombelli. Francamente io non avevo mai avuto in testa la politica, né mi interessava averla. Anzi, da sempre curavo rubriche di costume ed ero intenzionato a continuare a coltivare il mio orticello di ficcanaso. E invece, dopo i primi contatti con lui, capii che erano gli altri ad avere bisogno di un prodotto editoriale come Dagospia. In quei primi tempi mi facevo tradurre i suoi pezzi scritti in “cossighese” dall’amico Fernando Proietti, giornalista del Corriere, per decifrarli. Finché un bel giorno mi trovai “promosso” nel suo salotto di via Quirino Visconti, tra Zanda e Savona, Naccarato e Ciccio Bongarà, generali e barbefinte, che per me si trasformò in un corso accelerato di formazione politica. Cossiga mi spiegò che la vera anima della politica italiana non è quella che si vede sui giornali e in televisione. I processi decisionali che stanno alla base di molte scelte che condizionano e coinvolgono il Paese hanno origini e iter diversi. Insomma la parte che non emerge, silente e potente, quello che oggi chiamiamo “Deep state”. Dai servizi segreti (a cui Cossiga in un certo senso era legato storicamente) agli apparati militari, passando per il Viminale e la Consulta e ambasciate varie, massoneria e Vaticano compresi. Di qui l’insegnamento metodologico: appresi che le informazioni non andavano mai chieste ai politici, bensì ai funzionari, agli uomini dell’apparato. E ciò che ho imparato dal Gattosardo è che la politica non si esaurisce nella semplice lettura degli interessi nazionali. E’ geopolitica perché occorre mettere sempre in gioco il posto dell'Italia in Europa e nel mondo. Il mistero della non trattativa e della morte di Aldo Moro sta tutto lì: geopolitica. Il Bel Paese nell’anno 1978 non era un'oasi; non viveva in dorato isolamento; l’Italia aveva perso la seconda guerra mondiale, il patto di Yalta sanciva una separazione netta tra le zone di competenza di Occidente e Oriente, a Berlino per saldare lo stato della Guerra Fredda l’Unione Sovietica tirò su un minaccioso muro. I governi delle nazioni sconfitte, Italia e Germania, non potevano illudersi d'improvvisare senza pagare un prezzo salato. La Nato, all’epoca, non era la tigre di carta di oggi. Il rapimento di Moro vide il duello tra chi era favorevole a una trattativa con le Brigate Rosse (socialisti e democristiani) e chi si opponeva (comunisti di Berlinguer e il nascente partito di “Repubblica” con in testa Scalfari. Fino a quel momento nel mondo l’unico terrorismo era incarnato dal fronte palestinese di Arafat che in Italia godeva, anche economicamente, del supporto di Craxi e Andreotti. Cosa che irritava profondamente Washington (con l’assassinio di un cittadino statunitense ebreo sulla nave da crociera Achille Lauro e il fattaccio di Sigonella, il rapporto con gli Stati Uniti si trasformò poi in piena ostilità). Veniamo al punto dolens. Sul terrorismo all’italiana l’intelligence americana aveva idee dure e ben chiare: non si colpisce una cellula ma si deve estirpare tutta la rete. Intervenire in via Gradoli – dove erano asserragliati Moretti e Balzarani, come suggerito dal ‘’medium’’ di Prodi – avrebbe innescato secondo i cervelli dell’FBI una reazione: quella di fortificare le altre cellule, infiammando ancor di più il terrorismo delle BR. Occorreva sacrificare la vita di Aldo Moro per un piano più articolato e definitivo. (Ancora oggi alcuni apparati dell’intelligence americana non perdonano la decisione di Obama e di Hillary Clinton di far fuori Bin Laden, avendo ottenuto poi come risultato la fine di Al Qaeda e la nascita di un terrorismo globalizzato chiamato Isis, con le conseguenze per l’Occidente di una vita a rischio bomba). Ecco perché la figlia Annamaria, nella sua bellissima intervista di oggi sul “Corriere”, racconta che ‘’il suo dolore era visibilmente somatizzato: i capelli gli diventarono bianchi, la pelle macchiata dalla vitiligine. Si sentiva responsabile di quella morte. E sì, capitava che di notte si svegliasse dicendo: “L’ho ucciso io”. All’epoca ministro degli Interni, Cossiga era a conoscenza di tutto e ben consapevole, come racconta meglio di me Paolo Guzzanti nel pezzo che segue, che l’Italia fascista uscita sconfitta dalla Seconda guerra Mondiale, alleata per vent’anni con il nazismo, non era e non poteva essere un paese sovrano, tant’è che la Nato riempì di basi militari la penisola, da Aviano a Bagnoli, dalla Maddalena fino a Sigonella. E il Gattosardo divenne il Gattoperdo quando si dovette rassegnare alla decisione dei vincitori della guerra e lasciare al suo terribile destino il suo compagno di partito e maestro politico.
Mannino: “Fu Cossiga a volere Falcone agli Affari penali”. Elvira Terranova su Il Dubbio il 16 agosto 2020. “Fui io a portare il giudice Giovanni Falcone all’allora Presidente della Repubblica Francesco Cossiga. Una mattina alle 8 Cossiga aprì la porta e si trovò dietro la porta me e Falcone. Il magistrato era molto amareggiato per la mancata nomina a giudice istruttore ma anche al Csm e voleva andare all’Onu, a Vienna, ma Cossiga lo fermò e gli disse che si doveva prima occupare del maxiprocesso”. “Fui io a portare il giudice Giovanni Falcone all’allora Presidente della Repubblica Francesco Cossiga. Una mattina alle 8 Cossiga aprì la porta e si trovò dietro la porta me e Falcone. Il magistrato era molto amareggiato per la mancata nomina a giudice istruttore ma anche al Csm e voleva andare all’Onu, a Vienna, ma Cossiga lo fermò e gli disse che si doveva prima occupare del maxiprocesso”. A raccontare l’aneddoto all’Adnkronos è l’ex ministro democristiano Calogero Mannino, ricordando l’ex Capo dello Stato Francesco Cossiga alla vigilia dell’anniversario della sua scomparsa. “Cossiga – racconta Mannino nell’intervista – fu il vero artefice della nomina di Giovanni Falcone agli Affari penali al Ministero della Giustizia. Pur rendendo onore a Claudio Martelli, a cui va riconosciuta la nomina, fu un pensiero di Cossiga, una proposta dell’ex ministro della Giustizia Giuliano Vassalli che era, però, alla fine del suo mandato perché venne nominato giudice costituzionale”. “L’allora ministro Vassalli portò a Giulio Andreotti la lettera di proposta di Falcone che l’ex Presidente del Consiglio accettò in silenzio, senza avere nulla da ridire – dice ancora Mannino – poi Vassalli andò via e fu sostituito da Claudio Martelli che, in un primo momento, pur con la volontà di portare avanti l’iniziativa di Vassalli, si trovò di fronte alle esitazioni di Giovanni Falcone, che furono superate e il 21 febbraio del 1991, il Consiglio dei ministri, presieduto da Giulio Andreotti, nominò Giovanni Falcone direttore generale degli Affari penali al Ministero della Giustizia”. “Tutto questo non fu considerato da Cossiga una ciambella di potere a Falcone – aggiunge -: si era reso conto che la fine del maxiprocesso avrebbe rappresentato una ragione di reazione di Cosa nostra, perché conosceva i rapporti tra Cosa nostra e altri mondi”. E “nella prospettiva di questo rischio altissimo, Cossiga è il vero artefice della nomina di Falcone a direttore degli Affari penali”. Per Mannino, oggi “manca uno come Cossiga”, e servirebbe “in un periodo come questo”. “Basterebbe andare leggere il passaggio che fece al Parlamento sulla crisi istituzionale, sulla crisi del rapporto tra Parlamento e governo e, soprattutto, la crisi del rapporto legislativo, esecutivo e giudiziario. Cossiga era un costituzionalista per cultura e formazione, un costituzionalista liberal. E’ stato un liberale degasperiano”. Francesco Cossiga “aveva una dimensione di personalità singolare, straordinaria”, dice Mannino. “Giovanissimo, giunto in Parlamento, entra nel circolo dei leader, per i rapporti con Segni, con Taviani, ministro della Difesa di quel tempo, un personaggio importante”. “E stabilisce anche un rapporto con Aldo Moro, del quale diviene se non un prediletto, un alunno molto apprezzato di cui si fida moltissimo”. rà la ragione per cui nel momento in cui si deve formare un appoggio del Partito comunista, Aldo Moro manda Cossiga al Viminale”, dice ancora Mannino. “Quasi a volere sottolineare che è una persona di fiducia non solo nel rapporto personale: sa che conosce i meccanismi del mondo che integrano l’Italia a una parte del mondo o la contrappongono a un’altra parte del mondo. Fuor di metafora, Cossiga conosce benissimo la Nato, la Cia, l’Fbi e conosce benissimo Londra, quindi è un uomo non sprovveduto, provvisto di conoscenza ed esperienza e sensibilità”. “Questo rapporto con Aldo Moro è poi essenziale ai fini della strategia politica. Fino a quando il rapporto prevalente di Cossiga è stato con Segni e Taviani si è mosso nell’area dei Dorotei, lo erano Segni e Taviani ma anche Moro in un primo momento”, racconta. E poi c’è la vicenda dolorosa del sequestro e la morte di Aldo Moro. ”Cossiga ha avuto dal destino purtroppo affidata la vicenda del sequestro e l’uccisione di Moro – dice -molte volte nelle periferie disinformate o malamente informate si mette in discussione il ruolo di Cossiga durante il sequestro Moro, e parlo per testimonianza personale e non de relato”. E’ stato il ruolo di chi, prigioniero del sistema di condizionamento del Ministero degli Interni, che non era un sistema di condizionamento che prescindesse dai forti legami e dei vincoli dalle conseguenze della guerra e del trattato di pace. La Cia non era un ospite, era appartenente al sistema nel quale l’Italia era inserita”, dice. “Cossiga ha vissuto il sequestro con una terribile disperazione e una terribile speranza, di chi si rendeva conto che il sistema non consentiva margini e con la speranza di trovare, invece, il bandolo della matassa. Nessuno più di lui ha saputo interpretare le lettere di Moro e ne ha colto lo spirito”. “Certamente né Moretti né Morucci hanno raccontato quello che dovevano o che potevano raccontare – dice ancora Mannino – perché non lo hanno raccontato. Hanno reso sicura la propria sopravvivenza fisica. Quindi Cossiga ha fatto i conti con questa drammatica realtà. Ha sperato molto lungo la linea del rapporto che non poteva essere esposto o esibito, evidenziato, lungo la linea di Papa Montini. Che in ragione della sua autorità di Stato ha operato i tentativi possibili, non solo mettendo a disposizione delle Br un bel tesoretto ma cercando di dialogare con quelle opposte forze di apparato e di sistema che convergevano nella destinazione tragica della vita di Moro”. “La mattina dell’8 maggio Cossiga sperava di vedere tornare Moro a casa e come tutti ha avuto il dolore di via Caetani e lì ha capito quello che c’era da capire”. “Cossiga ha cercato di svolgere un ruolo che ha un compendio essenziale nella Presidenza della repubblica – dice – All’inizio punta molto la sua presenza nella crescita della dimensione politica ed elettorale del Psi come premessa per una revisione dell’area di Sinistra dello stesso Pci che alla fine qualche sbocco doveva trovarlo, non poteva rimanere il Partito comunista. Ha cambiato nome solo perché è caduto il muro di Berlino”. E poi ribadisce: “Oggi manca tanto uno come Cossiga, ma proprio tanto”.
Dieci anni fa la morte di Cossiga: il presidente-picconatore che fustigava la magistratura. Il Dubbio il 16 agosto 2020. Su Tangentopoli, Cossiga non negò l’esistenza del malaffare, ma nello stesso tempo nel corso degli anni si chiese perché “inchieste da anni dimenticate” fossero “state di colpo lanciate tra i piedi del ceto politico”. Sono passati dieci anni dalla morte, il 17 agosto del 2010, di Francesco Cossiga, deputato dal 1958 al 1983, poi senatore; sottosegretario, ministro dell’Interno durante i drammatici giorni del sequestro Moro; presidente del Consiglio, del Senato, fino a ricoprire il più alto incarico istituzionale, quello di Presidente della Repubblica. Eletto al primo scrutinio con la cifra record di 752 voti su 977, grazie alla regia dell’allora segretario della Dc, Ciriaco De Mita, che riuscì a far convergere sul suo nome sia le forze della maggioranza pentapartito che il Pci. Da ‘presidente notaio’ a ‘picconatore’, Cossiga è stato un Capo dello Stato unico nel suo genere nella storia della Repubblica, fuori dagli schemi fino a quel momento conosciuti, diverso dai suoi predecessori e dai suoi successori soprattutto per il modo con cui, specialmente negli ultimi due anni del settennato, ha trattato e affrontato i temi della vita politica e dei partiti. “E’ vero, io facevo cose un po’ strambe, ma le facevo -racconta nel libro-intervista di Claudio Sabelli Fioretti “L’uomo che non c’è”- perché non avevo dietro di me potentati economici, né potentati politici, né potentati culturali. Ero stato abbandonato anche dalla Dc. Per farmi ascoltare dovevo fare follie, dovevo dire cose che avevano la forma della follia. Ho fatto, dunque, anche il matto. Per attirare l’attenzione, quando non mi stava a sentire nessuno”. La presidenza Cossiga ha avuto dunque due fasi distinte. La prima, contraddistinta da una rigorosa osservanza delle forme dettate dalla Costituzione: Cossiga, essendo tra l’altro docente di diritto costituzionale, fu il classico ‘presidente notaio’ nei primi cinque anni di mandato, dal 1985 al 1990. Poi, dopo la caduta del Muro di Berlino, Cossiga capì che Dc e Pci avrebbero subito gravi conseguenze dal mutamento radicale del quadro politico internazionale, convinto che i partiti e le stesse istituzioni si rifiutavano di riconoscerlo. Da quel momento iniziò una fase di conflitto e polemica politica, spesso provocatoria, che portò al Cossiga ‘grande esternatore’ e, negli ultimi due anni al Quirinale, al ‘picconatore’, un appellativo che non l’avrebbe più abbandonato. Il mito del Picconatore nacque anche sull’onda emotiva di due vicende che hanno segnato la vita politica italiana all’inizio degli anni Novanta: Gladio e Tangentopoli. La scoperta dell’organizzazione segreta della Nato, creata per rispondere ad un eventuale attacco portato dall’Unione sovietica, colpì l’opinione pubblica e la classe politica italiana. E Cossiga assunse una posizione che fu all’origine di fortissime polemiche, difendendo i ‘gladiatori’ e sostenendo che essi andavano onorati come i partigiani, perché il loro obiettivo era quello di difendere l’indipendenza e la democrazia in Italia. E proprio la vicenda di Gladio costò a Cossiga la richiesta di messa in stato d’accusa da parte della minoranza parlamentare, nel dicembre del 1991. Il Comitato parlamentare, però, ritenne tutte le accuse manifestamente infondate, come si può leggere negli atti parlamentari, e la Procura di Roma chiese l’archiviazione a favore di Cossiga, richiesta poi accolta dal Tribunale dei ministri. Su Tangentopoli, Cossiga non negò l’esistenza del malaffare, ma nello stesso tempo nel corso degli anni si chiese perché “inchieste da anni dimenticate” fossero “state di colpo lanciate tra i piedi del ceto politico”. Forse perché’, ipotizzò, qualcuno, non solo in Italia, voleva liberarsi di un sistema politico “logoro e dal loro punto di vista ormai inservibile”. Con dieci settimane d’anticipo sulla scadenza naturale del mandato, il 28 aprile del 1992, Cossiga si dimise dalla Presidenza della Repubblica, per evitare all’inizio dell’undicesima legislatura l’ingorgo istituzionale, legato all’elezione del suo successore e alla nascita del nuovo governo. L’annuncio in un discorso televisivo di 45 minuti, pronunciato simbolicamente il 25 aprile, Festa della Liberazione.
Caselli “processa” Cossiga anche da morto: “Parlò con i brigatisti”. Il Dubbio il 17 agosto 2020. L’ex procuratore rimprovera all’ex capo dello Stato morto dieci anni fa di aver intrattenuto rapporti espistolari con gli ex Br. Ma la “guerra” era finita da un pezzo. Al Corriere della Sera è capitato di ospitare fra la prima e la diciannovesima pagina, come in un’aula di tribunale o in un ufficio di Procura, un processo a Francesco Cossiga nel decimo anniversario della sua morte. Ha cominciato a Ferragosto il magistrato in pensione Gian Carlo Caselli a pagina 19 contestando all’ex capo dello Stato di avere intrattenuto rapporti epistolari con i brigatisti rossi, compresi alcuni autori materiali del sequestro e dell’assassinio di Aldo Moro, gratificandoli di quel “riconoscimento” pur negato durante la prigionia del presidente della Dc dallo stesso Cossiga e dal governo di cui faceva parte, anche a costo di procurare la morte dell’ostaggio. Di cui i terroristi volevano lo scambio con alcuni detenuti, negoziato come tra controparti in guerra. A Caselli – implacabile nella sua funzione di pubblico accusatore anche ora che i suoi 81 anni ne fanno un ex – ha risposto in difesa del padre Anna Maria Cossiga, che quell’epistolario ha consegnato alla Camera con tutto l’archivio dell’ex presidente della Repubblica, o di quella parte ritenuta forse utile alla comprensione delle vicende politiche di cui lui fu protagonista nelle varie funzioni svolte durante la sua lunga carriera pubblica. «Li aveva combattuti da ministro degli Interni. Passata la stagione del sangue, dopo che lo Stato aveva vinto, voleva comprenderne le ragioni e avviare la pacificazione del Paese», ha detto la figlia di Cossiga spiegando gli incontri e le lettere scambiate fra il padre, il fondatore delle brigate rosse Renato Curcio e persino Prospero Gallinari. Che nel 1978 non era stato solo il carceriere ma anche l’esecutore materiale della sentenza di morte contro Moro emessa dal fantomatico “tribunale del popolo”, sparandogli per primo al cuore la mattina del 9 maggio nel bagagliaio dell’auto che sarebbe stata poi lasciata in sosta fra le sedi della Dc e del Pci. D’altronde, di quella curiosità di conoscere le “ragioni” della lotta armata e di chiuderne il capitolo con atti di “pacificazione” ,Cossiga si era pubblicamente assunto la responsabilità già quando era al Quirinale, prima ancora di incontrare e scrivere da ex presidente della Repubblica ai protagonisti di quella disgraziata stagione. Egli aveva tentato, per esempio, di concedere la grazia a Renato Curcio, che espiava da 17 anni la sua condanna per terrorismo senza avere tuttavia ammazzato personalmente nessuno. A impedire di fatto la grazia, avvertendone tutta la impopolarità, era stato l’allora ministro socialista di Grazia, appunto, e Giustizia Claudio Martelli con disquisizioni di natura politica e giuridica finite davanti alla Corte Costituzionale per iniziativa dello stesso Martelli. Nella sua intervista al quirinalista del Corriere della Sera, Anna Maria Cossiga ha tenuto, fra l’altro, anche a ricordare il tormento procurato al padre sino alla morte dalla vicenda del sequestro e dell’assassinio di Moro. Cui Cossiga doveva la sua crescita politica, essendo stato da lui promosso nel suo ultimo governo da ministro della riforma burocratica a ministro dell’Interno. Si sentiva responsabile di quella morte. Capitava che di notte si svegliasse dicendo: «l’ho ucciso io», ha raccontato la figlia. Di questo tormento sono stato personalmente testimone nel suo ufficio al Quirinale assistendo allo scoppio di un pianto ininterrotto una volta che parlammo di Moro, del suo sequestro, della lunga e penosa prigionia e di quel gesto «inutilmente riparatorio» -mi disse- di dimissioni da ministro dell’Interno annunciate a conclusione della tragedia. E che non erano valse neppure a placare la famiglia di Moro, convinta delle responsabilità della Dc, del governo di allora appoggiato esternamente dal Pci e di Cossiga personalmente per l’assunzione della cosiddetta “linea della fermezza” dopo il sequestro e poi anche per la sua gestione. I rimorsi di Cossiga col tempo aumentarono, anziché ridursi. Ciò accadde, in particolare, quando si accorse da ormai ex presidente della Repubblica, durante i lavori della commissione parlamentare d’inchiesta sulle stragi e sul terrorismo presieduta dal senatore post-comunista Giovanni Pellegrino, di essersi avvalso durante il sequestro Moro di alcuni consulenti fra i quali uno rivelatosi poi tra i possibili esponenti della direzione strategica delle brigate rosse che si riunivano in quel periodo a Firenze. Era stato proprio un magistrato fiorentino, Tindari Baglione, a rivelare davanti alla commissione Pellegrino la “comunanza di consulenti” fra lo Stato e l’organizzazione terroristica. Non parliamo poi dell’amarezza procurata ancor prima a Cossiga dalla scoperta dell’appartenenza dei vertici militari e di sicurezza di quel periodo alla loggia massonica P2, forse non molto interessata -diciamo così- a garantire il salvataggio di Moro. In questo curioso processo postumo a Cossiga promosso dalle reazioni di Giancarlo Caselli ai rapporti, epistolari e non, avuti dall’ex presidente della Repubblica con i terroristi dopo la loro sconfitta – come ha giustamente precisato la figlia- mi ha sorpreso anche come lo stesso Caselli si sia lasciato sfuggire il peso di questioni personali nella sua ostinazione accusatrice. Egli non ha solo ricordato le indagini da lui condotte come magistrato a Torino nel 1980 che rischiarono di tradursi in un processo all’allora presidente del Consiglio davanti alla Corte Costituzionale per l’affare del figlio terrorista del collega di partito Carlo Donat-Cattin: processo svanito per la protezione garantita a Cossiga dalla maggioranza del Parlamento, convinta che egli non avesse voluto favorire la latitanza del figlio dell’amico rivelandogliene la posizione. Caselli ha anche rinfacciato a Cossiga, per quanto morto da dieci anni, di avere mandato o fatto mandare per posta, ridotta in coriandoli in una busta, la ricevuta di ritorno di una lettera raccomandata scrittagli dalla moglie del magistrato in difesa del marito che l’allora presidente della Repubblica soleva criticare pubblicamente, forse non dimentico di quella vicenda del 1980.
“Non vi fu nessun rapporto tra le Br e i Servizi segreti”. Il documento che smonta il complotto del secolo. Il Dubbio il 17 agosto 2020. Il documento sul caso Moro firmato da 23 tra storici e scrittori di origini, percorsi e orizzonti diversi punta a spazzare via una volta per tutte la ‘fake news’ che vuole esistente un legame occulto tra il SISDE e le Br. È una presa di posizione pacata, piena di informazioni concrete, che fa appello alla logica e alla ricerca scientifica e scritta con lo stile di chi conosce una materia, il documento sul caso Moro firmato da 23 tra storici e scrittori di origini, percorsi e orizzonti diversi. (Matteo Antonio Albanese, Gianremo Armeni, Andrea Brazzoduro, Frank Cimini, Marco Clementi, Andrea Colombo, Silvia De Bernardinis, Christian De Vito, Italo Di Sabato, Eros Francescangeli, Mario Gamba, Marco Grispigni, Davide F. Jabes, Nicola Lofoco, Carla Mosca, Paolo Persichetti, Giovanni Pietrangeli, Francesco Pota, Ilenia Rossini, Elisa Santalena, Vladimiro Satta, Giuliano Spazzali, Davide Steccanella, Ugo Maria Tassinari). La lettera aperta punta a spazzare via una volta per tutte la ‘fake news’ che vuole esistente un legame occulto tra il SISDE e le Br: legame, in realtà, “sempre smentito dalle ricerche storiografiche e dalle risultanze processuali”, si spiega nel documento. Anzi, “l’attività giudiziaria e delle diverse commissioni d’inchiesta ha accertato che Moro non è mai stato tenuto sotto sequestro nei locali di via Gradoli, che fungevano invece da base per due brigatisti, Mario Moretti e Barbara Balzerani”, scrivono i 23 ricercatori e storici, sottolineando che “‘ultima Commissione Parlamentare d’inchiesta sul caso Moro ha addirittura effettuato un’indagine Dna sui frequentatori dell’appartamento di via Gradoli, constatando l’assenza di tracce genetiche riconducibili ad Aldo Moro”. Insomma, il documento in questione farà discutere, perché lancia un sasso notevole nel “mare magnum delle dietrologie” che, a loro avviso, “hanno deformato le ricostruzioni sul sequestro e l’omicidio di Aldo Moro, spesso facendo riferimento al covo brigatista di via Gradoli”. “Purtroppo via Gradoli è stata al centro di falsi misteri e montature – commenta Vladimiro Satta, già archivista del Senato e autore di numerosi saggi sul tema (tra cui ‘Odissea nel caso Moro’) -Si tratta di falsificazioni che hanno tratto in inganno molti, anche a causa della leggerezza con cui talvolta la stampa le ha diffuse”. Netto il parere di Elisa Santalena, professore associato di Storia italiana all’Università di Grenoble (Francia). “È sempre più incomprensibile come le fake news (perché altro non sono), continuino a spadroneggiare sulla vicenda del sequestro Moro. Eppure sono passati più di quarant’anni. In ambiti universitari si sdrammatizza il tema, lo si attribuisce alla ‘sensibilità giornalistica’, dunque a criteri sensazionalistici e grossolani. Tutto vero. Ma c’è anche una responsabilità di quei docenti e accademici che hanno supportato, o comunque non adeguatamente contrastato, le ricostruzioni falsate. La partita adesso è suscitare negli studenti una giusta capacità critica, che privilegi la verità alle fandonie dei falsi misteri. Tra i firmatari della lettera aperta c’è anche Davide Steccanella, scrittore (suo il saggio ”Gli anni della lotta armata. Cronologia di una rivoluzione mancata”, Bietti Editore) e penalista di rango (difensore, tra gli altri di Cesare Battisti e Renato Vallanzasca) con il gusto di mettere in fila le contraddizioni: “Dunque, qui ci troviamo di fronte a un tipico fatto che non sussiste. In due righe, tre falsità. Non ci sono i tempi, non ci sono i soggetti e non ci sono le correlazioni. Come mai una cosa così sgangherata ha avuto così tanto spazio? È avvilente come, a distanza di 42 anni, il nostro Paese non sia ancora stato capace di raccontare un periodo importante della propria storia senza ricorrere continuamente a quelle mistificazioni che solleticano il gusto italico per misteri e complotti. Viene da pensare che questo non sia solo frutto di superficialità ma di una volontà ben precisa: ridurre un importante e lungo conflitto sociale (peraltro mondiale) a terrorismo avulso e teleguidato”. Ulteriori precisazioni arrivano da Paolo Persichetti, ricercatore indipendente (ed ex Br oggi in fine pena), che spiega attraverso quali meccanismi sia oggi possibile fare ricerche più valide sul fronte della lotta armata di quarant’anni fa: “Alcuni recenti aggiornamenti normativi hanno reso più democratico l’accesso agli archivi e quindi alle fonti storiche. Oggi è possibile consultare quei documenti che un tempo erano accessibili solo alla magistratura, alle commissioni parlamentari e una scia di consulenti di partito. Una circostanza che in passato ha favorito una certa opacità e a volte anche la manipolazione, in cui le carte scomode venivano omesse o citate solo in parte. Quel tempo è finito! Una nuova generazione di studiosi non è più disposta ad accettare il ricorso a narrazioni che utilizzano tecniche argomentative come il metodo dell’amalgama, la confusione di tempi e luoghi, l’uso del sentito dire, le correlazioni arbitrarie, le affermazioni ipotetiche, i sillogismi e le false equazioni. Per decenni l’accesso riservato alle carte è stato un formidabile strumento per mistificare la storia, costruire un discorso funzionale ai poteri, per tracciare una narrazione ostile alla storia dal basso, con l’obiettivo di negare la capacità dei soggetti di muoversi e pensare in piena autonomia secondo interessi legati alla propria condizione sociale, politica, culturale. Così si è finiti ad una sorta di nuovo negazionismo storiografico”. Più laconico, ma anche più definitivo, il giudizio di Marco Clementi, storico dell’Università di Cosenza e autore di monumentali saggi sulle Brigate Rosse. “Un Paese è libero quando cerca la verità storica. Per farlo serve metodo; il costante riscontro delle ipotesi nelle prove disponibili ne è una parte fondamentale”. n particolare, nella lettera aperta, i 23 ricercatori segnalano alcune chiare evidenze emerse in Corti di Assise in ordine all’episodio dell’affitto di via Gradoli. 1. L’ingegner Borghi/Moretti ha affittato i locali di via Gradoli 96 a seguito di normale annuncio pubblicitario nel dicembre del 1975, come risulta agli atti; 2. I locatori erano i signori Giancarlo Ferrerò e Luciana Bozzi, proprietari dell’appartamento dal rogito avvenuto in data 01/07/1974; 3. È accertato che si è trattato di una transazione tra privati, senza coinvolgere la figura dell’amministratore; 4. Il SISDE, il nuovo servizio segreto civile, è stato creato nel 1977, cioè due anni dopo la stipula del contratto di affitto per la base brigatista. 5. È evidente che il contratto d’affitto tra brigatisti e coniugi Ferrerò non poteva perciò essere implicato con il SISDE, del resto inesistente in quel momento. 6. Occorre peraltro ricordare che, com’è noto, la base Br di via Gradoli 96 ha cessato di essere ”un covo” nel 1978, proprio durante il sequestro Moro. Per evitare contiguità immotivate e fuorvianti, va sottolineato che la base dei Nar era invece al civico 65 di via Gradoli e comunque il loro soggiorno risale al 1981. Un altro estremista di destra aveva in realtà abitato in via Gradoli 96 – Enrico Tomaselli di Terza Posizione – ma nel 1986, cioè molti anni dopo i fatti in oggetto. Per completezza documentale, va comunque precisato che non si trattava dello stesso vano occupato a suo tempo dalle Br. Infine, risulta che ad affittare il monolocale al Tomaselli non sia stato l’amministratore Catracchia ma un altro estremista di destra figlio di un magistrato di Cassazione: Andrea Insabato, proprietario del piccolo appartamento e peraltro futuro attentatore alla sede del Manifesto nel dicembre 2000. 8. In ogni caso, anche i presunti 24 appartamenti legati a diverse società immobiliari – che in modo sbrigativo e arbitrario vengono attribuite ai Servizi – sono acquisiti negli anni successivi al sequestro Moro. 9. In particolare, sono agli atti le proprietà immobiliari di Vincenzo Parisi, nel 1978 questore di Grosseto, dal 1980 in organico al SISDE (di cui diventa direttore nel 1984) e nel 1987 capo della Polizia. 10. L’intensa attività immobiliarista del dirigente Parisi, con gli appartamenti intestati alle figlie Maria Rosaria e Daniela, non sembra richiamare reconditi misteri. Ad ogni buon conto, sono fatti notarili riguardanti il civico 75 che ricorrono una prima volta un anno e mezzo dopo il rapimento Moro mentre i successivi, inerenti al civico 96, avvengono nel 1986-87: ben quattro e undici-dodici anni dopo la stipula del contratto di affitto del 1975 da parte delle Brigate Rosse. 11. Quando si tratta dell’immobile di via Gradoli queste date abitualmente non vengono segnalate ai lettori. E invece la precisione sui tempi cronologici è necessaria per un’interpretazione ponderata dei fatti ispirata al metodo storico. Un’analisi corretta dei tempi, delle fonti e del nesso causa-effetto smentisce seccamente ogni possibile coinvolgimento di entità non riconducibili alla lotta armata intrapresa dalle Br nel lontano 1970. Denunciamo pertanto il mancato rispetto dei più elementari criteri di verità e di logica nella ricostruzione di eventi e circostanze, una degenerazione particolarmente grave della e nella stampa italiana.
Cossiga, il politico lucido che combatteva e rispettava le Brigate Rosse. David Romoli su Il Riformista l'11 Agosto 2020. Cosa ha stupito nella scoperta del carteggio tra l’ex capo dello Stato Francesco Cossiga e alcuni ex militanti armati, definiti abitualmente (per una convenzione alla quale Cossiga non si uniformava) “ex terroristi”? Non certo l’esistenza del carteggio stesso. Ci sono altri casi di scambi di lettere, per esempio, tra ex brigatisti e parenti delle vittime o con celebri giornalisti come Giorgio Bocca o Rossana Rossanda, ma non con esponenti politici. Tuttavia l’interesse dell’ex ministro degli Interni, ex premier, ex presidente della Repubblica a dialogare e anche incontrare i nemici vinti era notissimo. Neppure sorprendono i toni degli ex brigatisti e autonomi che si erano proposti l’attacco al cuore dello Stato, o comunque la distruzione dello stesso. Negri che, dandosi del tu con l’ex presidente come si conviene a un accademico comunque di chiarissima e internazionale fama, chiede una spintarella per poter andare in vacanza. Curcio che esalta l’impatto profondissimo della stretta di mano con il democristiano che non moltissimi anni prima lui, e in realtà tutto il movimento armato o meno degli anni ‘70, avevano considerato il nemico numero uno: Kossiga con tanto di K. Nei frangenti dati, quelle esagerazioni, quelle iperboli, quelle sbavature sono non solo comprensibili ma inevitabili: nell’ordine delle cose. No, quello che a distanza di anni ha lasciato molti sbigottiti, e che avrebbe suscitato fragoroso scandalo se le lettere fossero state rese note nel momento in cui furono scritte, agli inizi degli anni ‘90, è il tono di profondo rispetto che Cossiga adopera. Dialogare con gli ex terroristi, spingerli a riconoscere i loro errori, recuperarli alla vita civile, soprattutto indurre pentimento, inteso non nell’accezione delatoria ma in quella morale del termine, tutto questo andava e va benissimo. È anzi meritorio. Segnala e sottolinea la superiorità morale tra la Repubblica e i suoi nemici. Cossiga, cioè il leader politico che più di ogni altro aveva fronteggiato l’emergenza armata, spezza questa visione unanime. Dice apertamente quel che non si poteva e non si doveva dire ai tempi del sequestro Moro e non si è più potuto dire in seguito: che da una parte c’era lo Stato democratico ma dall’altra non c’erano pazzi sanguinari, folli che inseguivano una chimera nefasta, mostri che possono solo emendarsi riconoscendo la loro turpe follia. C’era un movimento rivoluzionario che va inscritto a tutti gli effetti nella storia dei movimenti rivoluzionari del secolo scorso. C’erano giovani e giovanissimi che mettevano in gioco la pelle e accettavano la certezza di passare buona parte della vita in galera per un’idea politica. C’erano gruppi formati non da nihilisti col culto dell’azione fine a se stessa ma da operai rivoluzionari e comunisti formatisi nel ciclo di lotte operaie, senza pari nell’occidente post-bellico, dell’Italia degli anni ‘70. Tutto ciò era evidente già all’epoca dei fatti, e lo aveva indicato con lucidità estrema, già nel corso dei 55 giorni della prigionia di Moro, Rossana Rossanda, in un famoso articolo sull’ “album di famiglia” nel quale si spingeva anche oltre, riconoscendo le affinità tra la principale organizzazione armata, le Br, e la cultura del Pci nei decenni precedenti. Le ricerche storiche e sociologiche hanno da allora puntualmente confermato. E tuttavia quel dato di realtà non poteva essere riconosciuto dalla politica. I “terroristi” dovevano essere inscritti nelle categorie del crimine comune o della follia sanguinaria e questo obbligo si dimostrò tanto tassativo da spingere il Palazzo, e la stampa tutta, a sacrificare Aldo Moro pur di non concedere ai suoi rapitori quel “riconoscimento politico” che lo avrebbe probabilmente salvato. Cossiga, come il Moro prigioniero e probabilmente anche in conseguenza della scelta bugiarda fatta allora, straccia questa narrazione falsa e falsificante. Tratta gli ex terroristi con rispetto. Il che, sia chiaro, non significa affatto dargli ragione. Né lui né lo stesso Moro si espongono mai all’accusa di dar ragione, anche solo parzialmente, al movimento armato. Cossiga non rinnega mai la sua posizione di allora. Non smette mai di considerare la lotta armata un nemico che lo Stato democratico aveva il dovere di fronteggiare. Un nemico, però, dotato della sua dignità. Un nemico che si poteva e doveva combattere ma anche rispettare. Lo Stato italiano ha fatto una scelta diversa. Si è comportato, nei fatti, con la piena consapevolezza di quale fosse la realtà. Si è adoperato, a emergenza conclusa e lotta armata sconfitta, per liberare i nemici vinti. A patto però di non doverne mai riconoscere la dignità politica. Quando Cossiga si scambiava lettere con gli uomini e le donne a cui lui stesso aveva dato la caccia, all’inizio dei ‘90, sembrava possibile superare davvero quella fase storica, restituendole anche nel discorso pubblico i suoi caratteri reali. Non solo Cossiga ma anche Pecchioli, il “ministro degli Interni” del Pci all’epoca del sequestro Moro, e molti democristiani erano favorevoli a un’amnistia. Ha invece prevalso una linea di continuità assoluta con la versione imposta all’epoca dei fatti. La verità di Cossiga è stata sbrigativamente fatta passare per stranezza, eccentricità, frutto di depressione e sensi di colpa mai davvero superati per la morte del prigioniero di via Montalcini. Cossiga è stato fatto passare per pazzo. Proprio come era capitato ad Aldo Moro nei 55 giorni della sua prigionia.
Cossiga, le lettere agli ex Br: “Ormai la giustizia contro di voi è vendetta”. Alice De Gregoriis su meteoweek.com il 7 agosto 2020. Il Corriere pubblica stralci di lettere segrete tra Cossiga e gli ex Brigate Rosse. Tra i nomi al centro della corrispondenza epistolare: Renato Curcio, Toni Negri, Prospero Gallinari, Paolo Persichetti e Fabrizio Melorio. A Paolo Persichetti, ad esempio, scrive: “Ormai la cosiddetta giustizia che si è esercitata e ancora si esercita verso di voi, anche se legalmente giustificabile, è politicamente o vendetta o paura”. Siamo nel 1992, precisamente il 25 novembre, nel carcere di Rebibbia: l’ormai ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga incontra Renato Curcio, uno dei fondatori delle Brigate Rosse. L’incontro tra i due avviene l’anno dopo il tentativo di Cossiga di concedere la grazia a quello che lui stesso definiva “un sovversivo di sinistra”. Un tentativo non andato a buon fine. Durante il colloquio, tra i tanti temi toccati (come il caso Moro), Cossiga spiega che quell’atto di clemenza (fallito) doveva rappresentare un primo passo verso il superamento di leggi di emergenza alla cui creazione lui stesso aveva partecipato. Ma quella manovra raccolse l’opposizione dei parenti delle vittime e di alcune forze politiche, come l’ex Pci. A fornire i dettagli dell’incontro, riportati dalle parole degli stessi partecipanti, sarebbe un resoconto conservato nell’archivio privato del presidente emerito, oggi riportato dal Corriere. Nel resoconto Curcio avrebbe scritto: “Il senatore Cossiga ha commentato che, in effetti, la nostra esperienza, per molti di quel partito, rappresenta ciò che essi hanno segretamente desiderato e mai apertamente osato fare“. Poi ancora: “Ho sentito la nostra stretta di mano come segno di una nuova maturazione personale… Il colloquio mi ha lasciato una visione più chiara dei sentieri percorsi e anche di me stesso, e di ciò le sono grato”. Ma Cossiga non avrebbe intrattenuto rapporti epistolari esclusivamente con Curcio. A dimostrarlo è il suo archivio donato alla Camera dei deputati. Tra gli altri brigatisti al centro dello scambio di lettere ci sarebbero anche: Prospero Gallinari, Mario Moretti e Germano Maccari, e anche esponenti dell’Autonomia operaia fuggiti in Francia come Toni Negri. Significativa la lettera che Cossiga scrisse a Prospero Gallinari, ex carceriere di Moro. Gallinari fu scarcerato per motivi di salute, e subito arrivarono gli auguri di Cossiga: “Sono lieto che Lei sia rientrato a casa e formulo gli auguri più fervidi per una vita normale e serena”. Importante anche la lettera che nel 2002 Cossiga invia a Paolo Persichetti, ex Udcc appena estradato dalla Francia e arrestato: “Ormai la cosiddetta giustizia che si è esercitata e ancora si esercita verso di voi, anche se legalmente giustificabile, è politicamente o vendetta o paura, come appunto lo è per molti comunisti di quel periodo, quale titolo di legittimità repubblicana che credono di essersi conquistati non col voto popolare o con le lotte di massa, ma con la loro collaborazione con le forze di polizia e di sicurezza dello Stato”. Non manca anche qualche lettera a Fabrizio Melorio, che partecipò all’omicidio del generale Licio Giorgieri. Cossiga scrive: “Ho letto con attenzione, trepidazione e commozione la sua lettera… perché in fondo mi sento anche un po’ ‘colpevole’ della Sua prigionia, essendo stato uno di quelli che hanno combattuto quella guerra, e per di più per essermi trovato dalla parte dei vincitori”.
Giovanni Bianconi per il “Corriere della Sera” il 9 agosto 2020. Un anno dopo il fallito tentativo di concedergli la grazia nell'estate 1991, l'ormai ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga incontrò Renato Curcio, uno dei fondatori delle Brigate rosse. Il colloquio avvenne a quattr' occhi, nel carcere romano di Rebibbia, il 25 novembre 1992, quando Cossiga aveva lasciato il Quirinale da sei mesi. Parlarono di molte cose, dal «carattere sociale e politico del fenomeno armato», che l'ex capo dello Stato non definiva terrorismo bensì «sovversivismo di sinistra», al caso Moro, alla vicenda della grazia abortita. Cossiga spiegò che nelle sue intenzioni quell'atto di clemenza unilaterale doveva essere un primo passo per superare le leggi di emergenza a cui lui stesso aveva contributo, prima da ministro dell'Interno e poi da presidente del Consiglio, quando le Br avevano lanciato il loro «attacco al cuore dello Stato». I vertici delle forze di sicurezza erano d'accordo, ma i parenti delle vittime no, al pari di alcune forze politiche; in primo luogo l'ex Pci divenuto Partito democratico della sinistra. «Il senatore Cossiga ha commentato che, in effetti, la nostra esperienza, per molti di quel partito, rappresenta ciò che essi hanno segretamente desiderato e mai apertamente osato fare», ha scritto Curcio in un resoconto dell'incontro conservato nell'archivio privato del presidente emerito. Insieme e a un biglietto inviato al fondatore delle Br per ringrazialo dell'incontro che «è stato per me di grande interesse politico, culturale, e soprattutto umano». Risposta dell'ex brigatista: «Debbo dirle che dopo anni di fuoco, non solo metaforico, e di K (nell'estrema sinistra il ministro dell'Interno del '77 veniva chiamato Kossiga, con la doppia S stilizzata come il simbolo delle SS naziste, ndr ), ho sentito la nostra stretta di mano come segno di una nuova maturazione personale... Il colloquio mi ha lasciato una visione più chiara dei sentieri percorsi e anche di me stesso, e di ciò le sono grato». Curcio comincerà a uscire dal carcere solo l'anno successivo, in un periodo in cui Cossiga (non più Kossiga bensì il «picconatore» del sistema di cui era stato parte) ha intrattenuto rapporti epistolari e diretti con molti ex terroristi. In prevalenza di sinistra, ma non solo. Nel suo archivio donato alla Camera dei deputati, oltre al carteggio con Curcio ci sono le lettere inviate ad altri brigatisti come Prospero Gallinari, Mario Moretti e Germano Maccari, militanti dell'Unione dei comunisti combattenti, pentiti come Marco Barbone e l'ex di Prima linea Roberto Sandalo, esponenti dell'Autonomia operaia fuggiti in Francia per evitare il carcere, a cominciare da Toni Negri. Il quale, una volta rientrato in Italia per finire di scontare la pena, si rivolse all'ex presidente per chiedere una buona parola con un dirigente della Digos. Su sollecitazione di Cossiga, in virtù di un'antica conoscenza personale e «come primo effetto della reciproca smobilitazione ideologica», Negri gli dava del tu, e il 12 aprile 1998, giorno di Pasqua, gli scrisse per fargli gli auguri e «per chiederti di intervenire eccezionalmente in mio favore». Dopo un primo diniego, il professore detenuto aspirava a ottenere un permesso per «una brevissima vacanza», però serviva che la polizia «dichiarasse insussistente, come in realtà è, il pericolo di fuga». Così Negri s' era rivolto al presidente emerito: «Mi permetto di insistere con te perché, se ti è possibile, tu faccia questo intervento. Ti ringrazio fin d'ora per quello che potrai fare». All'ex carceriere di Moro Prospero Gallinari, scarcerato per motivi di salute, Cossiga scrisse il 5 maggio '94: «Sono lieto che Lei sia rientrato a casa e formulo gli auguri più fervidi per una vita normale e serena». Aggiungendo il rammarico perché nell'ex Pci c'era chi considerava le Br «uno strumento della Cia e della P2! Che vergogna e che falsità, che viltà e che malafede! Ma non se la prenda. Se viene a Roma me lo faccia sapere». In una lettera a Mario Moretti, il «regista» del caso Moro, l'ex presidente lo ringrazia per il libro sulla storia delle Br scritto nel 1994, e ribadisce la sua idea di un fenomeno «radicato socialmente e radicalmente nella società e nella sinistra italiana, e collegata alla divisione ideologica dell'Europa». È per questa sua analisi che Cossiga, morto dieci anni fa, è stato e continua ad essere pressoché l'unico politico apprezzato dagli ex militanti della lotta armata di sinistra. Compresi i giovani aderenti alla fazione brigatista che nel 1987 uccisero il generale Licio Giorgieri, come Francesco Maietta e Fabrizio Melorio. «Le sue esternazioni hanno avuto per me lo stesso effetto di rottura e di nuovo punto di partenza delle considerazioni del professor De Felice in materia di fascismo e resistenza», gli scrive Maietta dalla cella nel 1993; cinque anni dopo Cossiga sarà ospite al matrimonio dell'ex brigatista, uscito dal carcere. E al suo compagno di cella Melorio, che all'ex presidente aveva raccontato il passaggio dall'essere suo nemico giurato nel '77 a «condividere molte delle cose che lei sostiene», Cossiga confida: «Ho letto con attenzione, trepidazione e commozione la sua lettera... perché in fondo mi sento anche un po' "colpevole" della Sua prigionia, essendo stato uno di quelli che hanno combattuto quella guerra, e per di più per essermi trovato dalla parte dei vincitori». Nel 2002 il «picconatore» manda una lettera a Paolo Persichetti, altro ex dell'Udcc appena estradato dalla Francia e chiuso in prigione: «Ormai la cosiddetta "giustizia" che si è esercitata e ancora si esercita verso di voi, anche se legalmente giustificabile, è politicamente o "vendetta" o "paura", come appunto lo è per molti comunisti di quel periodo, quale titolo di legittimità repubblicana che credono di essersi conquistati non col voto popolare o con le lotte di massa, ma con la loro collaborazione con le forze di polizia e di sicurezza dello Stato». In un altro faldone, insieme a documenti e atti parlamentari e giudiziari sulla strage di Bologna di quarant' anni fa, sono conservate alcune lettere inviate a Cossiga da Valerio Fioravanti e Francesca Mambro, quando ancora erano sotto processo per la bomba alla quale si sono sempre proclamati estranei. Dopo la condanna nell'appello bis, a luglio '94, gli scrisse pure la mamma di Francesca Mambro: «Io e i miei figli Le chiediamo aiuto per la ricerca della verità, perché chi è dalla parte della Giustizia si senta anche dalla parte della difesa di Francesca e Valerio». Ma un anno dopo arrivò l'ergastolo definitivo».
Paolo Guzzanti per “il Giornale” il 25 luglio 2020. Gli sarebbe piaciuto. Il «Premio Cossiga per l'Intelligence» promosso dalla Società italiana di Intelligence, assegnato al prefetto Carlo Mosca dalla giuria presieduta da Gianni Letta, con vicepresidenti Giuseppe Cossiga e Mario Caligiuri, lo avrebbe molto divertito. La prima edizione si svolgerà in modalità virtuale il 17 agosto, in occasione del decennale della scomparsa di Francesco Cossiga. Avrebbe voluto certamente premiare lui il Prefetto Carlo Mosca, ma c'è suo figlio. L'ultima volta che lo andai a trovare a casa sua, Cossiga era un po' malandato, ma mi avvertì subito che il mio telefonino Sony non eravamo ancora agli smart e gli iPhone, era un modello superato. La sua casa era piena di soldatini, di truppe sarde di piombo, di carabinieri in alta uniforme, ma non era un museo, era piuttosto la casa di un grande piccolo patriota. Quando mi chiamò per avvertirmi che avrebbe lasciato il Quirinale, lo andai a trovare con la mia compagna di allora e il suo bambino Andrea. A lui consegnò, con estrema solennità, la bandiera di combattimento: «A te che rappresenti le nuove generazioni». Poi io lo seguii fino in Irlanda. Ma la sua passione per i giocattoli dell'Intelligence era molto più di una mania da collezionista. Cossiga aveva imparato già negli anni Cinquanta che cosa significasse far parte dell'Intelligence Community, e per giunta di lingua inglese. Non so quanto fluente fosse in inglese, ma lo capiva bene e scherzavamo sul fatto che in inglese per dire «rapporto sessuale» si dica sexual intercourse. Lo faceva ridere. Ma era un lettore scaltro di informazioni diplomatiche e aveva protetto e difeso con le unghie e coi denti l'organizzazione della Nato Stay behind (dietro le linee) che in Italia era stata curiosamente ribattezzata «Gladio» ma che esisteva tale e quale in tutti i Paesi della Nato. Era una organizzazione partigiana che si sarebbe dovuta attivare nel caso di occupazione sovietica. Quello fu il suo vero war game che finì malissimo quando Giulio Andreotti, presidente del Consiglio, consegnò le chiavi dell'organizzazione segreta al giudice Casson, sicché tutto finì in piazza e in uno scontro politico rovente. Come sardo, si sentiva più vicino agli irlandesi che agli inglesi, ma era molto bravo nell'usare i codici, decifrare un rapporto diplomatico e saper trattare le materie di intelligence anche con gli ambasciatori. Ricordo la sua grande amicizia con l'ambasciatore sovietico e poi russo Adamishin che gli dette informazioni essenziali sulla più grande operazione di riciclaggio del tesoro sovietico di cui si occupò poi Falcone, non più procuratore, ma suo delegato personale e subito prima di essere ucciso. Cossiga mi diceva sempre che il suo vero maestro di Intelligence era stato Aldo Moro: il criptico intellettuale e professore che si sentiva perennemente tenuto d'occhio dal Kgb in Italia. Cossiga era il supervisore italiano del passaggio di denaro fra Mosca e il Partito comunista italiano, come ministro o rappresentante del governo, in compagnia di due agenti del Tesoro americano che controllavano soltanto la genuinità dei dollari che da Mosca arrivavano a Roma e che Cossiga (sue personali confidenze) faceva cambiare in lire alla banca dello Ior vaticano (Istituti Opere Religiose) da Monsignor Marcinkus. Che non era proprio uno stinco di santo. Conosceva perfettamente gli schieramenti di missili europei di media gittata sovietici, gli SS20 e quelli di teatro americani Pershing e Cruise. Adorava, letteralmente adorava gli avversari sovietici con un sentimento che lo accomunava a John LeCarré: «Quei distinti signori che erano i grandi comunisti di quei tempi», mi diceva. E poi, sì, c'era anche l'apparato giocoso: le microspie, i rivelatori di microspie (gli portai un detector che avevo comprato a New York che faceva molti ronzii quando lo accostavamo ai suoi muri, cosa di cui era orgoglioso). Il suo amore possessivo per l'Arma dei Carabinieri dipendeva anche dal fatto che i Carabinieri sono sia polizia militare che civile, forza combattente e di intelligence, all'occorrenza polizia stradale. Che è anche il motivo per cui i Carabinieri sono stati sempre molto apprezzati anche dagli americani per le operazioni di peace keeping all'estero. Adorava le uniformi, i gradi, le mostrine e mi regalò solennemente un maglione blu della Marina militare che conservo come una reliquia. Non aveva per natura un portamento militare, ma aveva una passione per la Storia e i suoi dettagli. Non si trattava solo di soldatini di piombo, ma di combattenti cibernetici. Mi regalò anche un grande album dell'intelligence con tutte le armi che si usavano trent' anni fa, introvabile nelle librerie. Da vero uomo di intelligence, ascoltava con piacere anche i pettegolezzi e si informava con curiosità dei particolari piccanti delle relazioni amorose nel mondo politico. Aveva una straordinaria collezione delle bandiere di combattimento di reggimenti e divisioni del passato, ma anche lettere che certificavano la sua competenza anche tecnica che gli permetteva di riconoscere una operazione mediatica da una «fabbricazione» che è una sostituzione del falso con il reale. Sapeva molto di più di quello che possiamo immaginare e tutti speriamo che abbia lasciato scritto da qualche parte ciò che ancora ci manca per ricostruire quel che accadde, come e agito da chi, perché e quando. Lui lo sapeva, Andreotti anche e oggi il teatro politico è molto disadorno senza questi due personaggi. Specialmente senza Cossiga.
Francesco Cossiga, un cattolico liberale in un partito di affaristi. Paolo Guzzanti de Il Riformista il 28 Febbraio 2020. Era ancora l’altra Italia, quella precedente. Sì, c’era stato il muro di Berlino, molto rumore e accesi dibattiti, ma ancora non si sapeva dove si sarebbe aperta la crepa. Un indizio c’era, ma non andava molto oltre l’aspetto in apparenza buffo, aneddotico e magari leggermente psichiatrico del solo fatto degno di nota: il signor presidente della Repubblica in carica, Francesco Cossiga, che per anni se ne era stato buono e tranquillo anzi invisibile e misterioso dietro le tende del Quirinale, improvvisamente era diventato matto. Fu creato un verbo per indicare le sue azioni verbali: «Esternava». Mandava all’esterno del suo corpo e della sua mente ciò che vi albergava da tempo, represso come in un fucile ad aria compressa. Da mite e ossequioso, istituzionale e quasi invisibile, si era fatto aggressivo, e diceva che doveva togliersi i sassi che aveva nelle scarpe e menava botte da orbi a destra e a manca, più a manca che a destra. Io ero appena approdato a La Stampa diretta da Paolo Mieli, condirettore Ezio Mauro che sei anni dopo sarebbe diventato direttore di Repubblica, da cui io provenivo dal giorno della fondazione. Questa è la storia di come, per puro caso, diventai non soltanto il confidente del presidente della Repubblica ma colui che, con pochi altri, difese persino la sua follia e vide che – a parte qualche eccesso in liquerizia e qualche compressa di litio – il primo cittadino era non soltanto sano di mente, ma probabilmente vedeva più lontano di tutti gli altri. E che aveva tirato l’allarme facendo suonare tutte le sirene e quasi sbandare il convoglio istituzionale. Erano dunque i primi di gennaio del 1990, nei giorni in cui ogni anno le singole Procure inaugurano l’anno giudiziario. Mi chiamò Ezio Mauro e mi disse: «Perché non vai a Gela? Domani Cossiga inaugura l’anno giudiziario e probabilmente farà il matto anche lì». Per puro caso la sera prima era andata in onda, ma non lo sapevo, la registrazione di una puntata di Harem di Catherine Spaak. In quella trasmissione Catherine mi aveva chiesto notizie di mia figlia Sabina che muoveva i suoi primi e gloriosi passi nella satira televisiva. Io non lo sapevo, ma Cossiga, che era un animale televisivo informatissimo, sì. A Gela un servizio d’ordine poliziesco piuttosto brusco aveva confinato la fastidiosa massa dei cronistacci e dei paparazzi in un androne dell’ingresso, mentre la macchina del presidente della Repubblica e della sua scorta arriva con stridore di gomme e luci lampeggianti. Io non avevo mai visto Cossiga e dunque quando lo vidi dirigersi a passo di carica verso di me, mi chiesi se ci fosse qualcosa di molto strano. Cossiga mi afferrò per un braccio portandomi via dalla mischia, dicendomi col suo accento sardo che gli raddoppiava tutte le consonanti: «Non sapevo che lei avesse una figlia attrice. Mi sembra anche molto bella e molto brava». Capii allora che aveva visto la mia intervista dalla Spaak e risposi con parole di circostanza, mentre il presidente mi trascinava sui gradini di una scala con tutto il codazzo di guardie del corpo e dignitari, fra cui il sindaco di Gela disperato per essere stato estromesso dal suo posto di accompagnatore ufficiale con fascia tricolore del presidente, il quale lo ignorava e invece seguitava a parlarmi. Il sindaco, furibondo, si aggrappò allora alla giacca della mia grisaglia e la aprì verticalmente in due lasciandomi in maniche di camicia e brandelli come in un film di Charlie Chaplin. Cossiga non mi mollò e il sindaco mi prese a gomitate molto decise all’altezza dello stomaco. E non mollai neanche io. Arrivammo nell’aula e io restai incollato a Cossiga in una ressa senza ossigeno, ma colma di rancori. Il presidente fece il suo discorso e senza alcun preavviso attaccò Giorgio Bocca, uno dei principi del giornalismo italiano. Erano i tempi dei delitti della banda detta della “Uno Bianca” in cui erano stati implicati alcuni carabinieri. Bocca aveva scritto quel giorno un articolo in cui sosteneva più o meno che i carabinieri erano storicamente degli eversori (alludendo al famoso “Piano Solo” ai tempi del generale De Lorenzo, accusato di propositi golpisti) e Cossiga diventava una belva se qualcuno gli toccava i “suoi” carabinieri di cui si considerava il supremo protettore. Dunque, fra l’altro, pronunciò una invettiva contro Bocca molto dura, accusandolo di vilipendere. Io prendevo nota su un piccolo notes. Il punto su cui ero chiamato a render conto ai miei lettori era: Cossiga è matto o no? Sembrava davvero preda di un delirio fuori controllo, oppure diceva semplicemente cose che molti consideravano sgradevoli? Fra pazzia e divergenze d’opinione, c’è un abisso. Così, ricordo che mi dedicai al suo body language, i movimenti minimi che potevano suggerire segni di agitazione e scompostezza e potevo farlo perché ero attaccato a lui come una cozza, in una ressa irrespirabile. Ricordo in particolare i suoi radi capelli bianchi che erano composti e immobili. La voce era alta, ma secca, con un tono sprezzante costante. Non isterico. Poi ci salutammo, ci separammo e corsi in albergo per scrivere un pezzo in cui facevo la cronaca dell’accaduto dando conto di parole e fatti (non della mia sventurata giacca) ignorando di compiere in questo modo un gesto eversivo. Il giorno successivo infatti quasi tutti i giornali titolavano sulla follia presidenziale, l’evidente patologia mentale e il fatto – che di lì a poco sarebbe emerso come fatto istituzionale – che Cossiga non sarebbe stato nelle condizioni mentali per reggere il suo ufficio: «Not fit» per l’Economist e una celebre giornalista inglese lo definì matto come le lepri di marzo quando vanno in amore, un’espressione ripresa da Lewis Carroll nel Tè del Cappellaio matto (una lepre) in Alice in Wonderland. Tutti avevano scritto che Cossiga era matto, tranne me. Ero forse matto io? Fu così che mi accorsi per la prima volta (ne sarebbero seguite molte altre) che alcune persone preferivano cambiare marciapiede quando mi incontravano per strada. Cossiga non usava ancora il verbo «picconare» (l’avrebbe inaugurato alla presentazione del mio libro su di lui Cossiga uomo solo) ma assestava colpi micidiali al suo partito e ai partiti che lo avevano eletto quasi all’unanimità. Che cosa gli era preso? Me lo spiegò man mano che il nostro rapporto si trasformava in amicizia. Ma fu un processo lento. Dopo alcuni giorni dal mio primo articolo mi telefonò all’alba allarmando il bambino della mia compagna il quale mi svegliò scuotendomi: «Che cosa hai fatto a Bush?». A Bush?, chiesi «Sì, c’è il presidente al telefono e ti vuole parlare subito». Per un bimbo di cinque anni l’unico presidente noto era quello americano. Andai al telefono e mi sentii chiedere: «Che cosa sa lei dei cattolici liberali?». E mi impartì una dottissima lezione il cui significato era: io sono l’unico cattolico liberale in Italia, sono solo come un cane in un partito di affaristi o integralisti. Gli mandai per corriere (non esistevano ancora le e-mail) un articolo in cui ricostruivo la nostra conversazione chiedendogli l’autorizzazione a pubblicarlo. Mi rispose: «No, ma venga domattina alle sette a fare colazione al Quirinale». Andai e trovai la crème de la crème della sinistra italiana: Andrea Barbato, Sandro Curzi, Valentino Parlato e mezza redazione de il manifesto con qualche scampolo de l’Unità. Tutta gente intelligentissima, un po’ anarchica ed eretica impegnata fra cappuccini, cornetti e uova strapazzate con cui Cossiga aveva una familiarità molto giocosa. Quello sì, che sembrava il Tè del cappellaio matto. Ma allora erano tutti matti, o così sembrava. Lo stesso Cossiga che veniva scudisciato sulla carta stampata, era il beniamino di un bel gruppo di intelligentissimi e spiritosissimi pensatori e giornalisti. Non c’era Eugenio Scalfari, che era in quel momento uno dei suoi principali avversari e questo faceva soffrire molto Cossiga perché per anni – mi diceva – era stato a pranzo da Eugenio una volta alla settimana. Eugenio stesso mi aveva raccontato di aver lui stesso suggerito a De Mita il nome di Cossiga per succedere come presidente del Senato ad Amintore Fanfani che si era giocato la poltrona pur di fare un governicchio estivo. Poi, dopo mille premesse, promesse ed emozioni, venne il momento della prima intervista ed era allora un vero scoop, perché tutti speravano di poterlo intervistare. Mi spiegò il senso della sua azione, che era la semplice presa d’atto di quel che stava per accadere: «L’Italia, con la fine della Guerra Fredda – disse – ha perso il suo potere di ricatto sugli americani e gli altri alleati. Non contiamo più niente e coloro che ci hanno dovuto sopportare con tutti i nostri tradimenti, ricatti, ruberie e arroganze, stanno per presentarci il conto e sarà salatissimo. Sto cercando di fare capire ai democristiani e ai comunisti (che considerava come i carabinieri, dei suoi parenti, vista la cuginanza con Enrico Berlinguer il quale gli rispondeva che «con i parenti si mangia l’agnello a Pasqua» e lo mise in stato d’accusa) che nel nuovo mondo tutte le regole sono cambiate ed è mio compito traghettare l’Italia nella nuova realtà storica». Vaste programme, avrebbe detto de Gaulle. Ma la Dc di Ciriaco De Mita, e non solo, non aveva alcuna intenzione di farsi rieducare da Cossiga, il quale vantava – con parecchia millanteria – una frequentazione nelle altissime sfere dell’intelligence mondiale delle segrete ruote che governavano il pianeta. Aveva un caratteraccio, questo è indubbio. Era certamente un po’ paranoico (la paranoia consiste nel vedere complotti e veleni, ma è una sindrome utile se si vive in un’epoca di complotti e veleni), era soggetto ad accessi di collera che erano però più di natura sarda che psichiatrica: il codice cavalleresco dei gentiluomini sardi impone delle furie di facciata che soltanto i veri sardi possono capire. Ed è una furia fredda, che non fa salire la pressione, anche se siamo nell’antropologia e nel nazionalismo sardo, perché Cossiga era anche un nazionalista sardo più o meno come lo sono i corsi. Fu così che le mie interviste con il presidente della Repubblica, da formali e in pompa magna si fecero frequenti e convulse. Decise di darmi del tu e di chiamarmi “A Guzzà”. Recalcitravo alla richiesta di fare altrettanto ma non fu contento finché non passai a un improbabile “A Francé”. Si palpava benissimo il desiderio della nomenklatura italiana di levarselo dalle scatole e rimuoverlo con acrobazie procedurali accompagnate da comitati di psichiatri che avrebbero dovuto proclamare un reggente finché il Parlamento non avesse eletto un successore. Per fortuna non ero solo nel difendere il presidente che aveva previsto Mani Pulite e l’assalto alla cittadella e che senza pensarci due volte, aveva mandato una legione di carabinieri in assetto anti-sommossa a Palazzo dei Marescialli per mandare un segnale inequivocabile al Consiglio superiore della Magistratura riunito nel Palazzo dei Marescialli, di cui lei era il presidente, anche se nel Csm chi governa è il vice presidente, ai tempi Giovanni Galloni. Dovetti a un certo punto scoraggiarlo dalla sua pretesa di affidare a me tutte le sue punzecchiature contro gli altri politici. Ma era un’impresa quasi disperata. Un giorno pretese di farmi scrivere che Achille Occhetto era «Uno zombie coi baffi». E io mi rifiutai: «Non è da te, presidente, io non lo scrivo». Poco male: il giorno dopo «Occhetto è uno zombi coi baffi» era un titolo de il Messaggero. Mi aveva bypassato senza tragedie e meglio così. Quando si dimise mi volle al Quirinale fra le sue scartoffie, consegnò la bandiera di combattimento al bambino che gli aveva risposto al telefono raccomandandogli di custodirla per la generazione dei futuri patrioti e mi chiese di accompagnarlo in esilio in Irlanda. Mi mandò al 33mo Stormo di Ciampino dove lo attendeva il jet presidenziale e gli fui accanto mentre il pilota metteva la prua sull’Irlanda. Parlammo poco e lui si lasciò vincere da una lacrima o due. Io gli detti una goffa pacca sulla spalla. Poi andammo in taxi fino al monastero dove lo attendevano e dove il bibliotecario era sulla soglia a braccia aperte per discutere con lui i libri dei pensatori cattolici irlandesi. La porta si richiuse e finì così la mia straordinaria avventura giornalistica con un presidente molto speciale che poi ho sentito solo poche volte per telefono e che visitai una sola volta nella sua casa al quartiere Prati, ormai abbandonato da tutti.
Quando Cossiga mandò i carabinieri al Csm. Paolo Guzzanti de Il Riformista il 29 Novembre 2019. “Ma certo che mandai i carabinieri!”. Mi disse Cossiga quando diventammo amici: “Mandai un generale di brigata con un reparto antisommossa, pronti a irrompere nel palazzo dei Marescialli”. Oggi fa impressione riascoltare nelle registrazioni la voce del “matto” Cossiga quando attaccava lo strapotere di alcuni magistrati e lo faceva spavaldamente come un Cyrano de Bergerac, odiato da tutti nel 1985 – trentaquattro anni fa – quando invece aveva ragione. Il Consiglio superiore della magistratura si è recentemente infangato con l’inchiesta di Perugia che ci ha fatto assistere in diretta al mercato delle procure, alla vendita del diritto.Tutto già parte di un vizio d’origine contro cui oggi pochi hanno il fegato di combattere. Cossiga mi aveva invitato a fare colazione al Quirinale. C’era il meglio del giornalismo di sinistra a inzuppare il cornetto nel cappuccino di quelle stanze mentre Cossiga raccontava. A quei tempi era ministro dell’interno Oscar Luigi Scalfaro, che sarebbe diventato il suo successore e il suo principale nemico. Ricorderemo ancora Scalfaro quando, assestando il colpo dell’asino a Cossiga dimissionario, urlò stentoreamente in aula “Viva il Parlamento!” come se lui fosse stato il Parlamento. Allora era ministro degli interni e quando Cossiga decise di far intendere chi comandasse sugli abitanti del Palazzo dei Marescialli (di stile fascista, curiosamente decorato con teste di Mussolini con l’elmetto), il ministro del Viminale disse di sì. Dissero di sì anche i comunisti che poi si scatenarono contro Cossiga. Erano con lui il giudice costituzionale Malacugini e il senatore Perna, capo del gruppo comunista al Senato. I membri del Csm allora pretendevano di comandare come terza camera dello Stato, in barba della Costituzione. Volevano colpire il presidente del Consiglio Bettino Craxi che aveva polemizzato sulle inchieste seguite all’assassinio del giornalista socialista del Corriere della Sera Walter Tobagi, ucciso dalla Brigate Rosse, che Craxi considerò sempre interne ai salotti milanesi di sinistra. Il Consiglio superiore della magistratura è l’organo di autogoverno dei magistrati, i quali godono di una autonomia prossima all’extraterritorialità, salvo poi trasformare tanta autonomia in un mercato di interferenze e abusi talmente terrestri da produrre fatti come quelli messi a nudo dall’inchiesta di Perugia che hanno inferto alle istituzioni delle ferite probabilmente non rimarginabili. L’organo di autogoverno fu concepito come massimo baluardo del servizio pubblico della giustizia- e non come privilegio degli operatori togati della giustizia – allo scopo di garantire ai cittadini un servizio di assoluta indipendenza da poteri esterni a cominciare da quelli politici. Il presidente del Csm è il Capo dello Stato, ma è una carica solo formale perché chi comanda è il vicepresidente del CSM. Cossiga ingaggiò nel 1985 un braccio di ferro istituzionale in cui, malgrado i suoi colpi, alla fine fu lui ad essere disarcionato. La sua battaglia contro il vicepresidente Giovanni Galloni (un radicale rappresentante storico della sinistra cattolica che detestava apertamente tutto ciò che Cossiga rappresentava) espose Cossiga ad un vero massacro mediatico. Le camionette dei carabinieri erano a piazza Indipendenza. I carabinieri in assetto antisommossa, con gli elmetti calati in testa, pronti a sfondare il portone se solo il presidente Cossiga, in quanto Capo dello Stato, lo avesse ordinato. La carica non avvenne, il portone restò integro, ma lo schieramento delle forze che rappresentavano lo Stato – i carabinieri in questo caso – contro un ridotto nelle mani di chi si riteneva di essere separato dallo Stato, in quanto organo separato dello Stato, rappresentò uno schieramento concreto, militare, non diverso – per qualità istituzionale – a quello che lo Stato rinunciò ad opporre nel 1922 alla marcia su Roma di Mussolini. Non che esista una comparazione tra la marcia su Roma e il conflitto affrontato da Cossiga, ma restano i comuni termini di una difesa anche militare contro l’eversione. Cossiga individuò nell’arroganza di un ristretto gruppo di magistrati la formazione di un potere insurrezionale “ultroneo” rispetto a quelli previsti dalla Costituzione e dunque un nucleo eversivo. Il punto allora era politico: il Csm usurpava il diritto – non contemplato tra le sue funzioni – di muovere critica o censura alle parole o alle azioni del presidente del Consiglio dei ministri. Cossiga sospese la delega a Galloni, cioè lo degradò sul campo strappandogli le spalline, sia pure temporaneamente. E dopo aver disarmato quello che riteneva il leader di una corrente eversiva, impose che si prendesse atto di un punto fermo: l’organo di autogoverno dei magistrati è soltanto l’organo di autogoverno dei magistrati e mai, in alcun modo, un potere dello Stato. Come invece pretendevano allora le correnti politiche dell’Anm che Cossiga accusava di usurpazione contro lo Stato.
Il libro di Antonietta Calabrò e Giuseppe Fioroni. Trovare Moro si poteva, ma nessuno lo cercò. Fabrizio Cicchitto de Il Riformista il— 29 Novembre 2019. La seconda edizione del libro di Maria Antonietta Calabrò, nota giornalista, e di Giuseppe Fioroni, presidente della seconda commissione Moro Il caso non è chiuso. La verità non detta aggiunge altri interrogativi assai inquietanti ad una vicenda, quella del rapimento e dell’assassinio di Aldo Moro e della sua scorta, che ha segnato l’inizio della crisi della Dc e della Prima Repubblica. «Il mio sangue ricadrà su di voi» scrisse Moro in una delle sue ultime lettere rivolgendosi al gruppo dirigente della Dc. Partiamo, però, dalle origini della vicenda. Subito dopo il rapimento fu netta la sensazione che il gruppo dirigente del Pci, guidato con mano ferrea da Enrico Berlinguer, riteneva che ormai Moro era un uomo morto. Di rimbalzo, del tutto simile era l’orientamento del gruppo dirigente della Dc (il presidente del Consiglio Andreotti, il ministro degli Interni Cossiga, il segretario formale della Dc Zaccagnini, il segretario sostanziale l’onorevole Galloni). Berlinguer riteneva che le Brigate Rosse con molteplici legami internazionali, dai palestinesi ai cecoslovacchi, si muovevano non solo contro il compromesso storico, ma contro la strategia di fondo del Pci. Di conseguenza, non bisognava in alcun modo trattare con essi dando la sensazione di un qualche riconoscimento del “partito armato”. Berlinguer notificò subito alla Dc che il Pci avrebbe fatto cadere il governo al primo accenno di trattativa. Andreotti, Cossiga, Zaccagnini, Galloni, Gava per i dorotei, si uniformarono a questa scelta per due ragioni: salvare il governo e mantenere in piedi la politica di unità nazionale. Tutto ciò però si tradusse in modo paradossale per ciò che riguardava le indagini e la ricerca del luogo dove Moro era tenuto prigioniero, cioè nell’inerzia. In effetti, né fu fatta la trattativa né furono sviluppate indagini serie e reali, specie dopo le prime e polemiche lettere di Moro. Poi, sui tempi lunghi, dopo quasi due mesi, le Br dovevano chiudere una partita che durava già da troppo e l’unico modo era quello di consegnare Moro cadavere anche perché le Br non gradivano esser messe di fronte a mosse politiche che la complicavano sul piano politico e mediatico. Non a caso fecero trovare il cadavere di Moro a via Caetani quando seppero che alla direzione della Dc Fanfani avrebbe “aperto” sulla trattativa. Ben diversa sarebbe stata la partita se le Br si fossero trovate subito di fronte ad un’iniziativa dello Stato sulla trattativa. Ma lo Stato non agiva in modo incisivo e aggressivo neanche sul terreno delle indagini. Anzi da quel punto di vista avvennero cose incredibili: clamoroso fu l’errore commesso quando Prodi diede l’indicazione di Via Gradoli. Nessuno, anche a distanza di tempo, ha chiesto a Prodi di rivelare quale fu la fonte autentica che gli fece quella rivelazione perché non è credibile la storia della seduta spiritica. Comunque sia se le forze dell’ordine si fossero recate in via Gradoli, il caso Moro avrebbe avuto una svolta dopo pochi giorni: a via Gradoli c’era il covo segreto di Moretti e della Balzarani. Invece le forze dell’ordine ai recarono a Gradoli, un paese del viterbese. Ora, c’è un limite al grottesco anche perché esiste lo stradario. Evidentemente non lo si voleva trovare e di fronte ad una “mossa” esterna imprevista quale fu la rivelazione di Prodi gli apparati e chi li guidava non esitarono ad andare incontro ad una figura ridicola per altro non sottolineata da una stampa succube di un potere che andava dalla Dc al Pci. La seconda vicenda inesplicabile riguardò quello che accadde quando Craxi e il Psi si dichiararono a favore della trattativa. Non è questa l’occasione per riaprire il dibattito politico su quella iniziativa ma invece è interessante ricostruire ciò che accadde e ciò che non accadde. Bettino Craxi incaricò Claudio Signorile e Antonio Landolfi di prendere tutti i contatti possibili per accertare se le Br erano disponibili o meno ad una trattativa e a quali condizioni. Signorile e Landolfi fecero la cosa più ovvia di questo mondo: presero contatto con Lanfranco Pace e Franco Piperno, due personalità che provenivano da Potere Operaio e che erano borderline con il mondo dell’estremismo armato. Fecero subito centro: Pace e Piperno stabilirono il contatto con Valerio Morucci e la Faranda che erano i postini delle Br. Orbene, dei servizi degni di questo nome, avrebbero dovuto seguire da tempo, dall’inizio della vicenda, Pace e Piperno, e a maggior ragione avrebbero dovuto farlo da quando essi furono interpellati da Landolfi e Signorile che tenevano informato il governo di tutti i loro passi. Terza stranezza: quando Morucci e la Faranda ruppero con le Br perché erano contrari all’assassinio di Moro essi si rifugiarono a casa di Giuliana Conforto che era la figlia del decano degli agenti del Kgb in Italia, Giorgio Conforto che fu presente anche al momento del loro arresto, ma che fu subito “dimenticato”? Altra domanda: perché Giorgio Conforto si fece trovare lì, dove erano anche la scorpion e altre armi? Detto tutto ciò, per mettere ulteriormente in chiaro quello che avvenne nella realtà, bisogna ricordare che invece, in occasione del rapimento del generale Dozier da parte delle Br, gli apparati dello Stato (polizia carabinieri servizi) divennero dei fulmini di guerra. Anche se ciò è stato sempre negato allora fu usata anche la tortura: i brigatisti catturati dissero subito dove era Dozier, i Nocs intervennero e, senza spargimento di sangue, liberarono Dozier e arrestarono i rapitori: una operazione da manuale. Calabrò e Fioroni mettono in evidenza il retroterra di ciò che abbiamo descritto nelle sue manifestazioni più visibili. Questo retroterra era il cosiddetto lodo Moro che, a onor del vero, avrebbe dovuto essere chiamato “lodo Moro e Andreotti”. Dopo che l’Italia era stata colpita alcune volte da attentati, gli apparati italiani, con un dovuto consenso politico (appunto “lodo Moro e Andreotti”) fecero una intesa con le organizzazioni palestinesi (sia l’Olp di Yasser Arafat, sia il Fplp di George Habash) secondo la quale essi avevano libertà di transito (di uomini e armi) sul nostro territorio, ma non avrebbero più fatto attentati. Si è trattata di una sorta di patto con il Diavolo che era gestito dal colonnello Giovannone (il cui intervento non a caso fu invocato da Aldo Moro in una sua lettera). Le Br, però, avevano diretti rapporti con queste organizzazioni che le rifornivano di armi e, stando ad una battuta di Berlinguer a Sciascia, poi da lui smentita, anche coi servizi cecoslovacchi. Di conseguenza il lodo Moro-Andreotti evitò che i palestinesi continuassero a fare attentati sul nostro territorio ma non evitò che essi rifornissero di armi anche le Br che per parte loro sparavano a uomini politici, a magistrati, a esponenti delle forze dell’ordine, a imprenditori, a professori universitari. Cioè, indirettamente, per un tragico paradosso “il lodo Moro” consenti ai brigatisti di attrezzarsi per determinare il “caso Moro”. Le cose non si fermano qui. Stando a quello che è riportato nel libro di Calabrò e di Fioroni il giudice Armati, in una testimonianza resa davanti alla Commissione, ritenne assai probabile che il colonnello Giovannone rivelò a George Habash che i giornalisti Graziella De Palo e Italo Toni si stavano recando a Beirut (1980) per indagare sul traffico d’armi fra l’Italia e il Libano. Da allora De Palo e Toni sono scomparsi. Secondo Armati, Giovannone avvertì Habash che la De Palo e Toni andavano a Beirut a rompere le scatole e Habash ne trasse le conseguenze. D’altra parte ricordiamo le proteste e le minacce dei dirigenti palestinesi quando per caso Daniele Pifano e alcuni militanti del Fplp furono arrestati perché su un’auto trasportavano addirittura un missile. Giovannone paventò ritorsioni. Non parliamo poi di tutti gli interrogativi ancora aperti sulla strage di Bologna che potrebbe essere stata determinata dall’esplosione fortuita di ordigni che venivano trasportati in una valigia avendo altra destinazione. Tanti sono gli interrogativi ancora aperti, tra cui quello assolutamente banale sul perché Moro non avesse una macchina blindata: non dimentichiamo che in un primo momento i brigatisti avevano scelto Andreotti come obiettivo, ma poi avevano desistito perché troppo protetto. Altro interrogativo è costituito dal fatto che dopo l’uccisione di Moro e le polemiche sviluppate dalla famiglia Moro. Ci fu una sorta di anticipazione di Mani pulite e Sereno Freato, l’uomo che si occupava dei finanziamenti della corrente morotea, fu colpito sul piano giudiziario e demonizzato. Lo stesso che avvenne a Baffi e a Sarcinelli quando non ottemperarono alle richieste di Andreotti e di Evangelisti per aiutare Sindona. Da tutto ciò emerge che la storia italiana dagli anni Cinquanta in poi è piena di interrogativi ai quali è difficile dare risposta perché quello che è avvenuto “sotto il tavolo” è stato talora più decisivo di quanto non è avvenuto “sopra il tavolo”, cioè alla luce del sole. Oggi solo gli scemi possono pensare che le cose vanno diversamente, solo che c’è una ulteriore modernizzazione tecnologica grazie all’uso del trojan e all’uso politico di internet attraverso il quale Putin sta smontando le democrazie occidentali.
IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE. (Ho scritto un saggio dedicato)
· Essere Giulio Andreotti: il Divo Re.
SALVATORE DAMA per Libero Quotidiano il 29 agosto 2020. Chi è Giulio Andreotti? Se lo chiedi all'adolescente medio, probabilmente risponderà roteando gli occhi e prendendosi un tempo x per cercare su Google. I più informati, invece, condizionati da certa narrativa e filmografia, lo accosteranno ai processi per mafia che lo hanno visto coinvolto nell'ultima parte della sua vita. In realtà Andreotti è stato (anche) altro. Presidente del Consiglio per sette volte e ministro per trentadue. Un record ineguagliato. E, forse, ineguagliabile. Nel tentativo di storicizzare la figura politica del Divo Giulio, i figli Serena e Stefano hanno autorizzato e curato la pubblicazione dei Diari segreti paterni, compresi tra il 1979 e il 1989 (Edizioni Solferino, 19 euro). Il titolo è un filo enfatico. I "segreti" di Andreotti - ammesso ve ne siano - riposano con lui dal 2013, anno della dipartita. I "Diari" sono appunti, anche gustosi per nostalgici della Prima Repubblica, ma non sono destinati a cambiare la lettura della storia. Per come ci è stata raccontata. Niente giudizi sprezzanti, niente narcisismo, niente verità svelate o esoterismi. Sono frasi. Messe giù su carta per fare memoria all'autore di fatti e personaggi. Ma sempre in stile andreottiano. C'è un velo di ironia, però nulla di pruriginoso nelle descrizioni. Soprattutto appartengono a un'altra epoca. Analogica. Senza pc, senza telefonini, senza Whatsapp, senza note vocali e senza tutto l'ambaradan che abbiamo oggi per tenere archivio dei nostri pensieri. Meglio, peggio? Chi lo sa.
APPARATO DI STATO. Ripercorrendo quella storia, si ha la sensazione di leggere delle cronache marziane se rapportate all'oggi. La Democrazia cristiana, a cavallo tra i Settanta e gli Ottanta, era di fatto un apparato dello Stato. Qualcosa di inusitato rispetto alla volatilità dei partiti contemporanei. E l'epicentro della Dc, a prescindere da chi si alternava alla segreteria, era Andreotti. Dal suo studio passavano tutti. Da Gianni Agnelli all'ultimo questuante ciociaro del suo collegio elettorale. La narrazione dei Diari si sofferma soprattutto sulle relazioni internazionali andreottiane. Uno, perché, in quegli anni, il Divo fu prima presidente della Commissione Esteri di Montecitorio e poi titolare della Farnesina; Due, perché - comprensibilmente - gli eredi hanno voluto puntare sulla caratura transnazionale di Andreotti, finita tra parentesi, nei decessi successivi, a causa delle vicende giudiziarie. Andreotti - spiegano i figli - «aveva preso l'abitudine a prendere appunti personali già nel 1944 su consiglio di Leo Longanesi». Questo per tenere memoria delle proprie riflessioni a distanza di tempo, quando gli capitava di incontrare le stesse persone o di rivivere le stesse situazioni. Emergono i rapporti stretti con la curia romana, di cui Giulio era la quinta colonna al di qua del Tevere. Sono annotate le visite continue di cardinali a casa. Al riguardo, sono interessanti due aneddoti. Quando Andreotti si adopera per evitare che escano sulla stampa le foto di Giovanni Paolo II in piscina. E quando il politico dc si preoccupa della sicurezza del Pontefice, condividendo sue informazioni riservate su un possibile attentato dei terroristi armeni. È il settembre 1980. Di lì a poco l'aggressione al Santo Padre ci fu davvero, nel maggio del 1981, ma a opera di Ali Agca, un turco. Andreotti, nei suoi appunti, si lamenta di quanto la politica italiana fosse concentrata sul proprio ombelico. Sulle faccende domestiche. A un ricevimento con il premier greco Karamanlis, ricorda nel diario, nessuno sembrava interessato all'ospite d'onore. Si ritrovarono tutti attorno al Divo Giulio per parlare di affari interni. Emerge una passione ossessiva per la politica (e per il potere). La cura del collegio elettorale. Andreotti passava da un vertice internazionale a una riunione con gli elettori di Frosinone. Così, senza fare una piega. Giulio, in quegli anni, è il pivot della politica. È un riferimento, a prescindere dal ruolo ricoperto. Tutti lo cercano. Uomini di partito, funzionari, esponenti della società e del mondo economico, cardinali. Il Divo è un passe-partout per chiunque voglia interagire con la Dc. E dunque con il potere. Andreotti annota le visite regolari che riceveva da Gianni Agnelli; le relazioni continue con Berlinguer e il Partito comunista. Il cui tramite spesso è il catto-comunista Adriano Ossicini. Segue con interesse morboso i rapporti tra Pci e Mosca, parla con gli ambasciatori sovietici a Roma e incontra dirigenti dell'URSS. Nota subito con interesse l'ascesa di Gorbaciov. Andreotti è inoltre il tramite dei messaggi che gli americani vogliono recapitare al mondo arabo. Qua e là si trova anche un po' di aneddotica divertente. Il Capo dello Stato Sandro Pertini, ad esempio, che definisce Fanfani «il sempre più piccolo». L'ira verso il Messaggero che attribuisce ad Andreotti una villa a Gaeta. Il pregiudizio verso gli avellinesi come De Mita («Se dai loro un dito, si prendono tutto»), l'incontro con Beppe Grillo per il Telegatto e un pranzo da Gianni Letta finito in tragedia: «Un crampo allo stomaco mi obbliga a chiamare il mio medico curante».
Dietro le quinte di Andreotti. Note a caldo e indizi di cambiamenti sociali. Escono il 27 agosto per Solferino «I diari segreti» del politico democristiano, curati dai figli Serena e Stefano. Massimo Franco il 26 agosto 2020 su Il Corriere della Sera. Pechino, marzo 1988. Giulio Andreotti annota: «Al ricevimento all’Ambasciata d’Italia il vescovo di Pechino mi dice: “Se ha modo di riferire al Papa personalmente lo faccia; è maturo il tempo per un contatto con il governo, che preluda ad un’intesa e poi ad un Concordato. Si tratti riservatamente...”». L’alto prelato è un esponente della «Chiesa patriottica», legata al regime comunista e non riconosciuta dalla Santa Sede. Ma il messaggio consegnato all’allora ministro degli Esteri italiano non è caduto nel vuoto. Trent’anni dopo, nel settembre del 2018, Vaticano e Cina hanno stretto un accordo storico quanto misterioso, perché i contenuti sono rimasti sconosciuti, che sarà rinnovato nelle prossime settimane su uno sfondo di grandi tensioni. Difficile non scorgere in quell’episodio del 1988 uno dei semi con i quali è stata nutrita nell’ombra la mediazione finale tra Papa Francesco e il presidente Xi Jinping; e sottovalutare gli appunti privati di Andreotti: un lungo filo di episodi «minori» che evocano una ragnatela di rapporti a ogni livello, di impressioni, di dinamiche che riemergono come preziose pietre grezze della storia.
«I diari segreti» di Giulio Andreotti sono curati dai figli Serena e Stefano ed escono il 27 agosto per Solferino (pp. 683, euro 19): l’introduzione è di Andrea Riccardi.
Coglie nel segno lo storico Andrea Riccardi quando nell’introduzione sottolinea che I diari segreti testimoniano soprattutto il «segreto» dell’azione politica di Andreotti: «Un’immensa tessitura di relazioni nella politica italiana, a Roma, e sullo scenario internazionale…», col secondo largamente prevalente. E pensare che non erano destinati alla pubblicazione. Dopo la sua morte nel 2013, i quattro figli li avevano stipati in uno sgabuzzino dell’appartamento in corso Vittorio Emanuele. I due che si dedicano a riordinare gli archivi, Stefano e Serena, per mesi non li hanno neanche aperti. A muovere la loro curiosità è stata la piscina di Castelgandolfo nella quale Giovanni Paolo II fu fotografato nel 1980. Il Vaticano chiese ad Andreotti se poteva bloccare la pubblicazione di istantanee, considerate «scandalose», di un papa in costume da bagno. E Umberto Ortolani, esponente della Loggia P2 di Licio Gelli, anni dopo attribuì il merito della mediazione al capo massone implicato in alcune delle trame italiane più sporche: avrebbe portato lui le foto a Andreotti, che le aveva consegnate al pontefice. «Tirammo fuori, per nostra curiosità — raccontano Stefano e Serena Andreotti nella Nota dei curatori all’inizio del volume — quanto vi era scritto sulla vicenda delle fotografie scattate a Giovanni Paolo II nella piscina di Castelgandolfo, per la quale era stata data, sulla base di testimonianze di allora, probabilmente interessate, una ricostruzione ben diversa dall’andamento dei fatti e dell’apporto di nostro padre». I diari segreti raccontano in dettaglio quel capitolo oscuro, confermando Andreotti come crocevia delle mediazioni più riservate e controverse del Vaticano. Tra le carte spunta perfino un appunto sui voti ricevuti da ogni cardinale nel Conclave del 1978 che aveva eletto Karol Wojtyla. Viene restituita la complessità di un politico capace di attraversare con lo stesso passo felpato corti pontificie, congressi democristiani, cancellerie occidentali, dittature di ogni latitudine e ambienti torbidi. Episodi del genere se ne incrociano a decine, nel volume in uscita domani per Solferino, e che copre il decennio dall’agosto del 1979, quando finì il quinto governo Andreotti, quello col Pci nella maggioranza, fino al 22 luglio del 1989, esordio del suo sesto esecutivo. È solo un frammento, per quanto corposo, della sterminata ragnatela andreottiana. L’abitudine a prendere appunti cominciò nel 1944, «su consiglio di Leo Longanesi», ricordano i curatori. «Il motivo principale era quello di potere, a distanza anche di notevole tempo, rileggere gli appunti registrati a caldo, che considerava utilissimi al di là dei documenti ufficiali…». I diari, in gran parte tuttora inediti, finiscono nel 2009. Ma non bisogna pensare a un materiale ordinato, perché riflettono un caos metodico. Oltre a una calligrafia minuta e sempre più illeggibile con l’età, Andreotti aggiungeva note a mano, inseriva lettere e documenti. Insomma, decifrare quegli scritti è stata una grossa fatica, per i figli. Ogni anno i fogli finivano in un raccoglitore con la dicitura «diario». E in una delle lettere post mortem ritrovate in un cassetto di casa Andreotti, l’ex premier dava istruzioni per evitare che la pubblicazione de I diari potesse nuocere a qualcuno. Colpisce la conferma di un rapporto con la moglie Livia profondo, complice, viene da dire affettuoso, aggettivo che pure si attaglia poco a un «animale» a sangue freddo come Andreotti. E diventa ancora più stupefacente la sua capacità di proteggere la sfera familiare da qualunque intrusione. Ogni riga si sviluppa sempre sul crinale di una scrittura controllata, minimalista, scevra da qualsiasi enfasi. Ci sono solo fatti, impressioni, brevi commenti venati al massimo da una punta di ironia. «L’uso dell’archivio in politica — osserva Riccardi — ricorda il metodo di lavoro della Curia o della Segreteria di Stato vaticana». I diari si rivelano strumenti di un professionista della memoria scritta, al servizio di quell’attività di governo e di potere che Andreotti non ha mai interrotto. Da ministro, da premier, da semplice parlamentare, è stato una sorta di ambasciatore permanente dell’Italia e della Santa Sede: alla frontiera tra Occidente e comunismo, e nel Terzo Mondo. Ma era ascoltato, e usato, perché manteneva sempre un ancoraggio indiscusso alle alleanze europee e atlantiche. Almeno fino a quando c’è stata la Guerra fredda, quell’aderenza è stata una bussola precisa per guidare il protagonismo segreto e spregiudicato di Andreotti. Poi le coordinate sono cambiate. I diari del decennio 1979-1989 si fermano proprio alla soglia di quel cambiamento epocale. Rimane un interrogativo: queste memorie svelano tutto di lui? Viene naturale ricordare quanto sosteneva lo stesso Andreotti: «Chi non vuole fare sapere una cosa, in fondo non deve confessarla neanche a sé stesso». E tanto meno scriverla.
Giulio Andreotti, diari e segreti di Stato: la foto scandalosa e censurata di Papa Wojtyla in piscina. Salvatore Dama Libero Quotidiano il 29 agosto 2020. Chi è Giulio Andreotti? Se lo chiedi all'adolescente medio, probabilmente risponderà roteando gli occhi e prendendosi un tempo x per cercare su Google. I più informati, invece, condizionati da certa narrativa e filmografia, lo accosteranno ai processi per mafia che lo hanno visto coinvolto nell'ultima parte della sua vita. In realtà Andreotti è stato (anche) altro. Presidente del Consiglio per sette volte e ministro per trentadue. Un record ineguagliato. E, forse, ineguagliabile. Nel tentativo di storicizzare la figura politica del Divo Giulio, i figli Serena e Stefano hanno autorizzato e curato la pubblicazione dei Diari segreti paterni, compresi tra il 1979 e il 1989 (Edizioni Solferino, 19 euro). Il titolo è un filo enfatico. I "segreti" di Andreotti - ammesso ve ne siano - riposano con lui dal 2013, anno della dipartita. I "Diari" sono appunti, anche gustosi per nostalgici della Prima Repubblica, ma non sono destinati a cambiare la lettura della storia. Per come ci è stata raccontata. Niente giudizi sprezzanti, niente narcisismo, niente verità svelate o esoterismi. Sono frasi. Messe giù su carta per fare memoria all'autore di fatti e personaggi. Ma sempre in stile andreottiano. C'è un velo di ironia, però nulla di pruriginoso nelle descrizioni. Soprattutto appartengono a un'altra epoca. Analogica. Senza pc, senza telefonini, senza Whatsapp, senza note vocali e senza tutto l'ambaradan che abbiamo oggi per tenere archivio dei nostri pensieri. Meglio, peggio? Chi lo sa. Apparato di Stato - Ripercorrendo quella storia, si ha la sensazione di leggere delle cronache marziane se rapportate all'oggi. La Democrazia cristiana, a cavallo tra i Settanta e gli Ottanta, era di fatto un apparato dello Stato. Qualcosa di inusitato rispetto alla volatilità dei partiti contemporanei. E l'epicentro della Dc, a prescindere da chi si alternava alla segreteria, era Andreotti. Dal suo studio passavano tutti. Da Gianni Agnelli all'ultimo questuante ciociaro del suo collegio elettorale. La narrazione dei Diari si sofferma soprattutto sulle relazioni internazionali andreottiane. Uno, perché, in quegli anni, il Divo fu prima presidente della Commissione Esteri di Montecitorio e poi titolare della Farnesina; Due, perché - comprensibilmente - gli eredi hanno voluto puntare sulla caratura transnazionale di Andreotti, finita tra parentesi, nei decessi successivi, a causa delle vicende giudiziarie. Andreotti - spiegano i figli - «aveva preso l'abitudine a prendere appunti personali già nel 1944 su consiglio di Leo Longanesi». Questo per tenere memoria delle proprie riflessioni a distanza di tempo, quando gli capitava di incontrare le stesse persone o di rivivere le stesse situazioni. Emergono i rapporti stretti con la curia romana, di cui Giulio era la quinta colonna al di qua del Tevere. Sono annotate le visite continue di cardinali a casa. Al riguardo, sono interessanti due aneddoti. Quando Andreotti si adopera per evitare che escano sulla stampa le foto di Giovanni Paolo II in piscina. E quando il politico dc si preoccupa della sicurezza del Pontefice, condividendo sue informazioni riservate su un possibile attentato dei terroristi armeni. È il settembre 1980. Di lì a poco l'aggressione al Santo Padre ci fu davvero, nel maggio del 1981, ma a opera di Ali Agca, un turco. Andreotti, nei suoi appunti, si lamenta di quanto la politica italiana fosse concentrata sul proprio ombelico. Sulle faccende domestiche. A un ricevimento con il premier greco Karamanlis, ricorda nel diario, nessuno sembrava interessato all'ospite d'onore. Si ritrovarono tutti attorno al Divo Giulio per parlare di affari interni. Emerge una passione ossessiva per la politica (e per il potere). La cura del collegio elettorale. Andreotti passava da un vertice internazionale a una riunione con gli elettori di Frosinone. Così, senza fare una piega. Giulio, in quegli anni, è il pivot della politica. È un riferimento, a prescindere dal ruolo ricoperto. Tutti lo cercano. Uomini di partito, funzionari, esponenti della società e del mondo economico, cardinali. Il Divo è un passe-partout per chiunque voglia interagire con la Dc. E dunque con il potere. Andreotti annota le visite regolari che riceveva da Gianni Agnelli; le relazioni continue con Berlinguer e il Partito comunista. Il cui tramite spesso è il catto-comunista Adriano Ossicini. Segue con interesse morboso i rapporti tra Pci e Mosca, parla con gli ambasciatori sovietici a Roma e incontra dirigenti dell'URSS. Nota subito con interesse l'ascesa di Gorbaciov. Andreotti è inoltre il tramite dei messaggi che gli americani vogliono recapitare al mondo arabo. Qua e là si trova anche un po' di aneddotica divertente. Il Capo dello Stato Sandro Pertini, ad esempio, che definisce Fanfani «il sempre più piccolo». L'ira verso il Messaggero che attribuisce ad Andreotti una villa a Gaeta. Il pregiudizio verso gli avellinesi come De Mita («Se dai loro un dito, si prendono tutto»), l'incontro con Beppe Grillo per il Telegatto e un pranzo da Gianni Letta finito in tragedia: «Un crampo allo stomaco mi obbliga a chiamare il mio medico curante»...
Luigi Mascheroni per il Giornale il 13 gennaio 2020. Bettino Craxi al cinema, regia: Gianni Amelio. E Giulio Andreotti e il cinema, Deus ex machina: Tatti Sanguineti. La rivincita della Prima Repubblica sul grande schermo? Sul piccolo, Sky Arte, martedì 14 gennaio sera, in un' imperdibile maratona storico-politico-cinefila, andranno in onda, uno dopo l' altro, due film diretti da Tatti Sanguineti - Giulio Andreotti. Il cinema visto da vicino e Giulio Andreotti. La politica del cinema - frutto della più lunga e minuziosa intervista di sempre cui lo statista democristiano si sottopose fra il 2003 e il 2005, rispondendo alle domande dell' incontentabile e curiosissimo critico e documentarista («Alla fine mi sono ritrovato con 50 ore di girato», dice Tatti) alla ricerca di racconti, aneddoti, rivelazioni e retroscena per ricostruire, con un pugno di fotogrammi inediti, un pezzo di storia del Paese. L' opera è unica, ma in due parti. Una racconta l' Andreotti giovane, che imparò ad amare e a usare politicamente il cinema. La seconda l' Andreotti che invecchia col cinema che non può più seguire come un tempo ma che ricorda film, registi, polemiche. Il cinema visto da vicino fu presentato alla Mostra del cinema di Venezia nel 2014. La politica del cinema ebbe invece la sua prima al Festival del cinema ritrovato di Bologna nel 2015. Oggi - dopo dieci anni... - finalmente tutti, non solo cinéphiles e addetti ai lavori, possono vederli, insieme. E insieme i due film-documentario narrano (fedelmente, appunti e ricordi del Presidente alla mano) di come un giovanissimo Andreotti, ragazzo povero di campagna in un decennio, tra gli anni Venti e Trenta, in cui il cinema diventa adulto, sopravvive alle dittature e vive trasformazioni epocali - il sonoro, le grandi produzioni americane, l' affermarsi dei generi, dal western al musical, il divismo - scopre oscenità e meraviglie (quando Andreotti - il Mefistofele, il Divo - dice che vedendo a tredici anni Dr. Jekyll e Mr. Hyde rimase «incantato», c' è da credergli). E poi di come Andreotti cresce mentre il cinema fiorisce, e ne coglie, politicamente, il frutto. Una carriera fabbricata dalla Fuci e da Giovanni Battista Montini, futuro Papa, e un incarico di segretario factotum di Alcide De Gasperi, Andreotti è destinato al cinema. Nel giugno del 1947 è nominato Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con delega allo Spettacolo. Poltrona - nel Palazzo e nella sua saletta privata - che terrà per sei anni e quattro governi centristi, fino al '53. E nel '56 è il politico con il maggior numero di preferenze del Paese. Aveva capito che il cinema può formare una nazione, ma è (anche) un enorme serbatoio di voti. Oltre a una insostituibile fonte di piacere personale (le domeniche pomeriggio passate a vedere con pochi amici, e la moglie, i film più belli tra quelli che, per tutta la durata del suo incarico, deve visionare come Commissione censura). Andreotti visionò, vistò, censurò. Ma soprattutto, di fatto, salvò l' industria cinematografica nazionale. A conflitto appena finito capisce tre cose. Che il cinema deve contribuire a chiudere la mattanza della guerra civile: e proibisce che i nuovi film siano ambientati durante il fascismo, per non gettare altra benzina sull' odio. Che il nostro cinema va aiutato economicamente: e costringe le grandi produzioni americane a reinvestire gli incassi nel Paese. E che bisogna salvaguardare il vero miracolo italiano - il genio di artisti imprevedibili e unici come Rossellini, De Sica e Visconti (a cui pure era lontanissimo) - dall' egemonia culturale comunista da una parte e dall' invasione produttiva americana dall' altra. Lo fece. Poi, tutto il resto. Che è storia. Andreotti salva l' Istituto Luce e il suo archivio. Favorisce grazie a sgravi fiscali la rinascita di un cinegiornale nazionale, la Settimana Incom. Fa riprendere l' attività negli studi di Cinecittà (il primo film girato è Cuore di Duilio Coletti, da De Amicis, con Vittorio De Sica). Nel '47 partecipa alla sua prima Mostra del Cinema di Venezia, che si tiene in città, riportandola l' anno dopo al Lido. Nel '49 emana la Legge di sostegno sul cinema, che porta il suo nome. Attraverso l' imposizione di una tassa al momento del doppiaggio, in gran parte di film americani, la cui importazione era stata vietata nel '38, consente l' incremento di risorse economiche dall' estero. Compra 4mila proiettori 16 millimetri e apre altrettante sale parrocchiali, il 30% del totale nazionale. Alla cessazione dell' incarico, nel 1953, Andreotti però continua a frequentare il mondo del cinema, e resta amico di produttori, registi, attori. Dei quali gli restano centinai di ricordi e giudizi (e Tatti Sanguinetti è un maestro a tiraglieli fuori tutti). Poi al suo posto capita Oscar Luigi Scalfaro, meno sognatore e più bigotto («Non capiva molto di cinema», dice Tatti, «lui è quello che schiaffeggiava le signore dalle scollature importanti»), e il rapporto tra politica e cinema cambia per sempre.
E oggi? «Oggi - dice Tatti Sanguineti - le tre maggiori Film Commision, Toscana, Lazio e Puglia, hanno polverizzato il potere decisionale, mentre il cinema ha bisogno di un po' di cervello centrale. Non dev' essere abbandonato ai cacicchi locali». Ma ai politici il cinema italiano interessa?
«Non so quanto». Tatti ha appena visto Pinocchio («Ma non ne sentivo il bisogno») e Tolo Tolo («Mi ha depresso»). Ed è convinto che il cinema italiano sia ormai irrilevante. «Oggi si fanno 400 film all' anno, più o meno come ai tempi di Sergio Leone. Ma allora si esportavano ovunque: da Macao a Nairobi, dall' Europa all' America latina. Il nostro cinema popolare lo vedevano e lo volevano tutti. Oggi la più marginale delle pellicole sudcoreane o israeliane è più importante del nostro film più celebrato». Forse Tatti esagera. Ma forse Andreotti sarebbe d' accordo con lui.
Luca Pallanch per La Verità il 13 gennaio 2020. Tatti Sanguineti, geniale incursore della tv e della radio, tra il 2003 e il 2004 realizzò un ciclo di interviste di cinquanta ore con Giulio Andreotti per rievocare la sua militanza nel cinema italiano come sottosegretario alla presidenza del Consiglio, dal 1947 al 1953. Il 14 gennaio, a 101 anni dalla nascita del politico, Sky Arte manderà in onda un programma in due puntate (92' ciascuna), Il cinema visto da vicino e La politica del cinema, che contengono le parti più salienti di quelle interviste, in cui «il becchino del cinema italiano», come fu definito all' epoca, dispensa aneddoti, battute e confessioni inedite, sovvertendo con ironia i luoghi comuni attorno alla sua figura. Un programma che Andreotti non fece in tempo a vedere, malgrado sia morto a distanza di dieci anni dalla prima intervista. E che oggi vede finalmente la luce dopo anni di misterioso oblio.
Quando lo conobbe?
«Nel 1989 il mio maestro Alberto stava preparando il catalogo della retrospettiva sul neorealismo per il festival di Torino. Ci siamo accorti che da molti decenni Andreotti, che era stato il dominus del cinema italiano, non aveva più parlato. Gli abbiamo scritto chiedendogli la disponibilità a raccontare questa vicenda».
Vi rispose?
«Ci rispose con molta cortesia, ma la cosa non si concretizzò. Pubblicammo una lettera che ci inviò. Qualche anno dopo tornai alla carica, quando ormai Alberto se n' era andato. Dissi ad Andreotti che avrei voluto porgli delle domande su quel periodo. Lui mi rispose che l' idea gli piaceva e che nessuno si era preso la briga di intervistarlo al riguardo. Usò una metafora che aveva già utilizzato nel passato: figlio di un maestro elementare, si sentiva nel mondo del cinema come l' asino nella stanza dei suoni. È un modo di dire delle campagne, che vuol dire un incompetente nella stanza dove l' orchestra prova. Una frase felliniana».
Avevate accordi iniziali?
«Ci vedevamo il sabato mattina e mi affidai alla sua segretaria, Lina Vido, che prendeva tre autobus per andare in ufficio a piazza di San Lorenzo in Lucina. Una sola cosa non gli chiesi: di indossare un abito di scena. Sarebbe stato opportuno, per ragioni di montaggio, usare una mantellina, una giacca, una toga, ma io non ebbi il coraggio di chiederglielo. Qualcuno adesso sostiene che il fatto che sia vestito diversamente sia una scelta felice».
È curioso vedere Andreotti indossare una maglietta di un noto marchio di abbigliamento sportivo, non credo che si sia mai visto!
«Sembra un mannequin! Sfila con ogni abito addosso».
Ha avuto ritrosia a farsi riprendere dalle telecamere?
«Assolutamente no. Nessuna ritrosia né vanità».
Quanto durava una seduta?
«Le sedute duravano tra le due ore e le due ore e mezza e in tutto furono ventidue. Quando gli comunicai che avevamo finito, Andreotti mi disse che se ne dispiaceva molto e mi chiese se non potevo inventarmi qualche trucco per farla durare un po' di più perché aveva ricevuto un "grande balsamo". Una volta mi disse una frase che mi colpì molto: il giudice più severo se lo trovava in camera da letto. Era la moglie! La mia intervista era un' oasi felice, un momento di pace, di appagamento, di fuga. Nel 2007 facemmo una coda sulle vignette che lo demonizzavano. Alla fine gli chiesi di interpretare una sua caricatura: l' Andreotti censore, com' è stato consegnato alla vulgata ignorante della storia del cinema, l' Andreotti che scambia un centimetro di pelle delle natiche con una battuta contro il governo. Lui ebbe l' intelligenza, la spiritosità di accettare di incarnare questa lieve parodia di se stesso, come una sorte di censore a vita».
Ci sono temi che Andreotti non ha voluto affrontare?
«Nessuno. Ho passato un anno prima di fare questo ciclo di interviste, consultando un migliaio di documenti con il più formidabile archivista del cinema italiano, Pier Luigi Raffaelli. Tutto quello che si dice è documentato. La sola cosa non concordata accadde quando mi raccontò del suo primo viaggio in America, nel dopoguerra, in cui sconfinò senza passaporto in Canada per vedere le cascate del Niagara. Io gli avevo già preannunciato che avrei messo delle immagini del film Niagara di Henry Hathaway con Marilyn Monroe. Quando smetteva di parlare, era solito abbassare la testa come per scaricarsi e prepararsi per la successiva domanda, io in quell' occasione non staccai la telecamera e poi gli dissi: "Presidente, che giudizio si è fatto della morte di Marilyn Monroe?". Non era una domanda premeditata, mi è venuta spontanea sapendo che era un tema che lo aveva intrigato molto. Lui mi guardò per un attimo con uno sguardo severo di riprovazione, poi si chiuse un attimo in silenzio e replicò: "Marilyn Monroe... bè, diciamo che non è morta vecchia". Lo ringraziai e mi scusai, dicendogli che avrei voluto conservare questo scambio e lui mi dissi di sì. Ma in quei due-tre secondi mi fulminò!».
Sono passati 17 anni dalla prima intervista...
«Sapevo che mi occorreva del tempo, ma non avrei mai immaginato che le interviste sarebbero durate venti mesi e che la messa in onda avrebbe preso più di dieci anni dalla fine del montaggio. È stato proiettato una volta un episodio a Bologna, una volta un episodio alla Mostra di Venezia, ma non è mai stato visto tutto assieme, questa è la prima volta. Dal momento che il programma non andava mai in onda, nel 2012, due o tre settimane prima di morire, la signorina Vido mi telefonò e mi disse che, se l' intervista non andava in onda per un problema di soldi, si dichiarava disposta a consegnarmi tutti i suoi risparmi, "tanto a me di là non mi servono". Io le risposi: "Le fa onore questa offerta, ma non posso finire questo programma con i soldi suoi". Una delle due puntate è dedicata a Farassino, l' altra proprio a lei. Aveva intuito che qualche cosa non andava per il verso giusto. Lo aveva intuito anni prima anche Andreotti, il quale mi disse di andare a nome suo da Gianni Letta. Questi mi ricevette a Palazzo Chigi e mi accolse con una frase che so a memoria: "Ora che l' ho conosciuta di persona capisco perché il presidente Andreotti la tenga in tanta simpatia". Mi sarebbe piaciuto che Mediaset, per cui lavoravo, trovasse il coraggio di mandare in onda l' intervista, ma mi dissero che c' erano "difficoltà insormontabili". È chiaro che questo programma sta sulle scatole agli esperti di Andreotti: mi sono stupito che Massimo Franco o Marcello Sorgi, due dei massimi andreottologi, non abbiano chiesto di vederlo. Chi l' ha visto ha una reazione di stupore e di benevolenza. La cosa che impressiona è la sua totale disponibilità, la sua ironia, il suo rimpianto, la sua tenerezza verso se stesso giovane, lui che non è mai stato giovane».
Viene fuori una confidenza che pochi hanno avuto con lui e traspare un' umanità che oggi è difficile da ammettere. «Viene fuori un Andreotti simpatico: è il motivo per cui il programma non è andato in onda. Non si può dire che Andreotti fosse simpatico, non si può dire che fosse dotato di senso dell' umorismo, non si può dire che conosceva il cinema molto di più di Dario Franceschini o di Nicola Zingaretti o di Gigino Di Maio!».
Fa più comodo consegnare ai posteri l' immagine di Andreotti ne Il divo di Paolo Sorrentino.
«Certo, perché non è Andreotti, è Topo Gigio!».
I dieci anni di oblio sono dovuti alla scoperta di un Andreotti fuori dai canoni?
«Dal fatto che Andreotti resta simpatico. Chi vede questo programma non può non riconsiderare tutto quello che è stato il suo operato anche fuori dal cinema. La sua grande invenzione è stato di proibire film ambientati durante il Ventennio. Il solo girato nell' era Andreotti è Gli sbandati di Citto Maselli, che non a caso non vinse niente con il pretesto che Lucia Bosè era stata doppiata».
Emerge poi una passione sincera per il cinema.
«Andreotti soffriva molto di non poter più andare alle anteprime o alle proiezioni organizzate dal suo amico Italo Gemini nella saletta vicino a Montecitorio. Andreotti aveva amato molto il cinema, come tutta la generazione nata alla vigilia degli anni Venti, che ne aveva conosciuto la lussuria, la peccaminosità, e in adolescenza aveva assistito alla nascita del sonoro, quando il cinema era esploso con le gemme del paradiso terrestre. Quando chiesi a Rodolfo Sonego, il cervello di Sordi come l' ho definito nel mio libro su di lui, chi mi potesse spiegare quello che è successo nel cinema italiano negli anni Cinquanta, lui mi rispose: Andreotti. Il cervello più lucido, l' organizzatore più capace, il potere più assoluto e le idee così ferree. E altrettanto mi disse Dino Risi. Mi venne tardi l' idea, nel programma radiofonico Hollywood Party che ho condotto per anni, di far dialogare telefonicamente Risi e Andreotti, che non si erano mai conosciuti. Si fecero quelli che Andreotti chiamava i «salamelecchi», complimentandosi vicendevolmente».
Non ci aspetta che Risi, dopo aver preso in giro Andreotti definendolo «uno dei grandi italiani insieme a Leonardo da Vinci, Garibaldi e Federico Fellini», dimostri ammirazione sincera nei suoi confronti.
«Se rivedo l' intervista, mi dico: "Se ti portavi dietro Dino Risi". Un' ora di Risi con Andreotti vale più di cinquanta ore di Tatti Sanguineti!».
Contento del prodotto finale?
«Non lo so, non ho il coraggio di vederlo. So che abbiamo fatto il massimo, ma che non è bastato. Mentre Andreotti poteva desiderare di vedere quello che aveva fatto cinquant' anni prima, per me è un grande dolore. Ho sbagliato nel credere che se ero sopravvissuto a Walter Chiari, sul quale sto finendo un libro cominciato molti anni fa, sarei riuscito a sopravvivere ad Andreotti. Un barlume di hybris, di superbia contro gli dei. Ho buttato via la proposta di fare un libro su Andreotti perché voglio liberare la mia vita. Ho perso la motivazione. Voglio occuparmi di Lino Banfi, di Zalone, del nuovo cinema eritreo!».
Aldo Grasso per il ''Corriere della Sera'' il 17 gennaio 2020. Per anni, Giulio Andreotti è stato la «grande ossessione» di Tatti Sanguineti, così come in precedenza lo erano stati la tesi di laurea sul linguaggio del '68, il poderoso lavoro su Walter Chiari, la raccolta di manifesti di cinema, il rapporto con Piero Chiambretti, il libro su Rodolfo Sonego Ogni ossessione è per sua natura disordinata, spesso caotica, ma la magia dell' estremo la rende ricca di contenuti. Sanguineti freme continuamente per l' ansia di inseguire l' oggetto del suo desiderio (un desiderio è tale se non ha fine) e regolarmente vi si perde, mostrandone però l' infinita varietà e potenza. Giulio Andreotti. Il cinema visto da vicino e Giulio Andreotti. La politica del cinema sono due documentari, trasmessi da Sky Arte, che nascono dalla più lunga intervista che Andreotti abbia mai concesso. Ora divertito, ora sorpreso, ora caustico (sempre comunque lucido, forte di una vivida memoria), Andreotti viene trasportato nel periodo compreso fra il 1947 e il 1953, quando era Sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega allo spettacolo. Furono molte le iniziative intraprese dal politico per dare nuovo impulso all' arte cinematografica: dal salvataggio dell' Istituto Luce e del suo archivio alla legge di sostegno sul cinema, dalla restituzione al Lido della Mostra del Cinema di Venezia alla rinascita di un cinegiornale nazionale, la Settimana Incom. Gli aneddoti e le spigolature che si susseguono sono molti (dalla polemica sui «panni sporchi» alla lotta con l' integralista Luigi Gedda, dai rapporti con il Centro Cattolico Cinematografico ai tagli delle scene definite «stazioni di monta taurina») e la sensazione è che, alla fine, il politico soverchi il cinefilo, secondo la raccomandazione di Sonego: «Voi non avete capito niente di niente. Se volete capire cosa è successo veramente in quegli anni dovete andare da Andreotti. Andreotti ha ammazzato cinque film, ma ne ha fatti fare cinquemila».
Mattia Feltri per la Stampa il 10 gennaio 2020. Una sfilata da luci della ribalta: il Presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro, lassù innalzato anche da Bettino Craxi perché «fu il mio fedele ministro dell' Interno», diffonde una nota sulle sue responsabilità di garante della Costituzione, e dunque un condannato è un condannato, che ci posso fare? Il premier Massimo D' Alema va dal procuratore di Milano, Francesco Saverio Borrelli, e il procuratore ascolta, e ascolta, e poi, anche lui col faro della legalità a illuminargli il cammino, dice niente da fare, un condannato è un condannato, fate un decreto e assumetevene la responsabilità; ma siccome non erano più i tempi - e non lo sarebbero più stati - del primato della politica, D' Alema non procedette oltre il baciamano all' ordine costituito. Il capolavoro di situazionismo fu del segretario di Stato vaticano, cardinale Angelo Sodano, che dopo aver accolto in profonda contrizione le suppliche della figlia Stefania, trasse di tasca due rosari e glieli porse, perché ne facesse dono al padre, insieme all' assicurazione di un posto di privilegio nelle sue preghiere. Così Bettino Craxi restò a morire ad Hammamet, nella latitanza dorata il cui culmine fu la sfacciataggine (ironia, per chi non l' avesse capito) d' essere operato per il cancro al rene nello squallore dell' ospedale militare, dove un medico del San Raffaele si incaricò di reggere la lampada per fare luce sul lavorio chirurgico nelle viscere dell' ex presidente. Nessuno ci aveva ancora riflettuto sopra, sul Bettino Craxi che ventuno anni prima era stato sorpreso da Gennaro Acquaviva con la testa tra le mani, in lacrime, sotto gli occhi una lettera di Aldo Moro spedita dalla «prigione del popolo». Si era decisa, essenzialmente dalla Democrazia cristiana e dal Partito comunista, la linea della fermezza, che poi era la linea dello star fermi nel senso di non far nulla. Riuscì benissimo, tutti fermi mentre Moro veniva processato e assassinato dalle Brigate rosse, e mentre Craxi in solitaria (di già) predicava una trattativa che lo portò più vicino ai sequestratori di quanto non sia riuscito ai servizi segreti, probabilmente impegnati nella stessa interpretazione della fermezza proposta dal governo. Nessuno ci aveva ancora riflettuto sopra, fino a questo libro asciutto e opulento di Marcello Sorgi (Presunto colpevole. Gli ultimi giorni di Craxi, Einaudi, pp. 111, 20), di cui l' esempio è il breve e fulminante ritratto dei due protagonisti - Bettino Craxi in conferenza stampa interpellato vanamente dall' esordiente Sorgi: non risponde e chiede se ci siano altre domande (era un suo crudele modo di svezzare i giovani interlocutori), e Aldo Moro che riceve a Palazzo Chigi don Riboldi e una delegazione di bambini reduci del terremoto del Belice, a cui non promette nulla di quanto non possa mantenere, poiché la politica non è mestiere per fanfaroni. La tesi del libro arriva quando deve arrivare, piazzata al termine del racconto di vite parallele con spietatissima noncuranza: «Entrambi finiscono schiacciati, stritolati in un meccanismo che non si accontenta di distruggerli politicamente, ma presuppone la loro eliminazione fisica. Salvarsi non gli è consentito». È l' ignominia di uno Stato capace di venire a patti coi peggiori ceffi del pianeta per spuntarne un vantaggio purchessia, e di colpo intriso di rigore etico se si tratta di tendere la mano - per umanità e amor proprio, mica per altro - a due leader sbilanciati sull' abisso. Ma se per Moro lo si sa, e lo si è scritto spesso, dirlo di Craxi è un passo verso l' assennatezza perduta ventotto anni fa, quando all' arresto di Mario Chiesa e all' apertura della falsa rivoluzione giudiziaria si decise - nel senso più biblico dell' iniziativa - di fare del capo socialista «il grande capro espiatorio», come scrive Sorgi con una secchezza irrimediabile. Il suo cadavere per la nostra catarsi: che oscenità. Ciechi e autolesionisti, ci si è tutto riversato addosso, com' era prevedibile e previsto: con Craxi, spiega Sorgi, si «consegna alla storia del Novecento il principio del primato della politica, mettendoci una pietra sopra». La politica che non sa più resistere a un procuratore, ceduta al servaggio dell' opinione pubblica, svilita a materiale di controllo via social ora per ora, e dunque immeschinita e disarmata, in balìa del capriccio. Una repubblica fondata sulla menzogna e che, in un mare di menzogne, naufraga amaramente.
Gian Carlo Caselli per il “Corriere della Sera” del 06 gennaio 2020. Quarant’anni fa, la mattina del 6 dicembre 1980, Cosa nostra uccideva a Palermo Piersanti Mattarella, esponente di rilievo della Democrazia cristiana , convinto sostenitore di una fase politica di apertura a sinistra. Come presidente della Regione Sicilia aveva avviato una coraggiosa campagna moralizzatrice all’interno del suo partito. Con l’obiettivo di allontanare i personaggi più compromessi con la mafia e di ripristinare la legalità nella gestione della pubblica amministrazione, specie in materia di appalti. Il delitto rientra nella impressionante sequenza degli omicidi “politico-mafiosi” degli anni Settanta-Ottanta con cui i corleonesi di Riina puntavano ad una egemonia totalizzante. La decapitazione sistematica e feroce di tutti i vertici istituzionali. Una terribile ecatombe di politici, magistrati, funzionari di Polizia, ufficiali dei Carabinieri, giornalisti, uomini della società civile. Mai, in nessun paese al mondo, vi è stato qualcosa di simile. L’omicidio Mattarella si caratterizza perché assume i contorni di uno psico-dramma di cui la classe dirigente nazionale appare come la vera protagonista e destinataria, rivestendo tutte le parti del dramma. Quella ( facente appunto capo a Mattarella) di chi vorrebbe inaugurare una nuova stagione di auto-riforma della politica, rescindendo ogni rapporto con la mafia ed i suoi alleati. Quella opposta, formata dai peggiori esponenti della corrente andreottiana della D.C. regionale, fra i quali i cugini Salvo e l’on. Lima ( che insieme a Giulio Andreotti – come accertato nel processo di Palermo a suo carico – addirittura parteciparono a summit con i vertici di Cosa nostra per discutere il “caso” Mattarella). Quella pavida o anche solo rassegnata alla sua impotenza, che fu lo stesso Mattarella a dover constatare , quando – pochi mesi prima di essere ucciso - si recò a Roma per denunziare il suo progressivo grave isolamento, ricavandone la sensazione di essere ormai consegnato al suo destino di morte ( di ciò ha testimoniato nel 1981, nel processo per l’omicidio Mattarella, la sua capo di gabinetto). Aspetto – quest’ultimo – intuito con acume e ben messo a fuoco da Carlo Alberto Dalla Chiesa, che proprio riflettendo sull’omicidio Mattarella ebbe a sostenere che “si uccide il potente quando avviene questa combinazione fatale, è diventato troppo pericoloso ma si può ucciderlo perché è isolato” (intervista rilasciata a Giorgio Bocca il 10 agosto 1982, pochi giorni prima della strage mafiosa di via Carini del 3 settembre , nella quale il generale-prefetto di Palermo fu ucciso insieme alla moglie e all’autista). L’omicidio Mattarella smentisce tragicamente i ricorrenti tentativi di leggere i rapporti fra mafia e politica ispirandosi a schemi di riduzionismo se non proprio di negazionismo. Per ridurre tali rapporti a fenomeno localistico, quasi un capitolo di folklore regionale, addebitabile agli appetiti di pochi esponenti del ceto politico-amministrativo. O addirittura liquidandoli parlando di indagini “creative” o in mala fede, donde un sillogismo semplice quanto pericoloso: se le indagini sono inquinate, il nesso mafia-politica si può tranquillamente demolire. Per contro, la realtà, processuale e storica, non sancisce affatto una modesta configurazione periferica, ma i tempi della storia del Paese. Tessere di un mosaico nazionale segnato anche da orride cadenze di morte. In questo contesto l’omicidio di Piersanti Mattarella risulta essere un catalizzatore storico del rapporto mafia-politica, perché racchiude ed esalta in sé tutti i connotati storici ( le “invarianti strutturali” di tale rapporto), dall’Unità i giorni nostri. E si ricongiunge, con una inquietante linea di continuità, al primo omicidio politico mafioso di rilievo nazionale della storia unitaria, quello di Emanuele Notarbartolo già sindaco di Palermo e direttore generale del Banco di Sicilia. Un omicidio che (al pari di quello di Mattarella) portò appunto alla luce - proiettandolo sullo scenario nazionale- il rapporto mafia-politica, come elemento strutturale del fenomeno mafioso e asse portante degli equilibri politici nazionali.
Stefano Andreotti: “1979-1989 periodo irripetibile? Speriamo di no, ma…”. Gennaro Grimolizzi il 23 Settembre 2020 su culturaidentita.it. Da poche settimane in libreria e subito tra i libri più venduti I diari segreti di Giulio Andreotti (ed. Solferino) consentono di conoscere meglio il decennio 1979-1989, forse il più tormentato della storia d’Italia dopo la Seconda guerra mondiale. A curare questa pubblicazione i figli del leader della Democrazia Cristiana, Stefano e Serena Andreotti. In questa intervista rilasciata a CulturaIdentità Stefano Andreotti ricorda alcuni aneddoti del passato, momenti irripetibili per l’Italia e per l’Europa. Altre persone, altra storia.
Dottor Andreotti, nei diari di suo padre e da poco pubblicati si offre uno spaccato della storia italiana dal 1979 al 1989. Quali le pagine più belle e quali quelle meno belle per il nostro Paese?
«I Diari Segreti contengono dieci anni di vita del nostro Paese visti da un testimone certamente privilegiato e spesso protagonista. Di cose belle e brutte ne sono descritte a centinaia. Per il nostro Paese direi che le peggiori siano quelle legate agli atti di terrorismo e agli omicidi di mafia che riguardarono tante vittime innocenti, le più belle i successi nella strada della distensione Est-Ovest e nella ricerca della pace in tanti conflitti in ogni parte del mondo. Mio padre era orgoglioso di aver potuto spesso dare un grande contributo a questi successi».
Negli anni in cui Giulio Andreotti è stato Presidente del Consiglio e leader della Dc l’Italia era un paese rispettato. Quel periodo storico è irripetibile?
«L’Italia, risorta dalle ceneri della Seconda Guerra Mondiale, fece grandi progressi, divenne, anno dopo anno, anche se fra tanti problemi, uno dei primi paesi industrializzati del mondo, negli anni Ottanta di cui ci siamo occupati nei diari superò addirittura al quarto posto la Gran Bretagna della Thatcher, con un buon livello di occupazione e un buon tenore di vita largamente diffuso, con una riconosciuta visibilità internazionale dentro e fuori dall’Europa. Come Presidente del Consiglio, come ministro e comunque come politico di primo piano fu uno dei protagonisti di quel periodo che durò fino agli inizi degli anni Novanta, per poi imboccare una strada in discesa che mi pare non veda ancora oggi la fine. Periodo irripetibile?Speriamo di no, ma le premesse per una inversione di tendenza fatico a vederle».
Chi era il leader europeo che suo padre stimava di più?
«Con tantissimi leader europei ha avuto grandi rapporti. Forse quelli con cui ha maggiormente legato vi furono Schmidt, Genscher e Gorbaciov. Fuori dall’Europa fra i tanti un rapporto particolare fu quello con Schultz, il Segretario di Stato americano nella presidenza di Reagan, con il quale condivise tante iniziative di pace verso il blocco sovietico e i conflitti nel Mediterraneo. Vorrei citare comunque anche una figura che magari non è proprio giusto indicare come leader: Giovanni Paolo II».
Lei e sua sorella avete curato la pubblicazione dei diari segreti. Come vi siete mossi per selezionare l’enorme mole di materiale a disposizione?
«Abbiamo rimesso assieme, decifrando fra l’altro una calligrafia spesso di difficilissima lettura, quello che nostro padre considerava come diario e raccoglieva in un contenitore annuale. Innanzitutto notazioni da lui scritte giorno dopo giorno su una agenda o su tanti fogli sparsi, lettere ricevute o da lui spedite, documenti, articoli di giornale che riteneva di particolare importanza. Ne è venuto fuori un voluminoso scritto, l’unica nostra selezione è stata quella di eliminare per esigenze editoriali, dalle oltre mille pagine siamo dovuti purtroppo scendere alle comunque oltre 670 della pubblicazione, una parte delle notazioni che riguardavano eventi familiari o eventi di secondaria importanza».
I diari di Giulio Andreotti si fermano al 1989. Tre anni dopo assisteremo ad uno stravolgimento della storia anche politica e dei partiti. Abbiamo definitivamente voltato pagina?
«La pagina l’abbiamo voltata, come rilevato prima, all’inizio degli anni Novanta, ma credo che troppo spesso si dimentica l’Italia dei primi quarant’anni con i suoi successi dentro e fuori i confini. Certamente i tempi sono cambiati e sono mutati gli equilibri nel mondo, ma non credo che molti possano dirsi soddisfatti della pagina che l’Italia sta da ormai decenni scrivendo».
Lettera di Stefano Andreotti al “Corriere della Sera” l'8 gennaio 2020. Caro direttore, leggo sul Corriere del 6 gennaio, fra gli articoli relativi al quarantesimo anniversario della tragica morte di Piersanti Mattarella, che il dottor Caselli nuovamente parla di incontri di mio padre con i vertici di Cosa nostra «come accertato nel processo di Palermo a suo carico». Tali incontri sarebbero avvenuti in due occasioni nel 1980 secondo quanto riferito dal collaboratore di giustizia Marino Mannoia. Il racconto non fu ritenuto attendibile nella sentenza di primo grado che giunse all’assoluzione, mentre una diversa valutazione ne fu data dai giudici di secondo grado, che si pronunciarono essenzialmente proprio su tale base in modo diverso. La sentenza di Cassazione che scrisse la parola fine alla vicenda processuale sostiene che «i giudici dei due gradi di merito sono pervenuti a soluzioni diverse», ma non rientra tra i compiti della Cassazione «operare una scelta tra le stesse»; la ricostruzione e la valutazione dei singoli episodi nella sentenza della Corte di Appello «è stata effettuata in base ad apprezzamenti ed interpretazioni che possono anche non essere condivisi», sicché agli apprezzamenti e alle interpretazioni della Corte d’Appello «sono contrapponibili altri dotati di uguale forza logica». Ne consegue che dalla lettura integrale delle sentenze non si arriva alle conclusioni di certezza sopra richiamate. Si può aggiungere poi che il sopra menzionato racconto di Marino Mannoia (personaggio detto il chimico per la dimestichezza nel trattare la droga e autore di un numero non precisato di omicidi) contiene affermazioni davvero infamanti anche della figura di Piersanti Mattarella, che «dopo aver intrattenuto rapporti amichevoli con i cugini Salvo e con Bontate, ai quali non lesinava i favori» successivamente avrebbe «mutato la propria linea di condotta», dichiarazioni che chi ritiene veritiero quanto riferito su mio padre si guarda bene dal riportare nella loro interezza. Un cordiale saluto.
Dagospia il 12 gennaio 2020. LETTERA DI GIAN CARLO CASELLI A DAGOSPIA. Il 6 gennaio, anniversario del feroce omicidio di mafia che 40 anni prima aveva colpito a Palermo l’onesto e coraggioso presidente della regione Piersanti Mattarella, il “Corriere della sera” ha pubblicato un mio articolo al riguardo. Il figlio del senatore Giulio Andreotti, Stefano, è intervenuto a sua volta con una lettera pubblicata dal “Corriere” l’8 gennaio, nella quale mi si addebita, in sostanza, di aver omesso di riportare alcune dichiarazioni del collaboratore di giustizia Francesco Marino Mannoia. Di questa lettera “Dagospia” si è occupato due volte, dapprima riproducendola integralmente come “bombastica”, poi riprendendo un articolo di Simone Di Meo per “La verità” che sviluppa quanto scritto da Stefano Andreotti. In questa sede mi limito ad osservare (tralasciando ogni altra possibile considerazione) che nell’articolo pubblicatomi dal Corriere, come si può constatare dal testo che allego, di Francesco Marino Mannoia non si fa neppure il nome. Mi sembra quindi evidente come non vi sia materialmente spazio per anche solo ipotizzare - in tale contesto - una qualche omissione di sue dichiarazioni. RingraziandoLa per l’attenzione, saluto cordialmente Gian Carlo Caselli.
Simone Di Meo per “la Verità” il 9 gennaio 2020. Il pentito della discordia. Con una lettera pubblicata ieri dal Corriere della Sera, Stefano Andreotti, figlio del Divo Giulio, ha contestato all' ex procuratore di Palermo, Giancarlo Caselli, una ricostruzione unilaterale della storia giudiziaria del papà in occasione del quarantennale della tragica uccisione (6 gennaio 1980) di Piersanti Mattarella, fratello del capo dello Stato, Sergio. Caselli ha ricordato due presunti incontri di Andreotti con i vertici di Cosa nostra - «come accertato nel processo di Palermo» - sulla base delle dichiarazioni del pentito Francesco Marino Mannoia, ex trafficante mafioso (soprannominato «mozzarella») considerato tra i più attendibili collaboratori di giustizia siciliani. Incontri diversamente valutati dai giudici di primo grado (che assolsero il politico Dc) e da quelli d'Appello (che invece lo condannarono). Sulla impossibilità di stabilire - a differenza di quanto sostiene Caselli - la veridicità di quei summit, il figlio di Andreotti ha ricordato che il racconto di Marino Mannoia «contiene affermazioni davvero infamanti anche della figura di Piersanti Mattarella» di cui Caselli ha però evitato di parlare. Quali? Stefano Andreotti non dice di più, ma La Verità è in grado di rivelare i contenuti di un verbale, risalente al 3 aprile 1993, in cui l'ex boss parla del fratello del presidente della Repubblica proprio all' allora procuratore di Palermo. L'incontro tra Mannoia e Caselli, accompagnato dal pm Guido Lo Forte, avvenne presso l'Us attorney's office del distretto meridionale di New York alla presenza del procuratore Patrick Fitzgerald. Il pentito spiegò che «già Bontate Paolino (ex capo di Cosa nostra prima dell' avvento dei Corleonesi, ndr) intrattenne rapporti con Mattarella Bernardo (il papà di Sergio e Piersanti, ndr), il quale era assai vicino a Cosa nostra, anche se non ricordo se fosse un uomo d'onore [] Successivamente sfruttando il canale rappresentato dai cugini Salvo Antonino e Ignazio - uomini d'onore della famiglia di Salemi, essi pure «riservati» -, Bontate instaurò intimi rapporti anche con Mattarella Piersanti [] Escludo comunque che quest' ultimo fosse un uomo d'onore, poiché altrimenti l'avrei appreso». Per Marino Mannoia, l'ex presidente della Regione Sicilia fu ammazzato perché Mattarella «dopo avere intrattenuto rapporti amichevoli con i cugini Salvo e con Bontate Stefano, ai quali non lesinava i favori, successivamente aveva mutato la propria linea di condotta [] voleva rompere con la mafia, dare "uno schiaffo" a tutte le amicizie mafiose e intendeva intraprendere un' azione di rinnovamento del partito della Democrazia cristiana in Sicilia». Attraverso Salvo Lima, «del nuovo atteggiamento di Mattarella» - si legge ancora nel verbale - fu informato anche «l'onorevole Giulio Andreotti» che «scese a Palermo, e si incontrò con Bontate Stefano, i cugini Salvo, l' onorevole Lima, l' onorevole Nicoletti». La riunione - aggiunse il collaboratore di giustizia - «avvenne in una riserva di caccia». Successivamente, Bontate avrebbe raccontato a Marino Mannoia che «tutti quanti si erano lamentati con Andreotti del comportamento di Mattarella, e aggiunse poi: "Staremo a vedere" [] Alcuni mesi dopo, fu deciso l'omicidio». Al papà del capo dello Stato fa riferimento pure un altro collaboratore di giustizia, Francesco Di Carlo. Sentito in un processo per diffamazione a mezzo stampa, come riportato dal Fatto quotidiano e da Antimafia2000, Di Carlo ha rivelato che «il vecchio Bernardo Mattarella, padre del capo dello Stato, mi fu presentato come uomo d' onore di Castellammare del Golfo. Me lo presentò tra il '63 e il '64 il dc Calogero Volpe, affiliato alla famiglia di Caltanissetta, che aveva uno studio a Palermo». Il verbale del 3 marzo 2016 riprende alcune dichiarazioni già rese nel corso degli anni Novanta dall' ex padrino considerato pienamente attendibile dalla sentenza per l'omicidio del giornalista Mauro Rostagno. A un altro fratello dell'inquilino del Quirinale, Antonino Mattarella, si fa riferimento invece in una vecchia misura di prevenzione a carico di don Enrico Nicoletti, il cassiere della Banda della Magliana. «La transazione (per l'acquisto di un immobile nella Capitale, ndr) risulta essere stata effettuata tramite il curatore del fallimento Mattarella Antonino, legato al Nicoletti per gli enormi debiti contratti col proposto (dalla documentazione rinvenuta dalla Guardia di finanza di Velletri emerge che il Nicoletti disponeva di titoli emessi dal Mattarella, spesso per centinaia di milioni ciascuno)», è scritto nel provvedimento giudiziario così come riportato dal Fatto quotidiano nell' edizione dell' 11 febbraio 2015. Antonino Mattarella non è però mai stato indagato in quel procedimento. Tranchant il giudizio di Stefano Andreotti, contattato dal nostro giornale: «Citare l'incontro di mio padre riferito da Marino Mannoia, che va a raccontare queste balle anche su Mattarella, mi lascia un po' sbalordito... ma no, non voglio dire sbalordito. Non credo sia molto aderente ricordare le cose così, ecco».
Andreotti, politica e pellicole. Che bravo il "Divo" fra i divi. Censure, leggi ad hoc e passione: il rapporto tra il cinema e lo statista democristiano raccontato da Tatti Sanguineti. Luigi Mascheroni, Venerdì 10/01/2020, su Il Giornale. Bettino Craxi al cinema, regia: Gianni Amelio. E Giulio Andreotti e il cinema, Deus ex machina: Tatti Sanguineti. La rivincita della Prima Repubblica sul grande schermo? Sul piccolo, Sky Arte, martedì 14 gennaio sera, in un'imperdibile maratona storico-politico-cinefila, andranno in onda, uno dopo l'altro, due film diretti da Tatti Sanguineti - Giulio Andreotti. Il cinema visto da vicino e Giulio Andreotti. La politica del cinema - frutto della più lunga e minuziosa intervista di sempre cui lo statista democristiano si sottopose fra il 2003 e il 2005, rispondendo alle domande dell'incontentabile e curiosissimo critico e documentarista («Alla fine mi sono ritrovato con 50 ore di girato», dice Tatti) alla ricerca di racconti, aneddoti, rivelazioni e retroscena per ricostruire, con un pugno di fotogrammi inediti, un pezzo di storia del Paese. L'opera è unica, ma in due parti. Una racconta l'Andreotti giovane, che imparò ad amare e a usare politicamente il cinema. La seconda l'Andreotti che invecchia col cinema che non può più seguire come un tempo ma che ricorda film, registi, polemiche. Il cinema visto da vicino fu presentato alla Mostra del cinema di Venezia nel 2014. La politica del cinema ebbe invece la sua prima al Festival del cinema ritrovato di Bologna nel 2015. Oggi - dopo dieci anni... - finalmente tutti, non solo cinéphiles e addetti ai lavori, possono vederli, insieme. E insieme i due film-documentario narrano (fedelmente, appunti e ricordi del Presidente alla mano) di come un giovanissimo Andreotti, ragazzo povero di campagna in un decennio, tra gli anni Venti e Trenta, in cui il cinema diventa adulto, sopravvive alle dittature e vive trasformazioni epocali - il sonoro, le grandi produzioni americane, l'affermarsi dei generi, dal western al musical, il divismo - scopre oscenità e meraviglie (quando Andreotti - il Mefistofele, il Divo - dice che vedendo a tredici anni Dr. Jekyll e Mr. Hyde rimase «incantato», c'è da credergli). E poi di come Andreotti cresce mentre il cinema fiorisce, e ne coglie, politicamente, il frutto. Una carriera fabbricata dalla Fuci e da Giovanni Battista Montini, futuro Papa, e un incarico di segretario factotum di Alcide De Gasperi, Andreotti è destinato al cinema. Nel giugno del 1947 è nominato Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con delega allo Spettacolo. Poltrona - nel Palazzo e nella sua saletta privata - che terrà per sei anni e quattro governi centristi, fino al '53. E nel '56 è il politico con il maggior numero di preferenze del Paese. Aveva capito che il cinema può formare una nazione, ma è (anche) un enorme serbatoio di voti. Oltre a una insostituibile fonte di piacere personale (le domeniche pomeriggio passate a vedere con pochi amici, e la moglie, i film più belli tra quelli che, per tutta la durata del suo incarico, deve visionare come Commissione censura). Andreotti visionò, vistò, censurò. Ma soprattutto, di fatto, salvò l'industria cinematografica nazionale. A conflitto appena finito capisce tre cose. Che il cinema deve contribuire a chiudere la mattanza della guerra civile: e proibisce che i nuovi film siano ambientati durante il fascismo, per non gettare altra benzina sull'odio. Che il nostro cinema va aiutato economicamente: e costringe le grandi produzioni americane a reinvestire gli incassi nel Paese. E che bisogna salvaguardare il vero miracolo italiano - il genio di artisti imprevedibili e unici come Rossellini, De Sica e Visconti (a cui pure era lontanissimo) - dall'egemonia culturale comunista da una parte e dall'invasione produttiva americana dall'altra. Lo fece. Poi, tutto il resto. Che è storia. Andreotti salva l'Istituto Luce e il suo archivio. Favorisce grazie a sgravi fiscali la rinascita di un cinegiornale nazionale, la Settimana Incom. Fa riprendere l'attività negli studi di Cinecittà (il primo film girato è Cuore di Duilio Coletti, da De Amicis, con Vittorio De Sica). Nel '47 partecipa alla sua prima Mostra del Cinema di Venezia, che si tiene in città, riportandola l'anno dopo al Lido. Nel '49 emana la Legge di sostegno sul cinema, che porta il suo nome. Attraverso l'imposizione di una tassa al momento del doppiaggio, in gran parte di film americani, la cui importazione era stata vietata nel '38, consente l'incremento di risorse economiche dall'estero. Compra 4mila proiettori 16 millimetri e apre altrettante sale parrocchiali, il 30% del totale nazionale. Alla cessazione dell'incarico, nel 1953, Andreotti però continua a frequentare il mondo del cinema, e resta amico di produttori, registi, attori. Dei quali gli restano centinai di ricordi e giudizi (e Tatti Sanguinetti è un maestro a tiraglieli fuori tutti). Poi al suo posto capita Oscar Luigi Scalfaro, meno sognatore e più bigotto («Non capiva molto di cinema», dice Tatti, «lui è quello che schiaffeggiava le signore dalle scollature importanti»), e il rapporto tra politica e cinema cambia per sempre. E oggi? «Oggi - dice Tatti Sanguineti - le tre maggiori Film Commision, Toscana, Lazio e Puglia, hanno polverizzato il potere decisionale, mentre il cinema ha bisogno di un po' di cervello centrale. Non dev'essere abbandonato ai cacicchi locali». Ma ai politici il cinema italiano interessa? «Non so quanto». Tatti ha appena visto Pinocchio («Ma non ne sentivo il bisogno») e Tolo Tolo («Mi ha depresso»). Ed è convinto che il cinema italiano sia ormai irrilevante. «Oggi si fanno 400 film all'anno, più o meno come ai tempi di Sergio Leone. Ma allora si esportavano ovunque: da Macao a Nairobi, dall'Europa all'America latina. Il nostro cinema popolare lo vedevano e lo volevano tutti. Oggi la più marginale delle pellicole sudcoreane o israeliane è più importante del nostro film più celebrato». Forse Tatti esagera. Ma forse Andreotti sarebbe d'accordo con lui.
SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE. (Ho scritto un saggio dedicato)
· Socialismo e scissioni.
La nascita del Partito Comunista scisso dal Partito Socialista e dal Partito Fascista.
Chiedimi chi erano i comunisti. Simonetta Fiori su La Repubblica il 19 novembre 2020. Lo strappo coi socialisti un secolo fa ha segnato per sempre il Pci e poi la sinistra. Una "dannazione" dice Ezio Mauro. Che in un libro racconta un pezzo della nostra storia. E qui anche un po' della sua. Il grande romanzo della sinistra italiana comincia da un peccato originale che Ezio Mauro nel suo ultimo libro ha chiamato "dannazione". È un sortilegio, una coazione a dividersi, che cent'anni fa - il 21 gennaio del 1921 - trovò la sua culla simbolica nel Congresso di Livorno, con la scissione dei socialisti e la nascita del partito comunista d'Italia. La sua storia è consegnata a un'ampia bibliografia, ma nessuno l'ha raccontata con lo sguardo di un grande giornalista che torna nei luoghi, i passi che dividono il Teatro Goldoni dal vecchio Teatro San Marco, cerca nei palchi a sinistra, nascosto nell'ombra, il busto di Gramsci e in platea, a destra, la barba lunga di Turati. "È una lezione che arriva da Nabokov", dice Mauro dal suo studio romano, alle spalle una parete di libri dedicata alla Russia. "Sono i dettagli a trasformare un materiale inerte in qualcosa che merita di essere letto: li definiva "note a piè di pagina nel volume della vita" che rappresentano "una forma suprema di consapevolezza"". Alle giornate congressuali, ricostruite sotto una luce inedita grazie a un'aggiornata ricerca archivistica, fa da controcanto la tumultuosa storia del socialismo italiano, all'ombra del pericolo fascista che avanza. Una vicenda drammatica che, nell'eterno conflitto tra radicalità e riformismo, avrebbe segnato l'intero Novecento. E dove le ragioni della storia faticano a trovare quelle della politica. A questa epopea della sinistra non è estraneo l'autore, direttore prima della Stampa e poi per vent'anni di Repubblica, di cui è oggi editorialista. "Posso dire di aver sempre cercato la sinistra. L'ho cercata soprattutto attraverso il mio lavoro".
Partiamo dalle convulse giornate di Livorno. Il congresso rappresentò una novità nella politica italiana.
"Per la prima volta comparve una cinepresa a un congresso di partito. E, davanti al teatro Goldoni, i leader venivano immortalati dal fotografo ufficiale con i lampi di magnesio. Fu un grande spettacolo nazionale, ma soprattutto fu una pagina inedita della storia politica: non era mai accaduto che una rivoluzione venisse discussa in pubblico, sotto gli occhi di migliaia di carabinieri, soldati e guardie regie che presidiavano il campo".
Nel libro riveli che c'erano molti agenti segreti in azione. È un aspetto che non è mai stato raccontato.
"Ci fu un intenso lavorìo tra prefettura, questura e ministero degli Interni per intercettare le conversazioni telefoniche dei congressisti accorsi a Livorno. Dovettero dirottare il controllo sulla centrale di Pisa perché nella sede telefonica di Livorno la maggior parte dei lavoratori era iscritta "ai partiti estremi". Questo fa capire come il potere considerasse i socialisti degli eversori. E d'altra parte, indipendentemente dalle correnti - riformista, massimalista e comunista - , non c'era nessuno che non si considerasse rivoluzionario".
La rivoluzione russa era arrivata con una forza irresistibile.
"Era stata una formidabile spallata ai tempi della storia, come se improvvisamente si fosse accorciato l'orizzonte socialista e la rivoluzione fosse a portata di mano. Anche Filippo Turati non aveva saputo resistere al fascino rivoluzionario di Kerenskij, come dimostrano le lettere scambiate tra il 1917 e il '18 con la compagna Anna Kuliscioff. Poi entrambi avrebbero preso le distanze dalla fase bolscevica".
Fu Lenin a chiedere l'espulsione della corrente riformista. La scissione nasce da questo.
"In larga maggioranza il partito votò contro l'ultimatum di Mosca e la frazione comunista abbandonò il Teatro Goldoni per andare a fondare il nuovo partito nel vicino Teatro San Marco. La cosa sorprendente è che il congresso sembra ipnotizzato da se stesso, incapace di capire ciò che accade nel Paese: lo squadrismo fascista è già molto attivo ed è singolare che rimbalzi pochissimo dentro il teatro. Nel profluvio di parole che i congressisti si scagliano addosso, il concetto di libertà non appare quasi mai. In pochi avvertono il pericolo fascista che avanza".
Quasi tutti pensavano che fosse un fuoco di paglia destinato a spegnersi. Solo due anni dopo, in una lettera a Togliatti, Gramsci definirà la scissione di Livorno il "trionfo della reazione".
"Lo dice anche Giacinto Menotti Serrati in una lettera inedita a Jacques Mesnil che ho trovato negli archivi della Fondazione Feltrinelli: "Ci divoreremo tra di noi e la borghesia finirà per avere qualche poco di pace". Non sappiamo se la storia avrebbe cambiato il suo corso, ma certo le divisioni all'interno del movimento operaio favorirono l'ascesa del fascismo. Nel 1919 Mussolini aveva avuto un risultato elettorale deludente".
A Livorno viene sancito un destino permanente della sinistra italiana che è la condanna a dividersi. Un sortilegio che si ripeterà nel tempo.
"In realtà la dannazione si era presentata fin dal principio: già nel 1892 a Genova, nel congresso che dà origine al Partito dei lavoratori, Turati e Prampolini avevano invitato gli anarchici ad andarsene. E ancora nel 1912 c'era stata un'altra scissione con la cacciata dei gradualisti tra cui Bissolati e Bonomi".
Il conflitto tra riformismo e radicalità è una costante della sinistra. Vittorio Foa tendeva a rappresentarla con la sua consueta ironia: tra riformisti e rivoluzionari non c'è alcuna differenza perché i riformisti non fanno le riforme e i rivoluzionari non fanno la rivoluzione.
"Foa è stato uno dei miei punti di riferimento. Ma ora mi viene in mente la battuta di un dirigente locale: "Il socialismo è quello che il suo tempo lo fa". È la storia che di volta in volta privilegia la componente riformista o quella "intransigente". Se uno reinterpreta quegli accadimenti con il senno di poi - ma è troppo facile! - le ragioni della storia sono dalla parte di Turati, del suo gradualismo riformista. Il problema è che il leader socialista non riesce a tradurle in una pratica politica. E queste ragioni non gli vengono riconosciute nel momento in cui vive".
È evidente la tua simpatia per Turati.
"Sì. Ma sono affascinato anche da una figura per molti aspetti agli antipodi che è Antonio Gramsci. Entrambi non sono solo dei militanti, ma provano a mettere in campo una teoria politica. Quella gramsciana dei consigli di fabbrica incontrò molte diffidenze nel partito e nel sindacato. Fu messo sotto accusa per il fallimento della stagione rivoluzionaria con l'occupazione delle fabbriche a Torino. Ed è anche per queste critiche che Gramsci non parlò al congresso. Nonostante il suo nome sia stato invocato più volte dalla platea, preferì non sporgersi dal palco".
A proposito della dannazione, tu scrivi che è come se la dinamica dei corpi sociali fosse indipendente dalla teoria. I socialisti predicano fratellanza e solidarietà ma non riescono a praticarla, dividendosi costantemente in fazioni.
"Il socialismo è stato un'infaticabile fabbrica di teorie e di modelli sociali, ma ha finito per prevalere il settarismo: ogni corrente ha ritenuto che il proprio modello ideale fosse migliore di quello degli altri. Da qui deriva la tragedia della sinistra italiana: gli avversari dentro lo stesso campo politico diventano i principali nemici. Ed è un destino che ha colpito anche la mia generazione".
Nel libro racconti come nasce la scintilla socialista. Ma in te quando è scoccata la fiammella della sinistra?
"Il primo a parlarmi di politica è stato uno zio che abitava accanto a casa mia a Dronero. Era anticlericale come mio padre e lo ricordo seduto in poltrona immerso nella lettura dell'Espresso formato lenzuolo".
Un liberale di sinistra?
"No, decisamente un uomo di sinistra. Poi sono andato avanti confusamente per conto mio. Con un vantaggio enorme rispetto alla leva precedente: la mia generazione è arrivata alla politica adulta con il Sessantotto e l'invasione della Cecoslovacchia per cui non ha dovuto sciogliere il nodo del sovietismo. Ci siamo tutti battezzati alla politica diventando contemporaneamente di sinistra e antisovietici".
Tu facevi politica?
"No, non direttamente. La facevo attraverso i giornali che inventavo ovunque io fossi: prima in collegio, poi al liceo, e nel mio paese, dove ancora escono regolarmente alcune di quelle testate. La prima volta fu in terza media: ero compagno di classe del figlio del tipografo di Dronero che aveva un ciclostile. Ma la preside mise fine bruscamente all'avventura".
Cosa voleva dire essere di sinistra?
"Nella parte d'Italia dove vivevo, nel basso Piemonte al confine con la Francia, significava stare all'opposizione rispetto al potere politico: era una zona fortemente democristiana che in questi ultimi decenni ho visto mutare dai toni felpati della Dc all'urlo leghista. Allora lo scudocrociato era il nostro avversario. Con i miei amici passavamo ore a sfigurare i loro volantini in sostegno di questo o quel sindaco: al posto del "sì" incollavamo un "no" e poi facevamo volantinaggio nel segno del rovesciamento".
Un incontro che ti ha segnato?
"Norberto Bobbio, professore di Filosofia del diritto: è stato il primo corso che ho seguito alla facoltà di Legge, a Torino. Una volta entrò in classe buttando la cartella sul tavolo: erano appena accaduti i fatti di Avola e Battipaglia, le rivolte contadine soffocate dalla polizia nel sangue. Ha cominciato a camminare su e giù davanti alla cattedra e con uno dei suoi scatti nervosi si è rivolto a noi: ma insomma, alla vostra età e con quel che è successo, non avete niente di meglio da chiedermi che farvi lezione? Fece una dissertazione sulla violenza".
Poi hai approfondito l'amicizia grazie al lavoro.
"Mi ricordo la lunga lettera che gli scrissi nel 1990 durante il volo da Mosca a Torino. Ritornavo alla Stampa come condirettore accanto a Paolo Mieli, dopo tre anni di corrispondenza in Urss per Repubblica. Sentivo il bisogno di raccogliere i vari pezzi della mia esperienza giornalistica - cronista del terrorismo, giornalista parlamentare, il lavoro in Russia durante la perestrojka - per impostare la fase nuova che mi aspettava. La Stampa rappresentava un potere forte, la Fiat. Ed era radicata nel quotidiano la linea culturale dell'azionismo. A me interessava l'autonomia del giornale dalla politica, e l'autonomia della politica dai poteri forti. Avvertivo l'urgenza di dialogare su questo con Bobbio. Si può dire che ho sempre cercato la sinistra. Anche attraverso il mio lavoro".
Sulla Stampa, sotto la tua direzione, le voci dell'azionismo erano molto presenti in prima pagina.
"Era giusto che trovassero libera espressione. E anche Repubblica è stata il tentativo di unire la cultura liberalsocialista agli altri pezzi della sinistra italiana. In questi lunghi anni è capitato che qualcuno per insultarmi mi abbia detto: azionista! Io tra me e me rispondevo: magari...".
Nel libro racconti la Torino del primo Dopoguerra dove avviene l'incontro tra Gramsci e Gobetti, tra la matrice comunista e la cultura liberale che si apre al socialismo. Quanto ha contato la memoria storica di Torino nella tua formazione?
"Moltissimo. È qui che è cominciato il mio lavoro di cronista. La Gazzetta del Popolo è stato un grande amore dove ho fatto anche il sindacato: chiuso nel 1974, il giornale continuò a uscire grazie a una cooperativa di giornalisti e poligrafici. Lavoravamo di giorno e di notte occupavamo la redazione, con grandi avventure, grandi amori, grandi amicizie. Quello che ho imparato politicamente lo devo al mestiere. Soprattutto negli anni del terrorismo, che è stata la guerra della mia generazione".
In che modo ne è uscita fortificata la tua coscienza di sinistra?
"Nell'ottobre del 1977 le Br gambizzarono Antonio Cocozzello, un consigliere comunale democristiano che era stato protagonista delle lotte contadine in Basilicata. Aveva studiato grazie al sindacato. Arrivai quando i soccorritori gli stavano tagliando i pantaloni: lo vidi a terra, dolorante, le mutande da mercato che poteva avere mio nonno. Mi indicò una cartellina di plastica marrone: per favore, portala alla Cisl, dentro ci sono le pratiche di due pensionati. Tornato al giornale, lessi il comunicato dei terroristi che lo indicava come "servo delle multinazionali". Il giornalismo mi ha messo sempre davanti i fatti, aiutandomi a capire come stanno veramente le cose".
Hai sempre votato a sinistra?
"Sì, ma ponendomi ogni volta una domanda: cosa serve al Paese che io faccia? E la risposta è sempre stata il voto a sinistra".
Hai avuto rapporti più stretti con qualcuno dei leader storici del Pci?
"Ho incontrato molte volte Giancarlo Pajetta, sia a Torino che a Mosca. E ho avuto un buon rapporto con Enrico Berlinguer, anche se intorno a lui si formava sempre un semicerchio di rispetto: la sua estrema riservatezza ti obbligava a un passo di distanza. Ma alla fine di un'intervista, nella sua stanza di Botteghe Oscure, mi sorprese parlandomi di Juventus".
Chi speravi fosse il suo successore alla guida del partito?
"A un certo punto ho sperato in Luciano Lama, un leader dalla personalità carismatica. Mi ricordo le lunghe chiacchierate davanti alla sua scrivania di ferro. Quando Lama morì, l'avvocato Agnelli mi raccontò di essere andato a trovarlo nei giorni della malattia e che lo fece sedere sul suo letto. "Oggi posso dire quello che disse mio nonno quando morì Bruno Buozzi: è morto un galantuomo"".
Li hai frequentati sempre per lavoro?
"Sì. Anche se posso dire di aver visto Alessandro Natta in pigiama. Lo seguii in Cina per una visita a Deng Xiaoping, che ci apparve con una potenza scenica straordinaria. Una notte arrivò dall'Italia la notizia del conflitto su Sigonella tra il presidente del consiglio Craxi e l'amministrazione americana. Ci precipitammo a svegliare il segretario del Pci. Ma Natta si rifiutò di fare dichiarazioni".
Quando hai visto cambiare i comunisti?
"Il cambiamento era cominciato nel 1981, con lo strappo da Mosca. Ma purtroppo non li ho visti cambiare abbastanza. Berlinguer ha fatto il passo più importante, ma era tutto interno all'orizzonte comunista. È una questione che ho discusso con Gorbaciov a Mosca: anche il segretario del Pcus era riuscito a dare una spallata decisiva al sistema sovietico, ma ne è rimasto dentro. Non è stato capace di trovare l'apriscatole che lo proiettasse fuori".
Dalla Russia ti sei portato indietro amicizie comuniste?
"L'unica fotografia che conservo è quella insieme a Sacharov, il fisico dissidente riabilitato da Gorbaciov nell'86. Ci vedevamo spesso a casa sua, in cucina, insieme alla moglie Elena Bonner. Si sarebbe potuto accomodare nel ruolo dell'ex perseguitato omaggiato dal mondo, invece aveva a cuore il cambiamento radicale del sistema sovietico, con la battaglia per i diritti: immune da qualsiasi spirito vendicativo, guardava in avanti".
Oggi lamenti che la sinistra in Italia non abbia un nome e un'identità.
"I due nomi che l'hanno definita nel secolo precedente sono durati uno troppo a lungo, il comunismo, finito solo dopo il crollo del Muro di Berlino, e l'altro troppo poco, il socialismo, suicidatosi in una pratica politica condannata da Tangentopoli. I socialisti avevano le ragioni della storia, ma non le hanno sapute tradurre nella politica. I comunisti hanno avuto la forza politica senza avere le ragioni della storia. E non sono stati capaci di fare il rendiconto conclusivo. Per anni ho sperato che socialisti e comunisti risolvessero la loro dannazione, ma così non è stato".
Che cosa significa per te essere di sinistra?
"Significa credere nella possibilità di un cambiamento, mettendosi dalla parte di chi ne ha più bisogno. Ho gli stessi amici dai tempi del liceo e ogni volta ci diciamo: ci siamo tutti - più o meno - e siamo ancora intatti, nel senso che siamo rimasti fedeli a un'identità che è anche la cifra del nostro stare insieme".
A chi guardi per il futuro della sinistra italiana?
"Tanti anni fa mi sono augurato un papa straniero. Oggi spero che una nuova figura venga da quella che Turati definiva la "borghesia del lavoro": qualcuno che voglia spendere le sue esperienze di vita e le sue competenze nell'avventura della sinistra italiana. Il problema è che se questo potenziale leader vuole cercare la casa del partito della sinistra italiana fatica a trovarla. Probabilmente non c'è il campanello sul pianerottolo e, se bussa alla porta, nessuno va ad aprirgli. Ma io finisco il mio libro con una ragazza che cuce il simbolo sulla bandiera rossa. Forse è arrivata l'ora del grande rammendo allo strappo del 1921". Sul Venerdì del 20 novembre 2020
A cent'anni dal congresso di Livorno. Croce, Labriola e Gentile sono i veri fondatori del Partito Comunista Italiano. Biagio De Giovanni su Il Riformista l'11 Dicembre 2020. Quello strano animale politico che è stato il PCI nacque storicamente come Pcd’I nel 1921 dalla scissione di Livorno, ma politicamente si costituì nel 1926 quando gli ordinovisti, e soprattutto Gramsci e Togliatti, ne presero la direzione. Esso non sarebbe stato quel potente e non illusorio ircocervo che è stato, se il suo vero atto di nascita culturale non fosse stato in quel dibattito, che si svolse tra fine 800 e primo 900, tra Antonio Labriola, Benedetto Croce e Giovanni Gentile, con il quale Marx entrò nella cultura italiana. Azzardo una ipotesi: una delle ragioni per le quali l’Italia non ha mai salutato la nascita di una socialdemocrazia è proprio in questo passaggio indicato, quanto mai decisivo: Marx non è entrato in Italia attraverso un Bernstein, come in Germania, pensatore che mobilitò il revisionismo riformista e socialista, ma attraverso la potenza di due “categorie” schiettamente legate a una filosofia della forza e del destino della storia: Materialismo storico, con Antonio Labriola; Marx filosofo del rovesciamento della prassi, con Giovanni Gentile, quest’ultimo considerato da Togliatti, ancora nel 1919, “il maestro delle nuove generazioni”. La cultura può avere un effetto dirompente sulla nascita delle formazioni storiche, e il dibattito che ho ricordato, lo ebbe sulla forma e sulla storia del PCI, e determinò largamente la sua originalità, unico partito comunista dell’Occidente governato da una grande e colta aristocrazia politica, non pochi dirigenti educati pure da Benedetto Croce; unico, arrivato alle soglie del governo, e con un ruolo decisivo nella storia d’Italia e nella sua cultura. Con Labriola fu introdotta la concezione materialistica della storia dotata di una raffinata “previsione morfologica” sul destino mondiale del comunismo; con Gentile entrò Marx filosofo della prassi, valorizzato al massimo con la traduzione delle marxiane “Tesi su Feuerbach” operata dallo stesso Gentile, che almeno in parte hanno orientato anche i “Quaderni” di Gramsci e l’insieme del dibattito italiano per lungo tempo. Croce, nel 1917, ripubblicando i suoi scritti su Marx, vide, nella idea di potenza e di genuinità della forza, il contributo decisivo che Marx aveva dato alla nuova elaborazione della politica, liberandola “dalle alcinesche seduzioni della dea Giustizia e della dea Umanità”. Dove poteva trovar spazio ideale una socialdemocrazia? Il partito nascente si liberò del comunismo di sinistra antibolscevico e antistalinista di Bordiga, e si collocò nella cultura di uno storicismo pensato nella prospettiva di un destino necessario, carico di influenze “idealistiche”. La filosofia della prassi di marca gentiliana operò, pure oltre i suoi rigetti ufficiali, inevitabili dopo le scelte politiche del filosofo, come una filosofia del rovesciamento della prassi, tema intorno al quale si svolse la discussione sul marxismo in Italia, oltre i nomi ricordati, fino a Giuseppe Capograssi e Rodolfo Mondolfo. Al centro del dibattito originario non fu “Il Capitale”, se non per la tesi neutralizzante di Benedetto Croce sul significato della teoria marxiana del “valore-lavoro”. Il partito che rinacque nel dopoguerra, con la guida di Togliatti, fu, insieme, stalinista nella visione del destino della storia e “ultra-culturale”, se così si può dire, nella centralità che diede al rapporto con gli intellettuali e a una elaborazione relativamente autonoma sul destino della rivoluzione in Occidente, soprattutto dopo la pubblicazione dei “Quaderni” di Gramsci. Un ircocervo, capace di contribuire alla elaborazione della costituzione e a una forma di governo costante della società italiana, ma che restò irrimediabilmente legato al destino dell’Unione sovietica, tanto che morì insieme ad essa dopo il 1989: simul stabunt, simul cadent, la sempre riaffermata e anche reale autonomia non aveva la forza per opporsi a questo destino. Qui ancora si rivelava qualcosa dell’atto di nascita del partito, spesso irriconoscibile sotto la spinta degli eventi: un materialismo storico dotato di un destino necessario che era nella vittoria mondiale del 1917, l’umanità finalmente liberata; e una filosofia della prassi che doveva, democraticamente, rovesciare il senso di continuità della storia. Ortodossa la visione generale, che impedì ogni vero distacco dall’Unione sovietica, seguendo i ritmi di quella storia, legando ad essa, solo qualche volta problematicamente, il suo destino; tutt’altro che ortodossa la prassi politico-parlamentare e il pensiero che le corrispose, secondo la doppia natura dell’ircocervo. E su questo punto va detto qualcosa di più, per completare quella che chiamerei la prima puntata di una riflessione. Mai il Pci fu una socialdemocrazia, mai penetrato dalla sua cultura; il suo “riformismo”, per quel che operò fortemente nella società italiana, voleva sempre essere “di struttura”, ossia capace di toccare la radice di un rovesciamento della prassi che nessuna socialdemocrazia aveva pensato di smuovere. La democrazia in occidente implicava la lotta per la conquista dell’egemonia, un gran principio innovatore della scienza politica fondata da Gramsci, onde anche l’enorme lavoro culturale e i dibattiti filosofici degli intellettuali legati in forme varie al partito, che formarono il ricco filone del marxismo italiano. Una egemonia che, vincente, avrebbe trasformato la democrazia in “democrazia progressiva”, verso comunismo realizzato, problema tutto da discutere, ma che faceva intravedere una difesa concettualmente strumentale delle istituzioni com’erano. Una “doppiezza” che non va criticata moralisticamente, dato che quella parola si definisce con una vera valenza storica, legata al destino previsto per la storia del mondo. Tema che aprirebbe un altro capitolo, rinviato, Direttore permettendo, a una seconda puntata.
La fine di un mondo. Maledetta Livorno: aveva ragione Turati, non Gramsci. Bobo Craxi, Riccardo Nencini su Il Riformista il 28 Novembre 2020. Il 21 gennaio del 1921, a Livorno, il Congresso del Partito Socialista si concluse con una scissione. La frazione comunista, guidata da Amedeo Bordiga e Antonio Gramsci, si staccò dal partito e fondò il Partito Comunista. “E quando avrete fatto il Partito Comunista Italiano, quando avrete impiantato i Soviet in Italia, se vorrete fare qualcosa che sia rivoluzionaria per davvero, che rimanga come elemento di civiltà nuova, voi sarete forzati, a vostro dispetto, perché siete onesti, a percorrere la via dei socialtraditori, e questo lo dovrete fare perché questo è il socialismo che è solo immortale, che è solo quello che veramente rimane di vitale in tutte queste nostre beghe e diatribe…”. Filippo Turati, il leader della corrente di minoranza del PSI, sconfitto ma non domo ammoniva i compagni della corrente “comunista unitaria” nel tumultuoso Congresso del 1921, e profetizzava che presto o tardi l’illusione di poter fare “come a Mosca” e trasferire la rivoluzione proletaria si sarebbe trasformata in una catastrofe proprio per coloro nel nome della quale essa si era compiuta, e che il Socialismo si sarebbe potuto inverare attraverso altre strade e altri mezzi. C’è dell’altro da considerare. Il Congresso si tiene nel momento del fascismo nascente. La strage di Palazzo d’Accursio del novembre 1920, a Bologna, rappresenta l’aurora dello squadrismo armato. Eppure, a Livorno, solo in pochi si avvedono del cambio di passo. Matteotti, Vacirca, Turati. La corrente comunista giudica il fenomeno passeggero, il singulto della borghesia, la dimostrazione della crisi irreversibile del capitalismo. Anche Gramsci la pensa così. Siamo all’esordio di una storia nuova, terribile, e solo un pugno di delegati, tutti riformisti, ne ha piena contezza. Superfluo ricordare chi avesse ragione. Non fu una rottura ideologica, Turati continuava a professare e ad attuare una inclinazione marxista adattata ai tempi e alle condizioni del Paese ma assieme alla sua corrente “riformista” del PSI si differenziava nella valutazione dei processi che avrebbero condotto a maturazione la società socialista. E la sua fu una differenza radicale che condusse i riformisti, molto tardi nella Storia, ad avere ragione e gli scissionisti che generarono il Partito Comunista Italiano torto. Si contestavano tre punti essenziali: 1) l’uso della violenza 2) la dittatura del Proletariato 3) la coercizione del dissenso. In sintesi “il culto della violenza” eretto a prassi e dottrina politica, cultura che si è tramandata a lungo nella storia della sinistra italiana che prese le mosse dalla scissione del Partito Socialista a Livorno. La vecchia mentalità insurrezionalista, blanquista, giacobina che si era riaccesa durante la Prima guerra mondiale e che fu indiretta causa della illusione rivoluzionaria che causò la prevedibile reazione. (Non sappiamo giudicare se la cosiddetta “rivoluzione italiana” degli anni Novanta abbia prodotto il medesimo effetto, vista l’insorgenza di una robusta destra reazionaria ai giorni nostri: però qualche sospetto ci è venuto). Turati non poté che ribadire a Livorno nel 1921 il valore del riformismo e del gradualismo come metodo, di fronte a un mito, quello della Rivoluzione russa, destinato prima o poi a svanire come tutte le illusioni, e le sue solenne considerazioni rimangono scolpite come una delle più grandi profezie della Storia politica italiana. Le pagine della Storia devono essere rilette perché esse illuminino il futuro, d’altronde è cambiato il secolo, si è trasformata la politica e potremmo dichiarare definitivamente tramontata la stagione delle diatribe e delle divisioni nel campo della sinistra italiana. Tuttavia, se non fossero perdurati a lungo i miasmi della lunga stagione di divisione storica fra il socialismo democratico e il comunismo, in Italia si potrebbe affermare che da tempo la cosiddetta scissione di Livorno sta alle nostre spalle. La verità è che stanno alle nostre spalle le ragioni contemporanee che la produssero ma non le identità che da essa generarono quella scissione che fu un atto di nascita, quello del Comunismo italiano e la sua separazione dal Socialismo. E se lo strappo dal Comunismo mondiale, un minuto dopo e non un minuto prima che accadesse il drammatico decesso, vide la nascita di un’esperienza politica che ne cancellò le insegne, tuttavia non si sanò mai la frattura consumatasi all’interno del percorso materno che resta quello del Socialismo italiano. Rifiutata l’ipotesi del “ritorno al futuro” ovvero del ricongiungimento formale e sostanziale nell’alveo del Socialismo italiano, ciò che fu generato attraverso il mancato superamento e revisionismo della scissione comunista di Livorno fu una perpetua partenogenesi di organizzazioni e movimenti politici senza definita identità e per giunta progressivamente annacquati nell’alleanza e fusione con gruppi e movimenti non consanguinei della storia del Movimento operaio e socialista. Ora la questione che si pone nella sinistra democratica, che si definisce “riformista” nel mondo moderno, riguarda ancora questioni di fondo, di metodo e di prassi nella lotta politica e di interpretazione dei modelli di società, a maggior ragione oggi che nella società globale aggredita dal medesimo incubo pandemico si stagliano all’orizzonte delle esperienze che riecheggiano le mitologie dei primi del secolo scorso. Non è forse “comunista” la potenza che si è affacciata nel mondo con il suo dinamismo e approccio truffaldino, ovvero quel vero e proprio ircocervo ideologico che è rappresentato dalla sintesi cinese di un turbo-capitalismo liberista per giunta guidato dal partito unico e dal suo comitato centrale? E quale rapporto si intende instaurare con le nuove esperienze che non nascondono la propria identità “socialista”, che sono state decisive nella vittoria dei democratici americani, attardatisi negli anni a difendere fallimentari “terze vie” che avrebbero dovuto superare i modelli socialdemocratici e le virtù più che mai attuali della capacità dello stato di essere decisivo negli orientamenti economici, proprio in presenza di un’aggressiva e onnivora ondata capitalista? Affrontiamo quindi l’occasione della celebrazione della nascita del PCI come un’occasione di riflessione politica e ideologica opportuna, nel rispetto e nella considerazione che si deve a una forza politica che è stata essenziale nell’affermazione dei valori nazionali e nella costruzione della Repubblica italiana, che è stata tanta parte della sinistra e che orienta ancora a un secolo di distanza una fetta consistente del suo popolo, dei lavoratori e delle giovani generazioni. La sua attualità, oggi come allora, sta nell’essere argine al populismo e ai nuovi autoritarismi, purché non ne assuma, come è accaduto in diverse fasi della politica del Paese, delle sembianze spurie. Non diciamo che il vento del populismo che spazza l’Europa e le Americhe sia fascismo tour court. No. E però esso va combattuto con tenacia e determinazione correggendo anzitutto gli errori che anche la sinistra ha commesso al tramonto del secolo scorso. Pensiamo all’Italia. La vulgata che lo Stato fosse onnivoro non era una falsità, e però una cosa è limarne le unghie, altro è smantellare pezzi di sanità pubblica e svendere aziende di Stato in settori strategici come è stato fatto dalla Sinistra al Governo. Una cosa è tagliare sedi universitarie in eccesso, altro non scommettere fino in fondo su ricerca e istruzione. Una cosa infine è il rispetto della legalità, altro è l’esaltazione dell’arbitrio giudiziario senza garanzie per gli imputati e l’utilizzo sistematico delle vicende giudiziarie per annientare e umiliare l’avversario politico. Quel che serve oggi, tanto più di fronte all’emergenza da pandemia, è uno Stato umanizzato, un canone sì riformista, dunque quanto mai rivoluzionario, che corregga le distorsioni della globalizzazione guidata da multinazionali e alta finanza, che restituisca all’Europa il ruolo che ebbe al tempo dei pionieri perchè possa inserirsi a pieno titolo nella competizione mondiale arrecandovi i valori del suo canone secolare: libertà, welfare, conoscenza, che, infine, si preoccupi di creare ricchezza senza dimenticare la massa crescente e disperata degli ultimi. Padre di questa storia e di questo futuro è il Socialismo umanitario. Per questa ragione, da socialisti ribadiamo le attualità prevalenti del metodo riformista, e intendiamo continuare a riflettere assieme a tutti coloro che mantengono vivo l’ideale e l’obiettivo di una società più giusta, più libera, solidale e moderna e vogliono richiamarsi ai valori più alti di un Umanesimo socialista adatto ai nostri tempi di cui più che mai sentiamo il bisogno.
La ripubblicazione. Ripubblicati gli interventi di Turati: “Il massimalismo è il male del socialismo”. Giuliano Cazzola su Il Riformista il 2 Ottobre 2020. Le vie maestre del socialismo è un volume curato da Rodolfo Mondolfo che raccoglie i principali interventi di Filippo Turati: dal resoconto sommario del discorso tenuto al Congresso di Imola l’8 settembre 1902 fino al resoconto stenografico dell’intervento svolto il 19 gennaio 1921 al Congresso di Livorno (durate il quale ebbe luogo la scissione da cui nacque il Partito comunista d’Italia). La prima edizione del libro risale al 1921 (la ristampa è del 1981); pertanto la raccolta non contiene gli atti del Congresso di Bologna del 1922 in cui divenne definitiva la rottura del partito con l’espulsione di Turati e della corrente riformista in conformità con le direttive della III Internazionale di indirizzo comunista che aveva imposto 21 condizioni (tra le quali, appunto, l’espulsione dei riformisti) al Psi a maggioranza massimalista per accettarne l’adesione. Nel Congresso dell’anno precedente (il 1921) la richiesta non era stata accolta; tale rifiuto divenne uno dei motivi della scissione comunista. Tuttavia, la precaria unità di Livorno non aveva attenuato i contrasti interni che paralizzavano il partito, proprio mentre stava dilagando lo squadrismo fascista e appariva sempre più urgente una iniziativa del movimento operaio. Turati, critico verso la «intransigenza contemplativa» dei massimalisti, utilizzava il suo prestigio in seno al gruppo parlamentare per rilanciare l’idea di una collaborazione con i popolari e i liberali contro i fascisti, in contrasto – fino alla rottura definitiva – con la direzione del Psi che puntava su una ripresa delle lotte di massa e dell’unità coi comunisti. I riformisti espulsi diedero vita al Partito socialista unitario (Psu.) – di cui fu eletto segretario Giacomo Matteotti – che si ispirava al tradizionale riformismo turatiano, ricercando la collaborazione con le forze politiche borghesi e operando per la riunificazione di tutti i socialisti su una linea di netta demarcazione dai comunisti rivoluzionari. Leggendo i discorsi di Turati si scopre un oratore eccezionale, non solo per la lucidità del pensiero, per l’analisi delle situazioni, per la memoria e l’interpretazione degli eventi nel divenire della storia del partito e del Paese, ma anche per la sottostante cultura classica e filosofica, per la capacità di esposizione, per l’ironia e le metafore che arricchiscono l’esposizione. In verità, a vedere il numero delle pagine dei testi trascritti (veri e propri saggi di politica, di storia ed altre umanità) ci si rende conto che i suoi interventi non avevano limiti di tempo, nonostante che subissero numerose interruzioni e creassero un clima da “botta e risposta” con l’uditorio per via delle divergenti idee e passioni politiche. Ma Turati tirava diritto senza perdere il filo del ragionamento e alla fine riscuoteva l’applauso di tutto il Congresso (con l’eccezione di quanti gli rivolgevano un polemico “viva la Russia”). Tanti sarebbero gli stimoli che provengono da quei discorsi, ma non possiamo affrontarli tutti. Ci soffermiamo sulla polemica di Turati a proposito del “massimalismo” in contrapposizione con la dottrina del “riformismo”, tratta dall’intervento che il grande socialista svolse al Congresso di Bologna del 1919. «Noi non crediamo al “massimalismo” – esordì Turati – Per noi un massimalismo semplicemente non esiste e non è mai esistito. Il massimalismo è il nullismo; è la corrente reazionaria del socialismo». Anche le distinzioni tra rivoluzionari e riformisti, fra transigenti e intransigenti «non sono che equivoci». «Vi è insomma il socialismo dei socialisti e quello degli imbecilli e dei ciarlatani». «La verità è che il suffragio universale, quando diventi consapevole, e questa non può essere che questione di propaganda e di evoluzione economica e civile, è l’arma più formidabile e più direttamente efficace per tutte le conquiste». «Tutta l’esperienza accumulata nelle lotte sindacali, politiche, elettorali, nei Comuni, nelle Province, con la propaganda indefessa, con l’azione parlamentare, con l’azione nei comizi e nei corpi consultivi per la legislazione sociale, nei Congressi nazionali ed internazionali, attraverso le persecuzioni fortemente patite, tutto ciò ha dato i suoi frutti, ha ampliato la nostra visione, ha fatto di noi uno dei partiti più forti in Italia e all’estero (….) Ora tutto questo dovrebbe andare per aria, tutta questa esperienza sarebbe stata pura perdita. Una nuova rivelazione s’è fatta improvvisamente come per prodigio. Al socialismo si sostituisce il comunismo (…) e un gretto ideale di violenza armata e brutale, la cosiddetta dittatura del proletariato che esclude d’un solo colpo dalla vita sociale tutte le altre capacità, tutti gli altri contributi, tutte le altre classi, la stessa grande maggioranza dei lavoratori; onde è chiaro che essa in realtà non sarebbe, non potrebbe essere per lunghissimo tempo, che la dittatura di alcuni uomini sul proletariato». Poi Turati assunse toni implacabili: «La violenza non è altro che il suicidio del proletariato (…. ) Oggi non ci pigliano abbastanza sul serio; ma quando troveranno utile prenderci sul serio, il nostro appello alla violenza sarà raccolto dai nostri nemici, cento volte meglio armati di noi». Sono parole che hanno in sé il dolore della profezia. Turati fu ancora più lucido profeta nel suo discorso al Congresso di Livorno del 1921. Rivolgendosi alla maggioranza massimalista e alla frazione comunista disse: «Ogni scorcione allunga il cammino; la via lunga è anche la più breve perché è la sola». E gettando lo sguardo oltre l’orizzonte di decenni ammonì: «Avrete allora inteso appieno il fenomeno russo che è uno dei più grandi fatti della storia, ma di cui voi farneticate la riproduzione meccanica e mimetistica, che è storicamente e psicologicamente impossibile e, se lo fosse, ci condurrebbe al Medioevo». «Tutte queste cose voi capirete tra breve e allora il programma, che state faticosamente elaborando e che ci vorreste imporre, vi si modificherà tra le mani e non sarà più che il nostro vecchio programma». «Ond’è – Turati si avviava alla conclusione – che quand’anche voi aveste impiantato il Partito comunista e organizzati i Soviet in Italia, se uscirete salvi dalla reazione che avrete provocata e se vorrete fare qualche cosa che sia veramente rivoluzionario, qualcosa che rimanga come elemento di società nuova, voi sarete forzati a vostro dispetto – ma lo farete con convinzione perché siete onesti (questo riconoscimento si è rivelato forse troppo generoso? ndr) – a ripercorrere completamente la nostra via, la via dei social-traditori di una volta; e dovrete farlo perché essa è la via del socialismo, che è il solo immortale, il solo nucleo vitale che rimane dopo queste diatribe». «Voi temete oggi di ricostruire per la borghesia, preferite lasciar cadere la casa comune e fate vostro il “tanto peggio tanto meglio” degli anarchici, senza pensare che il “tanto peggio” non darà incremento che alla Guardia regia e al fascismo». Quando Filippo Turati parlava così era il 19 gennaio del 1921. Il 28 ottobre dell’anno successivo ebbe luogo la Marcia su Roma. Turati morì in esilio a Parigi il 29 marzo del 1932. A Livorno era stato profeta anche di se stesso: «Voi non intendete ancora che questa ricostruzione, fatta dal proletariato con criteri proletari, per se stesso e per tutti, sarà il miglior passo, il miglior slancio, il più saldo fondamento per la rivoluzione completa di un giorno. Allora, in quella noi trionferemo insieme. Io forse non vedrò quel giorno…. Ma le riforme sono la via della rivoluzione e non si conquistano se non con lo sforzo assiduo, continuo, organico di tutte le classi popolari, unite ai rappresentanti dei partiti, con un’azione continua di erosione del privilegio: non v’è altra via».
La biografia. Chi era Filippo Turati, il padre nobile del socialismo democratico. Redazione su Il Riformista il 25 Giugno 2020. Nato a Canzo, provincia di Como, nel 1857, Filippo Turati era figlio di un alto funzionario statale. Intrapresi gli studi giuridici, si laureò nel 1877 all’università di Bologna per poi trasferirsi con la famiglia a Milano, dove frequentò A. Ghisleri e R. Ardigò, e iniziò la carriera di pubblicista come critico letterario. Negli anni successivi si avvicinò agli ambienti operai e socialisti e attraverso Anna Kuliscioff, compagna alla quale si legò per tutta la vita a partire dal 1885, entrò in contatto con alcuni esponenti della socialdemocrazia tedesca. Proprio in questo periodo Turati aderisce al marxismo. Nel 1889, insieme alla Kuliscioff, fondò la Lega socialista milanese, con l’obiettivo di creare un centro di aggregazione delle forze socialiste, primo passo verso la formazione di un partito autonomo della classe operaia. Questa azione, nel cui ambito si collocò la pubblicazione della rivista Critica sociale, culminò nel 1892 nella fondazione del Partito socialista dei lavoratori italiani (che dal 1895 assunse la denominazione Psi), cui Turati diede un contributo decisivo. Deputato a partire dal 1896, fu arrestato in occasione dei moti del 1898 e condannato a dodici anni di reclusione. Ma uscì di prigione l’anno successivo. Leader riconosciuto della corrente riformista, di fronte alla nuova fase politica avviata da G. Giolitti, Turati sostenne la necessità di appoggiare la borghesia liberale in un’ottica gradualistica. Antimilitarista, osteggiò la guerra in Libia (1911) e l’intervento italiano nel conflitto mondiale; nel dopoguerra il suo ruolo all’interno del Psi ormai guidato dalla componente massimalista, scemò. Espulso dal partito, nel 1922 diede vita, con Matteotti, al Psu. Nel 1926, dopo una fortunosa fuga organizzata da Parri, Rosselli e Pertini, si stabilì a Parigi, dove contribuì, nel 1929, alla costituzione della Concentrazione antifascista e, l’anno successivo, alla fusione socialista.
L'anniversario della nascita del Pci. Il problema non fu la scissione, ma i socialisti massimalisti. Giuliano Cazzola su Il Riformista il 6 Dicembre 2020. In vista del Centenario della fondazione del Partito Comunista d’Italia sono schierati ai nastri di partenza storici, saggisti, commentatori, testimoni, politici, pronti a rivisitare la storia di quello che fu il partito di Gramsci, Togliatti, Longo e Berlinguer (alla morte di quest’ultimo venne meno la “sacralità” del segretario generale) e che svolse – nel bene come nel male – un ruolo fondamentale nell’Italia del XX Secolo, non solo nella vita istituzionale, politica e amministrativa. La sua influenza condizionò la cultura, le arti, l’accademia, il sindacato, l’associazionismo, la magistratura e ogni espressione della società. La sua ideologia e la sua prassi orientarono milioni di concittadini che trovarono in quella militanza politica una ragione di lavoro, di vita e di speranza, riuscendo a formare e a selezionare gruppi dirigenti forgiati nello studio, nella lotta e nella disciplina. Eppure nello scenario politico attuale il Pci (questo è il nome che il Partito –ça va sans dire – assunse nel dopoguerra) ha avuto il medesimo destino di Atlantide: un continente scomparso senza lasciare traccia se non nel mito e nella leggenda. Quanti hanno vissuto quella storia – sia pure senza mai essere stati comunisti – non possono non provare un senso di smarrimento al cospetto della fine di un’epopea che non ha lasciato tracce di sé, i cui eredi hanno persino rifiutato di accettare un’eredità tanto gravosa, precipitandosi all’anagrafe della politica a cambiare le generalità. Il Pci, nonostante i giochi di parole delle “prese di distanza”, non ruppe mai con il sistema sovietico, se non quando l’Impero di Mosca, dopo il crollo del Muro di Berlino, si dissolse nel volger di pochi anni. Il partito seppellì il comunismo sotto le macerie e assunse un’altra identità, evitando accuratamente di rientrare nel filone del socialismo da cui era uscito nel 1921. La fine dell’Urss fu come la morte del dio di una religione laica, anch’essa corredata di dogmi, di teologia, di Sacre Scritture, di Santi, Martiri ed Eroi; persino di un catechismo atto a diffondere la dottrina tra le masse popolari. Il comunismo, nato dalla Rivoluzione d’Ottobre, come una Chiesa, condannò le eresie, catechizzò con la violenza intere popolazioni, promosse Concili, istituì la Santa Inquisizione per debellare le deviazioni, privò miliardi di persone della libertà in nome di una promessa di giustizia che non trovò mai posto sulla terra. Eppure, davanti alla miseria della politica e della sua classe dirigente di questa fase storica, anche gli avversari del Pci non possono che constatare – come il poeta davanti alla quercia caduta – «Or vedo era pur grande». Ma ci saranno tempo e occasioni per parlare del comunismo e del Pci; soprattutto argomenti. Con questo scritto vorrei dialogare con l’articolo degli amici e compagni Bobo Craxi e Riccardo Nencini, quando scrivono su Il Riformista: «Filippo Turati, il leader della corrente di minoranza del Psi, sconfitto ma non domo ammoniva i compagni della corrente “comunista unitaria” nel tumultuoso Congresso del 1921, e profetizzava che presto o tardi l’illusione di poter fare “come a Mosca” e trasferire la rivoluzione proletaria si sarebbe trasformata in una catastrofe proprio per coloro nel nome della quale essa si era compiuta, e che il Socialismo si sarebbe potuto inverare attraverso altre strade e altri mezzi». È vero la storia ha dato ragione a Turati («gli scorcioni non servono; la via lunga è anche la più breve, perché è la sola che esista»). Ma non al Psi del 1921, il partito che nell’ottobre del 1922, al Congresso di Roma, espulse la corrente riformista. Dopo la scissione (il pretesto fu trovato nella mancata espulsione dei riformisti in ossequio al diktat della III Internazionale) il PCd’I si rivelò, ben preso, una forza di minoranza. Pochi mesi dopo, nella competizione elettorale del 15 maggio 1921, il Psi ottenne 123 seggi (molti meno dei 156 delle elezioni del 1919), mentre il nuovo partito, nato a Livorno, elesse solo 15 deputati. Ma il dramma della sinistra non fu la scissione del gennaio 1921: Filippo Turati e Antonio Gramsci rappresentavano due minoranze di un Psi in mano ai massimalisti che fu il vero responsabile degli errori che in poco più di un anno aprirono – con la connivenza della Corona, dei poteri istituzionali ed economici – l’accesso al potere del Fascismo (nelle elezioni del 1919 il partito di Benito Mussolini si era presentato solo a Milano e non era riuscito a raggiungere neppure 5mila voti). Anche per la maggioranza del Psi il fascismo non era che «il fenomeno passeggero, il singulto della borghesia, la dimostrazione della crisi irreversibile del capitalismo». E l’obiettivo del «proletariato» in Italia era «fare come la Russia». Basta leggere il resoconto di quel Congresso (nel 1963 la Biblioteca socialista diretta da Lelio Basso pubblicò gli atti dei Congressi socialisti dal 1892 al 1937) che si svolse tra polemiche, contestazioni e interruzioni (Paul Ley nel suo saluto a nome del Partito socialista unificato tedesco affermo che ‘’l’unità del partito non è sempre un bene per il proletariato»). Il dibattito si concentrò subito (anche grazie ad una inversione dell’odg votata a maggioranza) sul punto 6) Indirizzo del Partito, Rapporti con l’Internazionale. Il Psi aveva chiesto l’adesione alla III Internazionale comunista e doveva quindi condividere i 21 punti che ne condizionavano l’accettazione. Tra questi il punto 7 obbligava i Partiti candidati «a riconoscere la completa rottura con il riformismo e con la politica di “centro” e a propagare questa rottura nella più ampia cerchia politica comunista». Nel sollecitare «incondizionatamente e ultimativamente l’effettuazione di questa rottura – proseguiva il testo – l’Internazionale comunista non può tollerare che opportunisti notori quali Turati, Modigliani, Kautsky (più un’altra seria di nomi, ndr) abbiano il diritto di passare per membri della III Internazionale». La frazione che si definiva dei “comunisti unitari” (ne facevano parte i maggiori leader massimalisti), non era determinata ad espellere i “concentrazionisti”, pur richiamandoli ad una più severa disciplina specie nel gruppo parlamentare (lo farà nel Congresso di Roma nell’ottobre 1922 poche settimane prima della Marcia fascista sulla Capitale). La mozione finale (a firma di Giacinto Menotti Serrati ed altri) riconfermava la «piena spontanea adesione alla III Internazionale» ed accettava i 21 punti intendendo che potessero essere interpretati «secondo le condizioni storiche e ambientali del paese’» e chiedendo perciò una sorta di esonero da Mosca. Per questi motivi Amedeo Bordiga (mozione comunista pura) prese la parola ed affermò che la maggioranza del Congresso si era posta fuori della III Internazionale; così invitava i delegati della frazione comunista ad abbandonare l’aula e a recarsi – al canto dell’Internazionale – nel Teatro San Marco dove sarebbe stato costituito il Partito comunista. Molto significativo, in proposito, l’intervento di Antonio Graziadei il quale rimproverò ai massimalisti di separarsi «dai più vicini per andare coi più lontani». Benché, dopo la vittoria socialista nelle elezioni amministrative, alcuni mesi prima a Bologna – il fatto è ricordato anche da Craxi e Nencini – fosse stato espugnato Palazzo d’Accursio ad opera delle squadracce fasciste, l’eco delle violenze, delle distruzioni delle Camere del Lavoro, delle sparatorie e delle spedizioni punitive, si avvertiva casualmente, a Livorno, all’interno di un dibattito di un partito impegnato a guardarsi l’ombelico e a cucirsi addosso un’ideologia che non gli apparteneva, ma i cui capisaldi erano già inseriti nel preambolo dello Statuto: la conquista violenta del potere politico e la dittatura del proletariato in vista della realizzazione del comunismo e della scomparsa delle classi sociali. Ma la sottovalutazione della minaccia fascista non era un limite della sinistra massimalista e comunista in Italia. Anche in Germania, il partito socialdemocratico – che diversamente dal Psi – era la colonna portante delle Repubblica di Weimar, il giorno prima di quello in cui Hitler ricevette l’incarico di formare il governo (30 gennaio 1933), aveva organizzato una grande manifestazione al grido di “Berlino è rossa”, mentre il giornale della socialdemocrazia, il Wortwars, scriveva: «La Germania non è l’Italia, Berlino non è Roma, Hitler non è Mussolini (questa considerazione, in senso inverso e a pelosa difesa del Duce, l’abbiamo sentita troppe volte da noi, ndr). Sbaglia di grosso – continuava il giornale – chi ritiene che qualcuno possa imporre un regime dittatoriale sulla nazione tedesca».
La ricostruzione del Pci. Togliatti, Gramsci e un’assenza: la svolta di Occhetto. Nino Bertoloni Meli su Il Riformista il 20 Novembre 2020. Articolo gentilmente concesso dalla rivista “Ytali”, diretta da Guido Moltedo. Complice il centenario della nascita del Pci (Pcd’I per la precisione) di qui a pochi mesi, è tutto un pullulare di studi, saggi e rievocazioni di quel 21 gennaio del 1921 destinato a segnare le sorti del Paese e di alcuni personaggi che quella storia segnarono e da quella storia furono segnati. A differenza che in altri Paesi, dove di comunisti e comunismo si è spenta ogni eco da tempo (chi si ricorda più di Marchais in Francia, di Carrillo in Spagna, o di Cunhal in Portogallo?) da noi la storia del Pci continua a produrre effetti, a segnare studi e attualità, se non è proprio viva, comunque non è morta. «Perché proprio in Italia nacque, continuò a crescere e produsse storia e politica il più grande Partito comunista dell’Occidente?», è l’interrogativo che si pongono Mario Pendinelli e Marcello Sorgi nel loro Quando c’erano i comunisti per i tipi di Marsilio. La risposta, l’asse attorno al quale ruota l’intero volume, è che da noi ci sono stati un certo Antonio Gramsci e un certo Palmiro Togliatti, più il primo che il secondo, ma comunque entrambi hanno segnato dapprima l’esistenza, quindi la resistenza e ancora dopo il radicamento nella società italiana, attraverso quell’arcinota e ultrastudiata interpretazione del marxismo completamente inserita nella storia e nella migliore tradizione del Paese (la triade De Sanctis, Croce, Labriola), facendo del Pci non tanto lo strumento per una presa del potere en attendent la fatidica ora X, ma un partito utile almeno a una buona parte della società italiana, perfettamente e sapientemente inserito nelle dinamiche politiche e sociali del Paese. Già, ma quale ruolo, quale strategia, quale gramscismo, infine, mettono in rilievo i due autori, giornalisti politici di lungo corso che nella maturità si cimentano con i temi della storia più che della cronaca, come accade sovente ai giornalisti di razza? Il primo capitolo del volume si intitola, a sorpresa, “Gramsci e il banchiere”. Oibò, non è che la vulgata del Pd, in parte erede di quella storia, come partito dei petrolieri, dei banchieri e di élite da ztl risale addirittura al fondatore? No no, il libro di Pendinelli e Sorgi apre con la descrizione dell’Ordine nuovo, il giornale fortemente voluto e diretto da Gramsci, le scale della cui redazione vengono percorse da personaggi che si chiamano Benedetto Croce, Piero Gobetti. E Raffaele Mattioli, il banchiere appunto, che aveva conosciuto il sardo Antonio rimanendone colpito come tanti altri, e che un ruolo di primo piano avrà in seguito nella salvaguardia dei Quaderni, assieme all’altro economista amico fraterno di Gramsci, Piero Sraffa. Mattioli impersona quel tipo di banchiere alfiere di un “capitalismo riformatore”, non rampante e men che meno selvaggio, un capitalismo umano e umanistico. Ne discende l’assunto del libro: quando i comunisti, al di là dell’ideologia, si sono cimentati con i problemi di riforma del capitalismo, anziché declamarne l’abbattimento salvo poi doverci fare i conti anche stando all’opposizione, allora la storia del Pci (e dell’Italia) ha offerto grandi sviluppi, importanti passaggi, si è riusciti insieme, capitalismo e finanza “buoni” assieme a quanti provenivano dal Pci, a tagliare le unghie al capitalismo “cattivo”, famelico, più rendita che investimenti, “l’anarco-capitalismo”, come lo chiamano i due autori. È la politica tenacemente perseguita da Ugo La Malfa che aveva orecchie attente e interlocutori a Botteghe Oscure in leader come Giorgio Amendola e Giorgio Napolitano, e per altri versi anche in Alfredo Reichlin, per citare i più noti. Nel libro c’è anche dell’altro, ovviamente, molto altro. Ci sono i primi anni del Pcd’I strettamente intrecciati con Mosca e l’Internazionale da una parte, e l’avvento del socialista Mussolini, dall’altra. C’è Lenin in formato bunga bunga che nel treno che lo porta in Russia per poi scatenare la rivoluzione porta la moglie e anche l’amante, piombata anch’essa; lo stesso Lenin che ritroviamo poi bacchettone a stigmatizzare l’amore extra coniugale come «deviazione piccolo borghese». C’è Gramsci in formato latin lover, che sposa Giulia Schutz ma che si scopre essere andato a letto anche con la sorella Eugenia (altri storici gossipari giurano anche di una storia con Tatiana, la terza sorella Schutz che lo seguì in Italia fino alla fine). A coronamento del volume, la ripubblicazione dell’intervista di Pendinelli a Umberto Terracini, del 1981, che da sola vale un volume di Spriano. Ci sono poi le testimonianze degli eredi di Gramsci e Togliatti: Veltroni, D’Alema, Fassino, Zingaretti, Salvi, e anche Gentiloni. Balza agli occhi un’assenza vistosa: Achille Occhetto. La svolta della Bolognina, che chiuse il Pci per dar vita al Pds, non trova nel volume particolare trattazione. Alla svolta sono dedicate tre paginette, e per ribadire la nota tesi dalemiana del “grande coraggio” di Occhetto non accompagnato però da un’adeguata cultura politica, la Bolognina come atto di coraggio ma scarso di elaborazione. Eppure è là, in quel 12 novembre del 1989, a pochissimi giorni dalla caduta del Muro, che il Pci decise di sopravvivere, ma con una diversa cultura politica, che si lasciava alle spalle categorie quali la fuoriuscita dal capitalismo, lo scontro capitale-lavoro, il proporzionale come tabù da non infrangere, tralasciava l’alternativa di sistema per approdare alla più occidentale e perseguibile alternanza. Come poi è stato. E propedeutica a tutto questo, la svolta fu accompagnata da una significativa, e contrastata, de-togliattizzazione, proprio a sottolineare che il Pds si lasciava alle spalle tutto un bagaglio da alternativa di sistema. «Togliatti non ha più nulla da dirci», scandì Occhetto, raggelando i Natta, Ingrao, Iotti, D’Alema, Tortorella. Sicché forse è l’ora di ribaltare la vulgata della svolta coraggiosa ma fragile culturalmente: il coraggio che mancò fu quello di sbaraccare l’apparato, la vecchia nomenclatura resistente e conservatrice, mentre le basi culturali permisero ai comunisti italiani di affrontare il mare aperto seguito alla caduta del Muro (e del resto, quali elaborazioni più alte ci sono state dopo la Bolognina, al di là dei programmoni dell’Ulivo prima e dell’Unione dopo, paginate e paginate di elenchi della spesa?).
A spianare la strada furono i socialisti. Marcia su Roma, le responsabilità della sinistra nella presa di potere dei fascisti. Giuliano Cazzola su Il Riformista il 6 Novembre 2020. Il 28 ottobre 1922 fu la giornata della Marcia su Roma (“e dintorni” come Emilio Lussu volle intitolare il racconto di quell’evento). L’organizzazione paramilitare del fascismo – sotto la guida del cosiddetto quadrumvirato, costituito il 16 ottobre, composto da Italo Balbo, Cesare Maria De Vecchi, Emilio De Bono e Michele Bianchi e stanziato a Perugia – iniziò a mobilitarsi il 27 con l’ordine di occupare le Prefetture, gli Uffici postali e telegrafici e le reti telefoniche. “L’esercito delle camicie nere” disponeva di un armamento raffazzonato e non sarebbe stato in grado di reggere uno scontro con le truppe regolari, scaglionate sulle strada di accesso alla Capitale agli ordini del comandante di quella piazza, il generale Pugliese. La mattina del 28 Luigi Facta (il presidente del “nutro fiducia”) portò al sovrano il decreto sulla proclamazione dello stato d’assedio, ma Vittorio Emanuele III non lo volle firmare; così le squadre fasciste entrarono indisturbate a Roma (vi furono tuttavia degli scontri nel Quartiere di San Lorenzo), mettendo a sacco le sedi sindacali, socialiste e comuniste. Nei giorni immediatamente successivi intervennero alcuni tentativi di mediazione, respinti da Mussolini; il Re decise allora di convocare il Duce per conferirgli l’incarico di formare il governo. Cosa che avvenne il 30 ottobre. Mussolini si presentò al Quirinale in camicia nera, scusandosi con il sovrano per non aver potuto indossare un abbigliamento più consono, in quanto – disse – “reduce dalla battaglia” (in verità Benito Mussolini, durante la parata delle sue squadre, si era ritirato a Milano, a un passo dalla Svizzera, dove intendeva rifugiarsi se l’avventura fosse fallita). Rivolgendosi al Re (quando era direttore dell’Avanti! lo definiva il signor Vittorio Savoia) affermò: «Porto a Vostra Maestà l’Italia di Vittorio Veneto, riconsacrata dalla vittoria e sono il fedele servo di Vostra Maestà». La Marcia su Roma fu l’epilogo di quello che gli storici definiscono il “biennio nero” (1921-1922), il periodo in cui cominciò a dilagare – incontrastata – la violenza fascista, con la complicità palese degli apparati dello Stato e il sostegno politico ed economico di ampi settori della borghesia, del mondo dell’impresa e dagli agrari. Il Partito socialista aveva sprecato la grande capacità di lotta che le masse operaie avevano espresso nel biennio precedente (“il biennio rosso”) culminato nell’occupazione delle fabbriche del settembre del 1920. Il gruppo dirigente non era stato in grado di far valere, sul versante istituzionale, il grande successo elettorale ottenuto nel novembre 1919, quando per la prima volta si votò col suffragio universale riconosciuto a tutti gli uomini che avevano compiuto 21 anni o, se più giovani, partecipato al conflitto bellico. Gli iscritti alle liste elettorali erano passati da 8,6 milioni a più di 11 milioni. Le diverse componenti liberali ottennero 178 seggi contro i 310 del 1913; i socialisti massimalisti 156 seggi contro i 52 precedenti; i popolari – al primo cimento elettorale – 100 deputati (il PPI era stato fondato da don Sturzo nel gennaio 1919); 39 i radicali, 27 i socialisti riformisti, 20 gli ex combattenti e 9 i repubblicani. I fascisti si presentarono solo a Milano ma ottennero circa 5mila voti e non elessero alcun parlamentare. Dopo le elezioni amministrative del 1920 in occasione delle quali i socialisti conquistarono più di 2mila comuni (1600 i popolari), nella successiva competizione politica, svoltasi il 15 maggio 1921, già si poteva intravvedere l’inizio del declino del Psi che ottenne 123 seggi (vi era già stata all’inizio del 1921, al Congresso di Livorno, la scissione del Pc d’I che elesse 15 deputati), mentre i popolari guadagnarono 8 eletti in più. I fascisti conquistarono 35 seggi, 10 i nazionalisti (coalizzati nei cosiddetti blocchi nazionali insieme alle liste liberali). Questi risultati del voto sono la prova che il Pnf costituiva una minoranza del Paese e che solo la violenza dello squadrismo e la benevolenza dei poteri economici aprirono a questo partito le porte del potere. Ma enormi furono gli errori e gli ostacoli incontrati dai socialisti e dai popolari a presentarsi come una reale alternativa. Se i popolari dovettero fare i conti con la Chiesa cattolica interessata alla linea di conciliazione offerta da Mussolini e ovviamente ostile al “pericolo rosso”, i socialisti fecero tutto da sé (anche se è innegabile che le milizie fasciste avevano usato il pugno di ferro contro il Partito e la Cgl). A cominciare dalla richiesta di aderire alla III Internazionale. Il loro programma consisteva nel “fare come la Russia”, istituire la Repubblica socialista e la dittatura del proletariato, socializzare i mezzi di produzione e di scambio e quant’altro passava il convento del “mito bolscevico”. Pertanto, nel nome della rivoluzione proletaria, veniva respinto, dalla maggioranza massimalista, ogni possibile intesa con altre forze. A testimonianza dell’impotenza settaria che esprimeva allora il Psi, basterebbe leggere gli atti del XIX Congresso nazionale svoltosi a Roma dall’1 al 4 ottobre 1922 (ossia poche settimane prima della Marcia su Roma) e prendere atto dell’ordine del giorno con cui era stato convocato: “Situazione interna del Partito e sua attività politica nel Paese e nel Parlamento. Appoggio a indirizzo di Governo e partecipazione al potere nell’attuale regime”. Ballando ormai sull’orlo del precipizio, i socialisti portarono a termine quella scissione che era nelle cose da tempo (che era stata evitata a Livorno e a Milano). I massimalisti decisero di espellere la corrente riformista e quella centrista in ossequio ai diktat della III Internazionale (“Il partito socialista, eliminato dal suo seno il blocco riformista-centrista, rinnova la sua adesione alla III Internazionale”). Gli esiti del voto (32mila per i massimalisti contro 29mila per gli unitari) spaccarono il Partito a metà. Il dibattito si caratterizzò per le accuse contro i riformisti (e i loro interventi di difesa). Le prime critiche vennero già nella relazione del segretario Fioritto, il quale attribuì agli avversari interni la responsabilità dell’insuccesso dello sciopero generale del 30 luglio (uno sciopero politico per chiedere alle autorità di contrastare le violenze fasciste): «I riformisti (il gruppo dirigente della CGL, ndr) proclamando tale sciopero all’inizio della crisi e sospendendolo alla sua conclusione e definendolo legalitario, lo avevano fatto apparire al proletariato come uno strascico montecitoriale, snervando le masse più accese». Dopo il segretario intervenne Giacinto Menotti Serrati: «Il nostro compito non è quello di aiutare la borghesia a risolvere la propria crisi, ma quello di trarre dalla crisi i vantaggi rivoluzionari». Per i riformisti Modigliani ironizzò: «Se i riformisti erano colpevoli di aver impedito la rivoluzione, non si sarebbe dovuto aspettare tanto tempo per espellerli». Poi, l’oratore in polemica con Serrati – come è scritto nei resoconti – negò l’esistenza di una crisi del sistema capitalista e borghese, sottolineando la necessità di distinguere fra ristretti gruppi plutocratici (…) e la borghesia democratica. Lazzari, poi, preconizzò che al Partito si apriva un campo d’azione nuovo e illimitato; deplorò l’autonomia del gruppo parlamentare chiedendo una severa punizione per i deputati che avevano trasgredito. I massimalisti criticavano, in particolare, Filippo Turati perché aveva accettato l’invito del sovrano a recarsi al Quirinale per consultazioni. A nulla servirono le argomentazioni di Claudio Treves, il quale smentì che i riformisti volessero cercare una collaborazione permanente con altre forze con le quali sarebbe stata tuttavia possibile una alleanza temporanea per “impedire che la reazione finisse per distruggere le conquiste e il patrimonio del proletariato”. Dopo Giacomo Matteotti, era di nuovo intervenuto Serrati sostenendo che «la logica del collaborazionismo avrebbe portato coloro che di esso si facevano fautori a collaborare col fascismo verso il quale andavano in quel momento le forze della borghesia». La mozione approvata riprendeva questo concetto e deliberava che «tutti gli aderenti alla frazione collaborazionista e quanti approvano le direttive segnate nel manifesto e nella mozione anzidetta, sono espulsi dal Psi». Il discorso di addio venne svolto da Filippo Turati: «Mentre noi ce ne andiamo rientra il comunismo». A Turati rispose Serrati: «Il discorso di Turati ha dimostrato quanto l’operazione fosse necessaria». La mattina del 4 ottobre i riformisti si riunirono e fondarono il PSU, eleggendo segretario Giacomo Matteotti; intanto, il XIX Congresso proseguiva all’insegna del delirio e del compiacimento per la pur tardiva “operazione chirurgica”, avendo la “malattia trascurata per un biennio provocato un danno incalcolabile all’organismo del Partito”. Nel prosieguo del dibattito Giacinto Menotti Serrati fece notare – è scritto nel resoconto – che, indipendentemente dalla pressione reazionaria (tanti municipi governati dai socialisti erano stati attaccati e distrutti, ndr) il Partito non poteva più condividere le responsabilità politiche dei Comuni con i partiti estranei». Per quanto riguardava il sindacato, i Comitati sindacali socialisti erano invitati a portare avanti politiche «per le quali il concetto di classe e di espropriazione economica e politica delle classi dominanti devono essere preminenti». Pochi giorni dopo la Marcia su Roma Menotti partì per partecipare al IV Congresso dell’Internazionale comunista che iniziò a Pietroburgo il 5 novembre.
Lo Stato etico di Gentile è anche un po' socialista. Nel suo testamento spirituale del 1943 il filosofo colloca la collettività davanti all'individuo. Corrado Ocone, Mercoledì 30/09/2020 su Il Giornale. Due belle notizie in una: riprende l'attività la storica casa editrice Vallecchi e subito esce per i suoi tipi la nuova edizione di una delle più importanti opere della filosofia italiana del Novecento: Genesi e struttura della società. Saggio di filosofia pratica, di Giovanni Gentile (pagg. 262, euro 18, introduzione di Marcello Veneziani). Diciamo subito che si tratta di un'opera molto particolare, per più motivi: prima di tutto perché segna per Gentile un ritorno alla speculazione dopo vent'anni di impegno soprattutto politico-culturale; poi perché, per molti aspetti, essa rivolta il senso del suo sistema di pensiero «neoidealistico», così come era andato delineandosi soprattutto nei due primi decenni del secolo. Inoltre perché, giungendo alla fine della sua vita, essa suona quasi come un testamento, e anzi come tale fu scritto, quasi di getto, a Tonghi, presso Firenze, da un Gentile che presagiva la morte. Era il 1943 e il filosofo, che sarebbe stato ucciso da un agguato partigiano il 15 aprile dell'anno successivo, si mise a lavorare per scrivere l'opera subito dopo aver pronunciato a fine giugno un lirico Discorso agli italiani in Campidoglio. In esso, egli proponeva una conciliazione nazionale in grado di far ripartire il Paese dopo la guerra civile che lo stava spaccando in due. A Mario Manlio Rossi, un suo allievo antifascista e che da filosofo farà una strana carriera in Scozia nel dopoguerra come docente di letteratura italiana, Gentile, mostrando il manoscritto finito dell'opera, così disse: «i vostri amici possono uccidermi ora se vogliono, il mio lavoro nella vita è concluso». Quale sia la novità di Genesi e struttura della società è presto detto: l'emersione della comunità all'interno di un pensiero che, per come era stato elaborato, poteva subire facilmente torsioni individualistiche. Se è infatti evidente che l'individuo idealistico non è quello empirico, è pur vero che è nell'uomo concreto in carne e ossa che si consuma tutto il dramma di un Atto puro che, come il fuoco, consuma il combustibile che gli viene dato e trascende sempre le pratiche realizzazioni umane. Ne consegue che, per paradossale che possa sembrare, l'attualismo di Gentile è un «idealismo senza idee», come ebbe a definirlo Vittorio Mathieu, e quindi è molto prossimo al nichilismo e al relativismo. Con questa prospettiva, veniva però a contrastare tutta l'esperienza fascista, e in fondo la stessa voce di Gentile all'interno di essa. Il nazionalismo, l'appello allo Stato etico, l'organicismo, tutti quelli che erano gli elementi essenziali a cui, non senza contrasto con le altre anime del regime, il filosofo di Castelvetrano aveva praticamente aderito, trovano ora una giustificazione teoretica, ma anche una rivisitazione critica. Si fa perciò ancora più forte il distacco di Gentile dal liberalismo, da quella che lui considera hegelianamente una visione atomistica e astratta della società umana. Il «noi» precede l'«io», e l'individuo è un risultato e non un dato. Ed emergono con ancora più nettezza i caratteri del regime politico ideale come Stato etico. Uno Stato, cioè, con una propria religione, un insieme forte di valori da trasmettere ai singoli pedagogicamente e paternalisticamente. È uno Stato e una comunità in interiore homine, certo, quella a cui pensa Gentile, ma l'insistenza sui valori sociali avvicina ora veramente il suo pensiero a quello socialista. D'altronde, il Duce stesso, che egli fino all'ultimo non volle tradire, si ricongiungeva in qualche modo, con l'esperienza di Salò, alle sue origini. In questa direzione teoricamente raffinata e socialisteggiante va anche l'insistenza, in Genesi e struttura della società, su un «umanesimo del lavoro» che deve affiancare quello della cultura che gli italiani elaborarono già in epoca rinascimentale. Comunque sia, la radicalità e la profondità di questo pensatore, di cui pure tanto non condividiamo, ci fa toccare con mano in modo impietoso il deserto culturale dei nostri tempi e la decadenza delle classi dirigenti della nostra povera Italia.
Nel settembre di 50 anni fa. Settembre 1920, quando la rivoluzione fu messa ai voti e perse…Giuliano Cazzola Il Riformista il 14 Settembre 2020. Può essere che mi sia sfuggita qualche rievocazione importante. È possibile che il virus abbia determinato amnesie nella memoria collettiva di una nazione, in particolare nel popolo disorientato e confuso della sinistra (sarebbe bene cominciare ad usare il plurale come si fa con le destre). Il fatto però è evidente: nel settembre di cento anni fa (il 1920) aveva luogo l’episodio culminante del “biennio rosso”: l’occupazione delle fabbriche. Nell’introduzione del saggio “L’occupazione delle fabbriche” (Einaudi), dedicato a quell’evento, Paolo Spriano – lo storico ufficioso del Pci – scrive: «Enorme fu l’emozione che esso produsse in tutto il Paese e non solo allora (Antonio Gramsci, in una nota dal carcere, si riferì all’episodio parlando della “grande paura”, ndr): chè, dopo decenni, l’occupazione delle fabbriche è ancora un richiamo obbligato nella vita sociale e politica italiana». Spriano esprimeva quest’auspicio nell’aprile del 1964. Da allora è trascorso un lasso di tempo molto lungo, ma non abbastanza per stendere, come è accaduto, un velo di oblio su di un pezzo di storia del movimento operaio.
Il “biennio rosso’’. Gli anni 1919-1920 furono definiti “il biennio rosso”, quando si accesero le speranze di “fare come la Russia”, dove erano in corso la rivoluzione dei soviet e la guerra civile. La Grande Guerra era finita da poco e aveva prodotto, oltre alla “inutile strage”, enormi sommovimenti politici e sociali. Nel febbraio del 1919 gli operai metallurgici avevano conquistate le “otto ore”, mentre sul piano politico, nelle elezioni generali, il Psi (forte di 200mila iscritti) aveva eletto 156 deputati alla Camera (affermandosi come il partito di maggioranza relativa). La Confederazione del Lavoro (Cgl) contava poco meno di due milioni di iscritti, di cui più della metà erano operai dell’industria (solo per ricordare le federazioni più importanti: 200mila edili, 160mila metallurgici, 155mila tessili, 60mila statali, 50mila impiegati privati e quant’altro). Sarebbe come sparare sulla Croce rossa, far notare che, nelle confederazioni di oggi, la metà degli iscritti sono pensionati. Ma la Confederazione “rossa” non era l’unico sindacato esistente e attivo. L’Usi – di ispirazione anarco-sindacalista – contava 300mila iscritti, mentre il “sindacato bianco”, la Confederazione italiana del lavoro (Cil), era forte soprattutto nelle campagne dove aveva l’80% dei 1,8 milioni di iscritti complessivi: uno dei suoi principali leader, Guido Miglioli, era definito il “bolsevico bianco”. Vi erano poi formazioni repubblicane in Romagna; il sindacato ferrovieri, autonomo dalla Cgl, con 200mila iscritti. Oltre ai tessili dove era forte la presenza di lavoratrici, il sindacato più importante era sicuramente la Fiom, diretta da Bruno Buozzi. La forza di questo sindacato, scrive Spriano, stava nel fatto che “le sue direttive venivano accolte ed osservate dalla grande maggioranza delle maestranze”. La federazione, attiva già nei primi anni del XX secolo, si “era fatta le ossa’’ durante la guerra, aumentando il suo potere contrattuale. Buozzi e i principali dirigenti, anche a livello periferico, erano socialisti riformisti (come del resto quelli della confederazione). Secondo l’autore, queste persone avevano una «concezione di grande rigidità che fa[ceva] della organizzazione centralizzata, della disciplina all’autorità del sindacato e al suo potere contrattuale una sorta di feticcio». Nella loro esperienza questi sindacalisti avevano visto e combattuto i guasti provocati del sindacalismo rivoluzionario nelle lotte di una decina di anni prima e avevano incanalato il movimento lungo un percorso strettamente attinente al negoziato delle retribuzioni e delle condizioni di lavoro. Secondo Spriano – nelle sue parole si avverte un giudizio politico critico – quel gruppo dirigente non vedeva con favore la nascita di strutture consiliari a cui venivano contrapposte le commissioni interne (istituite dall’accordo Itala-Fiom del 1906); su questo tema vi era disaccordo con i torinesi di “Ordine nuovo’’ (Antonio Gramsci, Palmiro Togliatti, Angelo Tasca, Umberto Terracini e altri) per i quali “il consiglio di fabbrica’’ era “il modello dello Stato proletario’’. Sul piano politico i leader sindacali non condividevano la linea della maggioranza massimalista del Psi (che guardava all’esperienza sovietica e si poneva come obiettivi l’istituzione della Repubblica socialista, la dittatura del proletariato e la socializzazione dei mezzi di produzione e di scambio). Da socialisti riformisti aspiravano «ad una collocazione diversa delle masse operaie e delle loro legittime rappresentanze nel quadro dello Stato democratico» nonché «ad una organizzazione produttiva che rispecchi il peso accresciuto di queste masse nell’economia del Paese». La conflittualità era molto elevata. Oltre al problema dei salari, del cosiddetto carovita (ci furono dei saccheggi nei negozi e nei mercati come reazione all’aumento dei prezzi), erano in corso processi di riconversione industriale post-bellica che provocavano un crescente livello di disoccupazione (in assenza di qualsiasi forma di tutela del reddito). In tutto il 1919 (ricorda Massimo L. Salvadori nella sua “Storia d’Italia’’) si ebbero 1663 scioperi nell’industria e 208 nell’agricoltura con un perdita complessiva di 22 milioni di giornate di lavoro. In agricoltura dopo una durissima lotta dei braccianti durata per mesi, i sindacati avevano ottenuto, con grande disappunto degli agrari, il cosiddetto imponibile di manodopera che costringeva i padroni a negoziare gli organici. Nel 1920 il numero degli scioperi superò i 2 mila.
L’occupazione delle fabbriche. Scrive Salvadori che a metà agosto del 1920 «maturò una situazione destinata a procurare un confronto durissimo fra il movimento operaio, gli industriali e la classe dirigente. Lo scontro – continua lo storico affrontando il nodo cruciale di quella fase – mise a nudo “tutto il velleitarismo e l’inconsistenza del massimalismo del Partito socialista», il quale, mentre propagandava tra le masse una vaga prospettiva rivoluzionaria, non avendo la capacità di prenderne la direzione, «faceva al tempo stesso montare nella borghesia una volontà controrivoluzionaria e inclinazioni autoritarie». La situazione precipitò quando, rotte le trattative contrattuali, la Fiom proclamò lo sciopero bianco ovvero una sorta di boicottaggio della produzione a cui gli industriali risposero, man mano, con la serrata. Si aprì una sorta di processo di botta e risposta tra serrata e occupazione delle fabbriche, fino a quando la Fiom impartì una indicazione di carattere generale in tal senso. Così l’occupazione, iniziata all’Alfa Romeo a Milano, si estese a tutto il triangolo industriale – e non solo tra i metalmeccanici – arrivando a coinvolgere 500mila lavoratori. Gli operai si misero a gestire in proprio la produzione e approntarono una forma di difesa militare armata delle fabbriche, affidata alle cosiddette Guardie rosse. Il loro inno di battaglia iniziava così: «All’appello di Mosca, plotoni roventi, sotto il rosso vessillo dei soviet di Lenin…..». Il Partito socialista si trovò a dover gestire una situazione che in pochi giorni si era aggravata e poteva sfuggire di mano da un momento all’altro. I più radicali tra i massimalisti vedevano in quel movimento, che si era diffuso inaspettatamente e in breve, l’anticipo di un processo rivoluzionario, mentre i riformisti, con i sindacalisti in prima fila, sostenevano che era necessario riportare e mantenere gli obiettivi della lotta su di un piano sindacale. La riunione decisiva si svolse la sera del 10 settembre (giusto un secolo fa) e vi parteciparono le Direzioni del Partito e della Cgl. Nel suo saggio, Spriano cita un brano dell’intervento di Ludovico D’Aragona, il segretario generale della Confederazione: «Voi credete (rivolgendosi ai massimalisti, ndr) che questo sia il momento di far nascere un atto rivoluzionario, ebbene assumetevi la responsabilità. Noi che non ci sentiamo di assumere questa responsabilità di gettare il proletariato al suicidio vi diciamo che ci ritiriamo e che diamo le dimissioni….prendete voi la direzione del movimento». «A questo punto», afferma Spriano, «tutti i membri della Direzione sono d’accordo nel ritenere che senza gli uomini della Cgl alla testa delle masse» il “grande salto” non si poteva fare. Così, l’ordine del giorno, presentato da D’Aragona, prevalse nella votazione finale. Spriano commenta questo esito in modo drammaticamente ironico: «La rivoluzione è respinta a maggioranza». Un altro protagonista di quella fase fu il presidente del Consiglio Giovanni Giolitti, il quale adottò una linea attendista rifiutando – benché sollecitato – di impiegare la forza pubblica a sostegno degli industriali. Anzi, impartì, come ministro degli Affari interni, ordini precisi e rigorosi di moderazione «Anche di fronte all’impiego di armi da parte della folla». Paolo Spriano, in proposito, cita il testo di un telegramma inviato da Giolitti l’11 settembre al Prefetto di Milano, nel quale lo invitava a persuadere gli industriali che «nessuno governo in Italia farà uso della forza, provocando certamente una rivoluzione, per far risparmiare loro qualche somma». E aggiungeva: «Uso della forza significherebbe almeno la rovina delle fabbriche». Si racconta che al sen. Giovanni Agnelli il quale premeva perchè “l’uomo di Dronero” facesse intervenire l’esercito per sgombrare le fabbriche, il presidente rispondesse: «Bene. Comincerò a prendere a cannonate la Fiat». Quando maturò il momento della mediazione Giolitti convocò le parti a Roma, il 19 settembre. Dopo sei ore di discussione fu raggiunta un’intesa molto favorevole per la Fiom: 4 lire di aumento al giorno, minimi di paga, caroviveri, maggiorazioni per il lavoro straordinario, sei giorni di ferie annuali, indennità di licenziamento. Per convincere gli industriali a cedere, Giolitti minacciò di emanare un decreto per istituire il “controllo sindacale” delle aziende. L’accordo sottoscritto fu sottoposto e approvato in un referendum dai lavoratori.
Il biennio nero. «Dopo l’occupazione delle fabbriche, le masse sindacali sentivano confusamente di essere state sconfitte – Spriano cita così un commento del tempo – ma non vedevano chiaramente né come né da chi». Salvadori sottolinea che l’occupazione delle fabbriche ebbe un triplice effetto: diede un colpo gravissimo alla linea politica di Giolitti che si era procurato l’ostilità degli industriali; rappresentò una inesorabile dèbacle del Partito socialista; inasprì ulteriormente i conflitti politici e sociali all’interno del Paese. Tra la fine del 1920 e l’inizio del 1921, il fascismo si sviluppò e prese rapidamente quota. si intensificarono le violenze, gli assalti alle Camere del Lavoro, alle cooperative, alle sedi e ai giornali socialisti (la sede dell’Avanti! venne devastata più volte). Cominciarono a nascere nuovi sindacati fascisti che imponevano con la forza i loro contratti favorevoli ai padroni. Gli iscritti al Fascio – citiamo sempre Salvadori – passarono dai 20mila della fine del 1920 a 200mila a metà dell’anno dopo. Filippo Turati aveva predetto che il rivoluzionarismo inconcludente avrebbe avuto come unico effetto di scatenare la violenza degli avversari. Pietro Nenni trovò, in un breve saggio, una definizione – “Il diciannovismo” – per quel complesso di vicende politiche che avrebbero portato in breve tempo alla sconfitta della classe lavoratrice e al fascismo. In quel saggio, il grande leader socialista, con riferimento alla linea di condotta della sinistra, ricordava una frase di Saint-Just: «Chi fa la rivoluzione a metà, si scava la fossa». In Italia, la rivoluzione era stata persino messa ai voti.
Il dibattito tra massimalisti e riformisti. La lotta e l’accordo, così nel 1920 vinse la strada riformista. Giuliano Cazzola su Il Riformista il 14 Ottobre 2020. Il 19 settembre del 1920 Giovanni Giolitti convocava le parti sociali a Roma, al Viminale allora sede della Presidenza del Consiglio, con l’intento di raggiungere un “concordato” che ponesse fine all’occupazione delle fabbriche (che era in corso, in alcune aree del Paese, da una ventina di giorni e che quindi durò meno del “maggio francese” del 1968). Lo statista liberale si era rifiutato – nonostante le pressioni degli industriali – di usare la forza per liberare le fabbriche dagli occupanti. Aveva intuito che l’unica possibilità di una soluzione incruenta risiedeva nel riuscire a riportare la vertenza sul terreno sindacale da cui era nata, sbandando nell’escalation delle forme di lotta: gli operai avevano adottato metodi di ostruzionismo a cui gli imprenditori avevano risposto con la serrata e i sindacati avevano di conseguenza ordinato l’occupazione delle fabbriche metallurgiche (poi estesa anche ad altri settori dell’industria e non solo). In pochi giorni il movimento aveva coinvolto 500 mila lavoratori, con picchetti armati sui cancelli degli stabilimenti. Giolitti era convinto che gli stessi dirigenti della Cgil e della Fiom, da veri socialisti riformisti, lavorassero per la sua stessa prospettiva, essendo consapevoli che proseguendo in quella lotta – all’inseguimento della chimera della rivoluzione – la classe operaia sarebbe stata condotta al massacro. All’incontro, nella sala del Consiglio dei Ministri al Viminale, erano presenti – scrive Paolo Spriano – oltre a due prefetti (Lusignoli e Taddei) – D’Aragona, Baldesi e Colombino per la Cgil, Marchiaro, Raineri e Missiroli per la Fiom; Conti, Crespi, Olivetti, Falk, Ichino e Pirelli per la Confederazione dell’Industria. Giolitti presiedeva la riunione e volle accanto a sé D’Aragona. Dopo sei ore di discussione il concordato venne sottoscritto. I suoi contenuti economici e normativi rappresentarono un successo per il sindacato, tanto che, il testo, sottoposto a referendum, fu approvato dalla grande maggioranza dei lavoratori. Ma, in quella stagione di miraggi, anche i sindacalisti riformisti non potevano evitare di misurarsi con l’obiettivo della socializzazione dei mezzi di produzione e di scambio; occorreva essere, quindi, convincenti e competitivi con quelli che promettevano di “fare come la Russia”, attraverso la scorciatoia della rivoluzione. In sostanza, non sarebbe bastato un risultato importante sul piano sindacale se non fosse stato considerato una tappa nella marcia del “proletariato” verso il socialismo. Così nel “concordato” la Cgil e la Fiom dovettero trovare una soluzione anche per la questione del “controllo operaio” (che era la “bestia nera” degli industriali) quale alternativa a chi prometteva i Soviet. Giolitti aveva sbloccato lo stallo mediante un decreto legge – scrive Paolo Spriano – che istituiva una “Commissione paritetica di 12 membri, incaricandola di formulare quelle proposte che possono servire al governo per la presentazione di un progetto di legge”. Anche allora vi era la consapevolezza che le Commissioni servissero per accantonare delle questioni difficili, sia pure attribuendo ad esse un valore fittizio rispondente sulla carta ai desiderata delle organizzazioni sindacali. Fatto sta che, in sede politica, la questione del controllo operaio divenne la cartina di tornasole del rilievo (o meno) dell’intesa. Sull’Avanti! del 21 settembre (due giorni dopo l’accordo) Giacinto Menotti Serrati, leader della maggioranza massimalista, iniziò l’offensiva critica. Partendo da un apprezzamento del risultato dal punto di vista sindacale, per quanto riguardava gli aspetti economici e normativi, Serrati sostenne che il concordato non fosse soltanto una vittoria dei metallurgici, ma anche di Giovanni Giolitti. Le critiche più severe, tuttavia, afferivano alla problematica del controllo operaio. «Il conquistato controllo delle fabbriche, quando pure riuscisse a funzionare non potrà che rappresentare una mistificazione o una corruzione. Il controllo – proseguiva l’esponente del Psi – è di per se stesso collaborazione. Se fatto veramente sul serio conduce inevitabilmente a trasformare gli operai in aiuti interessanti della gestione borghese». E di nuovo: «L’ora critica della vita nazionale non si chiude con un concordato di puro carattere sindacale»; aggiungendo poi un auspicio visionario: «Non passerà lungo tempo – saranno forse poche settimane – che una nuova lotta si ingaggerà indubbiamente», perché «la borghesia italiana non si salva con la firma apposta dai signori industriali al concordato imposto da Giovanni Giolitti». Gli rispose Filippo Turati su Critica Sociale (il quindicinale dei riformisti). «La rivendicazione del controllo operaio, mantenuto nei limiti in cui oggi è possibile e fruttuoso esercitarlo, è essa stessa una rivoluzione, la più grande, dal punto di vista socialista, dopo il conquistato diritto di coalizione e il suffragio universale, in quanto incide direttamente il diritto di proprietà, nella sua preminente matrice capitalistica». «Scopi immediati della riforma vogliono essere – in linea con le ripetute dichiarazioni della Confederazione Generale del Lavoro (allora saldamente diretta dai socialisti riformisti, ndr) – rendere il lavoratore partecipe della gestione dell’azienda, elevare la sua dignità, imparargli a conoscere i congegni amministrativi dell’industria, evitare di questa le degenerazioni speculazionistiche, ridestare nel lavoratore la spinta al lavoro, intensamente e gioiosamente produttivo». E da qui partiva la parte politica del ragionamento di Turati: «La futura graduale socializzazione delle industrie è condizionata a questi risultati più prossimi». A un secolo di distanza non siamo in grado di giudicare la buonafede di Turati ovvero se fosse davvero convinto – pur sostenendo un indirizzo politico corretto e condivisibile – che la Commissione paritetica avrebbe portato a compimento l’incarico. È invece palese la malafede di Serrati. Come disse un esponente socialista milanese a commento della sessione della Direzione del Psi che mise all’ordine del giorno la rivoluzione: «Noi sentivamo che la rivoluzione non si sarebbe fatta, perché la rivoluzione non si fa convocando prima un convegno dove si deve andare a discutere se si dovrà fare o non fare la rivoluzione. Questa è roba da Messico che si è voluto trasportare nel nostro Paese».
Un vero revisionista. Vide per primo le origini socialiste del fascismo. Morto il grande storico israeliano: studiò (da sinistra) la destra rivoluzionaria. Marco Gervasoni, Lunedì 22/06/2020 su Il Giornale. Qualcuno ha osato chiamare i distruttori di statue, « revisionisti». Non sappiamo cosa ne pensasse il grande storico Zeev Sternhell, morto ieri a Gerusalemme ma crediamo che, pur essendo un uomo di sinistra, sarebbe inorridito. Nato in Polonia nel 1935 ma trasferitosi prima in Francia e poi nel '51 in Israele, apparteneva infatti alla generazione dei revisionisti veri, quella di Renzo De Felice, di Ernst Nolte, di François Furet i quali, pur di qualche anno più anziani, ci hanno fatto capire il fascismo collocandolo nella storia non solo dell'Italia ma dell'Europa. E anche se si trovavano su posizioni politiche diversissime - conservatori De Felice e Nolte, liberale Furet, sinistra laburista Sternhell - ciò non ha impedito di intrecciare le loro ricerche in modo proficuo; lo storico non è un militante politico, o almeno non lo dovrebbe essere quando scrive Storia, un aspetto dimenticato da molti delle generazioni successive. Se infatti oggi possiamo pensare di conoscere meglio il fascismo, fenomeno non solo italiano ma europeo, lo dobbiamo proprio a Zeev Sternhell. Il suo primo libro, una tesi di dottorato all'Institut d'études politiques di Parigi, fu Maurice Barrès et le nationalisme francais (1972) ancora oggi fondamentale per capire lo scrittore nazionalista, ispiratore tra gli altri di De Gaulle. In nuce vi troviamo le tesi delle due opere storiche maggiori di Sternhell: La droite révolutionnaire, del 1978 (trad. Corbaccio, 1997) e Ni droite in gauche. Les origines françaises du fascisme del 1983 (tradotta da Akropolis nell'84 e poi da Baldini e Castoldi nel '97). Anche se De Felice, sulla scorta delle intuizioni di Augusto del Noce, aveva già collocato il fascismo all'interno di una tradizione di sinistra, figlio del giacobinismo e della Rivoluzione francese, Sternhell si spinge più lontano: pensa che il fascismo, quello francese, ma anche quello italiano, siano nati da un'evoluzione della cultura politica socialista. Ciò dovette costare non poco a Sternhell, già da allora membro del Partito laburista israeliano; anche se per lui non era stato il socialismo nella sua integralità a generare il fascismo, ma unicamente quello rivoluzionario critico del marxismo. Nei due volumi citati, Sternhell avanza poi una tesi ancora più radicale; che, contrariamente alla vulgata, sarebbe esistito un fascismo francese autoctono, già definitosi prima del 1914, a cui poi quello italiano si sarebbe ispirato. Sternhell traccia infine la genealogia storica di una destra rivoluzionaria, che in nome della nazione intende abbattere l'ordine borghese: una destra i cui più eminenti rappresentanti venivano dalla sinistra, irrorando così sangue nuovo in un campo conservatore esangue. Destra e sinistra rivoluzionarie si sarebbero poi fuse nel fascismo in nome del superamento delle due categorie; né destra né sinistra, appunto. Delle tre, oggi ci sembra più resistente la tesi di un fascismo francese come fenomeno originale, negli anni tra le due guerre. Allo stesso modo ci appare ancora plausibile l'interpretazione di un fascismo da inquadrare nella storia della sinistra. Infine, nessun studioso della destra, e non solo francese, oggi potrebbe rinunciare alla categoria di «destra rivoluzionaria». Più caduche invece ci appaiono altre conclusioni di Sternhell, in particolare quella della primogenitura prebellica francese del fascismo: senza la Grande guerra, lo schiaffo degli «alleati» all'Italia a Versailles e le violenze bolsceviche nel biennio rosso, non sarebbe mai nato il fascismo in Italia. E quindi non si sarebbe espanso neanche altrove, neppure in Francia. Ciò non toglie che i due libri citati di Sternhell restino dei classici contemporanei. Quelli successivi, Nascita di Israele (Baldini e Castoldi, 1999) e Contro l'illuminismo: dal XVIII secolo alla guerra fredda (Baldini e Castoldi, 2007), sono a nostro avviso poco riusciti. Nel primo, il tentativo di applicare la ricetta sternhelliana a Israele (sinistra più nazionalismo più attivismo uguale fascismo) con la condanna delle origini di Israele, nel cui esercito pure Sternhell servì più volte da valoroso militare, è stato duramente criticato. Così come lo sforzo di cercare le origini del fascismo nell'anti-illuminismo, a cominciare da Edmund Burke e da Johann Gottfried Herder, descritti alla stregua di ispiratori futuri di Mussolini e Hitler, è subito apparso piuttosto debole. Probabilmente Sternhell ha cercato di conciliare per tutta la sua vita marxismo, illuminismo, socialismo, tre fenomeni intellettuali-politici non sempre sovrapponibili e in alcuni momenti in contrasto tra loro. Ma anche in ragione del metodo storiografico scelto: diversamente da De Felice, non era un frequentatore di archivi, e come Nolte e Furet si poteva definire uno storico delle idee. Ma rispetto ai tre suoi maggiori di età, era meno attento al concreto e al contingente nella storia, che Sternhell tendeva a leggere secondo il lungo dispiegarsi delle culture politiche, senza considerare il fattore individuale e personale: frutto, questo, più del suo marxismo, di un illuminismo razionalistico. Ma sono inezie: ieri è scomparso un grande storico e chi vuole comprendere il '900 dovrà continuare a leggerlo ancora per lungo tempo. E a comportarsi da revisionista, ma in senso vero, di chi studia e non di chi abbatte i monumenti.
Dino Messina per il “Corriere della Sera” l'8 febbraio 2020. L'Alba nera del fascismo, che dà il titolo al bel volume di Antonio Carioti (Solferino) con prefazione di Sergio Romano, presenta in realtà forti striature di rosso. A cominciare dalle origini famigliari e dai primi passi politici del futuro Duce. Fedele al credo socialista del padre Alessandro, fabbro a Dovia di Predappio, Benito Mussolini si affina nelle frequentazioni giovanili in Svizzera dell' esule russa Angelica Balabanoff, per seguire una carriera di militante che, dalla direzione di fogli di provincia e dalla collaborazione al periodico «La Folla» di Paolo Valera, lo porterà nel 1912 alla guida dell'«Avanti!». Un biennio di militanza intensa che si concluderà a fine ottobre 1914 sotto la spinta dei cambiamenti portati dalla guerra mondiale. Il suo ultimo articolo, che lo distacca dal neutralismo socialista, si intitola Dalla neutralità assoluta alla neutralità attiva ed operante. È il salto verso l'interventismo e verso la direzione del «Popolo d' Italia», fondato il 15 novembre 1914. La guerra trasformerà l' Europa. E anche Mussolini non sarà lo stesso: il 15 dicembre 1917 pubblica il fondo Trincerocrazia , che «candida i reduci a classe dirigente del domani, forgiata dalla prova delle armi». E il 10 novembre dell' anno successivo, dopo Vittorio Veneto, così il futuro Duce arringa gli arditi in piazza Cinque Giornate a Milano: «Il balenio dei vostri pugnali e lo scrosciare delle vostre bombe farà giustizia di tutti i miserabili che vorrebbero impedire il cammino della più grande Italia». Sembra l' atto conclusivo del passaggio al nazionalismo e alla destra più retriva. Invece non è così: il programma della riunione che è l' atto iniziale del fascismo, l'assemblea di piazza San Sepolcro a Milano del 23 marzo 1919, oltre a esaltare la guerra, il nazionalismo e l'antibolscevismo, prevede il voto ai diciottenni e alle donne, l'abolizione del Senato di nomina regia, la compartecipazione dei dipendenti nella gestione delle industrie, un prelievo fiscale sui grandi capitali, la nazionalizzazione delle fabbriche d'armi. Si rimane stupiti anche a leggere l'elenco dei partecipanti alla riunione di piazza San Sepolcro: oltre ai figuri che si macchieranno cinque anni dopo dell'uccisione di Giacomo Matteotti, a intellettuali come Filippo Tommaso Marinetti, a esponenti degli arditi e a futuri dirigenti del Pnf, troviamo personaggi inattesi come Ernesto Rossi, il futuro antifascista di Giustizia e Libertà (che aderì da Firenze, ma non fu presente a Milano), ebrei come Piero Jacchia, Riccardo Luzzatto ed Eucardio Momigliano. C'è da aggiungere inoltre che San Sepolcro, tanto mitizzato ex post dal regime, è un episodio passato quasi in sordina in quel tumultuoso 1919, che vede al centro dell' attenzione il trattato di pace (con i dolori italiani per «la vittoria mutilata») e l' impresa a Fiume di Gabriele d' Annunzio. Il racconto di Carioti, che analizza i fatti dal 23 marzo 1919 al 28 ottobre 1922, data della marcia su Roma, è avvincente e non è mai scontato. La narrazione, per chi vuole immergersi completamente nell' atmosfera dell' epoca, rimanda nei punti cruciali a un'appendice con i documenti e gli articoli del periodo, tanti firmati da Mussolini, che a detta dei seguaci, ma anche di molti avversari, fu un genio della comunicazione. Dopo il racconto dei fatti, le interviste agli storici Simona Colarizi, Alessandra Tarquini, Fabio Fabbri e al politologo Marco Tarchi, offrono un quadro delle interpretazioni sui nodi storici del fascismo, come la questione dei ceti medi, le connivenze dello Stato con la violenza squadrista, le differenze con il nazismo e le composite origini culturali riassunte da Zeev Sternhell, lo studioso israeliano che ha influenzato il nostro Renzo De Felice, nello slogan «né destra né sinistra». Nella lunga crisi di un dopoguerra che vede impoverirsi le classi popolari e aumentare le insicurezze dei ceti medi, il fascismo alimenta le violenze con gli attacchi alle sedi dei giornali e delle organizzazioni dei lavoratori protagonisti del «biennio rosso». I vari ras delle province, Italo Balbo a Ferrara, Dino Grandi e Leandro Arpinati a Bologna, Giuseppe Caradonna in Puglia, si mettono alla testa della reazione violenta, interpretando la voglia di rivincita dei possidenti agrari e giocando con le insicurezze del ceto medio urbano. Nello stesso tempo, dopo aver seminato odio e morte, il movimento fascista si presenta come garante dell' ordine. Una veste di normalizzatore che inganna agli inizi anche liberali come Luigi Albertini e Benedetto Croce. Mussolini è abile nell' incanalare politicamente la violenza. Un gioco che gli riesce anche grazie alle incertezze della vecchia classe politica e alla codardia del monarca, che non firma il decreto sullo stato d' assedio presentatogli da Luigi Facta la mattina del 28 ottobre 1922. Gli squadristi della marcia su Roma, che potevano essere facilmente dispersi, hanno vinto. Mussolini il 30 ottobre riceve l' incarico di formare il governo.
Milano, il Benito socialista in otto rarissimi filmati. I video-documenti in Rete da oggi mostrano il leader spesso "al naturale", senza pose studiate. Simone Finotti, Mercoledì 17/06/2020 su Il Giornale. È un Duce fuori Luce ma perfettamente immerso nella macchina da presa, unico fra gli astanti a fissare la camera con consapevolezza acuta e profonda, fiutando la potenza della nascente comunicazione di massa. Lo nota Antonio Scurati, vincitore del 73° Strega con M. Il figlio del secolo (Bompiani, 2018), che introduce così la straordinaria antologia di otto rarissimi filmati riemersi dagli archivi di Fondazione Cineteca Italiana, e disponibili in streaming dal 17 giugno con il titolo Il Duce fuori Luce (sulla piattaforma dedicata del sito cinetecamilano.it, in modalità Premium, 5 euro). Niente immagini e rappresentazioni ufficiali, niente pose studiate o esibizioni muscolari di quelle affidate all'epoca all'Istituto Luce, longa manus cine-fotografica della propaganda di regime: è un Mussolini spesso inquadrato a sua insaputa, da angolazioni mai viste, in riprese semi-artigianali che per quasi un secolo sono rimaste nell'ombra. Non aspettiamoci cedimenti: anche senza «sole in fronte» resta pur sempre l'uomo d'azione che guida le adunate accanto ai «lavoratori del braccio e del pensiero»; il granitico oratore, il giornalista picconatore dello Stato liberale che vediamo all'opera nel suo Covo di Via Paolo da Cannobio, l'ufficio dove prendevano vita gli strali veementi del Popolo d'Italia, che prepararono e accompagnarono l'ascesa dei Fasci di combattimento. Il corto propagandistico Il covo (Minerva film, 12 minuti, con sonoro), tra i più interessanti della silloge, è di Vittorio Carpignano, data 1941 e testimonia le origini milanesi del movimento, nell'humus dei sentimenti irredentisti del primo dopoguerra. Sullo sfondo di una città brumosa e ferita, si esalta il passaggio «sugli uomini e sugli spiriti disorientati» di una «voce nuova, traboccante di fede e volontà assoluta», pronta a «farsi idea e diventare storia». Il vecchio e il nuovo a confronto, la vittoria tradita lascerà spazio a un trionfo pieno e completo. Lo stretto rapporto con Milano è ben testimoniato, visto che quasi tutti i filmati sono stati girati qui; arrivano dall'ampia riserva di cinema amatoriale e documentario che accompagna tutta la vicenda storica del Fascismo, dalla conquista del potere agli anni del massimo consenso e dell'Impero. Dalla fascinazione (fuori tempo massimo) per il dominio universale all'idea (al contrario, lungimirante) di dotare la città di un planetario il passo non fu lungo, e molto del merito va ascritto all'editore Ulrico Hoepli, pronto a finanziarne la costruzione, e al geniale architetto Piero Portaluppi, che lo progettò. E così, il 20 maggio del 1930, ecco un Duce in alta uniforme e fez, affiancato dal podestà Visconti di Modrone, sbucare dalle colonne ioniche dell'edificio appena inaugurato e immergersi nel verde di Porta Venezia. È un breve filmato anonimo (appena 3 minuti, con belle musiche di Francesca Badalini), che mostra anche una parata del 1936 in piazzale Cordusio, a pochi passi dal Circolo dell'Alleanza Industriale di Piazza San Sepolcro dove nel 1919 vennero fondati i Fasci. In un altro anonimo di appena 4 minuti, piazza Duomo si prepara ad accogliere una visita nel 1934. Scene simili in una ripresa dall'archivio della famiglia Castagna, che nel finale strappa anche qualche fotogramma dell'arrivo del Duce, sulla classica auto scoperta, e della sua salita sul palco per arringare la folla. Gli 11 minuti di «Giovinezza, giovinezza, primavera di bellezza» (con l'adunata milanese del marzo 1922, a pochi mesi dalla marcia su Roma) celebrano gli inizi, freschi, vigorosi ed energici: Mussolini che «divide il frugale rancio co' suoi commilitoni», poi mentre incontra le medaglie d'oro della Grande Guerra e si affaccia in camicia nera su una stipata via Vittorio Veneto, appropriandosi del saluto romano dei legionari di Fiume. Il tutto affidato alle riprese di un padre nobile del cinema italiano, il milanese Luca Comerio. Lo stesso che appena ventenne, nel maggio 1898, era sceso in strada a rischio della vita per immortalare i moti popolari duramente repressi dal generale Bava Beccaris. Da un pioniere all'altro (perché il Ventennio, con buona pace di certa critica benpensante, fu epoca fertile di talenti della pellicola), arriviamo a Luigi Liberio Pensuti, maestro dell'animazione tra le due guerre. È a lui che si deve una chicca come La taverna del tibiccì, piccolo capolavoro (peraltro molto attuale, di questi tempi) in cui grazie alla pulizia e all'igiene si sconfigge uno dei nemici più temibili, all'epoca, per la salute pubblica. Colpisce il taglio innovativo, che unisce tecniche di infografica, animazione ed elementi dell'iconografia fascista. È un Duce che spicca anche nell'assenza, come nell'interno domestico ricreato per lo spot delle Assicurazioni Popolari, in cui campeggia il suo ritratto. Le atmosfere esotiche e le inquadrature inusuali rendono preziosi i pochi minuti del Duce in Africa, realizzato da un anonimo francese in occasione di una visita a Tripoli e Garian con rassegna, a cavallo, delle milizie locali. Mussolini, non è un mistero, accarezzava il sogno di una Libia quarta sponda d'Italia. La visita più trionfale in Tripolitania fu nel marzo del 1937, durante la quale, ergendosi a cavallo, si proclamò addirittura protettore dell'Islam. Da Piazza Duomo all'Africa settentrionale rivive così, grazie ai tasselli di un inedito cinemosaico, la grande illusione della Giovinezza. Il programma è il primo di una serie di contenuti sulla Grande Storia. Seguiranno rassegne su Garibaldi e Napoleone.
La ripubblicazione. Ripubblicati gli interventi di Turati: “Il massimalismo è il male del socialismo”. Giuliano Cazzola su Il Riformista il 2 Ottobre 2020. Le vie maestre del socialismo è un volume curato da Rodolfo Mondolfo che raccoglie i principali interventi di Filippo Turati: dal resoconto sommario del discorso tenuto al Congresso di Imola l’8 settembre 1902 fino al resoconto stenografico dell’intervento svolto il 19 gennaio 1921 al Congresso di Livorno (durate il quale ebbe luogo la scissione da cui nacque il Partito comunista d’Italia). La prima edizione del libro risale al 1921 (la ristampa è del 1981); pertanto la raccolta non contiene gli atti del Congresso di Bologna del 1922 in cui divenne definitiva la rottura del partito con l’espulsione di Turati e della corrente riformista in conformità con le direttive della III Internazionale di indirizzo comunista che aveva imposto 21 condizioni (tra le quali, appunto, l’espulsione dei riformisti) al Psi a maggioranza massimalista per accettarne l’adesione. Nel Congresso dell’anno precedente (il 1921) la richiesta non era stata accolta; tale rifiuto divenne uno dei motivi della scissione comunista. Tuttavia, la precaria unità di Livorno non aveva attenuato i contrasti interni che paralizzavano il partito, proprio mentre stava dilagando lo squadrismo fascista e appariva sempre più urgente una iniziativa del movimento operaio. Turati, critico verso la «intransigenza contemplativa» dei massimalisti, utilizzava il suo prestigio in seno al gruppo parlamentare per rilanciare l’idea di una collaborazione con i popolari e i liberali contro i fascisti, in contrasto – fino alla rottura definitiva – con la direzione del Psi che puntava su una ripresa delle lotte di massa e dell’unità coi comunisti. I riformisti espulsi diedero vita al Partito socialista unitario (Psu.) – di cui fu eletto segretario Giacomo Matteotti – che si ispirava al tradizionale riformismo turatiano, ricercando la collaborazione con le forze politiche borghesi e operando per la riunificazione di tutti i socialisti su una linea di netta demarcazione dai comunisti rivoluzionari. Leggendo i discorsi di Turati si scopre un oratore eccezionale, non solo per la lucidità del pensiero, per l’analisi delle situazioni, per la memoria e l’interpretazione degli eventi nel divenire della storia del partito e del Paese, ma anche per la sottostante cultura classica e filosofica, per la capacità di esposizione, per l’ironia e le metafore che arricchiscono l’esposizione. In verità, a vedere il numero delle pagine dei testi trascritti (veri e propri saggi di politica, di storia ed altre umanità) ci si rende conto che i suoi interventi non avevano limiti di tempo, nonostante che subissero numerose interruzioni e creassero un clima da “botta e risposta” con l’uditorio per via delle divergenti idee e passioni politiche. Ma Turati tirava diritto senza perdere il filo del ragionamento e alla fine riscuoteva l’applauso di tutto il Congresso (con l’eccezione di quanti gli rivolgevano un polemico “viva la Russia”). Tanti sarebbero gli stimoli che provengono da quei discorsi, ma non possiamo affrontarli tutti. Ci soffermiamo sulla polemica di Turati a proposito del “massimalismo” in contrapposizione con la dottrina del “riformismo”, tratta dall’intervento che il grande socialista svolse al Congresso di Bologna del 1919. «Noi non crediamo al “massimalismo” – esordì Turati – Per noi un massimalismo semplicemente non esiste e non è mai esistito. Il massimalismo è il nullismo; è la corrente reazionaria del socialismo». Anche le distinzioni tra rivoluzionari e riformisti, fra transigenti e intransigenti «non sono che equivoci». «Vi è insomma il socialismo dei socialisti e quello degli imbecilli e dei ciarlatani». «La verità è che il suffragio universale, quando diventi consapevole, e questa non può essere che questione di propaganda e di evoluzione economica e civile, è l’arma più formidabile e più direttamente efficace per tutte le conquiste». «Tutta l’esperienza accumulata nelle lotte sindacali, politiche, elettorali, nei Comuni, nelle Province, con la propaganda indefessa, con l’azione parlamentare, con l’azione nei comizi e nei corpi consultivi per la legislazione sociale, nei Congressi nazionali ed internazionali, attraverso le persecuzioni fortemente patite, tutto ciò ha dato i suoi frutti, ha ampliato la nostra visione, ha fatto di noi uno dei partiti più forti in Italia e all’estero (….) Ora tutto questo dovrebbe andare per aria, tutta questa esperienza sarebbe stata pura perdita. Una nuova rivelazione s’è fatta improvvisamente come per prodigio. Al socialismo si sostituisce il comunismo (…) e un gretto ideale di violenza armata e brutale, la cosiddetta dittatura del proletariato che esclude d’un solo colpo dalla vita sociale tutte le altre capacità, tutti gli altri contributi, tutte le altre classi, la stessa grande maggioranza dei lavoratori; onde è chiaro che essa in realtà non sarebbe, non potrebbe essere per lunghissimo tempo, che la dittatura di alcuni uomini sul proletariato». Poi Turati assunse toni implacabili: «La violenza non è altro che il suicidio del proletariato (…. ) Oggi non ci pigliano abbastanza sul serio; ma quando troveranno utile prenderci sul serio, il nostro appello alla violenza sarà raccolto dai nostri nemici, cento volte meglio armati di noi». Sono parole che hanno in sé il dolore della profezia. Turati fu ancora più lucido profeta nel suo discorso al Congresso di Livorno del 1921. Rivolgendosi alla maggioranza massimalista e alla frazione comunista disse: «Ogni scorcione allunga il cammino; la via lunga è anche la più breve perché è la sola». E gettando lo sguardo oltre l’orizzonte di decenni ammonì: «Avrete allora inteso appieno il fenomeno russo che è uno dei più grandi fatti della storia, ma di cui voi farneticate la riproduzione meccanica e mimetistica, che è storicamente e psicologicamente impossibile e, se lo fosse, ci condurrebbe al Medioevo». «Tutte queste cose voi capirete tra breve e allora il programma, che state faticosamente elaborando e che ci vorreste imporre, vi si modificherà tra le mani e non sarà più che il nostro vecchio programma». «Ond’è – Turati si avviava alla conclusione – che quand’anche voi aveste impiantato il Partito comunista e organizzati i Soviet in Italia, se uscirete salvi dalla reazione che avrete provocata e se vorrete fare qualche cosa che sia veramente rivoluzionario, qualcosa che rimanga come elemento di società nuova, voi sarete forzati a vostro dispetto – ma lo farete con convinzione perché siete onesti (questo riconoscimento si è rivelato forse troppo generoso? ndr) – a ripercorrere completamente la nostra via, la via dei social-traditori di una volta; e dovrete farlo perché essa è la via del socialismo, che è il solo immortale, il solo nucleo vitale che rimane dopo queste diatribe». «Voi temete oggi di ricostruire per la borghesia, preferite lasciar cadere la casa comune e fate vostro il “tanto peggio tanto meglio” degli anarchici, senza pensare che il “tanto peggio” non darà incremento che alla Guardia regia e al fascismo». Quando Filippo Turati parlava così era il 19 gennaio del 1921. Il 28 ottobre dell’anno successivo ebbe luogo la Marcia su Roma. Turati morì in esilio a Parigi il 29 marzo del 1932. A Livorno era stato profeta anche di se stesso: «Voi non intendete ancora che questa ricostruzione, fatta dal proletariato con criteri proletari, per se stesso e per tutti, sarà il miglior passo, il miglior slancio, il più saldo fondamento per la rivoluzione completa di un giorno. Allora, in quella noi trionferemo insieme. Io forse non vedrò quel giorno…. Ma le riforme sono la via della rivoluzione e non si conquistano se non con lo sforzo assiduo, continuo, organico di tutte le classi popolari, unite ai rappresentanti dei partiti, con un’azione continua di erosione del privilegio: non v’è altra via».
Il dibattito tra massimalisti e riformisti. La lotta e l’accordo, così nel 1920 vinse la strada riformista. Giuliano Cazzola su Il Riformista il 14 Ottobre 2020. Il 19 settembre del 1920 Giovanni Giolitti convocava le parti sociali a Roma, al Viminale allora sede della Presidenza del Consiglio, con l’intento di raggiungere un “concordato” che ponesse fine all’occupazione delle fabbriche (che era in corso, in alcune aree del Paese, da una ventina di giorni e che quindi durò meno del “maggio francese” del 1968). Lo statista liberale si era rifiutato – nonostante le pressioni degli industriali – di usare la forza per liberare le fabbriche dagli occupanti. Aveva intuito che l’unica possibilità di una soluzione incruenta risiedeva nel riuscire a riportare la vertenza sul terreno sindacale da cui era nata, sbandando nell’escalation delle forme di lotta: gli operai avevano adottato metodi di ostruzionismo a cui gli imprenditori avevano risposto con la serrata e i sindacati avevano di conseguenza ordinato l’occupazione delle fabbriche metallurgiche (poi estesa anche ad altri settori dell’industria e non solo). In pochi giorni il movimento aveva coinvolto 500 mila lavoratori, con picchetti armati sui cancelli degli stabilimenti. Giolitti era convinto che gli stessi dirigenti della Cgil e della Fiom, da veri socialisti riformisti, lavorassero per la sua stessa prospettiva, essendo consapevoli che proseguendo in quella lotta – all’inseguimento della chimera della rivoluzione – la classe operaia sarebbe stata condotta al massacro. All’incontro, nella sala del Consiglio dei Ministri al Viminale, erano presenti – scrive Paolo Spriano – oltre a due prefetti (Lusignoli e Taddei) – D’Aragona, Baldesi e Colombino per la Cgil, Marchiaro, Raineri e Missiroli per la Fiom; Conti, Crespi, Olivetti, Falk, Ichino e Pirelli per la Confederazione dell’Industria. Giolitti presiedeva la riunione e volle accanto a sé D’Aragona. Dopo sei ore di discussione il concordato venne sottoscritto. I suoi contenuti economici e normativi rappresentarono un successo per il sindacato, tanto che, il testo, sottoposto a referendum, fu approvato dalla grande maggioranza dei lavoratori. Ma, in quella stagione di miraggi, anche i sindacalisti riformisti non potevano evitare di misurarsi con l’obiettivo della socializzazione dei mezzi di produzione e di scambio; occorreva essere, quindi, convincenti e competitivi con quelli che promettevano di “fare come la Russia”, attraverso la scorciatoia della rivoluzione. In sostanza, non sarebbe bastato un risultato importante sul piano sindacale se non fosse stato considerato una tappa nella marcia del “proletariato” verso il socialismo. Così nel “concordato” la Cgil e la Fiom dovettero trovare una soluzione anche per la questione del “controllo operaio” (che era la “bestia nera” degli industriali) quale alternativa a chi prometteva i Soviet. Giolitti aveva sbloccato lo stallo mediante un decreto legge – scrive Paolo Spriano – che istituiva una “Commissione paritetica di 12 membri, incaricandola di formulare quelle proposte che possono servire al governo per la presentazione di un progetto di legge”. Anche allora vi era la consapevolezza che le Commissioni servissero per accantonare delle questioni difficili, sia pure attribuendo ad esse un valore fittizio rispondente sulla carta ai desiderata delle organizzazioni sindacali. Fatto sta che, in sede politica, la questione del controllo operaio divenne la cartina di tornasole del rilievo (o meno) dell’intesa. Sull’Avanti! del 21 settembre (due giorni dopo l’accordo) Giacinto Menotti Serrati, leader della maggioranza massimalista, iniziò l’offensiva critica. Partendo da un apprezzamento del risultato dal punto di vista sindacale, per quanto riguardava gli aspetti economici e normativi, Serrati sostenne che il concordato non fosse soltanto una vittoria dei metallurgici, ma anche di Giovanni Giolitti. Le critiche più severe, tuttavia, afferivano alla problematica del controllo operaio. «Il conquistato controllo delle fabbriche, quando pure riuscisse a funzionare non potrà che rappresentare una mistificazione o una corruzione. Il controllo – proseguiva l’esponente del Psi – è di per se stesso collaborazione. Se fatto veramente sul serio conduce inevitabilmente a trasformare gli operai in aiuti interessanti della gestione borghese». E di nuovo: «L’ora critica della vita nazionale non si chiude con un concordato di puro carattere sindacale»; aggiungendo poi un auspicio visionario: «Non passerà lungo tempo – saranno forse poche settimane – che una nuova lotta si ingaggerà indubbiamente», perché «la borghesia italiana non si salva con la firma apposta dai signori industriali al concordato imposto da Giovanni Giolitti». Gli rispose Filippo Turati su Critica Sociale (il quindicinale dei riformisti). «La rivendicazione del controllo operaio, mantenuto nei limiti in cui oggi è possibile e fruttuoso esercitarlo, è essa stessa una rivoluzione, la più grande, dal punto di vista socialista, dopo il conquistato diritto di coalizione e il suffragio universale, in quanto incide direttamente il diritto di proprietà, nella sua preminente matrice capitalistica». «Scopi immediati della riforma vogliono essere – in linea con le ripetute dichiarazioni della Confederazione Generale del Lavoro (allora saldamente diretta dai socialisti riformisti, ndr) – rendere il lavoratore partecipe della gestione dell’azienda, elevare la sua dignità, imparargli a conoscere i congegni amministrativi dell’industria, evitare di questa le degenerazioni speculazionistiche, ridestare nel lavoratore la spinta al lavoro, intensamente e gioiosamente produttivo». E da qui partiva la parte politica del ragionamento di Turati: «La futura graduale socializzazione delle industrie è condizionata a questi risultati più prossimi». A un secolo di distanza non siamo in grado di giudicare la buonafede di Turati ovvero se fosse davvero convinto – pur sostenendo un indirizzo politico corretto e condivisibile – che la Commissione paritetica avrebbe portato a compimento l’incarico. È invece palese la malafede di Serrati. Come disse un esponente socialista milanese a commento della sessione della Direzione del Psi che mise all’ordine del giorno la rivoluzione: «Noi sentivamo che la rivoluzione non si sarebbe fatta, perché la rivoluzione non si fa convocando prima un convegno dove si deve andare a discutere se si dovrà fare o non fare la rivoluzione. Questa è roba da Messico che si è voluto trasportare nel nostro Paese».
La lezione di riformismo di Filippo Turati sul come rifare l’Italia. Redazione su Il Riformista il 25 Giugno 2020. Pubblichiamo stralci del discorso pronunciato il 26 giugno del 1920 da Filippo Turati alla Camera dei deputati. Onorevoli colleghi e compagni! L’idea madre del mio modesto discorso è semplice. Vera oggi, come ieri, come domani; ma, nel mutare inevitabile dei tempi, diverso può esserne il punto di applicazione. Se ogni lotta di classe è lotta essenzialmente politica e viceversa, è evidente che ogni politica trae colore e vigore dalla classe sulla quale essenzialmente si appoggia. Rivolgendomi oggi alle classi borghesi, le quali, se anche non nelle proporzioni di una volta, hanno pur sempre la dirigenza della società, in un certo senso posso dir loro: oggi, o non più ! Del resto, questo dell’urgenza, è un sentimento che in diverse forme trapela da ogni discorso, è nello stato d’animo di ciascuno di noi. Lo stesso onorevole Giolitti, cui si imponeva, per il posto che occupa, la maggiore prudenza di parola, non temette, e fece bene, di parlare di fallimento imminente, improrogabile, se non si corre ai ripari. Quale fallimento? Di chi? Come deprecabile? Questo è il tema generale della discussione. II suffragio universale, questa necessità che tutti abbiamo voluto, e di cui siamo i figli, ha generato, nella sua molteplice prole, un figlio cattivo: il gesto demagogico; la gara, dirò meglio, dei gesti demagogici. Noi dovremmo, come Bruto, condannare a morte questo figliolo traditore. Noi dovremmo insorgere contro di esso. Il demagogismo non è affatto, come si pretende, un privilegio dei partiti avanzati. C’e un demagogismo dei conservatori e dei Governi, che è di gran lunga il peggiore. La politica non è questo: non dovrebbe essere questo; e lo sarà sempre meno, quanto più i popoli diverranno consapevoli. La politica non è nell’agguato, non è negli intrighi, non è nell’arrembaggio ai Ministeri, non è nelle sapienti combinazioni parlamentari, non è nelle competizioni degli uomini; non è nei sonanti discorsi. È, o dovrebbe essere, nell’interpretare l’epoca in cui si vive, nel provvedere a che l’evoluzione virtuale delle cose sia agevolata dalle leggi e dall’azione politica. Questa interpretazione e questa azione sono essenzialmente una tecnica. E una tecnica, essenzialmente, è anche il socialismo. Noi stessi lo dimentichiamo troppo spesso, forse, quando nel fervore degli attacchi e dei contro-attacchi, subiamo noi stessi l’avvelenamento di tante illusioni, l’asfissiamento di tanto fumo. Il socialismo, nel suo primo e più grande assertore, è l’espressione ideale dell’evoluzione dello strumento tecnico; è lo sforzo di adeguare le condizioni politiche della vita sociale alle necessità materialistiche del momento storico. In questo senso, e in doppio senso, il socialismo è scientifico: in quanto sorge dalla coscienza storica, e quindi scientifica, dell’evoluzione; e in quanto chiama la scienza a proprio servizio. La schiavitù cessa, secondo il vecchio motto famoso, quando la spola comincia a camminare da sé sul telaio. Il socialismo è nella macchina a vapore, più che negli ordini del giorno; è nella elettricità, più che in molti, cari compagni, dei nostri congressi. Ora voi tutti, signori, cercate, in questo momento, più che mai la salvezza : la salvezza del Paese e la vostra. Anche i socialisti cercano la salvezza del Paese e la loro. Se oggi il partito socialista, così com’è, sembra ad alcuni eccessivo di intransigenza, di vivacità, di precipitazione, pensino coloro, che di questo lo accusano, che ciò è l’effetto fatale della guerra, la quale ha creato nelle masse uno stato di insurrezione psichica che non sarà domato se non da conquiste reali, radicali e profonde. E il partito deve riflettere questo stato delle masse, per interpetrarle, ed eventualmente anche per poterle contenere. Chi spera che le differenze inevitabili di tendenze, che sono in ogni partito vivo, debbano condurci al distacco, allo sfacelo, credo che si inganni. Credo fermamente, e non da oggi e non per opportunità del momento, nella fondamentale necessità dell’unità del partito socialista. (…). Nelle sezioni del nostro gruppo si studiano proposte di legge e provvedimenti positivi, col consenso anche dei nostri più estremi estremisti, che eventualmente potrebbero anche essere l’àncora di salvezza per quel tanto di regime borghese, che è giusto debba per un certo tempo, sopravvivere nella zona del trapasso storico. Questa incoerenza formale è la prova che siamo vivi; che la formula ci serve ma non ci opprime; che sappiamo distinguere, e che non confondiamo quella che sarebbe collaborazione vera e propria di partiti e di classi, pericolosa in dati momenti, specialmente pericolosa per i più deboli, da quella che è coincidenza o comunione inevitabile di interessi vitali, insuperabile in qualunque convivenza sociale; che abbiamo nel nostro programma effettivo, quello che erompe nell’azione la quale è la grande pacificatrice delle tendenze, l’oggi e il domani, l’oggi per il domani, il domani per l’oggi. Certo non è più, oggi, la ormai arcaica distinzione del programma minimo e del programma massimo, come si concepiva una volta, che era un po’ una concezione cattolica, forse più del vecchio che del nuovo cattolicismo. (…) Perciò si parla, non da noi soltanto, di periodo rivoluzionario, di crisi di regime : di regime politico, di regime sociale. Molti di voi ripetono oggi, e molti credo in buonissima fede, che molto bisognerà concedere per non perdere tutto, per mantenere la compagine sociale, dico la compagine, non dico l’attuale compagine; per conservare ciò che è degno di essere conservato, ciò che è necessario ai supposti eredi del domani; per non precipitare insomma nell’anarchia, che è un po’ la sorella, un po’ la figlia del capitalismo, e che sta in diametrale antagonismo teorico, che è la negazione in termini, del socialismo. Molti sentono fra voi che ciò che siamo usi chiamare l’ordinaria amministrazione, non basta più. Lo sentì l’onorevole Nitti, che si ribellò, almeno idealmente, al trattato di Versailles che era (e dico che era perchè si può forse cominciare a parlarne al passato prossimo) il capitalismo, nella sua più cruda espressione, applicato alla politica internazionale; era la pace di guerra, così come il capitalismo, all’interno e all’estero, è sempre la guerra anche in tempo di pace. L’onorevole Nitti prese dai socialisti le principali direttive della sua politica estera; forse avrebbe prese da essi anche molte direttive nella politica interna, se i socialisti gliele avessero offerte. E più volte preluse all’inevitabile, all’augurabile avvento di un Governo laburista in Italia. Ma l’azione, soprattutto nella politica interna, fu impari, forse per acerbità di casi e di tempi, alla fede professata e ne tenne la sua fatale caduta. Così è tornato l’onorevole Giolitti, il cui ritorno a quei banchi sembra l’epilogo solenne di un vasto dramma, non soltanto suo personale, ma nazionale e storico, e trascende di gran lunga l’importanza di uno dei consueti avvicendamenti ministeriali. Bisognerebbe essere un po’ meno che uomini per non sentirlo, a qualunque idea si appartenga, sotto qualunque vessillo si militi (…). Ma dopo di lui molti vedono il buio, il nulla, l’abisso. Altri, dopo di lui, intravvedono l’alba; e ciascuno si sogna l’alba che più gli conviene. Certo è che la monarchia, in questo crollare fragoroso di troni e di dominazioni, non parve mai meno salda di ora anche in Italia. (…) E più si carezza il socialismo, e più esso rilutta e vi sfugge. Ora qui accade di ricordare una frase di Claudio Treves, che chiuse un suo mirabile recente discorso. Nel quale il mio amico analizzò la grande tragedia dell’ora, e a questa tragedia pose il nome: « Espiazione ». Espiazione, egli intese, della borghesia, che volle la guerra, che vinse la guerra, che non seppe e non sa darci la pace. (…) La borghesia, in questo momento, non è più capace di reggere il potere; il proletariato non è ancora pronto a riceverne la successione. Così Treves chiuse il suo discorso. (…) Ogni trapasso, anche se assume forme violente, è sempre un assorbimento del nuovo nel vecchio e del vecchio nel nuovo; con questo vantaggio che il vecchio non si rinnova e il nuovo non si rinvecchia. E questa è la rivoluzione. Perciò, ripeto, chi è assorbito assorbe. La generazione, la procreazione, la fecondità sono a questo patto. (…) Il gradualismo dell’onorevole Giolitti è un gradualismo prebellico, impari alle esigenze del momento, in ritardo di sei anni sul quadrante della storia. Il gradualismo è una magnifica cosa. Io sono accusato ogni giorno da questi miei turbolenti compagni di essere troppo gradualista. Comunque, il gradualismo è una cosa ammessa da tutti (abbiamo persino un massimalismo gradualista !) quando la natura delle cose lo consente. Quando insomma c’è tempo e si può aspettare. Allora, chi va piano va sano, e va qualche volta lontano. (…). Il rimedio primo, il più vero, vorrei dire il solo rimedio, è nel trasformare l’economia, non la finanza del Paese. Ciò che voi ponete dopo, deve venir prima, o almeno contemporaneamente. Tanto più che a rendere più spinose tutte le questioni, più difficili tutti i rimedi, concorre la crisi psicologica, la quale è causa ed effetto insieme della crisi economica, generate entrambe dalla guerra, mantenute dalla pace che non è pace; crisi che è una vera psicosi, diffusa, molteplice, universale, ma più grave in Italia, perchè è paese economicamente fra i più deboli di Europa. Non dirò dei fenomeni più appariscenti: il lusso sfrenato, rivoltante, che fa pensare con nostalgia, per quanto scettica, alle antiche leggi suntuarie. Ciò che più impressiona è lo spirito di indisciplina, che ha invaso tutte le classi sociali. Aggiungete il menomato rispetto della vita umana, dell’altrui come della propria. La guerra ha alterato profondamente tutti i consuetudinarii valori morali. La gente minaccia l’altrui vita, ed espone la propria, con una indifferenza non conosciuta prima della guerra. Il trattato di Versailles, che è – lasciatemi ripeterlo – l’espressione del capitalismo più crudo applicato alla politica internazionale, e la cui revisione si impone. Ora, su ciò tace completamente il programma del Governo. Se non che, forse, anche in questo silenzio è un argomento a favore della mia tesi, della preminenza, necessità ed urgenza assoluta della restaurazione economica del Paese, anche prima delle economie e dei provvedimenti finanziari. Perché, certo, finché noi saremo così strettamente vassalli dell’estero per il pane quotidiano quale voce effettivamente influente potremo avere nei consessi dei potentati, sia pure con le proposte Commissioni parlamentari? Dopo aver demolito la Germania, con nostro danno infinito, oggi dobbiamo pensare ad aiutarla a ricostruirsi per il nostro meglio; dopo aver combattuto la Russia, o almeno essere stati nella combriccola che si ingegnava di combatterla, dobbiamo fare di tutto per rappacificarci al più presto con quel grande ex impero ; dopo aver suscitato la guerra civile in Albania (a proposito, quanto c’è costata, onorevole Meda?) che si ripercuote in un’altra e ben peggiore guerra civile in Italia (e i fattacci di Ancona ammaestrano) dobbiamo dichiarare che rinunziamo (e ahimè! non farà ciò l’impressione della favola dell’uva acerba?) a ogni protettorato. E via via. Non vi è punto del trattato di Versailles che non sia tutto da rifare, da capovolgere. Senza dire che l’onorevole Giolitti, il quale fu già rimproverato, e sia pure a torto, di aver lasciata disarmata l’Italia (e dovette difendersene nel discorso di Dronero) e vuoti i magazzini militari, in un periodo pericoloso, certo non vorrà affrontare oggi la stessa accusa, nell’evento di altre guerre possibili. Ora, onorevole Giolitti, voi avete fatto, con nobili parole, appello all’Internazionale operaia, nel vostro discorso di Dronero, Per la salvaguardia della pace. Ma l’Internazionale proletaria non può esistere, non può essere forte, se non siano forti localmente, in ogni nazione, i proletariati organizzati ed i partiti socialisti. Ora questi proletariati e questi partiti cominciano ad avere la loro politica estera e cominciano ad imporla ai rispettivi Stati. È inutile dirvi che noi vogliamo soppresso il trattato di Versailles perchè esso è una abominazione, perchè esso è la proprietà privata applicata a tutto il mondo a beneficio di una egemonia. Ora l’onorevole Giolitti, nel discorso di Dronero, ha toccato tutta quanta la gamma della restaurazione economica. Agricoltura da industrializzare; emancipazione dal grano estero; chi lascia terre incolte commette un delitto (onde il suo progetto granario); confisca delle terre incolte; il cotone da coltivarsi nell’Eritrea o nel Benadir; irrigazione; istruzione agraria e tecnica serie; industrie che occupino più mano d’opera e meno materie prime, mentre sono ancora tanto care; utilizzazione delle forze idriche e quindi emancipazione dal carbone estero ecc., ecc. Insomma tutto il ricettario. Ossia Giolitti è ancora Nitti. E siamo, ripeto? tutti d’accordo ! Ma la questione non è nell’essere d’accordo in teoria; è nel volere e nel potere realizzare. Direi quasi che il problema è superiore alla volontà dell’uomo. Può il Ministero, con questa Camera, può la borghesia italiana, in questo momento, realizzare questo programma ? Lo vuole essa davvero? ’ Cè nel congegno del capitalismo italiano di quest’ora (poiché anche fra capitalismo e capitalismo bisogna spesso distinguere) qualche attrito invincibile che impedisca questa realizzazione? (…) Tanto più, badate, che in questo caso non si tratta di prestiti allo Stato, ma di prestiti alla Nazione. In altri termini: la soluzione della crisi, politica, economica, morale, crisi di regime, crisi di trapasso, chiamatela come meglio vi garba, consiste nel creare subito le condizioni economiche e politico-morali per cui la Nazione possa in breve termine raddoppiare la sua produzione. Oh Dio, non pigliate la parola « raddoppiare » nel senso strettamente aritmetico; non s’intende dire che si debba produrre il doppio di grano, il doppio di tessuti, ecc., ecc. ; s’intende resuscitare nuove sorgenti naturali, non artificiali, di energia nel Paese, perché esso possa superare il deficit. Quando questo si sarà ottenuto, si sarà molto più che raddoppiata la ricchezza. E ho parlato di condizioni economiche e di condizioni politico-morali, che sembrano due cose diverse e sono invece una sola; perchè non si creano veri miglioramenti economici senza certe riforme politiche – e questo dico alla borghesia – e non si riesce a trar profitto dalle riforme politiche – e questo dico ai miei compagni – senza certi coefficienti economici. Bisogna che il Governo d’Italia – borghese ? comunista? bolscevico?; Giolitti ? Misiano? Non importa il nome e la persona; non importa neppure l’etichetta, perchè “vi può essere un bolscevismo (vedi Russia) che finisce per creare tutto ciò che vi è di più antisocialista, la piccola proprietà: l’economia è più forte di tutte le formule e di tutti i programmi a tavolino; … bisogna, dicevo, che lo Stato italiano, diventi da politico, economico; anticipazione precipitata del comunismo classico, secondo la definizione e il presagio del nostro Engels, per il quale il «Governo degli uomini » doveva, nel comunismo, diventare «l’amministrazione delle cose ». È unicamente a questo patto che la situazione può essere salvata per tutti, per la borghesia e per il socialismo; senza di questo è irremissibilmente perduta per tutti; per noi e per voi. (…) L’uomo è l’operaio, il proletario lo scontento, il ribelle, il rivoluzionario, e sarà tale finché non ne avremo fatto il padrone del lavoro e della produzione. Questo è dunque il programma dell’avvenire. Io non so chi lo eseguirà. Io so che, senza questo elemento, dell’emancipazione dell’operaio, niente di questo si farà. E non occorre essere socialisti. Io ho trovato – mi è arrivato l’altro giorno e lo avrete ricevuto anche voi – in questo libro fatto tutto da parrucconi molto rispettabili – che contiene gli studi e le proposte della Commissione del dopo guerra presieduta da Vittorio Scialoja, a un dipresso le medesime mie conclusioni. Leggete la relazione del nostro ex collega onorevole Fava, presidente della sezione decima. Egli dice le medesime cose: «Se non create le condizioni necessarie all’interessamento degli operai nella produzione, dati i tempi mutati, data la psicologia del dopo guerra, non otterrete nulla di nulla». Una volta era questione di giustizia, oggi è questione di vita o di morte. Conosco altri due uomini che hanno veduto queste cose; e sono un antico ed un moderno. Il moderno è il dottor Ratenhau, forse il più geniale ricostruttore, che abbia dato la guerra ; il quale nella sua Economia nuova dimostra, meglio che io non abbia saputo, come questa valorizzazione dell’uomo in Germania – e oggi là le condizioni sono peggiori che in Italia – sia indispensabile per redimere il paese. Vorrei ottenere che la Economia nuova fosse letta dai colleghi deputati: il mio discorso avrebbe raggiunto tutto intero il suo scopo. Solo quel popolo – afferma l’autore -che prima avrà soppresso l’antagonismo che è fra l’operaio ed il capitale, solo quel popolo trionferà.
L'opinione. Cosa direbbe Turati delle nostre prigioni? Domenico Ciruzzi su Il Riformista il 24 Marzo 2020. «Fuggono anche i detenuti qualche volta, ma troppo di rado, e io vorrei che le evasioni fossero ben più numerose: me lo augurerei di cuore» (F. Turati, Il cimitero dei vivi, da un discorso alla Camera dei Deputati sulle condizioni del sistema carcerario del 1904). A fronte delle grida di dolore che si levano dalle carceri e dal personale penitenziario, il Governo ha tecnicamente risposto con una presa in giro – un “cinico bluff” come definito, con parole vere e chiare, dal presidente dell’Unione camere penali, Gian Domenico Caiazza – che, nella migliore delle ipotesi, consentirà a poche centinaia di detenuti di scontare il residuo di pena all’interno delle proprie abitazioni. La presa in giro si annida nella parte finale del provvedimento: la concessione della detenzione domiciliare è subordinata (salvo che per i detenuti con un residuo di pena inferiore a sei mesi) alla disponibilità dei braccialetti elettronici. Sì, proprio quegli introvabili braccialetti elettronici la cui cronica e colpevole indisponibilità è la causa di quasi la totalità delle custodie cautelari in carcere: è irridente; è disumano. Pochissimi dunque usciranno dal carcere ed, a turno – come in una sorta di tragica riffa – via via che i braccialetti si liberanno. Quella moderazione, quell’evitare fughe in avanti, quella sana logica del miglior compromesso possibile a cui ci si è sottoposti per tentare di raggiungere un risultato intermedio in grado di salvare numerose vite umane sembrerebbe essere risultata vana. Il confronto sembra essere impossibile con gli integralisti delle manette, veicolo sicuro per attrarre il consenso. Ma non vogliamo e non possiamo arrenderci. Continuiamo ad invitare ed esortare il Governo e il Parlamento a cambiare rotta e ad assumere provvedimenti che realmente mettano al sicuro la salute delle decine di migliaia di detenuti, guardie penitenziarie ed operatori del carcere in questo momento sottoposti ad inaccettabili rischi. Aggiungiamo, inoltre – anche attraverso un appello al Presidente della Repubblica perché svolga quel compito di moral suasion che costituisce l’essenza fondamentale del suo ruolo all’interno degli equilibri costituzionali – la necessità di emanare provvedimenti di amnistia ed indulto che possano consentire al nostro paese di rientrare nei confini della civiltà e dell’etica. Mantenere lo status quo significa rappresentarsi ed accettare non già il possibile rischio bensì il più che probabile evento che moltissimi detenuti e guardie penitenziarie possano contrarre il virus ed in alcuni casi morire. Agire (o non agire) pur sapendo che necessariamente una simile condotta produrrà certi risultati significa assumere su di sé la responsabilità politica e giuridica delle eventuali morti. Si è davvero disponibili a tutto questo pur di restare coerenti alla brutale e demagogica propaganda? Quattordici detenuti sono già morti nei giorni delle rivolte, “perlopiù” – come improvvidamente riferito in Parlamento dal Ministro di Grazia e Giustizia – per intossicazione da abuso di farmaci e metadone. Evitiamo tra qualche mese di contare decine di decessi tra i detenuti, perlopiù a causa del coronavirus. Nel 2020, cosa direbbe Filippo Turati sul carcere al tempo del coronavirus?
La biografia. Chi era Filippo Turati, il padre nobile del socialismo democratico. Redazione su Il Riformista il 25 Giugno 2020. Nato a Canzo, provincia di Como, nel 1857, Filippo Turati era figlio di un alto funzionario statale. Intrapresi gli studi giuridici, si laureò nel 1877 all’università di Bologna per poi trasferirsi con la famiglia a Milano, dove frequentò A. Ghisleri e R. Ardigò, e iniziò la carriera di pubblicista come critico letterario. Negli anni successivi si avvicinò agli ambienti operai e socialisti e attraverso Anna Kuliscioff, compagna alla quale si legò per tutta la vita a partire dal 1885, entrò in contatto con alcuni esponenti della socialdemocrazia tedesca. Proprio in questo periodo Turati aderisce al marxismo. Nel 1889, insieme alla Kuliscioff, fondò la Lega socialista milanese, con l’obiettivo di creare un centro di aggregazione delle forze socialiste, primo passo verso la formazione di un partito autonomo della classe operaia. Questa azione, nel cui ambito si collocò la pubblicazione della rivista Critica sociale, culminò nel 1892 nella fondazione del Partito socialista dei lavoratori italiani (che dal 1895 assunse la denominazione Psi), cui Turati diede un contributo decisivo. Deputato a partire dal 1896, fu arrestato in occasione dei moti del 1898 e condannato a dodici anni di reclusione. Ma uscì di prigione l’anno successivo. Leader riconosciuto della corrente riformista, di fronte alla nuova fase politica avviata da G. Giolitti, Turati sostenne la necessità di appoggiare la borghesia liberale in un’ottica gradualistica. Antimilitarista, osteggiò la guerra in Libia (1911) e l’intervento italiano nel conflitto mondiale; nel dopoguerra il suo ruolo all’interno del Psi ormai guidato dalla componente massimalista, scemò. Espulso dal partito, nel 1922 diede vita, con Matteotti, al Psu. Nel 1926, dopo una fortunosa fuga organizzata da Parri, Rosselli e Pertini, si stabilì a Parigi, dove contribuì, nel 1929, alla costituzione della Concentrazione antifascista e, l’anno successivo, alla fusione socialista.
· La Biografia di Craxi.
Biografia da operaomniacraxi.it.
1968-1983
- L’elezione alla Camera e l'ascesa nel Partito
- La nuova identità del PSI
L’ELEZIONE ALLA CAMERA E L’ASCESA NEL PARTITO. Nelle elezioni politiche del maggio 1968 Craxi fu eletto deputato per la prima volta. Dopo il fallimento dell'unificazione socialista (1969), agli inizi del 1970 Giacomo Mancini divenne segretario nazionale del Psi, affiancato da tre vicesegretari: Codignola (in rappresentanza dei lombardiani), Mosca (per il gruppo di De Martino) e Craxi (per gli autonomisti). Confermato vicepresidente anche dopo il successivo congresso, tenutosi a Genova nel 1972, con De Martino segretario nazionale, Craxi ebbe l’incarico di curare i rapporti internazionali del partito. Nell’ambito dell’Internazionale socialista, come rappresentante del Psi, conobbe i leader dei maggiori partiti socialisti del tempo, da Willy Brandt a François Mitternad, stringendo particolari contatti con i leader dei partiti clandestini dei paesi sotto regime dittatoriale, sia in Europa sia in Sud America.
Nella politica nazionale, il problema maggiore del Psi rimaneva la ricerca di un proprio spazio, in contrapposizione tanto alla Dc quanto al Pci. La ricerca di un’affermazione elettorale con la quale si arrivò alle consultazioni politiche del giugno ’76 fu brutalmente disattesa dai deludenti risultati. Il clima del successivo Comitato nazionale, convocato per luglio all’Hotel Midas di Roma, fu da resa dei conti. Si puntò il dito contro la chiusura del partito, contro la presenza di troppe correnti e fazioni in lotta intestina, e la segreteria De Martino fu accusata di non essere adeguata ai tempi. Dopo lunghe trattative e veti incrociati, la convergenza fra manciniani, lombardiani, alcuni demartiniani e autonomisti rese possibile l’elezione di Bettino Craxi alla segreteria nazionale. Da qui Craxi iniziò lo svecchiamento del partito rinnovandone, al contempo, l'ideologia, cercando di motivare nuovamente i militanti, smarriti dopo le sconfitte e delusioni degli ultimi anni. Ma il suo compito fu anche quello di consolidare la propria posizione, da alcuni creduta semplicemente di transizione, barcamenandosi tra giochi di alleanze e contro-alleanze. Il successivo Congresso nazionale, tenutosi a Torino fra marzo e aprile del 1978, sancì l’affermazione di Craxi alla guida del partito. Venne lanciata la "strategia dell'alternativa", in risposta al disegno berlingueriano del "compromesso storico" e si rinnovarono i quadri, con il passaggio di testimone dalla vecchia leadership alle nuove leve. Il Congresso dei socialisti si aprì a pochi giorni di distanza dal rapimento del presidente democristiano Aldo Moro per mano delle Brigate rosse. Al "fronte della fermezza" Craxi oppose quello della trattativa per salvare la vita del presidente della Dc, propendendo per un’"azione umanitaria, nel rispetto delle leggi repubblicane". L’uccisione del presidente della Dc azzerò le trattative tra partiti condotte fino a quel momento. Nel clima mutato, Craxi comprese di poter avere un più ampio argine di manovra, e mise alla prova la forza del partito proponendo un socialista per la carica di Presidente della Repubblica: Sandro Pertini.
LA NUOVA IDENTITA’ DEL PSI. Nel frattempo, lo scontro con i comunisti giunse a un punto di non ritorno. Mentre Berlinguer operava lo strappo da Mosca e dalla tradizione comunista ortodossa lanciando la "terza via" o del "compromesso storico", Bettino Craxi intraprese una dura polemica ideologica con Botteghe Oscure. Il 27 agosto 1978, infatti, uscì sulle pagine del settimanale «L'Espresso» l’articolo "Il Vangelo Socialista", nel quale Craxi esaltò la figura ed il pensiero di Proudhon, abiurando invece Marx e Lenin, e sottolineò tutte le sostanziali differenze tra comunismo burocratico e totalitario e socialismo democratico e liberale. Alle elezioni anticipate del 3 giugno 1979 la Dc risultò stabile, il Pci perse il 4%, il Psi aumentò di poco i suoi consensi (9,8%). Una settimana dopo si svolsero le prime elezioni per il Parlamento europeo e Craxi venne eletto eurodeputato; fu riconfermato nel 1984 e nel 1989. Il 1979 fu l’anno in cui si iniziò a porre il problema degli euromissili. Craxi incoraggiò fortemente il voto favorevole del PSI all'installazione dei missili della Nato (Pershing e Cruise) in Italia, che fu garantito al governo Cossiga in seguito all’inserimento della cosiddetta "clausola dissolvente" nella risoluzione finale. Fra la decisione di installare i missili e il loro effettivo spiegamento sul territorio sarebbero trascorsi almeno quattro anni, e la clausola prevedeva che, qualora i sovietici nel frattempo avessero fermato il loro piano di ammodernamento missilistico, l’Italia si sarebbe tirata fuori dal programma di riarmo Nato. Poiché tali circostanze poi non si presentarono, l’installazione fu approvata dalla Camera nel novembre del 1983. Nel gennaio del 1980, dal Congresso nazionale della Democrazia cristiana uscì vittoriosa la linea del "preambolo" che, di fatto, chiuse le porte a qualsiasi accordo o collaborazione con il Pci. Il 4 aprile 1980 nacque il secondo Governo Cossiga: dopo sei anni i socialisti tornarono ad assumere incarichi governativi. Dal 22 al 26 aprile del 1981 si svolse a Palermo il 42° Congresso del Psi. Nel suo discorso, Bettino Craxi rilanciò l'idea di una grande riforma delle istituzioni, dell'economia e delle relazioni sociali, della governabilità e della stabilità. A Palermo si approvò la proposta di modifica allo statuto del partito e il segretario, per la prima volta nella storia socialista, fu eletto direttamente dai delegati. Craxi fu riconfermato alla guida del partito con 239.536 voti su 332.778. Claudio Martelli e Valdo Spini divennero i nuovi vicesegretari.
L'anno dopo, a Rimini (dal 31 marzo al 4 aprile 1982) si svolse la Conferenza programmatica del Psi. Craxi lanciò la parola d'ordine "cambiamento" insistendo sulla necessità di rimettere in moto la produzione, combattere l'inflazione, interpretare il nuovo nella società italiana in profonda mutazione socioculturale, trovando un nesso inscindibile fra meriti e bisogni.
1983-1987
- Il Governo Craxi
- Sigonella
IL GOVERNO CRAXI. Nelle elezioni del giugno 1983 il risultato elettorale del Psi non fu pienamente soddisfacente (passò dal 9,8% all'11,4%). Craxi, però, risultava ormai l'ago della bilancia della politica italiana. Il 21 luglio 1983 il presidente Pertini gli affidò l'incarico per la formazione del nuovo esecutivo. Il 4 agosto Craxi formò il suo primo Governo, un pentapartito Dc-Psi-Psdi-Pli-Pri. Il primo presidente del Consiglio socialista rimase a Palazzo Chigi fino al 17 aprile 1987. Il nuovo governo ereditò una situazione difficile: inflazione superiore al 15%, debito pubblico vicino al prodotto interno lordo; aumento della spesa sociale e della disoccupazione; industria in piena fase di recessione. Il programma di Craxi mirava a ridurre le cause inflazionistiche, restituire competitività alle imprese, riequilibrare lo stato sociale, promuovere la ricerca e la cultura. Altro elemento caratterizzante dell'esperienza governativa fu l'attenzione ai temi della pace e della cooperazione tra i popoli. Scelte concrete furono la riduzione o la cancellazione del debito di alcuni Paesi in via di sviluppo nei confronti dell'Italia e gli aiuti generosi ai paesi dell'altra sponda del Mediterraneo per sottrarre il bacino al rischio di essere un focolaio permanente di tensioni e di conflitti. Nel 1984 Craxi affrontò il problema del costo del lavoro. Il 14 febbraio, dopo una serie di infruttuosi incontri con i sindacati, il Governo varò un decreto che prevedeva il taglio di quattro punti di scala mobile. Pci e sindacati reagirono duramente accusando l'esecutivo di aver agito senza consultare le parti sociali. Dopo l'ostruzionismo parlamentare del Pci e l'approvazione di un decreto bis si raccolsero le firme per un referendum abrogativo che si svolse il 9 e 10 giugno 1985: il 54,3% dei votanti si espresse contro all'abrogazione della legge. Il 18 febbraio 1984 il presidente del Consiglio e il segretario di Stato della Santa Sede, cardinale Agostino Casaroli, firmarono a Palazzo Madama il nuovo Concordato tra l'Italia e il Vaticano. Fu regolata la questione dei beni e degli enti ecclesiastici; un nuovo sistema di aiuto economico (l'otto per mille nella dichiarazione dei redditi) sostituì la vecchia congrua. Fu confermato l'insegnamento della religione cattolica nelle scuole, ma la scelta di fruirne divenne facoltativa. Dall'11 al 14 maggio 1984 si tenne a Verona il 43° Congresso nazionale del Psi e Craxi fu riconfermato segretario per acclamazione dai delegati.
SIGONELLA. Il 7 ottobre 1985 un commando palestinese sequestrò, nelle acque antistanti l'Egitto, la nave italiana da crociera Achille Lauro con 545 persone a bordo. Un cittadino statunitense di origine ebraica, Leon Klinghoffer, fu assassinato dai terroristi e il suo corpo gettato in mare. Il 9 ottobre, con la mediazione dell'OLP, la nave rientrò a Porto Said, in Egitto, e gli ostaggi furono liberati. Il giorno seguente, i quattro dirottatori e un esponente dell'Olp, Abu Abbas, furono intercettati su un aereo mentre sorvolava il territorio italiano dai caccia americani che lo costrinsero ad atterrare nella base Nato di Sigonella, in provincia di Siracusa. Gli americani chiesero la consegna dei terroristi, ma il Governo italiano si oppose alla richiesta: il reato era stato commesso su una nave italiana, Sigonella si trova in territorio italiano e quindi spettava all'Italia perseguire i reati. I carabinieri, opponendosi con le armi alle truppe speciali statunitensi, presero in custodia i terroristi. Il 12 ottobre Abu Abbas lasciò l'Italia per Belgrado; il Governo americano inviò una dura nota di protesta. La vicenda di Sigonella causò una crisi di governo culminata con le dimissioni di Craxi in seguito alla fuoriuscita del Partito repubblicano dalla coalizione governativa. Tuttavia, la crisi rientrò con la partecipazione di Craxi al vertice dei sette Paesi più industrializzati del mondo a New York. Craxi, infatti, ebbe modo di chiarire con il presidente americano Reagan le divergenze maturate a seguito del dirottamento dell'Achille Lauro. Il 26 giugno 1986 il Governo chiese la fiducia per un decreto sulla finanza locale senza ottenerla. Craxi formò un nuovo governo, una riedizione del pentapartito, che, però rimase debole per la mancata disponibilità della Dc a collaborare con il Psi. Il 17 aprile 1987 nuove e definitive dimissioni furono il preludio alle elezioni politiche anticipate. Il 14 giugno 1987 il risultato elettorale premiò l'operato craxiano: il Psi salì, infatti, al 14,3% dei consensi. La guida dei successivi governi fu affidata prima a Goria, poi a De Mita e successivamente ad Andreotti.
1988-2000
- Gli incarichi internazionali
- Mani pulite
- Hammamet
GLI INCARICHI INTERNAZIONALI. Craxi tornò a dedicarsi a tempo pieno al partito proseguendo nella sua strategia politica: contendere alla Dc la centralità nel panorama politico italiano e rilanciare l'offensiva contro il Pci nell'intento di formare una sola grande forza socialdemocratica. In questo periodo scrisse molto per l'«Avanti!», firmando i suoi taglienti corsivi con lo pseudonimo "Ghino di Tacco" (attribuitogli da Eugenio Scalfari), il signore di Radicofani, che imponeva taglie per il passaggio sul suo territorio. Dal 13 al 19 maggio 1989 si tenne a Milano il 45° Congresso del Psi. Craxi fu rieletto segretario nazionale con il 92,3% dei suffragi, maggioranza che egli stesso definì "bulgara". Nel dicembre dello stesso anno il segretario generale dell'Onu, Perez De Cuellar lo nominò suo rappresentante personale per i problemi dell'indebitamento dei Paesi in via di sviluppo. Il leader socialista presentò alcuni mesi dopo il suo rapporto, che costituì la base della relazione che il segretario generale lesse all'Assemblea delle Nazioni Unite nel settembre 1990. In Italia, Craxi impegnò il suo partito su alcuni precisi obiettivi: rilanciare il tema della Grande Riforma, già ventilata un decennio prima, puntando all'elezione diretta del presidente della Repubblica; auspicare la riforma dei regolamenti parlamentari in modo da rendere più agevole l'azione dei governi. Il 2 marzo del 1990, a Pontida, il segretario socialista lanciò il nuovo decalogo per l'autonomia delle Regioni che reclamava una struttura statuale ai "limiti del federalismo". Nel corso dello stesso mese si tenne a Bologna il XIX Congresso del Pci in cui, per la prima volta, vennero discusse tre diverse mozioni. Prevalse quella del segretario Achille Occhetto, che propose l'avvio di una fase costituente finalizzata alla formazione di un nuovo partito progressista e riformatore. In questo contesto Craxi lanciò la parola d'ordine dell'"unità socialista". Alla fine del 1991 Craxi appoggiò la richiesta del Pds di entrare a far parte dell'Internazionale Socialista. Il 28 febbraio 1991 Bettino Craxi fu nominato dal segretario generale dell'Onu consigliere speciale per i problemi dello sviluppo, della pace e della sicurezza. Dal 27 al 30 giugno si tenne a Bari il Congresso straordinario del Psi. Craxi optò per il proseguimento della collaborazione governativa con la Dc, dando così vita al cosiddetto CAF (l'alleanza tra lui, Andreotti e Forlani).
MANI PULITE. Il 17 febbraio 1992 Mario Chiesa, presidente (socialista) del milanese Pio Albergo Trivulzio, una casa di riposo per anziani, venne fermato mentre incassava una tangente. Da quell'episodio partì l'inchiesta cosiddetta "Mani Pulite" (definita dai giornalisti "Tangentopoli"). Alcune settimane dopo (il 5 aprile 1992) le elezioni politiche segnarono una pesante sconfitta per i partiti storici. La Dc registrò un calo di 5 punti, i due partiti Pds e Rifondazione comunista, emersi dalla crisi del Pci, raggiunsero insieme il 21,7% (dal 26,6% di cinque anni prima). Il Psi subì una flessione, peraltro assai contenuta rispetto alla debacle generale, ottenendo il 13,6%. Riportarono successi due nuove formazioni politiche: la Lega Nord e la Rete. Alta fu la percentuale degli astenuti. Il governo fu formato dal socialista Giuliano Amato. L'inchiesta Mani Pulite, intanto, assunse un ruolo e una dimensione superiore al perseguimento di singoli comportamenti delittuosi e investendo le responsabilità della classe politica a tutti i livelli, locale e nazionale, colpì in diversa misura tutti i partiti dell'arco costituzionale e, in particolare, Dc e Psi. Un ruolo importantissimo fu svolto dai mass media che interpretarono e indirizzarono il sentimento popolare prevalente di forte avversione per il ceto politico tradizionale. Il cosiddetto "circo mediatico giudiziario" giocò un ruolo di fondo nella delegittimazione e criminalizzazione della politica, dando luogo a vere e proprie "gogne mediatiche" anticipatrici di condanne, ben prima di qualsiasi processo. Il 3 luglio 1992 Bettino Craxi prese la parola alla Camera. Nel suo discorso chiese a tutto il Parlamento, governo e opposizione, di assumersi la responsabilità di dare una soluzione politica alla crisi della Prima Repubblica innescata dalla diffusa illegalità del finanziamento dei partiti. Il 15 dicembre il leader socialista fu raggiunto da un avviso di garanzia (il primo di una lunga serie, a causa anche della improvvisa morte del segretario amministrativo del Psi, Vincenzo Balzamo) in cui, tra l'altro, si citavano proprio le sue dichiarazioni in Parlamento come prove della corruzione relativa ai costi della politica. Il 25 gennaio Craxi propose al Parlamento l'istituzione di una Commissione di inchiesta su Tangentopoli. L'11 febbraio si tenne a Roma l'Assemblea nazionale del Psi. Craxi lasciò dopo 16 anni la carica di segretario del partito. Il suo posto fu occupato da Giorgio Benvenuto prima, e da Ottaviano Del Turco dopo. Iniziava la fase finale della vita del Partito socialista che si sciolse ufficialmente con il congresso del novembre 1994. Il 29 aprile 1993 la Camera fu chiamata a votare l'autorizzazione a procedere nei confronti di Craxi, richiesta dalla Procura di Milano. Nel suo intervento parlamentare il leader socialista denunciò il carattere sistemico del finanziamento illegale della politica negando che questa materia potesse essere considerata "puramente criminale". La Camera negò l'autorizzazione a procedere. I giornali italiani gridarono allo scandalo, i ministri pidiessini del neocostituito Governo Ciampi si dimisero per protesta. Nel pomeriggio di quella stessa giornata, Craxi fu fatto oggetto di cori, insulti e lancio di monetine all'uscita dell'Hotel Raphael, l'albergo nel centro di Roma suo quartier generale sin dagli anni delle prime trasferte romane. Il 4 agosto 1993, a Montecitorio, Bettino Craxi pronunciò il suo ultimo discorso da parlamentare: "Per quanto riguarda il mio ruolo di segretario politico – dichiarò – io mi sono già assunto tutte le responsabilità politiche e morali che avevo il dovere di assumere, invitando senza successo altri responsabili politici a fare altrettanto con il medesimo linguaggio della verità (...). Per parte mia continuerò a difendermi nel modo in cui mi sarà consentito di farlo, cercando le vie di difesa più utili e più efficaci, e senza venire mai meno ai miei doveri verso la mia persona, la mia famiglia e tutte le persone che stimo e rispetto, siano esse amici o avversari".
HAMMAMET. Nel maggio del 1994 Craxi si trasferì nella sua casa di Hammamet, in Tunisia, dove rimase interrottamente fino alla morte. La Procura della Repubblica di Roma, intanto, ne chiese l'arresto. Da quel momento Bettino Craxi fu considerato un latitante. Lui continuò a definirsi un esule. Il Pool di Milano lo accusò di arricchimento personale, perseguito attraverso tangenti raccolte per finanziare illecitamente il suo partito. Più tardi lo stesso procuratore generale Gerardo D'Ambrosio dichiarò che Bettino Craxi non si arricchì personalmente. In Tunisia l'ex leader socialista fu protetto dal presidente Ben Alì, che si oppose alla richiesta di estradizione avanzata dalla Procura milanese. Da Hammamet Craxi continuò la sua battaglia, sia sul fronte della propria difesa personale, nei molti processi cui fu sottoposto, sia su quello della polemica politica, denunciando l'uso violento e strumentale della leva giudiziaria nella transizione del sistema politico italiano da una Repubblica dei partiti a una delle oligarchie e dei potentati economici. Riteneva l'accanimento giudiziario nei suoi confronti l'espressione massima di questa strategia. Nei sei anni di permanenza in Tunisia pubblicò su questo tema centinaia di articoli, note, comunicati e alcuni volumi (tra cui Il caso C.), comunicando ordinariamente via fax. Dedicò il suo tempo anche agli amati studi garibaldini, alla composizione di litografie e alla decorazione di anfore con la vernice tricolore. Le sue condizioni di salute, critiche già dal 1996, si aggravarono ulteriormente. Fu operato per un tumore al rene da chirurghi dell'Ospedale San Raffaele di Milano di concerto con i colleghi tunisini. L'intervento riuscì, il suo rene fu espiantato, ma non ci fu il tempo per un'ulteriore operazione resa necessaria dai problemi al cuore e dal diabete cronico. L'unico tentativo sarebbe stato un complesso intervento cardiochirurgico in Italia, ma fu posto il veto della magistratura. Bettino Craxi morì ad Hammamet il 19 gennaio 2000 per un arresto cardiaco. Per suo desiderio fu sepolto nel piccolo cimitero cristiano della cittadina tunisina. Sulla sua tomba è inciso: "La mia libertà equivale alla mia vita".
Bettino Craxi a 20 anni dalla morte: la storia e le foto. Dai primi passi a Lambrate alla guida del Psi nel 1976. Dal governo degli anni '80 a Sigonella, dal CAF ad Hammamet. Edoardo Frittoli il 17 gennaio 2020 su Panorama. Bettino Craxi vide la luce il 24 febbraio 1934, nella Milano del ventennio fascista. Era figlio primogenito dell'avvocato siciliano Vittorio, che si era stabilito nel capoluogo lombardo per sfuggire alle conseguenze delle proprie idee socialiste. Il rifiuto di prendere parte alle manifestazioni pubbliche del regime, fece sì che il piccolo Bettino venisse iscritto al collegio cattolico De Amicis di Cantù, in contemporanea allo sfollamento della famiglia dopo che lo studio legale del padre (punto di incontro di militanti socialisti come Sandro Pertini, Lelio Basso, Luigi Meda) fu danneggiato dai bombardamenti alleati. Durante il periodo trascorso in Val D'Intelvi la famiglia Craxi si adoperò per proteggere gruppi di ebrei in fuga verso la Svizzera, mentre il giovane Bettino era entrato nel mirino dei repubblichini per il suo atteggiamento apertamente ostile nei confronti dei Tedeschi.
Da Lambrate a Roma, passando per Sesto San Giovanni. Dopo la guerra il padre Vittorio fu nominato viceprefetto a Milano, assieme a Riccardo Lombardi. Successivamente promosso prefetto, fu trasferito a Como. Nel 1948 Vittorio Craxi si presentava alle elezioni politiche nei ranghi del Psi del frontismo, uscendone sconfitto. In questa occasione ebbe una svolta la passione politica di Bettino Craxi (allora appena 14enne) che lo porterà ad iscriversi al partito e a stabilire la propria attività a Milano, presso la storica sezione di Lambrate che fu già casa del fascio e in seguito sede della famigerata "volante rossa". La personalità del giovane Bettino venne notata ben presto da Guido Mazzali (storico direttore dell'"Avanti!" clandestino e deputato del Psi dal 1948) e dal segretario del partito Pietro Nenni. Dal 1952 al 1957 l'ascesa dell'ambizioso Craxi parve inarrestabile, fino a giungere alla nomina nel 1957 al comitato centrale del partito. Furono i fatti di Ungheria dell'anno precedente a determinare il cammino ideologico del giovane socialista milanese, che maturò il definitivo allontanamento dai dogmi di Mosca ai quali molti compagni di partito erano rimasti ancorati nel nome del frontismo. Il corso "autonomista" del giovane Craxi generò la sua messa in minoranza nel comitato centrale. Mazzali decise allora di riservare a Craxi una prova che certamente ne avrebbe forgiato il carattere caparbio e la capacità oratoria e strategica. La giovane promessa del Psi fu inviata nella "fossa dei leoni" di Sesto San Giovanni, la città dell' industria pesante meglio nota come la "Stalingrado d'Italia" per la fortissima presenza di maestranze e sindacati di stretta osservanza comunista. Il periodo durò tre anni, prima che Craxi venisse richiamato a Milano e nominato assessore all'economato durante l'amministrazione di Gino Cassinis prima e Pietro Bucalossi poi. Nell'ultimo periodo di permanenza nella giunta milanese di centro-sinistra si occupò di assistenza pubblica con l'assessorato alla Beneficenza e Assistenza, guidato fino alla nomina a segretario federale del Psi nel 1965. Candidato alle politiche del maggio 1968, l'autonomista Craxi è eletto deputato alla Camera. Due anni più tardi, il secondo passo verso l'ascesa ai vertici nazionali del partito con la nomina a vice-segretario nazionale condivisa con Tristano Codignola (lombardiano) e Giovanni Mosca (uomo di De Martino). Nel 1972, con De Martino segretario nazionale, a Craxi sono affidati i rapporti internazionali del Psi. Da questo momento il futuro leader socialista sarà impegnato sempre più costantemente nelle questioni di politica estera, contribuendo attivamente a creare una salda rete tra i rappresentanti dell'internazionale socialista come il tedesco Willy Brandt e il francese François Mitterrand. Legò in particolare modo con il presidente socialista cileno Salvador Allende e si occupò di assistere i partiti socialisti clandestini in Grecia e Portogallo.
Dalla guida del partito alla guida del Paese. L'occasione finale per l'ascesa di Craxi ai vertici del Psi avvenne all'indomani della sconfitta elettorale socialista nelle elezioni politiche del 1976, che videro il famoso "sorpasso" comunista e la decrescita della Dc e del Psi. I socialisti, frenati dall'immobilismo correntista, esautorarono De Martino durante la storica riunione dell'hotel Midas, dalla quale Bettino Craxi uscì segretario nel segno dei "giovani riformisti" e dello svecchiamento dei ranghi del partito. Come segretario del Psi Craxi mosse i primi passi nell'Italia degli anni di piombo culminati con il sequestro e l'uccisione di Aldo Moro, rappresentando la principale voce in favore della trattativa con i sequestratori contrapposta alla linea della fermezza dei comunisti e dei democristiani. Le conseguenze del caso Moro portarono ai governi di solidarietà nazionale e soprattutto all'elezione al Quirinale di un socialista, Sandro Pertini. All'inizio degli anni '80 il Psi di Bettino Craxi sviluppò quella che sarà nota come la "strategia dell'alternativa", in netta contrapposizione al compromesso storico Dc-Psi concepito nel decennio precedente, con l'obiettivo primario di ritagliare una sempre più marcata autonomia dei socialisti che garantisse lo spazio politico necessario alla possibile guida del Paese. L'inizio degli anni '80 fu caratterizzato tuttavia da una difficile situazione politica nazionale ed internazionale, quest'ultima segnata dagli effetti della guerra fredda e dagli sviluppi drammatici del conflitto arabo-israeliano. Sul fronte interno invece, Bettino Craxi dovette far fronte all'ostilità dei comunisti di Enrico Berlinguer e dall'astro nascente di Ciriaco de Mita, suo futuro rivale nella leadership di governo. Sul fronte interno, ancora sotto la minaccia della strategia della tensione (strage di Bologna del 2 agosto 1980) e del terrorismo (omicidio di Walter Tobagi, uomo molto vicino a Craxi) i socialisti entrarono a far parte nuovamente dell'esecutivo con il secondo governo Cossiga con ben cinque ministri (tra cui Gianni de Michelis), esperienza replicata anche nel governo Forlani dopo la Caduta di Cossiga per il ritiro di Zaccagnini. Al congresso di Palermo dell'aprile 1981 la leadership di Craxi, affiancato dai luogotenenti Claudio Martelli e Gianni De Michelis, uscì rafforzata. L'anno seguente il Presidente Pertini rompeva finalmente un tabù che durava da quasi 40 anni, affidando l'esecutivo per la prima volta ad un non-democristiano: il repubblicano Giovanni Spadolini. L'ultimo frammento del muro che separava Craxi dalla guida del Paese cadde quando a cadere fu anche il governo Spadolini in seguito al ritiro dei ministri socialisti. Alle elezioni anticipate del 26/27 giugno 1983 il Psi trionfò, raggiungendo l'11,4% dei voti. La Democrazia Cristiana arretrò sensibilmente, facendo rischiare a De Mita la guida del partito. Ancora una volta Pertini fece il passo storico, affidando con entusiasmo la guida del Governo al primo socialista della storia dell'Italia repubblicana (4 agosto 1983). Il primo governo Craxi fu caratterizzato dall'escalation dello scontro tra socialisti e comunisti, soprattutto in occasione del taglio operato da Craxi per decreto di tre punti percentuali della cosiddetta scala mobile. La reazione comunista e della Cgil (spaccata in due dall'azione di Craxi) non si fece attendere e fu caratterizzata da un forte ostruzionismo parlamentare e da grandi scioperi. Addirittura nel 1985 il Pci promosse un referendum abrogativo che tuttavia fu vanificato dal voto, rafforzando ulterioremente la posizione di Craxi che parve allora aver raggiunto uno dei suoi principali obiettivi, la “governabilità”. Nel 1984 il governo a guida socialista firmò la revisione del Concordato con la Santa Sede, che eliminava l'obbligatorietà dell'insegnamento della religione cattolica nelle scuole. Il periodo dal 1983 al 1986 fu caratterizzato da una congiuntura economica favorevole all'Italia, che contribuì (parallelamente alla discesa dell'inflazione) alla crescita sensibile del potere d'acquisto dei salari. Al miglioramento delle condizioni economiche del Paese tuttavia non fece da contraltare una riduzione sensibile del debito pubblico che,anzi si impennò negli anni della guida del Governo da parte di Bettino Craxi. Se da un lato la guida “decisionista” e carismatica del leader socialista aveva impresso un'accelerazione delle istanze riformiste, queste rimasero in buona parte disattese a causa della macchinosità e dell'alta conflittualità nel governo del pentapartito. Fu proprio l'attrito con Ciriaco de Mita, con il quale Craxi aveva sottoscritto un accordo di alternanza al governo tra Psi e Dc (noto come il “patto della staffetta”) a consumare l'esperienza del prima governo Craxi che, messo in minoranza su un decreto sulle amministrazioni locali, fu costretto a dimettersi il 27 giugno 1986. In politica estera, i primi anni '80 furono un periodo molto turbato per le crescenti tensioni internazionali in medio oriente e tra le due superpotenze. Nel 1980 a Washington era stato eletto il repubblicano Ronald Reagan, con il quale il leader socialista impostò da subito un dialogo costruttivo, interrotto soltanto più tardi dall'incidente di Sigonella. Ma il massimo impegno di Craxi si concentrò sulle questioni che riguardavano il medio oriente ed il Mediterraneo, che il leader socialista considerava di interesse primario per la politica estera italiana. La storia offrì a Craxi prove indubbiamente difficili. A partire dalla crisi degli euromissili, scoppiata con l'installazione dei missili nucleari sovietici SS-20 nei paesi satellite dell'Urss, nel cuore dell'Europa. La risposta americana prevedeva che l'Italia finisse al centro della questione, con la richiesta a Roma di installazione di missili americani "Pershing" e "Cruise" sul territorio italiano. Dopo la concessione da parte del Governo Spadolini dell'area dell'ex aeroporto siciliano di Comiso per il posizionamento delle testate nucleari, anche Bettino Craxi (con i socialisti che partecipavano all'esecutivo) fu per la concessione, le cui conseguenze contribuiranno ad allontanarlo ulteriormente dal Pci di Berlinguer che organizzava manifestazioni contro la Nato, gli Usa e gli euromissili. L'accettazione della richiesta americana fu tuttavia controbilanciata dalla richiesta di Craxi alle autorità Usa perchè accelerassero i tempi per il dialogo sul disarmo nucleare. Il secondo banco di prova per Bettino Craxi fu certamente la crisi del Libano, direttamente legata alle conseguenze del conflitto arabo-israeliano sulla questione del riconoscimento dello stato della Palestina. Su quest'ultimo punto Craxi fu inflessibile. Da grande estimatore di Garibaldi, il leader socialista era un convinto assertore dell'indipendenza e della libertà dei popoli oppressi, compreso quello palestinese. Ebbe cordialissimi rapporti con il leader dell'OLP Yasser Arafat e non mancò in più occasioni di difenderne le ragioni anche quando a parlare erano le bombe del terrorismo palestinese, creando attriti con Israele e con il principale alleato, gli Stati Uniti. In occasione delle due missioni militari italiane nel Libano sconvolto dalla guerra civile Craxi ne rivendicò l'utilità a protezione dei civili palestinesi minacciati di morte nei campi profughi. Con il leader palestinese Craxi si incontrò a Roma nel 1981 in una visita che generò un forte strascico polemico e le critiche degli americani. Al termine della crisi libanese, durante la quale intrattenne un dialogo continuo anche con il leader socialista druso Jumblatt, Craxi seguì da vicino le sorti del capo dell'OLP ormai cinto d'assedio e non escluse l'opzione di inviare la Marina Militare per la sua evacuazione. Lo sforzo di Craxi -europeista convinto- teso a garantire per l'Italia un ruolo di primo piano quale garante della pace nel Mediterraneo e in medio oriente, emerse pienamente nel caso dell'incidente di Sigonella dell'ottobre 1985. Durante una crociera al largo di Port Said, la nave italiana "Achille Lauro" fu sequestrata da terroristi palestinesi. Bettino Craxi si gettò in un attività diplomatica frenetica che portò le trattative con il leader Abu Abbas vicine alla risoluzione quando all'improvviso il commando giustiziava Leon Klinghoffer, un cittadino americano disabile di religione ebraica. Il commando scelse la resa alle autorità italiane, ma l'omicidio causò l'intervento degli Stati Uniti che tentarono in ogni modo di farsi consegnare i membri del commando. Le autorità italiane affermarono che essendo l'assassinio avvenuto su una nave italiana, i terroristi avrebbero dovuto essere processati in Italia. Durante il volo di trasferimento verso l'Italia il jet egiziano con i terroristi a bordo fu intercettato dai caccia americani e costretto ad atterrare alla base di Sigonella. Qui l'aereo fu circondato sulla pista da Carabinieri e militari della VAM (Vigilanza Aeronautica Militare), tra cui diversi giovani di leva. Gli americani per tutta risposta inviarono gli specialisti della Delta Force, che a loro volta circondarono gli italiani nel tentativo di farsi consegnare Abbas e compagni. Iniziò così il famoso braccio di ferro Reagan-Craxi vinto da quest'ultimo con la rinuncia finale al blitz da parte delle forze americane. Alla metà del decennio il governo Craxi dovette affrontare un'altra crisi internazionale , questa volta con la Libia del colonnello Gheddafi, in occasione del bombardamento di Tripoli da parte dell'aviazione Usa come ritorsione all'attentato della discoteca di Berlino Ovest in cui persero la vita alcuni militari americani. Anche in questo caso la priorità del leader socialista fu quella di proseguire lungo la strada del dialogo di cui l'Italia si era fatta portavoce, arrivando a negare l'uso delle basi aeree sul territorio nazionale costringendo i cacciabombardieri a decollare dalle basi britanniche evitando lo spazio aereo italiano. Molti sostengono che fu lo stesso Craxi ad avvisare il colonnello dell'imminente raid dell'aprile 1986 salvandogli la vita. Il primo governo Craxi fu fino ad allora il più lungo della storia repubblicana, arrivando quasi al termine della legislatura e fu succeduto da un secondo esecutivo più breve guidato dal leader socialista fino al 3 marzo 1987.
Dagli anni del "CAF" ad Hammamet. Gli anni seguiti all'esperienza di governo videro Craxi riconfermato con un voto pressoché plebiscitario alla guida del partito, che partecipò ai successivi governi a guida Dc (Goria, Andreotti). In questi anni il segretario socialista fu impegnato alla costruzione di una serie di alleanze che avrebbero dovuto scardinare l'asse politico della Dc demitiana con il concerto dei due democristiani a lui più vicini, Arnaldo Forlani e Giulio Andreotti. L'alleanza strategica, nota meglio con le iniziali dei tre cognomi “CAF” era funzionale al ritorno del Psi di Craxi alla guida del paese, in un mondo stravolto dalla caduta del muro di Berlino che per Craxi avrebbe potuto significare la vittoria decisiva nei confronti dei comunisti e la nascita di un grande partito socialdemocratico di respiro nazionale ed europeo. Un'altra grande battaglia rimasta un “ululato alla luna” fu il progetto di riforma della Repubblica in senso presidenzialista, approssimandosi la fine del mandato di Francesco Cossiga. Il disfacimento del partito comunista parve offrire poi l'occasione per una nuova alleanza “alternativa” a sinistra con il neonato Pds di Achille Occhetto, ma il progetto fallì per i timori degli ex-comunisti di rimanere fagocitati dalla egemonia del segretario socialista e per la diffidenza dell'alleato Andreotti nei confronti di quel nuovo soggetto politico. Nel 1990 gli equilibri politici italiani subirono un ulteriore scossa dalla scoperta della rete Gladio, dalle cosiddette “esternazioni” del picconatore Cossiga e dall'esito inaspettato del referendum promosso da Mario Segni sull'abolizione delle preferenze multiple in campo elettorale, che tutti i partiti della maggioranza avevano osteggiato, compreso il Psi. Altri fattori che contribuirono al terremoto politico dei primi anni '90 furono l'esaurirsi della congiuntura economica favorevole del decennio precedente e la mancata riduzione del debito pubblico. Alla debolezza dei partiti della maggioranza contribuiranno in modo determinante il primo successo elettorale della Lega di Umberto Bossi e gli esiti dell'attacco allo Stato da parte della mafia dei “corleonesi”, culminato con l'uccisione dei giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Nel febbraio del 1992 era stato arrestato dai magistrati milanesi del pool il manager pubblico socialista Mario Chiesa nell'ambito dell'inchiesta relativa alle tangenti al Pio Albergo Trivulzio. Presto allargatasi a macchia d'olio, l'inchiesta poi nota come “Mani Pulite” incise in modo determinante sull'esclusione di Craxi nella corsa alla presidenza della Repubblica (sarà eletto Oscar Luigi Scalfaro) sia a Palazzo Chigi, mentre al Governo fu nominato il luogotenente di Craxi Giuliano Amato. Nonostante i dibattimenti parlamentari e le dichiarazioni di Craxi sulla realtà del finanziamento illecito ai partiti come “sistema universale e conosciuto”, le indagini di Antonio di Pietro e del pool proseguirono amplificate dall'ampio spazio mediatico di televisioni e giornali. Eroso dall'imminente sfacelo del Psi, l'11 febbraio 1993 Craxi si dimise dalla carica di segretario che aveva mantenuto dal lontano 1976, dopo avere ricevuto il primo avviso di garanzia alla fine dell'anno precedente (15 dicembre 1992). In seguito alla partecipazione all'udienza del caso “Enimont” e al precedente drammatico suicidio in carcere di Gabriele Cagliari, presidente socialista dell'Eni dal 1989, Craxi scelse la via dell'esilio volontario ad Hammamet, dove possedeva una villa, mentre proseguivano i processi a suo carico e le informazioni di garanzia che arrivarono a 11. Negli ultimi anni di vita il leader socialista fu gravemente condizionato dal peggioramento delle proprie condizioni di salute a causa di una grave forma di diabete mellito. Tuttavia Craxi non smise di seguire attentamente e commentare le vicende politiche dell'Italia dopo il terremoto che aveva cancellato tutti i partiti della prima repubblica. Dopo che nell'autunno 1999 le sue condizioni di salute peggiorarono decisamente (subì tra le altre cose l'asportazione del rene destro) e con una sola coronaria ancora funzionante, Bettino Craxi si spense per una crisi cardiaca tra le braccia della figlia Stefania il 19 gennaio 2000, all'alba del nuovo millennio.
· La Ricorrenza della morte.
Craxi e i sette nani. Marcello Veneziani, La Verità 17 gennaio 2020. “Ho fatto tutto di corsa in una specie di frenesia che mi bruciava l’animo. Ho così commesso anche molti errori. E tuttavia, quello che io penso è che nella mia vita ho reso grandi servigi all’Italia. La storia, se non sarà scritta da storici di regime, dirà quanto questo è vero. Certo non merito di essere condannato a morire lontano dal mio Paese”. Con questo lapidario giudizio, quasi testamentario, Bettino Craxi rispose a una mia domanda se fosse pentito dei suoi errori e fosse tentato di tornare in Italia. A ripensarci oggi sorge una strana nostalgia per l’orco. Acuita non solo dall’anniversario, il ventennale della sua morte da esule brigante in Tunisia. E non solo dal bel film di Gianni Amelio e Agostino Saccà dedicato a lui, con un Favino che sembra davvero Bettino; un film che pare ispirato da sua figlia Stefania, vera coprotagonista del film. Ma reso ancora più acuto dal paragone con la miseria della classe di governo presente. Le monetine al Raphael furono una piccola Piazzale Loreto, incruenta ma avvilente. Craxi non fu mai popolare, non ebbe mai consensi maggioritari, non faceva molto per rendersi simpatico. Fu burbero anche con “gli intellettuali dei miei stivali”. Ma aveva il senso della Grande Politica e della storia. Quando lo intervistai (con risposte scritte), nel dicembre del ’97 per il settimanale che allora dirigevo, Craxi era ricoverato al Policnico Taoufik di Tunisi. Era già un Craxi postumo, ragionava col distacco della storia. Aveva un piede, non per modo di dire, già nella fossa. Temeva per l’Italia, riteneva il bipolarismo “un’offesa alla democrazia e una rappresentazione falsa della reale società politica”. Riteneva gli italiani in prevalenza di centro-destra. Agrodolce era il suo giudizio su Berlusconi. Reputava D’Alema il politico caratterialmente più vicino a lui, figlio come lui della partitocrazia. E si divertiva a notare che “quando D’Alema alza la voce gli danno del miglior Craxi”. Considerava passeggero l’effetto Di Pietro in politica e considerava Fini “un vuoto incartato”, in cui “le forme prevalgono sulla sostanza”. Titolai l’articolo: “Intervista al miglior politico degli ultimi vent’anni”. Confermo il giudizio, anzi oggi lo raddoppierei: “degli ultimi quarant’anni”. Spiace dirlo a uno come me, mai stato socialista o di sinistra, e nemico sin da ragazzo dell’arroganza e della corruzione al potere. Craxi mise in crisi il consociativismo catto-conf-comunista, con supporto di laici e bella stampa; tentò di modernizzare la sinistra e sdoganare la destra, liberandosi dalla pregiudiziale antifascista dell’arco costituzionale; varò il nuovo Concordato e la nuova scala mobile, pensò a una grande riforma istituzionale che riportasse al centro della politica la decisione, l’elezione diretta del Capo dello Stato. Favorì la revisione storica, la passione nazionale e risorgimentale, il socialismo tricolore. A lui si deve il governo più duraturo della prima repubblica, che coincise col periodo di maggior vitalità, ottimismo e benessere dell’Italia e di gran prestigio internazionale, da quinta potenza mondiale (ma i debiti crescevano). Sigonella fu un mirabile esempio di sovranità nazionale; che costò caro a Craxi e forse ad Andreotti. Craxi si circondò non solo di nani e ballerine, ma anche di intelligenze politiche affilate, di prim’ordine e di cenacoli intellettuali come il laboratorio di Mondoperaio. Ciò non sminuisce le sue responsabilità nell’Italia del malaffare, della partitocrazia e delle tangenti. Lo Statista aveva un suo doppio, Ghino di Tacco, o il Cinghialone come lo chiamava allora Feltri. Ma non fu lui ad avviare la corruzione politica e il finanziamento losco dei partiti, già in uso grazie alla sinistra dc sin dagli anni ’50 nel parastato e ai primi socialisti al potere negli anni Sessanta. Lui cercò di liberare il Psi e il Paese dalla morsa tra il Pci che godeva di sostegni anche economici sovietici più la rete delle coop, e della Dc che gestiva potere e sottopotere. Craxi disegnò uno Stato autorevole che libera il Mercato ma conserva il primato della politica sull’economia; apre alla religione senza essere clericale: per Craxi il problema non era tacitare la Chiesa ma dare prestigio allo Stato e autorevolezza alla politica. È il vuoto di decisione politica che porta a trovare supplenze, dalla magistratura alla finanza, dalla chiesa alle ingerenze internazionali. Craxi era per un’Italia laica, moderna ed emancipata ma non avrebbe ridotto la sinistra a difendere gay, aborti, eutanasie, zingari, tossici e clandestini, ferma all’antifascismo. Con Craxi avemmo l’unica efficace sinistra di governo che ha prodotto la repubblica italiana. Certo, un po’ brigante, affarista e malandrina. Non idealizziamo, non dimentichiamo, vediamo tutti i lati. È vero, ci fu una pianificazione dei pedaggi da pagare alla politica. Ma la politica non si può giudicare solo con la morale e col codice penale; si giudica soprattutto dagli effetti che produce sulla vita del Paese e dei suoi cittadini, sul ruolo dello Stato rispetto allo sviluppo, i costi vanno rapportati ai benefici. E poi, lo vediamo oggi, i cretini incompetenti fanno più danni dei briganti capaci. Quando emerse Renzi, molti s’illusero che fosse un nuovo Craxi. Più loquace, più brillante ma meno autorevole, meno solido, meno legato alla storia italiana. Disponeva, a differenza di Craxi, di un partito di maggioranza, non aveva rivali, ma non si rivelò all’altezza del compito e alla fine restò vittima di se stesso e di una sinistra che riuscì a mortificare ma non a modificare. Craxi resta il nostro ultimo grande statista. Si, fu un professionista della politica, prosperò con lui il malaffare; ma daremmo cento dilettanti grillini e sinistri allo sbaraglio per avere uno come lui. Ad avercene…M.V. La Verità 17 gennaio 2020
Il dibattito sulla figura di Craxi: troppi tifosi e analisi distaccate. Roberto Rampi il 22 Gennaio 2020 su Il Riformista. In queste settimane si è detto e scritto molto di Bettino Craxi. E per lo più, ancora una volta, si è scritto e detto in modo fazioso e con spirito di tifoseria. E si è persa l’occasione di un anniversario importante per una valutazione distaccata e pacata non solo e non tanto sulla figura politica e su quella umana, ma soprattutto sulla dinamica che attanaglia il Paese dal 1992 ad oggi, praticamente la guerra dei trent’anni del qualunquismo, dell’approssimazione e della violenza giudicante e al tempo stesso autoassolvente di questo Paese. Quel che manca è il senso della misura, quel che abbonda è l’individuazione corale da parte di un pensiero dominante e maggioritario che accomuna la maggior parte del sistema dell’informazione e del sentire pubblico e alla quale la politica, con la minuscola, si accoda in modo quasi totale. Si cominciò appunto con il tema della corruzione e delle tangenti nella politica. Tema vero e assolutamente presente. Per me erano gli anni del liceo e da appassionato di Politica giravo con la spilletta che ho ancora: tangenti no grazie. Ma una battaglia giusta per ripulire la Politica da abusi e corruttele divenne presto altro: la caccia all’untore, la demonizzazione, l’individuazione del nemico, le tv appostate fuori da palazzo di giustizia, i mostri in prima pagina. Da lettore di Manzoni mi schierai (tra i pochi giovani di sinistra purtroppo) dall’altra parte. Tutto sapeva già di colonna infame. Ma l’errore, direi epistemologico, era pensare di spazzare via una classe dirigente e così migliorare il Paese. Non è stato. Anzi. Credo sia patrimonio acquisito l’abbassamento qualitativo uniforme che ne è derivato. Invece che combattere analiticamente, chirurgicamente, puntualmente i fenomeni corruttivi e le loro cause, si è scelto di condannare la politica tout court. E da quel giorno non si è più smesso: che si tratti di dipendenti pubblici, di enti definiti inutili, di spese considerate pazze, il metodo è far di tutta l’erba un fascio, buttare tutto nel calderone, semplificare, accusare, e pensare che l’azzeramento produca risultato. Ma il risultato di ogni azzeramento è appunto lo zero, il vuoto, il nulla, il nichilismo di un tempo senza fiducia e quindi senza collettivo, senza l’altro, senza il noi, vittima di un io piccolo ma continuamente inquadrato nel proprio obiettivo a guardarsi senza guardare, a cercar conferma di esistere senza mai fare i conti con la componente di vizi che più si condannano negli altri meno si individuano in se stessi. È una totale mancanza di senso della misura, della proporzione, della serenità di vedere con quanto di positivo e di negativo sono sempre compresenti in ogni fenomeno. Tornare a quote più normali, come ci ha cantato un grande poeta.
Conte, la sinistra e la meschina fuga da Craxi. Alessandro Sallusti, Lunenì 20/01/2020, su Il Giornale. L'Italia politica di oggi, vista da Hammamet seduto sulla stessa poltrona posta davanti al televisore da cui la guardava Bettino Craxi attraverso i telegiornali, appare ipocrita e confusa come durante gli anni del suo esilio forzato. Al governo c'è sempre il Pd, che esattamente vent'anni fa, morto Bettino, propose alla famiglia funerali di Stato (rifiutati come si rifiutano le condoglianze del boia); ma che oggi - controsenso logico - non si è degnato di mandare neppure un rappresentante sulla tomba del leader socialista per onorare il ventesimo anniversario della sua scomparsa. Solo chi ha la coscienza sporca o è in malafede si rifiuta di fare i conti con la storia. Passi l'ignoranza dei Cinque Stelle e dei loro cantori, che ai tempi di Craxi statista andavano all'asilo o scribacchiavano di calcio come aspiranti giornalisti; passi che questi signori non sanno che sotto Craxi l'Italia ha avuto, per la prima e ultima volta, la tripla A dalle agenzie internazionali di rating (l'equivalente delle tre stelle per un ristorante); passi il cinismo di sbeffeggiare un morto raccontandone solo vicende giudiziarie, che se fossero loro i biografi di Dante, il Sommo poeta sarebbe ricordato come un pericoloso pregiudicato latitante a Ravenna vigliaccamente sottrattosi alla legittima condanna (a morte, tramite rogo) emessa da quei galantuomini che erano i giudici guelfi fiorentini. Lasciamo insomma stare i Cinque Stelle che sono quello che sono e che presto scompariranno nelle urne. Il problema (grosso, non riguarda solo la vicenda Craxi) è che un premier, Giuseppe Conte, che si atteggia a statista e una sinistra che si dice riformista hanno dimostrato in questa occasione con la loro esibita assenza tutta la loro piccola mediocrità. Probabilmente era da ingenui sperare l'inverso. Conte è un parvenu furbetto che ha paura della sua ombra. In quanto agli altri, si possono redimere i peccatori, non i farabutti. Eppure il grande sforzo di Stefania Craxi a riabilitare la memoria del padre non è stato vano. Non c'è stata la firma della pace all'interno della grande famiglia socialista, ma questo anniversario (film, libri, documentari, dibattiti e quant'altro) ha ridato, dopo vent'anni passati in clandestinità, dignità storica, umana e politica a Craxi e al craxismo. In questo senso, alla faccia degli avvoltoi, missione compiuta, soldatessa Stefania.
Vent’anni dalla morte di Craxi: ecco chi andrà ad Hammamet (anche leghisti ed esponenti Pd). Pubblicato mercoledì, 15 gennaio 2020 su Corriere.it da Claudio Del Frate. Il 19 gennaio, domenica prossima, ricorrono i 20 anni della morte di Bettino Craxi, la cui vicenda viene rievocata in questi giorni anche nelle sale cinematografiche con il successo del film di Gianni Amelio «Hammamet». Proprio nella città tunisina, dove il leader del Psi trascorse gli ultimi anni della sua vita, è previsto l’arrivo di una folta delegazione di parlamentari, sindaci ed ex militanti socialisti che renderanno omaggio alla figura di Craxi. Ma se la trasferta in Tunisia di personalità che spesero la loro attività politica per il Garofano, colpisce la presenza nella delegazione anche di rappresentanti della Lega e del Pd (anche se a titolo personale). Il Carroccio di Bossi e il Pci ebbero infatti un atteggiamento di scontro aperto con Craxi e con il mondo che Craxi rappresentava. La Fondazione Craxi ha reso noto che le celebrazioni occuperanno tutto il fine settimana, dal 17 al 19 gennaio e che ad hammamet è atteso l’arrivo dall’Italia di almeno 600 persone. «La Tunisia è un paese straniero ma non estraneo» diceva il segretario socialista. «Le iniziative organizzate dalla Fondazione Craxi - è stato reso noto - avranno il loro culmine nella cerimonia di commemorazione che si terrà alle ore 10.30 di domenica 19 gennaio, giorno del ventennale della scomparsa di Bettino Craxi, presso il cimitero cristiano di Hammamet, lì dove l’ex premier socialista riposa, in un recinto di terra che si affaccia sul mare, rivolto verso l’Italia». Ecco l’elenco di quanti hanno già assicurato che saranno sull’aereo per Hammamet. Forza Italia - partito che più di altri rappresenta la continuità dell’eredità politica craxiana - sarà presente con una delegazione ufficiale guidate dalle capogruppo di Camera e Senato Maria Stella Gelmini e Anna Maria Bernini. Con loro ci saranno i senatori Francesco Battistoni, Fiammetta Modena, Maria Teresa Rizzotti e i deputati Simone Baldelli, Alessandro Cattaneo, Alessandro Battilocchio e Maria Tripodi. Della delegazione faranno parte anche due parlamentari della Lega, Armando Siri e Massimo Garavaglia, già sottosegretari nel primo governo Conte. Presenza non scontata, quella del partito di Matteo Salvini: il successo del movimento di Bossi, a partire dalla fine degli anni ‘80 fece molto leva sulla contrapposizione al sistema di potere di Craxi e del pentapartito e sull’esplodere dell’inchiesta Mani Pulite. Punto più duro di questo scontro fu l’esposizione nell’aula di Montecitorio, da parte del deputato leghista Luca Leoni Orsenigo, di un cappio all’indirizzo degli inquisiti di Tangentopoli. Era il 16 marzo del 1993 e da allora la Lega ha rivisto molto il suo giudizio su Craxi. Per Hammamet si imbarcheranno anche esponenti del Pd e di Italia Viva. Del primo fanno parte il sindaco di Bergamo Giorgio Gori e il senatore Gianni Pittella (che ha un passato nel Psi e che ha specificato di partecipare a titolo personale). I renziani saranno invece rappresentati dal capogruppo in Senato Davide Faraone. Matteo Renzi, proprio nelle ultime ore, ha espresso apprezzamento per la figura di Craxi; nemmeno l’ex premier, d’altro canto, proviene dalla tradizione dell’ex Pci, partito con il quale Craxi ebbe scontri durissimi culminati con l’episodio del congresso socialista di Verona del 1984; qui l’ingresso in sala della delegazione comunista, guidata da Enrico Berlinguer, venne accolto da una bordata di fischi. «io non ho fischiato scandì Craxi dal palco - ma solo perché non so fischiare». La partecipazione più nutrita alla commemorazione in Tunisia è tuttavia quella degli ex socialisti. Davanti alla tomba di Craxi si riuniranno tra gli altri Claudio Martelli, Ugo Intini, Margherita Boniver, Maurizio Sacconi, Fabrizio Cicchitto, Claudio Signorile e l’ex sindaco di Milano Carlo Tognoli.
Fabio Martini per “la Stampa” il 20 gennaio 2020. Nel piccolo, isolato cimitero cristiano di Hammamet, la tomba scavata nella sabbia dove da 20 anni riposa Bettino Craxi, in pochi minuti è presa d'assalto e diventa oggetto di un "culto" originalissimo: viene letteralmente circondata dai più ardimentosi, che pur di restare in prima fila non si fanno remore di sfiorare la copertura in marmo. Fanno muro, con l' effetto che il cimitero è talmente affollato che chi sta dietro, non capisce subito dove sia sepolto il leader socialista. E qualcuno pur di raggiungere la prima fila, arriva a camminare sulle tombe circostanti, compresa quella struggente che ricorda un bimbo "che visse tra due crepuscoli". Sono le dieci del mattino, l' anniversario dei venti anni dalla scomparsa di Bettino Craxi si consuma in questa atmosfera: più eccitata che raccolta, senza dubbio meno mesta che nelle occasioni precedenti. Dall' Italia è arrivata tanta gente, mai come nei 20 anni precedenti e in tanti sentono che è arrivata l' ora di "festeggiare" in qualche modo quel moto di curiosità collettiva che da giorni sta circondando la figura di Bettino Craxi, quasi che sia iniziato «un cambiamento nel senso comune», come suggerisce Ugo Intini. Difficile capire la profondità dell' inversione nell' opinione pubblica, ma al di là della commozione e dell' orgoglio dei tanti socialisti arrivati ad Hammamet, la vedova Anna, i figli Bobo e Stefania hanno scelto una commemorazione estremamente sobria: nessun discorso, soltanto lo sfilare di militanti, amici, parlamentari davanti alla tomba di Craxi, dove quasi tutti puntualmente si commuovono davanti all' epitaffio a suo tempo voluto dall' ex presidente del Consiglio: «La mia libertà equivale alla mia vita».
I compagni di un tempo. Tutti attorno quasi un migliaio di vecchi compagni socialisti, ma neppure uno dei "vip" politici che erano stati annunciati. E alla fine la "notizia" è proprio questa: in Italia ci sono le file al cinema per il film Hammamet, ma le principali forze politiche alla fine hanno deciso di disertare la commemorazione organizzata dalla famiglia. Craxi è ancora ingombrante? Craxi fa ancora paura? Sta di fatto che non c' era Silvio Berlusconi, che fu amico di Bettino e che se l' è cavata con un messaggio. Erano annunciate le due capigruppo di Forza Italia Anna Maria Bernini e Maria Stella Germini ma al cimitero di Hammamet non c' era nessuna delle due, anche se la prima ha fatto una fugace apparizione due sere fa durante la proiezione in anteprima de "Il caso Craxi" co-prodotto da Sky e poi è subito ripartita per l' Italia. E la Lega? Nei mesi scorsi i leghisti avevano lasciato trapelare un interesse ad una "rivisitazione" della figura di Craxi, avevano fatto capire che ad Hammamet sarebbe potuto arrivare un big, ma alla fine non si sono visti né Salvini né Giorgetti e neppure il viceministro Massimo Garavaglia. Giancarlo Giorgetti, intervistato da Lucia Annunziata a Mezz' ora in più, si è limitato a dire: «Serve serenità di giudizio, lui interpretava la modernità. Come partito noi non ci siamo, storicamente all' epoca delle inchieste noi stavamo dall' altra parte, ma dopo venti anni possiamo dire cosa ci fosse di buono, abbiamo il dovere morale e storico di farlo. Non c' è stato arricchimento personale. È stato un uomo politico lungimirante, penso alla scala mobile». Alla fine, sia pure presenti a titolo personale, diversi esponenti del Pd: l' ex presidente dei parlamentari socialisti europei a Strasburgo, Gianni Pittella, il sindaco di Bergamo Giorgio Gori, Tommaso Nannicini. C' erano, ovviamente, diversi dirigenti socialisti della stagione craxiana - Claudio Martelli, Claudio Signorile, Fabrizio Cicchitto, Maurizio Sacconi - quelli dell' unica forza organizzata, il Psi, con Riccardo Nencini e il segretario Luigi Iorio: «ll Pd faccia una riflessione storica e non lasci l' eredità politica di Craxi alla destra».
Carlo Tecce per “il Fatto Quotidiano” il 20 gennaio 2020. Vent' anni dopo la morte di Craxi nessuno vuole tardare all' incontro con se stesso. Per darsi ragione, soprattutto chi fu codardo. Bettino Craxi è un alibi di gruppo che la polvere di Hammamet inghiotte fra stravaganze, retorica e crassa ipocrisia. Più che deporre il righello della cronaca per adoperare il metro della storia, come dice un socialista di superba intelligenza, qui in Tunisia le celebrazioni per Craxi hanno sequestrato la cronaca per ricattare la storia. Improbabili eredi di Craxi in Forza Italia o Italia Viva, che neppure sanno che posto occupare in aula se più al centro o più a destra, strattonano Bettino non affascinati dal riformismo di sinistra, che all' epoca dei "blocchi egemoni" si ritagliò uno spazio vincente, ma perché convinti che la perdita di memoria collettiva abbia cancellato la latitanza tunisina e le condanne giudiziarie, rivisitato le sentenze. La famiglia ha tentato di non reiterare il solito duello su Tangentopoli, per esempio con le fotografie appese alle pareti di calce alla Medina per riaffermare il profilo internazionale di Craxi. Ma poi ci si è accorti che il tema più forte è Tangentopoli e lì si è rimasti incagliati. Il vento di Hammamet è un imprevisto che agita la serata di sabato, la comitiva si raduna in un salone stracolmo per la proiezione di un documentario di Soul Movie che va in onda su Sky. La più alta espressione della trasgressione socialista consiste nel fumare dov' è vietato, l' ex viceministro Riccardo Nencini fa un tiro di sigaretta e ascolta il compagno che gli mostra l' arte della pipa. I cacicchi socialisti di un tempo, che la fondazione di Stefania Craxi ha trasportato in Tunisia con l' ausilio di una solerte agenzia di viaggi (e un po' si sentono in gita), incorporano il misticismo craxiano con i garofani che restano assai rossi e le ciabattine assai bianche per un turno di bagni negli albergoni di riviera con i datteri in omaggio. Dove i più disinibiti camminano in accappatoio e pattine. Claudio Martelli si colloca in prima fila, ovunque, per raschiare le esitazioni durante l' epilogo di Bettino; un segaligno Ugo Intini, di poco più anziano e con la chioma più scura, ha spesso le mani giunte in una sorta di preghiera rievocativa che affronta con gli occhi socchiusi; il leghista Armando Siri teorizza il sovranismo craxiano nel partito che agitò il cappio e più che il cileno Allende abbraccia la francese Le Pen; il sindaco dem di Bergamo, Giorgio Gori cerca ispirazione per il manifesto della scalata al Nazareno di Nicola Zingaretti, contestato da Stefania perché assente insieme col governo. I giornalisti quasi si scusano per i giudici di Tangentopoli. I più eccentrici vanno in chiesa con la felpa, il cappuccio e la scritta "craxiano", che presto Matteo Salvini dovrà indossare. Un collaboratore di Stefania fa un resoconto al pubblico dei messaggi pervenuti in Fondazione e fa sorridere, con il dovuto rispetto, l' entusiasmo per la nota firmata dall' ambasciatore romeno in Italia. Alla parola Arcore, residenza di Silvio, l' autore degli auguri a Stefania, la platea si scalda. Un attimo dopo si parla di Craxi che andò a contendere elettori ai comunisti a Sesto San Giovanni, la Stalingrado d' Italia. Sigonella viene raccontata come un annuncio di guerra agli Stati Uniti. Augusto Minzolini assiste compiaciuto vicino all' impianto dei fonici. Osservatori eruditi si cimentano in trattati di umana pietà - che deprimono l' arguzia e la ferocia politica che furono la cifra di Craxi - con menzioni casuali, come quelli che per compiacersi in un rigo citano l' americano Carver e l' altro il russo Dostoevskij. Amici socialisti propongono di sballarsi con il narghilé dopo il documentario che s' intitola, non si è precisato, Il caso Craxi. Non serve, la confusione già è troppa e la situazione precipita. Nel documentario il sindaco-cognato Paolo Pillitteri ha il compito di dipingere il Bettino bambino. Al fu comunista Massimo D' Alema tocca l' impresa di persuadere i socialisti che da presidente del Consiglio non ebbe responsabilità nel mancato rientro in Italia di Craxi per l' operazione a Milano. Viene ricoperto di insulti. E neanche gli concedono un surrogato di simpatia quando propone un impasto tra le campagne mediatiche contro Craxi e la forza anti-sistema dei socialisti che fu respinta dal sistema. Vent' anni dopo nessuno vuole tardare all' incontro con se stesso, ma nessuno ha capito perché venire quaggiù e, se l' ha capito, se n' è dimenticato. Luigi Bisignani ha preso un aereo di pomeriggio per sbarcare puntuale per la messa: "Io sono andreottiano, democristiano". Fu piduista e coimputato di Craxi nel processo Enimont, ha memoria di Tangentopoli e conosce chi frequenta Hammamet: "Questo è un esame di coscienza, per tanti posticipato di molto. Qualcuno deve farsi perdonare". "Io c' ero con Craxi vivo, ci sono con Craxi morto", scolpisce Umberto Del Basso De Caro, ex avvocato di Bettino ora sistemato nel Pd, che invece è salito sul volo del mattino. D' un tratto Craxi fa tendenza perché Tangentopoli non fa vergogna e chi l' ha scampata può ritenersi fortunato e ormai intangibile. Allora il sentimento comune, che non va scambiato con l' inviolabile sofferenza della famiglia, è una rincorsa immotivata a Craxi di gente che non c' entra niente con Craxi e non ricava niente, proprio niente, dal suo bagaglio politico. Un Craxi che viene adottato dai renziani in marcia verso le posizioni di Forza Italia. Chi ha creduto in Bettino fino all' ultimo, e forse oltre la logica, non c' era in Tunisia e se c' era ha preferito tacere. Venti o trent' anni anni non bastano per la storia, ma per la cronaca sono tanti. Lasciatela in pace.
I 20 anni dalla morte di Craxi: cantanti, artistici e politici a Hammamet per l’anniversario. Pubblicato sabato, 18 gennaio 2020 su Corriere.it da Monica Guerzoni, inviata a Hammamet. Seicento persone sono volate in Tunisia per rendere omaggio all’ex leader del Psi. Sono arrivati da tutta l’Italia, in aereo da Roma e Milano o in nave da Civitavecchia. Seicento persone, politici che non hanno mai smesso di dirsi socialisti, leghisti pentiti di aver agitato il cappio in Aula nei giorni drammatici di Tangentopoli, militanti e tanti semplici cittadini che si sono pagati il viaggio. Lucio Barani, senatore con Denis Verdini fino al 2018, ha portato un mazzo di garofani rossi da posare sulla tomba di Bettino Craxi e accoglie i nuovi arrivati con una battuta che racchiude il clima: «Anche voi in Terra Santa?».
Nostalgia, commozione, ricordi da consegnare ai giornalisti. Il cantante Eugenio Bennato non dimentica quando, da presidente del Consiglio, il segretario del Psi andò ad ascoltarlo in concerto: «Lo rividi anni dopo, era un leader decaduto eppure era sempre la stessa persona, con quella sua semplicità tipica degli uomini di cultura. Mi dispiace ancora oggi per il linciaggio che ha subito». Ugo Intini, già direttore dell’Avanti!, tiene i ricordi per sé e sciorina riflessioni politiche: «Ogni rivoluzione ha una pars destruens e una pars costruens. L’inchiesta di Mani pulite ha distrutto, ma non avendo un progetto non ha costruito niente. E così, buttata giù la Prima Repubblica, questo Paese è rimasto senza Repubblica». Vent’anni sono passati e l’Italia ancora si interroga. Film, libri e la figlia dell’ex premier e leader del Psi che caccia indietro le lacrime: «Vent’anni sono un tempo sufficiente per fare una riflessione serena sull’opera e la figura di Craxi». I messaggi di Giancarlo Giorgetti e Luca Zaia le hanno fatto piacere. «Basta dire due paroline, abbiamo sbagliato — commenta la senatrice di Forza Italia lodando il mea culpa degli eredi di Umberto Bossi —. Non è complicato». Il Pd invece l’ha delusa. Racconta di aver incontrato per caso Nicola Zingaretti e Goffredo Bettini e di averli invitati ad Hammamet. E loro? «Hanno balbettato qualcosa». È venuto Giorgio Gori, è vero, ma il sindaco di Bergamo non è in Tunisia in rappresentanza del Nazareno: «Sono qui a titolo personale, perché mi scocciava molto lasciare questa celebrazione ai politici di centrodestra. Non si buttano via le luci perché ci sono delle ombre». Pochi metri più in là, davanti alle telecamere, Stefania, la figlia del leader socialista (che ieri in una nota Silvio Berlusconi ha paragonato a De Gasperi) esalta l’Italia di Craxi rispetto «all’Italietta» di oggi e derubrica le inchieste, le tangenti e le condanne a «errori eventualmente commessi». Latitante, come accusano gli esponenti del M5S, o esule, come vorrebbe la figlia? L’enigma ancora divide. Ma il tempo della damnatio memoriae può dirsi finito. A sera, nella villa bianca dove l’ex premier ha vissuto gli ultimi anni e dove Gianni Amelio ha girato «Hammamet» con Pierfrancesco Favino, gli amici di un tempo sostano davanti alle foto del leader. Ecco Margherita Boniver, Fabrizio Cicchitto, Carlo Tognoli, Claudio Signorile, Giulio Di Donato e tanti altri che non hanno dimenticato. L’azzurro Simone Baldelli strappa risate imitando Craxi e Verdini. Luigi Cesaro, l’ex deputato azzurro passato alle cronache politiche e giudiziarie come «Giggino ‘a purpetta», si dice emozionato come il giorno in cui lo vide per la prima volta: «Incuteva soggezione». Cicchitto bacchetta a distanza Zingaretti: «Per salvare la faccia poteva dire che gli ex socialisti del Pd come Gori e Del Basso De Caro sono ad Hammamet come delegazione del partito». Tra i muri imbiancati a calce «Bettino» è ovunque. Nelle immagini in bianco e nero, nei ritratti alle pareti. Serata Craxi, in ogni angolo un pezzo di storia, in ogni capannello il morto e il vivo. La signora con i capelli bianchi è Anna, la moglie. «Mamma lasciatela in pace», aveva intimato Stefania aprendo le porte ai cronisti. La vedova dell’uomo politico che per molti è un simbolo del tragico epilogo della Prima Repubblica non ha mai lasciato queste mura. Accoglie tutti con calore, ma ai giornalisti consegna un rimprovero: «Smisi di leggere i quotidiani quando scrissero che in questa casa c’era la fontana del Castello sforzesco». E i rubinetti d’oro? Il tesoro di Craxi? Stefania, il fratello Bobo e i nipoti ci scherzano su («è nascosto in giardino, sotto le palme»), ma non certo con animo leggero. «A mio padre — è il leitmotiv della senatrice di Forza Italia — molti dovrebbero chiedere scusa».
Craxi: 20 anni fa la morte del leader socialista, in centinaia in pellegrinaggio ad Hammamet. Redazione de Il Riformista il 19 Gennaio 2020. Venti anni fa il 19 gennaio moriva Bettino Craxi. Un migliaio di italiani si sono recati al cimitero di Hammamet alla cerimonia in ricordo dell’ex presidente del Consiglio e segretario socialista che passò gli ultimi anni di vita in Tunisia per sfuggire all’arresto ai tempi di Mani Pulite. Assenti gli esponenti del governo: “Una vergogna”, attacca la figlia Stefania Craxi che dalla tomba del padre non conferma un imminente incontro con Sergio Mattarella ma affrma: “Credo che il Quirinale farà un gesto”. Mentre la moglie Anna ha aggiunto: “Sono molto commossa, la fiducia di questi amici e compagni è più grande di quanto pensassi, sono passati 20 anni e Bettino è ancora nei cuori di tanti”. “Il Pd e la Lega assenti qui ad Hammamet? Molti italiani fanno a meno sia del Pd che della Lega e forse anche noi socialisti possiamo fare a meno di entrambi”, ha affermato invece il figlio Bobo. Che ha aggiunto: “C’è una duplice lettura, siamo obbligati al ricordo e alla memoria, ma anche obbligati a ricordare che fu vittima di una persecuzione senza pari, come disse il presidente della Repubblica 10 anni fa”. “Italia ingrata nei confronti del leader socialista”, dice Silvio Berlusconi che definisce Craxi uno dei pochi statisti della prima repubblica. Per il senatore dem Marcucci invece l’ex segretario del Psi incarna “parte dei valori del Pd”. A onorare la tomba di Craxi molti esponenti della vecchia guardia socialista, come Ugo Intini, o di oggi come il senatore Riccardo Nencini, e parlamentari di Forza Italia tra cui Alessandro Cattaneo e Simone Baldelli. Il sindaco Pd di Bergamo Giorgio Gori é presente a titolo personale. Sulla tomba di Craxi campeggia una corona di garofani rossi e molti altri garofani vi sono sparsi sopra. Dietro la lapide, semplice e a livello del terreno, con la bandiera italiana e tunisina gli stendardi del Partito socialista e del Nuovo partito socialista.
Craxi, fiori ed applausi ad Hammamet per ricordare il leader socialista. Il Corriere del Giorno il 19 Gennaio 2020. Applausi, corone di fiori e raccoglimento davanti alla tomba di Bettino Craxi in Tunisia ad Hammamet nel giorno del ventesimo anniversario della sua morte. Presenti esponenti socialisti, parlamentari, giornalisti, personaggi dello spettacolo e la famiglia con la moglie Anna ed i figli Stefania e Bobo. Oggi ci sono meno esasperazioni di ieri, certo, ma c’è ancora molto opportunismo. Ci sono voluti vent’anni per discutere di Bettino Craxi con un minimo di equilibrio. La domanda è quasi sempre la stessa dietro a ogni commento politico: mi si nota di più se rivaluto l’operato di Craxi o se lo demonizzo? Mi conviene chiamarlo “statista” o “latitante” come fa D’ Alema? La domanda che invece dovremmo farci è un’altra: come dovrebbe ricordare un Paese che sa fare i conti con la propria memoria un politico come Bettino Craxi che è stato capo del governo italiano per quattro anni ed il leader di un partito “storico” come è stato il PSI per sedici anni ? La “storia” Bettino Craxi, allievo prediletto di Pietro Nenni lo ricorda come un convinto assertore della “centralità” della politica, che non nasce con la cosiddetta “questione morale“, ma intorno a temi squisitamente politici, a partire dagli anni che seguirono la sua elezione a segretario del Psi nel 1976. Applausi di emozione hanno accolto l’arrivo di Anna e Stefania Craxi, vedova e figlia del leader socialista, al cimitero cristiano di Hammamet nel ventennale della sua morte, avvenuta il 19 gennaio del 2000. Le due donne sono andate a rendere omaggio alla tomba, su cui hanno deposto una corona di garofani rossi della Fondazione Craxi. Intorno anche l’altro figlio Bobo, i nipoti, gli altri parenti e gli amici. “Sono venuti in mille, come quelli di Garibaldi – ha sottolineato Stefania Craxi -. La testimonianza che Craxi è vivo, al contrario dei tanti morti che pretendono di discutere sui suoi errori prima ancora che sui loro“. “Sono molto commossa, la fiducia di questi amici e compagni è più grande di quanto pensassi, sono passati 20 anni e Bettino è ancora nei cuori di tanti”, ha dichiarato la vedova Anna Craxi ai microfoni di Sky Tg24. In tanti hanno il simbolo del Psi appuntato all’occhiello, molti un garofano rosso nella tasca della giacca e spunta anche qualche bandiera rossa delle sezioni del partito. Dietro la tomba sono state appese le bandiere di Italia e Tunisia, più due del Partito socialista e una dei giovani socialisti. Sulla tomba di Bettino Craxi qualcuno ha posto un libro, mentre sul libro dei ricordi una mano ha scritto “Craxi l’immortale”. Un cantante ha intonato l’Ave Maria di Schubert e la breve cerimonia si è conclusa con un lungo applauso della piccola folla. Erano presenti centinaia di persone, tra le quali una trentina di parlamentari e molti amministratori. Presente anche il cantautore Eugenio Bennato, che spiega di essere stato invitato dalla figlia di Craxi, Stefania. “Ho uno straordinario ricordo dei miei incontri con Craxi in Tunisia”, ha dichiarato, per poi aggiungere: “Sono qui per la grande sensibilità di Craxi, che veniva a vedere i miei concerti in Tunisia. La prima volta era presidente del Consiglio. Nel periodo della sua permanenza forzata ad Hammamet, mi è successo in tre occasioni di venire in Tunisia per dei concerti e Craxi non è mai mancato“. Uscendo la vedova Craxi è stata avvicinata e salutata tra gli altri da Claudio Martelli, ex numero due del Psi, presente al pari di altri esponenti storici socialisti come l’ex-ministro Claudio Signorile, l’ex deputata e senatrice Margherita Boniver, Carlo Tognoli, ex primo cittadino di Milano, Fabrizio Cicchitto con un passato prima nel Psi e poi nel Pdl, Giulio Di Donato che nel 1989 ha ricoperto la carica di vicesegretario del PSI di Bettino Craxi, il sindaco di Bergamo, Giorgio Gori. Presente anche Ugo Intini, per anni direttore del quotidiano socialista Avanti! Tra la piccola folla ci sono anche i giornalisti Alessandro Sallusti e Luigi Bisignani. Presente a titolo personale anche il senatore Gianni Pittella ex-socialista ora esponente del Pd . “Non si tratta tanto di celebrare, quanto di aprire un dibattito su un tema fondamentale : la cultura socialista ha cittadinanza nella sinistra? Io credo di sì e la sinistra non deve fare più l’errore di regalarla alla destra come ha fatto per 20 anni“. Forza Italia ha partecipato invece una delegazione ufficiale guidata dalle capogruppo al Senato ed alla Camera, Anna Maria Bernini e Mariastella Gelmini e composta dai senatori Francesco Battistoni, Fiammetta Modena, Maria Teresa Rizzotti e dai deputati Simone Baldelli, Alessandro Battilocchio, Alessandro Cattaneo, Maria Tripodi. In rappresentanza dei gruppi parlamentari della Lega, ad Hammamet il senatore Armando Siri ed il deputato Massimo Garavaglia. Polemiche per l’assenza di una delegazione ufficiale del Pd. Secondo Stefania Craxi soprattutto gli ex comunisti “non vogliono fare i conti con il passato”. E si chiede “Quando ammetteranno che c’è stata persecuzione giudiziaria?“. Stefania Craxi uscendo dal cimitero di Hammamet ha risposto ai giornalisti presenti alla domanda sulla possibilità che il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, come riportato oggi dal quotidiano “La Stampa“, incontri lei e i vertici della fondazione. “Credo che il Quirinale farà un gesto. Un incontro? Non sono io a decidere, sono certo che il presidente saprà trovare le forme giuste“. E’ bene fare qualche distinguo “storico” su Tangentopoli, una stagione di protagonismo dei magistrati milanesi del Pool “Mani Pulite” della Procura di Milano, che ha costituito il loro trampolino di lancio politico. Come ha riconosciuto lo stesso magistrato Gerardo D’Ambrosio, le accuse rivolte a Craxi non riguardavano casi di arricchimento personale, ma di finanziamento illegale della politica nella sua veste di leader del Psi. Dietro le quinte di quel sistema illegale di finanziamento della politica, si annidavano corruzione e distorsioni della concorrenza. Ma bisogna ricordare che quel “sistema” a cui si aggiungevano dei flussi di denaro provenienti dall’estero, riguardava tutti i partiti politici della prima Repubblica, in in periodo storico in cui le spese erano molto alte, per ragioni nobili e meno nobili, come ad esempio le guerre interne tra le “correnti” presenti nei partiti. Però la politica questo problema non volle mai affrontarlo, e bisogna ammettere che gli stessi socialisti lo tirarono fuori tempo massimo) e le conseguenze di quella scelta sono ancora attuali. Qualcuno preferì affidarsi alla spettacolarizzazione dei processi, che arrivavano con precisione “chirugica”, pianificata a tavolino, anche perché il reato di finanziamento illecito ai partiti era stato depenalizzato per alcuni anni ma non per tutti. Non si riesce a capire anche per chi sia stato anche solo sfiorato da quella passione, come i politici rimasti fuori dal ciclone non abbiano sentito l’impulso di arginare l’odio, di manifestare la necessità di spiegare che cosa fossero la politica e il suo finanziamento nella Prima Repubblica. Sarebbe stato meglio spiegare che non c’era da vergognarsi se la politica per un periodo aveva riempito alcuni vuoti anche finanziariamente, stipendiando gli amministratori locali ed aiutando i dissidenti delle dittature di destra o di sinistra (o quelli di entrambe nel caso dei socialisti). Tutto questo, sia chiaro, non giustifica il sistema illegale con cui la politica si finanziava, o le distorsioni che imponeva sull’attività economica. Ma era necessario spiegarlo ugualmente. Nel Paese si sente la mancanza di un “riformismo” al passo coi tempi e la lezione di Craxi, potrebbe aiutarci a riannodare fili spezzati da troppo tempo. Bisognerebbe riflettere e tenere nel giusto conto, per esempio, su come restituire la dovuta dignità al ruolo democratico della politica. E capire che la democrazia è più debole se la politica possono farla solo i ricchi, o se si taglia orizzontalmente la rappresentanza politica con una riduzione dei parlamentari che priverebbe interi territori e visioni politiche di una voce, e lascerebbe la scelta dei politici ai “capetti ” di partito telecomandati da società che hanno scopo di lucro personale, piuttosto che agli elettori.
Stefania: «Craxi è ancora vivo» I 5 Stelle alla Lega: lo beatificate. Pubblicato domenica, 19 gennaio 2020 su Corriere.it da Monica Guerzoni. Quando tutto è finito, quando l’ultimo dei reduci di una stagione lontana vent’anni ha posato il suo garofano rosso sulla lapide bianca, la figlia Stefania consegna alla stampa il titolo di una giornata di sole tunisino, in qualche modo storica: «Bettino Craxi è più vivo che mai, più vivo di tanti morti che pretendono oggi di riflettere sui suoi errori senza aver dibattuto sui loro». Il governo non ha mandato nessuno e il Pd si è spaccato, ma la pasionaria della famiglia Craxi dopo le lacrime sorride: «La battaglia continua. Il Quirinale farà un gesto, una sorpresa». Dopo che Sergio Mattarella sarà rientrato dal viaggio in Israele e Qatar il Colle troverà una data per ricevere, come da sua richiesta, la presidente onoraria della fondazione intitolata all’ex premier. I sopravvissuti di quella stagione ci sono tutti, o quasi. Martelli, Boniver, Signorile, Tognoli, Cicchitto, Pittella, Nencini... C’è Luisa Todini che tra le tombe sussurra, citando il film di Gianni Amelio: «Bisognava portare qui Favino truccato da Craxi». C’è il custode Kamel che sciorina ricordi e raccoglie piccole mance. E ci sono centinaia di persone, con le teste per lo più bianche e piene di rimpianti. Alle 10,30 la folla si apre per far largo al «miracolo» di una famiglia che la politica ha diviso e che pure trova il modo di mostrarsi unita. Stefania e il fratello Bobo non si scambiano una parola. Ma quando Franco Stefani, baritono e simpatizzante intona l’Ave Maria di Schubert, il figlio col cuore a sinistra e la senatrice di Forza Italia sono lì in preghiera, angeli custodi della signora Anna. Applausi. La vedova dell’ex segretario del Psi è al centro delle foto, emozionata per l’ondata di affetto di questo secondo, lungo addio: «Sono commossa, Bettino è ancora nel cuore di tanti». Il tempo di posare una corona di garofani e tutto è già finito. Resta l’eco delle polemiche romane, della rissa perpetua tra garantisti e giustizialisti, dell’esaltato di turno che dall’alto ha gridato «giù i piedi dalle tombe, incivili!». E resta l’eco dei fischi, che sabato sera hanno accolto l’intervista a Massimo D’Alema durante la proiezione del documentario Sky sulla vita e la morte di Craxi. «Lo abbiamo fischiato perché dice bugie» spiegherà fiero Luigi Bianco, 48 anni, napoletano che era nella federazione giovanile socialista. Seicento persone stipate in sala e Claudio Martelli che fa il pieno di abbracci e di selfie: «Io nuovo leader dei socialisti? No, lo sono stato in passato». Al cimitero l’ex numero due del Psi appare a cerimonia finita, ma Bobo lo stringe a sé e lo invita per la prima volta nella villa di Hammamet. È il giorno dell’orgoglio socialista e Margherita Boniver accusa gli eredi del Pci: «Hanno pascolato su quel che è rimasto del vecchio Psi, infoibato e maledetto dalla cronaca e dalla storia». Il dilemma tra damnatio memoriae e riabilitazione spacca i dem. Il senatore Tommaso Cerno sprona Zingaretti a stampare una tessera del Pd per il leader socialista, morto il 19 gennaio del 2000. Enzo De Luca loda il coraggio con cui Craxi affrontò il tramonto tunisino ed Enza Bruno Bossio attacca il gruppo dirigente del Pd: «Ha perso l’occasione di stare dalla parte giusta della storia». La parte in cui la Lega, il partito che agitava il cappio in Aula nei giorni bui di Tangentopoli, ha invece deciso di stare. «Ad Hammamet ci sarei pure andato — concede Giancarlo Giorgetti in tv, da Lucia Annunziata —. Era un politico lungimirante». Ma i grillini non girano pagina e dal Blog delle Stelle accusano: «Beatificano un latitante condannato per corruzione».
Giampiero Mughini per Dagospia il 18 gennaio 2020. Caro Dago, stamattina ci siamo ritrovati un gruppo di amici tutti abbastanza stagionati nella chiesa di Santa Maria in Trastevere ad una piccola cerimonia, una messa in memoria di Bettino Craxi. Eravamo non molti ma buoni, tutti delle brave persone. C’era l’ex braccio destro di Bettino, quel Giuliano Amato a me carissimo e di cui non smetterò di apprezzare la volta che di notte tolse dai conti correnti degli italiani qualche spicciolo che serviva a impedire che il rosso del bilancio pubblico esplodesse. Quella sì la scelta di uno statista. C’era Gennaro Acquaviva, che nel 1976 era stato il capo della segreteria politica di Craxi. C’erano gli ex senatori socialisti e miei cari amici Bruno Pellegrino e Luigi Covatta, e con Bruno c’era sua moglie Daniela Viglione, per dire di una donna che non è mai rimasto un passo indietro rispetto al suo uomo. C'era Piero Craveri, che non vedevo da tempo, da quando era stato il compagno di vita di Ludovica Ripa di Meana. C'era Luigino Compagna, figlio dell’indimenticabile Chinchino Compagna. C’era l’ex ministro Andrea Riccardi e anche il mio vecchio amico Alberto Benzoni e anche Filippo Ceccarelli, uno dei giornalisti più indipendenti oltre che più bravi che io conosca, e lui se l’è messa in bocca l’ostia che porgeva il sacerdote, e a una mia domanda ha risposto che lui è un credente, cosa che io non sapevo. Ti ripeto, un gruppo di brave persone, niente affatto adatte a figurare in un tuo “cafonal” che di certo attrarrebbe più che non una cerimonia cui partecipava un gruppo di persone dai capelli largamente imbiancati. Un gruppo di persone orgogliose di essere state lì in mezzo, al tempo della “battaglia delle idee” di cui Craxi fu un protagonista assoluto e indimenticabile. E pensare che lì accanto alla chiesa c’era la prima casa romana in cui aveva abitato l’allora mio grande amico Gianni Amelio, appena sbarcato da Catanzaro. A me è piaciuto eccome il suo film. Talvolta commosso. Così come mi hanno commosso le parole del sacerdote che officiava la messa e che nel riferire il destino umano di Bettino ha detto che è stato un destino pieno di contraddizioni, tumultuoso, drammatico. Un latitante? Solo un cretino potrebbe riempirsi le gote con un tale giudizio e esaustivo giudizio. Un latitante? Lo furono ciascuno a suo modo anche Giuseppe Mazzini e il primo Lev Trockij. Io che in tutto e per tutto lo avrò visto in vita mia per dieci minuti o forse meno, in certi momenti del film di Amelio ero con le lacrime agli occhi. E mai mai mai dimenticherò le immagini di quel discorso alla Camera in cui Craxi rivolgeva il dito puntato a tutto l’emiciclo parlamentare, pronunziando alla maniera sua la domanda se qualcuno di loro ignorasse che la democrazia pluripartica si reggeva sul fatto che ciascun partito prelevasse illegalmente dei fondi. “C’è qualcuno di voi che non lo sa?”, e Bettino continuava a puntare il suo dito sul restante dell’aula. Silenzio assoluto, non un fiato, non una voce. E del resto in quella stessa Camera era stata votata all’unanimità qualche anno prima – nel 1989 – una legge che amnistiava – per tutti i partiti – il reato di prelievo illegale di fondi, il fatto di riscuotere delle tangenti. Sino al 1989 amnistiato completamente quel reato. Da tutti i partiti.
· Craxi grande Statista. Dalle Stelle alle Stalle.
Craxi e l’«attico-santuario» di via Foppa 5 a Milano dove riceveva i potenti. Pubblicato mercoledì, 05 febbraio 2020 su Corriere.it da Giampiero Rossi. Dal presidente Cossiga a González. I 250 mq venduti nel 1998. Era il più discreto tra i simboli del potere della «Milano da bere» che stava per diventare Tangentopoli. Era «la casa», ma era anche un santuario, una meta di pellegrinaggi di altissimo livello. Perché nell’attico di via Foppa 5, dove Bettino Craxi ha abitato per anni, sono passati anche personaggi che hanno segnato la storia politica di quello scorcio di Novecento. Anche se, come raccontava all’epoca la stessa signora Anna Mongini in Craxi, soltanto Claudio Martelli, il «delfino» del leader socialista, «aveva libero accesso al frigorifero». Ottavo piano, 250 metri quadrati ricoperti di moquette rossa più un terrazzo altrettanto ampio. Un affitto a equo canone poi adeguato con un patto in deroga dalla Bnl, proprietaria dell’immobile. Un salone vastissimo, pieno di cimeli garibaldini, oltre che di libri, statuette e un organo con pedaliera, quattro camere da letto (una adibita a biblioteca), un’enorme vasca con idromassaggio. E sotto casa il fidato autista Nicola e il discreto portinaio Antonio a fare da filtro. Nessuna barriera, né presidio di forza pubblica, nessun altro simbolo visibile della presenza di un inquilino dal peso decisivo sui destini d’italia e pressoché assoluto su quelli milanesi. La politica, e non soltanto quella cittadina, faceva riferimento soprattutto all’ufficio di piazza Duomo 19, dove si sono decise giunte, coalizioni e consigli d’amministrazione. Ma la coda di persone - anche importanti - che avevano qualcosa da chiedere a Craxi e non riuscivano a ottenere udienza, era praticamente interminabile. Così molti cercavano di avvicinarlo Al Matarel: era noto che ogni lunedì lui passasse di lì per il pranzo e allora tutti i tavoli venivano prenotati con largo anticipo. Anche a casa - pur senza permesso di aprire il frigorifero - arrivavano tanti notabili socialisti e anche visite politicamente e istituzionalmente importanti, come lo storico leader socialista spagnolo Felipe Gonzàlez. E la mattina del 27 dicembre 1991 lo stupore fu grande anche per una città come Milano, tutto sommato abituata a ospitare personalità. Accompagnata da una vistosa scorta, a presentarsi nell’androne di via Foppa 5 fu addirittura il presidente della Repubblica in carica, il democristiano Francesco Cossiga. Era un venerdì sonnacchioso, come sono le giornate tra Natale e Capodanno. Ma la politica, nazionale e cittadina, era tutt’altro che quieta: a Roma il governo Andreotti (l’ultimo) era esposto a una delle non rare turbolenze del pentapartito, a Palazzo Marino era appena naufragata l’ultima giunta rossa, ponendo fine alla stagione del sindaco Paolo Pillitteri, socialista ovviamente, nonché cognato di Bettino Craxi. Cossiga e il leader del Psi passeggiarono a braccetto nel parco Solari, per poi pranzare nel salone all’ottavo piano. Meno di due mesi più tardi, il 17 febbraio 1992, arrivò l’arresto del «mariuolo» Mario Chiesa. E in aprile le elezioni politiche che diedero una prima scossa all’assetto politico nazionale quasi immutato dal dopoguerra. Fu l’inizio della fine del potere di Craxi. Fino all’esilio in Tunisia e a un cartello comparso sulla facciata della casa di via Foppa alla fine del 1997: «Vendesi». Bnl la cedette a un radiologo per un miliardo e 250 milioni di lire.
Mazzali, il socialista doc che addestrò Craxi a cavalcare la modernità. Ugo Intini il 25 gennaio 2020 su Il Dubbio. I “segreti” di Bettino dall’Avanti! al marketing. Su Craxi in questi giorni è stato scritto tutto. Aggiungerò perciò quello che non è stato detto, perché pochi possono ricordare la Milano dalla quale nasceva. I leader politici non spuntano dal nulla come funghi, la politica si nutre di radici e avanza nel futuro attraverso la staffetta generazionale. Nenni riteneva di essere l’erede di Turati. Craxi quello di Nenni. E poiché era fantasioso, pensava anche a Garibaldi, il mito idealista e risorgimentale di Turati stesso. Il rapporto di Craxi con Nenni è noto, ma lo è meno quello con Guido Mazzali, che pochi ricordano. Eppure è Mazzali che porta Craxi a diventare un dirigente politico nominandolo funzionario di partito e responsabile di zona a Sesto San Giovanni alla fine degli anni ‘ 50: il trampolino di lancio per diventare con le elezioni del 1960 consigliere comunale milanese e assessore all’Economato. Mazzali era il leader socialista a Milano, deputato, direttore dell’Avanti!, segretario della Federazione e braccio destro di Nenni. E Craxi gli succederà esattamente in tutti e cinque questi ruoli. Il “chi è“di Mazzali spiega molto su Craxi e sulle sue radici. Craxi è sempre stato autonomista e come tale irriducibile oppositore dell’egemonia comunista? Mazzali nel gennaio 1923 era un giornalista dell’Avanti! legato al capo redattore, Pietro Nenni. Il direttore e leader del partito Serrati, a Mosca, aveva accettato il diktat di Lenin per lo scioglimento del partito socialista, la confluenza in quello comunista e la nomina di Gramsci a direttore dell’Avanti! Nenni organizzò la rivolta del giornale a Milano con un famoso fondo nel quale scriveva: “una bandiera non si getta in un canto come cosa inutile”. L’Avanti! respinse Gramsci e il partito socialista evitò la fusione. All’Avanti! di Milano, Nenni aveva accanto a sé proprio Mazzali e l’amministratore del giornale Bonaventura Ferrazzuto. Craxi è sempre stato attratto dallo spettacolo e dai media? Chiuso l’Avanti! dai fascisti, Ferrazzuto diventò il direttore generale della Rizzoli, convinse il commendator Angelo a entrare nella cinematografia e a produrre il primo film sonoro. Andava in Francia a portare a Nenni i soldi mandati per sostenere il partito in esilio da Angelo Rizzoli, vecchio amico del leader socialista e come lui cresciuto in orfanotrofio. Ferrazzuto, con Mazzali, nel 1944, diffondeva l’Avanti! clandestino nella Milano occupata dai nazisti. Fu arrestato e deportato a Mauthausen, dove morì. Craxi era attratto dalla modernità, dalla pubblicità e da quanto i suoi detrattori definivano la “Milano da bere”? Guido Mazzali, rimasto disoccupato, fondò la prima rivista di marketing e pubblicità in Italia: l’Ufficio Moderno. Aprì la prima grande agenzia di pubblicità. “Chi beve birra campa cent’anni”, “Camminate Pirelli” sono tra i tuoi tanti slogan. Come condirettore dell’Ufficio Moderno, prese il suo amico Dino Villani, socialista come lui. Che ha inventato la colomba pasquale, la festa della mamma, la festa del papà e Miss Italia. Forse tutto questo sarebbe piaciuto a Berlusconi. Non a Pasolini, a Berlinguer e ai teorici della “austerità” anti consumista. Mazzali, come i suoi amici, era un “bon vivant”. Badava allo slogan, all’immagine, alla spettacolarizzazione, alla pubblicità basata sui consumi e sulla gioia di vivere: la “Milano da bere”, appunto. Ma non trascurava la sostanza. Negli anni ‘ 30, creò infatti una associazione (“gli amici della ragione”), di cui facevano parte molti degli economisti che sarebbero diventati famosi. Dal futuro governatore della Banca d’Italia Paolo Baffi, al futuro ministro socialdemocratico del tesoro Roberto Tremelloni, sino a Virgilio Dagnino. Mazzali durante la Resistenza divenne il capo del partito socialista a Milano, che tutti riconoscevano come il primo ( lo confermarono le elezioni comunali del giugno 1946). Prefetto della liberazione fu di conseguenza Riccardo Lombardi, viceprefetto Vittorio Craxi, padre di Bettino, sindaco Antonio Greppi: tutti socialisti. E infatti gli omicidi e le vendette finirono a Milano dopo pochi giorni ( non dopo anni come nel “triangolo rosso” emiliano). Mazzali, che pure era il leader, chiese per sé soltanto un assessorato apparentemente minore: spettacolo e sport. Subito fece uscire, come direttore, l’Avanti!, che restò a lungo il primo quotidiano della città, con 360mila copie vendute. Il giorno dopo la liberazione, pubblicò un articolo, intitolato “teatro popolare” di Paolo Grassi, che sarebbe stato riconosciuto sin dagli anni ’ 60 come il più grande organizzatore teatrale forse del mondo: un maestro per generazioni di personalità, anche per il ministro della Cultura di Mitterand, Jack Lang. Come assessore allo spettacolo, con lui e con Giorgio Strehler, Mazzali fondò nel 1947 il Piccolo Teatro. Mazzali fu il paziente costruttore del primo centro sinistra: quello al Comune di Milano nel 1960 che apri la strada all’incontro a livello nazionale tra socialisti e democristiani, tra Nenni e Moro. Non potè vederlo pienamente realizzato perché morì pochi giorni prima della nuova Giunta. Allora non si parlava ancora di riformismo. Ma gli slogan di Nenni ( forse suggeriti in parte la Mazzali) evocavano la concretezza. “La politica delle cose”, “case, scuole, ospedali”. Non erano slogan vuoti. Il Comune di Milano, con la nuova Giunta di centrosinistra, costruì, tra il 1960 e il 1964,140 mila stanze in case popolari e 3mila aule scolastiche. Uno sforzo immane, che mai si era visto in passato e mai più si sarebbe visto. Il giovane Craxi, nel suo piccolo, come assessore all’Economato, creò per la prima volta in Italia la refezione nelle scuole materne ( obbligatoria) e in quelle elementari. Nacquero la tangenziale, le linee rossa e verde della metropolitana, gli aeroporti di Linate e della Malpensa ( a spese del Comune e non dello Stato). E i soldi? Il bilancio raddoppiò. Ma non facendo debiti: con una politica fiscale che negli anni 2000 non avrebbe osato proporre neppure Rifondazione Comunista. I contribuenti per l’imposta di famiglia che denunciavano più di 10 milioni di reddito all’anno ( pari a 124 mila euro nel 2010), che erano centinaia, divennero migliaia perché si creò l’anagrafe tributaria e si ridusse l’evasione. L’espansione della città portava alle stelle il prezzo dei terreni? Il Comune chiedeva un ragionevole contributo sull’incremento di valore delle aree fabbricabili. L’arrivo delle nuove linee metropolitane e dei servizi alzava il prezzo delle case? Il Comune chiedeva un “contributo di miglioria” ai proprietari che ne godevano. A finanziare questa “rivoluzione” pacifica, provvide uno scienziato di fama: il presidente della facoltà di Agraria dell’Università di Milano Carlo Arnaudi, portato a fare l’assessore ai Tribu- ti. Diverrà senatore socialista e Nenni lo vorrà come ministro della ricerca scientifica: il primo, perché mai era esistito in Italia un simile ministero e perché i socialisti facevano della ricerca scientifica- appunto- una loro bandiera. Se Nenni recuperò Arnaudi, Craxi appena gli fu possibile, seguì il suo esempio. Portò Paolo Grassi da direttore del Piccolo Teatro a sovrintendente della Scala e poi a presidente della Rai. Portò Virgilio Dagnino ( un altro tra gli amici di Mazzali) a fare il presidente dell’azienda dei trasporti di Milano. Lottizzazione? Dagnino era stato arrestato insieme a Riccardo Bauer ( ingiustamente) per il tentato assassinio di Mussolini alla fiera di Milano nel 1924. Era stato il braccio destro di Donegani ( il creatore della moderna Montedison e della chimica italiana), direttore dell’UNRRA ( l’agenzia delle Nazioni Unite che distribuiva gli aiuti all’Italia affamata del dopoguerra) e importante banchiere. Dagli anni ‘ 90, si disquisisce sulla contrapposizione tra partiti e “società civile”. Guido Mazzali e Bonaventura Ferrazzuto appartenevano all’una o all’altra? E Paolo Grassi, Virgilio Dagnino, il papà stesso di Craxi? Oppure il rettore del Politecnico di Milano Cassinis, portato in quel 1960 a fare il sindaco di Milano? Partiti e società civile, nella Milano dove Craxi ha avuto le sue radici, hanno anticipato i tempi. Hanno intuito che pubblicità, consumi, spettacolo, editoria, ricerca scientifica sarebbero stati il futuro di Milano e anche, più in generale, i pilastri della modernità.
CRAXI: l’uomo che schierò i Carabinieri contro gli americani a Sigonella. Venti anni fa la sua morte. Giuseppe Bevacqua il 19 Gennaio, 2020 su redazione Voce Di Popolo. I neo maggiorenni di oggi (e non solo loro) ricordano Bettino Craxi per le accuse di malversazione e per aver lasciato l’Italia per Hammamet. La memoria di Craxi statista si è liquefatta al calore ancora vivo dell’accusa di “ladro” che il gesto inopportuno e violento di quel lancio di monetine (“Bettino vuoi anche queste!”) consolidò allora ed alimenta ancora oggi. In pochi ricordano il Craxi che non si piegò alla supponenza americana. Solo chi ha i capelli bianchi ricorda quel cingolo di Carabinieri che nella notte tra il 10 e l’11 ottobre del 1985 cinse un Boing 737 dell’aviazione civile egiziana, già circondato dai Navy Seals americani. Ciò che accadde quella notte, anzi ciò che poteva accadere, avrebbe potuto cambiare tutto. Ma per fortuna non partì a nessuno quel colpo in canna che Carabinieri e militari americani, uno di fronte all’altro, avevano nell’arma che si puntavano contro. Ciò che Bettino Craxi, durante la crisi di Sigonella, dimostrò agli americani, è oggi solo un eco che rimbalza contro l’atteggiamento prono dei nostri governanti odierni alla politica di Trump e non solo. Nessuno oggi si sognerebbe di fare ciò che quella notte fece Bettino Craxi, lo stesso che poi fu costretto a lasciare Governo, Italia ed italiani per un sistema diffuso del quale fu forse l’unico a dichiararne l’esistenza, apertamente. Molti altri, ladruncoli da quattro soldi, ancora oggi ne discreditano e ne soffocano la caratura di statista, ricordando solo il denaro ricevuto per il Partito Socialista. “Oggi i ladruncoli di allora, che si ergono a giudici di Craxi, sono quelli che l’hanno fatta franca“.
Quel Boing dell’aviazione egiziana trasportava i dirottatori della “Achille Lauro”, la nave da crociera sulla quale aveva perso la vita un americano. L’aereo doveva raggiungere la Tunisia, ma venne dirottato in volo dai caccia americani che lo costrinsero ad atterrare a Sigonella, come se la Sicilia fosse una stella della bandiera americana. Il gesto di far intervenire i Carabinieri che circondarono armi in pungo i militari americani che già avevano circondato l’aereo, fu un gesto che impose e fece riconoscere la nostra sovranità nazionale, imponendo all’America un peso ben diverso nei rapporti con l’Italia : un peso maggiore fatto di rispetto. Oggi? In quanti dei nostri “statisti” di oggi, alle prese (inutilmente) con una crisi economica ormai endemica, in quanti avrebbero avuto il coraggio di farlo? Venti anni oggi, dalla morte di Bettino Craxi, è giusto che il ricordo di quell’uomo sia completo: dalle accuse ai meriti. Per giustizia e per rispetto della storia.
Sigonella: quello che non ci hanno mai detto. Di Fernando Massimo Adonia l'01/02/2020 su Il Giornale Off. È stato scritto di tutto, o quasi, sull’episodio che quasi trentacinque anni fa rischiò di trascinare l’Italia e gli Usa verso la guerra. Con Sigonella. L’ora che manca alla storia (Officina della Stampa, Catania, pag. 184, € 13), Salvo Fleres e Paolo Garofalo aggiungono tasselli inediti al racconto. A partire dalla testimonianza dell’allora sottotenente dell’Aeronautica Giuseppe Gumina. Un giovane ufficiale fresco di addestramento, voglioso di dimostrare il proprio valore. Un eroe per caso che tenne la barra dritta dicendo di no agli americani e blindando le scelte del premier Bettino Craxi. Tra le 23:53 del 10 ottobre all’una e qualche minuto dell’11 ottobre 1985, la tensione è alle stelle. La paura pure. I protagonisti (Michael Ledeen, Ronald Reagan, Yasser Arafat, Abu Abbas) vivono momenti di angoscia. Così come i soldati in campo: alcuni di loro soffriranno per giorni di dissenteria. Nonostante tutto, gli italiani seppero farsi rispettare. Grazie anche a gente come Gumina, che fu infatti decorato. La crisi di Sigonella ebbe però dei risvolti amari. Sarà una coincidenza, ma tutti gli attori di quella notte sono usciti di scena: “nel 1991 lo scandalo Gladio colpisce Cossiga, nel 1992 è il turno di Craxi, nel 1993 Andreotti è accusato di mafia”. Gumina? Dal 1988 è in congedo.
Craxi contro tutti. Prima statista, poi capro espiatorio. Francesco Damato il 18 gennaio 2020 su Il Dubbio. Ascesa e caduta del leader socialista più discusso e punito «con una durezza senza uguali». C’ è sempre qualcuno che si offre a raccontare “l’ultimo Craxi”, specie nelle ricorrenze che riguardano la sua tormentata vicenda finale della politica e della vita: dalle monetine lanciategli addosso a Roma alla morte che dopo soli sette anni avrebbe chiuso la sua vicenda umana in terra straniera ma amica, molto più amica della Patria che egli scelse di scrutare attraverso il mare dal suo rifugio tunisino da esule, come si considerava, o da latitante, come lo liquidavano sprezzantemente gli avversari, pur conoscendone l’indirizzo e potendolo incontrare. Tentò di farlo anche una commissione parlamentare d’inchiesta su stragi, terrorismo e delitto Moro, trattenuta all’ultimo momento da un veto dell’allora inquilino del Quirinale proprio per evitare l’estrema e più evidente smentita di quella latitanza così comoda nelle polemiche contro il leader socialista. Questa volta, nella ricorrenza del ventesimo anniversario della sua morte, si è tentato di raccontare “l’ultimo Craxi” anche con un film che si sta rivelando di grande successo un po’ per l’interesse che ancora suscita la figura dell’unico presidente socialista del Consiglio nella storia d’Italia e un po’ per la straordinaria bravura dell’attore che lo ha interpretato. Ma il vero “ultimo Craxi”, credete a me che l’ho ben conosciuto e frequentato prima e dopo il suo ritiro ad Hammamet, è quello raccontato in poco più di 120 pagine ben scritte e documentate, ancora fresche di stampa, che si leggono d’un fiato. E che ti fanno venire spesso la pelle d’oca per quanto riescano ad essere toccanti. E’ l’omonimo libro di Andrea Spiri, pubblicato da Baldini e Castoldi, in cui il Craxi degli ultimi, sette anni drammatici della sua vita, dei quali sei trascorsi in Tunisia, è raccontato con le sue stesse parole, legittimamente virgolettate, che l’autore da storico di professione com’è ha saputo leggere e cogliere consultando le tante carte scritte di suo pugno o dettate al collaboratore di turno da Bettino – permettetemi di chiamarlo affettuosamente per nome, come facevo quando era vivo- negli interminabili giorni della sua solitudine, della sua struggente nostalgia dell’Italia, del ricordo dei torti subiti e degli errori compiuti. Fra i quali un peso decisivo ha avuto anche la scelta di amici sbagliati, o di amici veri scambiati per avversari, come una volta gli rimproverai personalmente prendendo le difese di Ugo Intini, rappresentatogli da Roma al telefono da qualche sprovveduto come uno che trescava per tradire – all’incirca- la sua storia politica cincischiando con Massimo D’Alema. Ce n’é traccia anche nel libro di Spiri, che pure con la serietà dello storico ha riferito anche dell’interesse, se non della speranza, avvertito da Craxi in persona quando proprio D’Alema approdò pur avventurosamente a Palazzo Chigi, con l’aiuto di Francesco Cossiga. E’ il D’Alema che poi, tragicamente, non ebbe il coraggio di scontrarsi pubblicamente con la Procura di Milano, oppostasi a un gesto umanitario verso un malato ormai terminale. Egli per giunta mandò un telegramma quasi anonimo di auguri, tramite l’ambasciata di Roma a Tunisi, al suo vecchio avversario politico uscito vivo, sì, ma ancora per poco da un difficile, disperato intervento chirurgico. Che avrebbe potuto avere migliore esito se compiuto in Italia. Quello che colpisce del racconto di Spiri è la serenità con la quale Craxi seppe e volle arrivare alla morte: serenità, più ancora di rassegnazione, nella consapevolezza di una vita vissuta per il suo Paese e per la politica, pur ricambiato così male, anzi così atrocemente: un avverbio, quest’ultimo, che solo con una dose industriale di malafede si può rifiutare di adoperare per giudicare i metodi usati sul piano giudiziario e mediatico contro Craxi per farne il capro espiatorio di quel fenomeno generale e conosciutissimo del finanziamento illegale dei partiti, delle loro correnti, dei gruppi e dei singoli leader e leaderini. Già dieci anni fa, proprio nella ricorrenza di un altro anniversario della morte di Craxi, l’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano volle scrivere una lettera alla vedova, e ai figli, non solo e non tanto per esprimere, come ha opportunamente ricordato Spiri all’inizio del suo lavoro, il proprio “turbamento” ricordando la morte solitaria di un uomo da lui ben conosciuto in vita, e per apprezzarne il contributo dato al governo del Paese e alla sinistra “italiana ed europea”. Mi permetto a questo punto di aggiungere alle citazioni di Spiri altre parole testuali di Napolitano, scritte nella doppia veste di capo dello Stato e di presidente del Consiglio Superiore della Magistratura a proposto delle indagini e dei processi che avevano travolto Craxi sulla strada della cosiddetta Tangentopoli: «E’ un fatto – scrisse Napolitano- che il peso della responsabilità per i fenomeni degenerativi ammessi e denunciati in termini generali e politici dal leader socialista era caduto con durezza senza uguali sulla sua persona». In quella «durezza senza uguali» è scolpito come in un’epigrafe un severo giudizio pure sui magistrati, anche se costoro, i più diretti interessati, almeno quelli ancora in vita allora, fecero finita di non sentire, non leggere e non capire. Una durezza quando è «senza uguali» sconfina, signori miei, nella violazione del senso stesso della giustizia, che deve essere coniugata con l’equanimità. Non c’è giurista, filosofo, sociologo, editorialista, politico e sofista che possa negare questa evidenza così icasticamente denunciata dieci anni da Napolitano nella sua postazione al Quirinale: più e meglio di quanto avrebbe potuto fare una commissione parlamentare d’inchiesta fra le tante inutilmente chieste, a cominciare dallo stesso Craxi, sul finanziamento dei partiti e sulle distorsioni che derivarono dall’applicazione o dalla evasione delle leggi che lo disciplinavano, peraltro tra amnistie di una tempestività o coincidenza a dir poco inquietante per gli sviluppi poi dati alle iniziative giudiziarie contro il leader socialista. Egli era, in realtà, solo o soprattutto colpevole di essere scomodo, più che “antipatico”, come ha appena scritto in un libro Claudio Martelli, a nemici e alleati di governo per la sua autonomia, dopo tanto tempo trascorso rovinosamente dal Psi al seguito sostanziale del Pci.
Bettino Craxi, il socialista potente che i dirigenti locali dovevano poter toccare da vicino. Pubblicato sabato, 18 gennaio 2020 su Corriere.it da Maurizio Caprara. «Li vedi quelli? Una volta l’anno mi devono toccare. Devo venire qui e mi devono toccare. Non basta incontrarli. Ognuno di quelli ti sa spiegare se il Partito socialista, nelle prossime elezioni, prenderà nella propria zona il 14,2 per cento o il 13,8. Se avrà il 10,02 o il 10,6. Nelle percentuali non sbagliano di un decimale. Al massimo, di uno. E una volta l’anno anno mi devono toccare». Bettino Craxi me lo disse sull’ultimo gradino della scaletta di un aereo affittato che da Palermo ci avrebbe riportato a Roma. Era il 14 giugno 1989. Avevo accompagnato il segretario del Partito socialista tra Bari e la Sicilia durante la sua campagna elettorale per le europee. Sulla pista era stato salutato da una dozzina di persone. A lui era toccato parlare in pubblico quasi una volta ogni ora o due. A me, unico giornalista al seguito, rintracciare notizie in quella serie di discorsi quasi identici, salvo piccole modifiche necessarie per adattarli ai diversi luoghi visitati. Una volta a bordo dell’aereo mi resi conto di aver ricevuto una lezione su come poteva funzionare la ricerca di consenso, in una democrazia, mentre lo sviluppo della comunicazione televisiva non estirpava tradizioni radicate. Nella fattispecie, l’abitudine a un contatto diretto tra capo di partito di governo e i suoi capi-elettori, una particolare varietà degli “influencer” di allora. Una delle usanze della cosiddetta “Prima Repubblica” che stava finendo e non era ancora finita. «Quelli» ai quali si riferiva Craxi erano i dirigenti locali del Psi. Il segretario nazionale del partito doveva farsi vedere con loro affinché essi, nei rispettivi quartieri e paesi, potessero essere riconosciuti come personaggi a lui collegati, vicini al suo potere. Per questo erano persone che lo dovevano «toccare», non soltanto incontrare. Alla faccia di chi credeva che per prendere voti bastasse andare in televisione. Tornano in mente ricordi sul Craxi che ho conosciuto tra 1984 e 1999 in questo ventesimo anniversario della sua morte, su quanto vidi seguendolo per il Corriere della Sera tra comizi e riunioni e poi ascoltandolo via telefono, nell’ultima parte della sua vita, quando era in Tunisia. Il nuovo film di Gianni Amelio mostra con efficacia un lato della vita di quest’uomo che ha diviso, in parte svegliato e in parte scosso la sinistra italiana. In «Hammamet» Pierfrancesco Favino arriva a sembrare assente. Nella voce e perfino nei rimi del respiro, oltre che nel viso, è identico al Craxi vero. Quel lato però non poteva riassumere tutto, sebbene il film descriva bene la personalità di un ex potente che era anche, e molto, un uomo. Un uomo con la sua forza robusta, con la sua arroganza, anche, e con le sue intime, autopresidiate, fragilità. Trascorsi vent’anni dalla scomparsa, a rimettere in ordine frammenti di memoria a me risalta soprattutto che Craxi incarnava un particolare archetipo di animale politico italiano, e che quell’intera specie rischia l’estinzione definitiva. Mentre pronunciava a Palermo le sue frasi sui dirigenti socialisti siciliani, l’ex presidente del Consiglio era considerato un’avanguardia nella «politica spettacolo». Il suo comportamento verso i media era oggetto di studio. Da almeno un anno la sua figura spiccava a fianco di due signorine dal trucco marcato sulla copertina di un libro di Gianni Statera, «Il caso Craxi. Immagine di un presidente». La stessa sagoma massiccia, nel maggio 1989, si era già stagliata sulla tribuna a forma di piramide che il segretario aveva voluto per un congresso del Psi, a Milano, nell’ex fabbrica Ansaldo. I suoi modi di spettacolarizzare la politica erano arrivati a influire addirittura su Giulio Andreotti, democristiano quasi perennemente in abito scuro, andato l’anno prima in tv da un imitatore, Oreste Lionello, spingendosi ad associare la propria figura pubblica a una trasmissione satirica dal titolo infantile: «Biberon». Una parte della cura dell’immagine consisteva anche in furbizie. «Non porto l’orologio, credo sia stato di 40 minuti», dichiarò Craxi a Washington sulla durata di un colloquio alla Casa Bianca che aveva avuto con il presidente degli Stati Uniti George Bush. «Trenta minuti, ha spiegato alla stampa estera il portavoce Marlin Fitzwater», aggiunsi nel mio resoconto sul Corriere. L’anno prima Ronald Reagan aveva riservato a Craxi 17 minuti. I collaboratori del segretario socialista volevano far passare il messaggio che il segretario era stato nello Studio Ovale quasi un’ora. Per verificare se l’incontro era durato così tanto, da Washington chiamai l’Ufficio Stampa della Casa Bianca. Risposta del portavoce: «No, mezz’ora». Craxi dice che gli sono parsi 40 minuti. Il portavoce: «Gli altri è stato in anticamera». Non è che venissero accolte bene queste precisazioni dall’entourage craxiano. Come non fu gradito, il giorno successivo, leggere nella corrispondenza dell’inviato del Corriere che a Craxi veniva conferita una laurea ad honoris benché fosse un «diplomato». Ciò che contrastava con l’immagine desiderata in genere suscitava reazioni. Telefonate risentite a capiredattori e direttori da parte di emissari, interventi del massimo capo. Tranne alcuni democristiani, mica che gli altri dirigenti politici prendessero con indifferenza le cronache non ossequiose. Anzi. Ma Craxi negli anni Ottanta reagiva con notevole fastidio se in una testata non di partito c’era chi non assecondava i suoi desideri. Una volta, durante una trasferta in Germania, minacciò di non permettermi più di coprire i sui viaggi se avessi scritto quanto aveva affermato davanti a un gruppo di giornalisti. Non scherzava, e il tono della sua voce al telefono non rassicurava. Lo scrissi ugualmente. C’era anche, tra gli inviati, chi esortava a seguire la sua indicazione. Il Craxi che ha lamentato una persecuzione giudiziaria era stato lo stesso che, negli anni Ottanta, era riuscito a far condannare il direttore del Corriere della Sera per diffamazione. La causa era stata un editoriale in cui Alberto Cavallari aveva scritto di preferire i carabinieri ai ladri. Certo, il segretario socialista in Italia aveva nemici. Testate politicamente schierate di sicuro contrastavano la sua linea. Ma dalla stampa Craxi voleva ciò che gli serviva, non molto altro. Questa arroganza anche ruvida, a tratti quasi minatoria, non risultava il solo tratto del suo modo di fare. Craxi era in tutte le cellule della sua persona un dirigente politico. Di quando dirigenti politici lo si diventava dopo aver creduto in un ideale da ragazzi, prima di diventare più tardi personalità importanti e, nel suo caso, anche uno statista. A notte fonda dopo una giornata congressuale, mentre si usciva dal ristorante «Lo Squero» di Rimini, oppure in camminate vicino al Muro di Berlino durante un viaggio, Il segretario socialista si intratteneva a lungo con alcuni di noi cronisti. Raccontava di storie della sinistra di suoi anni giovanili, di confronti tra socialisti e comunisti milanesi, di azioni di solidarietà compiute verso dissidenti dell’Est o antifascisti dell’America Latina. Capitava con Paolo Corallo dell’Ansa, Fabio Martini e Augusto Minzolini della Stampa. A parlare era innanzitutto lui, però ascoltava, ribatteva. E con chi riteneva capisse qualcosa di politica non rifiutava lo scambio di idee. Lo orientava. Voleva dirigerlo. Il soppesare le parole gli era chiaramente abituale in comizi, trasmissioni tv. Ma da robusto ragazzone adulto quale era, in quelle conversazioni e sulla scena pubblica talvolta Craxi si riservava a modo suo alcuni «outing», manifestava parti non istituzionali della propria personalità. Nel viaggio tra Washington e New York del 1989 non notai alcuna freddezza nei suoi confronti da parte statunitense anche se fu successivo alla notte di Sigonella (quando, nel 1985, Craxi aveva fatto schierare i carabinieri intorno alla Delta force per impedirle di catturare Abul Abbas, il capo della formazione palestinese che aveva dirottato la nave «Achille Lauro» e ucciso l’invalido americano di religione ebraica Leon Klinghoffer). Eppure qualche aspetto extra-politico degli Stati Uniti non lo sopportava quel socialista che in era reaganiana aveva superato nelle sintonie con gli americani numerosi democristiani. «Questo Paese nel quale il sale non sala e l’acqua minerale fa schifo…», bofonchiò a Washington in una sua conferenza stampa dopo l’incontro con Bush. Aveva il viso contratto in una smorfia istintiva, derivata dal disprezzo per il sapore di un sorso di acqua bevuto. Altri si comportavano e si comportano diversamente. Pur di apparire adeguati a tempi e circostanze preferiscono infarcire di termini inglesi dichiarazioni in italiano. Ostentano familiarità con il luogo straniero visitato. Nell’aneddotica su Craxi è celebre la frase sprezzante con la quale respinse la domanda di un giornalista durante una colazione a Caprera, località nella quale per alcuni anni dedicava una mezza giornata a commemorare Giuseppe Garibaldi: «Passami l’olio». A me invece torna in mente di tanto in tanto quella frase, veritiera, sull’acqua minerale. Un modo tra il consapevole e l’inconsapevole per dire: sono potenti, gli americani, ci hanno liberato da dittature, è vero, ma su altre cose noi italiani è meglio che restiamo noi. Non sono questi appunti la sede per un giudizio storico su Mani Pulite. Di certo, una volta che fu costretto a farlo, Craxi ammise l’illegalità di molto del finanziamento di allora ai partiti. In seguito la politica italiana non ha colto l’occasione del terremoto giudiziario dei primi anni Novanta per riformare un ordinamento sui finanziamenti tuttora ipocrita, inefficace di fronte a ingerenze di altri centri di potere. A lui mancarono i sensori adatti per capire che dopo l’abbattimento del Muro di Berlino il vento cambiava. Superato il timore del colosso sovietico, i tradizionali partiti di governo in Italia non beneficiavano più di tante immunità e di un ruolo garantito. Fu a me, in volo su un Falcon dall’Aja a Roma, che nel 1992 disse di sentirsi controllato da un’auto misteriosa. «Una Uno bianca», come specificò il suo autista di fiducia Nicola Mansi. «Uno bianca» era allora il nome dato a una banda di criminali. Craxi alludeva a pedinamenti ordinati da investigatori. Fu dannoso, per lui, non dare ascolto a chi evidenziava le tossine di un finanziamento della politica troppo promiscuo con l’economia. Ma Craxi è stato e resta soprattutto un dirigente politico. I difetti del quale non cancellano capacità, spessore e intuizioni sul ruolo dell’Italia.
Filippo Ceccarelli per doppiozero.com il 18 gennaio 2020. Cinema e storia, colpa e memoria, catarsi e umanità: sarà almeno servito, Hammamet, a placare l'ira di Bettino? Perché un film resta pur sempre un film, ma il rancore dei morti, scrive Elias Canetti in Massa e potere, è ciò che i vivi temono di più; e “quanto più uno è stato potente fra i vivi, tanto maggiore sarà il suo rancore nell'aldilà”. Con tale premessa, facendo la fila davanti al botteghino, veniva anche in testa – oh, i fulmini dei vecchi maestri dimenticati! – il titolo di un romanzo-pamphlet che Leo Longanesi pubblicò nel 1952, sette anni dopo l'uccisione di Mussolini: Un morto fra noi. Rispetto a Craxi, per certi versi la questione non si pone in modo poi così diverso: il testone di Bettino è ancora lì, fermo nella sua rabbiosa disgrazia, metro di misura e pietra d'inciampo della recente storia politica italiana. “Il rancore del morto – è sempre Canetti – fa di lui un nemico. Con cento astuzie e cento insidie egli può insinuarsi tra i vivi”. È più o meno quanto è accaduto in questi vent'anni. La fondata speranza, mentre scorrevano i titoli di coda e poi anche di più uscendo dal cinema, è che non sia più così. Tornato uomo come tutti, povero diavolo e povero Cristo, finalmente Craxi è ritornato al suo posto, e cioè fra i morti; ma anche noi vivi, grazie ad Hammamet, per la prima volta abbiamo visto dentro di lui, provato compassione e quindi aperto gli occhi su una storia non più solo di arroganza e potere (do you remember Il portaborse?), di colpa e giustizia, di esilio e/o latitanza, ma di umiliazione, solitudine, piaghe, dolore.
E la politica? Eh, beato chi ancora se ne ricorda! Luci e ombre, a voler essere generosi; altrimenti, un autentico disastro, con l'aggravante cesaristico-cortigiana e l'unica consolazione che chi è venuto dopo, a partire da Berlusconi, ha fatto peggio. Ciò detto, e considerata la difficoltà di rappresentare vicende insediatesi così a fondo nell'immaginario di tutti e di ciascuno, il film di Gianni Amelio è venuto fuori normalmente imperfetto. Superato di slancio il pericolo “museo delle cere”, la gran prova di Favino finisce per mettere fuori gioco tutti gli altri personaggi, a partire dalla tenue e angelicata figura della figlia, così incomprensibilmente interiorizzata e diversa da Stefania, che del padre è una specie di clone caratteriale, e quindi prepotentella. È plausibile e forse anche giusto che la produzione – la Pepito di Agostino e Maria Grazia Saccà – abbia cercato di coinvolgere o tenersi buona la famiglia Craxi. D'altra parte, vent'anni sono pochi e insieme anche troppi, e per quanto non si tratti di un film col freno a mano tirato, qualche compromesso narrativo è persino comprensibile. Ad Hammamet accadevano inoltre un sacco di cose che non hanno trovato posto, situazioni in egual misura bizzarre e disperate. Comprenderle in sceneggiatura o lasciarle fuori rientrava ovviamente nella libera creatività e sensibilità di Gianni Amelio, che comunque va ringraziato per il suo film. Ma il guaio dei biopic sta anche nel fatto che ogni spettatore avveduto conserva nella memoria le sue suggestioni, e come s'improvvisa tecnico della nazionale di calcio al bar, così tende a farsi regista, e sa lui come avrebbe meglio giocato la partita e la pellicola. Il finale, ad esempio, appare così faticoso da contenerne tre o quattro, per giunta in sequenza. Per quel poco che consente di indulgere nel giochetto dell'abusiva e arbitraria intromissione, è irresistibile approfittare del film ricordando che una volta morto, la salma di Craxi non riusciva ad entrare nella bara spedita per aereo da Salvatore Ligresti; per cui la si dovette svuotare e sfoderare. Non per gratuito gusto del macabro si menziona qui l'episodio, ma perché evoca in maniera che più simbolica non si potrebbe quanto il personaggio, anche da morto, fosse ingombrante. Quanto ai funerali e alla loro proiezione sulla scena pubblica italiana, la realtà finisce per oscurare qualsiasi fantasia, per cui prima di calare il catafalco, nell'inconsueta calca che turbò la quiete del piccolo cimitero cristiano sul mare, tra spintoni e gomitate un fotografo cadde nella fossa – anch'essa una notevole allegoria di quello che sarebbe accaduto in Italia.
L'archetipo della vendetta. E tuttavia, dal punto di vista della civiltà politica, a costo di dar fiato al trombone sempre in agguato, ci si assume qui la responsabilità di giudicare Hammamet un'opera buona perché giusta, e giusta perché cristiana; nel senso che ribaltando la prospettiva del potere e soffermandosi quasi solo sulla devastazione umana, porge l'altra guancia; e individuando nel dolore l'indispensabile riscatto, spezza la catena dell'odio. Ha detto Gianni Amelio nella conferenza stampa di presentazione che Craxi è “il grande rimosso degli ultimi vent'anni”, e che “su di lui è caduto un silenzio assordante, ingiusto”. Sia consentito di obiettare. Perché in verità nessuna damnatio memoriae fu mai possibile rispetto a un protagonista la cui presenza-assenza è stata vissuta più di ogni altra come perturbante sul piano pubblico, ora come paura e pericolo, ora come brulichio inconcludente, ora tirandosi dietro sensi di colpa e code di paglia. Era forse inevitabile per un ex leader che ai tempi fu paragonato al dantesco gigante Capaneo mostrando di tenere “in gran dispitto”, come Farinata, il suo stesso inferno. Fatto sta che Craxi ha passato gli ultimi anni della sua vita a difendersi, diceva lui, comunque a correggere meticolosamente con chilometrici fax qualsiasi notizia che lo riguardasse e ad agitarsi, accusare, minacciare. Aveva un sacco di tempo e più di ogni altro sapeva che la peggior pena per lui era l'oblio. Così non ne lasciava passare una, ogni anno pubblicava la raccolta dei suoi scritti, rispondeva di persona a Mario Appignani “Cavallo Pazzo” e a Edoardo Agnelli, scrisse sotto falso nome anche romanzi pseudo-cavallereschi “a chiave” e gialli dietrologici; prese a raccogliere notizie imbarazzanti su chi detestava, anche grazie a un giro di specialisti; coltivò i più vari propositi di rivalsa nei riguardi degli ex compagni di partito; insomma continuò a darci dentro con una guerra ormai così personale da sembrare misera e miniaturizzata rispetto alla sua statura. Terribile sorte quella di ritrovarsi messo al bando per chi, dopo tutto, nei giorni del potere aveva scelto di immedesimarsi proprio in un bandito. Dismesso Ghino di Tacco, come estremo ed eloquente pseudonimo si scelse Edmond Dantès, da Il conte di Montecristo, l'archetipo letterario della vendetta; e quando, per ammazzare la noia delle interminabili giornate tunisine decise di assecondare una sua vena artistica, gli vennero fuori delle litografie personalizzate dei suoi nemici che, in varie serie contundenti, intitolò “Becchini, bugiardi ed extraterrestri”. In mancanza di meglio – ed è la situazione più triste – si riduceva a esercitare il comando mettendo gli uni contro gli altri i famigliari, i collaboratori, i domestici. Ma c'era sempre un che di romantico e di déraciné, in lui. È vero, come si vede nel film, che si faceva portare in spiaggia a vedere l'Italia; vero anche che aiutava e proteggeva una famiglia di pescatori. Un giorno arrivò a promettere di farsi saltare in aria, imbottito di dinamite, al tribunale di Milano. Era un'ira, la sua, a 360 gradi, dalla quale in pochi si salvavano. Craxi ce l'aveva non solo con chi l'aveva colpito, ma anche con chi l'aveva tradito, con chi non lo andava a trovare, con chi aveva vinto al suo posto. Quando morì, secondo lo schema di Canetti, a questo odio si sommò l'invidia per chi era rimasto vivo. La politica, per sua natura, contempla fantasmi che non trovano pace. Quella italiana ancora di più. Anche Moro, ad esempio, maledisse i suoi compagni di partito, ma egli restava pur sempre un credente, attendeva la vera vita in Paradiso: “Se ci fosse luce, sarebbe bellissimo”, scrive nell'ultima sua lettera alla moglie. Craxi no. Sull'esistenza di un “dopo” era più che incerto; nel film gli mettono in bocca le parole di Moro, ed è uno dei momenti più intensi. “Sarei l'ultimo a scoprirlo”, ribatte cinico l’anonimo esponente democristiano (Renato Carpentieri) prima di congedarsi da lui. Questa condizione d'irreparabilità della morte, appena coperta da un vitalismo ansioso, aprì a Craxi la strada verso una sopravvivenza spettrale, da classico morto che afferra il vivo per farsi giustizia; o almeno tale fu la missione che gli fu assegnata secondo un percorso che contemplava le parole e le cose più strane, che qui appresso si riportano per cercar di spiegare come facilmente la politica va a nozze con l'irrazionalità. Nel migliore dei casi, secondo quanto vaticinò il fratello Antonio, seguace di religioni orientali, si trattava di una morte provvisoria, o addirittura di una non-morte proiettata in una dimensione messianico-cabalistica: “Uomini molto elevati hanno avuto dei sogni. Presagi da cui si deduce un numero: 700. Dalla morte di Bettino alla sua rinascita passeranno 700 giorni. Tra un anno Bettino si reincarnerà e tornerà in Italia a finire il suo lavoro” (la profezia era del 2001, Antonio Craxi è morto nel 2017). Nel peggiore dei casi parla da sé uno dei primissimi biglietti trovati sulla tomba di Hammamet, nemmeno una settimana dopo la sepoltura: “Caro Bettino, attendiamo il momento giusto per vendicarti, la peste colpirà i nemici che hanno distrutto te e la nostra amata Italia”.
Il mancato San Cinghialone. Seguirono in effetti anni e anni di recriminazioni, strumentalizzazioni, polemiche, processi, sospetti, veleni, memoriali, confessioni, intercettazioni, comparsa e scomparsa di archivi e documenti “segreti”, ricerca di supposti tesori, dalla Svizzera al sudest asiatico. E biografie, saggi, i ricordi e i libri fotografici di Umberto Cicconi, la nascita della Fondazione, le rappresentazioni teatrali, per non dire tardive rimesse in stato d'accusa e bislacche proposte di riabilitazione, tipo intitolare a Craxi l'ancora più fantasmatico Ponte di Messina. Altro che rimozione! Non uno, ma due figli di Craxi erano intanto scesi in politica, anche su fronti opposti e non di rado in polemica fra loro. Nacquero e morirono cinque o sei partiti socialisti. Furono organizzati i primi charter e pellegrinaggi in Tunisia, con soggiorni in freddi alberghi e serate karaoke. Comparve un'orrida statua di Craxi in sahariana; invano si cercò di intitolargli vie, piazze e giardini; furono anche rifiutate delle targhe, ma su eBay si cominciarono a commercializzare i gadget della stagione d'oro (“vecchia” spilletta col volto del leader: euro 6,99). Gli avversari di un tempo, divenuti ex comunisti, tentarono mezze riabilitazioni, o vorrei ma non posso, quasi sempre rifugiandosi nel comodo, ma ambiguo argomento che Craxi, a differenza di loro, aveva capito la “modernità” e proceduto sulla via di una ancora più equivoca “modernizzazione”. Nel 2005 disse Rino Formica, senza alcun dubbio il craxiano più solido e lungimirante: “Sarà la democrazia italiana, un giorno, a pregare la famiglia Craxi di concedere l'autorizzazione a trasferire la salma in Italia”. Ma intanto era la stessa famiglia a escludere, con maggiore o minore sdegno, questa ipotesi. Ciò nondimeno, a un certo punto venne attribuita allo scultore Cattelan la creazione di un sarcofago con un bassorilievo che ritraeva il volto di Bettino, su cui però assai fermamente rivendicò i suoi diritti un artigiano dalle parti di Carrara. Quest'attenzione dell'arte era a suo modo indicativa di un cambio di atmosfera: vedi anche la recente mostra Party politics di Francesco Vezzoli in cui il craxismo, nonostante l'esito, s'imponeva come una stagione di spensierato glamour. Ma nel frattempo non c'è stato leader forte dell'ultimo ventennio che non abbia pensato agli aspetti peggiori di quella lezione. Berlusconi l'ha detto due o tre volte: “Non farò la fine di Craxi”. Là dove questa fine era da intendersi come una specie di gorgo profondo e oscuro che risucchiava insaziabile il Super Colpevole da spedire nel deserto carico dei peccati di tutti in tal modo dando sfogo all'angoscia collettiva secondo il rito crudele del capro espiatorio. Perché quella ai danni di Craxi fu anche e senz'altro un'offensiva violenta e collettiva, una folla abbastanza isterica che trascinò dietro di sé le istituzioni. Né a distanza di un ventennio vale l'idea che se lo fosse “andato a cercare” con tutti i suoi disgraziatissimi errori, di cieca e ottusa superbia per lo più, che non mancarono certo. Quel che si nota e si apprezza, semmai, nel film di Amelio, è che contraddice il modello di Freud e poi di René Girard secondo cui il caprone espiatorio è destinato poi a essere santificato dai suoi stessi persecutori. Per cui sullo schermo non compare San Cinghialone, ma un poveraccio come tutti noi, con le sue turbe, i suoi ideali, la sua arroganza e la sua generosità – tanto più preziosa, quest'ultima, quanto più imprevedibile. Una figura del potere, certo, ma finalmente restituita alla realtà di una vita che lui stesso per primo si era negato.
Come un rituale sciamanico. Sta in questo il valore civile e al tempo stesso – se è consentito – anche spirituale di Hammamet. Ciò che è non riuscito alla politica né alla storia, ha iniziato a renderlo possibile un film. Per una volta il dominio degli spettacoli coglie un frutto che non è scadente, marcio, avvelenato. In questo senso la superba interpretazione-immedesimazione-intermediazione di Favino finisce per insediare un ponte fra il mondo degli spiriti e quello degli umani, insomma una sorta di meccanismo sciamanico. Colpisce il modo in cui l'attore ha raccontato l'intensità della trasfigurazione mimetica, cinque ore e mezzo in sala trucco, gli sforzi impiegati sulla particolare postura craxiana, quello specialissimo giro della testa determinata da un riflesso visivo, il tic della mano sulla montatura degli occhiali, l'andatura zoppicante per la piaga al piede; e poi il lavoro, con speciali cuffie, sulle sfumature della voce e la sonorità del respiro affannoso, che è la radice del battito del cuore e dell'emozione. Ma a ripensarci meglio, ancora di più impressionano gli effetti sconcertanti, per certi versi medianici o catartici, di quella trasformazione, per cui una volta divenuto Craxi, Favino incuteva una inedita soggezione alla troupe; così come – l'ha raccontato Bobo Craxi – vedendolo i vecchi e fedeli domestici della villa di Hammamet si sono emozionati e commossi. Per scrupolo documentario, ma anche per singolare risonanza, tocca a questo punto accennare che in vita Craxi aveva già avuto un sosia doppiatore o Doppelgänger televisivo che dir si voglia. Si chiamava – anzi, si chiama – Pier Luigi Zerbinati e recitava con discreto successo il suo doppio negli spettacoli in prima serata del Bagaglino. Ma anche qui, per dire fino a che punto le vicissitudini dei potenti si riverberano sulle loro maschere in un sintomatico interscambio, quando Craxi si era già rifugiato ad Hammamet, il povero Zerbinati, in vacanza nel Salento, fu “riconosciuto” (dentro una chiesa, peraltro) quindi pedinato e inseguito fino a quando in questura, a Brindisi, non venne chiarito l'equivoco. È che l'Italia resta pur sempre la patria della commedia, anche se poi spesso e volentieri vede accadere drammi veri, tristi e perfino poetici come nessuno sceneggiatore riuscirebbe a renderli. Così Bettino, dopo quella disavventura, volle conoscere Zerbinati: a loro modo divennero amici, si facevano lunghe telefonate in milanese, l'ultima venti giorni prima che Craxi se ne andasse – per rimanere in realtà sulla scena pubblica nelle forme disumane in cui si è detto. Liberarsi di quell'ombra, e lui di quel ruolo minatorio che il tempo dell'odio gli aveva assegnato, era qualcosa che andava ben al di là di maggioranze di governo e commissioni parlamentari d'inchiesta. E di nuovo qui tocca riaprire Massa e potere là dove Elias Canetti affronta le dinamiche primordiali dei re africani; e, sia pure con una punta di sgomento al ricordo che certi democristiani chiamavano Craxi “Bokassa”, e che sul legno dell'ascensore degli uffici del Psi di via Tomacelli una mano aveva inciso “Craxi Amin bianco”, si trova la storia del sovrano ugandese Kigala, che una volta morto doveva però ed era conveniente per tutti che rimanesse in questo mondo. E allora il suo spirito prese dimora in un medium chiamato “Mandwa”, una sorta di Favino vocazionale e permanente, che doveva sembrare il re imitandolo in ogni particolare: aspetto, gesti, timbro di voce, espressione. Narra la leggenda che ogni tanto l'originale Kigala tornava presso il suo doppio e lo afferrava “per la testa” facendolo cadere in un vero e proprio stato di possessione: solo così non provava il rancore del morto; e anche la tribù, forse, che non aveva il cinematografo, riusciva a darsi pace.
Mattia Feltri per la Stampa il 10 gennaio 2020. Una sfilata da luci della ribalta: il Presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro, lassù innalzato anche da Bettino Craxi perché «fu il mio fedele ministro dell' Interno», diffonde una nota sulle sue responsabilità di garante della Costituzione, e dunque un condannato è un condannato, che ci posso fare? Il premier Massimo D' Alema va dal procuratore di Milano, Francesco Saverio Borrelli, e il procuratore ascolta, e ascolta, e poi, anche lui col faro della legalità a illuminargli il cammino, dice niente da fare, un condannato è un condannato, fate un decreto e assumetevene la responsabilità; ma siccome non erano più i tempi - e non lo sarebbero più stati - del primato della politica, D' Alema non procedette oltre il baciamano all' ordine costituito. Il capolavoro di situazionismo fu del segretario di Stato vaticano, cardinale Angelo Sodano, che dopo aver accolto in profonda contrizione le suppliche della figlia Stefania, trasse di tasca due rosari e glieli porse, perché ne facesse dono al padre, insieme all' assicurazione di un posto di privilegio nelle sue preghiere. Così Bettino Craxi restò a morire ad Hammamet, nella latitanza dorata il cui culmine fu la sfacciataggine (ironia, per chi non l' avesse capito) d' essere operato per il cancro al rene nello squallore dell' ospedale militare, dove un medico del San Raffaele si incaricò di reggere la lampada per fare luce sul lavorio chirurgico nelle viscere dell' ex presidente. Nessuno ci aveva ancora riflettuto sopra, sul Bettino Craxi che ventuno anni prima era stato sorpreso da Gennaro Acquaviva con la testa tra le mani, in lacrime, sotto gli occhi una lettera di Aldo Moro spedita dalla «prigione del popolo». Si era decisa, essenzialmente dalla Democrazia cristiana e dal Partito comunista, la linea della fermezza, che poi era la linea dello star fermi nel senso di non far nulla. Riuscì benissimo, tutti fermi mentre Moro veniva processato e assassinato dalle Brigate rosse, e mentre Craxi in solitaria (di già) predicava una trattativa che lo portò più vicino ai sequestratori di quanto non sia riuscito ai servizi segreti, probabilmente impegnati nella stessa interpretazione della fermezza proposta dal governo. Nessuno ci aveva ancora riflettuto sopra, fino a questo libro asciutto e opulento di Marcello Sorgi (Presunto colpevole. Gli ultimi giorni di Craxi, Einaudi, pp. 111, 20), di cui l' esempio è il breve e fulminante ritratto dei due protagonisti - Bettino Craxi in conferenza stampa interpellato vanamente dall' esordiente Sorgi: non risponde e chiede se ci siano altre domande (era un suo crudele modo di svezzare i giovani interlocutori), e Aldo Moro che riceve a Palazzo Chigi don Riboldi e una delegazione di bambini reduci del terremoto del Belice, a cui non promette nulla di quanto non possa mantenere, poiché la politica non è mestiere per fanfaroni. La tesi del libro arriva quando deve arrivare, piazzata al termine del racconto di vite parallele con spietatissima noncuranza: «Entrambi finiscono schiacciati, stritolati in un meccanismo che non si accontenta di distruggerli politicamente, ma presuppone la loro eliminazione fisica. Salvarsi non gli è consentito». È l' ignominia di uno Stato capace di venire a patti coi peggiori ceffi del pianeta per spuntarne un vantaggio purchessia, e di colpo intriso di rigore etico se si tratta di tendere la mano - per umanità e amor proprio, mica per altro - a due leader sbilanciati sull' abisso. Ma se per Moro lo si sa, e lo si è scritto spesso, dirlo di Craxi è un passo verso l' assennatezza perduta ventotto anni fa, quando all' arresto di Mario Chiesa e all' apertura della falsa rivoluzione giudiziaria si decise - nel senso più biblico dell' iniziativa - di fare del capo socialista «il grande capro espiatorio», come scrive Sorgi con una secchezza irrimediabile. Il suo cadavere per la nostra catarsi: che oscenità. Ciechi e autolesionisti, ci si è tutto riversato addosso, com' era prevedibile e previsto: con Craxi, spiega Sorgi, si «consegna alla storia del Novecento il principio del primato della politica, mettendoci una pietra sopra». La politica che non sa più resistere a un procuratore, ceduta al servaggio dell' opinione pubblica, svilita a materiale di controllo via social ora per ora, e dunque immeschinita e disarmata, in balìa del capriccio. Una repubblica fondata sulla menzogna e che, in un mare di menzogne, naufraga amaramente.
· Craxi ed i Comunisti.
Furono i ragazzi di Berlinguer a spegnere il socialismo. Fabrizio Cicchitto su Il Riformista il 30 Aprile 2020. Condivido con Fausto Bertinotti lo spirito di apertura e di dialogo per un confronto serrato non certo per una rissa. Nel suo campo i dogmatici e i faziosi sono ben altri. Poi come Fausto sa bene i peggiori fra tutti sono i dorotei (che è una sorta di categoria dello spirito equamente distribuita in tutti i partiti e schieramenti) che preferiscono un rigoroso silenzio perché considerano un lusso inutile la battaglia delle idee e molto più efficace il ricorso alle tecniche della gestione del potere svolte direttamente o per interposto giornale o per interposto pubblico ministero. Con tutta questa genia, non con i comunisti-operaisti come Bertinotti, ho tuttora uno spirito più che “guerresco” (la guerra, quella vera, l’hanno fatta loro alcuni anni fa), ma duramente conflittuale. Non è stato certamente l’operaismo, ma l’ultima versione del berlinguerismo, quella dei cosiddetti “ragazzi di Berlinguer”, che ha lavorato in modo scientifico a “spegnere”, come diceva Machiavelli, il socialismo italiano e Bettino Craxi. I “ragazzi di Berlinguer” non hanno affrontato il 1989, realizzando un proprio autonomo revisionismo che desse il senso di un trapasso culturale e storico dal comunismo italiano alla socialdemocrazia e all’Internazionale Socialista. È quello che invece hanno provato a fare con tutti i loro limiti e contraddizioni i tanto vituperati miglioristi (Napolitano, Chiaromonte, Macaluso e Ranieri) che non a caso sono sempre stati minoritari nel partito e in più di un’occasione hanno rischiato la pelle. Poi, per applicare fino in fondo anche al Pci quella che Togliatti chiamava “l’analisi differenziata” (che in effetti applicò quasi a tutti, anche ai fascisti, molto meno all’Urss), fra i “ragazzi di Berlinguer” ci sono state due opzioni: quella del tutto utopica di Achille Occhetto, che puntava a superare il comunismo italiano da sinistra recuperando temi e suggestioni da Pietro Ingrao, e quella, tutta fondata sulla realpolitik di D’Alema, Violante, Veltroni (al di là delle sue variazioni sul tema). Come è noto il tentativo di Occhetto fu reso impraticabile da due lati, dallo stesso Ingrao che non voleva superare il comunismo, ma “rifondarlo” e, appunto, dalla componente “realpolitik” dei “ragazzi” che nel frattempo si era collegata in modo profondo a una parte dell’establishment bancario, mediatico, giudiziario di questo paese (esemplare il loro rapporto organico con la Repubblica di Scalfari e di De Benedetti) giocando tutta la partita sull’ingresso nell’area di governo. Questa componente ereditò, gestendola ad un livello più basso ma anche molto concreto, la preclusione berlingueriana nei confronti di Craxi per cui cavalcò fino in fondo quel giustizialismo ispirato sia da un’area della magistratura, sia da Repubblica, sia da un settore del mondo imprenditoriale italiano che aveva dovuto rassegnarsi a lasciar svolgere un ruolo egemone alle forze politiche, in primo luogo alla Dc e poi anche al Psi, fino a quando c’era stata la divisione del mondo in due blocchi e in qualche modo il “pericolo comunista”. Quel pezzo assai aggressivo del mondo imprenditoriale ritenne che era venuto il momento di togliere la “delega” alla politica e ai partiti. Di conseguenza esso utilizzò il suo volume di fuoco mediatico, si liberò della Dc e del Psi cavalcando Mani Pulite. Lo fece con la massima faccia tosta perché proprio le grandi imprese, in primo luogo la Fiat, erano state l’anima strutturale del sistema di Tangentopoli che via via aveva coinvolto tutto e tutti, sistema di potere del Pci compreso. In quel sistema non esistevano certo dei poveri concussi come spiegarono nelle loro lettere ai Pm di Milano la Fiat e la Cir, Romiti e De Benedetti che sarebbero stati quotidianamente minacciati e rapinati dai perfidi e arroganti concussori nelle persone di Craxi, di Forlani e dei loro accoliti. Siccome, poi, nello svolgimento dell’operazione a un certo punto qualcuno spiegò a “lor signori” e al pool di Milano che non si poteva far tabula rasa di tutte le forze politiche, ecco che, anche per ragioni di rapporti di forza, fu realizzato un atipico compromesso storico fra queste componenti dell’operazione di Mani Pulite con i “ragazzi di Berlinguer” che, come spiegò lucidamente Massimo D’Alema, ragionava rigorosamente in termini di occupazione degli spazi politici e di potere: «Eravamo come una grande nazione indiana chiusa fra le montagne con una sola via d’uscita, un canyon, e lì c’era Craxi con la sua proposta di unità socialista, in sostanza un progetto annessionistico. Come uscire da quel tunnel? Questo era il nostro progetto strategico: come trasformare il Pci senza cadere sotto l’egemonia craxiana che avrebbe segnato la disfatta della sinistra. Craxi aveva un indubbio vantaggio su di noi: era il capo dei socialisti in un paese occidentale, quindi rappresentava la sinistra giusta per l’Italia, solo che poi aveva lo svantaggio di essere Craxi. Mi spiego. I socialisti erano storicamente dalla parte giusta, ma si erano trasformati in un gruppo affaristico avvinghiato al potere democristiano. Questo era il nostro vero dramma. L’unità socialista era una grande idea, ma senza Craxi. Allora avevamo una sola scelta, diventare noi il partito socialista in Italia». Tutto ciò si fondava su una grande mistificazione: come tu ben sai, caro Fausto, il Pci era fra i partiti italiani quello che aveva più fonti di finanziamento irregolare, sia detto senza alcun moralismo: dal finanziamento proveniente dall’Unione Sovietica alla rendita petrolifera dell’Eni, alle cooperative rosse, a una miriade di aziende private. Non a caso, diversamente dai miglioristi, quel settore del Pds, forse con l’eccezione di qualche riflessione culturale sviluppata da Piero Fassino, fu assai parco sul terreno della revisione ideologica, ma invece assai aperto e attivo su quello delle privatizzazioni. In qualche caso, taluno dei “ragazzi di Berlinguer” si impegnò a tal punto su quel terreno da guidare anche una cordata di “capitani coraggiosi” venendo però contrastato dall’interno stesso del gruppo dirigente del Pds da parte di coloro che oramai avevano rapporti organici con l’establishment finanziario ed editoriale di questo paese. Queste sono le ragioni, caro Fausto, per le quali mantengo una contestazione di fondo che non è certo rivolta al “comunismo” come categoria dello spirito avendo anche la consapevolezza che la dialettica fra quella ipotesi culturale e quella socialista nel senso classico appartiene per larga parte a un passato prestigioso, ma certamente superato. Invece anche per gli errori politici di Craxi e per il cupio dissolvi che caratterizzò ciò che rimase in campo del gruppo dirigente socialista, certamente nel ’92-’93 i “ragazzi di Berlinguer” vinsero la guerra nei confronti del Psi di Craxi, sia pure transitoriamente e illusoriamente. E allora per il sottoscritto e per altri compagni socialisti, in primis coloro che tuttora danno vita al Psi, a Mondo Operaio e ad alcune significative fondazioni, c’è oggi un obiettivo prioritario, quello di evitare che la storia del movimento operaio italiano si risolva, come è spesso avvenuto nel passato, nella storia fatta dai vincitori. Credo che su questo terreno qualche risultato significativo è stato raggiunto per tre ragioni di fondo: perché c’è stato un lavoro autonomo fatto da alcuni storici di grande qualità: solo per fare qualche nome mi riferisco a Piero Craveri, a Simona Colarizi, a Andrea Spiri, ai dieci volumi costruiti da Gennaro Acquaviva e da Luigi Covatta; in secondo luogo perché da un certo momento in poi i “ragazzi di Berlinguer” hanno accuratamente evitato il confronto su questo campo preferendo occuparsi di altro e cioè di una gestione sempre più asfittica del potere; in terzo luogo perché alcuni dei più significativi intellettuali di origine comunista (Biagio De Giovanni, Beppe Vacca, Silvio Pons, lo stesso Istituto Gramsci) si sono collocati su una dimensione storico-critica più elevata, insomma, per usare una battuta di Antonio Gramsci, stanno lavorando “fur ewig”, al di fuori e al di là dello scontro che ha diviso i socialisti e i comunisti negli anni ’80 e ’90. Dicevo che quella del ’92-’94 è stata per molti aspetti una vittoria transitoria e illusoria. Infatti avendo liquidato quello che era considerato il nemico principale, cioè il “social-fascista Craxi”, i “ragazzi di Berlinguer” hanno ritenuto di essere comunque arrivati a una piena conquista del potere politico e invece con loro sorpresa si sono trovati sbarrati il campo da parte di Berlusconi. Da qui prese corpo una sorta di bipolarismo anomalo, ben diverso dal bipolarismo europeo. Poi, anche in seguito alla devastante crisi economica del 2008-2010 quel bipolarismo è andato a gambe all’aria e ha finito col produrre i mostri con cui oggi ci troviamo a fare i conti, cioè il sovranismo razzista di Salvini e il populismo giustizialista e anti politico del Movimento 5 stelle. Non voglio scandalizzare nessuno, ma secondo me fra questi due mostri, la tematica berlingueriana della questione morale e della damnatio di tutti gli altri partiti e poi fra tutta la vicenda di Mani Pulite del ’92-’94, c’è un nesso, una sorta di consequenzialità. Il grillismo e il sovranismo sono a mio avviso la conseguenza finale dei demoni messi in circolo addirittura da quel Pci che originariamente (dal 1945 in poi) era la forza politica più storicista, più impegnata nella valorizzazione della politica, del ruolo dei partiti, del parlamento e della mediazione: tutto ciò era una delle caratteristiche più significative del Pci, ma del Pci di Togliatti, non di quello di Berlinguer, alcuni tratti del quale (e le battute di Tatò esprimono lo spirito dei tempi) ha incorporato in sé stesso, con tutti gli aggiornamenti inevitabili. Ma più i tratti del VI Congresso dell’Internazionale Comunista, quello per intenderci del social-fascismo, che non quelli del VII, il Congresso dei fronti popolari (vedi a proposito di tutto ciò il bellissimo libro di Paolo Franchi). In questo quadro non capisco perché, caro Fausto, ti identifichi totalmente nell’ultimo Berlinguer, rappresentato come un generoso e appassionato interprete del movimentismo. No, a mio avviso, l’ultimo Berlinguer fu rattrappito in un chiuso settarismo, certamente nobilitato da un impegno personale condotto usque ad effusionem sanguinis, per una spasmodica e disperata battaglia contro quello che era ritenuto il male e quindi come tale meritevole dell’onore delle armi come si deve a tutti i combattenti che credono fino in fondo nelle idee.
Riformisti o rivoluzionari? La contraddizione non esiste piú. Fausto Bertinotti su Il Riformista il 27 Aprile 2020. La controversia tra comunisti e socialisti ha attraverso tanta parte della storia politica del nostro Paese, dunque si può capire che possa rispuntare anche da sotto le ceneri. Fabrizio Cicchitto lo ha fatto riprendendo il filo della relazione tra Craxi e Pellicani nella temperie del nuovo Psi che stava affermandosi alla fine degli anni 70. Lo fa con intatta passione e manifesto spirito di parte. Apprezzo l’una e l’altro, ma penso che non siano adatti ad indagare i rapporti tra socialisti e comunisti nell’Italia uscita dalla Resistenza e arrivata sino alla fine del Novecento. Sarà anche per ragioni autobiografiche. Sono stato nel Psi, nel Psiup e nelle diverse tendenze ispirate a eresie socialiste, quali quelle di Raniero Panzieri, e quelle varie delle sinistre socialiste fino a Riccardo Lombardi. Nel Pci, in quello guidata da quell’eretico senza scisma che è stato Pietro Ingrao. Come Cicchitto ho vissuto – certo molto più a lungo di lui – in quella casa comune che è stata la Cgil. Forse però è per questo che penso che, nell’oltrepassamento della separazione tra riformisti e rivoluzionari, un’esperienza di elaborazione particolarmente significativa è stata proprio quella degli anni 60, che un filosofo come André Gorz e un uomo della cultura politica come Gilles Martinet hanno chiamato dei riformisti-rivoluzionari: è la linea che legava socialisti come Lombardi, Foa, Basso a comunisti come Ingrao o Trentin in un’ipotesi di lavoro per il superamento della società capitalista. Ma penso così soprattutto perché dopo il grande e terribile Novecento, dopo la sconfitta del movimento operaio, e l’avvento di un capitalismo ancor più intollerabile, bisognerebbe riflettere diversamente su tutta quella storia che non consente più di far vivere filiazioni dirette, quanto piuttosto attraversamenti; certo senza negare preferenze e diversità di opzioni, ma concorrendo a un nuovo inizio nella storia per la trasformazione della società. La consuetudine e l’antica conoscenza, ma anche la leggerezza che vorrei connotasse questo confronto, mi suggerisce il ricorso al nome del mio interlocutore. Fabrizio mi è parso prigioniero della sua metafora guerresca, quella a cui fa ricorso, scrivendo: «Fu un fuoco di fila in cui si mescolavano le bombe a mano e il tiro di fucili di precisione». In guerra ci sono solo nemici, o vinci tu o vince lui. Vince, in ogni caso, chi resta in vita. È il trionfo della coppia nemico-amico. Sarei per deporre le armi, salvando la passione. Anch’io sono partigiano di una parte (oplà) e sul fronte opposto a quello di Cicchitto (oplà). Anch’io non sopporto gli eclettismi e non mi piace affatto risolvere le opposizioni con la somma delle stesse, ma il punto è che quel che ieri sono state opposizioni, oggi, nella rielaborazione del tempo, non lo sono più, almeno come tali. Non Marx o Proudhon, ma Marx e Proudhon, quello peraltro che diceva che la proprietà è un furto. Marx, caro Fabrizio, non si può seppellire, soltanto perché non è possibile farlo. È una pietra d’inciampo troppo grande. Resiste. Anzi, riemerge ora nel tempo del capitalismo finanziario globale e della sua crisi. La Marx Renaissance è stato un evento mondiale che ha mobilitato le università maggiori di ogni parte del mondo, a partire da quelle degli Usa. E solo qualche anno fa, Marx è stato l’autore più venduto nelle librerie del Regno Unito. L’avvertenza, lo sappiamo, è nota. Marx stesso diceva di non essere marxista. Dei grandi rivoluzionari e rivoluzionarie del Novecento non è più possibile ereditare la lezione per filiazione diretta, semmai lo è stato. Non si può farlo, se non creativamente. Se si vuole dire così, “revisionisticamente”. Solo per memoria dei tempi in cui quei giganti ci sembravano contemporanei, tanto da prendere parte alle loro dispute, a partire da quella tra riformisti e rivoluzionari, da quella fondativa tra Bernstein e la Luxemburg. Solo per memoria, allora, potrei dirmi luxemburghiano, ma si sa che in fondo sarebbe un nonsense. Il movimento operaio, vinta la rivoluzione e fattosi Stato, è fallito a Est. Il movimento operaio senza la rivoluzione ma col conflitto di classe è stato sconfitto ad Ovest. Ma l’una e l’altra storia hanno scritto un’epopea che ora è finita. Qui si situa la vicenda di cui scrive Cicchitto e la contesa tra Pci e Psi. Come ho già detto, stavo sull’altro versante rispetto al suo. Non mi convince ancora oggi la sua riduzione del Pci a Enrico Berlinguer e tantomeno a Tonino Tatò, di cui pure sono stato amico, e tantomeno ancora a una sua frase molto infelice. Tornerò brevemente, solo per un cenno, sul Pci, quasi un’avvertenza semplicemente metodologica, ma non vorrei sfuggire al problema a cui Berlinguer ha dato vita e che Cicchitto ricorda. Non è stato nelle mie corde il primo Berlinguer, quello che con grande consenso e grande successo è arrivato fino al Compromesso storico. Mi trovavo allora in dissenso e ancora oggi quell’ipotesi non mi convince affatto. Invece, trovo ricco e radicale il secondo Berlinguer, quello, per dirla sommariamente, dei cancelli alla Fiat nella lotta dei 35 giorni e della Scala mobile. Lo muove un’intuizione di classe e carica di futuro. La sconfitta dell’ipotesi non ne riduce affatto la portata. Fabrizio, che è cultore della Luxemburg, ricorderà sicuramente le sue pagine straordinarie sul valore della sconfitta: «Una sola può valere più di cento comitati centrali». Cosa intuisce quel Berlinguer? Intuisce che si è giunti alla fine del grande ciclo ascendente del conflitto operaio-studentesco, quello aperto dal biennio ‘68-’69, e che si è giunti di fronte al rovesciamento del conflitto di classe, come dirà poi lucidamente Luciano Gallino. Pensa, cioè, che da allora in poi saranno i padroni a organizzare la lotta contro i lavoratori e non più il contrario. E poi raggiunge la seconda sua intuizione, quella cioè che quando i partiti della sinistra smarrissero la radice di classe della loro politica, si avvierebbero inesorabilmente a una mutazione genetica che li trasferirà nel campo liberale. Vero è che il Pci, come tanta parte dell’opinione critica del Paese, non capisce la forza di una ribellione socialista a una condizione di oppressione paternalistica, lungamente subita da parte comunista, né intende la sua radice libertaria, quella di una carica provocatoria, che giunge fino a flirtare con un certo libertinismo. Ma siccome penso che ognuno dovrebbe riflettere a partire dai mali della propria parte, quelli della mia sono certo ingombranti e diffusamente approfonditi, vorrei invitare Fabrizio a riflettere su quel punto di partenza, quel 1978 socialista di cui scrive con passione. Continuo a pensare che di ben altra stoffa fosse il precedente revisionismo socialista, quello originato dal 1956, dopo la catastrofe ungherese, quando il ventaglio aperto era tanto ampio da andare da Panzieri a Giolitti, e ancora molto più in là. La ragione, secondo me, è che nel revisionismo socialista, che aprì la strada agli ani 60, c’era diversamente da quello di cui parla Fabrizio, l’ambizione di interessare l’intero movimento operaio in una sfida per l’egemonia, non per il comando. L’ha inteso un socialista liberale, come Norberto Bobbio. Vorrei dire a Fabrizio, in verità e in amicizia, che penso che ciò che ancora gli impedisce un’analisi critica, ma serena, è il suo rifiuto di considerare il Pci per quello che realmente è stato. Delle sue colpe sappiamo e moltissimo si è scritto e detto, ma se parlando del suo retroterra culturale, degli intellettuali che ne hanno fatto parte, si scrive della «melassa culturale del Pci», allora si rivela un’incomprensione di fondo. Non farò torto alla cultura politica di Cicchitto, facendogli un quadro dell’intellettualità che ha fatto parte di quel mondo, delle loro esperienze, della loro produzione artistica, culturale, della creatività con cui hanno investito tanta parte della cultura mondiale. Melassa? Basti la storia di Pier Paolo Pasolini a bucare questa immagine inadatta. Ha scritto Pasolini: “Il Pci è un paese nel Paese”. Un paese, non una segreteria, una direzione, un comitato centrale. Mi dia retta per una volta, Fabrizio, ascolti Giorgio Gaber, ascolti la sua ballata “Qualcuno era comunista”. Se non sente viva quella storia di popolo, il conflitto tra Craxi e Berlinguer diventa indecifrabile nelle sue ragioni, nei suoi torti più profondi, quelli che potrebbero interessare ancora il nostro futuro e che comunque ci aiuterebbero a rileggere la storia con i dovuti “se”, perché non è vero che essa non si fa con i “se”.
Da Roma a Milano su Craxi continua la pioggia di monetine. Tiziana Maiolo su Il Riformista 5 Febbraio 2020. Lunedi sera, consiglio comunale di Milano. Nessun ricordo per Bettino Craxi. Le monetine continuano a tirargliele, non più in compagnia dei missini, ma in beata solitudine, gli eredi di quel Pci-Pds che nella serata del Raphael diedero il peggio di sé. Le monetine si sono trasferite da Roma a Milano, dove Bettino Craxi, che in questa città mosse i primi passi della politica in consiglio comunale, ma che ebbe anche l’orgoglio di essere il primo presidente del consiglio milanese, non trova un riconoscimento. Non è sepolto al Famedio insieme a coloro che resero grande la città di Ambrogio. Non ha una via a lui intestata. Probabilmente non avrà neppure una targa sulla casa che ha abitato, via Foppa, non certo nel lusso del centro città. Per lui fino a oggi solo monetine. Di sinistra. E il consiglio comunale che si scrolla di dosso la patata bollente: caro sindaco Sala, se vuoi dare almeno una targa in ricordo di Bettino Craxi, fallo tu. Noi no. Di dedicare una via al ricordo di Bettino Craxi si era cominciato a parlare a Milano, la sua città, un po’ prima del 2010, per l’occasione del decennale dalla sua morte. E c’era voluto un sindaco di centrodestra di una città medaglia d’oro della resistenza e in cui ancora oggi il Pd è il primo partito, per porre il problema di rendere onore con l’intitolazione di una via a un grande riformista socialista. Un cittadino illustre che aveva contribuito in gran parte allo sviluppo e alla trasformazione di Milano in una metropoli. Letizia Moratti era arrivata a un passo, l’ufficio toponomastica del Comune stava individuando anche la zona adatta. Poi, un po’ perché aveva trovato l’opposizione della Lega, un po’ perché la pratica era rimasta vittima di lungaggini burocratiche e un po’ perché lei non era stata rieletta, l’iniziativa era affossata. E Moratti colpita al petto come san Sebastiano da tante frecce che portavano i nomi di Antonio Di Pietro e di Saverio Borrelli, degli uomini del Pd ma anche del capogruppo della Lega in consiglio comunale Matteo Salvini, facente parte della sua stessa maggioranza. Gli argomenti allora erano tutti di tipo giustizialistico. Benché a Roma il presidente Napolitano mostrasse il coraggio di partecipare a testa alta alla manifestazione organizzata da Stefania Craxi al Senato, a Milano si parlava solo di San Vittore, mazzette e corruzione. Un ex presidente del consiglio, segretario di un grande partito, ridotto a quattro articoli di codice penale. Piano piano però il clima pare essere cambiato e il ventennale ha coinciso con la presa d’atto del fatto che la storia non la fanno più, per fortuna, solo i pubblici ministeri. Anche a Milano qualcosa pare essersi rotto, cioè l’omertà tra la cultura dei Borrelli e dei Di Pietro e il giustizialismo della sinistra. Sono i giovani del Pd che, per la prima volta in quel partito, prendono l’iniziativa di organizzare una giornata di studi ( che si terrà il 24 di questo mese) su Craxi. Un progetto serio e ambizioso, che partirà dal ruolo del segretario socialista a Milano come consigliere, assessore e simbolo della città negli anni Ottanta, per passare alla figura di Craxi come presidente del consiglio e infine il lascito politico del leader socialista e i riflessi sulla cultura riformistica e progressistica di oggi. Ai giovani si affianca il capogruppo a Palazzo Marino Filippo Barberis, che non teme di dichiarare: «La vicenda politica di Craxi e l’impatto che ha avuto nella storia della nostra città, del nostro Paese e della sinistra italiana, non può essere ridotta alle sole vicende giudiziarie che ne hanno segnato la fine. Craxi è stato molto di più, nel bene e nel male». Pareva una svolta culturale vera. Invece no. È scoppiato l’inferno, con la ribellione del partito. Sia al convegno che alla via o alla targa. I giovani sono stati subito redarguiti dai vecchi, pure quelli che avevano avuto qualche problemino con Tangentopoli. In mezzo al guado il titubante sindaco Sala, che tra un anno e mezzo vorrebbe essere rieletto, e che continua a dire che sì, in effetti una riflessione ci vorrebbe, però Craxi è «divisivo». Orribile parola per dire che si sta parlando di una persona che lascia traccia di sé. Così, invece di prendere una decisione sulla richiesta (Stefania) di intestare una via, o almeno (Bobo) una targa sull’abitazione, il sindaco decide di delegare il consiglio comunale alla discussione. Ma poi lui lunedì sera non c’è, la Lega coglie l’occasione per defilarsi, destra e sinistra tornano al vecchio bipolarismo armato (a Milano i cinque stelle sono inesistenti) e in questo gioco dell’oca impazzito, si ritorna al “via”. Cioè il consiglio incaricato dal sindaco di prendere una decisione almeno sulla targa, decide che dovrà occuparsene la giunta. La sagra dell’ipocrisia. Altra manciata di monetine addosso a Bettino Craxi. E alla dignità della sinistra.
Cosa avrei detto di Craxi se il Senato non avesse vietato la commemorazione. Riccardo Nencini de Il Riformista il 2 Febbraio 2020. Nel trionfo dell’ipocrisia e del camaleontismo, con l’unica eccezione di Italia Viva, i presidenti dei Gruppi al Senato mi hanno vietato di commemorare Craxi. Le motivazioni: non è mai stato un senatore, l’aula si sarebbe trasformata in un Vietnam per la dura reazione grillina, era un latitante, eccetera. Ho incontrato ad Hammamet una delegazione di Forza Italia, ho ascoltato parole di omaggio da parte di leader della Lega, fioriscono convegni sulla figura di Craxi con la partecipazione di autorevoli senatori, a Milano la giovanile del Pd organizza un incontro, nondimeno l’unica sede deputata a tracciarne un profilo – il Parlamento italiano – ne vieta il ricordo. Nessun esame di coscienza, un bel macigno su uno dei periodi più controversi della storia d’Italia, basta e avanza un capro espiatorio che ci mondi dai nostri peccati. Nell’aula dissacrata più volte da cappi che penzolano, da occupazioni dei banchi del governo, da telefonini che squillano, da applausi rivolti a capi di governo che sguazzano nella dittatura (penso a Maduro), da offese roboanti, nonostante tutto questo l’argomento rimane un tabù. C’è di più. Il tentativo di spostare a destra la memoria di Craxi. Peggio: farlo dialogare con la destra più radicale, il luogo più lontano dal socialismo umanitario che prende vita sul finire degli anni Settanta. Si scambia il patriottismo col nazionalismo, le proposte per rendere più solida l’Unione Europea si trasformano in antieuropeismo. Una manipolazione storica aberrante. Non possiamo lasciare che questo avvenga. Ne verrebbe lacerata una storia di libertà e di civiltà del Novecento italiano. Non parlo solo la vicenda politica dello statista, ma di una storia comune, la nostra, che dagli scranni parlamentari ha rovesciato l’Italia, da Turati a ieri mattina. Questo avrei detto, in Senato, se me lo avessero consentito. Quello che per alcuni, evidentemente, è carta straccia. Non voglio perorare rivisitazioni giudiziarie né stendere una biografia di Bettino Craxi. Quando sia nato, dove abbia vissuto, cosa abbia costruito per il suo Paese. Basta un tocco sull’Iphone per immergersi nella sua vita. Non c’è dubbio. Utile conoscere, sapere, e però, lo dico con Balzac «chi fa della cronologia pescando a caso da una vita intera fa soltanto la storia degli sciocchi». Tanto più se quella storia, quel nome, si legano a un periodo tra i più controversi della storia d’Italia. Li è il nodo, e non possiamo pensare di scioglierlo affidandoci a un eccellente regista e ad un attore impareggiabile. Tocca a noi, alla politica, rileggere quel tempo senza ipocrisie, senza affidarsi alla teoria, mediocre e salvifica per i ciechi, del capro espiatorio, del «nemico unico e certo» – parole pronunciate da Luciano Violante presidente della Camera. Guardo con sospetto sia alle celebrazioni acritiche sia ai giudizi provvisori, declamati senza scavare sotto la pelle della storia e attingendo alla cronaca. Craxi fu un uomo politico a tutto tondo e uno statista, uno dei protagonisti di un lungo periodo della storia d’Italia e del rinnovamento del socialismo europeo, e come tale va considerato. Relegarlo al biennio 1992/94 è fare un torto all’evidenza. Commise errori? Sì. Rappresentò con dignità l’Italia nel mondo? Sì. Fu parte di un sistema politico che si era forgiato attorno alla cortina di ferro, dominato in Italia e in Europa dal fattore K, con tutte le conseguenze che per quasi mezzo secolo sono figliate da quella divisione? Sì. La storia individuale di un leader politico di una nazione centrale nell’ordine postbellico non può essere scissa né dal contesto né dal confronto con ciò che c’era prima e con ciò che viene dopo. Altrimenti si cede alla tirannia degli stereotipi e al posto della memoria collettiva, necessaria alle nazioni per vivere – per vivere, non per sopravvivere – si sostituisce il bignami delle novelle della sera. C’è addirittura una seconda alternativa, quella tracciata, richiamandosi a Saint Just, l’artefice del Terrore rivoluzionario, da Piercamillo Davigo. Eccola, parola per parola: tra i politici non esistono innocenti, solo colpevoli fino a prova contraria. Bene. Per lunghi anni siamo stati dunque governati da una classe politica criminale. Dobbiamo a quella classe politica la resurrezione dell’Italia sconfitta in guerra e devastata da una ventennale tirannia e da un tradimento. Di più: le riforme in nome di libertà ed eguaglianza, la conquista di un benessere diffuso, la vittoria nella lotta al terrorismo, un ruolo importante nello scacchiere internazionale fino a raggiungere il G7. Un’Italia più libera e civile ha un marchio infame, un pantheon dantesco. Se ci accontentiamo della superficialità, abbiamo trovato il modello. Va solo registrato. E invece, vent’anni dopo, non sono più tollerabili né i silenzi né il gioco di parole fondato sul «ma anche». Qualche esempio? Secondo taluni fu un latitante e non un rifugiato politico, eppure si offrono funerali di Stato e la commissione parlamentare d’inchiesta sul caso Moro chiede di incontrarlo. Del resto, latitante, nella lingua madre, è colui che si nasconde. Complicato nascondersi quando si ha la casa piena di giornalisti e il telefono non smette mai di squillare. Eccola la trappola del «ma anche», del «sì, però», del «quasi». Parole che allontanano da un esame di coscienza come si deve, da una confessione piena, semmai passi di lumaca verso una verità sussurrata. Cosicché, chi ha quasi vinto gioca ancora pur non essendoci mai confessato fino in fondo. Del resto, Craxi, il 3 luglio 1992, spiegò con dovizia di particolari come si finanziavano i partiti. Io c’ero. Non si trattò di un’invocazione alla correità. Tutt’altro, un appello a che ciascuno si assumesse le proprie responsabilità. Questo fu. La riprova? Nel 1984 e nel 1989, con voto unanime, il Parlamento vota l’amnistia per reati di finanziamento illecito. Ben due volte in cinque anni, all’unanimità. Non mi aspetto che Craxi venga ribattezzato con l’acqua miracolosa in cui fu immerso Curzio Malaparte, eccellente scrittore, fascista della prima ora, tra i protagonisti esterni dell’omicidio Matteotti e redento, nel dopoguerra, dal ministro di molta grazia e di poca giustizia. No, mi aspetto invece che chi siede su questi banchi compia un atto di coraggio condividendo le parole lungimiranti di un ex presidente della Repubblica e di vari capi di governo con cui Craxi lavorò, che si ponga almeno un paio di domande: quanto incide, nella caduta della Prima Repubblica, il mutato clima internazionale? Quanto incide il tramonto della centralità della politica a vantaggio della finanza, con conseguente svendita di pezzi pregiati dell’industria italiana? Non tocca anche a noi valutare, scavare, immergersi nei torbidi di quel tempo, o basta affidarci alla penna di buoni giornalisti e a storici di buona volontà come non avessimo a cuore l’identità di una nazione, le radici dalle quali proveniamo? Un’ultima questione. Quegli anni lacerano una storia magnifica del Novecento italiano. Fossi stato a Montecitorio, la geografia degli scranni mi sarebbe stata di aiuto. Là Turati e Matteotti, più sotto Nenni, Treves, la Merlin, Loris Fortuna, lassù Saragat e Pertini, non lontano da dove siedo Gino Giugni, il padre del giuslavorismo italiano. Chi ha fatto una scelta di vita non può accettare che una storia che ha avuto ragione venga abrasata, relegata in un canto o, peggio, narrata con sussiego o, peggio ancora, con compassione. Ma nemmeno chi ha il privilegio di sedere nel Senato della Repubblica, dovrebbe accettare che il passato in cui hanno vissuto e lottato i suoi genitori e i suoi nonni, quale esso sia, venga rappresentato come una commediola da teatro di provincia.
L'incontro. Il Pd ancora diviso su Craxi, uno scontro di cultura politica e generazionale. Tiziana Maiolo de Il Riformista il 7 Febbraio 2020. Non ci sarà una via intestata a Bettino Craxi. Non ci sarà una targa affissa sulla sua casa di via Foppa. E non ci sarà (almeno per ora) il convegno di studio sulla storia di Craxi e sul socialismo organizzato dai giovani del Pd. A vent’anni dalla morte di un grande personaggio che qui è nato e cresciuto politicamente, Milano, la Milano che vota a sinistra, è ferma nel suo immobilismo, nella sua incapacità di esprimere un pensiero collettivo sul proprio passato. Perché ormai quel che sta succedendo nella sinistra milanese non è più la questione di intitolare una via a Bettino Craxi né di apporre una targa e neanche di tenere un convegno di approfondimento. Quello che è scoppiato all’interno della federazione milanese del Pd è un vero scontro di cultura politica. E anche generazionale. Paolo Romano, segretario dei giovani democratici, ha 23 anni, studia economia, è consigliere di municipio. Quando lui è nato, Craxi era già ad Hamammet. Proprio per questa ampia sfasatura di tempi e memoria, ha la curiosità di sapere e di capire e di imparare, “anche dagli errori”, dice. Insieme ai suoi compagni, e con la benedizione del capogruppo Pd in consiglio comunale Filippo Barberis, un riformista di 37 anni, aveva organizzato una giornata di studio che, a vedere dal programma, sembrava tutt’altro che nostalgica o elogiativa di Bettino Craxi. Certo, non era un convegno “grillino”, come forse sarebbe piaciuto a quella parte dei dem cui dei socialisti piacciono solo le spoglie. Quelli che leggono la storia solo sulle carte giudiziarie. Quelli che per dare l’Ambrogino a Filippo Penati hanno dovuto elargirlo anche a Francesco Saverio Borrelli. Al contrario denotava un certo rigore storico e cronologico. Nel primo panel si sarebbero raccolte le testimonianze sul Craxi milanese, i suoi primi passi da consigliere comunale e poi da assessore e la Milano degli anni ottanta, con luci e ombre. Letto anche con l’aiuto dei ricordi dell’ex capogruppo milanese del Psi Ugo Finetti e degli ex sindaci Carlo Tognoli e Paolo Pillitteri. La seconda parte del seminario avrebbe esaminato la parte di Craxi “romano” e presidente del consiglio, con al fianco il suo vice Claudio Martelli e con lo sfondo della prima repubblica e le sua degenerazioni politiche. L’eredità di cultura politica infine, e la domanda delle domande: che cosa ci ha lasciato il leader socialista e in che modo ha influito sulla cultura del riformismo di oggi? Ne avrebbero discusso con i giovani anche il ministro per lo sviluppo del Sud Giuseppe Provenzano, i parlamentari Tommaso Nannicini e Lia Quartapelle, oltre al sindaco di Bergamo Giorgio Gori. Una vera banda di sovversivi craxiani, come si vede. Pure, qualcuno ha annusato il pericolo. Sono partiti per primi due vecchi della politica milanese. Barbara Pollastrini che ai tempi di Mani Pulite era la segretaria cittadina del Pds e che dovrebbe portare ancora addosso le ferite di quell’incriminazione da cui fu poi prosciolta, ma di cui evidentemente preferisce cancellare la memoria . E poi Carlo Monguzzi, che fu assessore dei Verdi in Regione e che oggi sorprendentemente dice «l’onestà è il presupposto della politica e io non ho da ridiscutere o riabilitare Craxi», beccandosi così del “vecchio stalinista” da parte di Roberto Caputo, ex assessore socialista del Comune di Milano. Ma anche in quello che fu il potente mondo socialista milanese si fanno vivi in pochi. Prende coraggio Carmela Rozza, ex assessore pd al Comune e oggi in Regione: «È ora che si riconosca il valore dell’uomo politico Bettino Craxi». Il resto è silenzio assoluto. Anche perché tra la storia della via e della targa da una parte e quella del convegno dall’altra, gli esponenti del Pd sono riusciti anche a fare arrabbiare il sindaco. Beppe Sala è fuori di sé. E’ stato un eccellente direttore generale con il sindaco Letizia Moratti, e del fatto che lui fosse di sinistra, come dice oggi, non si era accorto proprio nessuno, e se era vero l’aveva nascosto molto bene. Ma oggi è accreditato come uno importante del Pd a tutti gli effetti, e non ha nessuna voglia di trovarsi tra i piedi la patata bollente della questione Craxi. Del resto il ventennale dalla morte c’è e la richiesta ( l’ennesima) dei figli di poter intestare una via (Stefania) o almeno una targa (Bobo) nella sua città (se non qui, dove?) è un fatto concreto che non si può scacciare come una mosca fastidiosa. Così il sindaco con l’escamotage di “dare la parola alla città”, aveva delegato al consiglio comunale il compito di avviare un dibattito e anche di decidere sulle questioni apparentemente solo toponomastiche. Poi però in consiglio lui non si era presentato e il dibattito era diventato un gran pasticcio con finale a sorpresa e la palla ributtata nel canestro dello stesso Sala e della sua giunta. Così lui ora ha un diavolo per capello e le elezioni in arrivo (un anno passa veloce), i giovani si sono fermati in attesa che i vecchi sbroglino alcune matasse che si profilano all’orizzonte, non ultima quell’ambizione, di cui si parla insistentemente a Milano, di Giorgio Gori che vorrebbe il posto di Nicola Zingaretti. Il quale, pare, avrebbe alzato il telefono proprio per bloccare le ambizioni riformistiche di quei ragazzi nati quando Craxi era già ad Hammamet.
Dagospia il 29 gennaio 2020. All'associazione della Stampa Estera di Roma è stato presentato il libro di Marcello Sorgi su Bettino Craxi, ''Presunto innocente'' (Einaudi). Con l'autore c'erano Massimo D'Alema e Stefania Craxi, moderatore Virman Cusenza, direttore del ''Messaggero''. Tra il pubblico, l'ex ministro Margherita Boniver, l'avvocato Guido Calvi, l'ex presidente della Calabria Agazio Loiero, Laura Morino, Jas Gawronski, l'ex direttore del ''Messaggero'' Mario Pendinelli, Paolo Repetti, Vito Riggio, Annamaria Malato, Gabriella Carlucci, Livia Azzariti e la moglie di Sorgi, Anna Chimenti, costituzionalista attualmente distaccata presso l'ambasciata italiana a Londra per gestire le conseguenze istituzionali del referendum sulla Brexit.
Da Il Fatto Quotidiano il 29 gennaio 2020. Alla presentazione a Roma del libro di Marcello Sorgi Presunto colpevole, gli ultimi giorni di Craxi, botta e risposta tra Massimo D’Alema e Stefania Craxi. Un confronto sul mancato rientro in Italia da Hammamet del leader socialista per potersi curare mentre D’Alema era premier. “Ti ho sentito spesso rivendicare il primato della politica, dopo 20 anni si può dire che in quel caso non ci fu? ”, ha detto Stefania Craxi rivolgendosi a D’Alema in merito all’intervento che fece con la Procura di Milano. “Craxi – ribatte D’Alema – era tecnicamente un latitante. Noi come governo prendemmo una posizione pubblica dicendo che eravamo favorevoli a che Craxi potesse venire a curarsi in Italia. In quel momento oltre il 90 per cento degli italiani era contrario. Assumemmo una posizione molto impopolare. Parlai con la Procura di Milano: Craxi non sarebbe stato arrestato, ovviamente, Borrelli però si impuntò sul fatto che loro lo avrebbero piantonato in ospedale. Ma Craxi disse ‘io posso venire solo da uomo libero’. Io non so quale fantasia, Stefania, si sarebbe potuta inventare per impedire che i magistrati decidessero di piantonare Craxi, fare un decreto? Le condizioni erano quelle e Craxi rifiutò”.
Mario Ajello per “il Messaggero” il 29 gennaio 2020. Il tema Craxi tira. La sala della Stampa estera è piena. E la platea si anima, rumoreggia e si divide quando Massimo D'Alema osserva: «Non serve mettersi a dire chi, tra Berlinguer e Craxi fosse più o meno innovativo. I torti nella loro azione politica erano equamente distribuiti. Berlinguer fu un conservatore sul piano istituzionale. Ma fu un innovatore sul piano sociale, ambientale o nelle grandi questioni come il femminismo». E ancora: «Io sono stato un avversario politico di Craxi e stavo al fianco di Berlinguer. Non tutti i torti erano da una parte e tutta la ragione era dall'altra. E i reati per i quali Craxi è stato condannato non cancellano i suoi meriti politici». E' stato spumeggiante, e a tratti anche duro per effetto dei toni incalzanti di Stefania Craxi, questo dibattito intorno al libro di Marcello Sorgi (Presunto colpevole, Einaudi stile libero), con l'autore, la figlia di Bettino e il moderatore Virman Cusenza, direttore del Messaggero. D'Alema da premier, nel 1999, si attivò per il ritorno di Craxi in Italia, da Hammamet, in modo che venisse curato. «Trattai non di nascosto, ma prendendo una posizione politica pubblica e anche molto impopolare, il 92 per cento degli italiani era contrario al rientro di Craxi, con il procuratore di Mani Pulite, Borrelli. Noi avevamo chiesto che il leader socialista, malato, non fosse arrestato una volta arrivato in Italia. Ma su questo il giudice Borrelli s'impuntò, ne fece una questione di principio. E Craxi rifiutò: o torno da uomo libero o niente». Poi il funerale, con la strana contraddizione di un governo che considera latitante Bettino ma vorrebbe tributargli i funerali di Stato e manda una delegazione ministeriale alle esequie ad Hammamet. D'Alema si assume tutta la responsabilità di quel tentativo. E quando Stefania gli dice «ma perché non avete fatto un'amnistia?», lui replica: «Perché non sarebbe servita nel suo caso». L'ex premier, nella rivalutazione di Craxi, arriva a dire che «già al tempo del Pci io sostenni che su molte cose i socialisti erano nel giusto e noi sbagliavamo». Racconta di quando con Veltroni andò nel camper di Bettino durante l'assemblea socialista di Rimini e commenta: «Lo trovai molto aperto verso l'evoluzione del nostro partito. E ci fece anche entrare nell'Internazionale Socialista». Ma quello fu prima della tempesta di Tangentopoli. Ma all'ex premier si ricorda che poi, nell'episodio delle monetine dell'Hotel Raphael, nel 93, il segretario del Pds Occhetto cavalcò la furia popolare. «Io fui quello che disse che Craxi non si doveva dimettere per un avviso di garanzia. E dicevo anche: l'ho combattuto politicamente ma mi rifiuto di partecipare al linciaggio». Segue piccola chicca: «Bettino apprezzò quelle mie posizioni, tanto è vero che da Hammamet mi faceva indirettamente arrivare consigli relativi all'azione di governo. Lui era un uomo di sinistra e l'Olp di Arafat era il nostro canale di comunicazione». Una parte molto intrigante del libro di Sorgi è quella sull'eventuale complotto americano per far fuori Craxi e tutta la Prima Repubblica. D'Alema si mostra piuttosto scettico. «Quello che so di sicuro - dice - è che c'è stato un disegno della grande borghesia proprietaria di alcuni giornali per eliminare la politica e sostituirsi ad essa senza più mediazioni. Certi giornali hanno massacrato i partiti, su impulso dei loro editori, fomentando la furia popolare contro la politica». Dunque un complotto della stampa? Qui interviene Sorgi: «Le posso assicurare, presidente D'Alema, visto che facevo il giornalista in quegli anni, che non ci fu nessuna pressione dei proprietari dei giornali. I quali cercavano pubblico e colsero il vento dell'opinione pubblica». Ma D'Alema è D'Alema, difficile convincerlo. Mentre lui, pur tra qualche evasività ma almeno non si nasconde a differenza di tanti del Pd, s'è mostrato davvero convinto che Craxi sia da rivalutare.
Un convegno del Pd su Craxi: «Facciamo i conti con la storia». La giornata di studi il 22 febbraio all’Umanitaria. Invitati Tognoli, Martelli e Finetti. Andrea Senesi il 30 gennaio 2020 su Il Corriere della Sera. È la prima volta a Milano e probabilmente è un inedito pure su scala nazionale. Il Pd, l’erede più diretto del Pci-Pds, organizza una giornata di studi intorno alla figura di Bettino Craxi. Succederà il 22 febbraio: un’intera mattina di incontri e dibattiti all’Umanitaria, altro luogo simbolo della Milano laica e socialista, per un convegno organizzato dai Giovani democratici e dal gruppo consiliare del Partito democratico. A vent’anni dalla morte, la svolta. Tra i relatori l’ex sindaco Carlo Tognoli, l’ex capogruppo milanese del Psi Ugo Finetti e l’ex vicesegretario nazionale Claudio Martelli. Tre «panel» di discussione, nella mattinata all’Umanitaria. Il Craxi milanese, prima di tutto, consigliere e assessore a Palazzo Marino e poi simbolo della città «da bere» degli anni 80. Una seconda parte del seminario analizzerà invece il leader nazionale, il segretario socialista, il presidente del Consiglio e il simbolo della Prima Repubblica delle sue degenerazioni partitocratiche. Infine il lascito politico del leader socialista e i riflessi sulla cultura riformista e progressista di oggi. Al convegno è atteso anche il ministro per il Sud Giuseppe Provenzano, mentre è già confermata la presenza di politici e amministratori locali «dem». Tra gli altri, i parlamentari Tommaso Nannicini e Lia Quartapelle, la segretaria milanese Silvia Roggiani, il sindaco di Bergamo Giorgio Gori. Ci sarà anche l’attuale capogruppo in Comune Filippo Barberis, che racconta il senso dell’iniziativa: «La vicenda politica di Craxi e l’impatto che ha avuto nella storia della nostra città, del nostro Paese e della sinistra italiana non può essere ridotta alle sole vicende giudiziarie che ne hanno segnato la fine. Craxi è stato molto di più, nel bene e nel male. Conoscere la sua storia, le scelte che fece da uomo di governo, da socialista liberale, significa fare i conti con un pezzo importante della storia della nostra identità politica di democratici. Fare i conti con la propria storia, con la propria identità, è tutto fuorché velleitario». « È con questo spirito — conclude Barberis — che insieme ai Giovani Democratici abbiamo voluto organizzare la giornata di studio su Craxi,coinvolgendo giovani studiosi, politici e amministratori di oggi e protagonisti di quel periodo. L’obiettivo è conoscere, approfondire, recuperare un’esperienza politica che, al di là delle molte polemiche che ancora porta con sé, ha certamente qualcosa da insegnare ancora oggi». Paolo Romano ,segretario dei Giovani Democratici di Milano, ha 23 anni, studia economia ed è consigliere in «dem» Municipio 8. «Sono nato che Craxi era già a Hammamet, ma viviamo in un’epoca tutta schiacciata sulla contemporaneità e incapace di affrontare i grandi temi del passato. Un errore gravissimo che impedisce d’imparare dagli errori che compiuti». Un giudizio personale su Craxi? «La Prima Repubblica era caratterizzata da clientelismi e e corruzione generalizzati. Sul punto si è espressa definitivamente la magistratura. L’eredità politica dell’ex segretario socialista è invece tutta di discutere e da studiare». Anche il Consiglio comunale affronterà nel frattempo la «questione» Craxi. Lunedì l’aula discuterà delle mozioni di Forza Italia e di Milano Popolare che chiedono l’intitolazione di una via all’ex premier. Più facile che il via libera arrivi intorno alla mediazione di una targa -ricordo da affiggere davanti alla casa milanese di Craxi, in via Foppa, in omaggio al «primo premier milanese della Repubblica». Era stato lo stesso sindaco ad avallare la proposta. «È il modo più semplice per ricordarlo a vent’anni dalla scomparsa», aveva detto Beppe Sala dieci giorni fa, escludendo di fatto l’ipotesi «toponomastica», di una via o di una piazza a Bettino Craxi.
Questione Craxi è ferita aperta per l’Italia e un incubo per il Pd. Fabrizio Cicchitto il 21 Gennaio 2020 su Il Riformista. A due giorni di distanza dalla commemorazione di Hammamet si può fare un primo consuntivo. Una prima notazione è che non c’è paragone per intensità, ampiezza, quantità e qualità degli intervenuti, presenze fra questa scadenza e il decennale. Questa volta non si è trattato di una manifestazione di combattenti e reduci, ma di un avvenimento politico e culturale, da nessuno programmato e gestito, con un notevole film, un bel documentario, alcuni libri scritti da giornalisti di rilievo e con un’attenzione di vasti settori di opinione pubblica che non hanno manifestato umori demonizzanti di alcun tipo, ma anzi l’intenzione di capire davvero che cosa è successo tanti anni fa. Ciò è avvenuto perché è oramai evidente che la questione Craxi rimane una ferita aperta nella coscienza della nazione. La ragione principale è molto semplice: nei confronti di un grande leader, la cui battaglia politica è stata caratterizzata da valori e da iniziative politiche di grande rilievo, è stata sviluppata una operazione mirata di criminalizzazione attraverso il combinato disposto dell’azione giudiziaria del pool di Mani Pulite e di un circo mediatico guidato dai quattro principali giornali dal Tg3 dalle stesse reti Mediaset. Il tutto imperniato sul finanziamento irregolare dei partiti e specialmente del Psi. Ma oramai tutte le analisi politiche, mediatiche e quelle stesse giudiziarie hanno messo in evidenza senza ombra di dubbio che Tangentopoli era un sistema organico che coinvolgeva tutti i grandi gruppi industriali, finanziari, editoriali (in primis la Fiat e la Cir, nonostante le pietose lettere volte a presentare loro come inermi concusse) e di tutti i partiti, senza eccezione alcuna, fra i quali il Pci che sommava insieme tutte le forme possibili e immaginabili di finanziamenti irregolari, al netto delle autentiche falsità dette da Berlinguer, che conosceva lo stato dell’arte, quando ha sollevato la questione morale. Non solo è ormai provato tutto ciò, ma il colpo di mano del ’92-’94 ha avuto conseguenze devastanti visibili prima nel bipolarismo anomalo andato dal ’94 al 2011, che comunque ha avuto una sua logica e serietà, e poi dalla successiva affermazione di forze populiste-giustizialiste come il Movimento 5 stelle o sovraniste-razziste come la Lega che hanno prodotto le conseguenze disastrose visibili a tutti. Orbene, a fronte di tutto ciò, la questione Craxi si ripropone non solo per l’operazione sostanzialmente eversiva messa in atto a suo tempo, ma anche per la permanente validità di alcuni aspetti del suo messaggio: il riformismo liberal-socialista, l’impegno per la riforma dello Stato, la solidarietà occidentale, l’europeismo critico, il rapporto positivo con i popoli arabi del Mediterraneo e quello con Israele. Rispetto a tutto ciò mette conto anche registrare come le forze politiche si sono atteggiate in questa ricorrenza: c’è stata una presenza sobria e qualificata della Lega, una partecipazione assai ampia di Forza Italia, Italia Viva ha inviato un personaggio di rilievo come il capogruppo al Senato Faraone. Invece, a parte la presenza generosa di alcuni singoli, è stata francamente desolante l’assenza totale del Pd. Al limite il Pd poteva anche salvare la faccia dando la qualità di delegazione ai suoi esponenti presenti spontaneamente. Non lo ha fatto, né Zingaretti ha avuto la dignità politica di inviare alla commemorazione un messaggio articolato nel quale esprimere il suo giudizio, quale che sia, nella questione Craxi. No, Zingaretti e con lui l’attuale gruppo dirigente del Pd, di fronte a Craxi sono in fuga da tempo, incapaci di esprimere un giudizio politico e culturale quale che sia. È la testimonianza di un vuoto politico e culturale profondo che va al di là anche della questione Craxi: l’attuale Pd non è né riformista, né massimalista, né garantista, né giustizialista (basta pensare alle incredibili contorsioni sulla faccenda della prescrizione), né liberista, né statalista. È aggrappato all’alleanza con il M5s alla quale cerca di dare addirittura una dimensione “strategica” non facendo i conti con la crisi drammatica in cui versa il suo alleato. Insomma, di fronte all’aggressivo sovranismo di Salvini e della Meloni, all’assenza della crescita, alla crisi di pezzi importanti dell’industria italiana, alle disuguaglianze, all’entità del debito pubblico, al nodo del Mezzogiorno e della denatalità occorrerebbe un grande partito riformista e liberal-socialista, ma esso non c’è, né esistono segni allo stato attuale che possa emergere da questo Pd. Insomma, il Pd non parla di Bettino Craxi perché non è stato capace di fare i conti con se stesso con scelte culturali e politiche di fondo. Di fronte a questo vuoto, Craxi è riemerso come un grumo di questioni drammatiche, accomunato a un’altra grande personalità come quella di Moro, sia pure con procedure molto diverse, dall’eliminazione violenta dalla vita politica e dall’esistenza individuale. Rispetto a tutto ciò un soggetto politico che abbia dignità non se la cava certo né con le invettive, né con le monetine, ma nemmeno con il silenzio.
Vent’anni fa moriva Bettino Craxi. Per la destra fu avversario leale, è la sinistra a odiarlo ancora. Francesco Storace domenica 19 gennaio 2020 su Il Secolo d'Italia. Divisivo, direbbe oggi chi non vuole sbilanciarsi su Bettino Craxi, vent’anni dopo la morte. C’è un’ipocrisia trasversale, in chi lo amava e in chi lo odiava. Come se il tempo non dovesse mai mitigare i giudizi, più riflessivi magari. I neomaggiorenni di oggi ne hanno appena sentito parlare, travolti dal dilemma odioso tra statista e ladro. Vent’anni dopo – con tutto quello che abbiamo visto – solo un cinico può piegare la memoria di Craxi a malversazione. Ben altri si sono arricchiti apparendo onesti. A qualunque latitudine della politica. Quelle monetine al Raphael furono un atto che oggi si può ben definire sbagliato, giustizialista, estremista. Un durissimo fallo di reazione di fronte alla mancata concessione dell’autorizzazione a procedere da parte del Parlamento nei confronti di Craxi. Oggi dobbiamo riconoscere l’errore di allora. Non per una santificazione postuma, di cui nessun politico può avvertire il bisogno. Ma per rispetto verso chi ha pagato oltre il prezzo che si poteva immaginare. Con il sacrificio da esule, anche se Marco Travaglio si ostina a parlarne solo come di un latitante. Ad Hammamet Craxi andò a morire, probabilmente di dolore. Il partito socialista, come la democrazia cristiana e i loro soci di governo, furono messi al bando dalla stagione di Mani Pulite. E probabilmente troppi ladruncoli inquinarono la politica del tempo. Eppure, per troppi anni c’è stato un giudizio sbrigativo su quell’epoca. Alcuni furono bersagliati, altri salvati. A partire da chi prendeva quattrini oltreconfine, a est come ad ovest. Il paradosso odierno è che fa il sostenuto chi la fece franca, per dirla con il linguaggio pestifero del dottor Davigo. Per non mostrare una coscienza che non ha, ci si vendica persino vent’anni dopo. Il rapporto tra Pd e la memoria di Bettino Craxi è qualcosa davvero di poco decifrabile. Il leader socialista è più odiato dalla sinistra che dalla destra, che sa essere generosa e leale con i suoi avversari, oltre i furori della contingenza politica. Dalle nostre parti, ad esempio, resta indimenticabile quella notte di Sigonella. Provammo sincera ammirazione per quel capo di governo che schierò i carabinieri contro gli americani che intendevano violare la nostra sovranità. Oggi si inchinano tutti all’altra parte del mondo. Qualunque sia l’altra parte del mondo…
Una lite senza fine? A sinistra, invece, c’è ancora rancore. Perché Zingaretti non va ad Hammamet? Tempo addietro su quella tomba ha portato un fiore Ignazio La Russa. Loro non ci riescono. Almirante rese omaggio a Berlinguer nelle ore del decesso. E ricevette in via della Scrofa gli onori post-mortem di Giancarlo Pajetta. Nemmeno vent’anni sono bastati agli eredi del Pci per mettere da parte le rivalità di allora? Sono così sicuri di essere dalla parte del giusto? Fingono di non rendersi conto che a differenza di Craxi furono graziati dai suoi stessi magistrati. Serenità nel giudizio storico su fatti e personalità: ma non ne dispongono. Sarebbe bastato un gesto. No ad Hammamet? Magari, poteva essere utile persino l’intitolazione di una strada nella sua città, Milano, per testimoniare la fine del rancore. In fondo, Beppe Sala è uno di loro e davvero sarebbe difficile gridare allo scandalo. Ma viviamo l’epoca in cui il rispetto è merce scaduta. Come certo massimalismo fuori corso.
L’errore del giustizialismo di sinistra: lasciare Craxi alla destra. Gianni Pittella il 21 Gennaio 2020 su Il Riformista. «Questa è casa vostra», ripete come un mantra e con un sorriso sincero, un tunisino a cui chiediamo un’informazione per strada, quasi per rassicurarci che non si può smarrire davvero la via di un luogo che ti appartiene. E Hammamet appartiene davvero ormai all’immaginario socialista, è un luogo letterario, di una letteratura d’esilio ma anche di riscatto. Così devono pensare insieme a me quei tanti, i quali poi saranno solo una parte, che si affollano silenziosi ai banchi della Tunis Air una mattina di venerdì, a due giorni dal ventennale della morte di Craxi. Tanti capelli bianchi, tanti volti noti di vecchie battaglie, ma in maggioranza uomini e donne di mezz’età che il leader socialista l’hanno conosciuto da ragazzi solo in tv, e dopo purtroppo solo nelle cronache del doloroso epilogo. Mi ha colpito che non fosse un’assemblea di reduci e mi ha colpito che il sentimento prevalente non fosse la nostalgia, per quanto pure ve ne fosse, e la malinconia e la rabbia di anni di umiliazioni, di garofani calpestati. No, vi era uno spirito positivo, di fiducia, di consapevolezza che qualcosa sta cambiando nel giudizio storico degli italiani, che il tempo ci consegnerà una lente meno sfocata e presbite su quegli anni. Anche un patriarca come il calabrese Zavettieri, irriducibile sindaco di un comune del reggino, e con una lunga vita parlamentare socialista, scherza sui tempi nuovi. L’economista Scalzini ricorda la tripla A che l’Italia di Craxi ebbe nell’87. Il sindaco Barani che per primo intitolò una strada a Craxi. Certo, come le cronache riportano, ci sono decine di parlamentari di ogni estrazione, diversi giornalisti, tanti passati e presenti amministratori e sindacalisti e molti semplici simpatizzanti venuti a portare un garofano. La spiaggia dalla sabbia chiara è un invito a prendere tempo, a ragionare, a misurare le cose. I tunisini hanno risolto alla radice ogni dilemma italiano. Un ristoratore panciuto e cortese ci dice che Craxi per loro era e resta un padre, un tassista esile dalla pelle d’ebano sorride deferente alla memoria del condottiero, tutti quelli che incontri hanno qualche aneddoto, loro o i loro genitori lo hanno conosciuto, magari scambiato qualche parola, incrociato la signora Anna, o i figli. Camel, dall’età indefinita, racconta un aneddoto struggente. Lavorava in un piccolo autolavaggio per procurarsi a stento il pane e Craxi un giorno lo vide con una gamba claudicante e con una ferita aperta continuare a lavorare come se nulla fosse. Era caduto da un vecchio ciclomotore il giorno prima e non aveva il denaro, né il tempo per curarsi. Craxi si arrabbiò con lui e gli intimò di trovarsi il giorno dopo alle 11 a un incrocio. Lo passò a prendere e lo fece accompagnare a Tunisi in ospedale, lo costrinse al riposo per quindici giorni e poi lo prese a fare piccoli lavori nella sua casa tunisina, quella dei favoleggiati rubinetti d’oro, che altro non è che una villa appena precaria e lontana dal mare. Un tratto di generosità che Camel non ha più dimenticato e, di tanto in tanto, torna sulla tomba del leader a rendergli omaggio, e a pulirla dalle sterpaglie. E una giovanissima insegnante di Hammamet, Zaineb, è convinta Craxi fosse comunista, perché dalla parte dei poveri. Quando lo dice a me e al mio amico Emilio e ci guardiamo pensierosi. In Tunisia, come scrivevo, il problema lo hanno risolto alla radice. Ogni dibattito è superato. Un leader, un uomo generoso, un politico di fede progressista, persino comunista nella confusione di taluni. La foto straordinaria di Craxi con Willy Brandt, il cancelliere socialdemocratico tedesco occidentale, e Olof Palme, il leader del più grande esperimento socialista liberale del ‘900, la socialdemocrazia del nord Europa, foto che campeggia tra le altre nella mostra della Fondazione in una casa della Medina, ci appare profetica e paradossale. Il paradosso è plastico, anche nelle presenze di questi giorni. Salvo me, De Caro, Gori, Nannicini e pochi altri, la partecipazione della classe dirigente democratica, dei banchi della sinistra è ridotta e a titolo essenzialmente personale. Qualche tentativo di ripensamento, qualche avanzamento nei rapporti c’è, ma la ricucitura non è ancora avvenuta. La maggioranza dei presenti senza blasone parlamentare è e resta di cultura di sinistra, la storia di Bettino è e resta quella della sinistra italiana con vocazione internazionale, come i cileni allendisti o il greco Panagulis contro i Colonnelli o i dissidenti cecoslovacchi potrebbero testimoniare nel mutuo soccorso, nel sostegno che il Partito Socialista vi diede in quegli anni difficili per tanti socialisti nel mondo. Vedere Craxi nel pantheon della destra italiana, oggi persino utilizzato dal pensiero sovranista come suo postumo accolito, fa davvero male ed è davvero il prodotto più guasto del giustizialismo degli ex Pci. L’idea che potesse esistere e diventare di governo una sinistra riformista, atlantica ma non suddita, progressista ma non massimalista, capace di rompere lo schema consociativo della democrazia bloccata Dc-Pci è ancora considerato un marchio di colpa da chi aveva fatto della diversità etica il proprio contrassegno, e poi prendeva i rubli da un Paese nemico dell’Italia. Sarebbe il tempo che il Partito democratico, che nelle intenzioni alla sua nascita doveva superare le divisioni e unire i riformismi, facesse pace con la storia di Craxi e non per cantarne il peana, non per chiudere gli occhi sulla deriva partitocratica di cui anche il Psi craxiano fu parte e alimento, né per dimenticare i vizi che appartennero a una stagione politica, abbattuta la quale tuttavia, con la caduta del muro a Berlino e l’epurazione di un’intera classe dirigente in Italia, cedevano gli argini alla brama degli animal spirits capitalistici, alla privatizzazione dello stato, all’asservimento della democrazia e dei suoi istituti alle grandi lobby finanziarie internazionali. Riscoprire Craxi significa anzitutto ritrovare la politica, l’ultima stagione in cui la politica aveva da dire, aveva la capacità di progettare, di governare i processi, di rendere l’Italia protagonista, non figura e sfondo, sul palcoscenico internazionale. Un garofano su quella tomba di quel piccolo cimitero che guarda il mare e l’Italia oltre il mare, sarebbe per Zingaretti un modo per ritrovare e ritrovarsi, e tra quei dedali della Medina aprire a un sentiero di modernità una sinistra italiana altrimenti monca, perché incapace di fare i conti con la sua storia.
Questione Craxi è il nodo finale dei conflitti a sinistra. Riccardo Nencini il 16 Gennaio 2020 su Il Riformista. Sabato e domenica sarò ad Hammamet. Per la terza volta. Leggo che ci saranno anche rappresentanti della Lega, il partito, con Fratelli d’Italia, più lontano da quel socialismo umanitario che Craxi rappresentò. Un omaggio allo statista, immagino. Ci sarà Forza Italia, e non è una novità. Il problema è il panorama a sinistra. Ci saranno i socialisti, naturalmente, e ci sarà Italia Viva. Tutto qui, per quanto ne sappia. Sempre che il Pd non ci ripensi. Lontano dagli occhi, lontano dal cuore, ma soprattutto lontano dal seppellire un duello culturale e politico che ha diviso per un secolo la sinistra italiana. Hic Rodhus, hic salta, e invece il salto non c’è. Dietro l’assenza, infatti, c’è ben di più della figura a loro dire controversa di Craxi. Ci sono state due visioni del mondo che ancora oggi faticano a ricomporsi. La farò breve. La rottura avviene con la rivoluzione russa, gli effetti si propagano da cent’anni. Turati e Matteotti sono nemici da abbattere alla stregua di Mussolini (cito alla lettera da Togliatti e da Gramsci) perché propongono una coalizione democratica e popolare che si opponga al fascismo nascente. Nenni è marchiato dall’epiteto ‘socialfascista’ negli anni Trenta. Duello all’arma bianca alla nascita del centrosinistra nei primi anni ‘60 nonostante un impianto imponente di riforme (oggi si inneggia a Moro, a capo di quei governi, ma non a Nenni, che ne fu ideatore). Vent’anni dopo il PSI viene espunto con una frase di Berlinguer dalla sinistra e Craxi considerato un pericolo. Loro erano avvinghiati al mito di Lenin, noi candidavamo Jirì Pelikan, esule cecoslovacco, alle Europee. Il resto è storia recente. La conferma che la questione Craxi sia il nodo finale di una storia infinita di duelli a sinistra è nelle scelte politiche compiute dagli eredi del PCI. Mentre i socialismi europei, da Blair ai francesi, attingono a piene mani dalla Conferenza di Rimini (1982) per inaugurare nei loro paesi un nuovo corso, il PDS evita accuratamente di confrontarsi con tematiche che avrebbero reso più competitiva la sinistra italiana. Penso alla riforma istituzionale, ai rapporti con la magistratura, al ruolo dello Stato nell’economia al tempo di feroci privatizzazioni. Con un paradosso: ci si confronta all’estero con i protagonisti del socialismo europeo legati alla recente esperienza socialista italiana e in casa nostra si fa l’esatto contrario. Due mondi in conflitto, due sinistre senza pace, mentre i popoli sancivano la sconfitta del comunismo e la vittoria del socialismo riformista. Ovunque! Nonostante tutto, in Italia la frattura non si è mai risanata. La politica è un fatto pubblico. È parola, gesti, atti, responsabilità. Ricordo ancora le parole di Angela Merkel su Khol dopo la sua caduta e mi domando perché certa sinistra italiana non abbia il coraggio di battere una strada di verità. Salvo tornare alle origini per capire davvero e dover aspettare decenni per riconoscere chi aveva ragione. Terracini mezzo secolo dopo: aveva ragione Turati. Veltroni mesi fa: aveva ragione Matteotti. E su Nenni, su Craxi? Magari si trattasse soltanto di nostalgia o di consegnare ai libri di storia una lettura non partigiana, e sarebbe comunque cosa buona e giusta. Si tratta dell’Italia di domani. A cominciare dalla cancellazione della prescrizione, dalla zoppicante politica estera, fino alla revisione del reddito di cittadinanza. Se non ora, quando?
Il fantasma di Craxi agita il Pd. Gori: «Lui meglio di Berlinguer». Il partito: «Così ci facciamo male». Valerio Falerni sabato 18 gennaio 2020 su Il Secolo d'Italia. Tutto avrebbe potuto immaginare Bettino Craxi tranne di trovarsi un giorno immischiato nella contesa su chi, tra lui ed Enrico Berlinguer, due meritasse di essere ricordato come il vero ispiratore del Pd, il partito erede del Pci. Chi non sembra avere dubbi in proposito è Giorgio Gori, sindaco di Bergamo e da sempre promessa dell’anima riformista del partito di Zingaretti. È lui a dire a Repubblica di trovare più farina del sacco del leader socialista che di quello comunista nel discorso di Veltroni al congresso fondativo del Pd. Un’opinione come un’altra, verrebbe da dire. Se non fosse che il “fattore C” dalle parti del Pd è materia ancora incandescente. Trattarla senza le dovute cautele può essere nocivo. E Gori non ha fatto eccezione.
Il sindaco di Bergamo riabilita Craxi. Poi si rimangia tutto. E così, convinto di aver fatto in fondo solo il suo dovere di riformista recandosi ad Hammamet «per non regalare Craxi alla destra», si è ritrovato il giorno dopo nella lista dei blasfemi. E poiché non è proprio quella che si definisce una “pellaccia”, appena ha sentito montare la tempesta intorno a lui («così ci facciamo male», è l’avvertimento del senatore Mirabelli) ha innestato la retromarcia. «Mi sveglio e trovo su Repubblica un’intervista che non ho dato, costruita sulle chiacchiere fatte in piedi durante una cerimonia. Giudizi forzati, espressioni che non sono mie. Perché?». Già, perché? Forse – azzardiamo noi – perché alla faccia dell’aggettivo e della sua pretesa di partito plurale, l’unica matrioska riconosciuta come originaria dal Pd è quella del Pci.
Il Pd non sarà mai un partito riformista. Del resto, Repubblica, mai tenera con Craxi, non avrebbe avuto alcun interesse ad inventarsi parole mai pronunciate. E che parole. A passarle in rassegna viene da pensare ad un Gori deciso a tutto pur di piantare una bandiera riformista in un partito perennemente ostaggio del cattocomunismo. Eccole: «Il Pd nasce con il discorso di Veltroni al Lingotto. E chi c’era in quel discorso se non Craxi, le sue idee?». E ancora: «Berlinguer era l’uomo dell’austerity, il segretario che per superare la crisi proponeva di ridurre i consumi. La ricetta peggiore». Scontata la conclusione: «Nel discorso fondativo del Pd c’era Craxi e non Berlinguer, questa è la verità. Ed è stupefacente che non lo si voglia riconoscere. E che oggi nessuno senta il bisogno di farsi sentire. Figuriamoci farsi vedere. Per questo ho avvertito il bisogno di esserci io, come dirigente del Pd». Giusto. Peccato solo che, ad Hammamet, alla luce della smentita pare che Gori ci fosse andato a sua insaputa.
Repubblica, altro disastro. Giorgio Gori: "Mai rilasciata quella intervista. Perché?" Gianluca Veneziani su Libero Quotidiano il 19 Gennaio 2020. Che periodaccio per Repubblica. Quando le cose girano male, rischi di intervistare qualcuno a sua insaputa, di fare titoloni violenti a tua insaputa, di dare lezioni di teologia spicciola credendoti il Papa e di sparare cifre a casaccio. Ma non è mica per malafede. È che se metti insieme ideologia, snobismo intellettuale, caccia alla notizia a tutti i costi e il motto «prima le opinioni poi i numeri», finisci per partorire qualche mostriciattolo.
L' ultimo era visibile ieri sul quotidiano fondato da Scalfari: si trattava di un' intervista a Giorgio Gori, sindaco di Bergamo e unico esponente di nota del Pd a prendere parte ad Hammamet alle commemorazioni per l' anniversario della morte di Craxi. Il pezzo offriva spunti interessanti, dall' invito alla sinistra a riappropriarsi del leader socialista perché «io non regalo Craxi alla destra» all' attacco al Pd che «aveva l' occasione di sanare una ferita, recuperare un pezzo di storia comune. C' era solo un piccolo difetto nell' intervista: a detta di Gori, non era mai stata rilasciata. Ieri il sindaco di Bergamo scriveva infatti su Twitter: «Mi sveglio e trovo su Repubblica un' intervista che non ho dato, costruita sulle chiacchiere fatte in piedi durante una cerimonia. Giudizi forzati, espressioni che non sono mie. Perché?».
Già, perché? Forse per la stessa ragione per cui è possibile aprire il giornale con un titolo feroce, «Cancellare Salvini», senza dover rendere conto del metodo usato. Anzi, provando il giorno dopo a giustificarlo con una mega-arrampicata di specchi, ossia sostenendo che il senso era «cancelliamo i decreti Salvini». Verissimo, ma nessuno è così scemo da pensare che quel titolo fosse stato scritto così solo per brevità e che dietro non ci fosse l' auspicio di Repubblica di cancellare la persona di Salvini dalla scena politica, e forse non solo. A proposito di cancellazione, prima della pubblicazione il giornale avrebbe fatto bene a rimuovere quell' altro titolo per cui «Liliana Segre riceve 200 messaggi online di insulti al giorno». Fortunatamente gli insulti ricevuti dalla senatrice sono molti meno, tanto che lei stessa ha ammesso che quel numero è «scaturito da un' inesattezza giornalistica». Rientra invece in una categoria a sé, che non è lo scivolone, la mancata consultazione delle fonti o degli intervistati ma il dadaismo, la chiacchierata tra i due Papi, uno religioso e l' altro laico, ossia tra Bergoglio e Scalfari pubblicata tre giorni fa su Repubblica. Con il primo che usava l' altro come ufficio stampa, ma a tratti sembrava intervistarlo, rovesciando i ruoli. E con il secondo che rivelava al lettore verità sconcertanti tipo «c' è un Dio unico, questo è il parere di Sua Santità», «ci sono nel mondo altre religioni monoteiste e ce ne sono di politeiste» e non virgolettava l' unica notizia dell' intervista, ossia il fatto che, a detta di Francesco, il caso con Ratzinger fosse chiuso. Per cui non capivi se quella frase l' avesse detta il Papa, l' avesse interpretata Scalfari o nessuna delle due. Più probabilmente però l' interlocutore non era Bergoglio, ma Giorgio Gori, a insaputa di Gori e dello stesso Scalfari. Gianluca Veneziani
Patto tra Craxi e Occhetto per un partito di sinistra unico, perché saltò. Claudio Petruccioli il 18 Gennaio 2020 su Il Riformista. La rivista Mondoperaio di gennaio dedica uno speciale alla figura di Bettino Craxi che annovera una serie di pregevoli interventi, tra cui quello di Claudio Petruccioli, di cui anticipiamo ampi stralci per gentile concessione dell’editore. Il 5 e 6 aprile 1992, il Parlamento fu rinnovato per l’ultima volta con la legge proporzionale usata da quando esisteva la Repubblica. I risultati di quel voto offrono un fixing prezioso sull’orientamento e sugli stati d’animo degli italiani, delle loro attese e dei loro timori in quel momento cruciale. Alla Camera tutti gli eletti nelle liste “alla sinistra della Dc” senza alcuna esclusione (Pds, Psi, Rc, Pri, Psdi, Verdi, Rete, Lista Pannella) erano 312; identico numero si raggiungeva sommando i deputati di Dc, Lega, Msi e Liberali; i 6 mancanti per arrivare a 630, sparsi fra minoranze linguistiche e liste minime. Idem al Senato: rispettivamente 153, 152 e 10. La Dc aveva perso quasi il 5 per cento ed era scesa, per la prima volta nella sua storia, sotto il 30% (29, 66); neppure il risultato del Psi era stato brillante (flessione dello 0,65 e due seggi in meno). Ne usciva compromesso l’asse delle maggioranze che avevano retto i governi negli ultimi venti anni; sicché anche lo striminzito risultato elettorale del Pds poteva indurre a ragionamenti, o almeno a calcoli, non abituali. I voti della Dc, come quelli di Pds e Psi sommati erano intorno al 30% (29,66 contro 29,73: neppure 25.000 voti di differenza): numeri ideali per incardinare un bipolarismo politico con una alternanza di tipo europeo. A condizione, naturalmente, che si riuscisse a unificare politicamente l’area, ancora divisa, in cui si collocavano Psi e Pds. Anche lì, peraltro, i numeri aiutavano. Al 16,11% del Pds faceva riscontro il 13,62% del Psi che, con l’aggiunta dei voti Psdi saliva al 16,33%, meno di centomila voti di differenza. Dunque perfetto equilibrio, e assoluta incertezza. Come se gli elettori avessero voluto dire ai protagonisti della politica: “Noi vi abbiamo preparato una situazione aperta; adesso tocca a voi scegliere, decidere, trovare le soluzioni migliori”. Le difficoltà e gli ostacoli erano enormi, ma diventava possibile pensare e cercare di mettere in atto scelte che fino a quel momento erano sembrate o comunque erano risultate impossibili. Serviva chiarezza, fermezza, lungimiranza. Dc e Psi riunirono i loro organismi di vertice a quarantott’ore dalla chiusura delle urne. Il Coordinamento politico del Pds che si riunisce quel giovedì trova sul tavolo un bel po’ di materiale, soprattutto le novità di casa socialista. La risposta è molto prudente, ma non di chiusura; il giorno dopo l’Unità la riassume così: «Occhetto: no alle sirene ma non resteremo in frigorifero». Il segretario della Quercia ha giudicato ‘positiva’ la richiesta di aprire il confronto venuta l’altra sera dall’esecutivo socialista. Il documento approvato — lungo e farraginoso, sintomo di incertezze e divisioni — viene pubblicato il sabato. La tesi centrale è che “l’era democristiana è finita”, e il titolo che l’accompagna rivendica “un governo che rompa con l’era dc”. Martedì 14, alla vigilia della riunione socialista Occhetto torna sull’argomento in un’intervista a l’Unità, ampia e impegnata. «Io credo — dice – che il voto ci abbia caricato di una responsabilità nazionale, ma anche europea. Ormai è evidente che siamo di fronte, noi ma anche il Psi, e tutte le altre forze della sinistra a una questione rilevantissima: perché la sinistra, per motivi e per condizioni diverse, non riesca a dare risposte convincenti, in termini elettorali e progettuali, in termini di blocco sociale e politico, alla crisi che accompagna la fine del ciclo neoliberista. È un processo nuovo, aperto, ma aperto a molteplici esiti, in cui non sarà secondario l’atteggiamento soggettivo delle forze di sinistra. Quindi, per quanto mi riguarda, io alla domanda rispondo che mi sento ancor più vincolato all’impegno che mi sono assunto in campagna elettorale, cioè quello di lavorare prima di tutto per la ricostituzione della sinistra italiana…Giudico interessante, se sarà formulata la proposta, che le forze che si richiamano all’Internazionale socialista si incontrino. L’ho detto a Martelli e lo ribadisco qui… sono interessato a discutere, diradando innanzitutto l’equivoco che il riavvicinamento a sinistra — come segnala Bobbio -assuma il senso di un invito a noi ad entrare nella coalizione per rafforzarla nel momento della sua sconfitta elettorale». «Anche con la Dc?», gli chiede l’intervistatore, Alberto Leiss. La risposta di Occhetto, prima concede alla propaganda. Poi si rende conto che il rapporto con la Dc non è una invenzione strumentale ma un problema reale imposto, per di più, dai numeri: «Le ripeto — precisa allora – a me interessa iniziare il discorso a sinistra, sulla sinistra e non sulla Dc. Con l’obiettivo di arrivare anche ad un atteggiamento comune rispetto al problema del governo. Se la sinistra saprà ritrovarsi, il resto sarà meno difficile». Con queste ultime parole, non dico che il “problema governo” che incorporava il “problema Dc” fosse del tutto risolto; ma era rimosso l’ostacolo che impediva di mettersi in cammino. I partiti che si richiamavano all’Internazionale socialista potevano incontrarsi e discutere proficuamente. Alla riunione della Direzione socialista di mercoledì 15 aprile si arriva — così — in un clima carico di molte attese, anche se frammiste a non poche diffidenze. La relazione di Craxi fu resa pubblica in tarda mattinata. Quando uscì da Botteghe Oscure per l’intervallo del pranzo, Occhetto ne prese una copia e disse a me che avevo la mia: «Leggi e comincia a buttar giù una bozza di risposta»; cosa che feci durante la sua assenza. La memoria non mi consente di dire se fra i “più stretti collaboratori” con cui Occhetto parlò al telefono ci sia stato anche io, cosa peraltro probabile visto che dovevo “buttar giù una bozza” di commento alla relazione di Craxi. Comunque sono certo che se contatti telefonici ci sono stati, almeno con me Occhetto non aveva lasciato trasparire la ripulsa riassunta nella parola “desolante”: ne sono certo perché ricordo nel modo più vivo lo scoramento che mi prese quando la lessi sulle agenzie che precedettero l’arrivo di Occhetto in ufficio. Quando arrivò non feci nulla per nascondere il mio stato d’animo e quel che pensavo; aggiunsi che la “bozza” che avevo preparato potevamo pure buttarla.
Ma da quelle macerie si levò lo spettro dell’estrema destra. Achille Occhetto l'8 Novembre 2019 su Il Riformista. Sono trascorsi trent’anni da un evento storico epocale che ha cambiato il volto del mondo: la caduta del muro di Berlino. Dopo quella data sono mutati tutti i parametri che avevano contraddistinto i tratti fondamentali della geopolitica del pianeta. Non è crollato solo il comunismo ma l’insieme del modo di fare politica e il modo di essere di tutti i principali protagonisti che si erano definiti in contrapposizione, o come scudo, al comunismo. Ma la cosa più stravagante è che, a sinistra, ci sono voluti una trentina d’anni per rendersene pienamente conto. Le ultime vicende europee e mondiali ci hanno messo brutalmente dinnanzi al tema dell’eclissi della sinistra su scala mondiale. Una eclissi che può essere letta in filigrana con la crisi del comunismo e il dilagare della globalizzazione a direzione neoliberista, e che ha lasciato sul terreno l’insorgere di nuove tendenze populiste. Il dramma, quindi, viene da lontano, dalla «fine politica» del novecento, che solo per comodità esplicativa farò risalire dalla caduta del muro di Berlino. Sono stati travolti tutti i parametri della vecchia politica mettendo in crisi sia la sinistra riformista sia quella radicale. Uno dei motivi di tale crisi, anche se non esaustivo, è che si è ritardato, come avevamo indicato fin dai primi momenti della «svolta» dell’89, a comprendere che occorreva andare oltre le vecchie esperienze comuniste e socialdemocratiche. La vicenda europea, purtroppo con esiti tutt’altro che soddisfacenti, si è incaricata di dare ragione a quella invocazione. Se si va al di là di analisi sporadiche che si muovono dentro l’orizzonte ristretto del politicismo e dell’episodico, non si può non vedere che la portata generale di quel crollo sta nel passaggio epocale da un mondo governato dal confronto tra due blocchi contrapposti al dilagare sul pianeta della globalizzazione, con le sue luci e le sue ombre, e il tramonto delle vecchie ideologie. Sotto questo profilo vale la pena di analizzare il caso italiano come paradigma di un destino mondiale. Si può dire che in Italia si è avuto il più spettacolare superamento di tutti gli algoritmi della politica del passato. Il panorama politico è del tutto irriconoscibile: l’ondata di fondo ha sradicato tutte le forze che hanno le loro radici nel novecento, siano esse socialiste, centriste o moderate di centro-destra. Questo spiega lo spaesamento di cui soffrono molti cittadini. In questo destino comune di tutta la sinistra, ci sono responsabilità diverse tra riformismo moderato e sinistrismo alternativo. Il primo si è, in modo evidente, impantanato dentro una vocazione alla governabilità che, per quanto nobile, gli ha fatto smarrire, malgrado le ormai sempre più opache politiche redistributive, la propria vocazione sociale, fino a forme di subalternità politico-culturale verso il neoliberismo. Il secondo si è attardato in una visione dimidiata della società, sostanzialmente divisa da frontiere invalicabili, da campi opposti, che si manifestano, per alcuni, sul mero terreno economico-sociale, o, per altri, su quello etico-morale. Con l’aggravante di assumere troppo spesso come obiettivo principale quello di far perdere la sinistra moderata, in mancanza della capacità di intercettare l’onda di protesta che volge verso il populismo. È mancata una nozione più attenta delle trasversalità indotte dalle inedite sfide mondiali che hanno reso obsolete le vecchie forme in cui si esprimevano le politiche del welfare del secolo socialdemocratico. Il vuoto lasciato dalle sinistre è stato riempito dal populismo. E questo perché la lettura meramente finanziaria da parte del pensiero economico neoliberista è stata funzionale alle politiche di austerità volte a non intaccare l’attuale modello e a far pagare la crisi alla classe media e ai lavoratori. Ne è scaturito che, per la debolezza critica di un riformismo minimalista, ci siamo trovati davanti ad uno scherzo della storia che sfiora il paradosso: la risposta infatti è venuta da una rivolta populista e di destra, facilitata dalla corresponsabilità di gran parte della sinistra nell’accettazione, a volte compartecipe e a volte silente, del paradigma neoliberista. Paradosso doloroso e irridente perché una crisi favorita dai poteri forti invece di trovare uno sbocco a sinistra ha infiammato una protesta populista contro le «caste» che finisce per rimettere tutto il potere nelle mani della vera «casta», quella dei principali responsabili della crisi. Così è avvenuto che il frutto avvelenato e irridente della generica e fuorviante categoria della lotta alla «casta» sia stata l’elezione di un miliardario xenofobo, sessista e reazionario alla testa della più grande potenza del mondo. Tuttavia seguire il tragitto di questa eclissi limitandosi agli eventi degli ultimi anni mi sembra particolarmente sterile. L’anniversario della caduta del muro di Berlino ci induce a riprendere il discorso dal cosiddetto crollo del comunismo, per individuarne le radici, leggendolo in filigrana con il decorso della socialdemocrazia e dell’insieme delle sinistre nel contesto di una spiegazione del male oscuro delle permanenti divisioni che dilaniano dagli albori il fronte progressista. Molti sono stati i tentativi di nuovo inizio in giro per l’Europa, e in Italia è stato sperimentato il più significativo. Ma tutti hanno avuto un difetto fondamentale, quello di non aver elaborato il lutto con la necessaria determinazione. Anche in Italia malgrado le notevoli innovazioni che io non mancherò di enumerare puntigliosamente, la fiamma dei mali del passato, per quanto sia stata decisamente soffocata, ha continuato a covare sotto la cenere, lasciando sul terreno la retorica nostalgica del bel tempo perduto. Il seme dell’innovazione però non può essere gettato sul terreno sterile dell’eterno presente; ha bisogno del concime, e il concime è per sua natura il passato. Non si può uscire dal cerchio virtuoso che coinvolge passato, presente e futuro in un unico destino. Nel trattare la storia come presente ho ritenuto che riandare alle luci e alle ombre del movimento della sinistra che ha dominato la storia del novecento, sia pure in un continuo dialogo con l’insieme delle sinistre, fosse uno dei modi più efficaci di affrontare la crisi generale da cui ho preso le mosse. Infatti non c’è forza di progresso che, in sintonia o in contrapposizione, non si sia definita in rapporto al comunismo. Per questo la tendenza a collocare quella vicenda, in tutti i suoi aspetti, anche quelli più recenti, nel binario morto della storia offusca, a mio avviso, la comprensione globale degli eventi. Certo, se ne è parlato molto e bene nel corso delle celebrazioni del centenario della rivoluzione d’Ottobre, ma senza cogliere con sufficiente chiarezza il rapporto con la complessiva vicenda delle sinistre. Sotto questo profilo, sono convinto che la vicenda del comunismo italiano rimanga un punto privilegiato di osservazione. Non a caso in Italia si è verificato l’unico evento di fuoriuscita consapevole e volontaria da quella esperienza. Alludo, senza ulteriori giri di parole, alla svolta della Bolognina, che, come si sa, è strettamente collegata alla caduta del muro. Nel render conto delle ragioni di quella svolta mi sono sforzato di collocarla nel cuore delle vittorie e delle sconfitte del movimento comunista internazionale, e della situazione complessiva delle sinistre, sottraendola il più possibile da una dimensione meramente provinciale. Nello stesso tempo cercherò di prendere di petto la critica più insidiosa, quella di una inesorabile e generica perdita di identità, collegata alla sua identificazione in un atto di coraggio, una sorta di giorno da leone, a cui sarebbe mancata una chiara cultura politica. Nel corso di questa analisi cercherò di contestare ogni visione riduttiva del significato degli eventi dell’89, sia per ciò che riguarda l’amarcord del paradiso perduto sia per ciò che concerne la base stessa della cultura politica della svolta di allora e del futuro nuovo inizio. Occorre, dopo tanti anni, comprendere che a cadere non è stato solo il «socialismo reale». Abbassatesi le polveri sollevate da quel crollo, è affiorato il vuoto problematico di un «socialismo ideale» che si era definito in contrasto con quello reale. Ma prima di entrare nel merito, intendo soffermarmi su due considerazioni preliminari. La prima è che nella disperante percezione, che contiene indubbi elementi di verità, di una perdita di identità culturale è presente una sorta di paragone ellittico rispetto ad una perduta identità del tutto cristallina ed omogenea, che non è mai esistita. Nel corso della storia del comunismo si sono affacciate sul proscenio non solo identità molto diverse tra di loro, ma anche clamorosamente contraddittorie. Lo stesso vale per la storia della socialdemocrazia, che spetta ad altri percorrere dall’interno. Le suggestioni di una inossidabile identità perduta sono ampiamente contraddette dalle concrete vicende storiche. Per ciò che concerne l’identità comunista, mi è sufficiente sottolineare che diverse culture comuniste sono cresciute in molteplici centri intellettuali, nelle elaborazioni di grandi personalità eterodosse, in contributi di notevole rilievo come quelli di Gramsci e Rosa Luxemburg, attraverso differenti esperienze storiche in Oriente e in Occidente. Le idee di comunismo di Trockij, Bucharin e Stalin erano, in parte, sensibilmente lontane tra loro, così come quelle di Brežnev e Berlinguer. Anche in Italia, e tra gli stessi comunisti, la percezione degli ideali del socialismo è stata molto diversa prima e dopo la Resistenza, in seguito ad una crescente contaminazione democratica favorita dall’unità antifascista. In realtà, a mio avviso, la crisi di quella cultura si inscrive principalmente nel suo decorso, che si è consumato nel contraddittorio rapporto tra principi e inveramento storico. Non bisogna infatti dimenticare che nella ricerca delle motivazioni di fondo che hanno mosso i diseredati di tutto il mondo verso il proprio riscatto è difficilissimo operare una netta distinzione tra socialismo e comunismo, non solo perché sono nati dalla stessa coscia di Giove, ma perché all’osso, nella cultura popolare, sono sempre state le stesse. Anche se in Italia la riduzione dell’esperienza comunista al mero ambito dei confini nazionali sarebbe in netto contrasto con uno dei suoi presupposti fondamentali: l’internazionalismo. La stessa parola ha assunto significati molto diversi. Mi è capitato altre volte di osservare come, a livello dei mass media, il movimento criminale e terrorista dei Khmer rossi sia stato definito, impropriamente, come marxista. Ma al di là di questo paradosso appare evidente che l’elemento nazionale del comunismo cinese, inserito nella millenaria autosufficienza e nella percezione di superiorità della cultura cinese, aveva ben pochi contatti con la tradizione popolare, socialista e comunista dell’Occidente. La completa rinuncia a se stesso dell’individuo, la sua totale immersione nella collettività erano del tutto opposti alla autorealizzazione e liberazione dell’individuo di cui avevano parlato Gramsci e lo stesso Marx. Si è trattato di due visioni profondamente diverse. Si vede ad occhio nudo che ci sono stati ben pochi contatti tra le origini razionaliste e illuministe delle idealità del movimento operaio italiano e il misticismo volontarista e comunitario del comunismo orientale. Infatti, mentre il ramo centrale della cultura socialista e comunista è nato, come si diceva una volta, dalla filosofia tedesca, dal pensiero politico francese e da quello economico inglese, i tre elementi fondamentali che hanno caratterizzato la cultura comunista in Oriente sono stati il volontarismo, la tensione morale e il misticismo collettivista, unificati in una ideologia nazionale giustificata dalla sacrosanta esigenza di liberazione dal colonialismo. Naturalmente mi limito a sottolineare una distinzione e non una gerarchia di valori. Tuttavia, la storia non si occupa di come ciascuno di noi ha vissuto le cose. Si occupa di processi oggettivi che hanno coinvolto grandi masse, popoli, paesi interi e Stati. Per questo quando parlo di crollo del comunismo non mi riferisco al tema sotto il profilo più generale della storia delle idee, ma presto attenzione al modo in cui la cultura comunista, e il comunismo stesso, sono stati vissuti e percepiti dalle grandi masse del pianeta e come di riflesso e in contrapposizione sono emerse altre esperienze di sinistra. Parlo, in particolare, del comunismo che si è incarnato nel socialismo reale sotto la direzione di Mosca. Il progressivo distanziarsi dei diversi destini delle sinistre e il crescente baratro tra idealità e realizzazioni concrete, tra socialismo ideale e reale movimento storico, prendono l’avvio da un paradosso: mentre il regno della libertà prefigurato dal marxismo, per quanto carico di finalismo utopistico, richiedeva uno sviluppo delle forze produttive tale da creare le condizioni materiali idonee a facilitare l’instaurarsi di più libere relazioni umane, il centro della rivoluzione mondiale è stato la Russia, dove non c’erano le condizioni oggettive che Marx aveva posto a base di un superamento del capitalismo. Il “Capitale” di Marx avrà modo, in seguito, di vendicarsi ampiamente. Tuttavia con questa mia osservazione non intendo voler mettere le brache al mondo, negando che ci fosse nella Russia zarista una condizione rivoluzionaria che andava colta, anche se mi sembra del tutto evidente che le tappe successive alla rivoluzione d’Ottobre soffriranno di quella contraddizione. Che si irradierà nelle articolazioni territoriali e nelle diversificazioni ideali tra le sinistre, divenendo uno degli aspetti delle furiose lotte intestine.
BERLINGUER DIFENDE MARX E LENIN. Da I Maestri del Socialismo 16 aprile 2015 e Concetto Marchesi 17 febbraio 2016. Dalle colonne di un quotidiano che pian piano diventerà il più letto dalla base del PCI mettendo in crisi l'Unità, Scalfari arriverà a porre direttamente le sue richieste a Berlinguer in un'intervista del 2 agosto 1978. Il politico sardo rispose: «Lei è proprio certo che oggi, 1978, dopo quanto è successo e succede in Italia, in Europa, nel mondo, il problema col quale dobbiamo confrontarci noi comunisti italiani sia proprio quello di rispondere alle domande se siamo leninisti o no? E non dico lei, ma tutti quelli che ci rivolgono tale domanda, conoscono davvero Lenin e il leninismo, sanno davvero di che cosa si tratta quando ne parlano? Mi permetto di dubitarne. Comunque, a me sembra del tutto vivente e valida la lezione che Lenin ci ha dato elaborando una vera teoria rivoluzionaria, andando cioè oltre "l'ortodossia" dell'evoluzionismo riformista, esaltando il momento soggettivo dell'autonoma iniziativa del partito, combattendo il positivismo, il materialismo volgare, l'attesismo messianico, vizi propri della socialdemocrazia. (...) Chi ci chiede di omettere condanne e di compiere abiure nei confronti della storia, ci chiede una cosa che è al tempo stesso impossibile e sciocca. Non si rinnega la storia: né la propria, né quella degli altri. Si cerca di capirla, di superarla, di crescere, di rinnovarsi nella continuità» Berlinguer risponde, in "la Repubblica", 2 agosto 1978. "Una delle forme con cui la campagna anticomunista si esprime, è quella che chiamerei degli ultimatum ideologici: se non rinunciate a Lenin dalla A alla Zeta, se non rompete i vostri rapporti con il Pcus, non siete occidentali ma asiatici. E credete che si fermino a questo? No. Perché dal ripudio di Lenin si dovrebbe passare a quello di Marx; dalla rottura con il Pcus si dovrebbe passare a riconoscere che la Rivoluzione d'Ottobre è stata un puro errore; e magari risalendo nella storia si dovrebbe riconoscere che la Rivoluzione francese sarebbe stato meglio se l'avessero fatta solo i girondini e se non vi fossero stati i giacobini. E tutto questo ancora non basterebbe. Perché i nostri critici pretenderebbero che noi buttiamo a mare non solo la ricca lezione di Marx e di Lenin, ma anche l'elaborazione e le innovazioni ideali di Gramsci e di Togliatti. E poi, di passo in passo, dovremmo giungere sino a proclamare che tutta la nostra storia - che ha anche le sue ombre - è stata solo una sequela di errori." Dal discorso conclusivo e "profetico" di Enrico Berlinguer alla Festa nazionale dell'Unità - Genova 1978.
Quando Craxi tagliò la barba a Marx. Negli anni ’70 la sinistra italiana era dominata dal «feticcio di Mosca», e fu proprio in questo periodo che Bettino Craxi osò sfidare apertamente il massimalismo allora egemone nelle scuole, nelle università e nei giornali. Un libro ricostruisce il dibattito di quegli anni. Sabatino Truppi il 9 Ottobre 2018 su La Stampa. A partire dal congresso di Reggio Emilia (1912), cioè da quando i massimalisti conquistarono la direzione del Partito socialista, la sinistra maggioritaria in Italia è sempre stata dominata dalla stessa martellante ossessione: fuoriuscire dal sistema capitalistico per edificare un ordine diverso, di tipo socialista, basato sulla pianificazione centralizzata e la collettivizzazione di tutti i mezzi di produzione. Basti pensare che nel 1961, quando erano trascorsi appena due anni da quel congresso di Bad Godesberg in cui la socialdemocrazia tedesca aveva definitivamente fatto abiura del marxismo, lo stesso Pietro Nenni (non proprio un pericoloso bolscevico!) non faceva mistero che il suo obiettivo era ancora l’instaurazione, seppur graduale, del socialismo: «l’albero da far cascare - disse al consesso socialista di quell’anno - è per ora quello degli interessi conservatori e reazionari». Era una posizione, questa di Nenni, che non differiva molto da quella, ancor più ambigua, dei comunisti, i quali, muovendosi nel solco ideologico tracciato da Gramsci e da Togliatti, anche quando praticarono una politica delle riforme, lo fecero sempre con una riserva mentale, fedeli com’erano al mito della rottura rivoluzionaria. Ne è la prova che la fantomatica «terza via» teorizzata da Berlinguer non andava in alcun modo confusa con quella socialdemocratica: il suo obiettivo non era quello di promuovere riforme all’interno del sistema capitalistico, ma superarne la logica, nella convinzione che nei paesi, come l’Unione Sovietica, dove era stata eliminata la proprietà privata, oltre a non essere presente alcun segno di crisi, era «universalmente riconosciuto che esisteva un clima morale superiore». Ebbene, fu in questo clima culturale, in cui l’intera sinistra italiana era dominata dal «feticcio di Mosca» (Turati), in cui bastava solo criticare i principi teorici del marxismo-leninismo per essere colpiti dall’onta della scomunica, fu in questo clima culturale, dicevamo, che Bettino Craxi, succeduto a Francesco De Martino alla guida del Psi nel 1976, ebbe l’ardire di sfidare apertamente il massimalismo allora egemone in tutte le agenzie di socializzazione del nostro paese (scuole, università, giornali, ecc.). Lo fece innanzitutto per ragioni ideologiche, poiché pensava che il comunismo, quel mostruoso impasto di dispotismo, miseria e irrazionalità economica, sarebbe stato solo un disastro per il futuro dell’Italia. Ma lo fece anche per ragioni di strategia politica, convinto che il partito socialista, precipitato nella gestione De Martino al 9,6 per cento, se voleva sopravvivere doveva non solo rinnovarsi, prendendo come riferimento i grandi partiti socialdemocratici europei (da qui gli intensi contatti con Mitterrand, Brandt, Soares e Felipe González), ma anche diventare autonomo, ponendo fine a quella soffocante sudditanza culturale che fino ad allora lo aveva reso subalterno ai comunisti. Com’è documentato in un eccellente libro recentemente edito da Aragno (Il Vangelo Socialista, a cura di Giovanni Scirocco, pp. 230, € 18), l’occasione della svolta revisionista fu offerta nell’agosto del 1978 da una lunga intervista concessa da Berlinguer a La Repubblica, nella quale il segretario del Pci non esitava a esaltare «la ricca lezione leninista». Craxi, sollecitato dall’allora direttore Livio Zanetti, rispose sull’Espresso con un saggio redatto da Luciano Pellicani, un giovane e colto sociologo di area socialista. Il contenuto di quelle pagine, che già dal titolo ambivano a diventare il manifesto ideologico del «Nuovo corso» craxiano, ebbe un effetto dirompente. Al punto che un frastornato Eugenio Scalfari sentenziò con irritazione: Craxi ha tagliato la barba del Profeta! Ma cos’aveva scritto di tanto sconvolgente il segretario socialista da riscaldare gli animi in tal modo? Tanto per cominciare, spiega Scirocco, Craxi aveva avuto il coraggio (e il merito storico) di mettere in discussione l’identificazione del socialismo col marxismo, riscoprendo non solo il modello socialdemocratico classico, ma anche tutte quelle suggestioni autogestionarie che, seppur oggi chiaramente anacronistiche, all’epoca apparivano a molti come un indispensabile strumento per tentare di «saldare la democrazia politica con quella economica». «Nel corso di travagliate vicende – ricordava Craxi, (ma le parole erano di Pellicani) - sotto le insegne del socialismo si sono raccolti e confusi elementi distinti e persino reciprocamente repulsivi…c’era chi aspirava a riunificare il corpo sociale attraverso l’azione dominante dello Stato e c’era chi auspicava il potenziamento…del pluralismo sociale e delle libertà individuali». Richiamandosi poi ad autori fino ad allora rimasti minoritari nel pantheon culturale della sinistra (Proudhon, Bernstein, Russell, Rosselli, Gilas, Bobbio), nonché ai padri nobili della tradizione riformista italiana (Turati e Matteotti), il segretario socialista esortava tutti a non confondere più «il socialismo con il comunismo, la piena libertà estesa a tutti gli uomini con la cosiddetta libertà collettiva». Questo perché tra le due ideologie esisteva una contrapposizione profonda, che non riguardava soltanto i mezzi da utilizzare (riforme o rivoluzione) ma soprattutto i fini da raggiungere: se l’ortodossia comunista, spiegava Craxi, è intrinsecamente burocratica e autoritaria, in quanto mira alla «soppressione del mercato», alla «statalizzazione integrale della società» e alla «cancellazione d’ogni traccia d’individualismo», il socialismo democratico è laico e pluralista: «non intende elevare nessuna dottrina al rango di ortodossia…riconosce che il diritto più prezioso dell’uomo è il diritto all’errore…ha un progetto etico-politico…che può essere sintetizzato nei seguenti termini: socializzazione dei valori della civiltà liberale, diffusione del potere, distribuzione ugualitaria della ricchezza e delle opportunità di vita». Da qui una conclusione di ordine generale che, visto lo Zeitgeist imperante in quegli anni, non poteva che suonare eretica alle orecchie del popolo della sinistra: «Leninismo e pluralismo sono termini antitetici: se prevale il primo muore il secondo». Per cui, concludeva Craxi, «dobbiamo muoverci in direzione opposta a quella indicata dal leninismo: dobbiamo diffondere il più possibile il potere economico, politico e culturale. Il socialismo non coincide con lo statalismo. Il socialismo…è la via per accrescere e non per ridurre i livelli di libertà e di benessere e di uguaglianza». Come quest’acceso scontro ideologico sarebbe terminato è cosa ormai nota. Il cosiddetto «saggio su Proudhon» poteva essere, al di là delle stesse intenzioni dei suoi estensori, un’occasione utile per aprire, in seno alla sinistra, un dibattito ideologico propedeutico alla costruzione di una comune alternativa di governo. Ciò non avvenne. L’offensiva craxiana, salvo timide aperture, non riuscì a smuovere il Pci, il quale, oltre a non rinnegare il legame con l’Unione Sovietica, rimase fermo anche nella sua critica al riformismo socialdemocratico. Il risultato? Sia i riformisti che i rivoluzionari sarebbero stati sconfitti: i primi, come ebbe modo di osservare Massimo L. Salvadori (La sinistra nella storia italiana, Laterza), sarebbero rimasti dei riformisti senza riforme; i secondi, dei rivoluzionari senza rivoluzione. E il prezzo più salato di quest’anomalia, inutile dirlo, l’avrebbe pagato proprio il nostro paese: perché l’assenza di un’alternativa di sinistra non solo ha impedito una virtuosa alternanza di governo (il «Fattore k», com’è noto, eternizzava di fatto il potere democristiano), ma ha anche privato l’Italia di un moderno partito socialdemocratico, capace di porre in essere quelle riforme correttive che sarebbero state oltremodo necessarie per conciliare in modo virtuoso le ragioni sacrosante del merito con quelle non meno impellenti del bisogno. Generando in questo modo un vuoto che sarebbe stato poi tragicamente colmato nei modi che oggi sono sotto gli occhi di tutti….
IL VANGELO SOCIALISTA. Da SocialismoItaliano1892 il 27 Agosto 2018. Quarant’anni orsono, il 27 agosto 1978, comparve sull’Espresso un lungo articolo di Bettino Craxi dal titolo: “Il vangelo socialista” in risposta ad un precedente intervento di Enrico Berlinguer sul leninismo. Il contenuto segnò una forte divisione tra le due anime della sinistra di allora ed in verità, come ricordato da Massimo Pini in: ”Craxi, una vita un’era politica” le idee del testo furono stese da Luciano Pellicani, ex comunista e docente di sociologia politica, in una raccolta di contributi in onore di Willy Brandt. Inoltre fece epoca l’introduzione forte del pensiero di Proudhon nel pantheon socialista. “La storia del socialismo non è la storia di un fenomeno omogeneo. Nel corso di travagliate vicende sotto le insegne del socialismo si sono raccolti e confusi elementi distinti e persino reciprocamente repulsivi. Statalismo e antistatalismo, collettivismo e individualismo, autoritarismo e anarchismo, queste e altre tendenze ancora si sono incontrate e scontrate nel movimento operaio sin da quando esso cominciò a muovere i suoi primi passi come unità politica e di classe. In certe circostanze storiche le impostazioni ideologiche diverse sono addirittura sfociate in una vera e propria guerra fratricida. È così avvenuto che tutti i partiti, le correnti e le scuole che si sono richiamate al socialismo, si sono poste in antagonismo al capitalismo, ma ciò non è quasi mai stato sufficiente ad eliminare divisioni e contrapposizioni. I modelli di società che indicavano come alternativa alla società capitalistica erano spesso antitetici. La profonda diversità dei «socialismi» apparve con maggiore chiarezza quando i bolscevichi si impossessarono del potere in Russia. Si contrapposero e si scontrarono concezioni opposte. Infatti c’era chi aspirava a riunificare il corpo sociale attraverso l’azione dominante dello Stato e c’era chi auspicava il potenziamento e lo sviluppo del pluralismo sociale e delle libertà individuali. Riemerse così il vecchio dissidio fra statalisti e antistatalisti, autoritari e libertari, collettivistici e non. La divisione si riflesse a grandi linee nell’esistenza di due distinte organizzazioni internazionali. I primi, eredi della tradizione giacobina, si raggrupparono sotto la bandiera del marxismo-leninismo, mentre i secondi volevano rimanere nell’alveo della tradizione pluralistica della civiltà occidentale. A partire dal 1919 il socialismo, anche dal punto di vista organizzativo, sarà attraversato da due grandi correnti e da molti rivoli collaterali, che si potrebbero meglio definire solo analizzando la storia dei singoli partiti. Non sono pochi a ritenere che la scissione, vista nelle sue grandi linee, viene da lontano. C’è chi ne vede le radici nella stessa Rivoluzione francese, durante la quale, mentre era in atto la guerra contro l’Antico Regime, si scontrarono due concezioni della società ideale; quella autoritaria e centralistica e quella libertaria e pluralistica. Già nelle analisi di Proudhon per esempio si tenta l’individuazione delle radici etico-politiche del conflitto latente, che lacerava la sinistra. In Proudhon c’è infatti un’appassionata difesa non solo delle radici ideali della protesta operaia contro lo sfruttamento capitalistico ma anche una percezione acuta della divaricazione sostanziale tra la società socialista e la società comunista. Da un lato il comunismo che vuole la soppressione del mercato, la statalizzazione integrale della società e la cancellazione di ogni traccia di individualismo. Dall’altra il socialismo, che progetta di instaurare il controllo sociale dell’economia e lavora per il potenziamento della società rispetto allo Stato e per il pieno sviluppo della personalità individuale. Proudhon considerava il socialismo come il superamento storico del liberalismo e vedeva nel comunismo una «assurdità antidiluviana» che, se fosse prevalso, avrebbe «asiatizzato» la civiltà europea. Lo stesso Proudhon ci ha lasciato una descrizione profetica di che cosa avrebbe generato l’istituzionalizzazione del rigido modello statalista e collettivistico: «la sfera pubblica porterà alla fine di ogni proprietà; l’associazione provocherà la fine di tutte le associazioni separate e il loro riassorbimento in una sola; la concorrenza, rivolta contro se stessa, porterà alla soppressione della concorrenza; la libertà collettiva, infine, dovrà inglobare le libertà cooperative, locali e particolari». Conseguentemente sarebbe nata «una democrazia compatta fondata in apparenza sulla dittatura delle masse, ma in cui le masse avrebbero avuto solo il potere di garantire la servitù universale, secondo le formule e le parole d’ordine prese a prestito dal vecchio assolutismo riassumibili:
Comunione del potere
Accentramento
Distruzione sistematica di ogni pensiero individuale, cooperativo e locale, ritenuto scissionistico
Polizia inquisìtoriale
Abolizione o almeno restrizione della famiglia e, a maggior ragione, dell’eredità
Suffragio universale organizzato in modo tale da sanzionare continuamente questa sorta di anonima tirannia, basata sul prevalere di soggetti mediocri o perfino incapaci e sul soffocamento degli spiriti indipendenti, denunciati come sospetti e, naturalmente, inferiori di numero».
Qui, come si vede, Proudhon indica che cosa non doveva essere il socialismo e contemporaneamente che cosa sarebbe diventata la società se fosse prevalso il modello collettivistico basato sulla statizzazione integrale dei mezzi di produzione e sulla soppressione del mercato. La storia purtroppo ha portato qualche elemento di fatto a sostegno della sua previsione. Il socialismo di Stato, messi in disparte tutti i valori, le istituzioni e i principi della civiltà moderna, li ha sostituiti con un modello di vita collettivistico, burocratico e autoritario, cioè con un sistema pre-moderno. E ciò è tanto vero che molti rappresentanti della cultura del dissenso spingono la loro critica sino al punto di vedere nel comunismo, così come storicamente si è realizzato, una vera e propria «restaurazione asiatica». Ma, per venire ad analisi più recenti, ricordiamo che molti altri intellettuali della sinistra europea hanno sviluppato questo filone critico. Da Russell a Carlo Rosselli a Cole ci perviene un unico stimolo che ci invita a non confondere il socialismo con il comunismo, la piena libertà estesa a tutti gli uomini con la cosiddetta libertà collettiva.
Il superamento storico del liberalismo con la sua distruzione. Il carattere autoritario di ciò che viene chiamato il «socialismo reale o maturo» non è una deviazione rispetto alla dottrina, una degenerazione frutto di una data somma di errori, bensì la concretizzazione delle implicazioni logiche dell’impostazione rigidamente collettivistica originariamente adottata. L’esame dei fondamenti essenziali del leninismo non può che confermare tale tesi. Fino alla pubblicazione di «Che fare?» Lenin fu sostanzialmente un marxista ortodosso: credeva che il socialismo si sarebbe realizzato solo nei paesi capitalistici avanzati e solo a condizione che la classe operaia avesse raggiunto un elevato grado di coscienza politica e di maturità culturale. Ma nel «Che fare?» queste tesi sono letteralmente rovesciate. Dalla teoria e dalla prassi del socialismo democratico europeo si passa a uno schema rivoluzionario e giacobino. Lenin stesso definisce il rivoluzionario marxista «un giacobino al servizio della classe operaia» e propone di creare un partito composto esclusivamente di «rivoluzionari di professione». Così il socialismo da compito storico della classe operaia diventa qualcosa che deve essere pensato, costruito e diretto da una élite selezionata di individui posti al di sopra della massa. Lenin comincia col distinguere due forme o gradi di percezione della realtà: la «spontaneità» e la «coscienza»: solo la seconda permette di anti-vedere i fini ultimi della Storia. Successivamente Lenin afferma perentoriamente che gli operai non possono avere il tipo di visione del reale che è proprio della coscienza poiché privi del sapere filosofico e scientifico. Essi, abbandonati alle loro tendenze spontanee, sono condannati a muoversi entro l’ambito delle leggi del sistema. Tutt’ al più possono raggiungere una «coscienza sindacale» dei loro interessi immediati, non già una coscienza politica che può essere prodotta solo al di fuori della loro condizione di classe. E i «portatori esterni» della «giusta coscienza», sono sempre secondo Lenin, gli intellettuali. Ad essi, quindi, spetta il ruolo storico organizzativo e dirigente del movimento operaio. Date queste premesse, ovviamente il soggetto rivoluzionano non può essere la classe operaia bensì il corpo scelto degli intellettuali che si sono consacrati alla rivoluzione comunista. Il pericolo che gli anarchici russi avevano sottolineato con estrema energia e cioè che la classe operaia fosse «colonizzata» dagli intellettuali declasses che entravano in un movimento socialista quali «tribuni della plebe» diviene con il «Che fare?» una realtà. Lenin teorizza infatti con grande franchezza il diritto-dovere degli intellettuali guidati dalla «scienza marxista» di sottoporre la classe operaia alla loro direzione. L’ammissione storica che Marx aveva assegnato al proletariato doveva raccogliersi nelle mani dell’intelligencija rivoluzionaria. Si capisce agevolmente perché Trockij, Plechanov, Martov e Rosa Luxemburg abbiano accusato Lenin di «sostitutismo». Ai loro occhi l’idea leninista di subordinare la classe operaia alla direzione paternalistica dell’élite cosciente ed attiva appariva come un capovolgimento del marxismo e come un ritorno alla tradizione giacobina. «Trockij in particolare stigmatizzò la teoria leninista poiché essa confondeva la dittatura del proletariato con la dittatura sul proletariato e affidava la missione storica di edificare il socialismo non alla classe operaia dotata di iniziativa che ha preso nelle sue mani le sorti della società, ma a una organizzazione forte, autoritaria che domina il proletariato ed attraverso ad esso la società». Era il Trockij menscevico che prevedeva come lo spirito di setta e il manicheismo giacobino che Lenin voleva introdurre nel movimento operaio avrebbero avuto conseguenze disastrose. In effetti «Che fare?» apparve a molti come un’aggressiva ripresa del progetto di Robespierre, che già molte scuole socialiste europee avevano definito come una sorta di dispotismo pseudo-socialista. Il modello di partito ideato da Lenin e una istituzione resa monolitica dal vincolo dell’ortodossia e dal principio della subordinazione assoluta e senza riserve delle volontà individuali alla volontà collettiva. Il partito bolscevico fu sin dal suo atto di nascita, una organizzazione ferreamente disciplinata e impegnata nella diffusione su scala planetaria del socialismo scientifico, interpretato come una dottrina a carattere salvifico, cioè una setta di «veri credenti» che in nome del proletariato riteneva di avere il diritto-dovere di instaurare il suo dominio totale sulla società per rigenerarla.
Nessuno meglio di Rosa Luxemburg ha descritto le conseguenze elitaristiche e burocratiche che da una tale concezione e prassi derivavano. «Un centralismo spiegato, il cui principio vitale è da un lato il netto rilievo e la separazione della truppa organizzata dai rivoluzionari dichiarati e attivi dall’ambiente, pur esso rivoluzionariamente attivo ma non organizzato, che li circonda, e dall’ altro la rigida disciplina e l’intromissione diretta, decisiva, determinante delle istanze centrali in tutte le manifestazioni vitali delle organizzazioni locali del partito. Chiudere il movimento nella corazza di un centralismo burocratico che degrada il proletariato militante a docile strumento di un comitato».
La dittatura sul proletariato. Come ha scritto Isaak Deutscher «poiché la classe operaia non era là (dove sarebbe dovuta esserci per esercitare la direzione) i bolscevichi decisero di agire come suoi luogotenenti e fiduciari fino al momento in cui la vita fosse diventata più normale e una nuova classe lavoratrice si fosse affermata e sviluppata. Per questa strada naturalmente si giungeva alla dittatura della burocrazia, al potere incontrollato e alla corruzione attraverso il potere». Ma, occorre ripeterlo, tale paradossale fenomeno – la dittatura del proletariato senza il proletariato, la «dittatura per procura» esercitata in nome e per conto della classe – non può essere considerata una conseguenza non prevista e non prevedibile. E sempre il Trockij menscevico che nel 1904 scrive che se il progetto leninista si fosse realizzato «il partito sarebbe stato sostituito dall’organizzazione del partito, l’organizzazione sarebbe stata a sua volta sostituita dal comitato centrale ed infine il comitato centrale dal dittatore». Con il successo storico-politico del leninismo la logica giacobina con tutte le sue componenti vecchie e nuove che sfociano nella dittatura rivoluzionaria prende il sopravvento sulla logica pluralistica e democratica del socialismo e la Russia si incammina sulla strada del collettivismo burocratico-totalitario. Ora, dato che la meta finale indicata da Lenin era la società senza classi e senza Stato, si potrebbe parlare di «eterogenesi dei fini» nel senso che i mezzi adoperati hanno fagocitato l’ideale. Il leninismo al potere sarebbe, da questo punto di vista, la dimostrazione che non è possibile scindere i mezzi dai fini e che la storia non è «razionale» bensì «ironica» e persino «crudele». Ma in realtà il conflitto tra bolscevismo e socialismo democratico non fu un semplice conflitto sui mezzi da adoperare per avanzare verso la società ideale. Tale conflitto è stato senz’altro uno dei fattori che ha segnato la demarcazione netta nel seno del movimento operaio, ma non certamente quello decisivo. Fra comunismo leninista e socialismo esiste una incompatibilità sostanziale che può essere sintetizzata nella contrapposizione tra collettivismo e pluralismo. Il leninismo è dominato dall’ideale della società omogenea, compatta, indifferenziata. C’è nel leninismo la convinzione che la natura umana è stata degradata dall’apparizione della proprietà privata, che ha disintegrato la comunità primitiva scatenando la guerra di classe. E c’è soprattutto il desiderio di ricreare l’unità originaria facendo prevalere la volontà collettiva sulle volontà individuali, di interesse generale sugli interessi particolari. In questo senso il comunismo è organicamente totalitario, nel senso che postula la possibilità di istituire un ordine sociale così armonioso da poter far a meno dello Stato e dei suoi apparati coercitivi. Questo «totalitarismo del consenso» deve però essere preceduto da un «totalitarismo della coercizione». Tanto è vero che Lenin non ha esitato a descrivere la dittatura del partito bolscevico come «un potere che poggia direttamente sulla violenza e che non è vincolata da nessuna legge». Pure la meta finale resta la società senza Stato, cioè «il paradiso in terra» (Lenin) successivo alla «resurrezione dell’umanità» (Bucharin). Talché si può dire che la meta finale indicata dal comunismo è «un Regno di Dio senza Dio», cioè la costruzione reale del regno millenario di pace e di giustizia illusoriamente promesso del messianesimo giudaicocristiano. Non è certo un caso, dunque, che Gramsci sia arrivato a definire il marxismo «la religione che ammazzerà il cristianesimo» realizzando le sue esaltanti promesse e facendo passare dalla potenza all’atto l’ideale della società perfetta. Se questa interpretazione del leninismo è corretta, allora la contrapposizione fra socialismo e comunismo è certo molto profonda. Il comunismo leninista ha mire palingenetiche: è una religione travestita da scienza che pretende di aver trovato una risposta a tutti i problemi della vita umana. Per questo non ha voluto tollerare rivali ed è in una parola «totalitario». Milovan Gilas e Gilles Martinet lo hanno sottolineato in maniera convincente: il leninismo nella misura in cui aspira a rigenerare la natura umana, a creare un mondo purificato da ogni negatività, a porre fine allo scandalo del male, è una dottrina millenaristica che, una volta al potere, non può produrre che uno Stato ideologico retto una casta. Gramsci ha teorizzato senza perifrasi la natura «totalitaria» e persino «divina» del partito comunista, che non a caso ha definito “ il focolare della fede e il custode della dottrina del socialismo scientifico». Il partito marxista-leninista in quanto incarna il progetto di disalienazione totale dell’umanità, è una istituzione carismatica che racchiude in sè tutte le verità e tutta la moralità della teoria. Esso esprime l’etica, la scienza del «proletariato ideale» che deve illuminare il «proletariato reale» e indicargli «la via della salvezza» (come si legge nella risoluzione del secondo Congresso del Komintern). Nelle sue mani ci sono «le chiavi della storia» poiché esso orienta sua azione alla luce dell‘unica dottrina che sia scientifica e salvifica ad un tempo. Per questo il comunismo non può venire a patti con lo spirito critico, il dubbio metodico, la pluralità delle filosofie, insomma con tutto ciò che rappresenta il patrimonio culturale della civiltà occidentale laica e liberale. Esso, come soleva ricordare Bertrand Russell a coloro che si facevano un’immagine mitologica del marxismo-leninismo, si fonda sull’idea che deve esistere un’autorità ideologica (il partito) che stabilisce autocraticamente i confini che separano il bene dal male, il vero dall’errore, l’utile dal dannoso. Di qui l’elevazione del marxismo a filosofia (obbligatoria) di Stato, l’istituzionalizzazione dell’inquisizione rivoluzionaria, la lotta accanita e spietata contro i devianti, i dissidenti e gli eretici. Rispetto alla ortodossia comunista, il socialismo è democratico, laico e pluralista. Non intende elevare nessuna dottrina al rango di ortodossia, non pretende porre i limiti alla ricerca scientifica e al dibattito intellettuale, non ha ricette assolute da imporre. Riconosce che il diritto più prezioso dell’uomo è il diritto all’errore. E questo perché il socialismo non intende porsi come surrogato, ideale e reale, delle religioni positive. Il socialismo nella sua versione democratica ha un progetto etico-politico che si inserisce nella tradizione dell’illuminismo riformatore e che può essere sintetizzato nei seguenti termini: socializzazione dei valori della civiltà liberale, diffusione del potere, distribuzione ugualitaria della ricchezza e delle opportunità di vita, potenziamento e sviluppi degli istituti di partecipazione delle classi lavoratrici ai processi decisionali. Carlo Rosselli definiva appunto il socialismo come un liberalismo organizzatore e socializzatore. Dalla pretesa che il comunismo ha di fare «l’uomo nuovo» deriva del tutto logicamente il disegno di ristrutturare tutto il campo sociale secondo un criterio unico e assolutamente vincolante. Il principio di fondo è stato formulato da Lenin in termini inequivocabili: «il partito tutto corregge, designa e dirige in base a un criterio unico» al fine di sostituire «l’anarchia del mercato» con la “centralizzazione assoluta”. E in effetti, del tutto coerentemente con la dottrina, i bolscevichi non appena conquistarono lo Stato incominciarono a distruggere sistematicamente, metodicamente, ogni centro di vita autonoma e operarono in modo da concentrare tutto il potere politico, economico e spirituale in un’unica struttura di comando, l’apparato del partito. E chi dice apparato dice controllo integrale della società da parte degli amministratori universali. Fu così che prese corpo lo Stato padrone di ogni cosa, delle risorse economiche delle istituzioni degli uomini e persino delle idee. L’autonomia della società civile fu intenzionalmente soffocata, la spontaneità sociale limitata o soppressa, l’individualismo ridotto ai minimi termini.
Il grande paradosso della via comunista. Ma, evidentemente tutto ciò implica la burocratizzazione integrale della società la quale come si legge in «Stato e rivoluzione», diventa per ciò stesso «un unico ufficio ed un unico stabilimento industriale» diretto dall’alto dell’apparato del partito che vigilerà sugli uomini affinché essi non deviino dalla retta via fissata dall’ortodossia. Di qui la descrizione del progetto collettivistico data da Gilas: «Lo Stato comunista opera per raggiungere la completa spersonalizzazione dell’individuo, delle nazioni e anche dei propri appartenenti. Aspira a trasformare la società intera in una società di funzionari. Aspira a controllare, direttamente o indirettamente, salari e stipendi, alloggi e attività intellettuali». Analogamente Pierre Naville ha scritto che «la burocrazia nel socialismo di Stato gode di uno statuto fino ad oggi sconosciuto: di fatto essa controlla la totalità della vita economica, ed esercita questo controllo dall’alto. E’ nel socialismo di Stato che la burocrazia mostra finalmente la su reale natura: essa è l’organizzazione gerarchica applicata a tutto, l’armatura reale della vita sociale e privata, il comando su ogni cosa. Essa incarna lo Stato nella sua doppia dimensione nazionale e nel suo imperialismo internazionale». A questo punto possiamo trarre alcune conclusioni di ordine generale. Leninismo e pluralismo sono termini antitetici se prevale il primo muore il secondo. La democrazia (liberale o socialista) presuppone l’esistenza di una pluralità di centri di poteri (economici, politici, religiosi, etc.) in concorrenza fra di loro, la cui dialettica impedisce il formarsi di un potere assorbente e totalitario. Di qui la possibilità che la società civile abbia una certa autonomia rispetto allo Stato e che gli individui e i gruppi possano fruire di zone protette dall’ingerenza della burocrazia. La società pluralistica inoltre è una società laica nel senso che non c’è alcuna filosofia ufficiale di Stato, alcuna verità obbligatoria. Nella società pluralistica la legge della concorrenza non opera solo nella sfera dell’economia, ma anche in quella politica e in quella delle idee. Il che presuppone che lo Stato è laico solo nella misura in cui non pretende di esercitare, oltre al monopolio della violenza, anche il monopolio della gestione dell’economia e della produzione scientifica. In breve: l’essenza del pluralismo è l’assenza del monopolio. Tutto il contrario delle tendenze che si sono affermate nel sistema comunista. I veri marxisti-leninisti non possono tollerare contropoteri, ideali comunitari diversi da quello collettivistico. Per questo essi sentono di avere il diritto-dovere di imporre il «socialismo scientifico» ai recalcitranti. Per questo Gramsci aveva teorizzato la figura del moderno Principe come «il solo regolatore» della vita umana. La meta finale è la società senza Stato, ma per giungervi occorre statizzare ogni cosa. Questo in sintesi è il grande paradosso del leninismo. Ma come è mai possibile estrarre la libertà totale dal potere totale? Invece di potenziare la società contro lo Stato, si è reso onnipotente lo Stato con le conseguenze previste da tutti gli intellettuali della sinistra revisionistica che hanno visto nel monopolio delle risorse materiali e intellettuali la matrice dell’autoritarismo di Stato. Pertanto se vogliamo procedere verso il pluralismo socialista, dobbiamo muoverci in direzione opposta a quella indicata dal leninismo: dobbiamo diffondere il più possibile il potere economico, politico e culturale. Il socialismo non coincide con lo statalismo. Il socialismo, come ha ricordato Norberto Bobbio è la democrazia pienamente sviluppata, dunque è il superamento storico del pluralismo liberale e non già il suo annientamento. È la via per accrescere e non per ridurre i livelli di libertà e di benessere e di uguaglianza.” Bettino Craxi
Bettino Craxi fu un grande leader ma dopo il 1989 sbagliò tutto. Roberto Morassut il 9 Gennaio 2020 su Il Riformista. È uscito il film Hammamet, sulla figura di Bettino Craxi, per la regia di Gianni Amelio e interpretato magistralmente da Pierfrancesco Favino. La pellicola contribuisce, nel ventennale della scomparsa, all’ormai lungo dibattito sulla figura del leader socialista e agli interrogativi sui torti e le ragioni nel confronto/scontro interno alla sinistra di quegli anni, le cui tracce sono oggi ancora molto presenti. Craxi fu una figura di sinistra riformista ed ebbe meriti e intuizioni innegabili: le più importanti furono, a mio parere, la percezione della necessità di una riforma generale delle istituzioni e le posizioni in politica estera. Colse la necessità di una “democrazia governante”, il valore della decisione come parte del meccanismo stesso della democrazia presupposto della sua costante rigenerazione. Fu un capo di governo capace di costruire un profilo dell’Italia leale con gli alleati atlantici ma non subalterno. Tuttavia, ebbe limiti e responsabilità altrettanto grandi che compromisero, alla resa dei conti, la sua stessa visione del riformismo: egli rimase, alla fine, totalmente dentro i confini politici e morali (morale intesa meramente come “condotta” politica e non come comportamento etico e di vita) di quella prima Repubblica che egli voleva riformare anche immaginando le condizioni di una alternativa. Dopo l’89 e alla vigilia di Mani Pulite, Craxi ebbe infatti la possibilità di imboccare la strada dell’alternativa ma non lo fece e questo mi pare il punto dirimente per un giudizio “da sinistra” sulla sua figura. Il Pci non esisteva più, l’Urss era dissolto ma c’era una nuova forza politica di sinistra che, nata dalla sua trasformazione, poteva essere interlocutore del Psi per una alternativa riformista. Craxi fu invece vinto dalla tentazione di fagocitarla con la proposta della “Unità socialista” piuttosto che stabilirvi un rapporto politico finalizzato ad una “Unità riformista” che andasse oltre i margini delle famiglie socialiste o ex comuniste, magari umiliate dalla sconfitta storica di quegli anni. Questa scelta lo portò all’errore del Congresso di Bari nel riproporre l’accordo con la Dc per ragioni meramente di potere, come ha ricostruito bene, tempo dopo, Claudio Martelli. E poi a sostenere la diserzione dalle urne in occasione del referendum sulle preferenze plurime, scontrandosi con un sentimento popolare che egli – riformista e innovatore – scambiò per una protesta di piazza. Questo dimostra che egli fu pienamente dentro il vecchio mondo pre ‘89 che comprendeva anche certe rivalse socialiste del “dopo Livorno”. Era pienamente figlio del ‘56 e confuse la svolta della Bolognina come un fatto di trasformismo neo comunista senza comprendere fino in fondo il travaglio e la mutazione genetica profonda che gli eredi del Pci stavano attraversando. La sua visione innovativa della Repubblica e del quadro internazionale mancò, insomma, nel momento decisivo. La necessità storica di una “Unità riformista” emerse con chiarezza dopo pochi anni dalla sua uscita di scena con il sorgere dell’Ulivo che peraltro riprese nei suoi programmi anche ispirazioni craxiane. Viceversa, gli eredi del Pci transitarono lo spartiacque dell’89 con minori danni, benché non senza aporìe, perché Berlinguer aveva largamente preparato lo sganciamento politico e morale (sempre nel senso poc’anzi indicato) dal mondo diviso in blocchi e con la “svolta della Bolognina” si resero pronti e spendibili per una nuova possibile pagina repubblicana. Quanto alla cosiddetta “persecuzione giudiziaria”, bisognerebbe stabilire che quelle inchieste che lo riguardarono non avevano ragion d’essere ma così non sembra. Qualcuno sostiene che le inchieste furono un golpe. Affermazioni spericolate. Il tema della corruzione in politica è ancora vivissimo oggi e forse anche più grave di allora. L’impossibilità di un’alternativa politica contribuì purtroppo non poco alla abnorme amplificazione del ruolo della magistratura come estremo fattore risolutivo per determinare un rinnovamento delle classi dirigenti. La rapacità degli ultimi anni della Repubblica, l’enorme debito pubblico (in parte derivato dalla crisi morale dei partiti di governo di allora) è peraltro parte integrante di un giudizio politico. Nessuno può dire (ma forse è giusto domandarselo) se una scelta di Craxi per l’alternativa dopo l’89 non avrebbe potuto mutare i termini stessi della vicenda Mani Pulite. Ecco perché oggi la figura di Craxi resta una figura contraddittoria e per certi versi drammatica; ma la complessità del giudizio sulla sua figura non può tradursi nel facile gioco della riabilitazione o della condanna imperitura. Luci e ombre devono restare ben chiare per non sbagliare ancora e per crescere una classe dirigente che sappia sempre promuovere il rinnovamento anche rischiando se stessa per un interesse generale e soprattutto per tutelare, in nuovi contesti, i propri valori di fondo. E questa mi pare anche la lezione che oggi si può trarre, parlando di Craxi, anche per questa complessa fase della vita della Repubblica e anche per il futuro prossimo del Pd. Per non disperdere un patrimonio storico di valori e ideali occorre, in certi momenti, mettere in discussione se stessi, rischiare se stessi. È il tema del Pd in questo preciso momento storico.
Ripartire da Bettino Craxi, solo così la sinistra diventerà riformista. Fabrizio Cicchitto l'8 Gennaio 2020 su Il Riformista. Caro Direttore, con il 19 gennaio 2020 si avvicina il 20° anniversario della morte di Bettino Craxi. In quest’occasione, proprio mentre nelle sale arriva Hammamet, l’atteso film che Gianni Amelio ha dedicato allo statista interpretato sul grande schermo da Pierfrancesco Favino, in molti andremo in Tunisia davanti alla sua tomba per commemorarlo. Su impulso di Stefania Craxi la Fondazione che da lui prende il nome sta preparando una serie di dibattiti lungo tutto il 2020. Ma “il problema Craxi” va molto al di là del “culto della memoria” che giustamente portano avanti la sua famiglia e quell’area politica e culturale che si richiama al socialismo italiano. A questo proposito bisogna sottolineare il lavoro svolto da Luigi Covatta e da Gennaro Acquaviva con alcuni dei più significativi storici italiani e all’autonoma elaborazione di singoli studiosi: questa volta non è passato il motto secondo cui la storia è fatta dai “vincitori”. Del resto, i “vincitori” del ’92-’94, vale a dire i post-comunisti di scuola berlingueriana, non solo dal ’94 in poi non hanno più vinto sul piano politico, ma sul piano storiografico sono stati “smontati” e “demistificati” dall’interno stesso della loro area (vedi Andrea Romano: I compagni di scuola, i libri di Emanuele Macaluso, di Umberto Ranieri e di Paolo Franchi, lo stesso Rendiconto di Claudio Petruccioli). Tantomeno la “questione Craxi” può essere affrontata e risolta positivamente o negativamente sul piano “topografico”. A nostro avviso, se non si vuole cadere nel ridicolo, qualunque leader politico dovrebbe entrare nella topografia, indipendentemente dalle contestazioni che possono essere fatte su questo o quell’aspetto della sua biografia. Ma de hoc satis. Il problema che vogliamo affrontare è molto più complesso e “difficile” di quello costituito dal nome di una via. Esso riguarda la lettura della storia di questo Paese e, in essa, la storia della sinistra italiana. Anzi, per molti aspetti la questione va rovesciata: a nostro avviso se la sinistra post comunista, allo stato il Pd e Italia Viva, non fa i conti con tutto ciò che “evoca” la figura Craxi (il riformismo teorico e pratico, il garantismo, lo stato di diritto, la riforma della giustizia, la “grande riforma” fino al monocameralismo, l’impegno per lo sviluppo dell’industria manifatturiera e per una cogestita flessibilità dell’uso del lavoro per aumentare la produttività e aumentare l’occupazione, il legame profondo con l’Occidente e una politica attiva nel Mediterraneo, il rifiuto assai netto del massimalismo sociale, del giustizialismo ideologico, pratico e mediatico, di ogni sovranismo, antisemitismo e razzismo) non solo assume una posizione sbagliata e nella sostanza reazionaria nei confronti di un personaggio che come Berlinguer, La Malfa, Fanfani, Andreotti, De Mita è stato uno dei grandi leader della seconda fase della prima Repubblica, ma come i fatti dimostrano non riesce neanche a crescere e a esprimere un progetto organico, forte e convincente per il Paese. Non a caso anche dopo la distruzione del Psi e del centro-destra della Dc, la sinistra post-comunista è risultata sempre in difficoltà, ieri di fronte alla risposta liberale e moderatamente populista di Berlusconi, adesso nei confronti del populismo antipolitico dei grillini e del pericoloso sovranismo razzista di Salvini che usa stilemi e parole d’ordine tratte anche dall’armamentario comunicativo del mussolinismo, usando la rete internet e le reti Mediaset che attualmente lo trattano come se la Lega fosse il Milan e Forza Italia il Monza. In effetti la sinistra post-comunista sta seguendo un comportamento politico che nella sua metodologia è simile a quello del tutto sbagliato seguito da Berlusconi negli ultimi anni. Berlusconi e Forza Italia sono ridotti ai minimi termini anche perché dal 2013 in poi sono andati a zig-zag, un giorno moderati, un giorno estremisti e ciò ha dato a Salvini e alla Meloni un grande spazio politico ed elettorale. A sua volta il post-comunismo, nelle sue varie espressioni partitiche – Pds, Ds, Pd – sul piano economico e sociale ha oscillato fra un incerto gradualismo e il massimalismo, sul piano dei diritti è andato a zig-zag fra il giustizialismo più efferato (al punto di prendersi come alleato preferenziale Di Pietro e l’Italia dei Valori) e un contraddittorio, intermittente e timido garantismo. Tutto ciò è derivato anche da una lettura distorta di ciò che è avvenuto in Italia dopo la rottura rivoluzionario-eversiva di Mani Pulite: diversamente da ciò che sta avvenendo a livello internazionale in Italia non sono dominanti i grandi gruppi finanziari-industriali (quasi tutti sono falliti, o sono in crisi, o sono stati acquistati da mani straniere): in Italia la forza egemone è la magistratura, che non a caso a suo tempo ha eliminato dalla scena ben cinque partiti, che ha svolto un ruolo fondamentale nello scontro fra berlusconismo e antiberlusconismo, che adesso condiziona la scena politica perché ispira e influenza una nuova forza come il Movimento 5 stelle, una situazione unica in Europa e sta ogni giorno sulle scene, attaccando questo o quel leader politico, liquidando pezzi di politica regionale e comunale. Di conseguenza la traduzione di un’intesa tattica qual è il governo giallo-rosso in un’intesa strategica sarebbe un autentico disastro per il Pd, così come lo è stata a suo tempo quella con Di Pietro da parte del Pds-Ds. Infatti, un’intesa strategica fra il Pd e il M5s si fonderebbe inevitabilmente sul peggio della tradizione vetero comunista e dello stesso berlinguerismo, cioè il giustizialismo etico e il massimalismo sociale anti imprenditoriale.
Craxi, no alla memoria distorta: recuperiamo la cultura riformista. Pubblicato giovedì, 09 gennaio 2020 su Corriere.it da Pierluigi Battista. La pellicola «Hammamet» di Gianni Amelio evidenzia la necessità di riconsiderarne l’opera politica senza pregiudizi. Questo articolo è stato pubblicato su «la Lettura» #418 del 1° dicembre 2019Un film di un grande del cinema italiano, Hammamet di Gianni Amelio, e il ventesimo anniversario, che sarà celebrato proprio ad Hammamet, della morte del leader del Partito socialista possono finalmente mettere fine alla leggenda nera che ancora oggi circonda la vicenda storica, politica e umana di Bettino Craxi. Per smettere di appiattirla e svilirla come mera vicenda giudiziaria, addirittura come fatto criminale: una losca storia di guardie e ladri, la demonizzazione di una memoria che distorce ciò che il craxismo è stato nelle vicissitudini della sinistra italiana di cui Craxi, invece messo al bando simbolicamente come se fosse un Al Capone travestito da leader politico, ha avuto per quasi vent’anni un ruolo centrale. Non sarà certo solo un film, sia pure girato con la consueta maestria da Amelio e interpretato dal bravissimo Pierfrancesco Favino, a ricostruire i tratti di una storia ancora dannata nel discorso pubblico del nostro Paese. Ma abbiamo finalmente l’occasione per rileggere il fenomeno craxiano nei suoi aspetti innovativi e anche in quelli, controversi, che hanno alimentato attorno alla figura del leader socialista tante ostilità, destinate ad accendere il furore che nella stagione di Mani pulite ha tragicamente accompagnato il tonfo politico e umano di Bettino Craxi, fino agli ultimi giorni di Hammamet. Cominciamo dalle parole. Apparirà strano a chi non ha vissuto quell’epoca nemmeno tanto lontana, ma per esempio «riformista», nella sinistra maggioritaria in un’Italia già immersa nella modernità, era quasi una parolaccia, e infatti solo i socialisti di Craxi la usavano con convinzione e senza riserve mentali. Certo, anche «rivoluzionario» non era più espressione frequentata nel Pci, e tuttavia l’evoluzione culturale non poteva ancora avere una sua compiuta ratifica lessicale. «Riformista» era uno strappo troppo profondo, un passaggio troppo brusco. Si preferiva piuttosto «riformatore», termine più pudibondo e meno ideologicamente compromettente, e se negli anni Settanta si volevano le riforme e non più la rivoluzione, se i comunisti governavano intere Regioni e molte città e assorbivano nel loro orizzonte politico la concretezza del mondo sindacale, occorreva però aggiungere, quasi liturgicamente per allontanare la tentazione della diluizione ideologica e dello scolorimento identitario, che fossero «di struttura»: «riforme di struttura», così si allontanava almeno nel frasario lo spettro del pericoloso riformismo. Dimenticando, però, che poi riformismo non è soltanto un metodo, una strada più lenta e meno violenta per raggiungere il medesimo obiettivo, come se la differenza tra salto rivoluzionario e riformismo fosse principalmente una questione di velocità, ma proprio un altro obiettivo: la correzione «riformista» del capitalismo e del mercato a favore dell’eguaglianza, e non già l’uscita (la «fuoriuscita», si usava dire con formula che appariva chissà perché più elegante) dal capitalismo a favore di un’economia pianificata dove il mercato sia umiliato e persino abolito. Anche «socialdemocratico», del resto, risultava al tempo termine indigesto, quasi un insulto. Nella casa craxiana invece no, perché nell’Internazionale socialista che raccoglieva le forze riformiste in Europa, la socialdemocrazia era un orizzonte condiviso, almeno dal Congresso della Spd tedesca a Bad Godesberg, che sancì nel 1959 l’abbandono del marxismo. Craxi impose a una sinistra italiana ancora riluttante e malmostosa la sfida della cultura riformista che era orgogliosa di definirsi tale. Il Psi, che stava per estinguersi e che nelle elezioni politiche del 1976 aveva raggiunto il minimo storico, invece non era infiammato da questo orgoglio, a parte la sensibilità dell’autonomismo di Pietro Nenni, sul cui terreno il craxismo era cresciuto. Ma fu Craxi ad aprire quello che Luciano Cafagna, uno studioso acuto del mondo riformista (cresciuto con Antonio Giolitti assieme a Giuliano Amato) e la cui grandezza stenta anche oggi ad essere riconosciuta come dovrebbe se non incombesse l’ombra di una sciocca damnatio memoriae antisocialista, avrebbe definito «duello a sinistra». Ed era la forza e anche la baldanza di chi aveva scatenato questo «duello» ad alimentare attorno alla figura di Bettino Craxi un’atmosfera di ostilità, se non di demonizzazione ideologica. Un Psi subalterno, culturalmente arrendevole, politicamente gregario, tendenzialmente frontista, era un interlocutore accettabile per un partito di massa, tre volte più grande, egemone nel mondo della cultura, fortemente radicato nel senso comune di sinistra come il Pci. Ma Craxi era tutto il contrario, ed era un «contrario» aggressivo, fortemente fiero della propria autonomia e diversità. Cominciò presto a diffondersi nel Pci ancora «eurocomunista» la leggenda nera di un Craxi colpevole di aver sottoposto la nobile tradizione del socialismo italiano a una snaturante «mutazione genetica». Nell’immaginario della sinistra vicina al Pci, l’hotel Raphael, dove Craxi aveva posto il suo quartier generale, stava diventando quasi il covo del nemico (che poi si vorrà espugnare a suon di monetine e con le forme di un linciaggio simbolico nel momento più incandescente di Tangentopoli, anche a costo di mescolarsi davanti all’albergo-covo con leghisti e fascisti). Nelle feste dell’«Unità» si esibiva come forma iconica di avversione assoluta per il rivale del Psi «la trippa alla Bettino»: un fossato psicologico tra due partiti che sembravano ripiombati nello stesso clima scissionista del 1921, quando a Livorno si consumò, proprio alla vigilia del fascismo, la rottura leninista con il partito di Filippo Turati. Del resto Craxi non perdeva occasione per marcare la differenza rispetto al Pci e al clima del compromesso storico che rischiava di schiacciare tutte le forze intermedie. Nei giorni del rapimento Moro (16 marzo-9 maggio 1978) occupò lo spazio di una posizione favorevole alla trattativa per la liberazione del leader democristiano, privilegiando la difesa della persona sul culto statolatrico della politica, attirando su di sé l’ira dello schieramento della «fermezza». Non ebbe esitazione, malgrado le ambigue piazze pacifiste del «meglio rossi che morti», a pronunciarsi per l’installazione dei Pershing e dei Cruise nella base di Comiso (fortemente voluta e promossa, è il caso di ricordare, dal cancelliere socialdemocratico tedesco di allora, Helmut Schmidt) come risposta all’offensiva sovietica dei missili SS-20. Volle cancellare dal simbolo l’icona dal sapore bolscevico della falce e martello in favore di un garofano come contrassegno di una sinistra liberale, e persino «anticomunista», termine tabù almeno fino al crollo del muro di Berlino. E qualche anno dopo aprì un contenzioso sulla sterilizzazione della scala mobile, come misura anti-inflazionistica in un’Italia massacrata da un’inflazione mostruosa, destinato a provocare una frattura radicale con la maggioranza della Cgil. Craxi era duro, determinato, amato dai suoi seguaci ma circondato da un’antipatia invincibile da parte dei suoi detrattori. In un congresso socialista a Verona, non esitò, violazione plateale del bon ton politico, ad assecondare i fischi verso l’ospite Enrico Berlinguer. Era caratterialmente sbrigativo, con un’ombra di arroganza che secondo i suoi avversari non poteva che riflettersi negativamente sulla natura della sua stessa leadership politica. La sua predicazione a favore del cosiddetto «decisionismo», di una democrazia capace di decidere, emancipandosi dalle pastoie della lentezza consociativa e della paralisi istituzionale, che oggi appare quasi un’ovvietà, venne perciò liquidata come una velleità autoritaria e Craxi prese ad essere raffigurato con indosso gli stivali mussoliniani. La «grande riforma» craxiana fu vista e vissuta addirittura come un pericolo per la democrazia e non come un’opportunità per la sua rigenerazione. Qualche lustro più in là, con la Prima Repubblica in soffitta e Craxi confinato ad Hammamet, i contenuti della riforma craxiana entreranno nel cuore del dibattito politico, ma nessuno volle chiedere scusa a chi era stato bollato come «fascista» per avere proposto un disegno istituzionale troppo in anticipo sui tempi. Ma il paradosso principale è che proprio in quegli anni venne da parte socialista, anche grazie al riconoscimento di una sensibilità comune con i radicali di Marco Pannella, un risveglio nella difesa garantista dello Stato di diritto (alimentata dallo sfregio che si consumò con la persecuzione di Enzo Tortora) e nella battaglia a favore dei diritti civili. Un’attenzione liberale e libertaria e liberal-socialista (si parlò molto allora, specialmente con Enzo Bettiza, di un polo cosiddetto Lib-Lab), poco frequentata nella sinistra italiana e non solo italiana, e che peraltro è stata alla base della martellante polemica socialista e craxiana sulla natura irrimediabilmente autoritaria e liberticida dei regimi comunisti. Oggi sembra quasi lunare che si dovesse polemizzare sul totalitarismo comunista con chi non aveva spezzato in via definitiva tutti i legami con il mondo circondato dai reticolati del Muro di Berlino, ma ancora nel cuore degli anni Settanta Carlo Ripa di Meana, molto vicino al nuovo corso craxiano, venne fatto bersaglio di attacchi furibondi dai maggiorenti della cultura comunista per avere organizzato a Venezia una Biennale del dissenso che pure godeva del sostegno di Andrej Sacharov, perseguitato dal regime sovietico. La guerra contro la cosiddetta «propaganda anticomunista» era ancora in piena attività e solo tre anni prima da parte degli intellettuali del Pci Aleksandr Solženitsyn era stato accusato di avere «esagerato» con la sua denuncia del Gulag. Poi naturalmente la nostalgia gioca brutti scherzi, e si ricostruisce il passato depurandolo delle sue brutture. Come è una bruttura la condanna all’oblio che pesa ancora sulla figura di Craxi, svilita a caso giudiziario, cancellando un pezzo di storia italiana e un pezzo importante della storia della sinistra. Quando Massimo D’Alema entrò a Palazzo Chigi, qualcuno ebbe per esempio l’ardire di sostenere che si trattasse del primo uomo di sinistra a diventare premier. Era un errore, una gaffe storica, se non una menzogna deliberata, molto simile a quella diffusa da chi qualche anno prima aveva insinuato che il leader del Psi avesse addirittura depredato la fontana milanese davanti al Castello, trasportandola nottetempo ad Hammamet: una orribile fake news che nessuno ebbe il desiderio di contrastare nel furore della «caccia al Cinghialone». A precedere D’Alema a Palazzo Chigi era infatti stato proprio Bettino Craxi, leader di una sinistra riformista, liberale, moderna, ma senza soggezione nei confronti del potere incontrollato del mercato e del salotto buono dell’economia, che infatti lo ripagò con l’ostilità e addirittura con forme nemmeno velate di diffidenza antropologica. Se questa clamorosa dimenticanza non verrà sanata, ancora una volta non saremo stati capaci di fare i conti con noi stessi e di raccontare una storia completamente diversa dalla demonologia di comodo che ha dominato la memoria collettiva in questi ultimi vent’anni sulla stagione craxiana. Non per fare l’agiografia di Craxi, che commise molti e imperdonabili errori, ma per ristabilire un minimo di verità storica. Ben vengano un film e un anniversario per ricominciare a capire quello che è accaduto.
L’errore della sinistra: dopo Berlinguer ha preferito Mani Pulite a Craxi. Fabrizio Cicchitto il 9 Gennaio 2020 su Il Riformista. Il “problema Craxi” va molto al di là del “culto della memoria” che giustamente portano avanti la sua famiglia e quell’area politica e culturale che si richiama al socialismo italiano. Nella prima parte di questo articolo, ieri, abbiamo posto la questione del PCI. Il nodo centrale è costituito dalla scelta fondamentale fatta dal PDS negli anni 90 dopo il crollo del Muro e del comunismo in Russia e nell’Europa dell’Est. Recentemente, da una fonte insospettabile quale è Mario Tronti, è venuto il riconoscimento che dopo il Muro di Berlino i miglioristi offrirono l’unica via razionale e valida al PDS, quella riformista e socialdemocratica che aveva come conseguenza l’unità con il PSI di Craxi. Ma c’è di più. Giorgio Amendola addirittura nel 1964, prima della sua incredibile involuzione filosovietica, aveva proposto un partito unico della sinistra sulla base di una riflessione di straordinaria anticipazione degli eventi successivi: «Nessuna delle due soluzioni prospettate dalla classe operaia dei paesi capitalistici dell’Europa Occidentale degli ultimi cinquant’anni, la soluzione socialdemocratica e la soluzione comunista, si è rivelata fino ad ora valida al fine di realizzare una trasformazione socialista della società, un mutamento del sistema». Amendola lanciò questo sasso nello stagno con grande anticipazione e quindi la sua suggestione fu bocciata da tutti, da un lato da tutto il PCI, dall’altro lato anche da Nenni e da Saragat. Nel PSI solo Fernando Santi la prese in seria considerazione. Nei primi anni ’90 “i ragazzi di Berlinguer” con sfumature differenziate fra Occhetto e D’Alema (perché il primo puntava ad una fuoriuscita “da sinistra” dal comunismo) seguirono la strada opposta, cioè quella espressa in modo netto proprio da D’Alema nel suo libro-intervista, che era quella di collocarsi nello stesso spazio del PSI sostituendosi ad esso e quindi puntando sulla sua distruzione, successivamente avvenuta cavalcando lo sbocco unilaterale di Mani Pulite. Perché parliamo di “sbocco unilaterale” di Mani Pulite? Perché Tangentopoli era un sistema che coinvolgeva tutti i grandi gruppi economici privati e pubblici (compresa la Fiat e la CIR) e tutti i partiti (compresi il PCI e la sinistra democristiana) tant’è che al suo decollo, quando ancora non era chiaro quale sarebbe stato il comportamento politico reale del pool dei Pm di Milano. Achille Occhetto si precipitò nuovamente alla Bolognina per chiedere scusa agli italiani, sostenendo giustamente che altrettanto avrebbero dovuto fare Forlani per la DC e Craxi per il PSI. Poi invece il pool di Milano e il circo mediatico (composto dai quattro principali quotidiani i cui direttori o i loro delegati si consultavano ogni sera alle 19, dal TG3 di Sandro Curzi, già direttore di Radio Praga, da Samarcanda di Santoro), con una incredibile forzatura giudiziaria e mediatica, criminalizzarono Craxi e tutto il PSI, i partiti laici, il centro-destra della DC salvando il PDS e la sinistra democristiana malgrado che anch’essi si finanziassero irregolarmente (per una dimostrazione documentata di tutto c’è una bibliografia sterminata: fra tutti rimandiamo al libro fondamentale di Ivan Cecconi, purtroppo volutamente ignorato La storia del futuro di Tangentopoli). L’originario gruppo dirigente del PDS si è illuso che quella mediatica-giudiziaria fosse la scorciatoia che gli consentiva di conquistare il potere senza pagare dazio, cioè senza approdare ad una reale Bad Godesberg, anzi traducendo il leninismo in giustizialismo e la “diversità” comunista in molteplici forme di massimalismo sociale. Questa “furbizia” strategica e tattica ha invece portato il PDS-DS e poi il PD in un vicolo cieco. Prima essi si sono trovati davanti Berlusconi contro il quale, malgrado uno straordinario uso politico della giustizia, non sono mai riusciti a prevalere definitivamente. Nel 2011 entrambe le due coalizioni per evitare il collasso finanziario si sono dovute affidare al rigorismo assoluto del governo Monti, e l’intreccio fra impotenza dei governi e il rigorismo estremo ha prodotto il populismo antiparlamentare e antindustriale dei grillini e il sovranismo razzista di Matteo Salvini. Allora l’apertura di una riflessione su Craxi, in occasione del ventennale della sua morte, dovrebbe essere l’occasione per una parte almeno del PD non solo di esprimere un equanime giudizio su di lui, ma paradossalmente proprio per riflettere su se stessa, su alcune scelte di fondo riguardanti il rapporto con il maggior potere politico e mediatico oggi esistente in Italia, che è quello della magistratura, quindi sullo stato di diritto e sullo stato sociale, sull’immigrazione, sui rapporti con le imprese, con i ceti medi, con la classe operaia, con i giovani. Senza questo revisionismo a 360° che faccia davvero i conti con quella che a suo tempo è stata la felice provocazione craxiana nei confronti dell’establishment, espresso dall’intreccio fra berlinguerismo e scalfarismo, il PD è destinato ad una vita grama. La stessa rottura di Italia Viva dovrebbe preoccuparlo, non solo per quello che di dirompente assume qualunque iniziativa renziana, ma per il nocciolo culturale che, comunque, Italia Viva e anche Calenda esprimono rispetto alla stanca riproposizione degli stereotipi dell’Ulivo che dal 2008 ha esaurito il suo ruolo “propulsivo”.
· Craxi e l’impunità dei comunisti.
La Cia non si fidava di Dc e Psi e puntò su Berlinguer. Paolo Guzzanti il 22 Novembre 2019 su Il Riformista. Ieri abbiamo raccontato come gli Stati Uniti e gli alleati occidentali fossero inclini a portare i comunisti italiani al governo durante gli anni del Compromesso storico (fallito per la soppressione del contraente e garante Aldo Moro) per due ragioni solide. La prima era incoraggiare lo strappo del Pci da Mosca, iniziato da Enrico Berlinguer con la scelta dell’ombrello della Nato e il riconoscimento della fine della “spinta propulsiva della Rivoluzione d’ottobre”, ma poi rimasto senza una vera conclusione, ciò che impediva agli alleati occidentali di condividere i segreti militari. La seconda era il desiderio di liberarsi di democristiani e socialisti che si erano rivelati infidi o addirittura nemici. Per questo era cominciata una marcia di avvicinamento fra il Dipartimento di Stato e la stessa Central Intelligence Agency, verso il Pci. La nota amicizia e reciproca stima fra Giorgio Napolitano ed Henry Kissinger non sono casuali. E credo che quando Giuliano Ferrara dice di aver lavorato per la Cia, intenda dire di avere aderito a questo progetto, anche se bisognerebbe chiederlo a lui.Nel Partito dunque si era formata e consolidata una forte corrente filoamericana duramente contrastata da quella filosovietica di Armando Cossutta. Ciò che interessava agli Occidentali non era affatto – come sosteneva la propaganda ispirata dall’Urss – imporre governi golpisti, reazionari, padronali e nemici dei sindacati, ma semmai il contrario: la Cia ha sempre perseguito una linea dura antisovietica, ma per quanto possibile riformista e anche apertamente di sinistra purché schierata contro l’Urss. Al Dipartimento di Stato americano interessava aver la certezza che il personale di governo in Italia non andasse a spifferare ai russi segreti di natura militare e strategica. Ciò che invece era accaduto in alcuni casi con il personale specialmente democristiano. Le informazioni che sto cercando di ordinare hanno le loro fonti in alcuni testi fondamentali, ascoltati negli anni della mia presidenza della Commissione bicamerale d’Inchiesta sulle influenze sovietiche in Italia, nel lavoro che ho svolto in quanto appartenente, per molti anni, alla delegazione parlamentare italiana presso la Nato. D’altra parte, il racconto che sto per fare non contiene alcun segreto ma solo molto buon senso e può essere facilmente verificato e confermato con ricerche accessibili. Cominciamo da Michail Gorbaciov. Chi era costui? Era il pupillo, il prescelto e selezionato dall’uomo più intelligente, anche spietato, ma molto ben informato dirigente che l’Unione Sovietica abbia avuto. Stiamo parlando di Yuri Andropov, che fu prima il sovrano direttore del KGB per ben quindici anni, dal 1967 al 1982, anno in cui successe a Leonid Breznev, l’uomo immobile dalle enormi sopracciglia. Andropov vide che la partita fra Urss e Stati Uniti con i loro alleati, era in prospettiva una partita persa. E allevò, come suo successore e uomo di fiducia, Gorbaciov, che aveva un appeal di tipo occidentale per vivacità intellettuale, età e anche per avere una moglie elegante come Raissa che poteva fare bella figura sulla scena internazionale. Poi le cose si svolsero in maniera convulsa e imprevista perché Andropov morì prematuramente il 9 febbraio 1984, troppo presto per consolidare la successione del suo candidato Gorbaciov, sicché le vecchie cariatidi del Cremlino insediarono il più immobilista della loro cerchia, Konstantin Cernienko. Gorbaciov fu costretto a saltare un turno e aspettare la morte di costui per salire sul podio più alto del governo sovietico. Per comprendere la natura della politica militare di quella fase, che riguardò direttamente la politica italiana per la vicenda dei cosiddetti Euromissili, occorre fare un passo indietro, piuttosto lungo. Bisogna cioè risalire all’inizio della Guerra Fredda, quando i Paesi occidentali si erano riuniti nell’Alleanza Atlantica della Nato e quelli dell’Est, sotto stretto comando sovietico, nel Patto di Varsavia da cui si sfilò soltanto la Romania di Ceausescu, che pagò con la vita il suo sgarro in epoca gorbacioviana. Esiste un libro che si chiama A Cardboard Castle? – An inside story of the Warsaw Pact 1955-1991, che nessun editore italiano ha trovato conveniente tradurre e pubblicare. Questo testo, certificato dai documenti originali, lo si può acquistare via Internet e vale quel che costa. Il volume contiene, insieme a due eccellenti saggi, tutti i verbali di tutte le riunioni del Patto di Varsavia, dalla prima – 1955 – all’ultima – 1991 – seduta. Se si ha la pazienza di leggere, si scopre che ogni riunione ripete con alcune varianti, lo stesso schema: le potenze occidentali attaccano proditoriamente il blocco dell’Est che, dopo aver fermato l’aggressione, prontamente contrattacca penetrando nell’Europa occidentale con operazioni velocissime e brutali, e uso di un buon numero di armi atomiche tattiche (cioè relativamente piccole ma capaci di polverizzare una città) per sigillare le coste atlantiche e rendere uno sbarco americano impossibile. Per questo il Patto di Varsavia aveva bisogno di missili “a medio raggio” (cioè non in grado di attraversare l’Atlantico e colpire gli Stati Uniti) ma capaci di mettere a tacere le difese europee. Qualcuno si chiederà a quale scopo l’Urss e i suoi satelliti avrebbero compiuto una tale azione. Sia Gorbaciov che Eltsin hanno fornito la spiegazione, ben illustrata anche dall’intellettuale dissidente russo residente a Londra Vladimir Bukowski, mio caro amico scomparso da poco, che scrisse un magistrale Urss, come l’Unione Sovietica voleva inghiottire l’Europa dopo essere stato internato proprio da Yuri Andropov in un lager in cui i prigionieri venivano mantenuti in stato di sonnolenza perenne. In breve, il programma che Andropov tentò disperatamente di spingere e che poi fallì, prevedeva una conquista fulminea dell’Europa occidentale, Italia compresa naturalmente, in cui sarebbero stati instaurati dei governi fantoccio ma con finte coalizioni precotte con ecologisti, finti socialdemocratici, non troppi comunisti per dare una parvenza “democratica”. I missili SS20 a testata multipla furono installati dai russi nei Balcani e in Italia si scatenò un inferno politico contro l’installazione di missili Cruise e Pershing 2 in Sicilia, capaci di contrastare tali armi. L’installazione cominciò nel 1983 e in Italia, come nei principali Paesi europei, le sinistre e i movimenti pacifisti dimostrarono duramente contro questi missili di risposta. Nella lotta politica che si svolse in Parlamento e sulla stampa, oltre che nelle piazze, il Pci dopo alcuni contorcimenti e qualche dissenso interno, si schierò sulla linea gradita all’Unione Sovietica. Questo causò una frattura molto profonda anche nell’Italian Desk di Washington, dove gli americani avevano sperato a lungo che il Partito comunista italiano seguisse l’indicazione di Berlinguer, che nel frattempo era scomparso, secondo cui ci si sentiva più protetti sotto l’ombrello della Nato. Ma anche con questa frattura, peraltro prevista realisticamente, non furono annullati i rapporti speciali tra la frazione filoamericana del Partito comunista e Washington.
· Craxi e l’ombra delle influenze esterne.
Francesco Perfetti per “il Giornale” il 22 maggio 2020. Michael Ledeen (Los Angeles, 1941) giunse in Italia negli anni '60. Era un giovane simpatico e cordiale, un ebreo americano discendente da una famiglia di origine russa trasferitasi in America nei primi del '900. Si era laureato con George Mosse, del quale era diventato collaboratore all'università del Wisconsin, ed era venuto nel nostro Paese con una borsa di studio per approfondire il ventennio fascista. L’intelligenza vivace, la curiosità intellettuale e la simpatia umana gli fecero stringere, nell' ambiente non esclusivamente di storici che ruotava attorno a Renzo De Felice, molte amicizie. Anche per me, mi fa piacere ricordarlo per incidens, Michael Ledeen divenne un caro amico, anzi l'«amico americano». I suoi primi libri apparsi in Italia, L' internazionale fascista (1973) e D' Annunzio a Fiume (1975), furono ben accolti, soprattutto il secondo che rappresenta a mio parere un momento di svolta nella letteratura storiografica sull' impresa fiumana. Tuttavia il successo e la notorietà giunsero con l'Intervista sul fascismo (1975) a Renzo De Felice destinata a suscitare un vespaio e un linciaggio intellettuale contro De Felice. A Roma Ledeen frequentava intellettuali, politici, giornalisti e inviava corrispondenze ad alcune testate americane. Nel 1976 scrisse, con la giornalista Claire Sterling un articolo sui finanziamenti sovietici al Pci che fece scalpore in Italia e in Urss e cominciò a far circolare la leggenda che egli fosse un agente della Cia utilizzato per screditare i comunisti. In seguito lavorò in importanti think tanks e ricoprì incarichi di rilievo presso la Casa Bianca, il Dipartimento di Stato, il Dipartimento della Difesa, il National Securuty Council diventando un ascoltato analista politico. Il tutto, sempre, con uno sguardo privilegiato rivolto all'Italia che considerava quasi una seconda patria. Un bilancio della sua intensa vita, di studioso ma anche di testimone e protagonista di alcune significative svolte della storia, Ledeen lo tenta oggi nel volume-intervista di Marco Cuzzi e Andrea Vento La versione di Michael. Un amerikano alla scoperta dell' Italia (Biblion) nel quale è ripercorso un quarantennio di storia italiana e internazionale: un periodo segnato da fatti come la recrudescenza della guerra fredda, la stagione del terrorismo, l' impatto epocale della caduta del muro di Berlino, la fine della prima repubblica in Italia e la nascita della seconda. Di molti di questi fatti Ledeen racconta verità sgradite o svela retroscena. A proposito dell' attentato a Giovanni Paolo II nel 1981, Ledeen ribadisce con forza, per esempio, il fatto che esso fu pianificato dai servizi segreti militari sovietici come risposta all' attivismo politico del pontefice in Polonia. E aggiunge che l'ordine fu impartito da Leonid Breznev in persona: «In un sistema totalitario perfetto è il vertice che decide tutto. L' Urss era un totalitarismo perfetto. E Breznev ne era al vertice». Sul ruolo dei servizi segreti sovietici Ledeen ricorda che furono attivi in Italia già dagli anni '20, all' indomani della rivoluzione russa, e stabilirono legami organici con i capi del partito comunista italiano regolarmente convocati a Mosca per ricevere direttive e finanziamenti. La loro più importante operazione nell' Italia del secondo dopoguerra fu «quella di prendere possesso della cultura di massa e degli intellettuali, delle scuole, dei libri di testo, delle università» realizzando una gigantesca falsificazione della Storia «per motivi puramente politici, quelli di conquistare e dominare la cultura italiana». La totale spregiudicatezza dei servizi sovietici emerse durante la stagione del terrorismo: essi «appoggiavano con una mano le Br e al contempo finanziavano anche il Pci» con un comportamento solo in apparenza ambiguo perché in realtà utilizzavano «i terroristi di estrema sinistra in Italia proprio per provare il patriottismo e la moderazione del Pci». Interessanti sono le considerazioni di Ledeen su Tangentopoli. A differenza di chi sostiene che l' inchiesta fu un regolamento di conti con Craxi dopo la vicenda di Sigonella, egli è categorico: «No. Craxi, lo so perché allora collaboravo con il Governo americano, era letteralmente adorato a Washington. Anche con tutta la faccenda di Sigonella e le altre cose! Craxi era il miglior alleato che l' America avesse potuti trovare in Italia in quegli anni. E ciò nonostante Craxi era il più filoarabo di tutti i tempi». E ancora: «Il governo americano, sia alla Casa Bianca sia al Dipartimento di Stato amava Craxi. Craxi era il miglior primo ministro immaginabile per loro». Tuttavia Tangentopoli segnò la fine di Craxi e aprì la strada al periodo berlusconiano iniziato con la vittoria elettorale del 1994: una vittoria che Ledeen aveva allora ritenuto «improbabile come tutti quanti» e che era giunta a sorpresa anche per il governo americano che, però, in quel momento, non si era mostrato preoccupato dal possibile successo della «gioiosa macchina da guerra» di Achille Occhetto. Gli americani erano sereni sia perché ritenevano che l' Italia fosse diventata «periferica» dopo la caduta del muro di Berlino sia perché erano convinti che l' ascesa al potere del Pds non sarebbe stata «una minaccia per la Nato e per la nostra alleanza». Ledeen ricorda anche come molti intellettuali americani tifassero per la vittoria dei postcomunisti: «avevano sempre creduto che i comunisti al potere fossero una cosa buona per l' Italia». Del resto, anche prima del crollo del muro, tra gli anni '70 e '80, alcuni ambienti della Cia caldeggiavano una politica distensiva nei confronti di Mosca e dei Paesi del Patto di Varsavia e strizzavano l'occhio al Pci. Nell' intervista Ledeen ricostruisce fatti e retroscena della politica italiana e internazionale fino ai nostri giorni e si lascia andare, sui protagonisti, a giudizi lapidari: Andreotti è «un uomo affascinante, innanzitutto un uomo del Vaticano»; Putin «un classico zar russo»; Netanyahu «il più bravo leader occidentale»; Macron, il «solito arrogante francese». Ce n' è anche per Papa Francesco, «simpatico, ma troppo di sinistra», e persino per Giuseppe Conte, «uomo di transizione» che «certo non è un Napolitano». Il tutto nel quadro di una interpretazione che, come giustamente recita il titolo, è «la versione di Michael».
La Cia non si fidava di Dc e Psi e puntò su Berlinguer. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 22 Novembre 2019. Ieri abbiamo raccontato come gli Stati Uniti e gli alleati occidentali fossero inclini a portare i comunisti italiani al governo durante gli anni del Compromesso storico (fallito per la soppressione del contraente e garante Aldo Moro) per due ragioni solide. La prima era incoraggiare lo strappo del Pci da Mosca, iniziato da Enrico Berlinguer con la scelta dell’ombrello della Nato e il riconoscimento della fine della “spinta propulsiva della Rivoluzione d’ottobre”, ma poi rimasto senza una vera conclusione, ciò che impediva agli alleati occidentali di condividere i segreti militari. La seconda era il desiderio di liberarsi di democristiani e socialisti che si erano rivelati infidi o addirittura nemici. Per questo era cominciata una marcia di avvicinamento fra il Dipartimento di Stato e la stessa Central Intelligence Agency, verso il Pci. La nota amicizia e reciproca stima fra Giorgio Napolitano ed Henry Kissinger non sono casuali. E credo che quando Giuliano Ferrara dice di aver lavorato per la Cia, intenda dire di avere aderito a questo progetto, anche se bisognerebbe chiederlo a lui. Nel Partito dunque si era formata e consolidata una forte corrente filoamericana duramente contrastata da quella filosovietica di Armando Cossutta. Ciò che interessava agli Occidentali non era affatto – come sosteneva la propaganda ispirata dall’Urss – imporre governi golpisti, reazionari, padronali e nemici dei sindacati, ma semmai il contrario: la Cia ha sempre perseguito una linea dura antisovietica, ma per quanto possibile riformista e anche apertamente di sinistra purché schierata contro l’Urss. Al Dipartimento di Stato americano interessava aver la certezza che il personale di governo in Italia non andasse a spifferare ai russi segreti di natura militare e strategica. Ciò che invece era accaduto in alcuni casi con il personale specialmente democristiano. Le informazioni che sto cercando di ordinare hanno le loro fonti in alcuni testi fondamentali, ascoltati negli anni della mia presidenza della Commissione bicamerale d’Inchiesta sulle influenze sovietiche in Italia, nel lavoro che ho svolto in quanto appartenente, per molti anni, alla delegazione parlamentare italiana presso la Nato. D’altra parte, il racconto che sto per fare non contiene alcun segreto ma solo molto buon senso e può essere facilmente verificato e confermato con ricerche accessibili. Cominciamo da Michail Gorbaciov. Chi era costui? Era il pupillo, il prescelto e selezionato dall’uomo più intelligente, anche spietato, ma molto ben informato dirigente che l’Unione Sovietica abbia avuto. Stiamo parlando di Yuri Andropov, che fu prima il sovrano direttore del KGB per ben quindici anni, dal 1967 al 1982, anno in cui successe a Leonid Breznev, l’uomo immobile dalle enormi sopracciglia. Andropov vide che la partita fra Urss e Stati Uniti con i loro alleati, era in prospettiva una partita persa. E allevò, come suo successore e uomo di fiducia, Gorbaciov, che aveva un appeal di tipo occidentale per vivacità intellettuale, età e anche per avere una moglie elegante come Raissa che poteva fare bella figura sulla scena internazionale. Poi le cose si svolsero in maniera convulsa e imprevista perché Andropov morì prematuramente il 9 febbraio 1984, troppo presto per consolidare la successione del suo candidato Gorbaciov, sicché le vecchie cariatidi del Cremlino insediarono il più immobilista della loro cerchia, Konstantin Cernienko. Gorbaciov fu costretto a saltare un turno e aspettare la morte di costui per salire sul podio più alto del governo sovietico. Per comprendere la natura della politica militare di quella fase, che riguardò direttamente la politica italiana per la vicenda dei cosiddetti Euromissili, occorre fare un passo indietro, piuttosto lungo. Bisogna cioè risalire all’inizio della Guerra Fredda, quando i Paesi occidentali si erano riuniti nell’Alleanza Atlantica della Nato e quelli dell’Est, sotto stretto comando sovietico, nel Patto di Varsavia da cui si sfilò soltanto la Romania di Ceausescu, che pagò con la vita il suo sgarro in epoca gorbacioviana. Esiste un libro che si chiama A Cardboard Castle? – An inside story of the Warsaw Pact 1955-1991, che nessun editore italiano ha trovato conveniente tradurre e pubblicare. Questo testo, certificato dai documenti originali, lo si può acquistare via Internet e vale quel che costa. Il volume contiene, insieme a due eccellenti saggi, tutti i verbali di tutte le riunioni del Patto di Varsavia, dalla prima – 1955 – all’ultima – 1991 – seduta. Se si ha la pazienza di leggere, si scopre che ogni riunione ripete con alcune varianti, lo stesso schema: le potenze occidentali attaccano proditoriamente il blocco dell’Est che, dopo aver fermato l’aggressione, prontamente contrattacca penetrando nell’Europa occidentale con operazioni velocissime e brutali, e uso di un buon numero di armi atomiche tattiche (cioè relativamente piccole ma capaci di polverizzare una città) per sigillare le coste atlantiche e rendere uno sbarco americano impossibile. Per questo il Patto di Varsavia aveva bisogno di missili “a medio raggio” (cioè non in grado di attraversare l’Atlantico e colpire gli Stati Uniti) ma capaci di mettere a tacere le difese europee. Qualcuno si chiederà a quale scopo l’Urss e i suoi satelliti avrebbero compiuto una tale azione. Sia Gorbaciov che Eltsin hanno fornito la spiegazione, ben illustrata anche dall’intellettuale dissidente russo residente a Londra Vladimir Bukowski, mio caro amico scomparso da poco, che scrisse un magistrale Urss, come l’Unione Sovietica voleva inghiottire l’Europa dopo essere stato internato proprio da Yuri Andropov in un lager in cui i prigionieri venivano mantenuti in stato di sonnolenza perenne. In breve, il programma che Andropov tentò disperatamente di spingere e che poi fallì, prevedeva una conquista fulminea dell’Europa occidentale, Italia compresa naturalmente, in cui sarebbero stati instaurati dei governi fantoccio ma con finte coalizioni precotte con ecologisti, finti socialdemocratici, non troppi comunisti per dare una parvenza “democratica”. I missili SS20 a testata multipla furono installati dai russi nei Balcani e in Italia si scatenò un inferno politico contro l’installazione di missili Cruise e Pershing 2 in Sicilia, capaci di contrastare tali armi. L’installazione cominciò nel 1983 e in Italia, come nei principali Paesi europei, le sinistre e i movimenti pacifisti dimostrarono duramente contro questi missili di risposta. Nella lotta politica che si svolse in Parlamento e sulla stampa, oltre che nelle piazze, il Pci dopo alcuni contorcimenti e qualche dissenso interno, si schierò sulla linea gradita all’Unione Sovietica. Questo causò una frattura molto profonda anche nell’Italian Desk di Washington, dove gli americani avevano sperato a lungo che il Partito comunista italiano seguisse l’indicazione di Berlinguer, che nel frattempo era scomparso, secondo cui ci si sentiva più protetti sotto l’ombrello della Nato. Ma anche con questa frattura, peraltro prevista realisticamente, non furono annullati i rapporti speciali tra la frazione filoamericana del Partito comunista e Washington.
Usa Craxi, l’ombra degli Usa sulla fine del leader socialista. Roberto Vivaldelli su Oltrelalinea.news il 21 Gennaio, 2020. Il ventennale della morte di Bettino Craxi ha risollevato un tema cruciale nella storia repubblicano, rimasto tabù per tanti, troppi anni. La domanda è quella che si pone Il Messaggero: ci furono o non ci furono le influenze degli Stati Uniti sui giudici di Mani Pulite e sull’inchiesta che portò alla liquidazione di Craxi? Già diversi anni fa, in un’intervista rilasciata a La Stampa e ripresa da Il Giornale, Reginald Bartholomew, ambasciatore degli Stati Uniti in Italia dal 1993 al 1997, “rivendicava” il merito di aver rimesso sui binari della politica il rapporto fra Washington e l’Italia”. Come? Pose fine a quello strano legame diretto che si era creato tra il Consolato e il pool di Mani pulite – tollerato dal suo predecessore Peter Secchia – e riportò la gestione dei rapporti a Roma, all’ambasciata. Potrebbe essere la conferma, sia pure indiretta, dell’esistenza di un rapporto tra gli Usa e l’inchiesta che spazzò via la classe politica che aveva governato l’Italia per oltre 40 anni. Ora Marcello Sorgi nel suo libro Presunto colpevole: gli ultimi giorni di Craxi (Einaudi, 2020), da poco uscito in occasione del ventennale della scomparsa del leader socialista, aggiunge ulteriori tasselli: «Che qualcosa ci sia stato, e il lavoro dei pm di Mani Pulite abbia potuto essere monitorato dall’occhio attento degli osservatori Usa, questo è sicuro». Ci si riferisce poi a quanto scritto da Daniel Serwer, incaricato d’affari presso l’ambasciata americana a Roma, in un dispaccio inviato a Washington nel 93, sulla base di informazioni ricevute da parte di magistrati di Milano: «Si dice che un protagonista dell’inchiesta potrebbe essere un pupazzo manovrato dagli Usa».
Le ombre Usa sulla fine di Craxi. Come scrive Francesco Carlesi sul Primato Nazionale, Sorgi restituisce invece la complessità di Tangentopoli, e descrive i contatti della Procura di Milano con il console americano Peter Semler, con il “falco” Micheal Ledeen e con l’incaricato d’affari presso l’ambasciata americana Daniel Serwer. Quest’ultimo parla di un «pupazzo» togato al servizio degli Usa nel quadro delle inchieste, riferendosi molto probabilmente a Di Pietro. Come nota Il Messaggero, alla base di tutto, c’è che da Craxi, quando diventa il personaggio di spicco della democrazia italiana, gli americani – anche prima di Sigonella – si aspettavano di più. O meglio, volevano una minore pervicacia, da parte sua, nel rifiutare quella subalternità automatica al gigante d’Oltreoceano di cui Washington aveva bisogno. Su questo punto Sorgi è molto netto ed esaustivo. Gli strascichi insanabili della vicenda di Sigonella fanno naturalmente parte di questa storia.
L’esposto di Vittorio Sgarbi. «Un esposto alla magistratura perché apra una inchiesta a 360 gradi per fare luce su eventuali manovratori del pool mani pulite, ed in particolare dell’allora procuratore Antonio Di Pietro. E una commissione d’inchiesta parlamentare». Lo annuncia Vittorio Sgarbi, deputato alla Camera, che così osserva: «C’è un punto a tutt’oggi irrisolto di quel colpo di stato giudiziario: con azioni giudiziarie chirurgiche fu fatta fuori l’intera classe dirigente del PSI, e con il partito il suo potente leader Bettino Craxi, lasciando, nei fatti, via libera al Pci-Pds che potè così liberarsi dello storico avversario. L’inchiesta giudiziaria da un lato e la commissione parlamentare da un lato dovranno verificare se nell’azione dei magistrati milanesi siano intervenuti soggetti esterni, se ci furono contatti tra magistrati italiani e istituzioni anche straniere che possono avere influito sulla natura e sul fine di quella operazione giudiziaria. Insomma, se ci fu una regia esterna in tutto questo. Credo siano maturi i tempi per una inchiesta giudiziaria a tutto campo che apra uno squarcio su quella pagina oscura della lotta politica in Italia. Con il pretesto di una generica lotta alla corruzione furono sovvertiti gli equilibri politici ed istituzionali» Nel suo esposto Sgarbi riprende molte delle anomalie raccolte in anni di studi e inchieste dal giurista Ferdinando Cionti, autore del libro «Colpo di Stato»: «Colpo di Stato fu, e non solo giudiziario – scrisse Cionti alla fine di un lungo lavoro di ricerca sull’attività del Pool Mani Pulite – la matrice di Tangentopoli fu anche politica. Si basò sul patto d’acciaio fra il Pool di Mani Pulite e un partito dai molti nomi: Pci/Pds/Ds/Pd». (di Roberto Vivaldelli)
Maurizio Caverzan per La Verità il 27 gennaio 2020.
Il cellulare di Paolo Cirino Pomicino squilla con insistenza.
«Sono l' ultimo sopravvissuto che parla e mi cercano in tanti», si giustifica. «Ma devo fare i conti con la mia età e le mie energie». Ottantenne, con il cuore e un rene trapiantati e un lungo avvenire dietro le spalle, l' ex ministro del Bilancio dei governi Andreotti, ha ancora le giornate piene: «Partecipo a convegni, seguo la politica e sono presente in alcuni consigli di amministrazione».
Lo incontro nel suo ufficio romano, scrivania affollata di carte e giornali.
Quante vite ha, onorevole Pomicino?
«Diverse. Anche perché sono nato il 3 settembre 1939, alle 7 del mattino. Alle 11 la Gran Bretagna dichiarò guerra alla Germania di Hitler e alle 17 la Francia fece altrettanto».
Nato sotto le bombe.
«Sì, ma fin da subito c' era il segno della Provvidenza. Perché il mio arrivo consentì a mio padre di non essere chiamato al fronte in quanto padre di cinque figli».
Dalla data di nascita e dall' esenzione militare di suo padre ha preso più lo spirito combattivo o quello pacifico?
«Entrambi. In quegli anni bisognava saper scegliere i nascondigli giusti per ripararsi dalle bombe, ma anche saper combattere per sopravvivere e riacquistare la libertà. La famiglia numerosa è stata una grande scuola di tolleranza».
Invece, la scuola vera?
«Ci andai a 5 anni. Ho fatto tutti gli studi dai Fratelli delle scuole cristiane».
Come mai?
«Mia madre era una donna di grande fede. Quando mio fratello Mariano, secondogenito, morì a 33 anni, e le diedi la notizia, rivolgendosi a un quadro della Madonna di Pompei, disse piangendo: "Non ti capisco, ma te lo affido". Quella testimonianza ci ha accompagnato in tanti altri momenti tragici».
Lei è medico chirurgo, specializzato in neurologia.
«In malattie nervose e mentali, per l' esattezza. Ho fatto dieci anni d' ospedale, diventando assistente ordinario in neurochirurgia e poi aiuto nella divisione di neurologia».
E invece come diventò ministro del Bilancio e della Funzione pubblica con Andreotti e De Mita?
«Arrivai alla Camera nel 1976, ma dopo la prima legislatura nella commissione Sanità, scelsi quella del Bilancio, dove fui presidente per 5 anni, facendo diventare quella commissione leggendaria grazie anche a tutti i suoi autorevoli componenti».
Come si avvicinò ad Andreotti?
«Alle politiche del 1972 Giulio fu capolista a Napoli. E, da giovane consigliere comunale, m' impegnai per la sua elezione. Ebbi modo di conoscerlo e insieme ad altri amici fondammo la corrente andreottiana».
Perché la chiamavano 'o ministro?
«Il copyright è di una rivista scandalistica che agiva nel sottobosco della politica. E che, non avendomi in simpatia, manifestò così il suo disprezzo. Miserie».
Come nacque Geronimo, altro soprannome, stavolta scelto da lei, con il quale firmava commenti e retroscena sui quotidiani?
«Da una telefonata a Vittorio Feltri quando dirigeva l' Indipendente e titolò in prima pagina "Pomicino inguaia Napolitano". Telefonai per contestarlo e Feltri prese atto. Quando lo invitai a chiamarmi se avesse avuto bisogno di un articolo, mi disse: "Lo scriva oggi"».
Geronimo?
«Era il grande capo Apache che non si arrese alle truppe nordiste. Ed anch' io continuo a non arrendermi».
Ai magistrati?
«Non solo a loro e alle loro truppe mediatiche».
Non godeva di buona stampa?
«Prima del 1992 sì, tanto che nel 1991 ebbi una visita di Carlo De Benedetti, con il quale c'era un rapporto di stima reciproca, che mi spiegò il disegno politico al quale stava lavorando».
Un governo nel quale lei avrebbe dovuto essere ministro.
«Sì, in un sistema politico diverso da quello vigente. Risposi scherzosamente dicendo che, a nostra volta, io e Andreotti stavamo pensando a un grande disegno industriale e volevamo lui come nostro imprenditore. Fu il primo segnale dello scontro tra finanza e politica».
Dopo quel rifiuto cambiò l'atteggiamento dei giornali del gruppo Espresso?
«Già mi erano contro, ma poi divennero feroci».
Altre vite: il trapianto di cuore nel 2007.
«E quello di rene nel 2019 Il trapianto di cuore fu preceduto da due interventi di by pass, a Houston nel 1985 e a Londra nel 1997. Nel 2006, l' anno prima del trapianto ero stato rieletto deputato con la nuova Dc di Gianfranco Rotondi ma, contro il mio parere, eravamo confluiti nel Pdl. Parte di quella breve legislatura la feci in ospedale. Poi Silvio Berlusconi decise di non candidarmi, facendomi un piacere».
Perché?
«Potei iniziare una nuova vita».
Infatti nel 2014 si è sposato con Lucia Marotta, di 27 anni più giovane.
«Dal 2000 ero separato. Ho incontrato una donna intelligente e generosa con la quale dopo diversi anni mi sono sposato civilmente».
Perché ha intitolato il suo libro sulla seconda repubblica La Repubblica delle giovani marmotte?
«È un' immagine per descrivere la nuova situazione politica dopo Mani pulite. Diventammo improvvisamente un Paese privo di ogni cultura politica. Siamo l' unico Paese europeo, infatti, a non avere un partito liberale, socialista, verde o democratico cristiano. La responsabilità fu del vecchio Pci che, alimentando l' opzione giudiziaria per sconfiggere i partiti del vero centrosinistra, lavorò per cancellare la cultura politica di tutti avendo perduto la propria».
Mani pulite è una conseguenza del crollo del Muro di Berlino.
«Sotto le sue macerie non è rimasto solo il partito comunista ma, grazie ai ragazzi della via Pál della Procura di Milano, anche i partiti che avevano vinto la battaglia della storia. Mani pulite fu voluta dalla borghesia azionista guidata da De Benedetti. Il quale pensava di essere la nuova testa del futuro governo del Paese, che avrebbe sommato l'élite finanziaria e industriale del salotto buono del capitalismo italiano al Pci di Achille Occhetto e Luciano Violante, ancora in possesso di una forte organizzazione territoriale».
Sui giornali e nelle ricostruzioni storiche si è parlato poco di questo disegno.
«Nel 1992, quando il centrosinistra raccolse il 55% dei consensi, doveva iniziare una legislatura a guida socialista con un presidente della Repubblica democristiano. Un assetto politico non gradito all' intelligence americana e a quell'area composta dal Pci e dalla borghesia azionista che sognava di fare grandi affari con la vendita, o meglio la svendita, del 25% dell'economia italiana in mano pubblica a finanziarie internazionali. Basta leggere le memorie di Giuseppe Guarino per rendersene conto».
Una svendita che poi è realmente avvenuta.
«Oggi si è completata. Ma invece di risanare i conti pubblici, il debito si è triplicato, passando, a moneta corrente, da 839 miliardi di euro del 1991 a 2.400 miliardi attuali, con un pesante impoverimento del ceto medio. I famosi esponenti del salotto buono del capitalismo italiano sono andati all' estero o hanno venduto agli stranieri, o sono falliti. E il Paese è rimasto senza politica, senza economia e con una ricchezza elitaria».
La nascita dei populismi è la reazione a questa situazione?
«Non c' è dubbio. Il populismo l' abbiamo conosciuto anche nel 1948 con Guglielmo Giannini, ma allora i grandi partiti lo inglobarono subito. Oggi, invece, quel vuoto della politica e delle sue culture ha reso l' Italia un Paese di consumatori e di produttori per conto terzi. Questo vuoto è stato riempito prima dal populismo rabbioso guidato da Beppe Grillo, poi da quello leghista, più organizzato e dotato di una certa identità politica».
Quali errori ha commesso in questi anni Matteo Salvini?
«Il primo è stato aver fatto un' intesa con i 5 stelle che sono la vera grande anomalia del Paese. Abbiamo affidato ruoli di responsabilità pubblica a personaggi inadeguati di cui Danilo Toninelli è stato il simbolo. L' unico fatto positivo è stato che Salvini ha ridotto alla metà il consenso dei 5 stelle».
Nessun altro errore?
«Un altro è quello di insistere sul cosiddetto sovranismo. Una cosa è riformare l' Unione europea di oggi, un' altra è vagheggiare una autarchia nel pieno della globalizzazione. Anche Donald Trump e Vladimir Putin vorrebbero sgretolare l' Unione europea per fare sul Vecchio continente una nuova Yalta».
Salvini è uno dei pochi politici che quando commette errori come in questi giorni lo ammette?
«Credo di sì ed è un' ottima scelta di marketing politico».
Di Matteo Renzi scrive che è uno scout scelto da «terribili forze che lo hanno sempre sostenuto». Chi sono queste forze?
«Ambienti finanziari nazionali e internazionali che desiderano stabilità politica. Renzi rappresentava questa speranza, ma è stato purtroppo divorato dal personalismo, ritenendo di poter colloquiare con il popolo eliminando i cosiddetti corpi intermedi. Un errore di gioventù. Ha dimenticato che un grande leader è quello che convince non quello che ordina».
Che cosa significa il fatto che in soli tre anni il Pd di Renzi e il M5s hanno visto drasticamente ridimensionati i loro consensi?
«Che non sanno rispondere alla domanda che qualunque elettore alla fine fa ai partiti: prima di dirci cosa volete, spiegateci chi siete».
Un difetto di identità?
«Esatto».
Un rischio che corre anche la Lega di Salvini?
«Non a caso Giancarlo Giorgetti, di formazione democristiana, ha suggerito di mettere la foto di Renzi sulla scrivania.La Dc e il Pci e il Psi sono durati quarant' anni perché avevano un' identità e i loro elettori un senso di appartenenza».
Dopo le dimissioni di Luigi Di Maio quanto durerà il M5s?
«Sarà sempre più insignificante e prima o poi divorato dal Pd e dalla Lega».
Con la globalizzazione tramontano i partiti e prevalgono i poteri forti?
«Non per la globalizzazione, che è un processo inarrestabile, ma per la finanziarizzazione dell' economia che è la vera peste del terzo millennio. Inoltre, la finanza controlla l' 80% dell' informazione dando vita così a un intreccio di potere fortissimo».
Lei nota che per quasi trent' anni il ministro dell' Economia è stato un tecnico. La scelta di Roberto Gualtieri deve rincuorarci?
«Credo proprio di sì, ma deve ancora prendere confidenza con la finanza pubblica e con un' economia stagnante».
Nei giorni scorsi si è tornato a parlare del tesoro di Bettino Craxi, ma non si parla mai del tesoro immobiliare di Antonio Di Pietro.
«Sono i grandi silenzi di quella stampa che applaudiva alla distruzione del sistema politico che aveva fatto dell' Italia la quinta potenza industriale».
Di recente Di Pietro ha detto che non puntava contro Craxi, ma sull' ambiente malavitoso che girava attorno ad Andreotti.
«Le balle di Di Pietro non si contano più. Giovanni Falcone, eroe dell' antimafia, fu direttore degli Affari penali nel governo Andreotti e un giorno, come ho testimoniato al processo di Palermo, mentre ero in attesa nell'ufficio di Andreotti, ne vidi uscire Falcone e Salvo Lima insieme. Se tanto mi dà tanto, allora anche Falcone sarebbe stato amico degli amici».
Con i 5 stelle al governo cresce il potere della magistratura?
«Cresce il potere dei pubblici ministeri, che è una cosa diversa, perché essi sono gli unici italiani non punibili nell' esercizio del proprio ufficio».
Manette agli evasori e abolizione della prescrizione.
«Tutti poteri dei pm che nella maggior parte dei casi soggiogano i giudici delle udienze preliminari, ma per fortuna non i collegi giudicanti. Infatti, circa il 40% dei processi si conclude con l' assoluzione. L' ideologo di queste leggi è Piercamillo Davigo».
Il 40% dei processi si conclude con l' assoluzione, ma spesso non lo si viene a sapere, com' è accaduto nel caso dell' ex ministro Calogero Mannino.
«È una vicenda scandalosa. Mannino è stato assolto dopo vent' anni di sofferenze e oltre due anni di carcere preventivo. Tutto, nel silenzio complice di gran parte del mondo dell' informazione».
Qual è il suo giudizio sul governo attuale?
«Vuole che spari sulla Croce rossa? Certi video spiegano meglio di tante parole. Quello che mostra il tentativo del premier di mettersi in prima fila nella foto opportunity a Berlino suscita tenerezza per Conte e preoccupazione per l' Italia».
Come andranno le elezioni in Emilia Romagna?
«Vincerà Stefano Bonaccini e la Lega sarà il primo partito. A meno di sorprese sempre possibili».
Non trova che le sardine siano piuttosto esangui?
«Le sardine rappresentano il bisogno di avere una politica all' altezza di un Paese moderno e con un linguaggio civile».
Non è l' antisalvinismo la loro prima istanza?
«Sono partite così, ma sottotraccia la richiesta è rivolta anche ai 5 stelle e a un Pd sempre più smarrito e spesso preda, come a Napoli, di ex magistrati che ritenevano la Dc napoletana collusa con la camorra. I giudici li hanno sbugiardati, ma il Pd li ha premiati».
· Craxi ed i Socialisti.
La ripubblicazione. Ripubblicati gli interventi di Turati: “Il massimalismo è il male del socialismo”. Giuliano Cazzola su Il Riformista il 2 Ottobre 2020. Le vie maestre del socialismo è un volume curato da Rodolfo Mondolfo che raccoglie i principali interventi di Filippo Turati: dal resoconto sommario del discorso tenuto al Congresso di Imola l’8 settembre 1902 fino al resoconto stenografico dell’intervento svolto il 19 gennaio 1921 al Congresso di Livorno (durate il quale ebbe luogo la scissione da cui nacque il Partito comunista d’Italia). La prima edizione del libro risale al 1921 (la ristampa è del 1981); pertanto la raccolta non contiene gli atti del Congresso di Bologna del 1922 in cui divenne definitiva la rottura del partito con l’espulsione di Turati e della corrente riformista in conformità con le direttive della III Internazionale di indirizzo comunista che aveva imposto 21 condizioni (tra le quali, appunto, l’espulsione dei riformisti) al Psi a maggioranza massimalista per accettarne l’adesione. Nel Congresso dell’anno precedente (il 1921) la richiesta non era stata accolta; tale rifiuto divenne uno dei motivi della scissione comunista. Tuttavia, la precaria unità di Livorno non aveva attenuato i contrasti interni che paralizzavano il partito, proprio mentre stava dilagando lo squadrismo fascista e appariva sempre più urgente una iniziativa del movimento operaio. Turati, critico verso la «intransigenza contemplativa» dei massimalisti, utilizzava il suo prestigio in seno al gruppo parlamentare per rilanciare l’idea di una collaborazione con i popolari e i liberali contro i fascisti, in contrasto – fino alla rottura definitiva – con la direzione del Psi che puntava su una ripresa delle lotte di massa e dell’unità coi comunisti. I riformisti espulsi diedero vita al Partito socialista unitario (Psu.) – di cui fu eletto segretario Giacomo Matteotti – che si ispirava al tradizionale riformismo turatiano, ricercando la collaborazione con le forze politiche borghesi e operando per la riunificazione di tutti i socialisti su una linea di netta demarcazione dai comunisti rivoluzionari. Leggendo i discorsi di Turati si scopre un oratore eccezionale, non solo per la lucidità del pensiero, per l’analisi delle situazioni, per la memoria e l’interpretazione degli eventi nel divenire della storia del partito e del Paese, ma anche per la sottostante cultura classica e filosofica, per la capacità di esposizione, per l’ironia e le metafore che arricchiscono l’esposizione. In verità, a vedere il numero delle pagine dei testi trascritti (veri e propri saggi di politica, di storia ed altre umanità) ci si rende conto che i suoi interventi non avevano limiti di tempo, nonostante che subissero numerose interruzioni e creassero un clima da “botta e risposta” con l’uditorio per via delle divergenti idee e passioni politiche. Ma Turati tirava diritto senza perdere il filo del ragionamento e alla fine riscuoteva l’applauso di tutto il Congresso (con l’eccezione di quanti gli rivolgevano un polemico “viva la Russia”). Tanti sarebbero gli stimoli che provengono da quei discorsi, ma non possiamo affrontarli tutti. Ci soffermiamo sulla polemica di Turati a proposito del “massimalismo” in contrapposizione con la dottrina del “riformismo”, tratta dall’intervento che il grande socialista svolse al Congresso di Bologna del 1919. «Noi non crediamo al “massimalismo” – esordì Turati – Per noi un massimalismo semplicemente non esiste e non è mai esistito. Il massimalismo è il nullismo; è la corrente reazionaria del socialismo». Anche le distinzioni tra rivoluzionari e riformisti, fra transigenti e intransigenti «non sono che equivoci». «Vi è insomma il socialismo dei socialisti e quello degli imbecilli e dei ciarlatani». «La verità è che il suffragio universale, quando diventi consapevole, e questa non può essere che questione di propaganda e di evoluzione economica e civile, è l’arma più formidabile e più direttamente efficace per tutte le conquiste». «Tutta l’esperienza accumulata nelle lotte sindacali, politiche, elettorali, nei Comuni, nelle Province, con la propaganda indefessa, con l’azione parlamentare, con l’azione nei comizi e nei corpi consultivi per la legislazione sociale, nei Congressi nazionali ed internazionali, attraverso le persecuzioni fortemente patite, tutto ciò ha dato i suoi frutti, ha ampliato la nostra visione, ha fatto di noi uno dei partiti più forti in Italia e all’estero (….) Ora tutto questo dovrebbe andare per aria, tutta questa esperienza sarebbe stata pura perdita. Una nuova rivelazione s’è fatta improvvisamente come per prodigio. Al socialismo si sostituisce il comunismo (…) e un gretto ideale di violenza armata e brutale, la cosiddetta dittatura del proletariato che esclude d’un solo colpo dalla vita sociale tutte le altre capacità, tutti gli altri contributi, tutte le altre classi, la stessa grande maggioranza dei lavoratori; onde è chiaro che essa in realtà non sarebbe, non potrebbe essere per lunghissimo tempo, che la dittatura di alcuni uomini sul proletariato». Poi Turati assunse toni implacabili: «La violenza non è altro che il suicidio del proletariato (…. ) Oggi non ci pigliano abbastanza sul serio; ma quando troveranno utile prenderci sul serio, il nostro appello alla violenza sarà raccolto dai nostri nemici, cento volte meglio armati di noi». Sono parole che hanno in sé il dolore della profezia. Turati fu ancora più lucido profeta nel suo discorso al Congresso di Livorno del 1921. Rivolgendosi alla maggioranza massimalista e alla frazione comunista disse: «Ogni scorcione allunga il cammino; la via lunga è anche la più breve perché è la sola». E gettando lo sguardo oltre l’orizzonte di decenni ammonì: «Avrete allora inteso appieno il fenomeno russo che è uno dei più grandi fatti della storia, ma di cui voi farneticate la riproduzione meccanica e mimetistica, che è storicamente e psicologicamente impossibile e, se lo fosse, ci condurrebbe al Medioevo». «Tutte queste cose voi capirete tra breve e allora il programma, che state faticosamente elaborando e che ci vorreste imporre, vi si modificherà tra le mani e non sarà più che il nostro vecchio programma». «Ond’è – Turati si avviava alla conclusione – che quand’anche voi aveste impiantato il Partito comunista e organizzati i Soviet in Italia, se uscirete salvi dalla reazione che avrete provocata e se vorrete fare qualche cosa che sia veramente rivoluzionario, qualcosa che rimanga come elemento di società nuova, voi sarete forzati a vostro dispetto – ma lo farete con convinzione perché siete onesti (questo riconoscimento si è rivelato forse troppo generoso? ndr) – a ripercorrere completamente la nostra via, la via dei social-traditori di una volta; e dovrete farlo perché essa è la via del socialismo, che è il solo immortale, il solo nucleo vitale che rimane dopo queste diatribe». «Voi temete oggi di ricostruire per la borghesia, preferite lasciar cadere la casa comune e fate vostro il “tanto peggio tanto meglio” degli anarchici, senza pensare che il “tanto peggio” non darà incremento che alla Guardia regia e al fascismo». Quando Filippo Turati parlava così era il 19 gennaio del 1921. Il 28 ottobre dell’anno successivo ebbe luogo la Marcia su Roma. Turati morì in esilio a Parigi il 29 marzo del 1932. A Livorno era stato profeta anche di se stesso: «Voi non intendete ancora che questa ricostruzione, fatta dal proletariato con criteri proletari, per se stesso e per tutti, sarà il miglior passo, il miglior slancio, il più saldo fondamento per la rivoluzione completa di un giorno. Allora, in quella noi trionferemo insieme. Io forse non vedrò quel giorno…. Ma le riforme sono la via della rivoluzione e non si conquistano se non con lo sforzo assiduo, continuo, organico di tutte le classi popolari, unite ai rappresentanti dei partiti, con un’azione continua di erosione del privilegio: non v’è altra via».
Il dibattito tra massimalisti e riformisti. La lotta e l’accordo, così nel 1920 vinse la strada riformista. Giuliano Cazzola su Il Riformista il 14 Ottobre 2020. Il 19 settembre del 1920 Giovanni Giolitti convocava le parti sociali a Roma, al Viminale allora sede della Presidenza del Consiglio, con l’intento di raggiungere un “concordato” che ponesse fine all’occupazione delle fabbriche (che era in corso, in alcune aree del Paese, da una ventina di giorni e che quindi durò meno del “maggio francese” del 1968). Lo statista liberale si era rifiutato – nonostante le pressioni degli industriali – di usare la forza per liberare le fabbriche dagli occupanti. Aveva intuito che l’unica possibilità di una soluzione incruenta risiedeva nel riuscire a riportare la vertenza sul terreno sindacale da cui era nata, sbandando nell’escalation delle forme di lotta: gli operai avevano adottato metodi di ostruzionismo a cui gli imprenditori avevano risposto con la serrata e i sindacati avevano di conseguenza ordinato l’occupazione delle fabbriche metallurgiche (poi estesa anche ad altri settori dell’industria e non solo). In pochi giorni il movimento aveva coinvolto 500 mila lavoratori, con picchetti armati sui cancelli degli stabilimenti. Giolitti era convinto che gli stessi dirigenti della Cgil e della Fiom, da veri socialisti riformisti, lavorassero per la sua stessa prospettiva, essendo consapevoli che proseguendo in quella lotta – all’inseguimento della chimera della rivoluzione – la classe operaia sarebbe stata condotta al massacro. All’incontro, nella sala del Consiglio dei Ministri al Viminale, erano presenti – scrive Paolo Spriano – oltre a due prefetti (Lusignoli e Taddei) – D’Aragona, Baldesi e Colombino per la Cgil, Marchiaro, Raineri e Missiroli per la Fiom; Conti, Crespi, Olivetti, Falk, Ichino e Pirelli per la Confederazione dell’Industria. Giolitti presiedeva la riunione e volle accanto a sé D’Aragona. Dopo sei ore di discussione il concordato venne sottoscritto. I suoi contenuti economici e normativi rappresentarono un successo per il sindacato, tanto che, il testo, sottoposto a referendum, fu approvato dalla grande maggioranza dei lavoratori. Ma, in quella stagione di miraggi, anche i sindacalisti riformisti non potevano evitare di misurarsi con l’obiettivo della socializzazione dei mezzi di produzione e di scambio; occorreva essere, quindi, convincenti e competitivi con quelli che promettevano di “fare come la Russia”, attraverso la scorciatoia della rivoluzione. In sostanza, non sarebbe bastato un risultato importante sul piano sindacale se non fosse stato considerato una tappa nella marcia del “proletariato” verso il socialismo. Così nel “concordato” la Cgil e la Fiom dovettero trovare una soluzione anche per la questione del “controllo operaio” (che era la “bestia nera” degli industriali) quale alternativa a chi prometteva i Soviet. Giolitti aveva sbloccato lo stallo mediante un decreto legge – scrive Paolo Spriano – che istituiva una “Commissione paritetica di 12 membri, incaricandola di formulare quelle proposte che possono servire al governo per la presentazione di un progetto di legge”. Anche allora vi era la consapevolezza che le Commissioni servissero per accantonare delle questioni difficili, sia pure attribuendo ad esse un valore fittizio rispondente sulla carta ai desiderata delle organizzazioni sindacali. Fatto sta che, in sede politica, la questione del controllo operaio divenne la cartina di tornasole del rilievo (o meno) dell’intesa. Sull’Avanti! del 21 settembre (due giorni dopo l’accordo) Giacinto Menotti Serrati, leader della maggioranza massimalista, iniziò l’offensiva critica. Partendo da un apprezzamento del risultato dal punto di vista sindacale, per quanto riguardava gli aspetti economici e normativi, Serrati sostenne che il concordato non fosse soltanto una vittoria dei metallurgici, ma anche di Giovanni Giolitti. Le critiche più severe, tuttavia, afferivano alla problematica del controllo operaio. «Il conquistato controllo delle fabbriche, quando pure riuscisse a funzionare non potrà che rappresentare una mistificazione o una corruzione. Il controllo – proseguiva l’esponente del Psi – è di per se stesso collaborazione. Se fatto veramente sul serio conduce inevitabilmente a trasformare gli operai in aiuti interessanti della gestione borghese». E di nuovo: «L’ora critica della vita nazionale non si chiude con un concordato di puro carattere sindacale»; aggiungendo poi un auspicio visionario: «Non passerà lungo tempo – saranno forse poche settimane – che una nuova lotta si ingaggerà indubbiamente», perché «la borghesia italiana non si salva con la firma apposta dai signori industriali al concordato imposto da Giovanni Giolitti». Gli rispose Filippo Turati su Critica Sociale (il quindicinale dei riformisti). «La rivendicazione del controllo operaio, mantenuto nei limiti in cui oggi è possibile e fruttuoso esercitarlo, è essa stessa una rivoluzione, la più grande, dal punto di vista socialista, dopo il conquistato diritto di coalizione e il suffragio universale, in quanto incide direttamente il diritto di proprietà, nella sua preminente matrice capitalistica». «Scopi immediati della riforma vogliono essere – in linea con le ripetute dichiarazioni della Confederazione Generale del Lavoro (allora saldamente diretta dai socialisti riformisti, ndr) – rendere il lavoratore partecipe della gestione dell’azienda, elevare la sua dignità, imparargli a conoscere i congegni amministrativi dell’industria, evitare di questa le degenerazioni speculazionistiche, ridestare nel lavoratore la spinta al lavoro, intensamente e gioiosamente produttivo». E da qui partiva la parte politica del ragionamento di Turati: «La futura graduale socializzazione delle industrie è condizionata a questi risultati più prossimi». A un secolo di distanza non siamo in grado di giudicare la buonafede di Turati ovvero se fosse davvero convinto – pur sostenendo un indirizzo politico corretto e condivisibile – che la Commissione paritetica avrebbe portato a compimento l’incarico. È invece palese la malafede di Serrati. Come disse un esponente socialista milanese a commento della sessione della Direzione del Psi che mise all’ordine del giorno la rivoluzione: «Noi sentivamo che la rivoluzione non si sarebbe fatta, perché la rivoluzione non si fa convocando prima un convegno dove si deve andare a discutere se si dovrà fare o non fare la rivoluzione. Questa è roba da Messico che si è voluto trasportare nel nostro Paese».
La lezione di riformismo di Filippo Turati sul come rifare l’Italia. Redazione su Il Riformista il 25 Giugno 2020. Pubblichiamo stralci del discorso pronunciato il 26 giugno del 1920 da Filippo Turati alla Camera dei deputati. Onorevoli colleghi e compagni! L’idea madre del mio modesto discorso è semplice. Vera oggi, come ieri, come domani; ma, nel mutare inevitabile dei tempi, diverso può esserne il punto di applicazione. Se ogni lotta di classe è lotta essenzialmente politica e viceversa, è evidente che ogni politica trae colore e vigore dalla classe sulla quale essenzialmente si appoggia. Rivolgendomi oggi alle classi borghesi, le quali, se anche non nelle proporzioni di una volta, hanno pur sempre la dirigenza della società, in un certo senso posso dir loro: oggi, o non più ! Del resto, questo dell’urgenza, è un sentimento che in diverse forme trapela da ogni discorso, è nello stato d’animo di ciascuno di noi. Lo stesso onorevole Giolitti, cui si imponeva, per il posto che occupa, la maggiore prudenza di parola, non temette, e fece bene, di parlare di fallimento imminente, improrogabile, se non si corre ai ripari. Quale fallimento? Di chi? Come deprecabile? Questo è il tema generale della discussione. II suffragio universale, questa necessità che tutti abbiamo voluto, e di cui siamo i figli, ha generato, nella sua molteplice prole, un figlio cattivo: il gesto demagogico; la gara, dirò meglio, dei gesti demagogici. Noi dovremmo, come Bruto, condannare a morte questo figliolo traditore. Noi dovremmo insorgere contro di esso. Il demagogismo non è affatto, come si pretende, un privilegio dei partiti avanzati. C’e un demagogismo dei conservatori e dei Governi, che è di gran lunga il peggiore. La politica non è questo: non dovrebbe essere questo; e lo sarà sempre meno, quanto più i popoli diverranno consapevoli. La politica non è nell’agguato, non è negli intrighi, non è nell’arrembaggio ai Ministeri, non è nelle sapienti combinazioni parlamentari, non è nelle competizioni degli uomini; non è nei sonanti discorsi. È, o dovrebbe essere, nell’interpretare l’epoca in cui si vive, nel provvedere a che l’evoluzione virtuale delle cose sia agevolata dalle leggi e dall’azione politica. Questa interpretazione e questa azione sono essenzialmente una tecnica. E una tecnica, essenzialmente, è anche il socialismo. Noi stessi lo dimentichiamo troppo spesso, forse, quando nel fervore degli attacchi e dei contro-attacchi, subiamo noi stessi l’avvelenamento di tante illusioni, l’asfissiamento di tanto fumo. Il socialismo, nel suo primo e più grande assertore, è l’espressione ideale dell’evoluzione dello strumento tecnico; è lo sforzo di adeguare le condizioni politiche della vita sociale alle necessità materialistiche del momento storico. In questo senso, e in doppio senso, il socialismo è scientifico: in quanto sorge dalla coscienza storica, e quindi scientifica, dell’evoluzione; e in quanto chiama la scienza a proprio servizio. La schiavitù cessa, secondo il vecchio motto famoso, quando la spola comincia a camminare da sé sul telaio. Il socialismo è nella macchina a vapore, più che negli ordini del giorno; è nella elettricità, più che in molti, cari compagni, dei nostri congressi. Ora voi tutti, signori, cercate, in questo momento, più che mai la salvezza : la salvezza del Paese e la vostra. Anche i socialisti cercano la salvezza del Paese e la loro. Se oggi il partito socialista, così com’è, sembra ad alcuni eccessivo di intransigenza, di vivacità, di precipitazione, pensino coloro, che di questo lo accusano, che ciò è l’effetto fatale della guerra, la quale ha creato nelle masse uno stato di insurrezione psichica che non sarà domato se non da conquiste reali, radicali e profonde. E il partito deve riflettere questo stato delle masse, per interpetrarle, ed eventualmente anche per poterle contenere. Chi spera che le differenze inevitabili di tendenze, che sono in ogni partito vivo, debbano condurci al distacco, allo sfacelo, credo che si inganni. Credo fermamente, e non da oggi e non per opportunità del momento, nella fondamentale necessità dell’unità del partito socialista. (…). Nelle sezioni del nostro gruppo si studiano proposte di legge e provvedimenti positivi, col consenso anche dei nostri più estremi estremisti, che eventualmente potrebbero anche essere l’àncora di salvezza per quel tanto di regime borghese, che è giusto debba per un certo tempo, sopravvivere nella zona del trapasso storico. Questa incoerenza formale è la prova che siamo vivi; che la formula ci serve ma non ci opprime; che sappiamo distinguere, e che non confondiamo quella che sarebbe collaborazione vera e propria di partiti e di classi, pericolosa in dati momenti, specialmente pericolosa per i più deboli, da quella che è coincidenza o comunione inevitabile di interessi vitali, insuperabile in qualunque convivenza sociale; che abbiamo nel nostro programma effettivo, quello che erompe nell’azione la quale è la grande pacificatrice delle tendenze, l’oggi e il domani, l’oggi per il domani, il domani per l’oggi. Certo non è più, oggi, la ormai arcaica distinzione del programma minimo e del programma massimo, come si concepiva una volta, che era un po’ una concezione cattolica, forse più del vecchio che del nuovo cattolicismo. (…) Perciò si parla, non da noi soltanto, di periodo rivoluzionario, di crisi di regime : di regime politico, di regime sociale. Molti di voi ripetono oggi, e molti credo in buonissima fede, che molto bisognerà concedere per non perdere tutto, per mantenere la compagine sociale, dico la compagine, non dico l’attuale compagine; per conservare ciò che è degno di essere conservato, ciò che è necessario ai supposti eredi del domani; per non precipitare insomma nell’anarchia, che è un po’ la sorella, un po’ la figlia del capitalismo, e che sta in diametrale antagonismo teorico, che è la negazione in termini, del socialismo. Molti sentono fra voi che ciò che siamo usi chiamare l’ordinaria amministrazione, non basta più. Lo sentì l’onorevole Nitti, che si ribellò, almeno idealmente, al trattato di Versailles che era (e dico che era perchè si può forse cominciare a parlarne al passato prossimo) il capitalismo, nella sua più cruda espressione, applicato alla politica internazionale; era la pace di guerra, così come il capitalismo, all’interno e all’estero, è sempre la guerra anche in tempo di pace. L’onorevole Nitti prese dai socialisti le principali direttive della sua politica estera; forse avrebbe prese da essi anche molte direttive nella politica interna, se i socialisti gliele avessero offerte. E più volte preluse all’inevitabile, all’augurabile avvento di un Governo laburista in Italia. Ma l’azione, soprattutto nella politica interna, fu impari, forse per acerbità di casi e di tempi, alla fede professata e ne tenne la sua fatale caduta. Così è tornato l’onorevole Giolitti, il cui ritorno a quei banchi sembra l’epilogo solenne di un vasto dramma, non soltanto suo personale, ma nazionale e storico, e trascende di gran lunga l’importanza di uno dei consueti avvicendamenti ministeriali. Bisognerebbe essere un po’ meno che uomini per non sentirlo, a qualunque idea si appartenga, sotto qualunque vessillo si militi (…). Ma dopo di lui molti vedono il buio, il nulla, l’abisso. Altri, dopo di lui, intravvedono l’alba; e ciascuno si sogna l’alba che più gli conviene. Certo è che la monarchia, in questo crollare fragoroso di troni e di dominazioni, non parve mai meno salda di ora anche in Italia. (…) E più si carezza il socialismo, e più esso rilutta e vi sfugge. Ora qui accade di ricordare una frase di Claudio Treves, che chiuse un suo mirabile recente discorso. Nel quale il mio amico analizzò la grande tragedia dell’ora, e a questa tragedia pose il nome: « Espiazione ». Espiazione, egli intese, della borghesia, che volle la guerra, che vinse la guerra, che non seppe e non sa darci la pace. (…) La borghesia, in questo momento, non è più capace di reggere il potere; il proletariato non è ancora pronto a riceverne la successione. Così Treves chiuse il suo discorso. (…) Ogni trapasso, anche se assume forme violente, è sempre un assorbimento del nuovo nel vecchio e del vecchio nel nuovo; con questo vantaggio che il vecchio non si rinnova e il nuovo non si rinvecchia. E questa è la rivoluzione. Perciò, ripeto, chi è assorbito assorbe. La generazione, la procreazione, la fecondità sono a questo patto. (…) Il gradualismo dell’onorevole Giolitti è un gradualismo prebellico, impari alle esigenze del momento, in ritardo di sei anni sul quadrante della storia. Il gradualismo è una magnifica cosa. Io sono accusato ogni giorno da questi miei turbolenti compagni di essere troppo gradualista. Comunque, il gradualismo è una cosa ammessa da tutti (abbiamo persino un massimalismo gradualista !) quando la natura delle cose lo consente. Quando insomma c’è tempo e si può aspettare. Allora, chi va piano va sano, e va qualche volta lontano. (…). Il rimedio primo, il più vero, vorrei dire il solo rimedio, è nel trasformare l’economia, non la finanza del Paese. Ciò che voi ponete dopo, deve venir prima, o almeno contemporaneamente. Tanto più che a rendere più spinose tutte le questioni, più difficili tutti i rimedi, concorre la crisi psicologica, la quale è causa ed effetto insieme della crisi economica, generate entrambe dalla guerra, mantenute dalla pace che non è pace; crisi che è una vera psicosi, diffusa, molteplice, universale, ma più grave in Italia, perchè è paese economicamente fra i più deboli di Europa. Non dirò dei fenomeni più appariscenti: il lusso sfrenato, rivoltante, che fa pensare con nostalgia, per quanto scettica, alle antiche leggi suntuarie. Ciò che più impressiona è lo spirito di indisciplina, che ha invaso tutte le classi sociali. Aggiungete il menomato rispetto della vita umana, dell’altrui come della propria. La guerra ha alterato profondamente tutti i consuetudinarii valori morali. La gente minaccia l’altrui vita, ed espone la propria, con una indifferenza non conosciuta prima della guerra. Il trattato di Versailles, che è – lasciatemi ripeterlo – l’espressione del capitalismo più crudo applicato alla politica internazionale, e la cui revisione si impone. Ora, su ciò tace completamente il programma del Governo. Se non che, forse, anche in questo silenzio è un argomento a favore della mia tesi, della preminenza, necessità ed urgenza assoluta della restaurazione economica del Paese, anche prima delle economie e dei provvedimenti finanziari. Perché, certo, finché noi saremo così strettamente vassalli dell’estero per il pane quotidiano quale voce effettivamente influente potremo avere nei consessi dei potentati, sia pure con le proposte Commissioni parlamentari? Dopo aver demolito la Germania, con nostro danno infinito, oggi dobbiamo pensare ad aiutarla a ricostruirsi per il nostro meglio; dopo aver combattuto la Russia, o almeno essere stati nella combriccola che si ingegnava di combatterla, dobbiamo fare di tutto per rappacificarci al più presto con quel grande ex impero ; dopo aver suscitato la guerra civile in Albania (a proposito, quanto c’è costata, onorevole Meda?) che si ripercuote in un’altra e ben peggiore guerra civile in Italia (e i fattacci di Ancona ammaestrano) dobbiamo dichiarare che rinunziamo (e ahimè! non farà ciò l’impressione della favola dell’uva acerba?) a ogni protettorato. E via via. Non vi è punto del trattato di Versailles che non sia tutto da rifare, da capovolgere. Senza dire che l’onorevole Giolitti, il quale fu già rimproverato, e sia pure a torto, di aver lasciata disarmata l’Italia (e dovette difendersene nel discorso di Dronero) e vuoti i magazzini militari, in un periodo pericoloso, certo non vorrà affrontare oggi la stessa accusa, nell’evento di altre guerre possibili. Ora, onorevole Giolitti, voi avete fatto, con nobili parole, appello all’Internazionale operaia, nel vostro discorso di Dronero, Per la salvaguardia della pace. Ma l’Internazionale proletaria non può esistere, non può essere forte, se non siano forti localmente, in ogni nazione, i proletariati organizzati ed i partiti socialisti. Ora questi proletariati e questi partiti cominciano ad avere la loro politica estera e cominciano ad imporla ai rispettivi Stati. È inutile dirvi che noi vogliamo soppresso il trattato di Versailles perchè esso è una abominazione, perchè esso è la proprietà privata applicata a tutto il mondo a beneficio di una egemonia. Ora l’onorevole Giolitti, nel discorso di Dronero, ha toccato tutta quanta la gamma della restaurazione economica. Agricoltura da industrializzare; emancipazione dal grano estero; chi lascia terre incolte commette un delitto (onde il suo progetto granario); confisca delle terre incolte; il cotone da coltivarsi nell’Eritrea o nel Benadir; irrigazione; istruzione agraria e tecnica serie; industrie che occupino più mano d’opera e meno materie prime, mentre sono ancora tanto care; utilizzazione delle forze idriche e quindi emancipazione dal carbone estero ecc., ecc. Insomma tutto il ricettario. Ossia Giolitti è ancora Nitti. E siamo, ripeto? tutti d’accordo ! Ma la questione non è nell’essere d’accordo in teoria; è nel volere e nel potere realizzare. Direi quasi che il problema è superiore alla volontà dell’uomo. Può il Ministero, con questa Camera, può la borghesia italiana, in questo momento, realizzare questo programma ? Lo vuole essa davvero? ’ Cè nel congegno del capitalismo italiano di quest’ora (poiché anche fra capitalismo e capitalismo bisogna spesso distinguere) qualche attrito invincibile che impedisca questa realizzazione? (…) Tanto più, badate, che in questo caso non si tratta di prestiti allo Stato, ma di prestiti alla Nazione. In altri termini: la soluzione della crisi, politica, economica, morale, crisi di regime, crisi di trapasso, chiamatela come meglio vi garba, consiste nel creare subito le condizioni economiche e politico-morali per cui la Nazione possa in breve termine raddoppiare la sua produzione. Oh Dio, non pigliate la parola « raddoppiare » nel senso strettamente aritmetico; non s’intende dire che si debba produrre il doppio di grano, il doppio di tessuti, ecc., ecc. ; s’intende resuscitare nuove sorgenti naturali, non artificiali, di energia nel Paese, perché esso possa superare il deficit. Quando questo si sarà ottenuto, si sarà molto più che raddoppiata la ricchezza. E ho parlato di condizioni economiche e di condizioni politico-morali, che sembrano due cose diverse e sono invece una sola; perchè non si creano veri miglioramenti economici senza certe riforme politiche – e questo dico alla borghesia – e non si riesce a trar profitto dalle riforme politiche – e questo dico ai miei compagni – senza certi coefficienti economici. Bisogna che il Governo d’Italia – borghese ? comunista? bolscevico?; Giolitti ? Misiano? Non importa il nome e la persona; non importa neppure l’etichetta, perchè “vi può essere un bolscevismo (vedi Russia) che finisce per creare tutto ciò che vi è di più antisocialista, la piccola proprietà: l’economia è più forte di tutte le formule e di tutti i programmi a tavolino; … bisogna, dicevo, che lo Stato italiano, diventi da politico, economico; anticipazione precipitata del comunismo classico, secondo la definizione e il presagio del nostro Engels, per il quale il «Governo degli uomini » doveva, nel comunismo, diventare «l’amministrazione delle cose ». È unicamente a questo patto che la situazione può essere salvata per tutti, per la borghesia e per il socialismo; senza di questo è irremissibilmente perduta per tutti; per noi e per voi. (…) L’uomo è l’operaio, il proletario lo scontento, il ribelle, il rivoluzionario, e sarà tale finché non ne avremo fatto il padrone del lavoro e della produzione. Questo è dunque il programma dell’avvenire. Io non so chi lo eseguirà. Io so che, senza questo elemento, dell’emancipazione dell’operaio, niente di questo si farà. E non occorre essere socialisti. Io ho trovato – mi è arrivato l’altro giorno e lo avrete ricevuto anche voi – in questo libro fatto tutto da parrucconi molto rispettabili – che contiene gli studi e le proposte della Commissione del dopo guerra presieduta da Vittorio Scialoja, a un dipresso le medesime mie conclusioni. Leggete la relazione del nostro ex collega onorevole Fava, presidente della sezione decima. Egli dice le medesime cose: «Se non create le condizioni necessarie all’interessamento degli operai nella produzione, dati i tempi mutati, data la psicologia del dopo guerra, non otterrete nulla di nulla». Una volta era questione di giustizia, oggi è questione di vita o di morte. Conosco altri due uomini che hanno veduto queste cose; e sono un antico ed un moderno. Il moderno è il dottor Ratenhau, forse il più geniale ricostruttore, che abbia dato la guerra ; il quale nella sua Economia nuova dimostra, meglio che io non abbia saputo, come questa valorizzazione dell’uomo in Germania – e oggi là le condizioni sono peggiori che in Italia – sia indispensabile per redimere il paese. Vorrei ottenere che la Economia nuova fosse letta dai colleghi deputati: il mio discorso avrebbe raggiunto tutto intero il suo scopo. Solo quel popolo – afferma l’autore -che prima avrà soppresso l’antagonismo che è fra l’operaio ed il capitale, solo quel popolo trionferà.
L'opinione. Cosa direbbe Turati delle nostre prigioni? Domenico Ciruzzi su Il Riformista il 24 Marzo 2020. «Fuggono anche i detenuti qualche volta, ma troppo di rado, e io vorrei che le evasioni fossero ben più numerose: me lo augurerei di cuore» (F. Turati, Il cimitero dei vivi, da un discorso alla Camera dei Deputati sulle condizioni del sistema carcerario del 1904). A fronte delle grida di dolore che si levano dalle carceri e dal personale penitenziario, il Governo ha tecnicamente risposto con una presa in giro – un “cinico bluff” come definito, con parole vere e chiare, dal presidente dell’Unione camere penali, Gian Domenico Caiazza – che, nella migliore delle ipotesi, consentirà a poche centinaia di detenuti di scontare il residuo di pena all’interno delle proprie abitazioni. La presa in giro si annida nella parte finale del provvedimento: la concessione della detenzione domiciliare è subordinata (salvo che per i detenuti con un residuo di pena inferiore a sei mesi) alla disponibilità dei braccialetti elettronici. Sì, proprio quegli introvabili braccialetti elettronici la cui cronica e colpevole indisponibilità è la causa di quasi la totalità delle custodie cautelari in carcere: è irridente; è disumano. Pochissimi dunque usciranno dal carcere ed, a turno – come in una sorta di tragica riffa – via via che i braccialetti si liberanno. Quella moderazione, quell’evitare fughe in avanti, quella sana logica del miglior compromesso possibile a cui ci si è sottoposti per tentare di raggiungere un risultato intermedio in grado di salvare numerose vite umane sembrerebbe essere risultata vana. Il confronto sembra essere impossibile con gli integralisti delle manette, veicolo sicuro per attrarre il consenso. Ma non vogliamo e non possiamo arrenderci. Continuiamo ad invitare ed esortare il Governo e il Parlamento a cambiare rotta e ad assumere provvedimenti che realmente mettano al sicuro la salute delle decine di migliaia di detenuti, guardie penitenziarie ed operatori del carcere in questo momento sottoposti ad inaccettabili rischi. Aggiungiamo, inoltre – anche attraverso un appello al Presidente della Repubblica perché svolga quel compito di moral suasion che costituisce l’essenza fondamentale del suo ruolo all’interno degli equilibri costituzionali – la necessità di emanare provvedimenti di amnistia ed indulto che possano consentire al nostro paese di rientrare nei confini della civiltà e dell’etica. Mantenere lo status quo significa rappresentarsi ed accettare non già il possibile rischio bensì il più che probabile evento che moltissimi detenuti e guardie penitenziarie possano contrarre il virus ed in alcuni casi morire. Agire (o non agire) pur sapendo che necessariamente una simile condotta produrrà certi risultati significa assumere su di sé la responsabilità politica e giuridica delle eventuali morti. Si è davvero disponibili a tutto questo pur di restare coerenti alla brutale e demagogica propaganda? Quattordici detenuti sono già morti nei giorni delle rivolte, “perlopiù” – come improvvidamente riferito in Parlamento dal Ministro di Grazia e Giustizia – per intossicazione da abuso di farmaci e metadone. Evitiamo tra qualche mese di contare decine di decessi tra i detenuti, perlopiù a causa del coronavirus. Nel 2020, cosa direbbe Filippo Turati sul carcere al tempo del coronavirus?
La biografia. Chi era Filippo Turati, il padre nobile del socialismo democratico. Redazione su Il Riformista il 25 Giugno 2020. Nato a Canzo, provincia di Como, nel 1857, Filippo Turati era figlio di un alto funzionario statale. Intrapresi gli studi giuridici, si laureò nel 1877 all’università di Bologna per poi trasferirsi con la famiglia a Milano, dove frequentò A. Ghisleri e R. Ardigò, e iniziò la carriera di pubblicista come critico letterario. Negli anni successivi si avvicinò agli ambienti operai e socialisti e attraverso Anna Kuliscioff, compagna alla quale si legò per tutta la vita a partire dal 1885, entrò in contatto con alcuni esponenti della socialdemocrazia tedesca. Proprio in questo periodo Turati aderisce al marxismo. Nel 1889, insieme alla Kuliscioff, fondò la Lega socialista milanese, con l’obiettivo di creare un centro di aggregazione delle forze socialiste, primo passo verso la formazione di un partito autonomo della classe operaia. Questa azione, nel cui ambito si collocò la pubblicazione della rivista Critica sociale, culminò nel 1892 nella fondazione del Partito socialista dei lavoratori italiani (che dal 1895 assunse la denominazione Psi), cui Turati diede un contributo decisivo. Deputato a partire dal 1896, fu arrestato in occasione dei moti del 1898 e condannato a dodici anni di reclusione. Ma uscì di prigione l’anno successivo. Leader riconosciuto della corrente riformista, di fronte alla nuova fase politica avviata da G. Giolitti, Turati sostenne la necessità di appoggiare la borghesia liberale in un’ottica gradualistica. Antimilitarista, osteggiò la guerra in Libia (1911) e l’intervento italiano nel conflitto mondiale; nel dopoguerra il suo ruolo all’interno del Psi ormai guidato dalla componente massimalista, scemò. Espulso dal partito, nel 1922 diede vita, con Matteotti, al Psu. Nel 1926, dopo una fortunosa fuga organizzata da Parri, Rosselli e Pertini, si stabilì a Parigi, dove contribuì, nel 1929, alla costituzione della Concentrazione antifascista e, l’anno successivo, alla fusione socialista.
Il socialismo liberale, argine a patrie e soprusi. Gianni Pittella su Il Riformista il 5 Marzo 2020. Perché un libro sul socialismo liberale? Certamente non per fare ricostruzioni storiche sul socialismo, né per affidare al lettore un’altra prospettazione volta a rivalutare personalità o fatti di storia recente. L’intento del libro (Per un socialismo liberale europeo, scritto da Gianni Pittella ed Enrico Caterini per Pacini editore, ndr.), è tutt’altro. Il punto d’avvio della narrazione è lo stato di crisi. Non si può nascondere che l’idea socialista per come i più la conoscono soffre una lunga fase declinante. È da tempo che non suscita passioni nelle nuove generazioni in parte affascinate da sensibilità politiche «destrutturate» perché disincantate da un passato che le ha rinnegate. Nel libro si esamina lo stato di crisi a tutto tondo, poiché la crisi delle idee non è indipendente da fenomeni che incidono sulla stessa concezione che la modernità rilascia dell’uomo. Da un quadro decomposto si prova a riconnettere alcuni punti cardine di una storia che, piantati i piedi a terra, allunghi uno sguardo presbite oltre il groviglio del presente. Il socialismo liberale è l’ipotesi di un socialismo possibile nell’era dell’intelligenza artificiale, dell’economia sovrastante e della società ingorda e cieca di fronte all’enormità dei soprusi. È un socialismo, quello liberale, che tende una mano a quella parte dell’umanità che ha preservato un’intelligenza divergente, cioè non conformabile, senza però dimenticare chi resta indietro e ha bisogno di misure protettive. È l’ipotesi di un socialismo che fa i conti con il valore della persona, che rispetta nella sua dignità, ma che considera non più terminante nella sua finitezza là dove necessita di una perennità offerta dall’umanità come entità concreta della dialettica politica. È un socialismo che si dissocia dalla sua identità storica per aprire con essa un dialogo franco, che non ne cancella l’essenza ma ne relativizza i contenuti. L’umanità nella sua integrità organica composta di persone, esseri senzienti e inanimati, costituisce il nuovo polo ideale del socialismo liberale che così svolge anche il tema ecologico. Tema, questo, che non deve cedere all’avvitamento carpiato dello spodestamento dell’antropocentrismo, ma deve affermare l’etero-contenimento dei poteri dell’uomo sulla natura. L’umanità come corpo dà all’idea una componente di doverosità che preserva il futuro sì, ma neppure nega il presente a chi il presente viene negato. Quello liberale è un socialismo che rimuove gli steccati per aprire alle convergenze sui temi umanitari e lasciare fuori le egoità e i sentimenti privativi. Le società occidentali, sempre più in affanno dinanzi alle culture orientali, hanno bisogno di attingere a una nuova fonte ideale che riaccenda le speranze di giovani con visioni mistiche. Occorre avviare un processo dialettico volto a semplificare la vita politico-istituzionale europea e italiana, in modo da liberarla da vecchie e sempiterne incrostazioni, per intravedere un sistema semplice nelle linee di fondo, accessibile perché democratico e dinamico perché diacronico. Nel socialismo liberale v’è la sinderesi del paradosso una volta identificato nelle «parallele convergenti». In esse vi era la verità di una geometria geodetica contro il falso di una geometria euclidea, lì dove la prima esprime la complessità dei sistemi socio-politici che sono propri dello spazio pluridimensionale, mentre quello unidimensionale è di per sé un falso. Il libro vuole aprire alla discussione dentro un mondo dedito alle partizioni come sinonimi di separatezze, ponendo sul tavolo la necessità di far coesistere convergenti opzioni etiche e politiche. La relazionalità dialettica è la chiave di lettura di una sintesi unitaria che non è indistinzione. Anche l’eguaglianza e la libertà e, quindi, la giustizia devono essere relazionali, cioè espressi in una datità dinamica e sistemica che supera le percezioni soggettive e di parte. Il libro, quindi, vuole contribuire a liberare dal vaso di Pandora anche la speranza di una parte della politica italiana.
Dibattito sul socialismo, c’è una storia formidabile da recuperare. Bobo Craxi su Il Riformista il 3 Giugno 2020. Fabrizio Cicchitto in una sua lunga riflessione sui tempi che viviamo e sulla politica di casa nostra conclude affermando che «ci vorrebbe un socialismo riformista carico di Storia, ma capace di liberarsi di tutti i drammatici errori e limiti che lo hanno caratterizzato finora». E, probabilmente influenzato dalla situazione apocalittica nella quale siamo immersi, lo ha ribattezzato: “Partito Socialista del Terzo tipo”. Quel che è certo è che ci troveremo presto o tardi dinnanzi ad una condizione nuova e trasformata delle società in cui abbiamo vissuto sino ad ora ed è evidente che la pandemia ha portato allo scoperto le contraddizioni ed i limiti della Globalizzazione Economica sostanzialmente fondata su un modello individualistico e della nostra struttura sociale che aveva dei punti deboli e vulnerabili che sono emersi in tutta la loro evidenza. Di qui il richiamo al pensiero ideologico ed alle nozioni e funzioni del Socialismo Democratico. Chi pensava che le ideologie nell’appiattimento della globalizzazione si fossero sopite ha dovuto ricredersi, e l’esigenza di un pensiero nuovo si combina esattamente con il nostro compito di “ricostruire” le fondamenta di società gravemente lesionate dalla vicenda del Corona. Lo stesso virus ci ha obbligato ed ha aiutato gli uomini a «elevarsi al di sopra di sé stessi» perché «ciò che è vero per tutti i mali del pianeta è vero anche per la Peste» come ammoniva Albert Camus mai abbastanza ricordato in queste settimane. Affrontiamo per la prima volta in questa metà di secolo la medesima temperie che l’umanità dovette padroneggiare durante i conflitti bellici: la paura, la penuria economica, la diminuzione delle libertà private, il conflitto nelle catene di comando fra istituzioni democratiche elettive e “l’espertocrazia” che si è impossessata della tolda di comando. La Scienza tanto bistrattata o sottovalutata ci ha messo di fronte ai nuovi grandi dilemmi del tempo: la questione sanitaria e la questione ambientale con le quali dovremo convivere a lungo e che la Globalizzazione Finanziaria ed il Liberismo non solo non potevano prevedere ma neanche erano in grado di governare. Ora siamo di fronte a dilemmi nuovi verso i quali potrebbero apparire obsolete risposte antiche. Ma giustamente osserva Fabrizio Cicchitto che non sono venuti meno i “presupposti” del Socialismo Democratico (per dirla con Bernstein) e che il compito di ridurre le diseguaglianze che sono andate via via cumulandosi, e di liberarsi dal laccio burocratico che strangola con la compressione sui debiti le nazioni, diventano uno degli obiettivi di una rinata formazione del Socialismo Democratico. È scaduta l’illusione di “temperare” il capitalismo come avrebbe desiderato Olaf Palme, che lo immaginava come una pecora da tosare; sono superate le illusioni dell’ircocervo liberista-laburista di Antony Giddens, applicata da Blair; diciamo pure che è superato il neo collettivismo populista a cui si sono abbeverati e si stanno abbeverando molti fan di Corbyn e dello stesso Sanders (che è alla fine un classico socialdemocratico di stampo liberale). E dunque l’idea di coltivare una via italiana al Socialismo Democratico è corretta, perché dopo venticinque anni dalla scomparsa di una robusta formazione erede dell’ultracentenaria storia del socialismo italiano, è giusto porsi il problema della sua ricomparsa nei tempi e nei modi che la politica odierna consente e contempla. L’anno in corso sembrava promettere bene, nel senso che sembrava interrompere il tentativo di prolungare il lockdown della memoria del Socialismo italiano e della figura di mio padre Bettino Craxi, che fu un epigono di un Socialismo Democratico e Liberale che si adattava ai tempi che cambiavano, e precursore di tanta parte di una visione critica e pratica sui rischi e sulle opportunità della Globalizzazione Economica e della stessa Europa. La fase di stallo seguita alla copiosa riflessione politica che è seguita alle iniziative di rilevanza pubblica sul 20° anniversario della sua scomparsa comunque ci consente di mettere in evidenza quale sia il grado di volontà e di apertura che una parte della sinistra erede delle tradizioni comuniste e democristiane sia stata in grado di offrire. Sul terreno del revisionismo storico le timide prese di posizioni, gli scarni riconoscimenti e, quel che è peggio, l’incapacità di assumersi l’onere della fine traumatica della Prima Repubblica, determinano l’esito nefasto di non essere in grado di promuovere una memoria collettiva più condivisa e di non essere in grado di mettere radici ad un pensiero nuovo che sia collegato alla storia della sinistra italiana che ha avuto un’unica fonte generatrice, ovvero il Socialismo. Il Partito Democratico, al di là della burocratica adesione al Socialismo europeo che i suoi dirigenti hanno frequentato come un albergo a porte girevoli dal quale sono entrati ed usciti a seconda delle guide che si sono succedute, è lungi dal costituirsi sul piano ideologico come una formazione erede del Socialismo Italiano: troppe piroette hanno costellato la formazione del loro pantheon. Il Pd non si pone come una formazione in grado di presiedere e promuovere un progetto politico in grado di soddisfare un fabbisogno ideologico sempre più intenso. Il che non significa richiamare a raccolta la riserva che per venticinque anni ha subito la clandestinità o il camuffamento nella lunga diaspora, ma rimettere le basi ideali e pratiche ad una sostanza politica che continua a riferirsi ad una forma organizzata che anche nel tempo moderno non possiamo non declinare come Partito. “Adatto ai nostri tempi”, certamente, rappresentativo di significativi strati della popolazione ed inerente all’obbligo politico e sociale di raccogliere l’enorme e diffuso sentimento di disagio che ha sconvolto l’unione europea e che ha trovato delle risposte semplici ma fallaci nel turbo-populismo declinato ora in forme neo-nazionalistiche ora in improbabili movimenti che si sono alimentati attraverso la democrazia del web che ha pretese deliberative mentre non è altro che una forma controllata di direzione del consenso e di diffusione dei virus altrettanto letali delle dottrine più eversive che si sono manifestate nel dopoguerra. Il Partito Socialista del terzo tipo può nascere nella consapevolezza che esso non parte dall’anno zero, che risponde ad un’esigenza reale della società nuova in cui vivremo quando dal periodo di cattività ci sveglieremo in un mondo nuovo che attende che vengano rimosse le macerie civili e morali che ha lasciato la pandemia. In questo senso rinasce all’alba del nuovo secolo che è apparso dinnanzi a noi all’inizio di questo decennio, e può avere idee assai più chiare perché temperato dall’esperienza che ha attraversato i secoli, ed ha una lunga Storia che ci però ci siamo definitivamente lasciati alle spalle.
Socialismo, la palla al piede che affonda libertà e uguaglianza. Biagio De Giovanni su Il Riformista il 14 Maggio 2020. Quando si discute della parola “socialismo”, per valutarne l’attualità, la prima domanda da porsi si può formulare così: se socialista sia qualunque politica di redistribuzione del reddito in ambiente democratico, qualunque riuscito equilibrio tra liberalismo e democrazia sociale, qualunque lotta alle diseguaglianze, tutte cose che di sicuro mostrano una più o meno vigorosa volontà di giustizia in una società; oppure se sia una parola carica di una storia specifica, nata da una cultura assai elaborata, sia pur nelle sue profonde differenze interne; e che soprattutto sia nata in relazione a una società composta in un modo storicamente determinato, e che, proprio per questo, poteva rispondere alla domanda di eguaglianza utilizzando quella cultura che essa stessa aveva prodotto, quelle forme politiche da essa sgorgate. Nessuno nega il decisivo contributo di tutta la socialdemocrazia europea, nelle sue varie forme, alla costruzione dello Stato sociale nel dopoguerra europeo – il socialismo in forma europea, si può dire – dando una lettura social-liberale della congiuntura. Lì è consegnata la storia stessa della sinistra che si è chiamata socialdemocratica, la quale in Germania, quasi un paradosso, ha dato sostegno a quell’ordo-liberalismo che non è liberismo, tanto meno “selvaggio”, ma proprio l’opposto, cultura dello Stato sociale di mercato. Si deve anche riconoscere che nelle sue varie forme il social-liberalismo si è sviluppato con il contributo di forze diverse da paese a paese: cristiano-sociali, democratici-cristiani, liberali e radicali. Nel frattempo, il socialismo prendeva la fisionomia che conosciamo nella sua versione comunista – che non possiamo trascurare come se fosse stato un piccolo incidente della storia – in Urss, in Asia, e nei paesi dell’Est-Europa che si sono per tanto tempo dichiarati paesi del socialismo reale. Un mondo politico, quello ricordato, che, nella sua componente di sinistra, socialista e comunista, non esiste più se non in modo flebile, ridotto e in profonda crisi di identità. Questo non pare dubbio, anche Emanuele Macaluso lo riconosce: è lecito chiedersi perché? A me pare che il socialismo, per esser valutato allo stato delle cose oggi, vada indagato nella sua determinatezza storico-culturale, e nello straordinario ruolo che proprio questa determinatezza gli ha consegnato. Storia contrastata ma innegabilmente grande, non è qui il dissenso con le tesi di Emanuele Macaluso e Massimo Salvadori. Il suo fondamento è stato nell’idea del lavoro come motore inesauribile di legame sociale, di solidarietà di classe, di vincolo comunitario, motore che si sviluppava entro la forma-Stato. È in questa struttura, e tra le idee che da essa provengono, che esso si è formato nei grandi conflitti dello scorso secolo. Questa trama originaria non c’è più, disgregata irreversibilmente dalla fine del rapporto tra eguaglianza e lavoro, e della lotta di classe democraticamente intesa che ne discendeva, e dalla fine del lavoro stesso come fattore determinante di aggregazione sociale e di riscatto collettivo, che era la base del grande compromesso. Movimento operaio, struttura di classe, lavoro socializzato, democrazia sociale: sono le parole-chiave che indicano l’origine del socialismo “democratico” (non era l’unico) e hanno permesso che diventasse una grande forza aggregata, qualunque forma esso abbia preso: ciò che lo ha indicato, in certe fasi, perfino come un destino necessario della storia. Questo filo si è smarrito nella fine del lavoro socializzato e intensamente politicizzato, anche perchè si va slabbrando il confine dello Stato-nazione dei partiti, entro il quale avvenivano le politiche socialdemocratiche di redistribuzione, ed è troppo semplice dire: trasferiamole più in alto. Gli scenari si svolgevano, con tante differenze, nel fronte di lotta e di compromesso di classe tra grandi entità aggregate e in opposizione tra loro, in uno scontro per l’egemonia di lungo periodo. Uno scenario che si rifletteva nel ruolo decisivo dei partiti di massa. Tutto questo mondo culturale e politico, nella sua determinatezza storica di sinistra e socialista, sta sparendo dalla scena. E certo a questo destino ha contribuito non poco il 1989, con la catastrofe economica, sociale e umana di un mondo che al socialismo si era ispirato, in quel legame quanto mai problematico e di lotta, ma ineludibile, fra comunismo e socialismo. Il suo erede ufficiale, rimasto in campo, è un capitalismo di Stato dispotico, certo utile per il suo popolo, ma senza argini né diritti. Può significare, questo, che l’immenso patrimonio sull’idea di eguaglianza si sia disperso, e non ci sia più come una domanda centrale nel mondo umano della storia? Una idea che è nata, pur problematicamente, nella cultura greca, e ha continuato ad agire, tra mille tragedie, in tutta la storia dell’Occidente? Se fosse così, sarebbe una catastrofe senza precedenti; ma sarebbe ugualmente destinata a sconfitta, producendo una strada senza uscita, volerla inchiodare alla parola “socialismo”, “socialdemocrazia” e alle politiche che ne derivavano, le quali hanno avuto un inizio e anche una fine nel mondo nuovo e terribile che si apre. Se fuori dalle socialdemocrazie non c’è spazio per l’eguaglianza, come scrive Massimo Salvadori, allora, nella prospettiva lunga, questa parola ha poche speranze di sopravvivere. Non dice niente a uno storico della sua qualità e a un politico dell’esperienza di Emanuele Macaluso, il declino, e in certi casi la sparizione, della socialdemocrazia come forza politica specifica nell’Europa degli Stati, che la ha prodotta? Solo un limite soggettivo delle classi dirigenti, o qualcosa di più? Non c’è, forse, un accanimento terapeutico di natura cultural-lessicale nella insistenza sulla parola fatale? C’è ancora un movimento operaio come forza politica? Non è questione di “nuovismo”, come pensa il carissimo Emanuele Macaluso, ma della necessità, sì, di idee nuove in un mondo che irriversibilmente cambia. Non c’è niente di male nella espressione “idee nuove”, sotto l’urto concretissimo della storia. Cambia il mondo, diventato globale, con la spinta di una rivoluzione tecnologico-scientifica-capitalistica senza precedenti che sta dando una nuova forma al tutto, al lavoro anzitutto, al mondo stesso, alle forme delle società e ai dilemmi sulle democrazie. E che contribuisce a mutare proprio tutto sul terreno dell’idea di eguaglianza, introducendo potenzialità nuove e, insieme, l’ipotesi di una vittoria planetaria dell’ineguaglianza e di democrazie dispotiche. Proprio l’irrompere della diseguaglianza nel mondo globale e interdipendente pone compiti rinnovati nel profondo per rispondere alla sua versione ambigua e quanto mai potente. Qui non si tratta certo di costruire un percorso, ma di indicare una via lungo la quale siano possibili nuove elaborazioni, finita l’epoca in cui il plusvalore veniva estratto direttamente, e senza la grande mediazione della tecnologia e della scienza, dal “lavoro vivo”, così socializzandolo nella grande fabbrica, un vero aggregato umano, e politicizzandolo come classe capace di alleanze, con tutto quel che ne è seguito. L’obiettivo diventa assai coinvolgente nel suo profondo idealismo-realismo, e la lotta, si può dire, perfino più aspra. Esso sta nell’elaborare, nell’andare incontro a una “globalizzazione dell’umano” mai così urgente e piena di realismo, e mai così difficile, perfino la pandemia insegna, con urgenza, più di qualcosa. Ecco una citazione tratta dal gran bel libro di Aldo Schiavone, icasticamente intitolato Eguaglianza, da cui ho tratto molti spunti, che ricostruisce, dall’antica Grecia, la storia straordinaria di questa parola. «La dissoluzione della struttura di classe delle vecchie società capitalistiche può mettere in moto ricomposizioni solidali dell’umano prima inconcepibili, costituendo contiguità e simmetrie dove esisteva soltanto misconoscimento, e può far emergere elementi espansivi di oggettiva, impersonale eguaglianza, rispetto a ogni tipo di differenza, individuale o di genere. Può creare occasioni continue di comunione solidale rispetto a un patrimonio genetico, ambientale, culturale la cui unitarietà sostanziale è esaltata dal dominio di strumenti conoscitivi e operativi che lo padroneggiano e lo trasformano sempre più a fondo». Non si è con la testa tra le nuvole. Non si ignora la nuova durezza della geo-politica e dei suoi risvolti, che occludono rapporti nel mondo globale. Non si sottovaluta la potenza di una globalizzazione esasperata e caotica. Tutto può accadere, in uno stato di cose che non ha precedenti, anche un insediamento planetario dell’ineguaglianza. Proprio per questo la riedizione dei vecchi strumenti non basta più. Si immagina, per dare un linguaggio più politico agli spunti indicati, che senza un rapporto tra nuovo cosmopolitismo e territorialità, senza una spinta, almeno, a far crescere la lotta sovranazionale per l’unità dell’umano, abissi possibili si aprono nella storia dell’uomo. È l’Occidente stesso in gioco, e anzitutto l’Europa, ma il richiamo al socialismo non basta a rianimarne il ruolo né a mobilitare popoli come una volta. È necessaria una cultura all’altezza di questo problema. Sono le nuove urgenze globali che potrebbero far nascere le forze, i soggetti, le idee, i compromessi, le nuove alleanze. Tutto da vedere, un immenso lavoro anche ideale da svolgere. Non perché l’antica esigenza di eguaglianza e libertà sia sotterrata, ma perché, senza che essa si rivesta di altre forme e culture, è già sulla via di soccombere alla potenza dei molti nemici.
50 anni fa nasceva lo Statuto dei lavoratori: ideato da Di Vittorio, scritto da Brodolini e varato da Donat Cattin. David Romoli su Il Riformista il 20 Maggio 2020. Napoli, febbraio 1952, Congresso della Cgil: il segretario generale Giuseppe Di Vittorio propone la definizione di uno “Statuto dei lavoratori” con il preciso obiettivo di “portare la Costituzione nelle fabbriche”. Per raggiungere la meta ci vollero 18 anni e una rivolta operaia senza pari nell’Occidente del dopoguerra. Il risultato non fu neppure giudicato sufficiente dal partito dello storico segretario della Cgil, nel frattempo scomparso. Quando lo Statuto dei lavoratori fu sottoposto al voto della Camera, il 15 maggio 1970, il Pci si astenne, come anche il Psiup e il Msi. Fu approvato con i voti della maggioranza di allora (Dc, socialisti e liberali) e del Pri. Il 20 maggio fu pubblicato sulla Gazzetta ufficiale. Quando Di Vittorio lanciò la sua campagna per far entrare la Costituzione nelle fabbriche, la Carta fondativa della Repubblica era in vigore da quattro anni. Garantiva libertà e diritti ma non a tutti: si fermava ai cancelli delle fabbriche e, di fronte alle manifestazioni operaie, veniva sospesa e rimpiazzata dal piombo della polizia del ministro degli Interni dc, Mario Scelba. A Modena, il 9 gennaio 1950, la polizia aveva aperto il fuoco sugli operai che protestavano contro 500 licenziamenti, ferito 200 persone, ucciso sei manifestanti. Con la Corea in fiamme e il rischio del conflitto nucleare dietro l’angolo, al culmine della Guerra fredda, i governi non andavano per il sottile. La Dc, nonostante le insistenze di Scelba e degli americani, evitò la messa fuori legge del Pci ma per il resto lasciò mano libera ai nuovi reparti di polizia del ministro, la Celere, e acconsentì alla sospensione di fatto di ogni diritto nelle fabbriche. Gli operai più attivi e sindacalizzati venivano falcidiati. La repressione politica era sfacciata e conclamata. L’appello di Di Vittorio restò lettera morta. Le cose, anzi, peggiorarono ulteriormente. Pochi mesi dopo, nel dicembre 1952, la Fiat inaugurò la pratica turpe dei reparti-confino, dove concentrare e isolare gli operai più attivi per evitare il contagio. Il primo fu l’Officina Sussidiaria Ricambi, Osr, ribattezzata seduta stante Officina Stella Rossa. Dalla Fiat i reparti confino si diffusero ovunque. I licenziamenti si moltiplicarono. La persecuzione contro la Fiom fu metodica. Non bastò. La nuova ambasciatrice degli Usa in Italia, Clara Boothe Luce, fu tassativa: o la Fiom debellata alla Fiat o gli Usa avrebbero sospeso ogni commessa con la fabbrica torinese. Vittorio Valletta, presidente e ad, obbedì. Contro la Fiom fu lanciata una campagna persecutoria, senza esclusione di colpi, spudoratamente anticostituzionale. Nel 1955, nelle elezioni per la Commissione interna, per la prima volta la Fiom perse la maggioranza e a partire da quel momento non ci fu più limite all’imperiosità di un comando ormai senza più limiti. Il colonnello Renzo Rocca, alto dirigente del Sifar, il servizio segreto, mise a disposizione gli archivi dei servizi per facilitare il ricatto e la persecuzione dei militanti operai. L’ex capo partigiano bianco Edgardo Sogno, amico dell’ambasciatrice Usa, e il provocatore di professione Luigi Cavallo, espulso dal Pci si occuparono di orchestrare la campagna che portò alla disfatta della Fiom. Nella flotta di aziende italiane che navigava verso il boom economico, la Fiat era la portaerei. Dava a tutti gli indirizzi. Il metodo Fiat, basato da un lato sul paternalismo e dall’altro sulla repressione di ogni dissenso, non poteva essere adottato da tutte le aziende. Ma la politica di repressione fu comune a tutti. I bassi salari, inferiori a quelli di tutti i Paesi concorrenti, e l’assenza programmatica di diritti furono il motore segreto del boom. Le cose sarebbero dovute cambiare all’inizio degli anni 60, con l’ingresso del Psi al governo e la nascita del centrosinistra. Non fu così. Qualche legge fu varata, come quella che vietava il licenziamento delle donne colpevoli di essersi sposate, ma le velleità iniziali furono sopite dal “rumore di sciabole” del 1964, il golpe minacciato più che tentato dal comandante dei carabinieri De Lorenzo con alle spalle il capo dello Stato Antonio Segni. A smuovere le acque e rendere possibile ciò che pochi mesi prima sarebbe stato inimmaginabile fu la grande rivolta operaia iniziata nel 1968 ed esplosa l’anno successivo. I socialisti e non i comunisti furono i più pronti a cogliere la richiesta di libertà e diritti che arrivava da quelle lotte. La strategia che Pci e Cgil avevano messo a punto in vista del rinnovo dei contratti del 1969 aveva come obiettivo un maggior controllo operaio sulla produzione. Guardava soprattutto alla fascia rappresentata dagli operai specializzati, nucleo centrale e asse portante del sindacato nelle fabbriche, più che sugli operai dequalificati, spesso di fresca immigrazione del Sud, che furono invece il cuore della mobilitazione operaia. L’ “aristocrazia operaia” di qualche diritto, in virtù dell’alta specializzazione, poteva godere. Gli operai-massa no: volevano soldi e diritti, non “un nuovo modo di fare la produzione”. Il Psi era più sensibile a quei temi e fu più lesto a far propria la campagna sui diritti. L’uomo di punta era Giacomo Brodolini, ex azionista, sindacalista e ex vicesegretario della Cgil. Era stato lui a scrivere il documento di condanna dell’invasione dell’Ungheria poi firmato dal segretario Di Vittorio, che fu per questo costretto a una sorta di autocritica feroce e stalinista. Vicesegretario del Psi e poi del Psu, nato dall’effimera unificazione del Psi e del Psdi, deputato dal 1953 ed eletto senatore nel 1968, Brodolini aveva una visione complessiva delle riforme necessarie per portare la democrazia in quelle fabbriche nelle quali non era mai entrata. Nominato ministro del Lavoro nel dicembre 1968, destinato a rimanere in carica meno di 8 mesi prima di essere ucciso da un tumore, segnò una vera rivoluzione nelle relazioni industriali. Marcò la distanza dai predecessori anche nei comportamenti personali. Mai un ministro aveva espresso così apertamente solidarietà ai braccianti in lotta, due dei quali erano stati uccisi dalla polizia ad Avola, o aveva passato la notte di Capodanno in una tenda, con gli operai che protestavano contro i licenziamenti. Consapevole del poco tempo che gli restava, Brodolini cercò di varare in tempi fulminei le riforme che aveva in mente. Rimodellò radicalmente il sistema pensionistico. Abolì le “gabbie salariali”, che differenziavano gli stipendi del Nord da quelli del Sud. Istituì una commissione nazionale per dar vita a uno “Statuto dei diritti dei lavoratori”, presieduta dall’allora giovanissimo Gino Giugni. Ma il progetto, affermò poi lo stesso Giugni, era tutto di Brodolini, che morì l’11 luglio 1969, prima di vederlo approvato. Il nuovo ministro del Lavoro, il dc Carlo Donat-Cattin, dovette fronteggiare i tentativi degli industriali e delle loro sponde politiche nel governo e nella Dc di affondare lo Statuto ancora prima che vedesse la luce. Lo fece con la ruvidezza tipica dell’uomo. In Parlamento accusò senza mezzi termini la Fiat di operare “massicci licenziamenti di carattere politico e antisindacale”. Respinse al mittente le critiche allo Statuto “ispirate da una mentalità privatistica dei rapporti sindacali”. Le lotte operaie fecero il resto. Nel maggio 1970 lo Statuto fu approvato. Il Pci scelse di non votarlo pur senza bocciarlo. «Lascia ancora troppe armi al padronato», spiegò Pajetta. Il principale punto di dissenso era in realtà la decisione di non applicare le norme che vietavano il licenziamento senza “giusta causa” nelle aziende al di sotto dei 15 dipendenti. Non c’era solo il famoso art. 18 sui licenziamenti in quello Statuto. Vietati l’uso di guardie private per la sorveglianza degli operai e i controlli audiovisivi. Regolamentate le perquisizioni all’entrata e all’uscita dalle fabbriche. Calmierati gli accertamenti per le assenze dovute a malattia o infortunio. Non era il socialismo ma la fine di un regime tirannico che aveva retto per due decenni. Il quotidiano del Psi, Avanti!, riprese nel sottotitolo il messaggio lanciato 12 anni prima da Di Vittorio: “La Costituzione entra in fabbrica”. Da allora i tentativi di ricacciare la Carta fuori da quei cancelli delle fabbriche dalle porte degli uffici sono stati continui, soprattutto a partire dagli anni 90 del secolo scorso, e alla fine vincenti. La resistenza della Cgil di Cofferati, che convocò a Roma la più grande manifestazione della storia italiana nel marzo 2002, fermò l’attacco del governo Berlusconi contro l’art. 18, sui licenziamenti senza giusta causa, ma 9 anni dopo il governo tecnico di Mario Monti, con Elsa Fornero ministra del Lavoro, ridusse drasticamente le funzioni di quel baluardo sostituendo in molti casi l’obbligo di reintegro con un indennizzo economico. Il colpo di grazia lo ha dato il jobs act di Renzi, nel marzo 2015. Dopo aver più volte ripetuto che non c’era alcun bisogno di cancellare l’art. 18, l’allora premier e segretario del Pd si mosse in maniera opposta quando la Commissione europea reclamò “la prova d’amore” in cambio della concessione di flessibilità. Una campagna stampa mirata e astuta, del resto, aveva a quel punto già trasformato agli occhi di molti lo Statuto da garanzia di libertà e diritti costituzionali in privilegio degli occupati con il posto fisso a danno dei precari. Degli “anziani” a scapito dei giovani. Come sempre, la favola bugiarda partiva da una base di verità, salvo poi stravolgerla. Lo Statuto era stato in effetti pensato quando l’organizzazione del lavoro e gli assetti produttivi poggiavano su fondamenta molto diverse da quelle attuali, ancora compiutamente fordiste. A moltissimi lavoratori quelle norme non offrono davvero più alcuna protezione. Non è una buona ragione per togliere diritti a chi ancora ne ha. Sarebbe in compenso un ottimo motivo per mettere a punto un nuovo Statuto dei lavoratori. Adeguato ai tempi. Capace di far entrare la Costituzione anche oltre i recinti invisibili dei nuovi luoghi di lavoro.
Gino Giugni il vero padre dello Statuto dei lavoratori. Giuliano Cazzola su Il Riformista il 26 Maggio 2020. Correttamente, nel dibattito aperto da Il Riformista, sui “primi cinquant’anni” dello Statuto del lavoratori, Paolo Guzzanti ha voluto attribuire a due ministri del Lavoro una parte del merito dell’approvazione di quella legge fondamentale nell’ordinamento della Repubblica. A Giacomo Brodolini, al quale va il merito di aver promosso l’iniziativa incaricando una commissione di redigere un testo; al democristiano Carlo Donat Cattin che succedette a Brodolini, dopo la sua morte (l’11 luglio 1969) e che portò l’anno successivo al varo la legge n. 300. Tra questi due eventi era intercorso quel grande momento di riscossa operaia passato alla storia come “l’autunno caldo” con il rinnovo del contratto dei metalmeccanici il quale aveva anticipato alcune delle norme poi recepite dallo Statuto. Ho voluto premettere in estrema sintesi il ruolo di due importanti personalità della Prima Repubblica e ricordare il contesto di grande rinnovamento sociale concentrato in pochi mesi, senza togliere nulla a Gino Giugni universalmente riconosciuto come “il padre dello Statuto”. Gino partecipò all’elaborazione della legge n. 300, svolgendo una funzione formalmente tecnica: fu il presidente della commissione nominata da Brodolini, del quale era capo dell’Ufficio legislativo e in tale posizione fu confermato, con lungimiranza, da Donat Cattin. Ma di Giugni furono decisivi il contributo culturale e giuridico e la visione delle relazioni industriali. Attraverso quella legge il giurista socialista (tra i fondatori del nuovo diritto sindacale) fu in grado di elevare ad ordinamento organico e compiuto il “diritto vivente” ovvero quel sistema di relazioni che si era costituito, nel dopoguerra, pur in assenza dell’attuazione dell’articolo 39 della Costituzione. Nel corso degli anni Cinquanta il diritto sindacale restava in attesa messianica (si parlava allora di “speranze deluse”) di quanto aveva previsto la Costituzione, risolvendo, in quell’articolo rimasto sulla carta, le questioni cruciali della rappresentanza e della rappresentatività sindacale e dell’efficacia erga omnes dei contratti di lavoro nel testo. Ma l’articolo 39 però giaceva, per tanti motivi, inattuato, nonostante che ogni Ministro del lavoro cercasse di sbloccare la situazione di stallo con un proprio disegno di legge. Ma il diritto sindacale continuava a restare nell’ambito del diritto comune, come un orfanello abbandonato, finché nel 1960 Gino Giugni – a soli 33 anni – diede alle stampe, per Giuffrè, il libro Introduzione allo studio dell’autonomia collettiva da cui scaturirono, grazie all’applicazione della teoria degli ordinamenti giuridici al diritto sindacale, una nuova visione e una diversa interpretazione della materia che doveva essere accettata e studiata per quello che la realtà e l’esperienza avevano espresso e non più attraverso la sterile ricerca di un “dover essere” dimenticato ed impraticabile. Scriveva, in proposito, Giugni parole destinate a cambiare la storia: «Un’attività che si è svolta nel precario contesto della legge comune dei contratti, è risultata viziata da mille insufficienze, ma è nondimeno costitutiva di un valido patrimonio di esperienze di “diritto vivente”». Ai tempi dello Statuto, poi, parlare di “legislazione di sostegno” del sindacato in quanto tale, sollevava parecchie riserve e perplessità anche tra i giuslavoristi orientati a sinistra. Quella di Giugni, era una visione moderna, influenzata dall’esperienza americana (la legge Wagner del 1935, caposaldo dell’epoca di F. D. Roosevelt) ed era rivolta a riconoscere le libertà sindacali nei posti di lavoro attraverso la loro attribuzione al sindacato esterno (che può convocare l’assemblea durante l’orario di lavoro, raccogliere i contributi associativi, nominare i rappresentanti aziendali, garantire dei permessi retribuiti ai propri dirigenti in produzione, diffondere materiale di propaganda, ecc.). Ma la novità più importante stava nell’articolo 28, (ispirata alla injunction dei tribunali americani), che ammetteva un’azione giudiziaria urgente, promossa dai sindacati, per rimuovere un comportamento antisindacale, la cui sussistenza (acausale) rientrava nella valutazione discrezionale del giudice. In questi 50 anni lo Statuto ha avuto delle modifiche legislative; alcune norme di rilievo sono state sottoposte a referendum abrogativo; si è attesa invano la sua “rifondazione” nel contesto di uno Statuto dei lavori, auspicato da tanti (in queste stesse ore) ma rimasto, anch’esso, nel novero delle “speranze deluse”. Tra le modifiche più attempate vi è la disciplina del collocamento, che, negli articoli 33 e 34 (Titolo V), riconosceva lo Stato come unico intermediario tra domanda e offerta di lavoro che operava secondo le graduatorie incluse in liste numeriche, mentre la chiamata nominativa era ammessa in pochi e limitati casi. Un’impostazione statalista barocca, inapplicata ed inefficiente, per fortuna travolta dalle direttive europee. È toccato poi al jobs act cambiare alcune disposizioni divenute superate nel tempo: l’articolo 4 (Impianti audiovisivi) riferito ai controlli a distanza, messo in crisi dalle moderne tecnologie; l’articolo 13 (Mansioni del lavoratore) rendendo più flessibile lo ius variandi del datore di lavoro onde consentire una maggiore mobilità del personale. Infine, è mutato l’articolo 18 (Reintegrazione nel posto di lavoro) in tema di disciplina dei licenziamenti ingiustificati. Oggi l’articolo 18, nella sua applicazione generale, è stato ampiamente novellato dalla legge n.92/2012. A latere, il dlgs n.23 del 2015 ha introdotto una differente disciplina del licenziamento individuale (con alcuni riferimenti ai licenziamenti collettivi) a valere per i lavoratori dipendenti assunti dal 7 marzo di quell’anno con un contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti. A parte la questione dell’abrogazione dell’articolo 36 (contributi sindacali) che non ha sortito effetti pratici, la modifica più destabilizzante, per via referendaria, della legge n.300 ha riguardato l’articolo 19. Il comma cassato faceva riferimento alle «associazioni aderenti alle confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale» nel cui ambito potevano essere costituite le Rsa. Grazie a questa norma il “diritto vivente”, aveva assunto la dignità di un vero e proprio ordinamento giuridico, estraneo a quanto disposto dall’articolo 39, basato sui critei della maggiore rappresentatività, reciprocamente riconosciuta tra le parti, della libertà di associazione e sull’applicazione ordinaria dei contratti di diritto comune purché stipulati dai soggetti protagonisti del sistema. In sostanza la conferma legislativa della visione di Giugni. La mutilazione dell’articolo 19, collegando il criterio della rappresentatività ai sindacati firmatari del contratto applicato in azienda, ha scoperchiato il vaso di Pandora e ha prodotto la moltiplicazione dei soggetti collettivi tutti abilitati a negoziare contratti collettivi anche se cambiano in peius le condizioni dei lavoratori, purchè siano applicati in azienda.
Senza il movimento del 68 non ci sarebbe lo Statuto dei lavoratori. Fausto Bertinotti su Il Riformista il 24 Maggio 2020. Non si può leggere lo Statuto dei lavoratori senza saperlo vedere come il segno di un tempo, il tempo di una stagione eccezionale di lotte sociali, il tempo del grande cambiamento, quando tutto è sembrato possibile. I due titoli principali della legge indicano indirettamente, ma precisamente, i suoi attori fondamentali. Essi riguardano infatti l’uno i lavoratori, la dignità dei lavoratori in fabbrica; l’altro, il sindacato, la libertà e l’attività sindacale. La rottura, la grande innovazione non poteva essere che radicale. La dettava la natura del conflitto sociale aperto nelle fabbriche e nella società. Ci sono grandi conquiste che, quando si realizzano, non si riescono a cogliere in tutta la loro portata, perché è il movimento che li ha generati a restare al centro dell’attenzione sociale e perché esso è carico di futuro, dell’attesa di sempre più importanti cambiamenti che dovranno intervenire. Del resto, gli anni Settanta che seguiranno saranno quelli delle riforme che faranno parlare del “caso italiano”. Si realizza in quel 1970, la proposta che Giuseppe Di Vittorio aveva lanciato ben 18 anni prima, al Congresso della Cgil del 1952, con le parole d’ordine: portare la Costituzione nella fabbrica. Perché nella tanto vantata ricostruzione, essa si fermava davanti ai suoi cancelli. Hic sunt leones. La fabbrica era il regno del padrone e nella più grande fabbrica del Paese, i lavoratori venivano schedati, come afferma non un sindacalista discriminato, ma una solenne sentenza della magistratura italiana. I lavoratori combattivi venivano spesso licenziati per rappresaglie. Leggere, per farsene un’idea, Gli anni duri alla Fiat di Emilio Pugno e Sergio Garavini. La repressione delle attività sindacali era diffusa e sistematica. Ne fanno fede, oltre alle Commissioni parlamentari d’inchiesta, le parole di Pietro Nenni: «L’intimidazione, il ricatto, la rappresaglia sono armi quotidiane, gli operai sono spiati», e sempre alla Fiat – sostiene Nenni – i lavoratori «sono posti davanti all’alternativa di votare come vuole l’azienda o di perdere il posto di lavoro». La situazione di fabbrica è drammatica e documentata. Solo la grande stampa la copre col proprio colpevole silenzio. Complice a tal punto che La Stampa di Torino è per gli operai “la busiarda”. Per quasi un ventennio, si oppongono resistenze importanti e duri conflitti sociali, ma il quadro resta segnato da uno strapotere padronale, tanto che ancora nei giorni che precedono l’approvazione dello Statuto, il ministro del Lavoro, Carlo Donat-Cattin, denuncerà «i massici licenziamenti di carattere politico-sindacale» a cui il padronato ricorre. A testimoniarne il peso, ricordo che la più grande esplosione di gioia operaia che ho conosciuto è stata quella in una gigantesca assemblea nella quale venne annunciato, nell’autunno caldo, il ritiro da parte della Fiat dei licenziamenti antisindacali prima annunciati. Lo sciopero aveva vinto. È il sottotitolo dell’Avanti che annuncia l’approvazione dello Statuto a dare il senso compiuto del passaggio storico: “La Costituzione entra in fabbrica”. Perché proprio nel 1970? E perché sono dovuti passare 18 anni dalla proposta di Di Vittorio? La mia risposta è perché quella riforma, più di ogni altra, era ed è direttamente legata ai rapporti di forza sociali. Se si cerca il padre dello Statuto, prima di qualsiasi forza politica o di leader politico, lo si trova nel Biennio rosso ’68-’69. Prima c’era stata la lunga e difficile semina, durata anni e anni. C’erano state la resistenza operaia, l’apertura di un campo di ricerca sui nuovi terreni dello scontro, la sperimentazione, la sconfitta, i successi parziali, le battute d’arresto. Solo quando esplode la contestazione di massa studentesca e operaia matura, infine, la svolta. Il contratto dei metalmeccanici, costruito nell’autunno caldo, si firma nel gennaio del 1970. A maggio, il Parlamento vota lo Statuto. Per la breccia aperta del contratto dei metalmeccanici passa la legge per tutti. Una lunga diatriba sindacale sul primato tra contratto e legge viene superata a piè pari; tra contratto e legge si è messa in atto una sinergia che restituisce libertà, dignità e potere ai protagonisti sociali primi e lavoratori. Il sindacato entra in fabbrica con i delegati eletti direttamente da i lavoratori, con le assemblee, con i consigli e vive così la sfida per una nuova cittadinanza sociale, attraverso il controllo operaio sulla salute, sulla prestazione lavorativa, sull’organizzazione del lavoro, sul processo produttivo. Anche in fabbrica, finalmente, la domanda principe “chi domanda qui?” si fa pregnante attualità. Il sindacato dei Consigli diventa un soggetto politico. Per questo, si può dire che è il Movimento del ’68-’69 a essere il padre dello Statuto. Ne ha fatto maturare le condizioni, l’egemonia di quel movimento sulla società, la formazione di un senso comune nel cambiamento necessario. Ne sono state investite diversamente, ma tutte, in termini decisivi, le forza politiche popolari: comunisti, socialisti, democratici-cristiani. I ministri del Lavoro del tempo, Giacomo Brodolini e Carlo Donat-Cattin, vi si sono impegnati a fondo. Una nuova scuola di giuslavoristi, da Gino Giugni a Gianni Ferrara, si afferma e guadagna una fase del tutto nuova del diritto del lavoro in Italia. Solo il compromesso sull’Art. 18, che impedisce il licenziamento senza giusta causa, senza giustificato motivo e che garantisce il reintegro nel posto di lavoro, ma fissa la soglia della sua applicazione alle aziende sopra i 15 dipendenti, divide le forze della sinistra tra consenso e astensione sulla legge. Ma un cammino lungo quasi un ventennio si conclude in ogni caso con la vittoria delle forze del cambiamento. Si ha davanti una stagione straordinaria del conflitto sociale, animata da un nuovo protagonista: lo studente di massa e l’operaio comune di serie. Ma una cosa quel tempo non sapeva: anche le conquiste sociali più rilevanti sono reversibili. Così oggi ci tocca ricordare, a cinquant’anni di distanza, prima l’affermazione e poi lo svuotamento dello Statuto in un rovesciamento della collocazione del lavoro nella società. Si potrebbe parlare di una rivincita di classe, operata all’interno di una gigantesca rivoluzione restauratrice. Il contratto di lavoro si assottiglia, una moltitudine di lavoratori ne sono crescentemente esclusi, le nuove leggi si mangiano pezzo a pezzo lo Statuto, mentre accompagnano la ristrutturazione del mercato del lavoro, fino a farne una fiera della precarietà, delle mille forme di lavoro precario, intermittente, in nero, non riconosciuto. Su questa cattiva cultura si è formata una nuova classe dirigente, un nuovo ceto politico. Di nuovo siamo di fronte a un rovesciamento rispetto al tempo dello Statuto. Ieri, Carlo Donat-Cattin, a un dirigente confindustriale che lo richiamava al suo ruolo neutrale di ministro del Lavoro, rispondeva che «no, lui era il ministro dei lavoratori». Gli sono succeduti, nell’ultimo quarto di secolo, ministri e governi che, invece dei lavoratori, lo sono stati dell’impresa e del mercato. Non è neppure ora, però, il tempo della resa; la desertificazione del conflitto, malgrado tutto, non è avvenuta. Di Giuseppe Di Vittorio si ricorda sempre la grande popolarità e la prorompente umanità, meno la sua genialità politico-sindacale, la capacità di intravedere, anche in un presente terribilmente difficile, un futuro radicalmente diverso da quel presente e di confidare nell’affermazione di un nuovo soggetto del cambiamento che possa rinascere dentro un mondo del lavoro pur sempre diverso. Può chiamarsi il tempo della semina. Se non vuole essere inerte, questa è ancora la consegna a cinquant’anni dallo Statuto dei diritti dei lavoratori.
Storia di Carlo Donat Cattin, il sindacalista che portò i diritti in fabbrica. Paolo Guzzanti de Il Riformista il 15 Maggio 2020. La storia di Carlo Donat Cattin, uno dei più importanti leader sindacalisti e capo di una delle fazioni più forti della Democrazia cristiana, è una delle più drammatiche e rapidamente dimenticate della Prima Repubblica. Eppure fu lui a portare a compimento nel 1970 insieme al giuslavorista socialista Gino Giugni (che sarà per questo “gambizzato” dai terroristi nel 1983) quello Statuto dei lavoratori che aveva varato il socialista Giacomo Brodolini nel 1969 poco prima di morire. Donat Cattin era uno dei pochi maschi alfa della Dc, uno di quel sangue ligure piemontese fatto di durezza, silenzio e intransigenza di una stirpe montanara e di scoglio forte e taciturna, con idee duramente trattabili, ma inflessibili. Era uno che non andava giù alla destra Dc e alla destra politica in genere (che oggi, sia detto per inciso non esiste più sul panorama politico, occupato da altre destre) perché il suo sindacato – da lui creato con una scissione dalla originaria Cgil – era spesso più intransigente del sindacato guidato dai comunisti. La destra conservatrice di allora, un genere di destra di cui oggi non c’è più traccia, lo definiva «un comunista da sagrestia», sbagliando totalmente perché Donat Cattin, come Brodolini, apparteneva a quella sinistra spesso più a sinistra delle Botteghe Oscure, ma che nel frattempo governava, e aveva accesso a quella che il vecchio leader socialista Pietro Nenni aveva chiamato «la stanza dei bottoni». Carlo Donat Cattin oltre che farsi un suo sindacato, si era di fatto anche una sua personale Democrazia cristiana all’interno del grande corpaccione elettorale cattolico con la corrente “Forze Nuove” che nei momenti di maggior splendore raggiungeva il venti per cento. Donat Cattin era dunque un politico politicante, in questo più affine al socialista Pietro Nenni – il quale dall’esilio francese aveva portato lo slogan la politique d’abord, la politica prima di tutto – che non ai comunisti infinitamente più togliattiani, ovvero sottili e duttili ma anche gelosi del loro primato nella classe operaia e del sindacato malvolentieri condiviso con i socialisti al governo insieme ai democristiani. Erano state tutte queste contraddizioni logiche e politiche a mettere sotto stress una politica che si era arenata con l’uccisione di Aldo Moro sulla soglia del compromesso storico e che era fortemente animata dalle frange estremiste che praticavano la politica delle armi piuttosto che le armi della politica, ad imitazione di quanto avveniva nella Repubblica federale tedesca con la Rote Armee Fraktion. Fu quindi un fatto imprevisto, ma al tempo stesso di piena coerenza storica, l’emersione del ruolo di un figlio di Carlo Donat Cattin, Marco, come terrorista, anzi un leader del terrorismo rosso, uno dei più sanguinari “comandanti” di Prima Linea, una organizzazione combattente comunista affine e concorrente delle Brigate Rosse. Per il padre non fu soltanto uno shock, ma la fine della sua carriera politica, almeno come dirigente. L’emersione del nome del figlio – che poi si pentì e morì tragicamente in un terribile incidente stradale mentre tentava di salvare alcuni automobilisti dallo stesso incidente in cui era coinvolto – prese subito la forma di uno scandalo che coinvolse Francesco Cossiga nella sua qualità di ministro degli Interni (ma che in quel momento era capo del governo) e Donat Cattin, ministro dell’industria in un governo Andreotti, che dovette dimettersi, sostituito il 25 novembre 1978, da una new entry: Romano Prodi. Non si è mai capito da quanto tempo e a chi esattamente fosse noto il fatto che Marco Donat Cattin fosse un terrorista. La sua identificazione avvenne per opera di uno dei tanti pentiti allora gestiti dai corpi speciali e quando la storia venne allo scoperto, lo scalpore raddoppiò quando emersero imbarazzanti dettagli sul retroscena della vicenda che diventarono terreno di uno scontro violentissimo perché Cossiga era ora presidente del Consiglio e messo formalmente in stato d’accusa. Alla fine di un dibattito accesissimo, fu assolto con 597 no contro 416 sì dal sospetto di aver avvertito Donat Cattin padre della situazione di suo figlio, suggerendogli di farlo sparire alla svelta. Fu una faccenda brutta e penosa perché Donat Cattin, quasi spezzato nella sua struttura di vecchia quercia dovette ammettere di avere chiesto a Cossiga se avesse notizie di suo figlio Marco. E Cossiga ammise di aver risposto di non avere alcuna notizia del latitante. Carlo Donat Cattin restò fuori dalla politica finché fu recuperato da Bettino Craxi che lo volle ministro della Sanità in piena crisi per il diffondersi dell’Aids. Era un ruolo per lui secondario, ma non c’era ormai altro. Anche per il presidente del Consiglio Cossiga, benché salvato dal voto, fu l’inizio di un profondo turbamento umano perché – mi raccontò più volte – mai si sarebbe atteso un personale e rovente accanimento in Parlamento da parte di Enrico Berlinguer che era, tecnicamente, suo cugino. Il commento gelido di Berlinguer a questa manifestazione di sorpresa, fu: «Con i cugini si mangia soltanto l’agnello a Pasqua». Cossiga sparì dalla politica e fu recuperato da Ciriaco De Mita, su consiglio di Eugenio Scalfari che a quei tempi riceveva a pranzo Cossiga una volta a settimana, quando Amintore Fanfani si giocò lo scranno di presidente del Senato per guidare un governicchio balneare che, alla fine, mise fuori anche lui. Allora Cossiga fu riammesso nel circolo del grande perdono cattolico comunista ed eletto presidente del Senato e di lì, quasi con un plebiscito, spedito al Quirinale perché considerato un uomo ormai privo di qualsiasi tossina pericolosa. Errore drammatico perché, come sappiamo, dopo i primi quattro anni di settennato, l’ex presidente del Consiglio umiliato alla Camera per il caso Donat Cattin cominciò a togliersi i sassolini dalle scarpe. A Donat Cattin, che era stato un fautore dell’incontro storico con i comunisti, era del tutto passata la voglia di quella stagione. Anche lui, in maniera analoga a quel che fece Cossiga, invertì la rotta facendosi portatore del cosiddetto «preambolo» che consisteva nello smontaggio di quanto ancora rimaneva della collaborazione fra Dc e Pci: la nuova linea era quella di sbattere fuori i comunisti da ogni maggioranza, anche se Giulio Andreotti fece tutto il possibile e anche l’impossibile per riagganciare il Pci grazie al quale sperava un giorno di arrivare al Quirinale. Nel 1986 come ministro della Sanità di Craxi (che lo apprezzava proprio per la sua incompatibilità con i comunisti e la disponibilità con i socialisti) si trovò il Pci di traverso ogni volta che se ne presentava l’occasione. Così fu attaccato violentemente sulla questione – oggi dimenticata– dell’atrazina: un diserbante inquinante, che superava la quantità massima concessa dall’Europa di 0,1 microgrammi per litro. I sindacati aderenti alla Cgil dichiararono guerra insieme ai verdi di Marco Boato finché il Pci non propose una mozione di sfiducia personale insieme alla Sinistra indipendente e Verdi, che non passò ma che contribuì ad azzopparlo ulteriormente, mentre la stella del suo protettore Craxi perdeva di forza. Sull’Aids, Donat Cattin fece una gaffe che gli valse molte palate di fango, non del tutto immeritate. Disse infatti che «l’Aids ce l’ha chi se lo va a cercare», alludendo pesantemente alla forte incidenza di omosessuali maschi fra gli infettati dal virus Hiv E in questa battutaccia c’era un po’ di tutto: una vena di cattolicesimo conservatore, una rusticana ostilità per le élite intellettuali e omosessuali molto diffusa nel Piemonte e nella Liguria operaie e che costituivano paradossalmente lo stesso bacino sardo-ligure-piemontese di cui era nutrito il Pci di Gramsci, Togliatti, Longo, Berlinguer e fino a Natta. Nulla di più che una significativa coincidenza geografica con l’antico Regno di Sardegna, che però nella vecchia e buona Repubblica che chiamiamo “prima” come se ce ne fossero state altre, aveva un certo valore codificato dall’asprezza di i duelli mortali, combattuti senza mettere di mezzo amici o parenti, perché con quelli, al massimo, ci si mangia l’agnello a Pasqua. Donat Cattin fu il secondo padre dello Statuto dei lavoratori, dopo Giacomo Brodolini, ma probabilmente pochi lo ricordano per questo e dunque lo facciamo noi nel tentativo di rimettere insieme alcuni pezzi e capire come andarono le cose.
Giacomo Brodolini il socialista di parte e la storia dello Statuto dei lavoratori. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 14 Maggio 2020. Fra poco saranno cent’anni dalla nascita e ovviamente a chi c’era sembra ieri: Giacomo Brodolini inventore, creatore di un oggetto clamoroso e misterioso: lo Statuto dei diritti del lavoratori. Oggi, detto così, sembra un nome enfatico e burocratico, ma i tempi erano il 1969, l’anno dell’autunno caldo per la scadenza dei contratti, ma anche l’anno dell’inizio di una cosa che non si era mai vista né sentita: il terrorismo. Cominciò con una bomba carta davanti al Senato ad agosto, poi ci furono alcuni botti qua e là e di colpo – fatto enorme, mai del tutto chiarito malgrado milioni di pagine e lunghi processi – la strage in una banca a piazza Fontana a Milano. Brodolini nel 1969 sapeva già di star per morire di cancro (si sarebbe spento in una clinica svizzera di lì a poco) e decise di passare la notte dell’ultimo dell’anno con gli operai dell’Apollon in sciopero. Ai suoi tempi, esisteva ancora un Partito socialista che competeva con il Partito comunista e fra i due partiti girava la famosa “cinghia di trasmissione” che era la Cgil, il sindacato rosso in cui comunisti e socialisti convivevano anche nei momenti più duri della loro lunga e poco fraterna competizione. Stalin, durante i due anni di alleanza con Hitler dal settembre del ’39 al giugno del ’41 quando i tedeschi invasero l’Urss capovolgendo i fronti della guerra, aveva dichiarato guerra ai socialisti occidentali che solidarizzavano con i governi borghesi delle democrazie occidentali, chiamandoli «social-fascisti», definizione sprezzante cui Palmiro Togliatti, allora numero due a Mosca del Comintern, aderì. Poi Togliatti fu rispedito in Italia per aprire a tutte le forze antifasciste anche di destra e la pace fu fatta fra i due partiti che combatterono insieme nella guerra di Liberazione, anche se molti socialisti portavano i fazzoletti tricolori di Giustizia e Libertà del Partito d’Azione e Brodolini era uno dei loro: Partito d’Azione come Riccardo Lombardi, Francesco De Martino e tanti altri. Fra socialisti e comunisti c’erano differenze sostanziali e spesso i primi erano più “a sinistra” dei comunisti, come accadde per lo Statuto dei lavoratori dove la parte socialista della Cgil, che era minoritaria, fu dominante anche sulla parte comunista guidata da Giuseppe Di Vittorio. E Giuseppe Di Vittorio aveva già pagato, da comunista, un alto prezzo per la sua amicizia con i socialisti e con lo stesso Brodolini. Era accaduto per i cosiddetti “fatti d’Ungheria” dell’ottobre del 1956, quando una rivolta guidata dai leader comunisti ungheresi contro l’oppressione dell’occupante sovietico, portò ad un cambio dei vertici del partito comunista ungherese. Nikita Krusciov era da poco succeduto a Stalin dopo una breve lotta di potere e non si sentiva nell’animo di procedere in modo staliniano, con un intervento armato. Il Pcus era diviso e a fare la differenza furono due leader non sovietici: il presidente cinese Mao Zedong e il leader comunista italiano, Palmiro Togliatti che fecero pendere la bilancia dalla parte dell’intervento che avvenne con estrema violenza e schiacciò nel sangue sotto i cingoli dei carri armati la rivolta degli operai e degli studenti di Budapest. Questo evento spaccò la sinistra italiana perché fra i socialisti soltanto Lelio Basso e Giorgio Vecchietti espressero una linea di “comprensione” per l’intervento e per questo furono marchiati con il nomignolo spregiativo di «carristi». Non soltanto Giacomo Brodolini non era un carrista e si indignò moltissimo, ma trascinò nella sua indignazione il segretario comunista della Cgil Giuseppe Di Vittorio, il quale sottoscrisse il messaggio preparato da Brodolini con un linguaggio molto esplicito di condanna e «profondo cordoglio per i caduti nei conflitti che hanno insanguinato l’Ungheria» a causa «dell’intervento di truppe straniere». Di Vittorio aveva appoggiato il socialista Brodolini il quale faceva anche parte della Direzione socialista e quindi si ripropose di nuovo la questione del “social-fascismo” anche se in termini capovolti. Inoltre, il Psi di cui Brodolini era un dirigente e poi un vice segretario, era diventato da alcuni anni un partito di governo, avendo accettato l’unico compromesso storico che abbia funzionato, e cioè la coalizione di governo che vedeva i socialisti fino a quel momento chiamati «socialcomunisti» per la loro alleanza nel Fronte popolare, insieme ai democristiani di Aldo Moro, malgrado le aperte riluttanze di Amintore Fanfani, che rappresentava insieme i sentimenti più conservatori e le posizioni più avanzate dal punto di vista sociale. No, non era facile a quell’epoca dividersi con chiarezza e stabilire chi fosse più a sinistra di chi. D’altra parte, era arrivato lo tsunami del Sessantotto, con tutte le sue frange ribellistiche e rivoluzionarie che avevano messo in crisi la sinistra comunista. Antonio Giolitti, figlio dello storico presidente del Consiglio prefascista Giovanni Giolitti. Antonio era stato il più vicino collaboratore di Togliatti, molto fiero di averlo al fianco come simbolo della continuità del suo partito con la democrazia liberale. Quando vide che Togliatti aveva vinto e applaudito la repressione dell’Armata Rossa sugli insorti ungheresi, ruppe con pochi altri formando una mini-secessione dal Partito comunista, che trasmigrò nel Psi di Pietro Nenni, Riccardo Lombardi e Rodolfo Morandi. I due partiti avevano entrambi la falce e il martello nel simbolo (sarà Craxi a togliere «tutta quella ferraglia russa») frutto dell’antica posizione pro-bolscevica, che nel Psi si aggiungeva al libro aperto – simbolo dell’istruzione come fonte di elevazione sociale – e il sole inteso come Sol dell’Avvenir. Ero allora nei miei secondi anni Venti ed ero un redattore dell’Avanti! che aveva sede in Vicolo della Guardiola e usava l’antica rotativa dell’Avanti di Milano che era stata portata via dai nazisti in fuga e poi recuperata. Le riunioni con Brodolini, Nenni e talvolta Riccardo Lombardi avvenivano spesso in un salone densamente affumicato ed erano riunioni lunghissime, di una qualità e di uno spessore oggi non riproducibile, o forse soltanto inutile. Nella galleria storica dei direttori dell’Avanti! era stata mantenuta la foto di Angelica Balabanoff ma non quella del suo partner nella direzione Benito Mussolini. La Balabanoff, cosa molto curiosa, dopo essere stata membro del Partito bolscevico a Mosca, dopo la guerra rientrò nel Partito socialista italiano e di lì partecipò nel 1947 alla scissione anticomunista di Giuseppe Saragat a palazzo Barberini dove fondò il Partito socialista democratico italiano, con cui noi socialisti di allora dovemmo riconciliarci, ma sempre guardandoci in cagnesco. Saragat all’epoca del varo dello Statuto dei Lavoratori era diventato presidente della Repubblica e per la sua nota passione per il vino si diceva che facesse l’alzabandiera con bianco rosso e verdicchio, ma dettò un solenne epitaffio in memoria di Giacomo Brodolini e del suo Statuto dei lavoratori. Quello Statuto, che pochi anni più tardi fu riconosciuto difettoso in molte sue parti e poco adatto all’economia moderna che prevede una fisiologica mobilità, inserì in maniera definitiva nella legge italiana i diritti fondamentali in particolare in materia di assunzione e di licenziamento dei lavoratori, rendendo quest’ultimo quasi impossibile. Rimproverato dal leader repubblica Ugo La Malfa, Brodolini rispose che i socialisti erano effettivamente di parte: «Da una parte sola, quella dei lavoratori».
Riccardo Lombardi, il socialista che ancora oggi è un faro per i riformisti. Fausto Bertinotti su Il Riformista il 17 Settembre 2020.
Riccardo Lombardi, chi era? La domanda non appare purtroppo irricevibile nell’Italia di oggi, almeno tanto quanto lo è stata, al contrario, per tutto il lungo dopoguerra italiano, di cui Lombardi è stato protagonista forte e incisivo in ogni sua fase e, in particolare, non casualmente, in quelle di svolta. Lombardi è stato forse l’ultimo leader di una tendenza politica che ne ha potuto prendere doverosamente il nome: “lombardiani” si è potuto dire fondatamente come per i grandi esponenti storici dei partiti del Movimento operaio. L’eclisse della sua fama si ha già con la nascita dell’ultimo tentativo riformistico in Italia, quello del centrosinistra dell’Ulivo, dopo lo scioglimento del Pci e la scomparsa del Psi. Riccardo Lombardi non entrò mai nel pantheon eretto dai dirigenti del nuovo corso ai fini di rivendicarne l’eredità. Lo ha salvato da questo destino la sua irriducibilità a un qualsiasi esito moderato. È impossibile ridurlo a un santino tutti benedicente. Piuttosto che un santino, è stato e rimane una pietra di inciampo. Originalità, radicalità e intransigenza hanno segnato la sua singolare presenza sulla scena della politica della sinistra italiana. L’originalità del suo pensiero politico ne ha fatto un riferimento di quella corrente di marxismo critico che, specie negli anni Sessanta, si affermò nel segno del riformismo-rivoluzionario; la radicalità sempre rivendicata nella prassi politica lo fece attore decisivo della nascita dell’esperienza riformatrice del centrosinistra, quello della rottura con il ciclo centrista della ricostruzione e, contemporaneamente, suo critico implacabile quando esso piega nel moderatismo confindustriale; intransigente portatore con l’esempio di un’idea della vita e della politica rigorosamente coerenti, l’una e l’altra volte alla liberazione dell’uomo. Protagonista in tutto il dopoguerra, veniva da lontano, portando nel suo bagaglio come costante, sempre pur nelle diverse esperienze politiche, l’idea di giustizia e libertà in Italia e nel mondo. Un mondo che lo vedrà impegnato contro le armi, contro la guerra, contro il pericolo della distruzione atomica, per la pace, per il superamento della divisone del mondo in due blocchi contrapposti, contro l’imperialismo, contro ogni politica di potenza. Veniva da lontano, negli anni Venti aveva frequentato il sindacalismo cattolico, dalla cui cultura si era separato con una ricerca che confrontava Marx con Benedetto Croce. L’antifascismo è stato pensato, praticato e vissuto nella sua forma più netta, più alta e carica di futuro, dalla militanza alla direzione politica, al carcere, fino alla Resistenza e alla Liberazione. C’è una foto di una manifestazione nella Milano liberata che annuncia l’avvento della Repubblica, o almeno la speranza di un’altra Italia che ne accompagnò l’avvento. La aprono uno accanto all’altro, con Riccardo Lombardi, Mattei, Longo, Cadorna, Parri, Pertini, Solari e La Malfa. Lombardi sarà il primo prefetto di quella Milano liberata e da quella storia integerrima gli veniva un’autorevolezza di cui però non si fece mai scudo. Il dopoguerra lo attraversò da protagonista ma soltanto per le idee messe in campo per la trasformazione dell’Italia, soltanto per fare della sinistra rinnovata il soggetto politico del suo cambiamento e, allo stesso modo, ne è stato protagonista per la sua azione diretta, un’azione di direzione politica prima nel Partito d’Azione, poi nel Partito socialista italiano. In quell’oligarchia di fatto che da Nenni a Basso, a Foa, a Santi, a Morandi, a Panzieri, a Vecchietti ha diviso nell’unità, nel confronto e nello scontro, con il più grande Partito comunista dell’Occidente, la guida del Movimento Operaio Italiano. Un’oligarchia a cui era consentito l’eccezione di chiamarsi per nome. Cosa dovesse essere il Psi in questo confronto gli fu sempre chiaro, anche quando non condiviso in entrambi i partiti. Non una forza socialdemocratica, come si evince fin dalla sua critica aspra e radicale alla svolta di Bad Godesberg; non una forza subalterna al Pci, neppure in nome dell’unità. Il Psi avrebbe dovuto essere una soggettività, la cui autonomia doveva essere fondata sul proprio progetto di società, sia sulla via per realizzare la trasformazione socialista, che per la riforma del Paese, delle sue strutture, della sua economia, delle sue istituzioni. Era la bussola dell’autonomia, non costruita negativamente sulla distanza dall’altro, ma invece sulla propria originale natura politica. Fece scalpore e si attirò le critiche dei comunisti un suo coraggioso intervento al congresso del Pci quando, davanti a tutti, si dichiarò acomunista. Fu letta come una provocazione, era, al contrario, un investimento su di sé, sulla capacità per i socialisti di essere autonomi, era anche un argine contro l’anticomunismo a cui mai, neanche per lo scontro più duro, si piegò. Il cammino che proponeva era un sentiero stretto in un territorio scosceso, ma forse l’unico capace di intravedere un futuro diverso. Lo si vide bene col governo di centrosinistra, quello della svolta degli anni Sessanta. Di nuovo, a venire alla luce è il tema dell’autonomia, questa volta l’autonomia del partito nei confronti del governo, che pure aveva voluto fino a pagare il prezzo di una scissione molto dolorosa, quella della nascita di Psiup. Per Riccardo Lombardi l’autonomia del Psi dal governo di centrosinistra riguardava la meta, la meta che il partito deve continuare a perseguire, la meta della trasformazione socialista sia negli obiettivi strategici che nella pratica di governo. Lo aveva già dimostrato nella fase di preparazione del centrosinistra organico quando, nel 1963, in quella che fu chiamata “la notte di San Gregorio”, Lombardi ruppe con Nenni, che proponeva di accettare la proposta programmatica con la quale Dc e Psi avrebbero dovuto far nascere il nuovo governo di coalizione. La rottura ne bloccò temporaneamente il percorso. L’annuncio ebbe poi uno sviluppo coerente. Lombardi rifiutò di assumere nel primo governo di centrosinistra il dicastero più importante, oggetto di una durissima contesa tra la Democrazia cristiana e i socialisti. Il dicastero che poi gli fu proposto, quello del Bilancio e della programmazione, un ministero di nuova istituzione che rifiutò per andare a dirigere l’Avanti!, il giornale di partito, che guidò fino alle sue dimissioni per l’incompatibilità tra la posizione critica assunta dal giornale e l’adesione del partito al governo. L’esito dell’importante esperimento di centrosinistra, dopo risultati assai rilevanti, come, tra gli altri, la riforma della scuola, la nazionalizzazione dell’industria elettrica, fu il suo fagocitarsi in un corso moderato con la sconfitta in esso del tentativo riformatore. Lombardi ne prese atto e si rimise in cammino, cercando nuove vie, nuovi interlocutori, nuove realtà in movimento, fino al dialogo con i cattolici del dissenso, fino ai Convegni di Vallombrosa. In questo costantemente affermato primato del progetto di trasformazione della società per il socialismo, Riccardo Lombardi ha fondato l’autonomia del soggetto politico e ha dato seguito a una ricerca ininterrotta su quella stessa strada. Nel 1968, Gilles Martinet con una felice intuizione chiamò questa tendenza “riformismo-rivoluzionario”. In questa tendenza, Martinet accumulava esponenti critici sia del Psi che del Pci: Lombardi, Basso, Foa, Ingrao, Magri ed altri. Lo stesso Lombardi farà propria questa definizione in una lezione del 1974. L’apparente ossimoro in realtà indica un superamento e apre una ricerca altrimenti impettita che si può così riassumere: fallita la costruzione del socialismo attraverso la conquista dello Stato, quale sarebbe stata la nuova strada, visto che il socialismo sarebbe comunque rimasto una necessità storica e la via ugualmente necessaria per la liberazione dallo sfruttamento dell’uomo sull’uomo e dall’alienazione umana? Dice Lombardi che si trattava «di rendere accessibile attraverso il movimento di massa la possibilità alternativa non obbligata nelle decisioni a livello strutturale e sovrastrutturale, persuadere attraverso l’azione politica e l’azione di massa che non c’è nulla di obbligato e nulla di tecnicamente vincolato, che non c’è soluzione unica imposta dal capitalismo e che, anzi, a ogni scelta il movimento ne può opporne una diversa e contraria». E ancora: «Possono crearsi dei poteri parziali nella società da utilizzare per creare nuovi problemi, che esigono nuove riforme e nuovi passi in avanti e così iniziare un’opera che si può dire di “alimentazione” di cui, guarda caso, c’è un antecedente teorico, la visione cioè di questa serie ininterrotta di riforme, l’una richiamantesi all’altra e occasionate, quella successiva, attraverso il sistema di poteri incessantemente strappati alla classe dirigente. È la vita al socialismo che sostituisce alla grande rottura una serie ininterrotta di rotture e di germinazione di realtà liberate». È significativo che in questa ricerca Lombardi operi due ricomposizioni importanti. La prima, lo fa in questa stessa lezione ora citata, con il suo grande antagonista storico nel Psi degli anni Sessanta, Rodolfo Morandi; la seconda la fa con la linea dei contropoteri avanzata da Raniero Panzieri e da Foa, una linea che aveva generato la divisione degli anni Sessanta. Direi, infatti, che le due linee, quella della riforma di struttura dall’alto e quella dei contropoteri dal basso, possono e devono comporsi nel processo di trasformazione della società. Lombardi aggiunge persino una autocritica per il carattere illuministico della sua precedente visione delle riforme dall’alto. Due solo opzioni restano infine antagoniste. È ancora Riccardo Lombardi a fare chiarezza: «Si intravedono già fin d’ora sufficientemente articolate le due tendenze fondamentali: l’una è indirizzata alle riforme rispettose dell’ordine giuridico, proprietario dello Stato borghese, e tendenti essenzialmente all’equità nella ripartizione del reddito, cioè la tendenza a creare e consolidare lo stato di benessere, il welfare state; l’altro filone è quello che, sempre dall’interno dello Stato e utilizzando gli strumenti della democrazia politica, punta sulle riforme rivoluzionarie, cioè sulle riforme dirette a infrangere il quadro dell’ordinamento proprietario esistente, per creare non già lo Stato di benessere, ma la società senza classi». Proprio da questo pensiero deriva la necessità delle riforme di struttura che costituiscono il nucleo centrale dell’idea lombardiano della trasformazione. Era giunto alla stessa conclusione Lelio Basso: «Quello che caratterizza il riformismo non è la lotta per le riforme, che ogni marxista deve proporsi, ma è l’isolamento del momento riformatore dal momento rivoluzionario. Conseguenza di questo isolamento è che le riforme perdono ogni carica anticapitalistica e finiscono spesso con il diventare addirittura strumenti per il processo di integrazione». Le parole di Riccardo Lombardi restano pietre e parlano ancora di oggi. È l’inattualità attuale di Riccardo Lombardi. L’ossimoro qui è reale e ci serve per non arrenderci all’ordine delle cose esistenti e alla miseria della politica dei nostri giorni. Ci serve per non arrenderci al senso comune travestito dalle “novità epocali” che ci hanno travolto. C’è, di certo, l’inattualità di quel grande Novecento sconfitto e concluso, ma questo non ci preclude il beniaminiano balzo di tigre. È l’operazione che ci consentirebbe di riprendere dentro il Novecento i brandelli di storia ancora carichi di futuro. Non ha scritto Franco Fortini: «L’Internazionale fu vinta e vincerà»? Sì e quando rinascerà in Europa una sinistra anticapitalista, socialista, certo sarà ancora debitrice nei confronti di Riccardo Lombardi.
Il dibattito sul leader socialista. Riccardo Lombardi: snobbato dal Pci, avversato dalla Dc, ostacolato da Nenni e odiato da Pertini. Fabrizio Cicchitto su Il Riformista il 18 Settembre 2020. Riccardo Lombardi è stato un personaggio straordinario, non solo un leader politico, ma anche un grande uomo di cultura. È affascinante ripercorrere la sua giovinezza politica (1919-1940), anche con il contributo del bel libro di Luca Bufarale, perché egli nel corso della sua vita ha vissuto e attraversato una molteplicità di mondi politici e culturali per cui il suo “meticciato” è stato davvero straordinario, al contrario di altre personalità la cui vita politica è stata assolutamente univoca e monocorde (sempre cattolico o socialista o comunista). Nella sua giovinezza politica Lombardi ha vissuto in modo profondo l’esperienza della sinistra del partito popolare. Successivamente egli ha molto approfondito gli studi economici, ma lo ha fatto avendo come punti di riferimento globali prima Marx e poi Croce (sfuggendo così al rischio sottolineato ironicamente da Salvemini secondo il quale prima Marx apre i cervelli alla capacità di analisi, poi li rincoglionisce nel dogmatismo). Subito dopo l’avvento del fascismo Lombardi, pur avendo posizioni del tutto indipendenti e autonome, ha molto frequentato il partito comunista clandestino, incontrando anche Tatiana Schucht (la cognata di Gramsci), a cui portò un contributo economico per aiutare Gramsci in carcere. Attraverso queste frequentazioni Lombardi acquisì piena conoscenza del dibattito interno al PCI (la lettera di dissenso di Gramsci del 1926 nei confronti di Stalin e del suo gruppo vincente e poi la chiusura settaria del VI Congresso con la teorizzazione del socialfascismo e con l’espulsione dal PC d’Italia dei “tre” – Alfonso Leonetti, Paolo Ravazzoli, Pietro Tresso). Lombardi ebbe rapporti così stretti con i comunisti in clandestinità che in quell’ambiente conobbe la compagna della sua vita, Ena Viatto, precedentemente legata a Girolamo Li Causi (capo dei socialisti siciliani), la quale era una delle cosiddette fenicottere, usate dall’Internazionale Comunista per mandare messaggi, finanziamenti e altro in giro per l’Italia. Ho voluto ricordare questi profondi rapporti di Lombardi con il mondo cattolico e con il partito comunista per sottolineare la grande complessità della sua formazione politica e culturale e contestare alla radice la banalizzazione della sua posizione fatta (nella famiglia socialista) dal settarismo di Rodolfo Morandi, dalla ottusa faziosità di Dario Valori e di Tullio Vecchietti e dall’odio personale nutrito nei suoi confronti da Pertini che con l’appellativo-insulto di “giellista” e di “azionista” puntarono a liquidare una personalità politica dotata di grande spessore e di grande complessità. In effetti, Riccardo Lombardi, proprio partendo dalla sua profonda conoscenza del mondo cattolico, del partito comunista, del partito socialista, puntava sul fatto che il Partito d’Azione avrebbe dovuto essere un soggetto politico del tutto nuovo, non appesantito o degenerato in seguito ai limiti e alle perversioni sia del riformismo storico che del massimalismo e nel contempo distante e autonomo dallo stalinismo e dal suo intreccio fra dogmatismo e spregiudicato tatticismo. Il Partito d’Azione avrebbe dovuto essere il protagonista di un’autentica rivoluzione democratica capace di smantellare con una serie di riforme di struttura la sostanza del fascismo, che non era come sosteneva Benedetto Croce una “invasione degli Hyksos”, ma qualcosa di profondo e di organico nella società italiana. Analisi simile a quella di Piero Gobetti. Di qui Lombardi sviluppò un’elaborazione che portò a quello che poi fu chiamato “il riformismo rivoluzionario”. Lombardi fece di tutto per evitare due scissioni, quella del Partito d’Azione e quella del PSI. L’insuccesso di entrambi questi tentativi fu il segno del fallimento di quella che poi è stata chiamata la “sinistra democratica” che ha prodotto alcuni piccoli partiti anche seri e nobili, ma non in grado di misurarsi alla pari con la DC e con il PCI. A conclusione di tutte queste battaglie Riccardo Lombardi e una larga parte dei suoi amici azionisti confluirono nel PSI. E qui ci troviamo di fronte ad una catena di eventi paradossali. Nel corso dei vent’anni del fascismo il PSI era praticamente scomparso come forza politica organizzata. Ebbene, malgrado tutto nel 1946, cioè prima alle elezioni amministrative, poi al voto per l’Assemblea Costituente, il Partito d’Azione praticamente scomparve e invece il PSI ottenne più voti del PCI (il 20%). Gli elettori si espressero in modo molto significativo: la loro domanda era quella di un socialismo autonomo, riformista, innovatore, di stampo laburista. L’autentico crimine politico allora commesso da Pietro Nenni e da Rodolfo Morandi fu quello di non dare una risposta politica e culturale a quella spontanea domanda degli elettori, ma anzi di fare l’opposto. Non solo essi si mossero nella direzione del fronte popolare con il PCI (alle origini il fronte non fu proposto da Togliatti, ma da Nenni), ma addirittura fecero del PSI un partito organicamente stalinista sia dal punto di vista ideologico, che del suo regime interno, una sorta di partito comunista di serie B. Invece Saragat aveva capito quasi tutto quello che stava maturando a livello internazionale a causa del totalitarismo dell’URSS. Saragat aveva anche ben chiaro il legame di ferro che legava il PCI al PCUS e conseguentemente l’assoluta negatività del fronte popolare. È stata invece probabilmente sbagliata la sua scelta di fare la scissione dal PSI fin dalla fine del 1947. Infatti, dopo la disfatta del 18 aprile del 1948 riemersero gli spiriti animali dell’autonomia socialista e un’eterogenea coalizione costituita proprio da Riccardo Lombardi, con Fernando Santi, Alberto Jacometti, Giovanni Pieraccini e da molti altri mise in minoranza Nenni e Morandi. Non a caso la loro mozione si chiamava Riscossa Socialista. Fu in quell’occasione che si verificò la rottura totale, politica e personale, fra Lombardi e Pertini. Pertini era stato fra i fondatori della mozione autonomista, ma in pieno Congresso abbandonò i suoi compagni di cordata attaccando Lombardi perché azionista. Lombardi e Santi ritennero quell’atto un autentico tradimento. Sono stato personalmente testimone del fatto che la rottura non si è più ricomposta. Comunque, se ce ne fosse bisogno (ma non c’è) quello che accadde in seguito a quel rovesciamento di maggioranza nel PSI costituì una conferma dell’importanza decisiva dei soldi in politica. Subito dopo la vittoria degli autonomisti la nuova direzione del PSI si ritrovò senza una lira e senza la possibilità di finanziamenti alternativi. Testimonianza di Lombardi al sottoscritto: «Allora non si scherzava: i soldi li prendevi dal KGB e dalla cooperative rosse, come facevano Nenni e Morandi; oppure li prendevi dalla CIA, dall’Assolombarda e dalla FIAT. Puoi pensare che io e Foa chiedessimo i soldi alla CIA e alla FIAT?. Malgrado tutto – mi raccontò Lombardi – il successivo Congresso del 1949 lo rivincemmo, sia pure per un pelo, ma non avendo una lira riconsegnammo il partito a Nenni e a Morandi e ci arrendemmo ad un regime interno di stampo stalinista che non consentì il dibattito politico fino al 1956. Lelio Basso, che aveva amici socialisti e comunisti perseguitati dallo stalinismo nei paesi dell’Est, fu estromesso dalla direzione, pedinato e emarginato. Solo io, Santi, Pertini e Nenni lo salutavamo alla Camera». Questa infame situazione paradossalmente saltò per aria grazie ad un avvenimento internazionale, il XX Congresso del PCUS. Nenni parzialmente si riscattò con alcuni bellissimi articoli su Mondo Operaio che sostenevano l’irriformabilità del sistema comunista. Riccardo Lombardi, insieme ad Antonio Giolitti – uscito dal Pci dopo l’invasione sovietica dell’Ungheria – fu il cervello economico del PSI nella nuova fase preparatoria del centro-sinistra. Fu quella la stagione caratterizzata da un fervore riformista mai verificatosi nella storia italiana: la nazionalizzazione dell’energia elettrica, la legge urbanistica, la riforma della federconsorzi, il fisco, in prospettiva la sanità, le Regioni e infine la legge sul divorzio. Riccardo Lombardi impersonò quella fase, tant’è che egli era al centro degli attacchi di tutti i giornali conservatori, che allora erano quasi tutti i giornali. In lui c’era certamente una venatura di utopismo: egli pensava possibile una concatenazione di riforme che realizzassero in corsa la modifica del modello di sviluppo e quindi la transizione al socialismo. Era il progetto del “riformismo rivoluzionario”. Più realista, da ex comunista, Antonio Giolitti si contentava del “riformismo possibile” (scrisse un libro dal titolo “il socialismo possibile”): una serie di riforme con una politica economica finanziariamente equilibrata. Per una fase gli interlocutori di questo riformismo socialista furono Amintore Fanfani e il sindacalismo cislino, ma contro quel riformismo si scatenò di tutto, fino al golpismo di Antonio Segni e del gen. De Lorenzo. Il paradosso, però, non fu costituito dal fatto che una parte dei conservatori diventò reazionaria. Il paradosso, o meglio l’autentica anomalia, fu costituita dal comportamento di un largo settore della sinistra: in parte stupido e ottuso, in parte solo tatticista, in parte addirittura finanziato dai nemici delle riforme. Il PCI si divise in tre tendenze: Amendola era apertamente favorevole ad un sostegno al centro-sinistra, Ingrao era del tutto contrario, Togliatti inizialmente fu favorevole poi decise di giocare di rimessa. Chi si comportò in modo incredibile fu la sinistra socialista di Valori, Vecchietti, Basso. Essa decise di fare la scissione dal PSI nel momento più delicato, facendo un enorme favore ai dorotei della Dc che non volevano far saltare il centro-sinistra, ma ridurlo ad un’operazione moderata. Riccardo Lombardi fece di tutto per evitare la scissione. Ci fu un incontro fra una delegazione della sinistra lombardiana composta da Lombardi, Tristano Codignola e Fernando Santi e una della sinistra socialista composta da Dario Valori, Tullio Vecchietti e Lucio Lami. Dopo due ore di chiacchiere inconcludenti Lami, fino ad allora silenzioso, prese la parola: “Riccardo ti prego di non perdere parte del tuo tempo prezioso a parlare con i tuoi amici del PCI perché ci convincano a non fare la scissione. Noi siamo autonomi dal PCI. Noi abbiamo stabilito rapporti diretti con i compagni del PCUS e io, che sarò l’amministratore del nuovo partito che si chiamerà PSIUP, ho risorse finanziarie per tre anni, poi si vedrà”. Lelio Basso, tramite Segni, di cui era amico personale, ebbe da Cefis, allora presidente dell’Eni, un altro contributo finanziario. Per Lelio Basso evidentemente si trattava del corrispettivo del famoso treno dell’esercito tedesco che riportò Lenin in Russia. Il riformismo rivoluzionario era giusto come progetto che prevedeva una serie di riforme fondamentali per cambiare e modernizzare una società italiana vecchia, anchilosata e burocratica, arretrata rispetto al resto dell’Europa. Era invece impraticabile se considerato come una concatenazione di riforme le quali, non interrompendo il processo produttivo, tuttavia mettevano in atto un processo che portava alla transizione verso il socialismo (quale socialismo? E poi è possibile mantenere il processo produttivo e nel contempo avviare la transizione verso il socialismo? Ed è possibile uno sbocco socialista in un paese solo dell’Europa?). Comunque a un certo punto a essere bloccate furono le riforme in quanto tali non la transizione al socialismo. L’Italia paga ancora le conseguenze di quel processo riformatore. Per questo Lombardi non esitò a entrare in rotta di collisione per ben due volte con Pietro Nenni finendo in minoranza nel partito. In ogni caso, vedendo quello che è accaduto successivamente quel confronto sulle riforme ebbe un livello mai più raggiunto, certamente neanche sfiorato ai tempi del governo Prodi dell’Ulivo. Altrettanto e forse più contraddittorio fu il rapporto di Lombardi con Bettino Craxi dove però, anche in quel caso, da entrambe le parti erano in campo idee e progetti di alto livello, da un lato la ristrutturazione unitaria della sinistra, dall’altro l’autonomia socialista e l’egemonia sul governo. Ma anche in quel caso Lombardi e la sinistra lombardiana persero la battaglia anche perché furono del tutto isolati dal PCI. Quando al Congresso di Torino, nel 1978, tutto il PSI, Craxi compreso, con rapporti di forza molto significativi, affermò la prospettiva dell’autonomia e dell’alternativa di sinistra scartando la riproposizione del centro-sinistra, il PCI non prese per nulla in considerazione quella proposta, rispose con la strategia del compromesso storico e poi con il governo Andreotti di unità nazionale. Per concludere non voglio sottrarmi ad una valutazione che, sia pure di passata, riguarda il presente. Certamente nel ‘92-‘94 c’è stata una coalizione fra una parte dei grandi gruppi finanziari ed editoriali, alcune procure che, dopo una fase di incertezza, realizzò l’incontro con il PDS. A quel punto quella coalizione allargata ha distrutto il PSI, i partiti laici minori e una larga parte della DC. Non sembra però che dalla distruzione del PSI, prima il PDS e la Margherita, poi il PD, cioè la sinistra attuale, abbiano tratto un gran vantaggio, né dal punto di vista culturale né da quello politico. Francamente l’attuale dibattito culturale nel PD mi sembra penoso, nel migliore dei casi possiamo dire che è del tutto inesistente. Sul piano politico basta quello che sta avvenendo sul referendum per il taglio dei parlamentari per avere i brividi nella schiena. Può darsi che tanti anni fa se il PDS, invece di seguire la via giudiziaria – scelta ad un certo punto dai “ragazzi di Berlinguer” (Occhetto, D’Alema, Veltroni) – avesse seguito quella proposta dai miglioristi con la conseguente unità fra il PSI e il PDS e la sconfitta delle tendenze eversive, populiste e giustizialiste, le cose sarebbero andate meglio rispetto al disastro oggi in corso.
Riccardo Lombardi, il socialista sopravvalutato che voleva un riformismo che aveva come obiettivo il comunismo. Giuliano Cazzola su Il Riformista il 20 Settembre 2020. Essere stati lombardiani, da giovani, per persone della mia generazione (che poi è in tutto e per tutto quella di Fausto Bertinotti) quando si affacciavano sul mondo della politica, era come prendersi da piccoli una malattia esantematica. Ma, per stare nella metafora, aver il morbillo a ottant’anni è assai sconsigliabile. Su Riccardo Lombardi non sono della stessa opinione del mio amico Fausto. Se non fosse che tutti i salmi finiscono in gloria e che una classe politica di nani (come l’attuale) finisce sempre per impressionarsi quando si evocano le decantate “gran virtù dei cavalieri antichi”, ci accorgeremmo che tante figure gloriose del passato sembrano svettare in alto solo perché – grazie ad un sapiente uso delle luci della storia – proiettano un’ombra lunga, del tutto sproporzionata rispetto alla loro statura effettiva. Ai primi posti nell’elenco dei “sopravvalutati” andrebbe collocato, a mio avviso, anche Riccardo Lombardi, di cui si celebra – al suono dei soliti pifferi postumi – la ricorrenza del decesso il 18 settembre. Più giustamente, il leader storico della sinistra socialista (quella parte non “carrista”: un epiteto usato per definire il gruppo di parlamentari del Psi che nel 1956 appoggiarono, insieme ai comunisti, l’aggressione sovietica all’Ungheria) andrebbe annoverato tra i “cattivi maestri”. Io mi sono iscritto al Psi nel 1963 quando sulla tessera erano ancora stampigliati la falce, il martello e il libro; nei miei verdi anni fui lombardiano (ad esserlo si poteva ottenere dai comunisti, in tempi di centro-sinistra – quello vero, della prima Repubblica – la patente di “socialista recuperabile”, non traviato dall’insano raptus governativo di Pietro Nenni e soci): Ma credo di aver vissuto abbastanza per vedere alla prova le singolari teorie di Riccardo Lombardi. A quella insigne personalità vanno certamente riconosciuti dei meriti: antifascista, partigiano, prefetto della Liberazione a Milano, colto, brillante oratore, acuto scrittore, onesto sul piano personale (anche se per le esigenze della sua corrente non rifiutava, magari per interposta persona, quei finanziamenti che, anni dopo, diventarono il passepartout del pool di Mani pulite). È sul piano dell’azione politica che la figura di Lombardi deve essere messa in discussione. Da segretario del Partito d’Azione nell’immediato dopoguerra, non poche furono le sue responsabilità nella scomparsa di quella formazione (che pure aveva ben meritato nella riconquista della democrazia, mettendo in campo formazioni militari seconde solo alle Brigate Garibaldi). Ma non andiamo tanto indietro. Approdato nel Psi, Lombardi svolse un ruolo decisivo nella battaglia autonomista (in alleanza con Pietro Nenni) allo scopo di sganciare il partito dalle posizioni “frontiste” e condurlo ad una prospettiva di governo, intesa come passaggio verso una graduale trasformazione socialista della società e del modello economico. Dopo l’avventura tambroniana nel 1960, la Dc, sotto la regia di Aldo Moro, allora segretario del partito, consolidò l’apertura a sinistra e avviò il dialogo col Psi. Nel 1963 già si erano determinate le condizioni per un esecutivo di centro-sinistra organico (come si diceva allora) con tanto di ministri socialisti. Cominciò, allora, la stagione del rigore programmatico di Lombardi. Nulla di male si dirà: pretendere il rispetto del programma concordato è prova di serietà. Basterebbe, però, andare a vedere quali erano gli obiettivi del leader socialista, all’inizio degli anni ’60, per rendersi conto che quelle rivendicazioni, oggi, le sostiene solo Fausto Bertinotti (che è il vero erede di Lombardi). Il suo era un radicalismo persecutorio, giacobino che intesseva insieme l’abolizione del segreto bancario (gli sportelli degli istituti di credito furono presi d’assalto dalle zie d’Italia per ritirare i depositi nei libretti di risparmio), una riforma urbanistica che lasciava al proprietario solo un “diritto di superficie”, fino ad una “pianificazione democratica”, nei fatti dirigistica, che secondo Lombardi (che era marxista) avrebbe dovuto servire alla graduale socializzazione dei mezzi di produzione e di scambio. A pensarci bene non c’era molto differenza tra noi e i comunisti per quanto riguarda gli obiettivi da raggiungere, il tipo di società e di economia da realizzare. Persino i socialdemocratici (noi li chiamavamo “saragattiani” con la cattiva coscienza di chi ha torto) non avevano rinunciato alla c.d. socializzazione (dallo statuto del Labour Party quella espressione infelice e fallimentare è rimasta finchè non la fece togliere Tony Blair). Il problema stava tutto nei modi e nei tempi: essere riformisti (ma era più in voga chiamarsi riformatori) significava scegliere un lungo percorso evolutivo (come ebbe a dire Filippo Turati a Livorno: «La via lunga è anche la più breve perché è la sola che esista») rispetto alla rottura rivoluzionaria auspicata e perseguita dai comunisti, mediante quella dittatura del proletariato che avrebbe dovuto costituire la fase della transizione. In quei tempi, tutti restavano a bocca aperta ad ascoltare le teorie di Lombardi riassunte in una frase (che – oggi possiamo dirlo – è solo un insieme di sciocchezze): «Dobbiamo cambiare il motore (leggi: l’economia di mercato) senza fermare la macchina». E noi giovani lombardiani andavamo in giro per le sezioni durante i congressi a sostenere che la socialdemocrazia avrebbe fatto scuole, ospedali, strade, ma non le riforme di struttura. Nell’estate del 1963, durante la famosa notte di S.Gregorio, Lombardi e i suoi amici bocciarono, d’intesa con la minoranza di sinistra, il programma di governo, concordato dalla segreteria del partito, perché non conteneva un progetto di riforma urbanistica come quello dianzi accennato. Il Psi si spaccò e fu costretto a virare su di un appoggio esterno. L’anno dopo, lo accontentarono sul programma; così Lombardi rientrò nella maggioranza autonomista, contribuendo ad indurre alla scissione la sinistra di Vecchietti, Valori e Basso, i quali avevano fatto affidamento sulla ribellione lombardiana di qualche mese prima nella speranza di rovesciare la maggioranza nenniana. Lombardi divenne direttore dell’Avanti: da quella posizione si mise ad attaccare con puntiglio il governo. Ovviamente, la “sua” riforma urbanistica fu accantonata dopo appena pochi mesi: ciò costituì per Lombardi un motivo per l’uscita dalla maggioranza. Per fortuna non venne ascoltato. Ma il leader socialista si prese ben presto una rivincita. Alla Camera i parlamentari della sua corrente (Codignola, Carrettoni ed altri) votarono con l’opposizione contro un finanziamento di qualche decina di milioni di lire alla scuola privata (cosa che oggi è prassi normale anche per il Pd). Aldo Moro colse l’occasione per provocare una crisi di governo e costringere i socialisti a una consistente revisione programmatica. Cominciò, allora, l’eclissi di Lombardi e dei lombardiani (divenne celebre la frase della sua testa su di un piatto d’argento, con la raccomandazione che fosse pulito). La sua corrente ebbe un’occasione da protagonista solo nel 1976, al Midas, quando Claudio Signorile s’infilò sulla scia di Bettino Craxi nel rovesciamento di Francesco De Martino. Se qualcuno volesse prendersi la briga di leggere i discorsi e gli scritti di Riccardo troverebbe molte cose discutibili e datate e si domanderebbe cosa effettivamente abbia lasciato dietro di sé questo ingegnere prestato alla politica, ma negato per interpretarne il senso profondo. Perché in politica, come ci ha insegnato Luciano Lama, non basta avere ragione. Bisogna riuscire a farsela dare.
Caro amico odiatissimo: il carteggio Nenni- Pertini. Roberto Scafuri su Il Dubbio il 23 febbraio 2020. Caro Sandro. Caro, carissimo Pietro. Scoppi d’ira e ritorni di fiamma tra i due grandi socialisti. Caro Sandro. Caro, carissimo Pietro. Pietro… amico fraterno, dolce, leale. Ma anche, effetto di un impeto che trasfigurava fino alla cecità nel misurare fatti o persone, ecco il medesimo Pietro repentinamente diventare “insensibile, indifferente, sordo, meschino”. Scoppi d’ira e ritorni di fiamma in una storia d’amicizia infinita, ad alto tenore passionale, che pure seppe far grande il Socialismo italiano. E’ un carteggio al fulmicotone, quello tra Sandro Pertini e Pietro Nenni, riscoperto in un valigione dimenticato in soffitta dalla nipote di Nenni, Maria Vittoria, e proposto ora in uno delizioso volume da Antonio Tedesco e Alessandro Giacone ( Anima socialista, Biblioteca della Fondazione Nenni, Arcadia editore). Storia di un’amicizia vera e focosa, dunque, tra il Ligure e il Romagnolo, che percorre il Novecento italiano in una narrazione pazzesca, perché intessuta di lacrime e sangue; lealtà, affetti, divergenze e liti furibonde, quasi sempre innescate dall’irruenza di Pertini e assorbite da un pazientissimo Nenni ( persino questa capacità d’incassatore gli verrà rinfacciata dal compagno). D’altronde il giovane avvocato savonese era diventato, già durante il Ventennio, “grazie alla sua indefessa condotta morale, all’atteggiamento assunto nei confronti dei tribunali fascisti”, una figura di culto tra gli antifascisti in esilio – lui che nel ’ 29 abbandonò l’esilio parigino cominciando la penosa trafila di arresti e confini. Al punto che la sua immagine era comparsa negli anni ‘ 30 su alcuni annulli filatelici, realizzati da Giustizia e Libertà, sulle pareti delle sedi antifasciste e sulla tessera del PSI del 1938 ( assieme a Morandi e Pesenti). Non a caso Nenni gli chiede per lettera una foto leggendaria, quella dell’avventurosa traversata Genova- Corsica che condusse Turati all’esilio in Francia, su un motoscafo con a bordo, oltre a Turati e Pertini, Carlo Rosselli e Ferruccio Parri. Più il comandante Lorenzo Da Bove, che Pertini stesso chiede a Nenni di “tagliare” dalla foto, quando venne pubblicata per la prima volta nel maggio del 1927 su «La Libertà», giornale della concentrazione antifascista stampato a Parigi, per evitargli ritorsioni. Ma questo epistolario che va avanti a singhiozzo, in relazione agli eventi che i due vivono nella fase resistenziale e quella del Dopoguerra fino agli albori degli Ottanta, è soprattutto storia intima di un Partito, quello Socialista, nel quale l’umanità dei protagonisti finiva sempre per determinare un quid imponderabile nelle traiettorie politiche. Riunioni e congressi autentici e combattuti, al confronto dei quali impallidiscono certe odierne kermesse, certi imbonitori da centro commerciale, gli spettacolini da cabaret per imbelli stomaci da gregge. Nel Psiup poi ricostituitosi in Psi, la passione era moneta corrente e le Idee genere di lusso, eppure sempre e comunque passate al personale setaccio. Mai Chiesa o leggi divine, bensì morale laica, democratica, relativista forse, fino a quell’insana, eppure umanissima proprio in quanto suicida, propensione alla scissione. Tra Nenni e Pertini – autentici fari di un mondo che magari potesse oggi esser riproposto come “salvavita” di una nostra misera modernità – mai venne meno l’onestà delle posizioni, la lealtà di un affetto forgiato in anni “eroici” e dunque inossidabile al di là di ogni contrasto e durezza. E di una fede incrollabile nell’unità del partito, che li accomunava al di là di qualsiasi differenza di posizione, codificata da Sandro nel motto: “Meglio aver torto contro il Partito che avere ragione contro di esso” in una delle lettere a Nenni. Per restare assieme si potevano patire perciò anche affronti, mortificazioni e ostracismi, come il futuro presidente più amato dagli italiani spesso lamenterà. Drammatizzazioni di cui Pertini era maestro, spesso autoesiliandosi e pretendendo da Nenni la cancellazione da ogni incarico. Cosa che il leader romagnolo farà, il più delle volte non condividendo e cercando di far tornare Sandro alla ragione, come un prudente e accorto dirigente politico deve saper fare (“… Per il resto pazienza. I miei rapporti con Sandro sono stati purtroppo sempre inficiati da una serie di equivoci”). E quella de “il solito Sandro!” resterà un’imprecazione che per Nenni significava allo stesso tempo rassegnazione ma anche la persistenza di un fastidio che finiva per animare ancor di più Pertini. Come quando si ribellava alla descrizione di sé come di un “sentimentale” o, ancor di più, quando in toni straziati di sfogo, nell’ennesi- ma lunga filippica, rimprovera Nenni di non tenerlo abbastanza in considerazione: “… Ricordo sempre quel nostro legame politico ed anche affettivo. E mai collaborazione tra compagni fu più feconda e sincera di quella nostra. Poi accadde quello che è accaduto, tu sembrava ti studiassi ad allontanarmi da te, disistimando la mia sfera, diminuendomi dinanzi ai compagni. Sarebbe penoso ed anche per me umiliante se ti ricordassi alcuni fatti in proposito. ( Quando mai io ti chiesi poltrone nel periodo… aureo per il nostro Partito? E allora perché dire ai tuoi uomini del Viminale che “non sarei stato capace neppure per un… Sottosegretariato?!”). Conosciutisi nel 1927 a Parigi, i due, assieme a Giuseppe Saragat ( «Come, non lo conoscete? E’ il migliore di tutti noi», si stupì Nenni nel presentarlo ai compagni), costituirono nel ‘ 44 il “Triumvirato” che rimise in piedi le sparute schiere socialiste ( Nenni rimase esterrefatto guardando i ruolini consegnatigli da Giuseppe Romita, che dal ’ 42 aveva ripreso i tesseramenti: «Ma siamo pochissimi! Il Partito non c’è, ci sono solo i comunisti» ). Quello del rapporto con i “cugini”, i comunisti, sarà allo stesso tempo cornice comune dell’autonomia socialista, per Pietro e per Sandro una religione laica, ma anche terreno di scontro in più d’un’occasione. “Vi invitiamo a non precipitare – scrive Sandro in due lettere quasi identiche -; se la fusione si fa al più presto, i comunisti, che hanno una organizzazione quasi perfetta, superiore alla nostra, potrebbero facilmente assorbirci. Nel nuovo partito finirebbero per predominare loro, la loro mentalità, il loro metodo. Addio, allora, la democrazia interna, l’autonomia da ogni interferenza di forze esterne!”. L’entusiasta Pertini viene inviato a Milano a ricostituire il Partito durante gli eroici giorni della Liberazione, Nenni e Saragat tirano le fila da Roma, e lui li informa costantemente delle iniziative adottate (“Non vi stupisca che voglio essere presente tra i contadini con un giornale… so che i cugini stanno preparando qualcosa di simile. Dobbiamo quindi precederli. Non vi pare?… nel campo operaio teniamo testa ai cugini…”) e si getta anima e corpo in un partito che per lui “ormai è tutto, per questo non lo abbandonerò mai, ma anche per questo non permetterò che altri lo conduca alla rovina… Di una cosa potrete sempre star certi: che mai commetterò atti di debolezza, di slealtà, di secessione nel partito. Troppo mi stanno a cuore le sorti del nostro partito, perché possa sacrificarle ai miei improvvidi sdegni, alle impulsività del mio temperamento”. Ma il temperamento più di una volta finisce per tradirlo, se non nell’azione politica, proprio nel rapporto con l’amatissimo Pietro, con il quale aveva più volte condiviso una stanza in clandestinità e per il quale, pur di non rivelare un suo indirizzo clandestino, si fece torturare per due giorni e due notti dai nazisti. Da via Tasso, comando delle SS, finì a Regina Coeli dove, assieme a Saragat, venne condannato a morte “in via amministrativa”. Nenni intanto insisteva con Giuliano Vassalli per la liberazione di entrambi al più presto, perché quotidianamente rischiavano la fucilazione. Vassalli alla fine contattò un medico socialista che lavorava all’interno del carcere e riuscì a pianificare “un’evasione legalizzata”. Non senza che Nenni si raccomandasse con Vassalli di pensare subito «a Peppino, perché Peppino non è mai stato in carcere. Sandro il carcere lo conosce, c’è abituato, poi penseremo a lui». Episodio che non minò affatto i rapporti, nonostante Pertini ne chiedesse conto a Nenni in un incontro successivo, raccontato nel ’ 73 in un’intervista a Oriana Fallaci: «Pietro, cos’è questa storia del fate uscire Peppino, pensate a Peppino, tanto Sandro al carcere c’è abituato? E che? Siccome c’ero abituato, ci dovevo morire?». Altri dolori, altre sofferenze cementavano il rapporto. Proprio il 25 aprile ‘ 45, giorno del suo celebre comizio a Milano, arrivò a Pertini la notizia che il fratello maggiore, Eugenio, era stato fucilato a Flossenburg in Germania e, quasi contemporaneamente, per Nenni era diventata certezza che la sua amatissima terzogenita, Vittoria, non sarebbe tornata da Auschwitz. “Ricordo come tu ti preoccupavi, quando abitavamo in periodo cospirativo la stessa camera, di questa tua figliola deportata; mi è facile quindi immaginare il tuo presente dolore. Ma le parole a nulla valgono dinanzi alla tua pena, anzi diventano fastidiose…”. Non mancano così, anche nei momenti più burrascosi delle comunicazioni tra i due, cenni all’indimenticata solidarietà, richiesta di notizie e saluti ai familiari. Eppure alla fine, da questa vicenda umana, gloriosa e tormentata, vissuta con l’intensità della passione, si trarranno bilanci per nulla coerenti e, anzi, persino paradossali. Così ecco Pertini il mito, il martire designato di ogni intrigo di partito, assurgere alla statura di uomo di Stato, prima presidente della Camera e poi della Repubblica. Con Nenni che scriverà al presidente della Camera quanto la sua elezione sia “stata l’unica nota positiva in una vicenda del tutto negativa. Tu lo meritavi”. Mentre, dopo l’elezione di Sandro al Quirinale, unica volta nella quale i due forse potevano ritrovarsi in competizione diretta, annotare nei diari in sconsolata amarezza, che pure si felicita per la buona sorte dell’amico, come “del triumvirato, due sono arrivati al Quirinale e io no”. E che in ultima analisi la vita di Pertini nel partito, nonostante tutti gli sfoghi, le drammatizzazioni, gli scatti di sdegno, “visto che sei finito al Quirinale, non è poi andata così male. Io plebeo sono e plebeo resto”.
L’altro Pertini. Vittorio Bobba, 1 Marzo 2020 su weeklymagazine.it. Trent’anni fa, il 24 febbraio, Sandro Pertini lasciava definitivamente il Partito Socialista e questo mondo. Secondo gli esegeti di più vasto seguito, fu il Presidente della Repubblica più amato dagli italiani: il presidente della gente, dei bambini, l’omino con la pipa, il partigiano che parla schietto e non rispetta il protocollo. Gli sono stati affibbiati molti aggettivi: integerrimo, puro, carismatico, addirittura santo. Tuttavia ci sono aspetti di Sandro Pertini che sfuggono a questa agiografia ufficiale perché volutamente tenuti in ombra; episodi della sua vita raccontati sottovoce, quasi ad evitare che la sua immagine cristallina si possa infrangere. Anni fa un grande giornalista si attirò gli strali dell’Anpi per avere voluto, in un paio di occasioni, rievocare questi aspetti poco ortodossi della vita del compagno Pertini. Speriamo di sortire lo stesso effetto.
Si badi bene, non si vuole assolutamente mettere in dubbio ciò che l’uomo-Presidente fece di altamente positivo durante i suoi mandati di presidente della Camera e poi della Repubblica, ma è corretta informazione evidenziare ciò che piace e ciò che non piace nella biografia di qualsiasi personaggio, soprattutto pubblico. Pertini non fu solo un partigiano: fu uno spietato capo partigiano. Il suo nome ricorre in molte vicende, ad esempio in quella della coppia di attori Valenti – Ferida. Luisa Ferida aveva 31 anni ed era incinta di un bambino quando fu uccisa dai partigiani all’Ippodromo di San Siro a Milano assieme a Osvaldo Valenti, il 30 aprile 1945, accusati di collaborazionismo, per aver frequentato la famigerata Villa Triste, a Milano, sede della banda Koch. L’accusa si dimostrò infondata al vaglio di prove e testimonianze; lo stesso Vero Marozin, capo della Brigata partigiana che eseguì la loro condanna a morte, dichiarò, nel corso del procedimento penale a suo carico: «La Ferida non aveva fatto niente, veramente niente». I due attori, infatti, pagarono la loro vita tra lussi e cocaina ma non avevano responsabilità penali o politiche tali da giustificarne la fucilazione per collaborazionismo. Nelle dichiarazioni rese da Marozin in sede processuale Pertini fu indicato come colui che aveva dato l’ordine di ucciderli: “Quel giorno – 30 aprile 1945 – Pertini mi telefonò tre volte dicendomi: “Fucilali, e non perdere tempo!”. Si vedano a tal proposito i libri ”Odissea Partigiana” di Vero Marozin (1966) e “Luisa Ferida, Osvaldo Valenti, Ascesa e caduta di due stelle del cinema” di Odoardo Reggiani (Spirali 2001). “Pertini si era rifiutato di leggere il memoriale difensivo che Valenti aveva elaborato durante i giorni di prigionia, nel quale erano contenuti i nomi dei testimoni che avrebbero potuto scagionare i due attori da ogni accusa. La casa milanese di Valenti e della Ferida venne svaligiata pochi giorni dopo la loro uccisione. Fu rubato un autentico tesoro (cani di razza inclusi) di cui si perse ogni traccia”. Appena eletto Presidente della Repubblica il compagno Pertini concesse la grazia al boia di Porzus, l’ex partigiano comunista Mario Toffanin, detto “Giacca”, nonostante questi non si fosse mai pentito dei suoi crimini per i quali era stato condannato all’ergastolo. Toffanin fu responsabile del massacro del febbraio 1945: a causa di una falsa accusa di spionaggio furono fucilati 17 partigiani cattolici e socialisti appartenenti alla “Brigata Osoppo”), da parte di partigiani comunisti (Gap). Tra loro fu trucidato il fratello di Pasolini, Guido. Dopo la grazia di Pertini a Toffanin lo Stato italiano concesse al criminale non pentito pure la pensione che godette per vent’anni nella sua vigliacca residenza slovena, insieme ad altri 30mila sloveni e croati “premiati” dallo Stato italiano per le loro persecuzioni antitaliane. Pertini partecipò poi commosso al funerale del presidente jugoslavo Tito (1980), il primo responsabile delle foibe, baciando quella bandiera che destava terribili ricordi negli esuli istriani, giuliani e dalmati. Alla morte di Stalin nel ’53, il compagno Pertini, già direttore filo-sovietico dell’Avanti! e all’epoca capogruppo socialista alla Camera, celebrò il dittatore in Parlamento. Ecco cosa scrisse su l’Avanti!: «Il compagno Stalin ha terminato bene la sua giornata, anche se troppo presto per noi e per le sorti del mondo. L’ultima sua parola è stata di pace. […] Si resta stupiti per la grandezza di questa figura… Uomini di ogni credo, amici e avversari, debbono oggi riconoscere l’immensa statura di Giuseppe Stalin. Egli è un gigante della storia e la sua memoria non conoscerà tramonto». Quell’elogio, mai ritrattato da Pertini, neanche dopo che si seppero tutti i crimini di Stalin, non fa certo onore a un combattente della libertà e dei diritti dei popoli. Circa le responsabilità di Pertini nella strage di via Rasella a Roma, basta leggere ciò che scrisse William Maglietto in “Pertini si, Pertini no” Settimo Sigillo, 1990. Nel ‘45 sulle scale dell’Arcivescovado di Milano Pertini incrociò Mussolini, reduce da un colloquio col cardinale Schuster. Pertini disse poi di non averlo riconosciuto, “altrimenti lo avrei abbattuto lì, a colpi di rivoltella”. Poi aggiunse: “come un cane tignoso”. Pertini sosteneva la necessità di uccidere Mussolini, non arrestarlo: se si fosse salvato, disse, magari sarebbe stato eletto pure in Parlamento. Al Quirinale, al di là dell’immagine bonaria del presidente che tifa Nazionale, gioca a carte e va al pozzo di Vermicino per Alfredino Rampi, si ricorda il suo carattere permaloso. Ad esempio quando cacciò il suo capo ufficio stampa, il galantuomo e insigne giornalista Antonio Ghirelli, anch’egli socialista. O quando chiese di cacciare Massimo Fini dalla Rizzoli in seguito a un articolo su di lui che non gli era piaciuto. Così ne parlò lo stesso Fini: “Immediata rabbiosa telefonata al direttore della Domenica del Corriere Pierluigi Magnaschi, un gentleman dell’informazione, il quale ricoperto da una valanga di insulti cerca di barcamenarsi alludendo all’autonomia delle rubriche dei giornalisti, allo spirito un po’ da bastian contrario di Massimo Fini. Il “nostro” San Pertini gli latra minacciosamente: “Non credere di fare il furbo con me, imbecille!, chiamo il tuo padrone Agnelli e vediamo qui chi comanda!” E infatti il giorno dopo mi si presenta il responsabile editoriale della casa editrice Lamberto Sechi…”. Lo stesso Pertini disse a Livio Zanetti in un libro-intervista:”Cercai inutilmente di far licenziare uno strano giornalista italoamericano”. Quando l’MSI celebrò il suo congresso a Genova nel 1960, fu proprio Pertini ad accendere il fuoco della rivolta sanguinosa dei portuali della CGIL col discorso del “brichettu” (il cerino). Nacquero in quell’occasione i famigerati “ganci di Genova”, a causa di cui un governo democratico di centro-destra a guida Tambroni, con l’appoggio esterno del Movimento Sociale, fu abbattuto da un’insurrezione violenta nel nome dell’antifascismo. Proverbiale era la poi sua vanità. Ghirelli riferì una volta uno sferzante giudizio di Saragat: “Sandro è un eroe, soprattutto se c’è la televisione”. I suoi abiti di sartoria e le sue scarpe firmate Gucci mentre predicava il socialismo e il pauperismo fanno pensare all’integrità morale dell’individuo. Per carità, fu un bravo presidente, forse un po’ troppo “ruspante” e certo oggi non saprebbe destreggiarsi tra i grandi del mondo odierno. Se ne starebbe quieto con la pipa in bocca pensando magari “Belìn, ma che ci faccio qui?” Il suo compagno di partito Pietro Nenni nei suoi diari tranciò giudizi perfino più aspri; un ritratto feroce di lui scrisse Marco Ramperti. Francesco Damato scrisse: “Nel 1973 Pertini mi comunicò di avere appena cacciato dal proprio ufficio di presidente della Camera il segretario del suo partito, Francesco De Martino. Che gli era andato a proporre di dimettersi per far posto a Moro, in cambio del laticlavio alla morte del primo senatore a vita”. Poi fu proprio l’onda emotiva dell’assassinio Moro e l’asse Dc-Pci sulla non-trattativa che portò a eleggerlo due mesi dopo al Quirinale. Da poco Presidente della Repubblica, nel pieno infuriare del terrorismo rosso e con tante vittime, Pertini disse agli operai di Marghera: “Sono stato un brigatista rosso anch’io” per poi negare che le Br fossero rosse, giudicandoli solo “briganti”, così da recidere il filo rosso tra Br e partigiani. Il Presidente di una Repubblica flagellata in quegli anni dal terrorismo rosso, si definiva dunque orgogliosamente “un brigatista rosso”! Anche questo fu Sandro Pertini, al di là del fumo della pipa, del coraggio e della coerenza.
Piero Colaprico per “la Repubblica” il 9 gennaio 2020.
Paolo Pillitteri, ex sindaco di Milano e cognato di Craxi, lei è appena uscito dall' anteprima di "Hammamet ", che dire?
«Bravissimo Piefrancesco Favino, lo guardavo e dicevo: "È lui!". Ma anche "Meglio come recita lui di come parlava Bettino". Prova d' attore fantastica. Però il film, insomma...».
Insomma che cosa?
«Manca. Manca la politica, manca Milano, che c' è solo alla fine, con la passeggiata tra le guglie, e manca anche la squadra di Bettino, perché c' era un socialismo ambrosiano che s' è perso nel film. Bettino anche ad Hammamet viveva intriso di Milano, ne aveva una nostalgia profonda, gli mancava. Poi, da modesto critico cinematografico, posso dire che il film è teatrale? Nel senso che quel copione a teatro andrebbe benissimo e ogni attore avrebbe respiro sul palcoscenico, invece Gianni Amelio ha dato spazio per l' 80 per cento a Favino e lo schermo è invadente, incombe, lo spettatore perde il ritmo».
Bettino è un personaggio politico che ancora oggi divide molto...
«Solo dieci anni fa questo film sarebbe stato impossibile. Quindi è un bene comunque che esista. Non dico che gli italiani rimpiangano noi della Prima Repubblica, ma sanno, almeno i più vecchi, che noi discutevamo, studiavamo argomenti e situazioni e lo stesso Bettino era un gigantesco rompicoglioni. Io e Carlo Tognoli dicevamo che avevamo fatto questo e quello e lui diceva: "E Quarto Oggiaro? E Gratosoglio?" Non gli andava mai bene niente, non era mai contento. Anche ad Hammamet mi chiedeva: "E qui che che cosa faccio tutto il giorno?". Scrivi gli dicevo, e lui che già scriveva sbuffava».
E allora come passava il tempo?
«Gli suggerivo di dipingere, cosa che ha fatto, ma poi scriveva sotto "L' Italia piange". Abbiamo fatto anche una mostra, il sottotitolo era "Bettino torna a Milano", il titolo vero era "Vox clamans nel deserto". Le opere sono state esposte sul marciapiede del Trottoir, in corso Garibaldi, il 5 maggio 1999. Litografie».
Nel film c'è una scena che le è piaciuta più di altre?
«Sì, ma non so se sia successa nella realtà. Quando potrebbe prendere un aereo e non lo prende. C' è stata poi una questione drammatica, ma lasciamo stare...».
È passato tanto tempo. Se c'è qualche cosa da dire, perché no, approfittando del film?
«Bettino stava malissimo, per il diabete, e se fosse venuto in Italia avrebbe vissuto più a lungo. Noi chiedemmo alla procura di Milano il permesso per le cure, ma ci rimbalzarono. Era pronto anche un possibile trapianto di cuore in Francia, c' erano i medici disponibili, ma Lionel Jospin disse che "non era gradito". Non è che Craxi sarebbe vissuto molto, dopo il trapianto. Cinicamente avrebbero potuto considerarlo e restare umani, non è successo né in Italia e né in Francia».
Lei ha realizzato qualche documentario su Craxi?
«In realtà, quando non ci conoscevamo, ed io avevo vent' anni mentre lui era assessore all' Economato, organizzai un servizio sulle mense comunali per i bambini di Milano, in pieni anni 60. Il titolo era "Il Comune e i bambini di Milano", riprendevamo i piccoli che mangiavano pasta e verdura, a quell' epoca Milano spendeva un miliardo a mezzo di lire all' anno e ci voleva anche una ripresa di Bettino. Lo chiamavamo sempre e non veniva mai. Un giorno, all' improvviso arriva, io grido all' operatore di non perdere nulla, lui infila il cucchiaio nel pentolone, mangia, osserva e se ne va. Montiamo il film e protesta: "Mi si vede troppo poco". Cavolo, ma se non era mai venuto! Infatti il titolo diventò "I bambini di Milano"».
Pietro Mancini per “Libero quotidiano” l'11 gennaio 2020. 20 anni dopo la triste scomparsa di Bettino Craxi, ad Hammamet, in Italia la questione socialista resta grande politicamente. Qualche anno fa, Luciano Violante - che, nei primi anni '90, fu tra i dirigenti del Pds più duri con il Psi e con il suo segretario-osservò: «Pensavamo di veder passare i cadaveri dei nostri avversari. Abbiamo, invece, visto passare i pezzi del nostro ordinamento costituzionale». Si deve cominciare a riflettere sul clima drammatico dei primi anni '90, sulla viltà di alcuni ex craxiani, passati dal codardo encomio al servo oltraggio di Bettino che, nel 1976, all' hotel Midas di Roma, fu eletto segretario al posto di Francesco De Martino. Fu Giacomo Mancini a proporre, per primo, il nome del deputato autonomista, battendosi per rinnovare il gruppo dirigente e per cambiare la linea politica del Psi che, con De Martino, era stata troppo subalterna al Pci di Berlinguer. Forse non è un caso che Bettino e Giacomo, in periodi diversi, furono due campioni dell' autonomia socialista, entrambi avversati dai "poteri forti" e vittime di dolorose vicende giudiziarie, seppure con accuse diverse. Furono aspri i contrasti tra i due, animati da passione politica e con caratteri forti, ma non rinunciarono a manifestarsi da lontano solidarietà. Oggi gli storici devono approfondire l' inizio dello sgretolamento del principio costituzionale della divisione dei poteri, con la subordinazione del potere legislativo al giudiziario. Dopo la morte di Craxi, di cui sono stato amico, e la scomparsa del centenario Psi, nel nostro Paese manca una forza autenticamente democratica, riformista, garantista, che si batta a favore dell' autonomia della politica. Come scrisse l' allora Capo dello Stato, Giorgio Napolitano, alla vedova di Craxi, donna Anna, il ricordo dello statista milanese e la sua morte, lontana dall' Italia, costituiscono «aspetti tragici della storia, politica e istituzionale, della nostra Repubblica, che impongono ricostruzioni non sommarie e unilaterali». Né, a giudizio dell' ex Presidente, può venir sacrificata al solo discorso sulle responsabilità di Craxi, sanzionate per via giudiziaria, la «considerazione complessiva della sua figura di leader politico e di uomo di governo, impegnato nella guida dell' esecutivo e nella rappresentanza dell' Italia, sul terreno delle relazioni internazionali».
Giacomo Mancini - intervistato da Francesco Merlo, per il Corriere della Sera, il 7 novembre del 1992 - difese l'operato del segretario amministrativo del Psi, Vincenzo Balzamo, stroncato da un infarto, qualche settimana prima. «La vastità del fenomeno, i flussi di finanziamento, che hanno avuto come destinatario il Psi, non sono, certamente, passati da Balzamo. Li conosceva solo Craxi». E, dopo un colloquio con il pool della Procura coordinato da D' Ambrosio, che indagava sui finanziamenti illeciti ai partiti, spiegò: «Quando ero segretario del Psi, non scaricai alcuna responsabilità sul segretario amministrativo dell' epoca, che era il senatore Augusto Talamona... Negli anni più recenti, il ruolo del partito è cresciuto. E non sempre il segretario amministrativo del partito è in grado di seguire tutti i risvolti politico-finanziari, dei quali si sono interessati personaggi preminenti». Mancini, da ex segretario, ai pm di Milano parlò di responsabilità politiche, e del funzionamento del partito, non penali.
Filippo Facci per “Libero quotidiano” l'11 gennaio 2020. Nel ventennale della morte di Bettino Craxi dobbiamo abituarci anche ad alluvioni di cattiva memoria: io cerco di starne alla larga, ma ieri mi sono ritrovato uno scritto impaginato proprio sotto a un mio articolo, e fingere di non vederlo non potevo. Lo scritto era di Pietro Mancini, figlio del più noto Giacomo che fu parlamentare, ministro e segretario del Psi, morto nel 2002 dopo aver contribuito indirettamente alla compilazione del primo e celebre avviso di garanzia contro Bettino Craxi. Suo figlio Pietro, invece, è stato giornalista alla Rai in quota socialista negli anni della grande lottizzazione (sul Giornale pubblicai una sua lettera a Craxi affinché lo aiutasse a ottenere una carica) dopodiché, nel 1990, divenne sindaco di Cosenza ovviamente con l'appoggio di Bettino. Ora: è da quasi vent' anni, anche su altri giornali in cui ho lavorato, che mi ritrovo scritti di Pietro Mancini sempre sullo stesso argomento (Craxi) anche perché lui è molto incalzante nel proporli di continuo: ma ora credo, data la ricorrenza, che sia il caso di correggere qualche omissione di troppo. Pietro Mancini, nel suo scritto, invita a «riflettere sul clima drammatico dei primi anni '90» e «sulla viltà di alcuni ex craxiani, passati dal codardo encomio al servo oltraggio di Bettino», «di cui sono stato amico». Va bene: ma aggiungiamo, allora, che tra gli apparenti oltraggiatori c'era anche Pietro Mancini. Dopo aver scritto lettere per fare carriera in Rai e per fare il sindaco di Cosenza, sul Mattino del 16 settembre 1992 descrisse Craxi come «grande affossatore del Psi» e, nel tardo aprile 1993, quando la Camera votò contro alcune autorizzazioni a procedere contro Craxi (i giorni delle monetine al Raphael), Pietro annunciò di aver scritto alla Procura di Milano per esprimere stima e solidarietà: il voto della Camera era stata «una decisione arrogante tesa a mortificare l' importante lavoro dei magistrati e le attese dei cittadini onesti». Sono libere opinioni, però ricordiamole. Niente di male. È molto più importante, tuttavia, quello che Pietro Mancini, ieri, ha scritto di suo padre Giacomo, il cui ricordo altrimenti non ci permetteremmo di disturbare. Pietro, anzitutto, non dice di essere il figlio di Giacomo, e sarà una distrazione. In seguito spiega che per la segreteria Psi fu proprio suo padre «a proporre, per primo, il nome di Craxi» (un merito, supponiamo) e infine spiega che suo padre si recò dai magistrati di Milano, nel settembre 1992, per parlare «di responsabilità politiche e del funzionamento del partito, non penali». In genere si va dai magistrati a parlare di responsabilità penali, non politiche: ma limitiamoci a rielencare i fatti. I rapporti tra Giacomo Mancini e Bettino Craxi furono buoni sino al maggio 1992 (lo testimoniano lettere e interviste) ma poi Craxi crollò, e i rapporti pure. Il 7 novembre Mancini senior rilasciò un' intervista al Corriere della Sera in cui spiegò che i finanziamenti al Psi «li conosceva solo Craxi». In seguito, il 18 novembre, Mancini andò volontariamente dai pm di Milano e mise a verbale che i soldi andavano direttamente al segretario. Sinché, il 15 dicembre 1992, alle 13,04, l'agenzia Ansa annunciò il primo avviso di garanzia a Craxi, e scrisse che «a determinare la svolta sarebbero state le dichiarazioni rese alcune settimane fa, come testimone, dall' ex segretario del Psi, Giacomo Mancini». Poi, per conferma, bastò leggere le carte.
Curiosità: anche nella serie tv 1992 trasmessa da Sky - che mi vide nel ruolo di consulente per la parte storica, invero scarna - la funzione prettamente penale di Giacomo Mancini nel primo avviso di garanzia è chiaramente delineata, anche se l' attore era decisamente poco somigliante. Ordunque: l' articolo di Pietro Mancini, pubblicato su Libero di ieri, è titolato «Con Craxi morì la divisione dei poteri» e c'è del vero, morì allora: solo che il politico Craxi, anzitutto, rese conto al potere politico in Parlamento; il politico Giacomo Mancini, invece, rese conto direttamente al potere giudiziario pellegrinando alla Procura di Milano. Questa, a mio avviso, è Storia, anche se noi giornalisti, degli storici, siamo solo gli sguatteri. I giornalisti raccolgono fatti e li mettono in fila, poi, se credono, possono esprimere delle opinioni. Poi i fatti li si può interpretare, ma sino a un certo punto.
Giampiero Mughini per “Libero quotidiano” l'8 aprile 2020. Sono adesso 18 anni, da quell' 8 aprile 2002, che l' ottantaseienne Giacomo Mancini, uno degli uomini-simbolo della storia del socialismo italiano, se ne è andato. No, non è vero niente quel che cantava il da me amatissimo Giorgio Gaber, e cioè che il Partito socialista italiano fosse stato il peggior partito socialista del mondo. Tanto è vero che, alla lunga, sono state le idee del Psi a vincere e non quelle del Pci prima togliattiano e poi berlingueriano. Hanno vinto le idee di Pietro Nenni che, nel 1956, gridò il suo orrore innanzi all' invasione dei carri sovietici a Budapest e questo mentre Togliatti, a Montecitorio, esaltava l' impiccagione, da parte dei sovietici, di Imre Nagy, il leader comunista "riformista" voluto dai ribelli ungheresi del 1956. Ha poi vinto Bettino Craxi, alla grande, il suo duello con Berlinguer, quel Craxi, che volle l' abolizione dei quattro punti di scala mobile, che ai salari italiani apportavano inflazione e non ricchezza. Hanno vinto i giornalisti e i saggisti di Mondoperaio, la rivista mensile del Psi craxiano, nel volere sbarazzarsi del "leninismo" come di un trucido ferrovecchio, da cui era fiorito il più longevo totalitarismo del Novecento. Hanno vinto le idee di socialisti, quali Giorgio Ruffolo e il suo alter ego intellettuale, Luciano Cafagna, del più volte ministro Giacomo Mancini che, dopo il 1966, era stato l' artefice di quella "legge-ponte" decisiva nel migliorare l' azione pubblica, in materia di urbanistica, dell' ex ministro, Gianni De Michelis, di Giuliano Amato che, da capo del governo, ebbe il coraggio di mettere le mani nelle tasche degli italiani perché la situazione si era fatta disperata, del senatore Roberto Cassola (un socialista craxiano, che ebbe l' ardire di polemizzare frontalmente contro Craxi e di pagarlo duramente). Ancora oggi un socialista di lungo corso - e di notevole pelo sullo stomaco - quale Rino Formica detta delle lezioni, quando apre la bocca sulla situazione politica italiana dei nostri giorni. Quanto a Mancini, finché non tornò nella sua Cosenza a farvi il Sindaco - un impegno a cui, negli ultimi anni della sua vita, si era dato anima e corpo - lui era stato uno degli artefici della sopravvenuta supremazia politica di Craxi, all' interno del Psi. Senza l' appoggio e il volere di Mancini, mai, Craxi ne sarebbe, inaspettatamente, divenuto il segretario, nel 1976. Giacomo aveva capito, tra i primissimi, la tempra e la personalità di Craxi nel volere sbarazzare la muffa, che si era depositata sul corpaccione socialista, ai tempi della direzione demartiniana, quando il capo socialista aveva detto che, mai, il Psi avrebbe mosso foglia che il Pci non voglia. Dieci anni perduti, tra la metà dei Sessanta e la metà dei Settanta. Ora, se c' era un socialista "autonomista", uno che voleva pensare e procedere, politicamente, con la sua testa, quello era Mancini, seppure lui non facesse parte della corrente autonomista, che aveva a capo Pietro Nenni e dove Craxi aveva covato il suo apprendistato politico. Mancini era "manciniano" e basta, un uomo, che ti faceva impressione solo a sentirlo ragionare. E siccome a Roma lui abitava non distante da casa mia, più volte, ero andato a trovarlo, a interrogarlo. La sensibilità e l' intelligenza della politica erano, per lui, una seconda pelle. Mentre lo ascoltavo, seduto nel suo studio, e mentre lui scorreva da un angolo all' altro della stanza, era come se l' aria si togliesse via a lasciare strada al suo passaggio. Era uno di quegli uomini - di cui erano zeppi i partiti della Prima repubblica - che avevano dato un senso a quella che, in molti della mia generazione, chiamavano "battaglia delle idee". Per loro, la politica era una seconda anima, o forse la prima. Tutto della realtà, forse troppo, nei loro discorsi, veniva ricondotto a un piano e a un programma a più lungo termine. Era un tempo in cui esistevano i partiti, i loro comitati centrali, persino i giornali di partito. Era un tempo in cui, per un intellettuale, non era indecente "militare", andare alle riunioni di partito, parteggiare. Mancini ebbe accanto uomini di vaglia, da Antonio Landolfi (mio vecchio amico) al furoreggiante giornalista Lino Jannuzzi, di cui si era invaghita la mia amica Marina Ripa di Meana. Altri tempi, altri accadimenti, altri personaggi. Purtroppo, l' intesa politica tra Craxi e Mancini durò poco. Craxi non intendeva capeggiare il partito, bensì esserne padrone, e voleva che nessuno accanto gli facesse ombra. E feroce fu la sua rivalsa contro Mancini e contro Antonio Giolitti, il quale abitava nello stesso palazzo romano in cui abitava Giacomo e i rapporti fra loro due erano molto freddi. Prima ancora di Tangentopoli, è lì la tragedia del Psi, di uno dei migliori e più importanti partiti socialisti europei. Un partito dilaniato, in cui ad azzannarsi erano delle fazioni e non soltanto delle correnti. Quando Craxi fu subissato dalle accuse (e dalle ingiurie) di aver manovrato, a modo suo, i (molti) soldi, provenienti dai prelievi tangentizi (comuni a tutti i partiti), né Mancini né Giolitti spesero una parola a suo favore. In tribunale, Mancini dichiarò che i soldi del Psi li gestiva, in primissima e a sua assoluta discrezione, Craxi, il che assomigliava molto a dargli un colpo mortale. Giacomo si autoesiliò in quel di Cosenza, dove il mio carissimo amico, e "manciniano" stretto, Enzo Paolini non la smette di decantarmi i meriti delle amministrazioni, guidate da Mancini, e quanto fossero senza né capo né coda le accuse di collusioni con la mafia, che gli furono rivolte e dalle quali fu assolto. Un' ultima cosa. Giacomo Mancini e io una cosa avevamo, strettamente, in comune, l' assoluta convinzione che Franco Piperno fosse sì uno che aveva giocato con il fuoco, ma non che fosse complice degli assassini brigatisti. Convinto della sua innocenza, ospitai, per un mese e mezzo, Piperno a casa mia. Una sera, lui e una nostra amica se ne andarono, quatti quatti, a cenare a casa di Mancini, dieci minuti a piedi da casa mia. Quando Franco fu poi assolto, completamente, da quelle accuse e organizzammo una chiacchiera pubblica sull' argomento, io e Giacomo eravamo seduti accanto. Avevamo avuto ragione.
Fabio Martini per ''La Stampa'' il 19 gennaio 2020. La "riscoperta", seppur controversa, della figura di Bettino Craxi e le file al cinema per "Hammemet" non convincono sino in fondo Rino Formica, che dice: «E' in corso in questi giorni un atto liberatorio compassionevole. Si discute su come Craxi sia morto e perché non sia stato curato, ma si rimuove il problema vero: nel sistema di potere che si era formato in un Paese di frontiera come l' Italia, il Psi di Craxi esercitò un ruolo di anti-potere, proponendo elementi di dinamica e di rottura rispetto ai "blocchi" consolidati, interno ed esterno».
In questa "riscoperta" di Craxi, il Pd è del tutto assente: come mai?
«Il Pd come potrebbe mai dire qualcosa su una vicenda storica come questa? Il Pd - a ben vedere - è un figlio di nessuno, non se ne conoscono il padre né la madre. Quale è il suo Pantheon? Quali sono le sue radici? Qual è la sua storia passata da tutelare e da difendere, da correggere, da modificare e anche da ritrasmettere? Da cui ricavare le pulsioni positive e scremare quelle negative? Il Pd non ha collegamenti neppure con la storia del Pci, figurarsi se può esprimere una qualche idea su Craxi e sul nuovo corso socialista».
La Lega aveva annunciato grandi presenze ad Hammanet ma poi ci ha rinunciato.
«La Lega sta svolgendo un' attività per il post-2020. Fa sapere di avere qualche simpatia per Craxi per raccattare un po' di voti, scommettendo su qualche frangia di refrattari del Nord, portati a pensare, be' questi della Lega sono stati gli unici che sono andati ad Hammamet. Ma poi non hanno il coraggio di andare sino in fondo».
Neppure Berlusconi si farà vedere ad Hammamet.
«Non si fa vedere perché lui non ha ancora spiegato come mai nel 92-94 Mediaset faceva il tifo per la magistratura e Rete4 trasmetteva Mani pulite minuto per minuto. Nella storia che portò alla liquidazione del sistema dei partiti, assieme al pool di giornalisti, ci fu un pool di magistrati, dell' impresa pubblica, di quella privata. Il pool dei poteri esplosi che pensava all' autotutela e a scaricare le proprie responsabilità su un altro segmento di potere».
Su Craxi il governo avrebbe potuto dare un segno di "vita" anche solo formale?
«Ma come avrebbe potuto? Il governo è frutto del caso. Di una casualità. Una coalizione che fino a 24 ore prima di nascere, non era concepibile, può esprimersi anche con singoli esponenti su una vicenda storico-politica del passato della quale è estraneo?».
Dagospia il 15 febbraio 2020. Claudio Martelli, ex ministro e vicepremier, delfino di Bettino Craxi, si è raccontato ad Un Giorno da Pecora, su Rai Radio1. Ospite di Giorgio Lauro e Geppi Cucciari, l'ex parlamentare ha parlato anche del suo prossimo matrimonio con Lia Quartapelle, deputata del Pd. “Lei è la donna che amo. L'idea è di sposarsi a Tel Aviv, una città molto vivace e giovane che ci è piaciuta molto”. Tra voi due ci sono quasi 40 anni di differenza. “E cosa vuol dire? Siamo molto tranquilli”. Quando ha iniziato a corteggiarla? “Alla presentazione di un libro di Macron”. Alla sua età ci si innamora in modo diverso? “Beh si. A 20 anni si pensa che l'amore non finisca mai, mentre poi si è più consapevoli, eviti qualche errore e ti godi di più la relazione, ti accorgi di esser felice”. Una volta lei venne fermato a Malindi con l'accusa di possedere della marijuana. “Uno spinello. Per un giornalista ad un certo punto lo spinello però era diventato un rotolo...E' un falso, anche allora non c'era nessun reato”. Lei si era mai fatto una canna? “Come no, certo che sì”. E capita anche oggi? “Capita, qualche volta”. Per dormire? “Esatto. Qualche volta ha funzionato”. Parliamo di politica e tv: le piacciono i talk show? “Mi irritano, mi sale l'adrenalina. Qualche volta la conduzioni mi infastidisce di più, come il mio ex amico Del Debbio, che ho visto fare delle cose populiste, rissose, casiniste che non mi piacciono”. Quali programmi apprezza di più? “La Gruber e la Palombelli, sono le più brave”. Nei suoi molti viaggi, una volta incontrò anche Madre Teresa di Calcutta... “La andai a trovare in una casa dove ospitava bambini orfani e malati. Ci sedemmo a tavolta e la prima cosa mi chiese fu: come sta il mio amico Andreotti? Voleva sapere perché aveva letto da qualche parte che era sotto processo. Io mi dissi: il colloquio potrebbe finire qua per quel che mi riguarda”.
Claudio Martelli, ex ministro e vicepremier, delfino di Bettino Craxi, si è raccontato ad Un Giorno da Pecora, su Rai Radio1, alla trasmissione condotta da Giorgio Lauro e Geppi Cucciari.
Lei appena scritto un libro su Craxi dal titolo l'Antipatico, un aggettivo molto usato nei confronti del leader socialista.
“Craxi era molto brusco ed un po' prepotente, aggressivo. Ed era rigido nei suoi argomenti. Anche a me qualche volta è risultato antipatico, ma di solito nei miei confronti era gioviale e simpatico”. Al contrario, ad esempio, del leader Dc Andreotti, che risultava più simpatico ai cittadini. “Andreotti era spiritoso, ironico, non ha mai smesso di risultare simpatico alla gente. A me però non era simpatico: era quel genere di politico buono un po' per tutti gli usi, per tutte le stagioni. Del resto non è mai stato considerato un grande leader politico dai suoi compagni di partito, i cavalli di razza erano Moro e Fanfani”.
E Berlusconi? “Al netto della politica, Berlusconi risultava simpatico, non a tutti ovviamente”. Da questo punto di vista come giudica Matteo Renzi? “Non voglio infierire...non risulta molto simpatico”. Più antipatico Renzi di Massimo D'Alema? “Secondo me D'Alema è più antipatico anche di Craxi, anche se per l'attualità oggi Renzi lo batte”. Craxi era un politico corrotto? “No. Perché non ha mai venduto la sua libertà di coscienza né i suoi comportamenti politici a qualcuno in cambio di denaro”.
Ai tempi non si poteva non prendere soldi, erano necessari per la politica o servivano a qualcos'altro?
“Si poteva ricevere delle donazioni ma io a me stesso non perdono di averne accettata una da un signore che si comporto' in modo scorretto nei miei confronti: Carlo Sama”.
Con Craxi è stato un grande amore?
“Certo, in senso politico e anche umano. Mi è molto mancato”.
Si ricorda l'ultima volta che lo ha sentito?
“Si. Mi chiamò al telefono sua figlia Stefania, che mi disse c'è una persona che ti vuole parlare. Era Bettino, da Hammamet, alla vigilia di Natale. Fu una conversazione molto tenera”.
Oggi Craxi starebbe col c.destra o col c.sinistra?
“Col c.destra mai, dipende con quale c.sinistra: bisogna vedere qual è il progetto”.
Il premier Conte durerà secondo lei?
“In una situazione in cui non succede nulla può durare anche in eterno”.
Lei l'ultima volta per chi ha votato?
“Io non voto da un po', ci sono stati sottratti troppi diritti, come il poter scegliere i nostri parlamentari”.
Esclude di tornare in politica un giorno? “Ma come si fa ad escludere. Finora non ne ho avuto voglia, tanti vecchi amici e compagni me lo hanno chiesto”.
Milano, Martelli presenta libro su Craxi: "Non latitante ma rifugiato. Autocritiche? Le ho fatte trent'anni fa". Andrea Lattanzi su Repubblica tv il 16 gennaio 2020. "Era oggetto di linciaggi continui, davanti al palazzo di Giustizia e all'hotel romano dove dormiva. Ha chiesto asilo a un paese amico e per questo è un rifugiato, non un latitante". Claudio Martelli, ex ministro della Giustizia, presenta a Milano il suo libro "L'antipatico" (La nave di Teseo), ritratto del leader socialista scomparso 20 anni fa. "Fu costretto a espatriare sotto i colpi di una giustizia violenta e persecutoria", racconta Martelli alla numerosa platea, "ma meriterebbe un ripensamento per ciò che ha fatto per questo paese". "Di Pietro non lo cito perché non educativo", sferza così l'ex pm simbolo del pool di Mani Pulite e a chi gli chiedeva se non si sentisse, comunque, di fare un'autocritica sulle modalità di finanziamento del Psi dell'epoca, Martelli risponde secco prima di allontanarsi: "Le autocritiche lo ho fatte trent'anni fa. Proposi nel 1984 un'autoriforma".
Ugo Magri per “la Stampa” il 16 gennaio 2020. La fine politica di Craxi, vent' anni dopo la morte in esilio ad Hammamet, ancora divide. Fu un leader coraggioso e lungimirante, fatto fuori per conto dei potentati? O viceversa un losco figuro sfuggito alle patrie galere? Claudio Martelli, vice segretario del Psi quando Bettino ne era leader, offre una spiegazione che sfugge alle categorie usuali. Cadde, spiega, in quanto stava antipatico a una certa Italia. E L' antipatico - Bettino Craxi e la Grande Coalizione s' intitola appunto il libro che ha appena dato alle stampe per La Nave di Teseo (pp. 223, 18).
Di persona Craxi era così sgradevole?
«Appariva ruvido e sincero. Burbanzoso, con parecchi spigoli fin da ragazzino. Mi raccontava che era stato a capo di una banda in via Lambrate a Milano. Definirlo monello è poco perché il padre dovette mandarlo in collegio a Cantù dove, tra l' altro, ebbe una crisi mistica, voleva farsi prete».
Questo con i calzoni corti. E dopo?
«Con l'età certe caratteristiche si conservano, inspessite. Perfino con i famigliari e gli amici il primo approccio era tosto. Ti prendeva sempre di punta. Poi però si addolciva. Aveva un cuore grande e generoso, specie con la gente semplice. Quando c' era da dare aiuto, non esitava a mettere la mano in tasca. Si sentiva obbligato a riparare i torti con uno spirito da vendicatore, come lasciava intendere anche quel tratto un po' picaresco: gli stivali alla Garibaldi, la "fedele colt", il poncho da rivoluzionario».
Facciamo la classifica: a chi stava più antipatico?
«In ordine cronologico, si scontrò anzitutto con i socialisti massimalisti, i barricaderi, quelli che volevano rovesciare il sistema ma secondo Bettino provocavano solo confusione e paralisi. Poi, dopo l' invasione sovietica dell' Ungheria, nel 1956, non ebbe timore di proclamarsi anticomunista, e di un anticomunismo coi fiocchi».
A Botteghe Oscure lo misero nel mirino.
«Il Pci era abituato a trattare i socialisti come fratelli minori, perciò ne fu sorpreso. Reagì affibbiandogli un marchio di destra, sebbene Craxi fosse un socialista vero, che in casa aveva respirato la lotta al fascismo, con il babbo prefetto della Resistenza e candidato dopo la guerra nel Fronte popolare».
Chi altro non lo sopportava?
«Fu accompagnato fino alla tomba dall' odio del cosiddetto "quarto partito", come lo definiva De Gasperi, cioè la consorteria del potere e del denaro che all' inizio degli anni 80 aveva messo insieme una quota della Dc, del Pci, della grande industria, del mondo finanziario, oggi si direbbe dei giornaloni. Rispetto a questo mix di politica e affari Craxi risultava d' intralcio, divenne l' ostacolo da abbattere. Gli scatenarono contro l' inferno dipingendolo in modo truce come un prepotente, aspirante Mussolini in fez e camicia nera».
E pure come un ladro, smascherato da Mani Pulite.
«Nel libro tento di fare una riflessione storica sul '92. La vera novità non fu la corruzione politica, che aveva scandito l' intera storia della Repubblica con una sequenza di scandali democristiani. Il fatto inedito non fu Tangentopoli, fu Mani Pulite cioè lo scoperchiamento di questa realtà e la persecuzione giudiziaria che ne seguì».
Ma Craxi, come mai finì per primo nel tritacarne? Stava antipatico pure ai magistrati?
«Fu travolto non perché fosse più corrotto degli altri politici, ma perché rappresentava il cardine del sistema. Grazie alla sua modernità era diventato l' ago della bilancia, il perno su cui tutto si reggeva».
Ovvero il brigante «Ghino di Tacco», come lo bollava Eugenio Scalfari e lui stesso si firmava sull' Avanti! Tra i politici di oggi, c' è qualcuno in cui riesce a intravedere tratti craxiani?
«All' inizio mi era sembrato di percepirne alcune briciole in Matteo Renzi, per via del piglio riformista, anticomunista, spregiudicato e senza complessi, ma è durata poco. Svanito il craxismo, di Renzi è rimasta l' antipatia».
Ha mai conosciuto qualcuno più antipatico di Craxi?
«Parecchi, uno in particolare: Massimo D' Alema. Anche se, stranamente, quando lui diventò premier, dopo la caduta di Prodi, Bettino dall' esilio fu prodigo di buoni consigli».
Come le sembra Hammamet, il film di Gianni Amelio?
«Ne ho visto qualche anticipazione. Mi colpisce la straordinaria interpretazione di Pierfrancesco Favino: identico a Craxi nelle movenze, nei gesti, perfino nella voce».
Sono passati vent' anni. Cosa ricorda del vostro ultimo colloquio?
«Per un paio d' anni eravamo stati in fredda, non ci si parlava più. Poi nel '99 cominciò a chiamare la mia assistente, che era stata anche sua segretaria, dando indicazioni politiche dalla Tunisia. Alla vigilia di Natale Stefania, sua figlia, a sorpresa mi telefonò e me lo passò. Affettuoso, con la voce indebolita, a malapena sussurrava. "Dammi modo di rimettermi dall' operazione e poi ci rivedremo, devi portare anche tuo figlio Giacomo", mi disse. Ma non ci fu tempo».
Cesare Zapperi per il Corriere della Sera il 15 gennaio 2020. «Bettino Craxi era antipatico perché incarnava la politica in un' epoca di crollo delle ideologie e di avversione ai partiti. Perché non temeva né di macchiarsi di una colpa né di affrontare l' odio. Perché era alto e grosso, ribelle e autoritario». Claudio Martelli lo conosceva bene. Del leader socialista morto vent'anni fa ad Hammamet è stato il delfino, il vicesegretario, l' amico e consigliere fidato per tanti anni. E anche se nel vortice degli scandali e nel crollo di consensi fino alla quasi scomparsa del Psi i rapporti umani tra i due un po' si guastarono, l' ex ministro della Giustizia che ora scrive libri e corsivi per i quotidiani resta uno dei più informati e autorevoli testimoni della stagione craxiana. Martelli ci offre un «ritratto inedito dell' uomo politico e dell' amico intimo» nel suo saggio, in uscita domani, dal titolo provocatorio L' antipatico. Bettino Craxi e la grande coalizione (editore La Nave di Teseo). Non è una biografia ma una articolata analisi, vista dal di dentro ma con il distacco del tempo trascorso, del percorso politico di Craxi e della sua caduta. Su questa, in particolare, Martelli, si distacca dalla storiografia dominante per dipingere il leader del Psi non come vittima di Mani Pulite e della corruzione (anche se nei confronti dei magistrati la condanna è durissima) ma di un «quarto partito»: «Il partito internazionale degli affari, segnatamente quello inglese e americano». Craxi, secondo il vecchio sodale, andava eliminato «non perché era il più corrotto ma perché era il perno degli equilibri politici». Martelli nel titolo del libro parla di «Grande coalizione». È quella che sfrutta il divorzio tra Banca d' Italia e Tesoro e beneficia delle liberalizzazioni e delle privatizzazioni per un vero e proprio assalto alla diligenza svendendo a prezzi da saldo «le maggiori banche e non poche delle più grandi e medie aziende pubbliche». Craxi pagò anche i suoi errori politici. Nel '92 «arrivò agli appuntamenti decisivi in condizioni di grande debolezza» scrive Martelli, per le inchieste che colpivano i socialisti e perché il segretario aveva coltivato «come unica opzione l' alleanza con la Dc» che, sottolinea il suo ex vice, «di riportare Craxi alla guida del governo non aveva alcuna voglia». La guerra scoppiò con De Mita, ma anche Forlani ruppe l' asse. E lo stesso tentativo, pur tardivo, di allacciare i rapporti con il Pds portando gli ex comunisti nel Pse fallì perché D' Alema, accusa Martelli, gli assestò «il morso dello scorpione». Infine, il drammatico epilogo, tra le condanne, la demonizzazione, il ritiro ad Hammamet. Martelli mette all' indice politici e giornalisti. E a sorpresa salva solo Bossi che disse: «I re non si mandano in galera: o la ghigliottina o l' esilio».
Claudio Martelli contro Massimo D'Alema: "Craxi ha fatto bene a scappare, l'avrebbero ucciso come Moro". Libero Quotidiano il 14 Gennaio 2020. Ha fatto bene, Bettino Craxi, a fuggire in Tunisia. Parola di Claudio Martelli, che da delfino designato del leader Psi diventò suo nemico nel periodo drammatico di Tangentopoli, pensando che il suo coinvolgimento nell'inchiesta fosse "una qualche forma di vendetta da parte di Bettino". Se l'ex premier fosse rimasto in Italia, spiega Martelli al Giornale, "l'avrebbero incarcerato, forse sarebbe morto o addirittura l'avrebbero ucciso. Lo stato di diritto non c'era più, la gente aveva la bava alla bocca. Al Raphael fu linciato, perché di questo si trattò quando gli lanciarono addosso le monetine. E lui aveva la paura di fare la fine di Moro". Martelli non risparmia critiche a Massimo D'Alema, all'epoca capo del Pds, che si vantò di aver permesso a Craxi di tornare in Italia per curarsi: "Che ipocrisia, non fece assolutamente nulla, se non chiedere il permesso a Borrelli e agli altri magistrati che risposero 'Ok, lo piantoneremo in ospedale'. E sempre D'Alema si è vantato di aver sostituito sulla scena italiana ed europea il Psi con il Pds. Vergognoso". D'Alema, spiega Martelli, avrebbe dovuto "contattare un governo amico, penso a Spagna o Portogallo, e poi imbarcare Craxi su un aereo per farlo operare a Lisbona o Madrid". Invece, Bettino finì operato a Tunisi, "in una situazione precaria, con un infermiere che reggeva la lampada. E infine morì per quell'intervento".
"Temeva la fine di Moro. Bettino fece bene a non tornare in Italia". Il suo ex delfino Martelli racconta Craxi nel nuovo libro: "Non c'era più lo Stato di diritto". Stefano Zurlo, Martedì 14/01/2020, su Il Giornale.
L'ultima volta?
«Natale '99. Stefania me lo passò al telefono: Ti aspetto ad Hammamet. Tutti e due piangevamo. Dai, e porta anche tuo figlio Giacomo. Non ho fatto in tempo, è morto prima».
Claudio Martelli sospira: «Nel '93 quando Silvano Larini mi accusò per il Conto Protezione io pensai a una qualche forma di vendetta da parte di Bettino e per questo mi allontanai dal partito.
Ma oggi posso dire che mi sbagliavo».
Sbagliò invece Bettino a non rientrare in Italia dalla Tunisia?
«Ma no. L'avrebbero incarcerato, forse sarebbe morto o addirittura l'avrebbero ucciso. Lo stato di diritto non c'era più, la gente aveva la bava alla bocca. Al Raphael fu linciato, perché di questo si trattò quando gli lanciarono addosso le monetine. E lui aveva la paura di fare la fine di Moro».
D'Alema?
«Che ipocrisia quella di D'Alema: non fece assolutamente nulla, se non chiedere il permesso a Borrelli e agli altri magistrati che risposero: Ok, lo piantoneremo in ospedale. E sempre D'Alema si è vantato di aver sostituito sulla scena italiana ed europea il Psi con il Pds. Vergognoso».
Che cosa avrebbe dovuto fare il capo del governo?
«Per esempio contattare un governo amico, penso a Spagna o Portogallo, e poi imbarcare Craxi su un aereo per farlo operare a Lisbona o Madrid. Invece, Bettino finì sotto i ferri a Tunisi in una situazione precaria, con un infermiere che reggeva la lampada. E infine morì per quell'intervento».
In occasione del ventennale della morte sono riprese le polemiche.
«Craxi conosceva bene il problema del finanziamento illecito, ma pensava che ci sarebbe stata una terza amnistia. Ne hanno già fatte due ripeteva, ne arriverà un'altra. Sottostimava il problema».
Ma non c'erano anche quelli che si arricchivano con i soldi del partito?
«Certo, l'opinione pubblica s'indignava sempre di più, e intanto la partitocrazia si espandeva, ma lui era concentrato su altro».
Insomma, non ascoltò i campanelli d'allarme?
«Io per la mia parte gli proposi un'autoriforma del Psi per bloccare questi signori delle tessere, specie al Sud, ma alla fine il progetto si arenò».
Perché?
«Un bel giorno mi disse: Il partito ha deciso così. Io rimasi di stucco e insistevo: fra l'altro l'autoriforma mi pareva il giusto complemento della riforma istituzionale che lui aveva vagheggiato. Che senso ha mettere mano allo Stato se poi non tieni a freno i partiti e i loro robusti appetiti? Ma evidentemente era stato sollecitato in quella direzione e non se ne fece più nulla».
Martelli ha appena scritto un libro denso di aneddoti e riflessioni sulla figura ancora cosi divisiva del segretario del Psi: «L'antipatico» in uscita per La nave di Teseo. Lei gli è stato vicino per tanti anni. Come era da vicino?
«Se Forattini lo disegnava come un novello Mussolini, con gli stivaloni, lui replicava: Ma io non sono autoritario. E con una punta di compiacimento aggiungeva: O almeno, non quanto dicono».
L'uomo che lei ricorda?
«Un discreto ballerino di samba. Allergico alle dorate case borghesi e ai riti estenuanti e raffinati della Milano da bere. Lui amava la cucina povera e si divertiva a cantare in compagnia le canzoni popolari italiane, francesi, spagnole. C'è un episodio che la dice lunga».
Quale?
«Una sera, forse un sabato, alcune signore bene cinguettavano: Bettino, Bettino, hanno aperto due nuovi ristoranti scicchissimi. E lui, con un barrito d'elefante: Lo chic mangialo tu. Io vado in trattoria».
Il suo fu davvero un socialismo moderno?
«Sì, e per due ragioni».
La prima?
«Riprese il filone minoritario nel partito del socialismo liberale teorizzato da Carlo Rosselli. Non si trattava solo di accettare la democrazia, come già avevano capito Turati e Treves, ma anche il capitalismo. Non solo preoccuparsi di redistribuire la ricchezza, ma anche di produrla. Un'idea innovativa, molto innovativa negli anni Sessanta. Ecco, magari Bettino questi concetti non li declamava in un comizio, ma nelle assemblee lo sentivo correre in avanti. Molto avanti».
Il secondo tratto?
«Lui aveva il culto per Cesare Battisti e dunque per un socialismo tricolore, italiano, non importato che affondava le sue radici nel Risorgimento: Garibaldi e Mazzini, anche se il secondo nome veniva pronunciato con prudenza per non incorrere nelle ire di Spadolini. Per lui i Mille erano più importanti della Resistenza».
Come tutto questo si tradusse in concreto?
«Con l'azione del Craxi presidente del consiglio. Capace di domare l'inflazione abbattendo il totem della scala mobile e rilanciando la crescita che fra l''83 e l''87 fu del tre per cento l'anno. L'Italia divenne la quinta potenza mondiale e quella fu l'ultima grande stagione di ottimismo per il Paese».
Innescando la spirale del debito pubblico che raddoppiò in un decennio, dal 60 al 120 per cento.
«La causa principale di quel disastro fu un'altra: il divorzio fra Tesoro e Banca d'Italia come spiego nel libro».
A Sigonella Craxi lasciò scappare il mediatore Abu Abbas. Un errore?
«E perché? Furono salvati centinaia di ostaggi e i sequestratori dell'Achille Lauro furono processati e condannati. Bettino era un decisionista: sapeva scegliere l'obiettivo di fondo senza fermarsi davanti a tutti i cavilli giuridici. Ma proprio questa sua libertà visionaria lo espose a critiche violentissime che il tempo non ha attenuato».
Da affaritaliani.it il 17 gennaio 2020. Sarà il ventennale della morte di Bettino Craxi. Sarà la rinnovata attenzione al Partito Socialista. Oppure sarà forse solo il coronamento di un sogno d’amore. Fatto è che – secondo indiscrezioni non confermate ad Affaritaliani.it Milano – pare che Claudio Martelli e Lia Quartapelle, parlamentate dem, dovrebbero convolare a nozze a breve in quel di Tel Aviv. I due vivono ormai felicemente una storia da diversi mesi e non è raro vederli pubblicamente insieme. L’ex ministro socialista è stato il protagonista, l’altra sera della presentazione del libro "L’antipatico", dedicato a Bettino Craxi. Per lei invece sempre di più si intensificano le voci di un nuovo protagonismo a livello nazionale e da più parti si dice che dovrebbe concorrere a ruoli di primo piano nel Partito Democratico.
Dagospia il 13 gennaio 2020. Estratto dell’intervista di Luca Telese a Ugo Intini per “la Verità”. Esisteva un patto Ukusa che univa, in funzione anti europea, il mondo anglosassone. Un piano di intercettazioni sistematiche praticato in Occidente. E una centrale denominata Echelon con sede a Fort Meade negli Usa, che aveva sotto controllo le classi dirigenti...».
E cosa si faceva con Echelon?
«Si spiava».
Con che obiettivo?
«Semplice. Destabilizzare l' Europa e l' Italia: per colpirle».
Una vendetta contro Sigonella, la ribellione di Craxi all' egemonia americana?
«Sarebbe riduttivo dirlo. Volevano colpire tutti i governi».
Europei? E perché?
«Finita la minaccia comunista, dopo la caduta del Muro, ai padroni del patto Atlantico non sono serviti più i leader forti che avevano mal sopportato».
Si rompe la solidarietà?
«C' è anche molto altro: all' inizio del Novecento l'Europa aveva il 25% del Pil mondiale, oggi solo lo 0,5%. Aveva il 20% della popolazione mondiale, oggi meno del 10%».
Claudio Martelli: «Vidi il corpo di Bettino. Una scena insopportabile». Pubblicato venerdì, 24 gennaio 2020 su Corriere.it da Vittorio Zincone. Ha 76 anni, è stato il delfino dell’ex leader socialista, ha una fidanzata (del Pd) molto più giovane. Di Craxi dice «Dall’87 non ne azzeccò più una». Bettino Craxi scherza e tira l’orecchio a Claudio Martelli: i due partecipavano al congresso di Atene dei Socialisti internazionali. Era il 1982 (Arch. Cicconi/Getty)Claudio Martelli è stato il numero due del Psi travolto da Tangentopoli, vice premier di Giulio Andreotti e ministro della Giustizia molto vicino a Giovanni Falcone. Nella piccola guerra civile che divide gli italiani tra chi rimpiange Bettino Craxi come uno statista costretto all’esilio e chi lo considera un delinquente morto latitante, lui appartiene ovviamente alla prima categoria. Ha appena scritto un libro (L’antipatico, Nave di Teseo) per ribadire i meriti craxiani e per denunciare la coalizione di poteri che si adoperò per plasmare il mito nero del leader socialista e per favorirne la caduta. L’intervista si svolge nel suo appartamento romano. Il citofono non funziona e Martelli è costretto a scendere quattro piani per aprire il portone. Si accende un piccolo dibattito sulla totale assenza di manutenzione che avvolge la Capitale e sulle differenze con Milano, dove lui è nato e cresciuto, e dove vive metà della settimana. Lo sfogo prosegue sulla politica di oggi: ministri incompetenti, aggressioni sui social-network, nessuna riflessione o visione di lungo periodo: «Si salva poco».
Che cosa si salva?
«Situazioni come quella dell’attuale Pd milanese, dove è nato un gruppo di giovani che non ha nulla a che fare con la storia del PSI, del PCI o della DC. E poi Beppe Sala. È bravo».
Nel Pd milanese c’è anche la sua compagna, la deputata Lia Quartapelle. Avete quasi quarant’anni di differenza.
«Eheh, che ci posso fare? Succede, quando uno ne ha settantasei come me».
Come e quando vi siete conosciuti?
«Un paio di anni fa, a Milano, alla presentazione di Revolution il libro autobiografico di Emmanuel Macron».
È vero che le è capitato di darle una mano nella stesura di un discorso parlamentare sui migranti?
«È una balla. Un falso. Non ne ha proprio bisogno».
Parliamo dei leader negli anni del “Si salva poco”. Il premier Giuseppe Conte...
«Abile nelle mosse e nel gioco tattico. Certo, in campo internazionale il difetto di leadership fa paura».
Il ministro degli Esteri è Luigi Di Maio.
«Non si impara in un giorno a guidare la diplomazia italiana. Tra l’altro, grazie al populismo del signor Di Maio e dei suoi urlatori, la mia pensione da parlamentare è stata tagliata del 57,9%: ridotta a duemiladuecento euro. In politica l’onestà consiste nella capacità. E di capaci se ne vedono davvero pochi».
Il nome di un capace?
«Roberto Gualtieri, ministro dell’Economia. La sua esperienza nel Parlamento europeo lo ha reso di sicuro competente. Però mi chiedo se sia chiaro un punto che Craxi aveva evidenziato già nel 1993: il trattato di Maastricht va rinegoziato».
Nel suo ultimo libro lei sostiene che gli ex comunisti italiani si siano consegnati all’europeismo liberista.
«È così. Complice l’ubriacatura per la Terza via blairiana, la sinistra italiana di governo ha abbracciato un riformismo puramente liberale e una costruzione dell’Europa che difetta in solidarietà sociale. Il Pd si è fatto establishment. Identificandosi principalmente con l’Unione europea e dimenticando la nazione, i democratici hanno spalancato un’autostrada elettorale a Matteo Salvini».
Discute mai della linea euro-lib del Pd con Quartapelle?
«È un continuo. Viviamo insieme!».
Voterà Pd per quiete domestica?
«Non lo so. Dipende da che cosa proporrà il Pd».
Il segretario del Pd, Nicola Zingaretti...
«Se la sua idea di rinnovamento della sinistra è un ritorno alla Ditta, ci saranno sorprese amare. Lui non è un leader, è il segretario, l’amministratore. Il Pd è la scuola dei bravi amministratori emiliani. Zingaretti ha frequentato la versione romana, con alle spalle il genio oscuro di Goffredo Bettini».
Bettini è stato per anni il dominus dei dem capitolini.
«Sono andato una volta a trovarlo, a casa della madre. Era scalzo. Mi sembrava di essere tornato in India, quando durante un lungo viaggio mi portarono a trovare un guru che se ne stava stravaccato su un divano».
A quando risale questo viaggio in India?
«Al 1994, quando è crollato tutto. Ci sono rimasto tre mesi. Sono anche andato a trovare Madre Teresa di Calcutta. Mi fece sedere accanto a lei e la prima cosa che mi disse fu: “Come sta il mio amico Giulio Andreotti?”. Poi mi fissò e chiese: “And you? Why are you so unhappy?”. Le spiegai che era crollata la Prima Repubblica e che ero sotto processo. Lei scosse la testa e insistette: “Perché sei così infelice? Dimmi, hai mai ucciso qualcuno?”. Replicai che ovviamente non avevo mai tolto la vita a nessuno. E lei, più insistente: “Hai mai spinto la tua compagna ad abortire?”. A quel punto capii che era meglio interrompere il colloquio».
Perché?
«Avevo già tanti guai, non volevo subire pure un’invettiva perché da ragazzo una mia fidanzatina era ricorsa all’aborto. Quando io avevo diciannove anni non si faceva tanta prevenzione».
Martelli si accende un sigaro. Lo invito a un piccolo Amarcord sugli esordi giovanili in politica. Il primo incontro con Craxi...
«Non avevo ancora vent’anni, frequentavo i giovani repubblicani. Ero in piazza Cavour, a Milano, con Antonio Del Pennino...».
Esponente storico del PRI milanese.
«Aspettavamo sotto il palazzo dei Giornali i risultati elettorali delle elezioni politiche del 1963. Si avvicinò questo signore alto, calvo. Era Craxi. Del Pennino me lo presentò e lui cominciò a farmi molte domande: studi, romanzi preferiti... Alla fine sentenziò: “Hai letto troppo Cesare Pavese e troppo poco Gian Burrasca”».
Lei è stato per molti anni il delfino di Craxi.
«Dal 1976, anno in cui Bettino diventò segretario, al 1983, quando arrivò alla presidenza del Consiglio, abbiamo vissuto sette anni a Roma in simbiosi mutualistica».
Tra di voi ci sono stati anche momenti di forte contrapposizione.
«Decisamente. Nel 1986, quando mi impegnai per i referendum sulla giustizia e provai ad allineare il Psi su posizioni anti-nucleariste, Bettino mi mandò a dire, tramite Cornelio Brandini, che la mia testa era già tagliata e che se avessi fatto un passo in più sarebbe rotolata. Poi nel 1987...».
Che cosa accadde?
«Era caduto il governo Craxi e io ero andato a trattare il sostegno del Psi a un governo Andreotti. Andreotti nel suo studio di Montecitorio ci promise, tra le altre cose, una forte apertura al presidenzialismo. Tornai entusiasta in via del Corso...».
Sede storica del Psi.
«... Ma Craxi respinse l’accordo fulminandomi: “Non ti immischiare”. Da parte sua fu un errore clamoroso. L’incarico venne dato ad Amintore Fanfani e dopo due mesi si andò a elezioni. La tragica verità è che dal 1987 in poi Craxi non ne ha più azzeccata una».
Lei ha raccontato una conversazione a tre, con Craxi e Marco Pannella, in Transatlantico, durante la quale il leader radicale sconsigliò a Craxi di partire per la Tunisia.
«Io invece non lo contrastai. Capivo che era un errore, ma Bettino stava male e sapevo che se fosse rimasto in Italia lo avrebbero massacrato».
È mai stato a Hammamet sulla tomba di Craxi?
«Sono corso a Hammamet il giorno della sua morte. Ho visto la scena insopportabile del suo corpo rannicchiato in una bara troppo piccola. E poi ci sono tornato negli anni successivi, anche con il mio figlio più grande, Giacomo. Craxi ci giocava quando era bambino. E mi ha chiesto di lui pure durante la nostra ultima conversazione».
Quando vi siete parlati per l’ultima volta?
«Una telefonata alla vigilia del Natale 1999. Era molto stanco. Gli dissi che sarei andato presto a trovarlo e lui mi chiese di aspettare perché si era operato da poco. Morì qualche settimana dopo».
Vita e studi — Claudio Martelli è nato a Gessate il 24 settembre del 1943. A 13 anni si è iscritto al PRI. Laureato in Filosofia, ha lavorato come assistente nella facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Milano. Ha frequentato lo stesso liceo di Craxi.
Politica — Ha conosciuto Bettino Craxi non ancora ventenne, negli anni Sessanta. Il leader socialista lo chiamò a Roma nel 1976. Deputato ed eurodeputato, è stato vice segretario del Partito socialista. Nel 1991 è diventato ministro di Grazia e Giustizia e ha voluto Giovanni Falcone alla Direzione generale degli affari penali. Dopo Tangentopoli ha abbandonato per un periodo la politica, per poi tornare sulla scena fondando Il Partito socialista-Nuovo Psi. Nel 2005 l’addio definitivo.
A un anno dalla scomparsa. Ritratto di Gianni De Michelis, personaggio fuori dall’ordinario che vedeva al di là dell’orizzonte. Biagio Marzo su Il Garantista il 13 Maggio 2020. Gianni De Michelis era un personaggio fuori dall’ordinario, vedeva di là dall’orizzonte. Era un presbite politico e non si perdeva in tattiche, come comunemente fanno i politici di basso lignaggio. Il suo rapporto con la politica era pragmatico, dovuto alla sua docenza in chimica, ma tutto condito dall’utopismo e dal riformismo. Insomma, era un personaggio sui generis e per la sua formazione culturale e religiosa era portato ad essere eretico e, per di più, aveva una grande velocità di pensiero. Per questo, le sue analisi erano scenari. Dopo alcuni travagli giovanili a destra, si iscrisse al Psi, seguì l’operaismo di Lelio Basso, scelse il riformismo rivoluzionario di Riccardo Lombardi non facendo la scissione del Psiup, in seguito, fu un post-craxiano. A un anno dalla sua scomparsa, sentiamo la sua mancanza umana e politica. Anzitempo, nel 1987, diede alle stampe il libro: Verso il XXI secolo. Idee per fare politica. Un lungo saggio per arrivare attrezzati e preparati al nuovo secolo. A parere dell’autore il problema era come utilizzare l’occasione di cambiamento: dopo decenni di impegno politico, aveva scoperto la necessità di «osservare, ascoltare e dare testimonianza della trasformazione». Al che, si pose la domanda: vale più la pena di esplorare “lo spazio” o il “tempo”? Il ragionamento fu che alla storia spettava la riflessione sul passato, ma, nel XXI secolo, «la velocità della trasformazione consente di esplorare il tempo testimoniando dell’attuale e vivendo in esso». Per i tempi nuovi, necessitano uomini nuovi e De Michelis, rifacendosi, alla mitologia greca, ossia a quel gruppo di circa cinquanta eroi, guidati da Giasone che, a bordo della nave Argo, li condusse nelle terre ostili della Colchide alla riconquista del “Vello d’oro” – descriveva questa grandissima trasformazione. Ma qual è la nave e l’equipaggio con cui si esplora il tempo? Beninteso, non si ispirò alla leggenda, ma andò oltre e come un rabdomante “scoprì” il Faust di Goethe, opera scritta a cavallo della Rivoluzione francese e l’inizio del XXI secolo, in cui il grande letterato tedesco esprime, da par suo, il sorgere dell’era nuova, ossia il mondo industriale, la società delle ciminiere e del manifatturiero. In questo contesto, si muove la figura di Faust che non è altro l’uomo nuovo che rappresenta i due secoli. Il politico veneziano, che per carattere e formazione non mancava di peccare di ottimismo, auspicava che ci fosse una personalità che, tra il XX e il XXI secolo, potesse «scrivere un’opera analoga in un mondo che sarà riuscito a controllare il proprio destino e che possa salutare l’alba della nuova epoca. Ma allora il protagonista non sarà Faust ma Fausta». Già allora, si pose il problema della nuova classe dirigente, delle trasformazioni e del ruolo della donna. “Fausta” protagonista del futuro, «perché se è vero, com’è vero, che abbiamo poco tempo, se è vero, com’è vero, che la partita viene giocata in tempi brevi, se è vero, com’è vero, che le risposte tradizionali, politiche, ideologiche, organizzative, si dimostrano visibilmente inadeguate a quell’operazione di governo e di autogoverno, allora occorre che ci sia la capacità di sostituzione, e questo è compito soprattutto della donna». Pur tuttavia, la donna, che con le proprie forze, capacità, intelligenza e cultura, ha scalato gerarchicamente posti importanti del potere e delle istituzioni, a ben vedere, resta ancora ai margini. Molto lavoro c’è da fare per far sì che si inserisca a pieno titolo nel mondo che conta. De Michelis pensava che sarebbe stato il XXI secolo il riscatto della donna, invece, in particolare in Italia, vediamo nei posti di comando ancora un’egemonica presenza dell’uomo. Alla luce degli accadimenti di oggi, non c’è un domani, dato che si naviga a vista. In particolare in tempi di Covid19, ci vorrebbe una programmazione, un progetto e delle idee. E, comunque, mancano i politici della sua razza che sapevano vedere in lontananza, al contrario, di quelli attuali che hanno gli occhi per vedere e non vedono. In verità, sono degli apprendisti stregoni, non a misura di questo periodo malvagio. Comunque sia, dopo mesi di pandemia, i governanti non hanno proferito verbo sul futuro dell’Italia. Il solitario riformista aveva toccato con mano che, facendo il giramondo come privato e come ministro, si era «avviato, su scala planetaria, un processo di cambiamento le cui principali caratteristiche – velocità, pervasività, globalità – sono totalmente diverse da quelle dei processi di cambiamento che hanno caratterizzato la precedente fase della storia dell’umanità». Non a caso, vide primo fra tutti il fenomeno di massa della migrazione. L’allora ministro del Lavoro, parliamo del lontano 1985, ebbe, tra le tante sue intuizioni quella della grande migrazione: dal Sud sottosviluppato del mondo verso il Nord sviluppato, Europa in primis. Purtroppo, le sue argomentazioni furono inascoltate dai capi di Stato e di governo e oggi paghiamo il fio, con sbarchi di extracomunitari alla ricerca di una vita degna di questo nome. Con buona pace di coloro i quali non hanno fatto una politica accorta sull’accoglienza nei confronti degli africani e degli asiatici che sbarcano sul suolo italiano: oggi si meritano un partito come la Lega che sta sulla cresta dell’onda elettorale. Cosa fece e cosa disse De Michelis in proposito? Riunì a Tunisi i ministri del Lavoro e affermò che «arriveranno sulle nostre coste a nuoto e nessuno potrà fermarli». Nella conferenza dell’Ocse di Roma del 1991 predisse che «l’immigrazione sarà un problema pari alla questione ambientale» e come ministro degli Esteri aumentò i finanziamenti alla Cooperazione economica verso i Paesi poveri. Altra intuizione fu la Cina: in veste di “argonauta” mise piede il giorno dopo che avevano arrestato la moglie di Mao Zedong, Jiang Quing, e capì in un battibaleno che Deng Xiaoping avrebbe cambiato le sorti del Paese. Di fatto, sotto il suo controllo la Cina divenne una delle economie dalla crescita più rapida, immettendola nel mercato globale, senza che il Partito comunista cinese perdesse il controllo del potere. Tra parentesi: stando al suo fianco, fui sorpreso che le autorità cinesi chiedessero come stesse il compagno Pietro Nenni, che per loro era una icona, una sorta di immagine sacra. Amò la Cina, come discente di Marco Polo, ma fu convinto assertore della politica Atlantica, della Nato e dell’Ue: c’è in calce, agli atti, la sua firma al Trattato di Maastricht. Sebbene, negli ultimi anni della sua vita, fosse critico per la piega che aveva preso Bruxelles. Consapevole dell’importanza del negoziato di Maastricht, si schierò con Craxi contro le elezioni anticipate: secondo lui se si fosse votato nel 1991, l’Italia sarebbe uscita dal negoziato. Sulla scelta del non andare alle urne di Craxi e De Michelis, personalmente dissento e come Psi abbiamo perso una occasione storica, partono da lì le nostre successive sventure. Sul rapporto Stato e l’attività scientifica, GDM aveva le sue idee in proposito. Nonostante attribuisse alla scienza una centralità e un peso notevole, le ultime decisioni non potevano spettare agli addetti ai lavori. Al dunque, pensava, «la politica detta le regole del gioco». Come ministro degli Esteri lavorò per la cooperazione tra i popoli: un lavoro incompiuto vuoi per lo sconvolgimento degli eventi geopolitici internazionali vuoi per Tangentopoli. Ma GDM resta tra i migliori ministri degli Esteri che l’Italia abbia avuto. E ciò gli viene riconosciuto da amici ed avversari soprattutto a livello internazionale. Chiaramente, si contraddistinse come uomo di governo, ma approfondì temi politico-culturali che fino allora erano tabù: lo scontro sinistra/destra e il rapporto tra riformismo e neo riformismo. Sullo scontro sinistra/destra, ribadì che «non c’è più la possibilità di una contrapposizione nitida tra due grandi schieramenti politici o sociali, non c’è più la possibilità di una alternativa tra destra e sinistra, perché non c’è più la base sociale di una spartizione nitida tra interessi conservatori e interessi progressisti o di liberazione». «Oggi – spiegava – c’è la possibilità di cambiamento tra centrosinistra e centrodestra». Ne consegue che il centro acquisterebbe un ruolo decisivo. Cosa possiamo dire di questa riflessione? Molta acqua sporca è passata sotto i ponti, acqua non potabile per colpa della sinistra post Mani pulite, che ha portato prima al governo la destra camuffata di liberalismo, poi la destra sovranista e poi ancora la destra populista assistenzialista. Il discorso sul rapporto tra riformismo e nuovo riformismo è interessante e attuale. Poche parole sono oggi abusate come il riformismo, ragion per cui GDM parla di neoriformismo. Per quanto ci riguarda il riformismo, per intenderci quello classico della tradizione turatiana – il riformismo antitesi della rivoluzione – è stato archiviato da parecchi decenni, resta «il nuovo caratterizzato dall’assenza del fine ultimo o di un modello». In tempi non sospetti, metà anni Ottanta del Novecento, GDM vedeva il neoriformismo in lotta contro «il movimentismo che è a monte del populismo e del fondamentalismo. Spesso hanno radici giuste, ma poi non esprimono nessun tipo di soluzioni giuste. L’unica strada per rispondere al populismo/fondamentalismo ed evitare il rischio del loro dialogare è il neoriformismo». In modo schematico, per facilitare la spiegazione della categoria del nuovo riformismo puntualizziamo: mondializzazione dei problemi; cambiamento dal lavoro manuale e meccanico a quello informatico per arrivare alla intelligenza artificiale; il tenore di vita è cambiato e sono emersi nuovi bisogni con una rivalutazione dei meriti. Orbene, le radici del riformismo del nuovo evo sono: da un lato, la scoperta delle libertà civili e politiche, che comportano anche libertà dal bisogno, dall’altro, contro ogni forma di economia statalista e un egualitarismo non livellatore. Infine, il nuovo riformismo è vitalmente impegnato con i problemi dell’ambiente e della salute, rifiutando ogni preconcetto di società industrializzata. In sintesi, ho voluto celebrare l’anniversario della morte: dando a GDM quello che è di GDM.
Giampiero Mughini per Dagospia il 3 ottobre 2020. Caro Dago, mi permetti qualcosa di dirti qualcosa di piccolo che mi sta a cuore? Vedo che il Mose a Venezia ha funzionato. Per la prima volta. L’acqua alta si è avventata a rovinare Venezia, e invece le paratie del Mose l’hanno stoppata. Era stata un’impresa azzardatissima e rischiosissima e costosissima in cui aveva creduto Gianni De Michelis, un leader politico socialista di cui nessuno più si ricorda o semmai si ricorda perché aveva lasciato una montagna di debiti all’Hotel Plaza di Roma. E non solo quello, era uno che amava la vita e gli piaceva far tardi nelle discoteche avvitato a fanciulle belle e disponibili. Io l’ho solo sfiorato, frequentato solo un tantino, non è che gli fossi particolarmente amico. Solo che glielo leggevi in fronte che era di una razza superiore, uno che da ministro se ne mangiava tre o quattro. Uno che sapeva quando un politico deve prendersi il rischio di decidere. Uno di quella generazione dell’Ugi che aveva mangiato pane e politica sin dai vent’anni - nei tardi anni Cinquanta - e oggi non ce n’è uno solo nella politica che gli stia a petto. (Ovviamente a parte Matteo Renzi, e so di poterlo scrivere qui anche se tu, Dago, non sei d’accordo.) Erano una famiglia i De Michelis. Cinque fratelli. L’altro gran talento era Cesare De Michelis, il fondatore della Marsilio. Quando Gianni De Michelis cadde in disgrazia, la Guardia di Finanza andava a frugare nella casa editrice un giorno sì e l’altro pure nell’idea si trovare chissà quali imbrogli. Pensavano che la casa editrice fosse come contaminata da quel fratello spavaldo e impudente. Anche Cesare l’ho conosciuto poco, io che oggi pubblico alcuni miei libri dalla Marsilio. Una volta che ero a Venezia e che avevo incontrato la mia amica Laura, amicissima di Cesare De Michelis e sua ospite a Venezia, lei mi portò mi potrò a casa di Cesare a fare un giro della sua immane biblioteca personale. Immane. Stanze e stanze piene di libri da terra al soffitto. Mi intendo di libri. So quello di cui sto dicendo. Mi intendo di persone. So di che pasta erano fatti Cesare e Gianni De Michelis. Una razza di cui ce n’è pochi nel mondo di oggi. Anzi pochissimi.
Bernardo Basilici Menini per laStampa.it il 24 ottobre 2020. È morto oggi, all'età di 72 anni, Giusi La Ganga, esponente del Pd torinese ed ex colonna del Partito socialista italiano. La Ganga , più volte deputato ed ex consigliere comunale in Sala rossa, da tempo era alle prese con una lunga malattia. E’ stato uno degli esponenti più noti della storia politica piemontese della prima Repubblica: vicinissimo a Bettino Craxi, segretario del PSI Torinese e membro della direzione nazionale del partito. La Ganga è stato coinvolto anche nelle vicende di tangentopoli: negli anni 90 ha patteggiato una condanna a un anno e otto mesi, oltre che una multa di mezzo miliardo di lire, nell'ambito della vicenda tangenti per l'ospedale di Asti. oltre alla recente parentesi in consiglio comunale dal 2013 al 2016, La Ganga aveva continuato lavorare all'interno del Partito democratico, tra le varie organizzando convegni e seminari. Il PD oggi lo ricorda: «Il Partito Democratico di Torino si stringe attorno alla Famiglia La Ganga per la scomparsa del caro Giusi. Lo ricordiamo con affetto per la sua fine e non comune intelligenza politica, per il suo attivismo nel PD e nelle Istituzioni». Il tributo all'ex esponente socialista è bipartisan, e arriva anche da Fabrizio Ricca, assessore regionale della Lega: «Esprimo il mio cordoglio per la scomparsa di Giusi La Ganga, protagonista importante e osservatore sempre attento della politica nazionale e cittadina. Le mie condoglianze sincere vanno ai suoi cari e a tutte le persone che gli hanno voluto bene e che lo hanno stimato come politico e come uomo». Numerosi i messaggi di cordoglio. «Giusy La Ganga e' stato certamente un protagonista della vita politica italiana e torinese. Anche le traversie che hanno turbato la sua vita e il suo impegno politico non hanno mai fatto venire meno la passione, l'intelligenza, la lucidità con cui ha continuato a seguire la politica nazionale e a contribuire da consigliere comunale alla vita di Torino», ha detto Piero Fassino. E la sindaca Chiara Appendino ha twittato: «Torino perde una figura politica riconosciuta per passione, lucidità e capacità di analisi». “É con dolore che ho appreso della fine dell’agonia di Giusi La Ganga. Compagno ed amico. Giusi é stato un dirigente politico ed intellettuale di vaglia. Ha attraversato la lunga temperie rappresentata dalla fine del PSI mantenendosi attivo nella lotta politica e culturale della sua Torino e non recidendo i legami con i compagni socialisti della tradizione e del rinnovamento degli anni ‘80”. È quanto ha scritto in un lungo post su Facebook Bobo Craxi, non appena appresa la scomparsa di Giusi La Ganga. Craxi ha aggiunto: “Ero legato a lui da sincera amicizia personale che mi era stata trasferita da mio padre Bettino di cui fu prezioso e attivo collaboratore In via del Corso”- ha sottolineato riferendosi alla storica sede del Psi. “Mi ha chiamato per accomiatarsi qualche settimana fa. La malattia lo stava divorando e la voglia di vivere lo aveva abbandonato. Siamo finiti a parlare di politica, la vera grande ed intensa passione della sua vita. Ora non potremo farlo più. Ce ne faremo una ragione; Ma uomini come Giusi La Ganga – ha concluso Bobo Craxi – mancheranno alla politica democratica ed a noi compagni di lotta che gli abbiamo voluto bene”.
Giampiero Mughini per Dagospia il 24 ottobre 2020. Caro Dago, e siccome non fa chic ricordare i politici migliori della deprecatissima Prima Repubblica succede che solo sul “Foglio” di oggi trovo un articolo (di Maurizio Crippa) che ricorda adeguatamente la statura politica di Giusy La Ganga, il socialista craxiano morto ieri a 72 anni. Uno, e tanto per dirla in breve, che dei politici di oggi ce ne vorrebbero cinque o dieci per stargli al paro. Eravamo in tanti, ai tempi della deprecatissima Prima Repubblica, a conoscerlo e ad apprezzarlo, il piemontese dalle spalle larghe che era. Se non sbaglio era stato lui cercarmi, dopo la pubblicazione del mio “Compagni addio”. Non che mai e poi mai mi avesse chiesto una riga d’appoggio sul mio giornale, che allora vendeva 600mila copie. Quando Norberto Bobbio che era stato suo professore all’Università diede un gran colpo negli stinchi al Psi, che era accusato dappertutto di avere prelevato tangenti illecite pur di finanziare la sua macchina politica (macchina politica di cui faceva parte a pieno tempo Giusy) a me venne la felice idea di condurre Giusy al quinto piano di via Filippo Sacchi a Torino _ dove abitava Bobbio _ e di metterli a confronto. Ricordo che quando prendemmo l’ascensore Giusy era emozionato, tale era l’immensa autorità morale e intellettuale di Bobbio. E dunque sì o no il Psi prendeva denari tangentizi a finanziare i suoi giornali, le riunioni del comitato centrale, le piccole o grandi federazioni locali che fossero, le campagne elettorali che si succedevano ogni due per tre? A questa domanda Giusy rispose indirettamente, e tanto più che era alle porte una campagna elettorale che lo vedeva impegnato in tutto il Piemonte. Ebbene, spiegò La Ganga mentre Bobbio ascoltava in silenzio, per quella campagna lui aveva chiesto a chi se ne intendeva quali sarebbero stati i costi prevedibili da sopportare in modo da comportarsi di conseguenza, ossia di trovarli quei soldi in un modo o in un altro (quest’ultimo particolare era sottinteso). Ebbene per fare la campagna elettorale la più scabra possibile occorrevano qualcosa come 400 milioni di fine anni Ottanta. Ho detto 400 milioni. Era il costo della democrazia pluripartitica. A sentire quella cifra sia io che Bobbio rimanemmo a bocca aperta. Né Bobbio aggiunse alcunché alle critiche che aveva fatto in avvio di conversazione al Psi. Era la Prima Repubblica, di cui facevano parte tanto Bobbio che La Ganga. Voi di certo non la rimpiangete. Io sì.
Chi era Giusi La Ganga, uno dei luogotenenti di Craxi insultato da tutti. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 27 Ottobre 2020. È morto Giusi La Ganga, uno di noi. Aveva sei anni meno di me. Un ritrattone? Un ritrattone. In alcuni giornali lo chiedono come grande affresco: tu ricordi tutto di quell’epoca, tu c’eri, eccetera. C’ero. E capisco bene che chi oggi ha solo trent’anni non ne ha idea. Anche io quando avevo trent’anni non capivo molto di quel che era accaduto. Non è soltanto una questione generazionale, banale: si invecchia, si muore, qualcuno ricorda, qualcun’altro no. Il cambio avviene quando un mondo intero si inabissa e in quel mondo che colava a picco c’era anche lui, Giusi – che qualcuno scriveva Giusy – La Ganga. Che già, come nome, parte male. Ganga-gangster, ovvietà. Poi, figuriamoci, socialista. Socialista uguale ladro. Umberto Bossi che urlava tutto il suo antifascismo militante cercando di essere più “resistente” dei vecchi dell’Anpi, i socialisti se li mangiava a colazione. Tanto che il povero Giusi, nato craxiano e per questo precipitato nel girone dei craxiani piemontesi, messo alla gogna per aver amministrato il partito foraggiandolo con tangenti sugli appalti come si faceva allora, fu marchiato a fuoco finché durò la bufera. Ma quando la bufera passò, approdò nel PD, recuperato da Chiamparino e dall’ala buonista del PD piemontese. Non so di che cosa sia morto Giusi La Ganga. Vorrei sempre sapere esattamente di che cosa muore qualcuno, con i dettagli, quali sono state le sue ultime parole, se aveva paura di morire. I giornali e le agenzie non ne vogliono sapere: si è spento ieri, è improvvisamente deceduto, è morto dopo una breve lunga malattia, si passa istantaneamente da carne viva a lapide. E per completare la sepoltura occorre dunque una lapide. La Ganga patteggiò una pena di un anno e mezzo circa e pagò una multa (o altro genere di inflizione pecuniaria) più o meno di mezzo miliardo di vecchie lire. Poi disse: «Credo di aver pagato tutti i miei debiti. Materiali e non». E uscì di scena, tanto che non se ne parlò quasi più e quando mi hanno detto che era morto sono dovuto andare a guardare le vecchie foto su Internet: aveva un viso intelligente e triste, con una diagonale ironica, ma non sarcastica. Era come se sapesse che una volta marchiato col cono d’ombra, sei morto per sempre. Non è successo così anche al socialista e mio carissimo amico Ottaviano Del Turco? ”Socialistuzzi, ladrungelli”, mi gridava in Calabria l’intellettuale comunista (poi passato ai socialisti) Pasquino Crupi. E in tutt’Italia si era scatenata questa crociata guidata da Repubblica e Unità, ma anche Stampa e Corriere. Con quel nome, tutti i satiri e satiristi si divertirono un mondo. Il disegnatore satirico Giorgio Forattini (che diventò una star quando disegnò Amintore Fanfani – noto per la sua bassa statura – come “il tappo” sparato da una bottiglia di champagne quando il divorzio vinse al referendum) lo disegnava con le sembianze di Pietro Gambadilegno, il gangster nemico di Topolino negli anni Quaranta. E poi tutti i disegnatori e gli autori di satira attingevano al serbatoio del mondo disneyano. Tanto che ancora oggi si considera Giuseppe Conte equivalente al papero fortunato Gastone e per anni Berlusconi è stato rappresentato come zio Paperone, il ricco spilorcio ispirato a Scroodge del Racconto di Natale di Dickens. Persino il termine “Tangentopoli” fu un adattamento di Paperopoli, la città in cui vivevano tutti i paperi e Giuliano Amato, tornato a sinistra dopo essere stato per anni il numero due di Craxi, parlava di un ipotetico “partito Eta Beta”, richiamandosi a un ominide venuto dal futuro, amico di Mickey Mouse. Anche quel mondo di riferimenti è finito. Persino Charlie Brown, non c’è più. La Ganga, per l’immaginario collettivo del popolo leghista e del loro segretario Bossi, era soltanto un membro della “banda Bassotti”, altra produzione disneyana di galeotti con la mascherina sugli occhi, esperti in casseforti. Ma La Ganga fu processato per rifornimenti illeciti al partito socialista insieme a due democristiani importanti che facevano lo stesso mestiere: Severino Citaristi e Vito Bonsignore. Era l’epoca in cui si distinguevano i politici onesti che “rubavano per il partito” dai disonesti che intascavano in proprio. Un mondo etico più finto di Paperopoli: la questione dell’approvvigionamento illecito del partito, che beccavano anche il finanziamento pubblico e non gli bastava, era nata con il compromesso che garantiva al Pci l’impunità per i suoi rifornimenti annuali ottenuti da Mosca in dollari poi cambiati all’Ior di monsignor Marcinkus (testimonianza di Cossiga quando era sottosegretario di Moro), compromesso che non poteva impedire a tutti gli altri partiti di arraffare soldi ovunque potessero, visto che la politica aveva costi astronomici. Questo fu anche il senso del celebre discorso alla Camera di Bettino Craxi il 3 luglio del 1992 quando il segretario socialista ormai braccato come il “cinghialone” (altro disegno celeberrimo di Forattini) si rivolse a tutti i colleghi degli altri partiti sfidandoli a negare che i loro approvvigionamenti avvenissero al di fuori della legge. Nessuno si alzò o fece un cenno. Silenzio di tomba mentre Craxi parlava in quel modo scandito guardando intensamente tutti, girandosi e cercando l’incontro degli sguardi, anziché sfuggirlo, com’era nel suo carattere. Per la cronaca, la condanna che La Ganga patteggiò -esattamente venti mesi – riguardava una tangente legata al nuovo ospedale di Asti e dove a quanto pare democristiani e socialisti presero la loro fetta. Passata la bufera, Chiamparino e Fassino lo accolsero nel Pd torinese guidando una confluenza di “socialisti per il Partito democratico” e per sette anni fu consigliere comunale a Torino, finché le condizioni di salute glielo permisero.
La lezione che ci ha lasciato Giusi La Ganga: la politica come ragione di vita. Gianni Pittella su Il Riformista il 4 Novembre 2020. Giusi La Ganga è stato un grande dirigente politico, una mente ragionatrice brillante, un parlamentare di lungo corso. Ed è stato due altre cose sopra tutte, fino al midollo: torinese e socialista. Lo scrivo da meridionale, anzi da meridionale periferico, Torino ha rappresentato a lungo nel Paese una fucina di classe dirigente straordinaria, per capacità di elaborazione, integrità, cultura civile. E l’opificio primo è stato il Liceo Classico Massimo D’Azeglio dove La Ganga, nato nel 1948, si diploma a ridosso dell’anno del cambiamento e della rivolta politica, il 1968. Nelle aule e nei corridoi di quel liceo, nei decenni appena precedenti, si erano formati, per citarne solo alcuni, Cesare Pavese, Giulio Einaudi, Giancarlo Pajetta, Leone Ginzburg, Norberto Bobbio, Primo Levi, Attilio Momigliano, Luigi Firpo. Tutti diversi per ideologia, estrazione culturale e sociale, sentimento religioso, comunisti, cattolici, laici, ebrei, futuri economisti, italianisti, filosofi e ricercatori in discipline scientifiche, come il Nobel per la medicina Lauria. Tutti accomunati dall’antifascismo militante e da un vivo anelito democratico alla libertà. In questo contesto, La Ganga si iscrive nel 1965 neanche maggiorenne al Partito Socialista e poco dopo frequenta Scienze Politiche che ribolliva di contestazione sessantottina. Si laurea con una tesi sulla “Riorganizzazione degli enti locali in Italia” e partecipa alle lotte studentesche su posizioni riformiste e dunque minoritarie. La riforma degli enti locali fu un suo cruccio anche dopo, quando nell’esecutivo nazionale del Psi, diresse lo strategico “Dipartimento Enti Locali” e l’ordinamento attuale di comuni e province è figlio anche delle sue idee. Fu assistente alla cattedra di Scienza delle Finanze del professor Franco Reviglio, il grande economista liberalsocialista, poi Ministro, e i cui allievi, i cosiddetti “Reviglio boys”, furono Tremonti, Siniscalco, Baldassarri e Bernabè. Nei trenta e più anni di iscrizione socialista, fino allo scioglimento negli anni di Tangentopoli, La Ganga fu Segretario del “Club Turati”, segretario torinese del Psi, membro della Direzione Nazionale e deputato al Parlamento per quattro legislature fino a essere eletto nel 1992 Presidente del Gruppo Parlamentare Socialista. Legato a Bettino Craxi, non lo rinnegò mai e ne difese in ogni occasione la memoria e il lascito politico. Tra l’altro, con Craxi condivideva un rapporto giovanile nato dalla comune appartenenza alla corrente autonomista del partito. Dopo il vuoto post tangentopoli, e i problemi che ne seguirono anche per lui, la tentazione di ritirarsi oltre che dal proscenio diretto anche dal dibattito pubblico. Tentazione che durò poco, inevitabile per uno come La Ganga che alla riflessione prima ancora che alla pratica politica aveva dedicato tutta la sua vita. Mise presto la sua penna preziosa di giornalista e la sua esperienza di politica attiva nazionale a sostegno della candidatura a Sindaco di Torino di Domenico Carpanini nel 2001 e poi di quella di Sergio Chiamparino la prima, e la seconda volta e nel 2013 fu eletto consigliere comunale a Torino, rimanendo in carica fino al 2016. Fieramente socialista, riteneva che l’unico luogo politico possibile per un socialista fosse a sinistra, anche quando la discriminazione della sinistra ex comunista per chi proveniva dalle file socialiste e craxiane era pesante. Per contribuire alla distensione e all’unità delle forze riformiste promosse infatti l’associazione “Politica – Socialisti per il partito democratico” e si iscrisse al Partito Democratico della cui direzione piemontese divenne membro. Questa lunga biografia di impegno politico termina qualche giorno fa, quando La Ganga si spegne a 72 anni dopo una lunga malattia. Me ne giunse notizia in Senato e pensai subito che avevo perso un vero amico, un compagno intelligente come pochi e dal tratto umano generoso. Ho un ricordo vivido di lui a Lauria sul palco le liste socialiste al Comune e ancora dei tanti compagni delle terre di Basilicata con cui invece organizzavamo le comunità lucane in Piemonte a suo sostegno. Altri tempi in cui la politica era ragione di vita integrale, di palingenesi sociale, di passione totalizzante. Di quei tempi Giusi La Ganga non fu testimone ma un protagonista che già rimpiangiamo.
Craxi sbagliò a non prendere a calci in culo i "craxini". Fabrizio Cicchitto il 10 Gennaio 2020 su Il Riformista. Siccome non vogliamo sottrarci al tema prendiamo di petto anche la questione del finanziamento irregolare dei partiti che ha provocato le vicende giudiziarie di Bettino Craxi. Ora, se l’iniziativa del pool di Mani Pulite fosse stata assunta negli anni 50 e 60 De Gasperi, Togliatti, Nenni, Fanfani, i dorotei, Saragat, Ugo La Malfa, i maggiori leader sindacali (non dimentichiamo la gestione dei palazzi degli enti previdenziali), Vittorio Valletta, Enrico Mattei e i suoi successori all’Eni, i capi di molte imprese dell’Iri, i presidenti delle maggiori banche, per non parlare delle manipolazioni della borsa messe in atto da Enrico Cuccia, avrebbero tutti corso il rischio di essere incriminati e poi condannati con prove inequivocabili. Quanto al Psi esso, fino a Craxi, è stato finanziato dai suoi due maggiori partiti alleati e dai loro sistemi di potere, cioè ai tempi del frontismo dal Pci con annesse cooperative e dal Pcus, poi nella fase iniziale del centro-sinistra dalla Dc e dal sistema delle partecipazioni statali. Con Craxi il Psi ha puntato a costruirsi un sistema di finanziamento autonomo proprio per rendere davvero autonoma la sua politica con tutti i rischi derivanti da chi arriva per ultimo, usando anche intermediari spregiudicati e avventurosi. Tutto ciò non cancella certamente gli errori politici che in quegli anni Craxi commise. L’errore principale fu proprio quello di essere stato poco craxiano dopo il 1987: per primo, nel 1979, Craxi aveva intuito la necessità di fare grandi riforme e invece nel ’90-’91 ruppe con Mario Segni e invitò gli italiani ad andare al mare in occasione del referendum sulla preferenza unica; assunse un atteggiamento attendista nei confronti della Dc nella aspettativa di ritornare presidente del Consiglio; fu assai ottimista nei confronti dei “ragazzi di Berlinguer” (Occhetto, D’Alema, Veltroni) che invece nutrivano nei suoi confronti una repulsione feroce e regalò a essi il via libera per l’ingresso nell’Internazionale socialista e non diede retta a Cossiga per le elezioni anticipate nel 1991. Gli errori politici, però, non giustificano il selvaggio attacco giudiziario e mediatico. Paradossalmente su Craxi, nel suo rapporto con il denaro, nella vita che faceva nella realtà ha scritto cose assai giuste un anticraxiano storico, un grande giornalista come Francesco Merlo: «Non c’erano nella vita di Craxi abitudini, beni, vizi e sfoggi da tesoro nascosto… Craxi nello stile era lontano dal modello socialista dell’epoca» (F. Merlo, Le polemiche su via Craxi e la vita modesta dei partiti, La Repubblica, 3 dicembre 2019). Non bisogna neanche dimenticare che una notevole quantità di soldi fu spesa da Craxi per la solidarietà internazionale ai socialisti spagnoli, portoghesi, greci, ai cileni, in un certo momento anche a Mitterand, e molto (a nostro avviso troppo) fu destinato a Yasser Arafat e all’Olp. Ma su questo terreno i leader dell’Internazionale socialista, Felice Gonzales e Guerra in testa, sono stati di una viltà e di una ipocrisia straordinarie: molto più leali e riconoscenti sono stati i leader arabi come Arafat e Ben Ali che hanno resistito a tutte le pressioni dei governi italiani di centro-sinistra. Certo, poi c’è stata un’altra faccia della medaglia, quello non del finanziamento irregolare, ma della corruzione personale. Su questo tema va fatta un’analisi a 360°. Elio Quercioli, in una riunione della Direzione del Pci del 1° febbraio 1973, disse: «Nelle amministrazioni pubbliche prendiamo soldi per far passare certe cose. In questi passaggi qualcuno resta con le mani sporche» (in G. Crainz, Il paese reale, pag. 33, Donzelli, Roma, 2013). Per parte sua Craxi commise l’errore di non prendere a calci nel culo quei «parvenu spocchiosi, eleganti e spendaccioni» (F. Merlo) che furono i “craxini” che spesso lo circondavano e lo adulavano. Ma per parte sua Craxi ha seguito in modo spontaneo la regola sempre ricordata da Francesco Merlo secondo la quale «è davvero difficile trovare nel grande potere delle democrazie occidentali dei veri numeri uno che abbiano approfittato del danaro soprattutto per sé stessi» (idem). Non a caso Craxi fece alla Camera quel famoso discorso sul finanziamento irregolare dei partiti dove per viltà, per cinismo o per una ragione tattica più di fondo i dirigenti democristiani e comunisti non presero la parola. I democristiani non parlarono perché, seguendo la dottrina Gava, essi ritenevano che dando in pasto ai magistrati Bettino Craxi e i socialisti si sarebbero salvati. I leader dorotei non avevano letto qualche buon libro sulla Rivoluzione francese: quando la ghigliottina si mette in moto essa ha una sorta di automatismo e non si ferma facilmente. Per parte loro invece i post-comunisti tacquero perché puntavano sul fatto che all’interno del pool il compagno D’Ambrosio avrebbe convinto gli altri colleghi a concentrare il fuoco in altra direzione dal Pci-Pds perché di almeno un’alleanza politica c’era bisogno (la missione riuscì e dopo D’Ambrosio è stato parlamentare del Pds per alcune legislature). Nel caso dei post-comunisti si è trattato di un calcolo giusto solo nel breve periodo, ma certamente non nel lungo: oggi i post-comunisti del Pd sono a tal punto privi di un alleato politico consistente che addirittura alcuni di loro (Zingaretti compreso) hanno delirato sui grillini come possibili “alleati strategici”, ma come esistono “i sogni di una notte di mezza estate” esistono anche “i deliri” dei giorni nuvolosi di mezzo autunno. Detto tutto ciò, però la lezione di fondo da trarre a nostro avviso dall’inquietante itinerario che ci ha portato da Mani Pulite, all’affermazione del Pds-Ds-Pd come partito unico della sinistra, allo scontro senza vincitori fra berlusconismo e antiberlusconismo, all’austerità e al rigorismo assoluti, all’esplosione populista e all’affermazione del sovranismo razzista è che paradossalmente la sconfitta sia dei miglioristi nel Pds sia l’esecuzione di Craxi per mano giudiziaria e pugnale berlingueriano sono proprio alla radice della sconfitta di tutta la sinistra italiana. Possiamo dire che il paradosso storico è tutto squadernato davanti a noi: il post berlinguerismo, in Italia, ha sconfitto i miglioristi e contribuito alla distruzione del Psi e alla demonizzazione di Craxi, in Inghilterra Corbyn ha cancellato la tradizione riformista del laburismo e così entrambi hanno portato la sinistra italiana e quella inglese alla disfatta. Se non si riparte dal migliorismo, dal riformismo, in un certo senso dal craxismo, a nostro avviso non c’è futuro per la sinistra italiana. Poi le sardine rappresentano una scossa e una novità fuori dagli schemi, una risposta di base spontanea all’insopportabile imbarbarimento di Salvini, ma per ricostruire un progetto politico e culturale occorre molto altro.
· Craxi ed i Fascisti.
Pietrangelo Buttafuoco per il Fatto Quotidiano il 13 gennaio 2020. A Luca Josi gli cerco sempre un punto, una bruciatura, uno sbrego sulla pelle. Precisamente sul dorso della mano destra. Dovrà avercela ancora, chissà. Quando capiterà di rincontrarsi controllerò. Ne sono ipnotizzato di quel punto perché mi sveglia un senso di colpa, la vergogna e poi quel disturbante ingresso della storia nella vita di ogni giorno. Gli è accaduto un fatto: quelli che urlano ragioni che sono state mie - "siete circondati!", gridano davanti al Parlamento - gli hanno spento una sigaretta sulla carne viva. Sul dorso della mano. Accade davanti all' Hotel Raphael, a Roma. Bettino Craxi - leader del Psi, protagonista di una stagione che va a concludersi con Tangetopoli - è braccato all' uscita di quella che è stata la sua dimora. Piovono su di lui le monetine e Luca Josi - e pochissimi altri con lui - lo difendono da una muta rabbiosa che ulula rabbia o, quel che oggi si direbbe "odio". Con lo sprezzo proprio del suo antenato Marc' Antonio Bragadin all' assedio di Famagosta, Josi, leader dei giovani socialisti - promosso sul campo quando ormai tutti abbandonano Craxi - li affronta tutti e uno di loro, uno della mia storia, gli va a spremere la cicca sulla mano. Lo fa per sfregio o, peggio, per sovrappiù di sicumera: ormai è fatta, la gente ha messo fine al Palazzo. L' ha infine circondato, il Cinghialone. Mi trasferisco a Roma con tutto ormai finito, con Craxi ad Hammamet, in Tunisia, accolto dalla solidarietà "palestinese" e con la gens nova - i beneficiati da Tangentopoli - al governo. Ora il racconto dell' Italia volge verso la Seconda Repubblica. Ognuno ha il suo blues da piangere. Ma quel che tutti vogliono cancellare - la Milano da bere, i congressi del Psi a Bari - perdura tra i rivoli di una diaspora dove c' è qualcuno che fa il pesce in barile, si arrende ai carnefici, e qualcun altro, invece, magari aspetta ma non molla. E chiama al telefono in Tunisia. E neppure sa che tutto questo, giusto oggi, diventa un film: Hammamet di Gianni Amelio. Tolti di mezzo i socialisti, arrivano gli onesti al Governo - così si dichiarano i nuovi: onesti - solo che i craxiani si attardano nei locali notturni, sorridono ai neoparlamentari e ai ministri di fresca nomina e chiacchierano con loro col gusto di bere l' amaro calice della disfatta. E però anche metterli un po' in imbarazzo. Come la sanno lunga i socialisti, nessuno. A Milano si passa sotto casa di Ornella Vanoni col brivido di sfiorare lo sfolgorante pneuma del carisma, quel che di smagliante aleggia su Roma è nello sguardo di Gino De Dominicis, l' artista che si vede sfilare da sotto il baffo - altro che la Grande Bellezza - il brulicare del fine festa. Un posto dove ci si ferma è il Rubirosa, dalle parti di piazza Navona. Si beve la pina colada, che è il mojito al termine del craxismo e si favoleggia l' arrivo - dopo mezzanotte - di Gianni De Michelis. Si materializzano, infatti, le ragazze. E poi - affascinanti, dalla falcata mozzafiato - ci sono le signore come Elide Melli, la moglie di Massimo Pini. E a Pini tocca dare ripetizioni di segno, significato e linguaggio ai tapini per far transitare la protesta alla proposta. Quindi ci si fa carico di quel che torna a scintillare della sulfurea stagione del dibattito culturale. E dunque Pagina, la magnifica rivista di Aldo Canale con Ernesto Galli della Loggia, Pierluigi Battista, Paolo Mieli e Massimo Fini, soprattutto, il più interpellato per le incursioni eretiche adesso che c' è da trovare contenuti e procedere all' innesto tricolore sul tronco della modernità. Quello che spegne la sigaretta sulla mano neppure lo sa di averlo fatto, e sempre per sovrappiù di sicumera. Quel che oggi perdura nello sbrego di una vampa.
Le monetine non definiscono il vero Craxi e l’impegno a riscrivere nuovi bisogni e povertà. Silvano Moffa il 9 gennaio 2020 su Il Dubbio. Le monetine non definiscono il vero Craxi. Il film di Gianni Amelio sul Craxi di Hammamet riaccende il dibattito sulla figura del leader socialista, a venti anni dalla sua morte. Un dibattito, c’è da sperare, scevro da luoghi comuni, depurato delle pastoie di odiosi, quanto inconcludenti, pregiudizi e anche dalla retorica bolsa e, a volte, ipocrita di quanti lo inneggiarono nei momenti in cui era all’apice del successo, per poi abbandonarlo, esule, sotto il sole della Tunisia. Non sarà certo un film, per quanto ben curato e abilmente interpretato da uno straordinariamente somigliante Pierfrancesco Favino, a fornire un giudizio storico compiuto e definitivo sul politico che, più di ogni altro, nella cosiddetta Prima Repubblica, seppe interpretare gli umori degli italiani cercando di calibrarne bisogni, difetti e aspettative, per racchiuderli in una visione riformista e di futuro che, soltanto in rari momenti della nostra storia, ha avuto cittadinanza nella sfera della grande politica. Eppure, questo film ci dice che sta maturando il tempo della storicizzazione, della analisi approfondita e comparata delle sue azioni e dei suoi gesti, degli scritti e dei discorsi, intercalati da lunghe pause, concesse ad arte all’uditorio per catturarne l’attenzione, alla ricerca ossessiva di una compenetrazione quasi mistica tra oratore e ascoltatore. Fui partecipe di un episodio che ai più apparse poco rilevante nel 1990 e che, invece, aiuta lo storico a comprendere la portata dell’indiscusso, ancorché temuto, capo socialista di quell’epoca. Accompagnai Pino Rauti, da poco segretario nazionale del Msi, e Giulio Maceratini, presidente dei senatori del gruppo missino, alla conferenza del Psi di Rimini. L’invito di Craxi era arrivato direttamente nelle mie mani di responsabile della segreteria politica del partito. Non era mai accaduto in precedenza. Fu per tutti una sorpresa. Rubricarlo, però, come un atto di cortesia istituzionale sminuirebbe di molto il valore di quell’invito. Il Craxi che apriva le porte della conferenza socialista ai missini era l’uomo che tre anni prima, nel 1987, aveva rimosso la falce, il martello, il sole e il libro dal simbolo del partito; l’uomo che, da sinistra, più di ogni altro, si era sganciato dalla tradizione del marxismo e del leninismo. Era il Craxi che aveva abbandonato simbologie e dogmi fino allora imperanti su quel fronte per riscoprire le proprie radici storiche, rivalutando il pensiero filosofico di Proudhon e quello sociale di Georges Sorel, per incarnare lo spirito del sindacalismo rivoluzionario europeo. Era il Craxi della Grande Riforma, dell’elezione diretta del presidente della Repubblica. All’Unità, che con la graffiante penna di Serra, ironizzava sul “tempio greco” allestito sul palco del XLIV congresso, opera dell’architetto Panseca, e definiva la cultura umanista del Psi una sorta di trapasso “dal basco di Nenni alle mutande di Trussardi”, Craxi rispondeva: “Non si può racchiudere il futuro né in un basco né nelle mutande di Trussardi, né, tantomeno, dentro ad un eskimo”, la divisa con cui la moda dell’epoca attribuiva identità estetica agli attivisti comunisti. Era, anche, in politica estera, il Craxi di Sigonella che aveva frenato la invadenza militare americana e quello dei missili Cruise piantati al di qua della cortina di ferro per raffreddare la esuberante foga di egemonia sovietica. Un anno prima della conferenza di Rimini, cui partecipammo come osservatori, era crollato il Muro di Berlino. Anche a destra, c’erano stati dei cambiamenti. Nei congressi di Rimini e, prima ancora di Sorrento, erano emerse nuove tesi e si era fatta strada una lettura attenta delle dinamiche sociali ed economiche, dei processi di finanziarizzazione dell’economia, delle nuove povertà e dei nuovi bisogni emersi da una modernizzazione del paese che non accennava a dipanare disuguaglianze e conflitti, e cominciava ad erodere quel ceto medio che, a distanza di decenni, appare ora oltremodo impoverito. Proprio su “nuovi bisogni e nuove povertà”, Claudio Martelli, stretto collaboratore di Craxi, e più volte ministro, aveva tessuto la trama programmatica del disegno di cambiamento craxiano. Argomenti, suggestioni, tesi che nella destra sociale trovavano attenti ascoltatori. Al pari di ogni manifesta ostentazione in difesa della sovranità e degli interessi nazionali: il tenere la testa alzata e mai china, nel nome di una Italia non genuflessa e mai prona. Insomma, una certa sintonia tra la il socialismo nazionale craxiano e un certo mondo della destra nazional- popolare si avvertiva. Craxi l’aveva percepita. Di lì a poco, però, tutto precipitò. Con Tangentopoli, il capo socialista finì nella polvere. Disarcionato, svillaneggiato, messo alla berlina, sbattuto in copertina come il male assoluto. Pagò per tutti. Amato e odiato, comunisti e democristiani lo subivano, ma non lo digerivano perché era un socialista troppo autonomo dai due grandi partiti. Fu un insulto il lancio di monetine ad accoglierlo mentre usciva dall’ hotel Raphael. Tra i contestatori c’erano anche alcuni giovani di destra. Peccato. Il Tempio di Rimini era ormai ridotto in macerie. Crollato sotto i colpi di Mani Pulite. Intorno al Tempio era cresciuta una enorme fiera, annotò Giampaolo Pansa. Di creativo, non era rimasto più nulla.
«Le monetine tirate a Craxi? Fu un'idea di Buontempo». Pubblicato martedì, 14 gennaio 2020 su Corriere.it da Alessandro Fulloni. Craxi li definì «tiratori di rubli» per recintare l'area da cui venne quella pesantissima contestazione che segnò la sua fine. Ma «la storia vera è un'altra, è questa e andò così: sì, certo, quelli del Pds erano davanti all’hotel Raphaël per un tiro al bersaglio che aveva tutta l’aria di essere organizzato. Ma se non ci fossimo stati noi del Fuan sarebbe stata una vicenda tutta diversa. L’idea di quelle monetine contro Craxi, salvato il giorno prima dal Parlamento che vietò l'autorizzazione a procedere, è nostra: ed esattamente fu di Buontempo. Teodoro arrivò trafelato da Montecitorio, in mano reggeva due sacchettini piccoli, con dentro quel che serviva per prendere di mira il "cinghialone". Mentre ci raggiungeva aveva già sceneggiato la regia della protesta, partorendo quel colpo di genio coreografico: si fermò ad una tabaccheria per cambiare una banconota da 10 mila lire. Poi consegnò a tutti quel che dovevamo tirare». L’amarcord dal sapore revisionista che in qualche modo cambia la paternità di quel lancio di monetine di cui ricorrerà il ventisettesimo anniversario il prossimo 30 aprile (guarda il video) – una contestazione sinora rivendicata da chi stava nell'allora Pds e dalla Lega – viene da Delio Andreoli, 48 anni e all’epoca militante romano del Fdg, il Fronte della Gioventù, l'organizzazione giovanile dell'allora Msi.
30 aprile 1993: la contestazione a Craxi davanti l'hotel Raphael. La scena è celeberrima e segna l'immaginario nazionale: era la sera del 30 aprile 1993, Bettino Craxi usciva dall'hotel Raphaël per entrare nell'auto di servizio bersagliato dalla pioggia di monetine. E non solo monetine: banconote da mille lire («Vuoi pure queste, Bettino?»), sassi, accendini, pacchetti di sigarette... volava di tutto in quel giorno divenuto un simbolo nella storia d'Italia. La sera prima il segretario del Psi era stato «salvato» dai colleghi parlamentari: la Camera aveva votato no all'autorizzazione a procedere per 4 delle 6 imputazioni a suo carico chieste dalla Procura di Milano nell'ambito dell'inchiesta su Mani Pulite.
La banconota cambiata. Andreoli, che oggi è un dipendente aeroportuale e che è stato anche consigliere municipale a Ostia («sempre con il Ms-Ft. non sono mai passato con Alleanza Nazionale» rivendica orgoglioso), racconta di aver avvertito Buontempo al telefono. «Lui era alla Camera, gli dissi che Craxi stava per uscire dal Raphaël — è il ricordo ancora nitido — e che i Pds erano tutti schierati per la contestazione feroce. La sua risposta fu lapidaria: "restate lì, arrivo subito"». Il deputato giunse di corsa neanche 10 minuti dopo, trafelato. In mano teneva due sacchettini zeppi di monetine da 50 e 100 lire. Aveva interrotto la corsa solo per cambiare in tabaccheria una banconota da 10 mila. Una folgorazione improvvisa per meglio incendiare l'atmosfera. Buontempo raccontò poi che il «proprietario era uno dei nostri» e che non fece una piega nel prendere la banconota da 10 mila e cambiarla con le monetine distribuite poi a tutti, militanti di destra e sinistra: e quella contestazione divenne così bipartisan.
· Craxi e Berlusconi.
Berlusconi: «Craxi statista e Italia ingrata. Sfidò il potere della sinistra». Pubblicato sabato, 18 gennaio 2020 su Corriere.it da Franco Stefanoni. Lettera di scuse a Stefania Craxi per non aver «potuto accogliere l’invito a essere ad Hammamet» per il ventesimo anniversario della morte del padre, ricordando che «a Bettino mi legava un’amicizia sincera, profonda, che non è mai venuta meno, nei momenti felici e in quelli più difficili». Nelle parole scritte dal leader di Forza Italia: «Bettino Craxi è stato uno dei pochissimi uomini politici della Prima Repubblica a meritare la definizione di statista. Oltre a lui, forse solo De Gasperi ne ha diritto. Il suo Paese con lui è stato ingrato. Mi auguro che questo ventennale sia finalmente l’occasione per restituirgli il posto che gli spetta nella memoria condivisa degli italiani». Nella lettera, Berlusconi scrive di considerare l’ex segretario del Psi «uno degli ispiratori e degli anticipatori delle battaglie di libertà che stiamo combattendo a nostra volta da 25 anni». Il leader di Forza Italia rievoca come Craxi avesse un sogno, «che se si fosse realizzato avrebbe davvero cambiato il corso della storia italiana: cambiare la sinistra, sottraendola all’egemonia comunista e creare così le condizioni per sbloccare la democrazia italiana e realizzare una salutare alternanza in un contesto di sicurezza democratica». L’elogio continua indicando le politiche avviate da Craxi quand’era presidente del Consiglio. «Le sue scelte sul piano internazionale possono essere più o meno condivisibili», sostiene Berlusconi, «ma furono sempre ispirate da un altissimo senso dell’interesse nazionale, della dignità del nostro Paese che Bettino amava appassionatamente». Per l’ex premier: «Non smise di amare l’Italia, nonostante le amarezze, neppure negli anni dell’esilio, in quella Hammamet che aveva eletto a sua dimora e dalla quale non smise neppure per un giorno di seguire con passione le vicende italiane. Bettino Craxi ha pagato un caro prezzo per le sue idee, per aver voluto essere un uomo libero e coerente, per aver sfidato il sistema di potere politico, mediatico e giudiziario della sinistra. Come dice la bellissima frase che ha voluto incisa sulla sua tomba, per lui la libertà era la vita e infatti per la libertà non ha esitato a mettere in gioco e a sacrificare la sua vita».
Berlusconi su Craxi: "Patria ingrata lo costrinse a morire in esilio". Silvio Berlusconi elogia la figura di Bettino Craxi, ponendo un focus sui successi nazionali e internazionali di quell'epoca. Ma il leader di Fi non dimentica il trattamento subito dall'esponente del Psi. Francesco Boezi, Sabato 11/01/2020, su Il Giornale. Silvio Berlusconi commenta la figura di Bettino Craxi al Tg2, che ha previsto uno speciale sullo storico esponente del Psi. Un documentario che andrà in onda nella serata odierna. Il leader di Forza Italia, all'interno della trasmissione, dà un giudizio netto: "Bettino Craxi - premette - era capace di una lealtà personale disarmante". L'ultimo film di Gianni Amelio, ossia Hammamet, che è nelle sale italiane in questi giorni, sta contribuendo ad alimentare le rivisitazioni, politologiche e non, su una delle figure più rilevanti della seconda repubblica. Ma Silvio Berlusconi ha avuto modo di conoscere Bettino Craxi, prescindendo pure dal dato squisitamente politico. Il fondatore della coalizione di centrodestra ha ricordato l'amicizia reciproca che ha accompagnato entrambi nel corso delle loro esistenze: "Posso testimoniare - ha specificato, come riportato anche dall'Adnkronos - che poche altre volte nella vita ho avuto la fortuna di un'amicizia sincera e disinteressata come la sua". E fin qui il racconto è di carattere personale. Ma la disamina in oggetto non si limita solo a questi aspetti. Anzi, Berlusconi rincara la dose, ricordando il trattamento cui il primo leader di un esecutivo italiano iscritto ai socialisti venne sottoposto da quelli che oggi si chiamerebbero media mainstream: "Era esattamente il contrario di come lo ha dipinto la stampa prevalente", ha specificato il Cavaliere, magari riferendosi agli anni di Tangentopoli. Da un punto di vista istituzionale, poi, per Berlusconi non esistono dubbi di sorta: "Insieme ad Alcide De Gasperi, Bettino Craxi fu l'unico uomo politico italiano del Dopoguerra a meritare di essere definito uno statista". Un paragone importante, proveniente dall'uomo che ha guidato il governo più duraturo della storia d'Italia. Craxi, nella disamina di Berlusconi, diviene così un ponte tra due fasi centrali della storia politica del Belpaese: "Proprio lui che è considerato un emblema della Prima Repubblica, in realtà - ha specificato il parlamentare europeo di Fi - ne vide in anticipo la fine. Il suo fu un appassionato, orgoglioso tentativo di superare la democrazia bloccata, di modernizzare le istituzioni, di spezzare la logica perversa del compromesso storico, di creare una sinistra moderna lontana dall'ideologia comunista". Bettino Craxi fu dunque riformatore. al quale tuttavia non venne concessa una libertà di manovra tangibile. E infatti Berlusconi rammenta come la spinta al cambiamento di matrice craxiana venne frenata: "Se glielo avessero fatto fare, - ha dichiarato in relazione alle innovazioni che Craxi avrebbe voluto apportare - l'Italia sarebbe un Paese assai migliore". Ma è la visione geopolitica di Craxi nel suo complesso ad essere rivalutata di questi tempi. Berlusconi ha ricordato i successi che Craxi riuscì a conseguire sia nel campo delle politiche interne sia da un punto di vista geopolitico: "Per la prima volta nel Dopoguerra. l'Italia con Craxi ebbe una sua politica estera, alleata senza esitazioni con l'Occidente, ma attenta ai nostri interessi nazionali e capace di cogliere quello che stava accadendo nel mondo". Il placet, quindi, è alla strategia nel suo insieme, per quanto il presidente di Fi abbia aggiunto come, al fine di un giudizio che rimane positivo, non sia necessario "condividere tutte le sue scelte di politica internazionale". La chiusura dell'intervento, infine, è dedicata agli ultimi anni di vita di Bettino Craxi. Quelli passati ad Hammamet. Berlusconi, che pone un accento su come l'uomo che ha guidato il governo del Belpaese tra l'83' e l'87' avesse sempre a mente l'interesse nazionale, rimarca infine come l'Italia fu, per l'esponente socialista, la "Patria che amò visceralmente", ma anche la stessa che "ingrata, lo costrinse a morire in esilio".
· Craxi e le Donne.
Sandra Milo: “Bettino Craxi a letto era dotato”. Alice il 22/01/2020 su Notizie.it. Sandra Milo è senza freni e ancora una volta l’attrice ha rivelato dettagli su una sua liaison con un uomo importante: questa volta si sarebbe trattato di Bettino Craxi, con cui lei si sarebbe incontrata in gran segreto in uno degli hotel più famosi di Roma. A 20 anni dalla morte di Bettino Craxi, l’attrice Sandra Milo ha confessato che con lui avrebbe avuto una romantica liaison e che il famoso politico sotto le lenzuola sarebbe stato “importante”. Lei e Craxi si sarebbero incontrati in gran segreto nell’Hotel Raphael di Roma, ma i loro incontri avrebbero avuto vita breve per via dei loro rispettivi impegni familiari e lavorativi. I due decisero di lasciarsi senza amarezze, e tornarono alla loro vita di sempre come se nulla fosse. Sandra Milo ha dichiarato che lei e Craxi si sarebbero conosciuti da ragazzi a Milano e che lei sarebbe sempre stata molto attratta dalla idee politiche e dal modo di parlare del leader socialista. L’attrice ha parlato anche della moglie di Craxi definendo Anna Maria Moncini “una grande donna”, e ha detto anche che durante una serata alla Scala qualcuno avvisò la donna di un libro scritto dalla Milo intitolato Venere e il Psi. La moglie di Craxi rispose di esserne a conoscenza e che l’attrice lo avesse fatto leggere a lei per prima: un modo per evitare pettegolezzi. Quella su Bettino Craxi è solo una delle innumerevoli liaison che Sandra Milo ha confessato di avere con personaggi più o meno noti del mondo dello spettacolo o della politica, uno su tutti Federico Fellini di cui sarebbe stata l’amante per ben 17 anni.
Massimo Murianni per Novella 2000 il 20 gennaio 2020. “Era un uomo importante, anche sotto quell’aspetto». Sandra Milo ricorda così Bettino Craxi, quando le chiediamo com’era nell’intimità l’ex leader socialista, l’uomo che è stato suo amante per diversi anni. «Sono goloso. Di tutto», dice Pier Francesco Favino diventato Craxi in Hammamet, il film di Gianni Amelio che tanto sta facendo parlare. Citiamo a memoria la battuta, potrebbe non essere letterale, ma il concetto c’è: nel suo esilio volontario in Tunisia (c’è chi parla di latitanza), l’ormai ex leader socialista dichiara la sua voracità, lasciando intendere che non solo di cibo sta parlando. E di cos’altro, Sandra Milo lo sa bene. «Era un uomo molto intelligente, e dunque curioso. Inseguiva la conoscenza, come Fellini, tutte le persone di grande talento hanno questa curiosità insaziabile, come se il tempo sfuggisse loro e non avessero la possibilità di conoscere e vedere tutto». Con la sua voce inconfondibile, un tono infantile in una donna che ha vissuto molto, Sandra racconta volentieri della sua storia con Bettino Craxi, un uomo che ha difeso sempre, anche quando è caduto in disgrazia. La memoria è fatta di aneddoti, immagini, quadri che si rincorrono con una successione temporale non chiarissima. Ma sono lucidissimi i sentimenti e le emozioni.
Signora Milo, quando ha conosciuto Craxi?
«Ci siamo conosciuti che era un ragazzo, e siamo diventati amici quando lui è diventato segretario del Psi a Milano».
Parliamo degli inizi degli Anni Sessanta, dunque, un Craxi neanche trentenne.
«Poi ci siamo rivisti a Roma, quando lui fu eletto segretario del partito, al Comitato centrale dell’Hotel Midas di Roma. Quella fu una grande svolta, c’era un grande entusiasmo intorno a lui».
Luglio 1976, il punto di inizio del lungo potere craxiano, finito poi nel febbraio 1993 con le inchieste di Tangentopoli. Sandra, seguiva la politica, oltre che l’uomo?
«Ho sempre avuto un credo socialista, fin da ragazzina. A 12 anni leggevo Marx, Engels, Lenin, Proudhon… mi volevo costruire una coscienza sociale ed ero molto attratta dall’idea socialista. Andavo ai comizi, di Togliatti, di Nenni. Bettino, era il pupillo di Nenni, ed era un uomo molto affascinante, molto seduttivo, con una voce fantastica».
Spesso lei era in prima fila ai convegni, ci sono foto.
«Una volta, mi sembra a Rimini, io gli feci fare un enorme cuore di garofani montato su legno, alto più di due metri. Lo sfondo di garofani rossi con una scritta in garofani bianchi: ABC, che stava per Amo Bettino Craxi. Feci portare questo enorme cuore sotto il palco. Ogni tanto qualche socialista con le pruderie lo faceva spostare, e altri lo rimettevano a posto. Erano anni pieni di entusiasmo».
Era innamorata di Craxi?
«No. Io sono sempre stata innamorata di un uomo solo».
Federico Fellini.
«Sì. Craxi era affascinante, era una passione, ma non un amore»
Quando è scoppiata questa passione?
«Mi ha visto in televisione ospite di Maurizio Costanzo a Bontà Loro».
Seconda metà degli anni Settanta, dunque.
«Avevo un cappellino con la veletta che lo colpì molto, e mi chiamò subito. Iniziammo così a frequentarci».
Dove vi incontravate?
«A Roma, a casa di una contessa sua amica a Piazza Navona, e poi all’hotel Raphael».
Che era il quartier generale del Psi.
«Facevamo delle cene, spesso con noi c’erano Ferdinando Mach (la mente finanziaria del Psi, ndr), Filippo Panseca, l’artista che ha creato il garofano simbolo del partito, l’architetto Paolo Portoghesi… Craxi era proprio adorato».
Anche da lei?
«A me piacevano le sue storie. Una volta mi aveva raccontato che quando era ragazzo doveva fare un viaggio in Germania per il partito. Nella valigia aveva messo i classici spaghetti e le scatole di pomodori pelati. Ma durate il viaggio, siccome aveva fame, non c’era da mangiare e lui non aveva questi grandi mezzi, alla fine prese dalla valigia questo barattolo di pelati e se li mangiò crudi. Aveva tutte queste belle cose da raccontare».
Per quanto è durata la vostra relazione?
«Per molto tempo. Mi ricordo che aveva una stanzetta piccola piena piena di libri, di giornali, di cose... perché passava il tempo a leggere e studiare. In questa piccola stanza lui era un uomo meraviglioso. E poi abbiamo continuato a incontrarci anche quando l’hotel Raphael gli diede una camera più grande, molto bella, con la terrazza».
Ha mai incontrato la moglie di Craxi?
«Sì, Anna è una donna fantastica. Io avevo scritto un libro, si intitolava Venere e il Psi, Bruno Tassan Din aveva acquistato i diritti per 60 milioni di lire, mi pare, ma non lo aveva pubblicato, lo teneva lì. Una sera eravamo alla Scala di Milano per una Prima, in teatro c’era anche Anna Craxi. Durante l’intervallo, qualcuno, le disse: “Sai che Sandra ha scritto un libro sul Psi e Bettino?”. E lei che non sapeva niente: “Lo so benissimo, perché Sandra l’ha fatto leggere per prima a me”. Un’intelligenza e una presenza di spirito straordinaria».
Perché è finita la sua storia con Craxi?
«Io non ero una donna libera, lui era un uomo molto impegnato. Ricordo che una volta mi ero lamentata perché lo avevo aspettato un po’, e lui mi disse: “Ma guarda che io per te ho lasciato Fanfani...”. E io: “E capirai, manco fosse Miss America!”. Era difficile incontrarsi, e io ci stavo male. Mi dava appuntamenti cui non potevo andare, o era lui che all’ultimo non poteva. Così ho troncato la storia».
Dopo di lei, è arrivata un’altra donna importantissima per Craxi: Ania Pieroni. L’hai mai conosciuta?
«Una volta sola, non tantissimo tempo fa, al Teatro Argentina, c’era una qualche commemorazione, non ricordo. Ci siamo abbracciate forte forte, senza dire niente».
Ha visto Hammamet, il film?
«Non voglio vederlo. Mi hanno detto che Favino è bravissimo, ma io voglio conservare il ricordo di Bettino forte e affascinante, non mi piace pensare al suo declino. Era un uomo che amava il suo Paese, parlava dell’Italia come nessun altro ho mai sentito parlare. Ora è sepolto in Tunisia, con quel suo grande orgoglio, ha detto: non mi hanno voluto da vivo, resto qui anche da morto. Quanto gli deve essere costato essere sepolto lontano dal suo Paese. Lo ammiro molto perché ha conservato sempre il suo grande io».
Nel bene e nel male. Perché il suo era anche un mondo malato.
«Ma lui è stato una vittima esagerata di quel mondo».
La storia giudicherà in futuro, forse è troppo presto, ma la legge ha già espresso i suoi verdetti.
«Hammamet», Patrizia Caselli: «Per amore di Craxi ho perso tutto». Pubblicato giovedì, 02 gennaio 2020 da Corriere.it. Patrizia Caselli, 59 anni, autrice e conduttrice tv, racconta in esclusiva a «Oggi» la sua verità su Bettino Craxi alla vigilia dell’uscita nelle sale del film di Gianni Amelio «Hammamet» (9 gennaio), dove è Claudia Gerini a fare la parte dell’amante dell’ex presidente del consiglio. «Non mi chieda se mi ci rivedo: “amante” è una parola che non mi inquadra… La parola che mi inquadra è compagna. Compagna in un pezzo difficilissimo e crepuscolare della sua vita, che però proprio per questo è stato pieno di momenti autentici», dice Patrizia Caselli. Che racconta: «Camminavamo sulla spiaggia, guardavamo l’Italia, mi pizzicava la mano: “Se fossi rimasto laggiù, al potere, queste passeggiate, questa normalità sarebbe stata impossibile. Qui sono tornato a essere una persona”». E spiega: «Lasciai l’Italia e un contratto in esclusiva con la Rai per seguirlo in Tunisia. Stare con lui – umiliato, deriso, vinto – è stato un “disinvestimento”: per capirlo, dovrebbe aver nitida nella testa, come ho io, la faccia che fece mia madre quando le dissi che mi trasferivo ad Hammamet… Eppure è stata la decisione più facile della mia vita. L’allora direttore di Rai 2, Giampaolo Sodano, mi disse: “Io ti confermo, ti tengo il posto, magari ci ripensi”. Anche Craxi cercava di frenarmi: “Aspetta ancora un po’, hai la tua vita da vivere, il tuo lavoro, casomai mi raggiungi”. Ma io non ho mai neppure considerato l’idea di non partire con lui». Ad Hammamet, però, c’era anche Anna Craxi: «I ruoli erano molto chiari, nessuno negava che io esistessi, c’era il massimo rispetto. Spero che il film non ometta questa parte e mostri la classica amante da feuilleton, che arriva di nascosto: sarebbe un’operazione poco chiara. Si viveva, anche, nel rispetto dei luoghi: io me ne stavo in una casa in affitto, evitavo le spiagge che frequentava Anna, il “suo” campo da golf». La Caselli smentisce anche la leggenda secondo la quale, alla morte del leader, lei per visitarlo si fece passare per la figlia: «La sua scorta non mi avrebbe mai confuso con Stefania. Mi conoscevano, io conoscevo loro, le loro mogli, il modo in cui scherzavano. Mi fecero passare, si “aprirono”, diventarono un cordone. Mi lasciarono da sola in obitorio con Craxi».
Alessandro Penna per Oggi.it il 2 gennaio 2020. «Il racconto degli anni di Hammamet senza la mia voce o la mia versione è quasi per forza un racconto zoppo, mutilato: c’ero io, e spesso da sola, lì con Craxi, negli ospedali, al telefono con Arafat o a vedere dalla spiaggia gli aerei carichi di amici o presunti nemici che, come diceva lui, “facevano il giro dell’Ulanda”, con mille scali, per atterrare da noi senza essere notati o segnalati. Ma io sono contenta di non esser stata coinvolta nel film: in fondo mi hanno tutelato, non ero pronta a parlare di quella storia, perché per me non è ancora diventata una storia: resta una ferita». Patrizia Caselli è, nell’iconografia un po’ sommaria della Prima Repubblica, la seconda amante di Craxi (la prima, molto più strombazzata, fu Ania Pieroni), la donna che l’ha “sposato” nella cattivissima sorte: un anno di potere, uno di stillicidio giudiziario e sei di latitanza tunisina culminati nella morte per arresto cardiaco, il 19 gennaio del 2000. 59 anni, una solida carriera da autrice e conduttrice in tv, non aveva mai concesso interviste, a parte il lungo racconto rovesciato 13 anni fa nel registratore di Bruno Vespa (che più volte ha detto d’esser uscito da quell’incontro «con le lacrime agli occhi»), finito in un capitolo di L’amore e il potere. Ora che esce Hammamet (il 9 gennaio), il film di Gianni Amelio che racconta il viaggio esemplare dal potere alla polvere del leader socialista, ci concede una chiacchierata che diventa piano piano intervista.
Andrà a vederlo, il film?
«Non lo so, non credo di sentirmela. Pensi che, per vie traverse, ho avuto la sceneggiatura, che mi dicono preziosissima, e non l’ho mai neppure sfogliata. La sola idea di trovarci il suo nome, tra le righe, mi paralizzava. Mi sono capitate sotto gli occhi le foto di una scena, e fanno impressione: Favino è, mi passi l’aggettivo adolescenziale, “supersomigliante”. Non vorrei, però, che il film si riducesse a questa specie di clonazione».
Neppure il trailer ha visto?
«No. Ripeto: so che sono passati 20 anni, e che il tempo di solito è galantuomo, ma non ho ancora il distacco giusto per godermi quello spettacolo. Mi auto-proteggo».
Non sa nemmeno che la parte dell’amante la fa Claudia Gerini?
«Me lo dice lei adesso. Però non mi chieda se mi ci rivedo: “amante” è una parola che non mi inquadra».
E qual è, una parola che la inquadra?
«Compagna. Compagna in un pezzo difficilissimo e crepuscolare della sua vita, che però proprio per questo è stato pieno di momenti autentici. Craxi ha reagito alla perdita del potere in modo sorprendente: spogliato del ruolo, della iper-responsabilità, ha ritrovato il gusto delle cose semplici. Tutti lo immaginavano abbarbicato al fax, a difendersi dagli attacchi, a rintuzzare la valanga d’accuse che gli cadeva addosso, ma è un’immagine sfuocata. Me lo diceva spesso anche lui».
Cosa le diceva?
«Che, pur nell’esilio, si sentiva liberato. Che la Tunisia era anche una boccata di ossigeno. Mi diceva: “Ho vissuto anni in cui c’era gente che si occupava persino di dove dovevo sputare”. Camminavamo sulla spiaggia, guardavamo l’Italia, mi pizzicava la mano: “Se fossi rimasto laggiù, al potere, queste passeggiate, questa normalità sarebbe stata impossibile. Qui sono tornato a essere una persona”».
Lo sa che Ania Pieroni si è molto indispettita per il film? Pare abbia querelato i produttori di Hammamet perché lei sì, si rivede nella Gerini.
«Non la giudico. Anche perché l’unica volta che l’ho incontrata si è dimostrata diversissima da come me l’avevano dipinta».
Quando l’ha incontrata?
«Nel 2005, all’hotel De Russie, a Roma. Facevamo colazione nella stessa sala, io l’ho vista, ma non ho fatto un passo: sono discreta, e poi non sapevo come avrebbe reagito».
E siete rimaste così, a guardarvi senza parlare?
«No. Lei si è avvicinata, io mi sono alzata e ci siamo come allacciate: “Io e te possiamo solo abbracciarci, abbiamo voluto bene allo stesso uomo”, mi ha detto».
Con Stefania Craxi che rapporti ha?
«Strani. Anche lei l’ho incontrata per caso, a casa di amici comuni ed è finita che mi ha pianto sulla spalla, dicendo: “Grazie di esser stata vicina a papà”. Poi, però, alla padrona di casa ha detto: “Se inviti ancora Patrizia, non mi vedi più”. Ma la capisco, era sincera in entrambe le occasioni».
In che senso?
«Nel senso che ha dentro una “divaricazione” che non può evitare. Da un lato, sapeva che ogni figura che andava ad Hammamet, compresa la mia, era vitale per Craxi. Dall’altro, non poteva che stare dalla parte della mamma (Anna Maria Moncini, la moglie di Craxi, ndr). Mi spiace solo che non ci siamo mai regalate l’opportunità di sederci da sole a parlare un po’. Vorrei trasferirle cose che mi ha detto di lei suo padre, cose belle: sarebbe giusto ridargliele. Purtroppo, scomparso lui, ci siamo tutti divisi: è stato anche il grande errore dei socialisti».
Che amore fu, quello con Craxi?
«Glielo descrivo con i fatti, anzi, con un fatto. Lasciai l’Italia e un contratto in esclusiva con la Rai per seguirlo in Tunisia. Stare con lui – umiliato, deriso, vinto – è stato un “disinvestimento”: per capirlo, dovrebbe aver nitida nella testa, come ho io, la faccia che fece mia madre quando le dissi che mi trasferivo ad Hammamet».
Si giocò la carriera, la reputazione, tutto.
«Eppure è stata la decisione più facile della mia vita. L’allora direttore di Rai 2, Giampaolo Sodano, mi disse: “Io ti confermo, ti tengo il posto, magari ci ripensi”. Anche Craxi cercava di frenarmi: “Aspetta ancora un po’, hai la tua vita da vivere, il tuo lavoro, casomai mi raggiungi”. Ma io non ho mai neppure considerato l’idea di non partire con lui».
Quando Craxi morì, lei era a Milano.
«Buffo, no? In Tunisia c’erano due Madame Craxi - io e Anna, sua moglie - eppure quando lui ebbe l’attacco aveva accanto solo Stefania. Presi l’aereo, mi misi sulla mia “Peugeottina” rossa, che tengo ancora ad Hammamet, e andai in ospedale».
La leggenda vuole che si fece passare per la figlia.
«La storia invece sa che la sua scorta non mi avrebbe mai confuso con Stefania. Mi conoscevano, io conoscevo loro, le loro mogli, il modo in cui scherzavano. Mi fecero passare, si “aprirono”, diventarono un cordone. Mi lasciarono da sola in obitorio con Craxi».
Perdoni l’indelicatezza, ma le due Madame Craxi come facevano a convivere?
«I ruoli erano molto chiari, nessuno negava che io esistessi, c’era il massimo rispetto. Spero che il film non ometta questa parte e mostri la classica amante da feuilleton, che arriva di nascosto: sarebbe un’operazione poco chiara. Si viveva, anche, nel rispetto dei luoghi: io me ne stavo in una casa in affitto, evitavo le spiagge che frequentava Anna, il “suo” campo da golf. Ma non pensi che fosse tutta una passeggiata: giravo con l’elmetto e la tuta mimetica, Craxi aveva una scorta tunisina di nove uomini. Il clima era terribile, dall’Italia piovevano continue minacce di morte».
Ci va ancora ad Hammamet?
«Sì, mio figlio François (adottato con l’ex marito, il medico Alberto Bossi, ndr) adora quel posto. Vado sempre al cimitero cattolico, che è di una bellezza stupefacente: sul mare aperto, di faccia all’Italia. Vado lì e chiacchiero».
Con chi?
«Con Kamel, il custode della tomba di Craxi: lui ci sarà nel film, me l’ha confidato. Kamel mi mostra il libro delle visite, mi fa tradurre le frasi che non capisce, si arrabbia se contengono insulti o con chi si fa i selfie con la tomba come sfondo. Ma io gli dico: “Kamel, vanno lasciate anche le parole brutte, le critiche”».
Che critiche si sente di condividere? Che difetti aveva, l’uomo Craxi?
«L’uomo era di enormi sentimenti. Mi creda, anche quando era in disgrazia, ad Hammamet, riceveva tutti, cercava di aiutare tutti: disoccupati, pittori falliti... Forse è vero che il politico era un po’ arrogante, ma era un’arroganza che poteva permettersi. Purtroppo finì per pagare anche arroganze non sue, i veleni di tutto un partito, le storture di tutto un sistema. Lui che era un gigante, così diverso dagli altri, e così superiore, divenne un riassunto, il simbolo della casta. Il film - che temo racconterà la solita storia, vista dal solito punto di vista - potrà forse riaprire un dibattito, ma il dibattito vero dev’essere politico».
Cosa si aspetta da quel dibattito?
«Anzitutto che restituisca a Craxi la sua grandezza di uomo di Stato. Per difendere l’Italia batteva i pugni sul tavolo di Reagan, andava da Gheddafi e gli diceva: “Se lanci un altro missile su Lampedusa, prendo i miei e li punto tutti contro di te”. Poi magari finiva in abbracci e cous cous, ma la sua collera era credibile, la sua dedizione totale. La cosa più importante, però, è che si faccia luce su quegli anni».
Quali?
«Quelli di Tangentopoli. Hanno spazzato via un’intera classe politica, creando un vuoto pericolosissimo: avrebbe potuto occuparlo chiunque. Qual era il disegno? Di chi? Perché ogni sei ore uscivano dossier, avvisi di garanzia? Dobbiamo farci queste domande».
Gliene faccio un’ultima io: perché lo chiama sempre, anche nel ricordo, Craxi?
«È un modo di proteggerlo, di non condividerlo. Lui è Bettino solo se ne parlo con gli amici intimi, lui è Bettino solo dentro di me».
· Craxi e la Famiglia.
Craxi, la moglie Anna: «la politica è vocazione, Bettino parlava solo di quello anche alle feste». Il Dubbio il 19 gennaio 2020. Oltre mille persone stamattina al cimitero cattolico di Hammamet per ricordare il politico. Oltre mille persone sono accorse stamattina al cimitero cattolico di Hammamet, che si trova accanto a quello musulmano, proprio di fronte al mare. Gente arrivata da tutta Italia, parlamentari, giornalisti, uomini di cultura. C’è tutta l’Italia di un tempo con bandiere socialiste, garofani, tutti intorno alla tomba di Bettino Craxi. Abbracci, commozione, quando ancora la cerimonia di commemorazione dei vent’anni dalla scomparsa dell’ex leader del Psi deve cominciare. «Parlava di politica anche alle feste. Di politica e di storia», ha raccontato a “La Repubblica” la moglie di Craxi, Anna. La signora Craxi, adesso 86enne, ha scelto di restare a vivere ad Hammamet. «Perché sono rimasta qui? Un po’ per senso di rivalsa verso l’Italia, è vero, ma anche perché era la mia unica casa di proprietà. Ho pensato: un posto dove stare ce l’ho, tanto vale viverci – dice -. Cammino ogni giorno a passo svelto per quarantacinque minuti. Dentro casa e in giardino. Di solito, mentre passeggio, sto al telefono con un mio amico che ha 93 anni. Così il tempo vola. Ricordiamo le feste di un tempo, Hammamet com’era. Un paradiso». I coniugi Craxi arrivano in Tunisia all’inizio degli anni ’60: «Una stanza ad Alghero costava 8000 lire a notte, qui 5 dinari che non erano neanche 500 lire. Che io poi la casa non l’avrei mai comprata – spiega Anna Craxi – perché è un impegno. Si sta meglio in albergo. Ma Bettino ha insistito. Ad Hammamet c’erano 3 mila abitanti (adesso sono 90 mila) e cinque hotel. Ottanta chilometri di spiaggia libera. Era meraviglioso. Dai campi la sera scendevano le contadine con le cavigliere d’argento. Ad ogni passo si sentiva un concerto di tintinnii. Portavano il gregge in spiaggia e lavavano le pecore nel mare». «Io devo tutto a Bettino Craxi perché quando ho avuto bisogno mi ha aiutato: mi ha pagato un intervento, mi ha trovato un lavoro. Oggi sento di dover restituire tutto quello che Craxi mi ha dato nella vita custodendo la sua tomba». Così Kamel Marzouk, custode della tomba di Bettino Craxi. «Ci vado ogni mattina, la pulisco, metto la bandiera, il registro, che poi la sera ripongo. E ogni giorno così. Lo faccio per gratitudine nei suoi confronti – dice – e tutto il popolo tunisino è grato a Bettino Craxi perché ha fatto del bene».
Francesco Merlo per ''la Repubblica'' il 19 gennaio 2020. "Mai papà cercò di fare pena per non subire la pena" dice Bobo quando gli racconto che il cocktail di benvenuto, in una sala senza finestre dell'Hotel "Sole Azur", è stato aperto da "un'orchestrina-del-mio-cuor" con la musica del Padrino e subito dopo la "querida presencia" del comandante Che Guevara. A Stefania invece dico quel che tutti pensiamo strappandole un'evidente ma trattenuta commozione: "Se le nostre figlie facessero per noi padri quello che tu ancora fai per Bettino, saremmo tutti dei padri felici". E però, come la cifra patetica dei reduci di Hammamet, anche l'amore della figlia femmina, che ha il caratteraccio del padre ma addolcito, imprigiona Bettino nello stesso codice dei suoi nemici. E l'epica ritorna patetica: non reo ma martire; non colpevole ma innocente; non corrotto ma onesto; non latitante ma esule; non cinghiale onnivoro ma agnello sacrificale... I due Craxi hanno una diversa sostanza dolente: per Bobo, Mani Pulite arrivò "come a Hiroshima la bomba", lei è l'arrabbiata, la vera protagonista del film di Amelio "Hammamet". Lui ha una grande paura che la destra deformi Craxi, "che è stato la socialdemocrazia italiana, lo smummiamento del marxismo...", lei vuole solo liberare il dibattito dal pregiudizio, spera di "accompagnare il vento che sta cambiando", forse è pronta a riconoscere gli errori del padre, dice che darebbe "qualsiasi cosa per parlare ancora un po' con lui, fosse pure all'Inferno". Eppure vent'anni fa sarebbe forse bastata una foto: "Magrissimo, le gambe come trespoli, il collo e le spalle cadenti". Così lo racconta Marcello Sorgi, che ha scritto uno dei tanti libri ("Presunto colpevole" Einaudi), che al suo ultimo Natale sono stati dedicati: inediti, diari, rimpianti, complottismo, amarezza. Craxi con il fisico smunto del Werther sarebbe stata un'immagine inaudita per gli italiani che lo pensavano latitante in villa, affetto dal "foruncolone al piede" che gli aveva diagnosticato Di Pietro: "Quante storie per un foruncolone". E si capisce quanto contasse il faccione risoluto ed energico su quel corpo dai gagliardi appettiti guardando la ricca mostra delle foto di Umberto Cicconi inaugurata ieri alla Medina. Sono le immagini di un potente vero in compagnia di tutti gli altri potenti dell'epoca, da Reagan a Lech Walesa, da Wojtyla a Olof Palme, da Arafat a Mitterrand, e nel mezzo c'è spessissimo Andreotti, altro viso indimenticabile: era la coppia, che pareva eterna, dei carissimi nemici, il gatto e la volpe. "Quando ad Hammamet gli arrivò la notizia dell'assoluzione, papà ne fu felice ma si ammalò perché la sentenza premiava la strategia dell'altro grande accusato che era opposta alla sua. Andreotti non si era mai sottratto al processo, non aveva mai attaccato un Pubblico ministero, era rimasto sempre a cavallo della sua scopa, e sempre di apparente buonumore". Non c'erano i social ma l'Italia fece pace con Moro grazie a una foto: l'immagine del vecchio rannicchiato nel bagagliaio cambiò la storia del nostro Paese. "Certo che c'erano sue foto: ne ricordo una sulla cyclette. Ma non c'era il patetico nella vita di papà, neppure come possibilità". E invece ora il patetico delle adunate di Hammamet è, nel migliore dei casi, letteratura dei perdenti e mai potrebbe diventare cerimonia di riabilitazione. "Papà odiava il melodrammatico italiano" insiste Bobo che è pieno di ironia e reagisce con un "mamma mia" quando gli racconto dei seicento ex, ciascuno inseguito da un pezzo di sé di cui non riesce a liberarsi, l'ex sindaco di Rieti, l'ex assessore al traffico...A 72 anni c'è Paolo Lombardo di Enna, per esempio, che ha deciso di non votare più: "Pd no, grillini no, Berlusconi no, Renzi no, Salvini no, Meloni no". E Pasqualina dell'Aquila: "I compagni mi escludevano dal direttivo e allora per far valere i miei diritti feci un telegramma a Craxi". In quasi tutti ci sono ironia, dignità e simpatia: "Mi chiamo Olivo, davvero, non è uno scherzo e sono un socialista di sinistra". C'è pure, ma è poca cosa, la coreografia grottesca della combriccola della "dissimulazione onesta" con i vari Davide Faraone, Giggino a Purpetta, Luigi Bisignani... Ma non credete a chi vi racconta di Hammamet come il laboratorio del lazzaronismo, una sorta di Venezuela d'Italia, la fortezza dei descamisados con l'esuberanza gogoliana, la panza e l'effervescenza. Sono arrivati venerdì e ripartono domani, in nave, in aereo+pullman - il pacchetto Craxi era 400 euro, tutto compreso - per proteggere il Comandante, come fosse un cadavere assopito. E si capisce che invece lo imprigionano di più ad Hammamet che, nella geografia italiana, è l'Altrove della fine del sistema e non certo l'Altrove di Bengodi come Santo Domingo, il Kenya, il Libano, Montecarlo, i paradisi fiscali... Nella mappa che, direbbe Benjamin, è il curriculum vitae di Craxi, Hammamet è il luogo-rifugio dove è morta la politica che cercava di annullare le ragioni della giustizia. E infatti il paesaggio è quello di Reggio Calabria e della provincia di Agrigento, le spiagge di sabbia gialla sono identiche a quelle di Montalbano, qui si nuota nella stessa acqua di cielo di Punta Secca e di Marinella, e l'edilizia prevalente è il "non finito". Anche gli ulivi sono l'intreccio di tre tronchi e la scorza dell'albero arabo-siculo è la stessa della faccia del bravo e simpatico Moez Mrad, sindaco di Hammamet che, piccolo e rotondo, è tale e quale Catarella, la maschera buona del Giufà di Montalbano, quello che pare stupido ma è invece il solo che sa usare il computer. Il sindaco ha pure i baffi che sono quelli del commissario Montalbano, ma solo nel romanzo: i baffi del gatto meridionale alla D'Alema. Nella prima delle cerimonie, Mrad-Catarella ha ricevuto Stefania e ha onorato il ricordo di Bettino, a cui, mi raccontano sulla terrazza del bar "La Medina" bevendo thè alla menta, "la città ha intitolato una brutta strada, una bretella di scorrimento". Mi ci faccio portare dal tassista e ritrovo la stessa tristezza delle vie della speculazione edilizia che in Italia sono state dedicate a scrittori che nessuno legge: via Panzini, via Fogazzaro, via Romagnoli, via Zanella. Stefania ha regalato al sindaco il brutto romanzone thriller del padre, Parigi-Hammamet, pieno di spie e di complotti. Il sindaco di Bergamo Giorgio Gori, che è socialista del Pd, al collega ha portato invece un gagliardetto rosso con la scritta: "Bergamo città dei mille" perché c'erano anche loro tra i ragazzi che fecero l'Italia insieme ai terroni di Garinei e Giovannini: "il Borbone se la squaglia,/abbiam vinto la battaglia... noi che siamo solo in tre / tre briganti e tre somari / solo in tre". E parte la raffica degli aneddoti sul Craxi-Garibaldi, prototipo italiano dell'uomo della provvidenza, socialista in poncho. Ma la verità su Craxi non sta ad Hammamet così come la verità su Crispi non è quella del figlio dissoluto e della moglie fedifraga. E la verità di Giolitti non è solo lo scandalo della Banca Romana. Tutti qui sanno che Craxi usava i soldi, spesso in contanti, per concimare il mondo, e nei vicoli di Hammamet lo raccontano come un generoso uomo d'affari che faceva costruire scuole e strade. Stefania mostra la casa che è bella senza gli eccessi del lusso. Anche lei sa che Craxi governava un immenso patrimonio in nero, vale a dire i fondi del finanziamento occulto della politica, ma è vero che nessuno in famiglia faceva la vita del nababbo, a partire dallo stesso Bettino. Non finirà mai il dibattito sui soldi e la politica, ma "Craxi gestiva personalmente un tesoro e certo era lui stesso a segnare il confine tra il danaro per sé e quello per il partito e, più in generale, per la politica" ammettono ormai Cicchitto, Signorile, Di Donato... e tutti gli altri. E c'è qui un Ugo Intini che non ti aspetti, perché esibisce i capelli neri, piccolo e simpatico dettaglio di vanità nel vecchio socialista tutto d'un pezzo. Ma in faccia ai cortigiani di allora, vale di più la fierezza di Carlo, l'elettricista di Cologno Monzese, ex tenente dell'esercito, socialista "da quando sono nato, 80 anni fa, a Catania, in via Etnea numero 1". Dice: "minchia, signor tenente, i soldi l'hanno fregato perché era un corruttore e non un corrotto: i veri potenti provano disprezzo per i quattrini, li considerano come il letame che non serve se non è sparso". C'è l'allegria un po' amara della scampagnata ("cantiamo tutto, ma "Bella ciao" no"), e ovviamente c'è la Messa nella piccola chiesa cattolica che è tutta bianca a pianta circolare. Il parroco, un salesiano ("Craxi studiò dai salesiani" racconta la vedova) dice - anche lui - che "Bettino è vivo". Al cimitero, pur senza il grottesco dei fascisti a Predappio c'è la stessa idea del corpo morto che simboleggia l'indefettibilità della giustizia fanatica, del capo idolatrato che ancora spunta rendite politiche, ma solo a destra. Secondo questa destra infatti la colpa sarebbe tutta della sinistra che non è venuta ad Hammamet, che si rifiuta, perché, molto giustamente, non crede che per studiare meglio la Storia serva gettare garofani sulla tomba che Bettino volle "orientata verso l'Italia". E ovviamente la famiglia inorridisce davanti ai progetti di trafugare la salma, e portarla in barca in Sicilia o in Liguria, immaginati dal nuovo Psi e dal suo nuovissimo segretario, di cui nessuno ricorda il nome. Anche il mio amico elettricista è andato sulla tomba, ma per dire a Bettino che "neanche sottoterra il sonno promesso è sicuro". Cercano in lui la forza e il carisma. Pensano che il simulacro esanime possegga quei valori vitali che loro non riescono più ad avere. Anche Martelli, che si è di nuovo sposato ("cinque matrimoni e un funerale" è la battuta dei compagni socialisti) e gli ha appena dedicato il libro "L'antipatico", l'ennesimo risarcimento al suo senso di colpa, visto che "era il solo al quale era permesso - disse Anna Craxi - di aprire il frigorifero di casa". Martelli sa bene che l'antipatia italiana è stata una specie di lievito del progresso. Antipatici furono Longanesi a destra e Feltrinelli a sinistra. Tutto il nostro umanesimo è pieno di antipatici sublimi, da Torquato Tasso ad Alberto Moravia. E nella politica furono antipatici, tra gli altri, Aldo Moro, Palmiro Togliatti... Un italiano antipatico, che è stato adorato dal popolo, era padre Pio che spesso cacciava via i penitenti facendoli addirittura piangere: "Andatevene, sepolcri imbiancati!". E quelli scappavano mortificati e tuttavia fortificati nella fede. E Craxi? Ecco che scoppia di nuovo la rissa dei due corni: antipatico o arrogante? Ma c'è pure chi si sottrae alle mie provocazioni perché "i giornali sono stati i nostri carnefici". Me lo merito? Solo l'amore della città per la famiglia Craxi fece riaprire nella Tunisia musulmana il piccolo e affascinante cimitero cattolico, piccolo, appena una striscia fiorita, proprio accanto a quello arabo con muri a secco, pietra bianca, niente monumenti, c'è solo una malandata cappella senza nome. "Non era credente, papà, ma di sicuro era catturato e affascinato dal rito". La più sana è la vedova, la signora Anna che, sorridente, accogliendoci tutti a casa dice a 86 anni: "In quella terra c'è il posto anche per me, e forse sono in ritardo". Ogni domenica guarda il Papa in tv che è il suo modo di pregare per Craxi: "A modo mio sono credente". Stefania aggiunge: "Pure io, ma solo perché voglio andare all'Inferno, dove sono sicura che ritroverò qualcuno".
Da adnkronos.com il 15 gennaio 2020. Botta e risposta via twitter tra Peter Gomez e Bobo Craxi sul film Hammamet con Pierfrancesco Favino nei panni di Bettino Craxi. O meglio sul quel che il film di Gianni Amelio ''omette'' di raccontare sul leader socialista. ''Craxi, quello che non c’è nel film Hammamet: nelle sentenze la lista della spesa delle tangenti, tra case a New York, a Roma, a Madonna di Campiglio a La Thuile e soldi alla tv di Anja Pieroni, alla quale passava 100 milioni di lire al mese'', è il tweet di Gomez che accende la miccia postando un articolo del Fatto che entra nel dettaglio della ''lista della spesa delle tangenti, tra case a New York e soldi alla tv dell’amante''. Pur sottolineando che siamo davanti a un film ''molto ben recitato'', Gomez sottolinea come sia ''doveroso per chi fa informazione raccontare pure il resto. È cronaca non una presa di posizione politica''. Il figlio di Bettino, Bobo, risponde a stretto giro intimando a Gomez di ''dimostrare che l’elenco di quegli appartamenti fossero a disposizione sua o della famiglia. Se non sarai in grado di dimostrarlo credo che il tribunale ti condannerà per diffamazione. Peter, è finita questa Storia che sputtanate gratis. Il tuo Esercito sta in rotta''. ''Bobo questo dice la sentenza - replica Gomez - Non lo devi dimostrare a me ma ai giudici che l’hanno scritta è confermata nel processo All Iberian. Si tratta del denaro, spiegano, gestito prima da Tradati e poi da Raggio, che come noto fece sparire una parte notevole di quella cinquantina di mld''. Ma Bobo Craxi insiste. ''No guarda. Tu ti presenterai in Tribunale con i certificati di proprietà di immobili. Diversamente, come è naturale che sia, vieni giudicato come uno spacciatore di bugie. Te l’ho detto, e mi spiace perché sai che rispetto il tuo lavoro, questo modo di fare non regge più. É finita''. Un aut aut a cui il direttore del Fatto on line risponde: ''Mi presenterò con le sentenze che sono tutte correttamente citate esplicitamente come fonte negli articoli del mio sito''.
Franco Stefanoni per corriere.it il 21 gennaio 2020. «Craxi non fu vittima di se stesso». Risponde così Bobo Craxi, figlio dell’ex leader del Psi, ad Antonio Di Pietro, senza citarlo direttamente, dopo che l’ex pm di Mani pulite aveva definito l’ex leader socialista «un latitante, che fu solo vittima di se stesso». Per il figlio dell’ex premier: «Primo, se proprio vogliamo dirla tutta, a 20 anni di distanza, il rifiuto di far morire mio padre in Italia è un’infamia che peserà sulla loro coscienza per tutto il resto della loro vita, così come pesano i morti di Mani Pulite. Secondo, in questi 20 anni la storiografia ci ha illuminato: i reati non coperti dall’amnistia dell’89 e commessi fino al ‘92 erano comuni a tutte le forze politiche e la magistratura ne colpì particolarmente solo alcuni, su mandato politico interno o internazionale, alla fine della Guerra fredda». Un’opinione, quella di Bobo Craxi, espressa a pochi giorni dal ventennale della morte del padre ad Hammamet in Tunisia, che diverge totalmente da quella di Di Pietro divulgata in un’intervista al Fatto quotidiano: «Ma finiamola: Craxi è stato vittima di se stesso, avendo scelto di farsi corrompere pure lui come migliaia di altri indagati delle inchieste di Mani Pulite. C’è chi, in altri partiti, ha avuto più avvisi di garanzia di lui. Vittima? Ma ci sono le sentenze, le confessioni, i conti all’estero, i miliardi di lire spariti». «So che se fosse tornato in Italia, nessuno gli avrebbe potuto togliere il suo diritto a essere curato in ospedale. È scritto nei codici. Lui, invece, chiedeva, con una sorta di ricatto allo Stato, un salvacondotto preventivo che i magistrati non potevano dare». L’ex pm si dice un po’ deluso e amareggiato anche per alcuni episodi che gli sono capitati negli ultimi tempi. Un signore, sul treno Italo Napoli-Milano, lo ha apostrofato così: «Lei è quello che ha rovinato l’Italia». Mentre a Roma, su un autobus, un ragazzo gli ha chiesto: «Lei è Antonio Di Pietro, quello di Mani Pulite?» e poi gli ha sputato addosso fuggendo alla fermata di piazza Venezia. Secondo Di Pietro «c’è un completo stravolgimento della realtà» perché ai tempi di Mani Pulite quel ragazzo non era nemmeno nato «e non è colpa sua se oggi è rimasto vittima di un’informazione pilotata e artefatta». Quanto al signore, invece, obietta che lui non ha rovinato l’Italia, «ma ho solo cercato di curarla, di guarire la malattia della corruzione». Poi aggiunge che «per fortuna ho trovato attorno, sul treno, molte persone che erano d’accordo con me».
«Craxi fu un socialista tricolore». Il figlio Bobo ricorda il legame tra Bari e il Garofano: «Quella vignetta di Forattini...» Michele De Feudis il 27 Gennaio 2020 su La Gazzetta del Mezzogiorno.
«La politica italiana è molto debole e in questa prospettiva il ruolo della memoria, a partire da quella di mio padre Bettino, può svolgere un ruolo importante per la ricostruzione di un orizzonte dell’Italia nell’Ue e nel mondo globale». Bobo Craxi, figlio del leader del Psi e dirigente del partito socialista, rivendica la necessità di rianimare un discorso pubblico partendo da visioni politiche fondate su idee forti. L’ex sottosegretario è stata in Puglia in questi giorni e a Bari ha incontrato l’ex senatore Alberto Tedesco per incoraggiarlo nell’opera di riunione della famiglia del garofano.
Onorevole, come va interpretato il ventennale della morte di Craxi?
«È una occasione per indagare le ragioni profonde della storia italiana alla fine della guerra fredda. Il quadriennio 1989-1993 segnò il passaggio da un sistema mondiale bipolare ad un nuovo ordine mondiale. In quel frangente c’è stato l’accantonamento dei protagonisti politici della vittoria della guerra fredda. I vincitori si trasformarono in vinti».
Ricordare riapre antiche ferite per voi familiari?
«Il 19 gennaio è il giorno della morte di mio padre e della nostra memoria. Dure un mese fino al suo compleanno, il 24 febbraio. La pagine dell’esilio è un ricordo doloroso, sono stato quattro anni al suo fianco in Tunisia…».
È fiducioso per un riscatto socialista?
«Dipenderà da noi come comunità politica il tradurre sul piano dell’azione la scintilla riaccesa in questa ricorrenza. I postcomunisti occuparono lo spazio politico del Psi, Berlusconi conquistò il nostro elettorato. Entrambi sono alla fine di questa esperienza La revisione porta alla ricomposizione di un’area socialista».
La caduta della Prima repubblica è stata una fase eterodiretta?
«È probabile. Analizzando la fine della guerra fredda non possiamo non vedere che ci fu una spinta politica ad accelerare il ricambio. Fu un passaggio violento perché lo strumento giudiziario al pari di quello militare è una formula politica forte. Quando si fa riferimento a degenerazioni o corruzioni si dimentica che nel 1989 furono amnistiate le ruberie del finanziamento illegale ai partiti. Per Tangentopoli c’è stato poi l’elemento deformante del ruolo di Craxi. Come si fa a considerarlo un criminale o un ladro comune? Quando si trattò di affermare solennemente i rapporti tra politica e finanziamento illegale lo fece in parlamento».
Imedia giustizialisti sottolineano del ventennale soprattutto le condanne subite da suo padre…
«C’è una necessità di cassetta. La seconda e terza repubblica nascono da Mani Pulite. Revisionare quei fatti sotto un’altra lente significherebbe per certi interlocutori smentire se stessi. Il giustizialismo non ha nulla a che vedere con la legalità, ma ha origini nel giacobinismo presente in parte di sinistra e destra in Italia».
I ventenni consoceranno il leader del Psi attraverso il film «Hammamet». Cosa le è piaciuto nella pellicola?
«Ci sono aspetti della recitazione di Favino che mi hanno convinto. Altre cose meno. Nel dialogo tra mio padre e un esponente Dc c’è la differenza tra chi tiene il punto e chi rinuncia alle sue idee per salvarsi. Chi difende la propria parola è meglio di chi rinuncia alle sue convinzioni per trovare una via di uscita».
Craxi a Sigonella fu un proto-sovranista?
«Ha difeso la sovranità nazionale. C’è una differenza sostanziale tra difendere la sovranità italiana dalla presenza di militari armati di una potenza alleata sul proprio territorio, e il respingimento di 50 africani che arrivano con una barca in Italia. Mio padre aveva una idea patriottica e risorgimentale della sovranità: non si vergognava di essere nazionalista nel senso buono del termine. Questa cultura la esplicitò nel socialismo tricolore».
Che ricordo ha del congresso del Psi a Bari nel 1991?
«Fu un passaggio difficile, ma l’assise fu il suggello di un legame felice tra la Puglia e il socialismo. Craxi tenne un comizio di fronte al Municipio. Del resto Forattini, unendo la vittoria di François Mitterand e quella del Psi a Bari aveva disegnato mio padre vestito da francese con il motto “se Parigi avesse il mare, sarebbe na piccola Bari”».
Pochi ricordano il Craxi pacificatore, quando a Milano portò i fiori sulla tomba di Claretta Petacci, amante di Benito Mussolini sfregiata nella canèa disumana di Piazzale Loreto.
«Allora gesti di riconoscimento del sangue dei vinti e degli italiani morti nella guerra civile erano connessi alla solidità della Repubblica. Allora si era aperta una nuova fase. Ora questo inizio non c’è e nessuno può interpretare il ruolo del vincitore perché siamo stati sconfitti tutti. Nella sinistra sono stati sconfitti postcomunisti e i socialisti, nel centrodestra non si è affermata una vocazione conservatrice, ma un movimento legato all’empito del “giovane padano”. Siamo in mano a populisti di destra e sinistra che non vogliono pacificazione perché si alimentano del conflitto».
Concetto Vecchio per “la Repubblica” l'8 gennaio 2020. Bobo Craxi, 55 anni, è seduto in un caffé di Roma. Dopo pochi minuti si alza: «Ho bisogno di fumare». E così l' intera intervista proseguirà sulla terrazza.
Esce "Hammamet", il film di Gianni Amelio su suo padre, Bettino. L' ha visto?
«Sì, e inizialmente ho avuto uno scazzo con Amelio e la produzione, perché l' elemento romanzato prevale su quello politico. Mentre scorrevano le immagini mi dicevo continuamente "ma Bettino non parlava così". Oppure mi arrabbiavo per certi fatti non veritieri».
È un film.
«Me ne sono fatto una ragione. C' è un elemento di libertà dell' artista che non può essere sindacato da nessuno. Credo che Amelio avesse in mente la stessa operazione che fece Carlo Lizzani sugli ultimi giorni di Mussolini. Ricordo che mio padre mi portò a vederlo, ero bambino, mi fece grande impressione perché si apre con l' immagine del vilipendio del cadavere del Duce».
Favino l' ha convinta?
«In certe pose è in stato di grazia».
Craxi per vent' anni è stato dimenticato. Ora "Hammamet" non riapre almeno un dibattito?
«Sì, anche se poi non analizza le ragioni profonde su cosa accadde in Italia dopo la fine della Guerra fredda».
Cosa accadde?
«Bisognava ristabilire un nuovo ordine, in economia e in politica. E mio padre si rifiutò di guidare una rivolta nazional-capitalistica del sistema, perché come disse in un famoso discorso al congresso socialista di Bari, citando Ugo La Malfa: "Io sono un uomo del sistema". Allo stesso tempo il nuovo ordine mondiale non poteva più tollerare eccessivi elementi di autonomia nazionale. E siccome non erano più tempi di golpismo militare si scelse l' arma del golpismo giudiziario o della purificazione morale».
I magistrati come espressione di quest' ordine?
«Sì, in parte consapevolmente, in parte no».
E da chi venne l' ordine, se così si può dire?
«Da chi aveva vinto la Guerra fredda, dagli americani».
E le tangenti, per le quali Craxi venne condannato più volte?
«Erano finanziamenti illegali ai partiti. I partiti si finanziavano così».
Miliardi di tangenti solo come finanziamento politico?
«Tutto il sistema funzionava così. E quella era una democrazia poggiata sui partiti».
E non ci fu arricchimento personale?
«Mah! La mia casa a Roma è finita all' asta perché non riuscivo più a pagare il mutuo, ancora adesso sono alle prese con le tasse giudiziarie per i processi di mio padre, c' è in corso un contenzioso. Vivo facendo delle consulenze. Il politico è una nobile professione intellettuale».
La gente la riconosce per strada?
«Da qualche tempo mi ferma per esprimere rimpianto per i tempi della Prima Repubblica. Del resto cosa ha prodotto Tangentopoli? Un capitalismo liberista senza regole. Una destra populista, che è una forma rinnovata di neofascismo. Perfino il procuratore Borrelli alla fine fece autocritica sul mondo emerso dopo la sua inchiesta. Come vede, la ruota gira».
Suo padre non era simpatico.
«Ma il potere non deve esserlo».
Trova sgradevole il fatto che la prima a dare un' intervista sia stata l' ultima amante di Craxi?
«Quando Bruno Vespa l' intervistò nel 2007, mi arrabbiai moltissimo, ma feci male. Oggi mi dico: chi sei tu per esprimere dei giudizi? Anche questa fu la vita di Bettino Craxi. "La storia non ha nascondigli", per citare Francesco De Gregori».
Dov' era quando gli tirarono le monetine davanti al Raphael nel 1993?
«A Milano, nella nostra casa di via Foppa. All' indomani trovai una scritta inneggiante a Di Pietro sul muro. La nostra vita cambiò».
È più tornato al Raphael?
«Sì, la stanza di mio padre è diventato un ristorante».
E la sede del Psi di via del Corso ora ospita la Nike. Che padre era Bettino?
«Ma i piani del partito sono della Presidenza del Consiglio, la sala delle riunioni, intitolata a Riccardo Lombardi, è rimasta».
Che padre era Bettino?
«Non c' era. Prima veniva la politica, poi il partito, poi gli amici, e infine venivamo noi. La politica era totalizzante, non implicava vita famigliare. Non c' era fisicità. Ho due figli, una ragazza di 26 anni, e un ragazzo di 21, e ho cercato essere un padre diverso».
Era una figura ingombrante?
«Lo è ancora. Ma non era un uomo complicato, o contorto. Era cocciuto».
Sua madre quanti anni ha?
«86. Siamo stati insieme durante le feste, vive tra Hammamet e Ansedonia».
Come ha vissuto la caduta?
«Si tiene dentro il dolore. Ha aspettato mio padre tutta la vita e poi se l' è ritrovato a casa bisognoso di cure».
E lei? Eravate i padroni d' Italia, e poi finì tutto.
«Ogni tanto canticchio la canzone di Marracash, "Bastavano le briciole". Racconta di quando rubarono il camion al padre. Tutti i rovesci della vita sono dolorosi, ma a un certo punto devi capire che ti devi fare bastare quello che hai».
Se suo padre avesse accettato di difendersi in tribunale invece che solo in Parlamento la storia sarebbe andata diversamente?
«Era convinto che la magistratura non fosse imparziale, temeva il pregiudizio. Ciò avrebbe significato aspettare nelle prigioni le condanne».
Come furono gli ultimi anni con lui ad Hammamet?
«Ricordo solo i momenti belli, perché si tende a dimenticare le cose brutte. Eravamo tutti lì, finalmente si viveva la quotidianità, era come stare dentro un kibbutz. Mio padre era molto amareggiato. Si ammalò in quell' esilio».
Era una latitanza, veramente.
«Era nella sovranità di uno Stato straniero, la Tunisia. Fu un autoesilio».
Cosa disse quando Berlusconi scese in politica?
«Reagì con ilarità. Sa all' epoca che un tycoon si candidasse alla guida del Paese non era nel novero delle cose possibili».
Ha nostalgia degli anni del potere trionfante, della Milano da bere?
«Con Milano ho chiuso i conti da tempo. Anche se ho lavorato per portare l' Expo. Mi chiedono talvolta: "Era meglio prima? "Rispondo: "Meglio domani". Ogni stagione è figlia del suo tempo».
Berlinguer viene ricordato spesso, anche dai giovani, Craxi no. È venuto il momento di riconoscergli anche i meriti di statista?
«Mi auguro che si apra un dibattito politico su quanto accadde dopo la fine della Guerra fredda e sul ruolo di Bettino Craxi nella storia d'Italia, ricordando finalmente il suo apporto non indifferente alla modernizzazione del Paese. E che i socialisti tornino in piedi, pronti a battersi».
E per lei, questa che storia è?
«Una storia finita male».
Bobo Craxi: «Ma quale tesoro? Mio padre Bettino ci lasciò sul lastrico». Il figlio di Bettino racconta a 7 la sua vita accanto allo scomparso leader socialista, le frizioni, le lezioni imparate, la speranza in una riabilitazione postuma: «Venite tutti ad Hammamet per il ventesimo anniversario della morte». Francesco Battistini il 15 novembre 2019 su Il Corriere della Sera. Vittorio Michele Craxi, detto Bobo, nato nel 1964. In questa intervista Bobo Craxi racconta a Francesco Battistini gli anni vissuti accanto al padre. Della figura di Bettino Craxi — ha scritto su 7 Vittorio Zincone — stanno tentando di riappropriarsi diversi politici di oggi: da Renzi a Salvini a Giancarlo Giorgetti. «Come cammina, come parla. Sì, sembra proprio lui...». Un giorno di primavera tunisina, Bobo ha visto rivivere suo papà: «Ero ad Hammamet. Al piano terra giravano il film. Sono sceso. C’era il nostro vecchio Amida commosso: dopo anni, rivedeva Craxi muoversi per le stanze... Allora ho stretto la mano a Pierfrancesco Favino, il protagonista, il mio “papino”. Identico. Impressionante».
Il film «Hammamet» sta per uscire...
«La grande metafora del potere che finisce nella polvere. Il dramma d’un uomo sconfitto e in cattività. La storia di mio padre non si può assorbire in due ore di cinema, ma la sceneggiatura tocca il cuore. Anche se non combacia con la realtà. Diciamo che Gianni Amelio s’è preso qualche licenza poetica. Per esempio su mia sorella: Stefania ebbe una forma di rimorso, per essere stata lontana in quegli anni, ma capisco che nel racconto il rapporto padre-figlia funzioni meglio...».
Lei invece è stato sempre lì.
«E’ stato un dramma da cui non ci siamo mai più ripresi. Una storia che io ho vissuto da vicino. Per me e Scilla, mia moglie, stare tre anni consecutivi in esilio non fu proprio toccare il cielo con un dito. Fu una grandissima sofferenza. D’altronde, non potevo andare da nessuna parte. A un certo punto, lui sceglie la Tunisia e mi dice: vieni con me, che cavolo fai a Milano?»
Che cosa c’è di suo, nel film?
«Qualche parte del mio Route El Fawara Hammamet è stata saccheggiata. A proposito, sa come lo pubblicarono? Una volta mi chiamò Elvira Sellerio. Aveva fatto leggere le bozze a Camilleri e il giudizio era stato: interessante, il libro del figliolo di Craxi...».
Che cos’è stata, per lei, la villa di Hammamet?
«Il mio primo ricordo è da bambino: capii subito che sarebbe stato un luogo dove un giorno sarei vissuto anche d’inverno. Probabilmente, un presagio. Fui il primo della famiglia ad abitarci, ancora non era finita. Paradossalmente, è dove sono stato di più con mio padre: di lui a Milano, ricordo poco».
Ad Hammamet vi siete ritrovati?
«Noi parlavamo di politica da quando avevo dieci anni. Ma io non mi sono mai messo in modalità Trota: io andavo nelle sezioni e non sono stato eletto quando mio padre era vivo, come La Malfa o la figlia di Nenni. Non mi sono mai posto nemmeno il problema dell’emulazione, perché l’unico figlio d’arte che conosco superiore al padre è Paolo Maldini: la mia carrierina politica mi ha dato comunque soddisfazioni insperate. Insomma, non sono stato un figlio ribelle. Però critico, questo sì. Già ai tempi dei successi, vedevo nel partito cose che non mi piacevano».
Che padre è stato?
«Io mi sento il figlio d’un figlio del partito. E ho assolto la mia responsabilità come figlio e come militante. Con lui, sono in pari. È stato un padre da bicchiere mezzo pieno e mezzo vuoto: prima veniva la politica, poi il partito, poi il Paese, poi gli amici e, solo a un certo punto, arrivavamo anche noi. Non fosse stato così, oggi non avrei difficoltà di tutti i generi. Lui ebbe amici o ex collaboratori che hanno vissuto come maragià. Io mi son trovato sul lastrico economico. L’ho messo nel conto: non è che i figli di Allende abbiano vissuto una vita serena».
E il famoso tesoro di Craxi?
«Questa storia del tesoro funzionava come racconto. Vero è che a molti di quelli che s’occupavano di denaro, qualcosa è rimasto in tasca. Ma io, dopo Tangentopoli, ho vissuto i peggiori anni della mia vita. Se sei un politico, nessuno t’assume. Non sono stato più rieletto e sono ancora percepito come uomo della Casta, senza esserlo: non ho uno stipendio pubblico da dieci anni, né vitalizi. La mia casa a Roma è finita all’asta. Dov’è, questo tesoro?».
«LA CASA DI HAMMAMET DIVENTÒ LA SENTINA DI TUTTI I MALI. QUELLA DI MIO PADRE NON FU LATITANZA, BENSÌ IL RIFIUTO DI UNA LOGICA POLITICA. CHIESE AIUTO A MITTERRAND, IL QUALE RISPOSE CHE NON POTEVA PROTEGGERLO»
S’è molto fantasticato sulla villa tunisina: i pavimenti lastricati con la fontana del Castello Sforzesco, Paolo Rossi che cantava “ad Hammamet perfino il vino viene giù dal rubinèt”...
«Diventò un luogo comune. La sentina di tutti i mali. E si passò direttamente al dileggio. Puoi farci poco. Col senno di poi, da Parmalat a Montepaschi, i politici ne han combinate talmente di peggio che è stata riabilitata anche questa casa: di fascino, ma sfarzosa proprio no. Un compagno di partito era stato ad Hammamet negli Anni 50 e aveva detto: è un posto meraviglioso, a un’ora da Roma... All’inizio doveva essere un terreno sul mare, ma c’era una disputa fra eredi. Allora, nel 1970, i tunisini ci proposero una campagna desolata in collina, più fresca. Ma s’arrivava solo in auto attraverso una pista, la sera niente luce, quando pioveva s’allagava tutto. Fu un vero disagio: chi passava a trovarci si domandava se Craxi fosse matto, come mai era finito laggiù e non a Forte dei Marmi».
Dice Rino Formica che la fuga ad Hammamet è stato il più grande errore di Craxi.
«Bisogna sapere che c’era anche un pericolo fisico. In Tunisia, capitarono due incidenti stradali casualmente identici. Un pezzo della frizione manomesso. Io ho rischiato la vita, ma il vero obbiettivo era ammazzare mio padre. Laggiù, lui si mise al riparo. E comunque non riconosceva i tribunali che lo condannavano. Fu il rifiuto d’una legislazione straordinaria, mai votata dal Parlamento, che applicava le norme in forma arbitraria. Fu un esilio».
Non tutti chiamano esilio una latitanza...
«Non si trattava più di sottrarsi alla giustizia. Era il rifiuto d’una logica politica che voleva punire solo lui. Come dice un grande poeta tunisino, Meddeb, l’esilio è una ricerca e non un castigo. Di sicuro, lo influenzò il mito di Garibaldi. E il riferimento storico agli oppositori esiliati. La Tunisia è sempre stata terra d’esiliati, dai fascisti o dai Borboni. Seguo da vicino il caso catalano e due anni fa incontrai Puidgemont, il leader indipendentista. Mi chiese della vita in Tunisia di mio padre. Non capivo il perché: due giorni dopo, Puigdemont fuggì da Barcellona per il Belgio. Anche gente come Dell’Utri ha pensato d’imitare quella scelta, ma fu una cosa diversa. Mio padre non scappò come un Matacena qualsiasi».
Da Hammamet, sua madre Anna non s’è più mossa.
«E’ andata lì prima di lui, nel ‘93. Adesso trascorre sei mesi là e sei a Roma. Ha preso la cittadinanza tunisina, furono i tunisini a chiederlo: lei accettò in segno d’affetto. Un giorno, riposerà accanto a mio padre. Del resto, Ben Ali rispettò sempre il trattato che escludeva l’estradizione e anzi, per la verità storica, disse letteralmente: se gli italiani mi chiedono Craxi, io gli piscio in testa... La Tunisia però non fu la prima scelta. Venne fuori dopo la Francia. Lui all’inizio voleva lasciare l’Italia per Parigi: era logisticamente più facile. Ma in Francia non c’erano le condizioni per l’esilio, sarebbe stato un casino politico. Andò all’Eliseo e Mitterrand gli disse che aveva il problema dello scandalo Bérégovoy: il governo francese era sotto tiro, non poteva proteggerlo più di tanto. Così mio padre si convinse che non fosse il caso».
«PER MIO PADRE C’ERA ANCHE UN PERICOLO FISICO. IN TUNISIA ACCADDERO DUE INCIDENTI STRADALI CASUALMENTE IDENTICI. UN PEZZO DELLA FRIZIONE MANOMESSO. IO HO RISCHIATO LA VITA, MA IL VERO OBIETTIVO ERA AMMAZZARE LUI»
Che anni furono, in Tunisia?
«Di riscoperta delle piccole cose. La famiglia, la solidarietà, l’amicizia. Le visite improvvise di chi gli voleva bene. Persone diversissime: Arrigo Sacchi, Renato Pozzetto, Gianfranco Funari, Cavallo Pazzo... Artisti che si fermavano mesi a scolpire, a dipingere. Un Barnum, un demi-monde. Lucio Dalla era molto commovente, mi chiedeva: “Stasera suoniamo per Bettino?...”. C’erano le lunghe telefonate notturne di Edoardo Agnelli, il figlio dell’Avvocato: chiamava per incoraggiare, ma in realtà era mio papà a sostenere lui. Una volta entro in casa, sento dei cori: ma cosa succede? Erano dei pellegrini bresciani col prete, li aveva incontrati alla Medina, ed erano venuti a cantar messa. Lui stava in un cantuccio, non era credente».
Quando capì che non sarebbe mai più tornato da Hammamet?
«Subito. Anche se sperava che la salute l’aiutasse a rientrare da uomo libero. Nel ‘99, la malattia era già più forte della sua volontà e ci fu il tentativo d’ottenere la grazia. Andreotti andò da Ciampi, lo trovò disponibile: mio padre era l’unico leader ancora impigliato nella giustizia. Ma chi s’oppose a farlo morire in Italia, fu Borrelli: lo stesso che qualche anno dopo avrebbe chiesto scusa per il disastro di Mani pulite. Chi non l’aiutò a farsi operare in Italia, fu il governo D’Alema: lo stesso che aveva appena concesso l’asilo al leader curdo del Pkk, Ocalan, mettendolo in fuga su un aereo dei servizi. Per questo dicemmo di no, quando ci offrirono i funerali di Stato. Non è un grande Paese, quello che preferisce la forca. Gli Stati Uniti, con Nixon, si sono comportati in modo meno feroce».
L’Italia ha fatto i conti con la memoria di Hammamet?
«Non li ha mai fatti col fascismo, con la Prima repubblica e, immagino, non li farà nemmeno con la Seconda. La morte violenta di mio padre è un tornante della storia e si preferisce non parlarne, come accadde per Aldo Moro».
Violenta? Moro fu ucciso dalle Br...
«L’uno rapito, l’altro esiliato. Con violenza, noi fummo spazzati via tutti. Non è che ci fu una sconfitta elettorale. Fu un golpe. Poi, come dice il mio amico De Gregori, “la Storia dà torto o dà ragione” e i socialisti hanno avuto tante ragioni. Non posso non ricordare i magistrati aguzzini che pressavano i capi d’accusa per prolungare le detenzioni. Io la considero una vera guerra civile, in cui siamo morti tutti. E’ stata un po’ la nostra guerra d’Algeria. Non scomparve solo mio papà: crollò una Repubblica, le vite di milioni di persone furono squassate. Un dramma collettivo. Per noi, poi, il Psi era tutto. Era la casa, s’occupava di noi dalla culla alla tomba. Io non avrei mai conosciuto Scilla, se non ci fosse stato il partito. Quando scomparve una collaboratrice di mio padre, e il Psi non c’era più, qualcuno mi s’avvicinò e mi chiese: dei funerali si può occupare il partito?».
C’è una verità giudiziaria...
«Io non sono negazionista. Se mi vuol dire dell’assessore “che ‘ndentro ‘a roulotte ci alleva i visoni”, per citare De André, questo va da sé. Dico solo che per ripulire un appartamento, hanno buttato giù il palazzo. Era un’onda dovuta al crollo della logica di Yalta. I vincitori della seconda metà del ‘900 finirono nella polvere uno dopo l’altro: Kohl in Germania, Mitterrand che scampò solo perché morì... La politica non ha trovato più pace, dopo la fine dei partiti. E alla fine abbiamo accettato il fatto come una vittoria».
A gennaio, saranno 20 anni dalla morte. I fratelli Craxi celebreranno insieme?
«Non so se sia prevista una reunion. Sono sempre contento di vedere Stefania. Semplicemente, i figli non sono la cassazione storica del pensiero paterno ed è noto che non condivida certe scelte politiche di mia sorella: se pensa di trasferire nostro padre nella destra, commette un falso storico. Lui era eurocritico, non antieuropeo. Tutelava gli interessi nazionali, non era sovranista. Sapeva che le frontiere sono le ferite cucite sulla pelle della Terra. E quando Maria Giovanna Maglie dice che oggi si difendono i confini come Craxi a Sigonella, confondendo i marines della Delta Force con gli africani in mutande, il paragone è sballatissimo. Apprezzo che Giorgetti riscopra Craxi, che Giuseppe Conte vi si paragoni. Berlusconi, da premier, andò sulla sua tomba di notte. Ma quando sento che Salvini forse sarà ad Hammamet, mi sembra inopportuno: questi sovranisti di oggi, sono gli stessi che ieri esibivano il cappio in Parlamento. Quanto alla sinistra ex comunista, non vuole proprio fare i conti con lui».
Dieci anni fa, si discuteva d’una via Craxi a Milano...
«Non amo la toponomastica politica. Milano faccia un gesto, non se ne pentirà. Ricordo Renzi, sindaco di Firenze, che disse no. Ma era molto giovane, aveva il babbo demitiano... Poi da premier scoprì la statura internazionale di mio padre e ne riparlammo».
Sono rientrate le salme dei Savoia: quella di Bettino?
«Ho visto la traslazione di Franco: per quanto doverosi, sono gesti macabri che non m’appassionano. Io amerei tantissimo fare il funeralone che mio padre non ebbe. Abbiamo venti volumi di firme e dediche lasciate al cimitero, da Totti a italiani sconosciuti. A gennaio, spero ci siano i nostri Mille. D’altra parte, lui era Garibaldi: i suoi compagni prendano un barcone al contrario e vengano a trovarlo. Hammamet è la nostra Caprera».
Paolo Bracalini per “il Giornale” il 22 gennaio 2020. Su Repubblica Francesco Merlo psicanalizza le figlie dei leader, partendo da Stefania Craxi per arrivare - tra le altre, ma certamente con un posto speciale - a Marina Berlusconi, «che da tempo porta sulle spalle papà Silvio come Enea portò Anchise». L' amore per il padre - è la tesi dell' editorialista - non rende le figlie osservatrici obiettive bensì, al contrario, «occhiute e cocciute figlie-guardiane» che «rischiano di impedire o solo di rallentare la verità storica su uomini che appartengono all' Italia e non a loro». La primogenita di Silvio Berlusconi, toccata sul vivo, ha replicato con una lettera a Repubblica: «Naturalmente non posso che parlare per me, anche se apprezzo le battaglie di almeno alcune delle donne citate, a cominciare da Stefania Craxi. La cui instancabile attività a tutela della memoria del padre mi pare abbia un ruolo di primo piano nella riconsiderazione del giudizio su Bettino Craxi cui (era ora) stiamo assistendo». E continua: «Perché il punto è proprio questo: è sicuro Merlo che l' amore di una figlia accechi più dell' odio a testa bassa dell' avversario politico? Lo ripeto, sto parlando per me. Ma conoscendo molto da vicino mio padre, l' uomo che è, l' energia e la generosità con cui ha affrontato i problemi del Paese, conoscendo tutto questo ho potuto soppesare bene, senza mi pare eccessive miopie, quanto assurdi fossero e siano gli attacchi contro di lui, quanto lontane dal vero le valutazioni sul suo agire politico, quanto persecutorie e strumentali certe inchieste della magistratura». «È chiaro - prosegue la presidente di Mondadori - Silvio Berlusconi non ha bisogno di me per reagire a queste manovre, lo ha fatto e lo fa continuando a battersi come un leone. Altro che Anchise sulle spalle di Enea! Ma da figlia non posso non ribellarmi di fronte a tanta infamia, a tanta menzogna. E non credo, per usare le parole di Merlo, che il mio comportamento rischi di impedire o solo di rallentare la verità storica. Il desiderio che mi anima è esattamente l' opposto: quello di dare il mio piccolo, piccolissimo contributo perché la verità storica cominci finalmente ad essere letta senza le lenti deformanti del pregiudizio e dell' odio. Devo dire che, al di là delle figlie guardiane, certi giudizi politici mi pare inizino a riscoprire un poco di obiettività, mi pare che a fronte di un desolante presente anche molti avversari inizino a rendersi conto dei meriti di chi da più di vent' anni si impegna per cercare di migliorare le cose in questo Paese. Dopo tanti veleni, sarebbe un bel passo avanti».
Giovanni Terzi per “Libero quotidiano” il 4 febbraio 2020. Amore, questa è la parola chiave, il filo conduttore quando Stefania Craxi parla di suo padre. Un amore naturale tra figlia e padre che però si è strutturato di anno in anno condividendo ogni momento della vita pubblica e privata di Bettino Craxi. Passione, resistenza comprensione sono tre parole che possono solo in parte descrivere il rapporto tra figlia e padre; una vita vissuta in comunione con un popolo, quello socialista, ma soprattutto con una donna, Anna Maria Moncini. Bettino ed Anna si sono sposati nel 1959 ed il loro matrimonio è durato fino alla scomparsa del marito avvenuta il 19 gennaio del 2000 ad Hammamet. Per quarantuno anni si sono amati e hanno cresciuto i loro ragazzi.
Stefania chi era tuo papà, Bettino Craxi, nel privato con i figli?
«Era un padre fantastico! Come nella vita appariva alle persone superficiali come una persona ruvida e burbera, in realtà con questo suo modo di essere nascondeva, e proteggeva la sua grande dolcezza e umanità».
E nel quotidiano?
«Papà era assolutamente inadatto a gestire il quotidiano di una famiglia; questo non significava che ci provasse con autenticità ma quando lo faceva sembrava un elefante in una cristalleria. Mio papà era grande con l' esempio quotidiano».
Vedendo Bettino Craxi uomo pubblico si fa fatica a pensare ad una sua dimensione privata di papà presente...
«Certamente la politica abitava con noi in famiglia in modo quotidiano; io per esempio mi ricordo Il mio quindicesimo compleanno che lo feci al congresso del PSI a Firenze».
Come viveva lei questo?
«Con assoluta normalità; come ho vissuto il mio diciottesimo compleanno al club Turati di Milano o il mio ventunesimo in missione a Washington quando papà era presidente del Consiglio dei Ministri».
Ma banalmente suo padre la seguiva scolasticamente?
«Le racconto solo una cosa: mio padre mi insegnava la Storia d' Italia e mi creda che la raccontava in un modo straordinario; era un grande pedagogo».
Avevate qualche rito assieme?
«Io il sabato sera non uscivo e stavamo sempre tutto assieme nei momenti familiari. Stavamo all' aria aperta perché lui amava stare negli spazi aperti».
Un esempio?
«Un rito che avevamo era quello dei mercatini dell' antiquariato (oggi li chiamano così) ma una volta erano fatti dai rigattieri. La sua meta preferita era il mercatino di Bollate».
E le vacanze estive?
«Dal 1966 andavamo ad Hammamet; mio padre conobbe questa città durante una riunione dell' internazionale socialista e se ne innamorò. Non era semplice per noi come luogo perché da ragazzi si sogna Rimini o Forte dei Marmi, le mete del divertimento , ma andò così».
Il gioco faceva parte della vostra vita?
«Mio padre era un uomo con una fantasia straordinaria e quando arrivavamo ad Hammamet iniziava una meravigliosa caccia al tesoro. Faceva quotidianamente dei bigliettini dove noi aspettavamo un certo Axi (uomo misterioso) per raggiungere il tesoro nascosto. Forse è questo il tesoro di Craxi che si è cercato!».
Quando ha iniziato a seguire suo padre nella vita pubblica?
«Avevo otto anni ed avevo un sacchetto con dentro i "santini" per far ricordare agli elettori di votare per papà; in realtà si votavano tre persone ed erano Nenni, Gangi e Craxi. Noi tutti in famiglia abbiamo sempre compreso che appartenevamo ad una comunità, ad un popolo, quello socialista e questa cosa non ha mai influito negativamente nella nostra vita».
E quando divenne Presidente del Consiglio?
«Ci fu soddisfazione e ammirazione perché il capo della nostra comunità (non semplicemente mio padre) andava a governare il Paese».
Suo padre portava a casa i problemi, c' è qualche momento che ricorda?
«Ricordo papà angosciato durante i cinquantacinque giorni del rapimento di Aldo Moro; lo ricordo leggere e rileggere le lettere del politico democristiano che lui solo, insieme a Fanfani, voleva salvare».
Quale era il rapporto tra suo padre e sua madre?
«Fu sempre un rapporto intenso nato nel 1953. I miei genitori rimasero fidanzati per sei anni per poi sposarsi nel 1959 senza mai abbandonarsi».
Si racconta che suo padre avesse avuto anche altre relazioni...
«Posso dire che era facile sedurre mio padre mentre solo mia mamma è stata capace di tenerlo con una capacità di perdono che sinceramente le invidio».
Le hanno mai raccontato qualche cosa della loro storia d' amore?
«No, esisteva una cosa che peraltro a me piaceva molto nella nostra famiglia: il pudore. Pudore nei sentimenti. Però...».
Però?
«Ultimamente ho trovato delle lettere tra mio padre e mia madre di quando erano fidanzati che fanno capire della profondità del loro amore. Questa la lettera scritta per i ventun anni di mia mamma Anna».
Cara Anna. Allora anche tu sei entrata nel novero delle persone maggiorenni (non tutti diventano maggiorenni a ventun anni, in alcuni soggetti la maturazione psichica e più lenta) e mi figuro come ne sarai terrorizzata. Invece di mirarti nello specchio 250 volte al giorno lo farai per 890 volte e nel bilancio familiare le spese per impiastri (di bellezza) segneranno un forte rialzo. Ma ritornerà a casa il gatto: acqua, sapone e aria fresca! E dopo che ti avrà messo al naturale il gatto ti farà altre cose, questa volta piacevoli. Ho volato per una settimana cinguettando come un fringuello tanto ero felice per la lettera che mi hai scritto... Scrivimi e scusami se ieri sera non ho "raddoppiato" ma ero a mie spese e per la verità mi trovo un po' a corto. Ti bacio Bettino
Il gatto era suo padre?
«Si»
Un grande amore, parole mai banali in altra epoca! Lei sa come si sposarono suo padre e sua madre?
«So che papà arrivò in municipio in tram».
Non le è mai mancato suo padre?
«Forse sì, ma non ricordo perché mia madre è stata sempre straordinaria a coprire tutti i vuoti. Mamma è una donna con doti interiori credo irripetibili. Noi non abbiamo mai vissuto momenti "normali". Negli anni Settanta c' era il terrorismo. Poi ci furono gli anni Ottanta, quelli della Presidenza del Consiglio. Non parliamo degli anni Novanta, quelli di Tangentopoli e Hammamet».
Chi vi rimase vicino nei momenti difficili dell' esilio in Tunisia?
«Tanta gente comune come il portiere della nostra casa in via Foppa a Milano; poi ricordo Caterina Caselli, Lucio Dalla e Maria Luisa Trussardi».
Chi rimase accanto a suo padre negli anni di Hammamet?
«Il compagno quotidiano di mio papà fu il dolore».
Se ci fosse ancora suo padre cosa direbbe a lui?
«Gli spiegherei la differenza tra una bambina di dieci anni ed una ragazzina di sedici».
Stefania Craxi sorride ed è facile comprendere come anche per lei il pudore dei sentimenti prevale sul desiderio di raccontarli oppure, come diceva mia madre, «l' amore nasce nel cuore e muore nelle parole».
L' amore non si racconta, si vive.
"Il film? Ha restituito umanità a mio padre". Stefano Zurlo, Giovedì 09/01/2020, su Il Giornale. Finalmente un film che non è una sentenza di condanna. «Ho ritrovato mio padre, la sua umanità, il suo carattere a tratti scontroso», racconta Stefania Craxi dopo aver visto a casa, lontano da occhi rapaci, Hammamet di Gianni Amelio, da oggi nelle sale. «Naturalmente il regista non ci offre l'affresco storico-politico di un'epoca, per quello ci vorrebbero gli americani o gli inglesi. Ma la tragedia di un uomo che ha fatto tanto per il suo Paese ed è morto lontano da casa, senza poter tornare in Italia, credo che venga fuori bene, molto bene, e faccia riflettere». Le ruvidezze del tratto. Le ansie e le paure. La nostalgia acuta come uno spillo e traditrice come tutti i sentimenti che si accendono all'improvviso per un dettaglio microscopico. Amelio dosa i diversi elementi e compone un quadro che ha radici profonde, anche se la fantasia e gli ingredienti narrativi aggiungono qualcosa o fanno il maquillage alla realtà storica. «All'inizio mi sono trovata spaesata. La prima scena, quella che ricostruisce il congresso del Psi all'Ansaldo, mi pare la meno riuscita. Mio padre sembra più un cumenda milanese, sbrigativo e un po' superficiale nel modo in cui liquida il tesoriere del partito. Fra l'altro Craxi non si e' mai occupato dei conti: non di quelli di casa, figuriamoci del partito. E anche l'interpretazione di Pierfrancesco Favino mi pare un po' sopra le righe, come se avesse una tonalità sbagliata. Ma poi - e Stefania sospira - Favino diventa sempre più aderente all'originale, credibile, anzi di più, nelle movenze, nel timbro della voce, nella tenerezza che fa da contrappunto alla sua scorza rugosa, per esempio nel rapporto con il nipotino. Ancora più sorprendente perché ha la stessa goffaggine di mio figlio Federico, oggi trentaduenne». Siamo lontanissimi dagli stereotipi: dalla cartolina girotondina, tutta gogna e bava alla bocca, o dal ritratto del satrapo in fuga con il suo tesoro. «Era la leggenda che correva a Milano negli anni più bui: si diceva che papà si fosse rubato pure la fontana del castello e se la fosse portata in Tunisia. La scena in cui Bettino litiga con i turisti che gli gridano vergogna è verità pura. Io del resto in questi vent'anni non ho condotto una battaglia familiare, ma di comprensione di quell'esperienza». Silenzio. I segni di una tempesta interiore: «Sì, devo dire che Favino è impressionante: da Oscar e ti conquista sempre di più, scena dopo scena». Ecco Craxi con i pescatori tunisini o mentre aiuta una famiglia povera, respinta all'ingresso dell'ospedale. «Anche quell'episodio - riprende la senatrice di Forza Italia - non è una concessione buonista ma un altro lato di Craxi che la grande eclissi giudiziaria, la colata di carte e condanne e umiliazioni, quante umiliazioni, aveva cancellato». Ci sono le viuzze della Medina e la lettera piccola piccola di D'Alema, senza firma, che provoca una reazione rabbiosa del leader ormai malato; le barche sulla sabbia che per un attimo t'ingannano feroci facendoti pensare alla Versilia di Carrà e le preghiere del muezzin, stranianti come la storia patria, ancora di più se come è successo a chi scrive capita di ascoltarle davanti alla tomba del segretario del Psi. E c'è l'occhio di Craxi proteso oltre la linea dell'orizzonte nel cercare quel che non c'è più: «Mio padre non era cosi granitico come l'hanno confezionato troppo a lungo e mi fa piacere che si recuperino le diverse sfumature della sua personalità. Io invece - e Stefania ride di getto - penso di essere più simpatica di come sono stata raffigurata da Livia Rossi, una vestale devota e diffidente, magari non è cosi. Ma Anita, come mi hanno ribattezzato prendendo a prestito il nome di mia figlia, forse è davvero vicina al mio modo di essere. Al mio ritmo, al mio metronomo». Chissà: «Comunque non mi sono soffermata sulla mia figura e neppure su quella di mio fratello Bobo», che ha una faccia antica. Da album del socialismo ai tempi di Nenni se non di Turati. «Però è vero che Bobo suona meravigliosamente la chitarra come nella sequenza in cui canta Piazza Grande di Dalla nel patio della casa di Hammamet - dove hanno girato diverse scene in primavera - attenuando il peso insostenibile dell'esilio». In Tunisia arriva anche la vecchia amante, Claudia Gerini: «È un'invenzione del copione, diciamo che a Craxi piacevano le donne e che lui piaceva alle donne. Punto». Inutile accanirsi tentando di identificare con chirurgica precisione questa o quella soubrette. E va fuori strada chi si accanisce alla ricerca puntigliosa delle coincidenze fra la storia e la sceneggiatura. «Cossiga volò ad Hammamet, ma qui il personaggio che si presenta in Route El Fawara è la somma, anzi la summa, di diversi generali dello scudo crociato e mi pare incarni certa ipocrisia democristiana. Bisogna rispettare le scelte narrative del regista». E Stefania si sofferma sul bambino che con la fionda colpisce un vetro: «È un capitolo dell'infanzia di papà: lui in val d'Intelvi mirò con successo alle finestre della Casa del Fascio. Ma mi pare che l'apologo vada oltre: Craxi è ancora vivo, il suo spirito non muore». Il piccolo Davide sopravvive al Golia abbattuto da Mani pulite. E Stefania Craxi, la voce incrinata, finalmente si commuove. Stefano Zurlo
· Craxi ed i giornalisti amici.
Maria Giovanna Maglie per Dagospia il 19 gennaio 2020. Fai in tempo appena ad attaccarti al maniglione del taxi che imbocca allegro lo stradone di collina, la sanno a memoria ad Hammamet la strada per la Maison Craxi, che la tua accompagnatrice per la prima volta in visita dice la frase fatidica che ti procura un senso di nausea ogni volta. Ma sarebbe qui la villa principesca? E' che la villa principesca non c'è, c'è una villetta bianca con un giardino incolto e niente vista, una casa modesta di villeggiatura piccolo-medio borghese, come diciamo a Roma, una villetta di Torvaianica. I primi anni ci andavano a spiare i turisti pettuti a caccia del Ladrone, cercavano sul serio la fontana del castello Sforzesco rubata ed espatriata. Oggi ci vive Anna, vedova di Bettino Craxi, imperturbabile icona di dignità e rigore così grandi da sembrare perfino inconsapevoli. La strada che porta a casa Craxi, luogo di tormento ed esilio, trasformata in centro del culto in attesa di verità liberatutti, apre anche il docufilm biografico che Sky trasmette questa sera, ricco di interviste. Per quanto riguarda la mia partecipazione, drasticamente tagliata nelle frasi non innocue, soprattutto quelle sul presente che' del passato ormai si parla disinvoltamente, ma tant'è, tutto serve, tutto si porta alla greppia della giustizia e della verità, rigorosamente scritte minuscole. I celebranti di Hammamet, un migliaio di persone capitanate da molti politici e uno stuolo di giornalisti, accompagnati questi ultimi da una decina più o meno di libri scritti per l'occasione, hanno visto il documentario sabato sera in anteprima nella sala di un hotel di quelli dispersi sul mare tra una palma secca e una sala convegni agghiacciante. Hammamet fuori stagione è un po' peggio e tutta la Tunisia è un po' peggiorata, grazie alla primavera araba e a quel genio di Barack Obama, rispetto alla modernizzazione che Craxi tanto contribuì ad aiutare. Resistono, ma laici non sono più e sono più poveri, però Hammamet un po' di turismo ce l'ha, popolare ma anche di buon livello, e anche questo lo deve al benefattore che l'ha fatta diventare un posto conosciuto del mondo, e in cambio ne ha avuto fino all'ultimo protezione. Sabato mattina alla Medina hanno inaugurato una mostra fotografica dei mesi dell'incarico a Bettino Craxi di commissario delle Nazioni Unite per il debito estero. Mi sono sempre domandata mentre lo seguivo da inviato in quei sei mesi di viaggio se fosse una cosa seria o un modo per trascorrere utilmente e pubblicamente un periodo d'inattività politica insopportabile per il leone. Ero giovane e brutale nei giudizi, però l'ONU era un po' più dignitosa di adesso e a lui il mondo interessava, le idee le aveva, casomai erano troppe e troppo avanti. In psicologia si parla oggi di lateral thinking, la capacità di pensare e dire invece della cosa scontata e banale, che tutti si aspettano e della quale si rassicurano, una cosa disturbante e stimolante. Ecco, roteando gli occhi verso l'esterno e guardandoti obliquamente come fanno I timidi che si sono fatti tanto coraggio, Bettino Craxi era sempre pieno di lateral thinking, spiazzante. Poi, certo, faceva quello che poteva e che gli lasciavano fare. Intorno alla Medina c'è la parte più bella di Hammamet o la meno brutta se preferite, e si arriva al cimitero dove tutti i celebranti del ventesimo anniversario hanno fatto una capatina a guardare la tomba bianca fatta come un libro aperto, il garofano, e quelle parole tremende "la mia libertà equivale alla mia vita", senza aspettare l'omaggio di massa di questa mattina alle 10:30 a conclusione della tre giorni di visite organizzato dalla fondazione Craxi. Che poi "la mia libertà equivale alla mia vita" scritto lì non sta a significare che Bettino Craxi abbia vissuto ad Hammamet per essere libero, purtroppo sta a significare che ad Hammamet per essere libero è andato a morire a 66 anni non ancora compiuti, mutilato della sua capacità di fare qualcosa per la nazione che amava smisuratamente. Ho sempre pensato in questi anni al patriottismo risorgimentale ottocentesco di Craxi, che sempre quando ero giovane e brutale mi sembrava un po' d'antan, e ora capisco che se l'Italia l'avesse coltivato un po' di più quel sentimento, oggi saremmo più saldi e sicuri. La nostalgia, il desiderio del ritorno, sono probabilmente sentimenti ai quali non pensi se sei un libero viaggiatore. Non era così per lui, e l'ultima cosa che mi regalò fu un libricino su Garibaldi a Caprera. Nel pomeriggio di sabato solenne messa in suffragio di un grande laico che però da ragazzino faceva il chierichetto e che firmò un Concordato da presidente del Consiglio. I viaggiatori hanno uno spirito diverso da quello degli anni precedenti, è inutile negarlo, c'è una convinzione diffusa che il sentimento popolare nazionale sia cambiato. Ha voglia Travaglio e il suo Fatto ad accanirsi con la bava alla bocca, ci sono nella storia dei momenti in cui cala all'improvviso o maturanda da tempo una consapevolezza serena, ma in questo caso anche disperata, delle cazzate fatte subite e addirittura entusiasticamente accompagnate. Gli italiani hanno capito che sulla storia di Bettino Craxi non hanno soltanto ammazzato lui, hanno fregato anche se stessi. Così esce un modesto film tutto basato sulle immedesimazione di un personaggio alla Stanislavskij, come ''Hammamet'' di Gianni Amelio con Favino, e lo vanno a vedere, guardano con un sentimento misto di rimorso e rimpianto, o semplicemente di scoperta per chi è abbastanza giovane che non avere la minima idea di quella storia, l'ombra di Banko, e ha pure successo al botteghino. Fioccano libri per l'anniversario e qualcuno reca anche titoli espliciti, come Presunto Colpevole di Marcello Sorgi, e stanno vendendo, 10000 coppie in pochi giorni. C'è quello molto utobiografico di Claudio Martelli, lo storico di Andrea Spiri, l'altro centrato sui comunisti di Fabio Martini, sta arrivando un Filippo Facci tutto sulla ricostruzione delle monetine infami, che poi non erano solo monetine, erano pietre, sassi, mozziconi di sigarette accese ancora, schiacciati sulle mani e sulle braccia di quelli che a Craxi tentarono di fare scudo, dopo aver accettato che tanto dalla porta di servizio non avrebbe mai scelto di uscire, che gli squadristi li avrebbe affrontati. Intervistato copiosamente dal docufilm di Sky, Massimo D'Alema, presidente del Consiglio negli ultimi anni di vita di Craxi, si attribuisce responsabilità zero. Dello statista dice che ebbe meriti, che non combatté la corruzione, che il suo comportamento autorizzò a credere che non di sola opera di finanziamento di partiti si trattasse ma anche di arricchimenti personali, se non suoi di altri. Rispetto a Gherardo Colombo, che parla con la rigidità di un mattinale della Questura e tira fuori un giudizio solo per accusare i media e i giornali della campagna forsennata, come se a ispirare i giornali non fossero stati loro, il glorioso pool dei ragazzi di Mani Pulite , rispetto a Gherardo Colombo, dicevo, Massimo D'Alema articola un po' di più ma certo responsabilità ed errori loro non ne hanno commessi. E, a credergli, le monetine del Raphael furono il prodotto di un'azione del tutto spontanea, non preorganizzata. Non fu dal palco di un comizio nella vicinissima Piazza Navona che Achille Occhetto aizzò la plebe rossa contro il cinghialone che era sfuggito all'autorizzazione a procedere. Ora, anche dall' encomiabile pur se incompleto biopic che stasera vedrete su Sky, viene fuori che questa storia ha bisogno di un epilogo o rischia di sembrare una commedia dell'assurdo. Qualche giorno fa per la strada mi fermò una signora anziana con figlia quarantenne e mi dicono: "dottoressa, lei andrà ad Hammamet per l'anniversario della morte del presidente Craxi? Ne stavamo parlando proprio ora, avevamo tutto e non lo sapevamo ed ora ci è rimasto così poco". C'è tutto in quel "avevamo tutto", e non solo non lo sapevamo ma c'era chi ci sputava sopra come argomento e programma politico, e anche il made in Italy era diventato una metafora orrenda del consumismo, e giù ad inventare austerità che si è trasformata in servaggio di una parte dell'Europa; c'è tutta la chiave, secondo me, del caso Craxi. Una ferita che non venga adeguatamente risanata e cicatrizzata continua a spurgare e marcire, continua a indebolire una democrazia. Bisogna chiuderla a un certo punto. E si chiude dicendo che non si può più parlare degli errori di Bettino Craxi, che sbagliò – se sbagliò – nell'agire come tutti quelli che fanno e che lavorano. La premessa ormai d'uso negli articoli giustificativi: sbagliò ma fui anche un grande, è diventata insopportabile. Cominciamo a parlare di quello che hanno sbagliato quelli che gli hanno fatto la guerra giudiziaria invece che politica, quelli che hanno creduto di farlo fuori attribuendogli responsabilità che erano di tutto il sistema, quelli che si sono inventati una gioiosa macchina da guerra pronta al potere e se la sono presa in saccoccia nel giro di pochi mesi perché sempre prima o poi, purtroppo a volte poi, la realtà si incarica di presentarti il conto. Oggi la realtà è una insopportabile politica di persecuzione e minaccia giudiziaria che avvelena la vita politica, oggi come ieri. Latitante un corno, Craxi usci dal paese col passaporto da uomo libero, entrò in una nazione che lo accolse come rifugiato, si rifiutò di accettare una giustizia che lo aveva condannato senza prove solo perché non poteva non sapere, e invece aveva scelto di lasciare fuori da inchieste e condanne tutta una parte politica non solo altrettanto compromessa col sistema di finanziamento dei partiti in Italia, ma anche pesantemente legata a finanziamenti di Stati stranieri il cui sistema prevedeva l'annichilimento della democrazia, ovvero l'Unione sovietica alla quale si recavano come fonte di nutrimento i Napolitano e i Cervetti. Craxi è un uomo moderno, un contemporaneo, anche se sono passati anni luce dalla sua attività politica e già 20 dalla sua morte. Anticomunista al momento giusto, prima che venisse di moda, grande finanziatore dei movimenti culturali e politici di dissidenza dell'est, osservatore critico delle forme di costituzione dell'Unione Europea tanto da prefigurarne tutti gli orrendi guasti odierni, convinto del ruolo dell'Italia nel Mediterraneo e della necessità di difenderci da un terrorismo che ci aveva già piagato, difensore demonizzato della vita di Aldo Moro, atlantista senza paura che fece installare – nonostante il Partito comunista avesse messo in piedi una mobilitazione continua e permanente – gli euromissili che affrettarono la fine del comunismo sovietico, ma atlantista a schiena dritta che a Sigonella non si oppose agli Stati Uniti che amava e rispettava, ma alla invasione della nostra sovranità, alla pretesa degli sceriffi del mondo di operare e legiferare sul territorio italiano di crimini commessi in territorio italiano. Craxi era un uomo talmente moderno da essere troppo avanti nel tempo, e gli piacevano i leader politici importanti e coraggiosi. Gli piaceva da morire Margaret Thatcher, una volta mi disse: quella è una grande donna, non è figlia né sorella né moglie di nessuno, ha fatto tutto da sola e non ha nessuna paura. Giusto ricordare oggi in quali condizioni fu lasciato a morire Bettino Craxi da un governo che il giorno seguente era pronto a offrirgli funerali di Stato senza vergogna. Giusto lasciare Hammamet ricordando le sue ultime parole. “In questo processo, in questa trama di odio e di menzogne, devo sacrificare la mia vita per le mie idee - scrisse Craxi, poco prima della fine, esattamente 20 anni fa, su un foglio di carta trovato sotto il suo letto di morte -. La sacrifico volentieri. Dopo quello che avete fatto alle mie idee, la mia vita non ha più valore. Sono certo che la storia condannerà i miei assassini. Solo una cosa mi ripugnerebbe: essere riabilitato da coloro che mi uccideranno". Infatti la parola fine a questa storia orribile la deve mettere qualcuno che non partecipò in alcun modo alla congiura e all'assassinio e che oggi senta profondamente che la riforma della vita politica e della giustizia erano e sono il problema che il caso Craxi pose e pone ancora.
Ps: E poi c'è Stefania Craxi, esausta, senza voce, provata dal prezzo altissimo che paga da 20 anni al compito che si è prefissa, non so se giurandolo a un padre vivo o a se stessa sul suo cadavere ancora caldo in quel pomeriggio del 19 gennaio del 2000. Dentro questo ruolo terribile è cresciuta, riuscendo nel compito arduo di prendere per la coda la sua rabbia. Non so se sia mai stata una ragazza capricciosa. Certo oggi è una donna che a suo padre piacerebbe almeno quanto gli piaceva la Thatcher.
Alda D’Eusanio a Peter Gomez: “Gli spot con Craxi? Io e Mentana rifiutammo e ci cacciarono dal Tg2”. Libero Quotidiano l'11 Gennaio 2020. Alda D'Eusanio è stata protagonista dell'intervista di Peter Gomez sul Nove. “Io da sempre vicina a Craxi? Ero di area socialista, ma fui cacciata dalla conduzione del Tg2 perché mi rifiutai di fare degli spot elettorali con l’ex segretario del Psi. Anche Enrico Mentana si rifiutò e anche lui fu cacciato”. La popolare telegiornalista Alda D’Eusanio lo racconta nel programma in onda venerdì 10 gennaio alle 22.45, dei retroscena che risalgono a quando era alla conduzione del Tg della seconda rete di Stato. “Alberto La Volpe mi cacciò dalla conduzione – spiega la conduttrice televisiva – perché rilasciai un’intervista a Maria Latella nella quale affermavo, tra l’altro, che tele-garofano’ era la mia croce”.“Suo marito Gianni Statera era però un sociologo socialista e anche lei aderisce all’area socialista” annota Gomez. “Sì, ma non perché ho sposato mio marito” ribatte la D’Eusanio. “Lei ha più volte dichiarato di non avere mai preso parte a spot elettorali per il Psi né di avere preso tessere di partito. È una stoccata a Giovanni Minoli (ex direttore di Rai2) che partecipò agli spot con Craxi?”, domanda il direttore de ilfattoquotidiano.it. “Non solo a Minoli, ma anche a Lorenza Foschini (volto per tanti anni del Tg2) e tante altre persone. Chiesero a me e a Mentana, lui era il mio vicedirettore, di fare lo spot elettorale per Bettino Craxi e per il partito socialista alle europee del 1987, ma entrambi rifiutammo. Per quel rifiuto e per quell’intervista alla Latella – ripete – cacciarono Mentana, ma anche io pagai, mi cacciarono dalla conduzione”, chiude così l’ex giornalista Rai.
La Confessione (Nove), Alda D’Eusanio a Peter Gomez: “Gli spot con Craxi? Io e Mentana rifiutammo e ci cacciarono dal Tg2”. Il Fatto Quotidiano il 10 gennaio 2020. “Io da sempre vicina a Craxi? Ero di area socialista, ma fui cacciata dalla conduzione del Tg2 perché mi rifiutai di fare degli spot elettorali con l’ex segretario del Psi. Anche Enrico Mentana si rifiutò e anche lui fu cacciato”. La popolare telegiornalista Alda D’Eusanio racconta a ‘La Confessione’ di Peter Gomez, in onda questa sera alle 22.45 sul Nove, dei retroscena che risalgono a quando era alla conduzione del Tg della seconda rete di Stato. “Alberto La Volpe mi cacciò dalla conduzione – spiega la conduttrice televisiva – perché rilasciai un’intervista a Maria Latella nella quale affermavo, tra l’altro, che ”tele-garofano’ era la mia croce'”. “Suo marito Gianni Statera – fedelissimo di Bettino Craxi ndr – era però un sociologo socialista e anche lei aderisce all’area socialista” annota Gomez. “Sì, ma non perché ho sposato mio marito” ribatte la D’Eusanio. “Lei ha più volte dichiarato di non avere mai preso parte a spot elettorali per il Psi né di avere preso tessere di partito. E’ una stoccata a Giovanni Minoli (ex direttore di Rai2) che partecipò agli spot con Craxi?”, domanda il direttore de ilfattoquotidiano.it. “Non solo a Minoli, ma anche a Lorenza Foschini (volto per tanti anni del Tg2) e tante altre persone. Chiesero a me e a Mentana, lui era il mio vicedirettore, di fare lo spot elettorale per Bettino Craxi e per il partito socialista alle europee del 1987, ma entrambi rifiutammo. Per quel rifiuto e per quell’intervista alla Latella – ripete – cacciarono Mentana, ma anche io pagai, mi cacciarono dalla conduzione”, chiosa così l’ex giornalista Rai.
ALDA DOPO I BACI A BETTINO "NON MI FACCIO DA PARTE". Riccardo Luna 9 ottobre 1995 su La Repubblica. Alda, tutta Italia ha riso di lei. "Lo so". Pentita? "E di che?". Proprio di niente? "Di niente". Nemmeno del bacino sull' ernia, che così a Bettino gli passava prima la bua? "Nemmeno del bacino. Io bacio chi mi pare e poi è un mio modo di dire". Al telefono con Alda D' Eusanio. La giornalista il 18 agosto parlava con Craxi ad Hammamet. Gli diceva: "Se mi riesce una cosa, sarò la tua voce". Ora quella telefonata potrebbe costarle la conduzione di Italia in diretta, il programma quotidiano di Raidue previsto dal 23 ottobre: oggi infatti il consiglio di amministrazione dell' azienda decide sul caso. Signora, tutto il Parlamento è unito nel chiedere la sua testa. "E' la prova che non sono la voce di nessuno, ma una seria professionista del servizio pubblico". Non è vero che nessuno la difende: Letizia Moratti, presidente della Rai, è una sua grande amica, no? "In questa vicenda la Moratti è stata semplicemente corretta, mentre altri hanno montato una ignobile speculazione". Una leghista chiede che venga licenziata perché ha usato i telefoni della Rai per chiamare Bettino. "E invece si informino questi onorevoli forcaioli prima di straparlare é Io Craxi l' ho chiamato da casa mia". Insomma, non si fa da parte? "Mi spiace ma il programma resta e la conduttrice anche". Ma oggi il cda istituisce una commissione di inchiesta su di lei. "L' ho sollecitata io perché spero che faccia presto le analisi del sangue ai miei 15 anni di lavoro in Rai". Dicono che questo sia solo un modo per rinviare la partenza del programma di qualche settimana. "Mi dispiacerebbe moltissimo perché non ho fatto nulla di male". Vogliono calmare le acque... "Sarebbe sbagliato, la polemica si stempera solo con i fatti. E i fatti sono la professionalità mia e di tutti quelli che lavorano al programma". Anche quel Filippo Facci che in una telefonata con Craxi gli annunciava alcune ' operazioni' in tv? "No, il contratto di Facci è fermo". Una punizione esemplare? "Ma che ha capito? Il fatto è che Facci doveva lavorare in uno spazio ancora in via di definizione, quello riservato alle vittime sconosciute di errori giudiziari". Beh, Craxi non è proprio ignoto. "Craxi non c' entra. Facci sta preparando un libro con oltre 200 casi di anonime vittime e visto che noi dobbiamo fare 160 puntate...". Come fa ad essere così sicura che le farà, queste 160 puntate? "Perché mi auguro che la verifica sia rapida. Sarebbe davvero una beffa essere danneggiata da Craxi per la seconda volta". La prima quale sarebbe? "Ai tempi fu lui ad epurarmi, confinandomi al Tg2 della notte. E poi furono i suoi uomini a cacciarmi dal tg per un' intervista in cui facevo nomi e cognomi dei craxiani della Rai". Una specie di autodenuncia? "Io non sono craxiana. Gli sono amica, ma non sarò mai la sua voce". Signora, l' ha detto lei... "E no é. Porterò in giudizio chi ha fatto questa operazione. Quelle rese note non sono trascrizioni integrali delle telefonate, ma i brogliacci redatti da un maresciallo di polizia che ha tagliato e cucito come voleva". Scusi, ma che cambia? "In alcune frasi non mi riconosco. Per esempio "sarò la tua voce", non si riferisce alla tv - e infatti il programma mi era già stato affidato due settimane prima - ma ad un libro che sto facendo. Una carrellata di ex potenti della prima repubblica". Visti da vicino? "No, visti ora, alcolizzati o con l' esaurimento nervoso. Uomini di 50 o 60 anni che improvvisamente devono riscoprire la famiglia, provare a farsi accettare dai figli, e imparare a cercare gli amici che li evitano". Craxi l' ha chiamato per il libro? "No, l' ho chiamato come amico. Io ruppi ogni rapporto con lui quando il Psi decise di mandare via Enrico Mentana (è stata la sua fortuna, beato luié). Ma poi siamo tornati amici". Ma se le ha rovinato la carriera. "Non lui, i suoi uomini. E comunque non lo rinnego ora che è vecchio, malato e in difficoltà". Con tutto quel che è successo in questi giorni, lo richiamerebbe? "Sì, e ripeterei ogni frase, anche quella del bacino che ha fatto ridere tutti. Ma io sono così, affettuosa...". Non sospettava che il telefono di un latitante fosse controllato? "Certo che lo sapevamo, e infatti ogni tanto salutavamo il maresciallo. Ma mai avrei immaginato di trovarmi tutto sui giornali". Ha imparato qualcosa? "Non so, ma ora vivo nel terrore di dover cambiare linguaggio. Poco fa mia madre al telefono mi ha detto: Alda, quella cosa te la porta coso". E che era? "Niente, noi abruzzesi parliamo così. Era il timballo per Enzo. Le ho detto: dillo che è un timballo...".
Maurizio Caverzan per ''la Verità'' il 20 gennaio 2020.
Buongiorno signora Alda D' Eusanio, perché non è andata ad Hammamet per il ventennale della morte di Bettino Craxi?
«Per me la tragedia di Hammamet, come la chiamo, è una ferita ancora aperta. Non credo molto nelle visite collettive in occasione degli anniversari. Credo invece che vada fatta un' opera per ristabilire la verità e la giustizia sul caso Craxi, affinché il Paese possa riflettere su ciò che è stato. La fine di Bettino è stata anche la morte di un intero sistema».
«Bettino»: lo chiama spesso così, Alda D' Eusanio, in questa intervista; per sottolineare la prevalenza dell' uomo sullo statista e per esprimere il senso di un' amicizia che ha lasciato un vuoto. Giornalista, moglie del sociologo Gianni Statera, scomparso pochi mesi prima del leader socialista, D' Eusanio è un volto molto noto della televisione italiana. Ha condotto per alcuni anni il Tg2 e poi ideato e condotto diversi programmi di cronaca e attualità, da L' Italia in diretta a Ricomincio da qui, da Al Posto tuo a Qualcosa è cambiato. Grazie all' abitudine a evitare troppe circonlocuzioni, da qualche stagione si è ritagliata uno spazio come opinionista di programmi popolari, soprattutto in Mediaset.
Non è andata ad Hammamet pur essendo amica del leader socialista.
«Ci sono sempre andata e ancora ci andrò, in forma privata. Ero un' amica come lo era mio marito, uno studioso, autore di molti libri, tra i quali uno intitolato Il caso Craxi. Immagine di un presidente».
In che cosa consisteva quest' amicizia?
«Mio marito, che era molto stimato da Craxi, me lo fece conoscere. Ogni 15 giorni o più spesso - dipendeva dai loro impegni - c' invitava a cena all' hotel Raphael. Con il mio carattere privo di formalità ero riuscita a superare le sue diffidenze iniziali. Bettino credeva nell' amicizia».
Pochi lo ricordano così.
«M' infastidisce che quando si parla di lui si citino sempre nani e ballerine. La sua casa era frequentata da politici come Giovanni Spadolini, oltre ai tanti amici socialisti. Il fatto di averla aperta anche a persone del mondo dello spettacolo come Ornella Vanoni, Adriana Asti o Caterina Caselli non ha fatto di lui il capo di un circo».
Come s' intende quando si rispolvera quel binomio?
«La politica spettacolo era già arrivata con Marco Pannella che fu il primo a usare la tv in modo moderno. Anche Sandro Pertini era molto attento alla sua immagine. Bettino non lo è mai stato, era schivo, persino timido».
Non dava questa impressione.
«Invece era così. Non amava i riflettori, il palcoscenico, il lusso».
A differenza del suo amico Silvio Berlusconi?
«Che però allora non faceva politica e si occupava, molto bene, di televisione. Berlusconi era il volto seduttivo del potere, l' esatto opposto di Craxi. Che non era né seduttivo né simpatico».
Ha ragione Claudio Martelli che ha intitolato il suo libro L' Antipatico. Bettino Craxi e la grande coalizione?
«Sì. Non faceva nulla per conquistarsi la simpatia di nessuno. Tutta la sua mente era rivolta alla soluzione dei problemi. L' unico momento di svago era la sera a cena, quando incontrava amici, politici, scrittori o persone dello spettacolo, ma sempre parlando di politica. Ha condotto una vita in un certo senso umile, al Raphael non viveva in un attico sfarzoso come si diceva, erano due stanze piene di libri, giornali e polvere».
Si è parlato a lungo del suo tesoro, conti all' estero, ville, donazioni alle amanti.
«Ancora la storia dell' oro di Dongo? A smentirla basta la sobrietà della vita condotta da lui e dalla sua famiglia. Le case in cui ha vissuto, compresa quella di Hammamet, l' unica di proprietà, erano come quelle due stanze al Raphael».
Ho sentito che lei sostiene sia stato ucciso. Da chi?
«Quando doveva operarsi e si sapeva che la Tunisia non aveva ospedali all' altezza, non gli è stato consentito di tornare in Italia. È stato un modo di ucciderlo. Solo la Tunisia l' ha accolto. François Mitterand disse che non poteva garantirgli la protezione: poteva garantirla ai terroristi assassini di innocenti come Cesare Battisti, ma non a un leader politico. Craxi non voleva sfuggire alla giustizia italiana, ma auspicava l' esercizio di una giustizia giusta, che non agisse come un potere deciso ad azzerare un intero ceto politico».
Martelli sostiene che è stato ucciso da una grande coalizione della finanza internazionale.
«Nessuno credo pensi realmente che il sistema politico e sociale della quinta potenza industriale potesse essere distrutto dal mariuolo Guido Chiesa e dal poliziotto Antonio Di Pietro. Sicuramente c' era un disegno. Martelli è sempre stato lucido nelle sue analisi, era il delfino di Bettino. Che, del resto, a differenza di altri leader, si è sempre circondato di persone di valore, come Rino Formica e Gianni De Michelis».
Non ci sono state anche colpe sue nel compiersi di quella tragedia?
«Eraclito dice che il destino dell' uomo è il suo carattere. Quello di Bettino lo portava a combattere mettendo da parte la prudenza. Non era capace di abbassare la testa per aspettare che passasse l' onda».
Ha visto Hammamet di Gianni Amelio?
«Sì e non mi è piaciuto. Non è né un documento politico né un' operazione verità sui suoi ultimi mesi. Se non ci fosse la bravura di Pierfrancesco Favino È un film che non aggiunge nulla, solo cose sbagliate».
Per esempio?
«Il modo di raccontare la famiglia. Bettino era amato dalla moglie Anna e da Bobo, Stefania lo adorava. Nel film si vede quasi solo lei. Ma la vera infermiera era Anna, che non lo ha mai lasciato mezzo secondo, tranne quando è stata costretta ad andare a Parigi per curarsi. È morto quando si è allontanata, ma nel film è descritta come una donna che guarda la tv. Anche Bobo si era trasferito lì con la famiglia. Quegli ultimi anni sono stati raccontati meglio in Route El Fawara, Hammamet di Gianni Pennacchi».
L' amicizia con Craxi ha aiutato la sua carriera di giornalista?
«Io ero molto critica nei confronti della gestione della Rai del Psi e del Pci. C' è una mia intervista a Maria Latella del Corriere della Sera intitolata: "Telegarofano, la mia croce". Commentandola, Giampaolo Pansa scrisse sull' Espresso: "Attenti a quell' Alda di notte"».
Aveva ragione?
«Faccia lei. Prima di diventare giornalista a 40 anni me ne sono fatta undici di precariato. Poi ho condotto il tg della notte che è quello che ti danno quando non vogliono farti far carriera. Ho cominciato ad avere successo nel 1996 con L' Italia in diretta quando Bettino era ad Hammamet da due anni. La prima conduzione in prima serata l' ho avuta nel 2001, con Al posto tuo, quando sia mio marito che Craxi erano morti».
Alla conduzione del tg delle 20.30 quando arrivò?
«Nel 1995. Fu Clemente Mimun a spostarmi, ma durò pochi mesi perché poi passai a L' Italia in diretta. Poco dopo spuntarono le intercettazioni delle nostre telefonate...».
Che cosa venne fuori?
«Lo chiamavo alla sera con mio marito, sapendo benissimo che eravamo intercettati, per chiedergli come stava e riferirgli lo stato di salute di Vincenzo Muccioli, nostro amico. Lui parlava, si sfogava anche. Io manifestai l' intenzione di scrivere un libro sulla sua vicenda».
Disse: «Sarò la tua voce».
«Il senso era questo: se riuscirò a convincere un editore sarò la tua voce. Si parlava di un libro da scrivere. Un' altra volta in cui raccontava del dolore provocato da un' ernia gli mandai affettuosamente "un bacino sulla bua, che ti passa". Fui messa alla gogna, il mio peccato originale era stato ammettere di essere amica di Bettino Craxi. Lo rivendicai, chiedendo di dimostrarmi dove sbagliavo. Avevo anche rifiutato, come Enrico Mentana, di fare uno spot elettorale».
Gli attacchi non si placarono?
«L' Indipendente di Vittorio Feltri, L' Unità e Norma Rangeri sul Manifesto scrissero le cose più ignominiose. Se Bettino era l' uomo nero io ero una strega. Forse volevano anche colpire mio marito, socialista sopra le parti. Ma avevamo la coscienza a posto, non temevamo l' isolamento di cui fummo oggetto per anni. Quando andavo a mangiare alla mensa della Rai, come mi sedevo tutti si alzavano e restavo sola al tavolo».
Intanto continuava a condurre: come definirebbe la sua televisione?
«Una televisione coraggiosa, che guardava avanti e raccontava le storie delle persone comuni. Non a caso fu copiata da tutti».
Per esempio?
«L' Italia in diretta divenne La vita in diretta, poi Ricomincio da qui, Un pugno o una carezza, Qualcosa è cambiato hanno ispirato tanti programmi di questi anni, le storie e l' infotainment. È stata copiata anche la tecnica dei primissimi piani durante il racconto. Di pomeriggio Al posto tuo batteva Maria De Filippi. Ideavo programmi, ma dopo un anno mi mandavano via».
Perché?
«La libertà e la solitudine si pagano».
Non c' erano anche polemiche per l' uso di attori?
«La tv è fatta dal rapporto tra i telespettatori e il conduttore che tiene il pubblico legato alla storia. Io non recitavo e non facevo recitare, facevo passare i sentimenti, li stimolavo».
Negli ultimi anni è stata opinionista di alcuni reality. Che cosa le piace di questi programmi?
«L' unico reality è stato L' Isola dei Famosi. M' incuriosiva la durezza del format: le situazioni estreme, la sopravvivenza e la convivenza con persone diverse mettono a nudo il carattere delle persone. Poi sono stata opinionista anche per Piero Chiambretti e, a volte, per Barbara D' Urso. È la tv di adesso».
Che cosa guarda da telespettatrice?
«Seguo i programmi d' informazione, da Ballarò a Report a Porta a Porta. E poi Maurizio Crozza, che mi diverte molto».
Tra i politici di oggi chi le fa meno rimpiangere quelli della prima repubblica?
«Tutti me li fanno rimpiangere perché dopo di allora non c' è più stata vera politica. Berlusconi ci ha provato, anche se non era del ramo. Sono politica il Conte 1, il Conte 2 o allearsi prima con un partito e subito dopo con un altro? Lei vede in giro qualcuno che possa lontanamente paragonarsi a Giulio Andreotti, Bettino Craxi o Enrico Berlinguer?».
Filippo Facci per “Libero quotidiano” il 20 gennaio 2020.
Bologna, 20 gennaio 2050 - Di seguito, in occasione del cinquantennale della morte di Bettino Craxi, pubblichiamo l'introduzione del quadrimestrale «Il Mulino» dedicato alla memoria dello statista, curato dallo storico E. Crisafulli. La definizione di Bettino Craxi come «più energica personalità politica degli anni '80 in Italia», da noi sostenuta nel trentennale della morte del 19 gennaio 2030, a molti osservatori apparve troppo condizionata dalle rimozioni di chi, ancora in vita, preferì circoscrivere «l'affare Craxi» con riconoscimenti sbrigativi e avvolti da una sostanziale pietas: ma di ciò, allo storico, non gliene frega niente. In quell' occasione, come pure nel Ventennale del 2020, i giudizi delle forze politico/culturali apparvero ancora schiacciati sul presente e imbarazzati dal passato, anche perché ogni riconoscimento avrebbe implicato un profondo mea culpa che non avrebbe risparmiato la destra e la sinistra (all' unisono) e nondimeno la maggior parte dell'opinione pubblica degli anni Novanta. Il centrodestra, esattamente come la sinistra, liquidò il destino di Craxi a fatto giudiziario, e invocò la galera in piazza: sicché, ancora nel gennaio 2020, i distinguo prudenziali ebbero la meglio, ed esaltarono un Craxi meramente anticomunista che restava comunque un «gigante» rispetto a certi governi successivi; lo stesso Silvio Berlusconi, che come continuatore del craxismo si era già rivelato una ciofeca, in termini politici faticò a spiegare l'azione anticraxiana delle sue televisioni (1992-1994) e a giustificare il suo essersi recato ad Hammamet solo nel giorno dei funerali di Craxi. Per il Partito Democratico (ex Pds ed ex Pci) ogni riconoscimento fu ancora più problematico, tanto che per decenni non vi fu. Questo perché Craxi, anzitutto, fu il primo socialista che dopo Giuseppe Saragat osò sfidare l'egemonia del Pci sulla sinistra: riabilitare Craxi avrebbe insomma significato accoglierlo come padre putativo, avendo egli anticipato ogni visione piddina di almeno vent' anni. Gli storici sanno che il comunista Terracini, solo negli anni '70, riconobbe che Turati aveva avuto ragione nel 1921; e sanno che solo oggi viene data ragione al Saragat del 1947 (scelta filo-occidentale) e al Nenni nel 1956 (quando condannò la repressione sovietica in Ungheria). Per Craxi è più complicato, perché l'elenco di ragioni sue e torti altrui sarebbe stato più imbarazzante. Con lui al governo, la sinistra di Berlinguer perse notoriamente il referendum sulla scala mobile, scelse di non schierarsi con gli Stati Uniti e flirtò, semmai, con i sovietici (che intanto puntavano missili nucleari contro l' Italia) e non volle trattare durante il rapimento di Aldo Moro: questo oltre a rifiutare ogni riformismo, che appunto restava un cavallo di battaglia di Craxi anche se oggi è ritenuto patrimonio della sinistra. Com' è noto, le posizioni del Pci su temi come mercato/imprese/liberalismo avrebbero condotto il Paese a un destino da paese dell' Est; già l' Unità del tardo ottobre 2015, pur senza nominare il leader socialista, pubblicò un intervento dell' 85enne Biagio De Giovanni secondo il quale Berlinguer, oggettivamente, aveva preso delle topiche colossali, tanto che aveva predetto il declino del capitalismo giusto prima «della più grande rivoluzione capitalistica di tutti i tempi», ammise il quotidiano gramsciano. L'«eurocomunismo» berlingueriano, poi, si rivolse ad altri partiti comunisti europei e doveva essere un progetto marxista intermedio al leninismo e al socialismo, ma finì nel nulla, e alla fine non vi fu neppure una vera rottura con l'Unione Sovietica. Lo stesso partito della «questione morale» berlingueriana fu poi spiazzato dalla caduta mondiale del comunismo e riversò ogni risentimento in un'antipolitica primordiale che, a sua volta, non si riversò più in una pulsione rivoluzionaria, ma nel giustizialismo di Mani Pulite.
IN QUEL 2030...Soprattutto dopo il 2030, a seguito degli sforzi del capo dello Stato Giorgia Meloni di riportare la salma di Bettino Craxi in Italia, e dopo che molti protagonisti dell' epoca erano simpaticamente schiattati, la pacificazione si avviò a conclusione e la parola passò infine agli storici: anche se nessuno si ricordava più un cazzo. Da tempo era già nei testi scolastici che durante la guerra fredda i comunisti furono foraggiati da Mosca e da una base finanziaria autoctona (i festival dell' Unità, le cooperative rosse) mentre i democristiani confidavano sugli Usa e su Confindustria, cosicché a Craxi non restarono che i finanziamenti illeciti e le tangenti - con degenerazioni e arricchimenti che non lo riguardarono - e tuttavia la dinamica, condivisa, fu usata scientemente per brandire la questione morale come una clava per liquidare lo statista quale agente patogeno della politica italiana. Oggi ciò è notorio: ma va ricordato che, ancora nel gennaio 2020, alcune minoranze descolarizzate pretendevano di storicizzare la figura di Craxi utilizzando materiale di cancelleria giudiziaria - aveva ancora un suo mercato, culturalmente residuale - il che, oggi, sarebbe come pretendere di storicizzare Gaio Giulio Cesare sulla base delle ruberie di Marco Licinio Crasso, o, ancora, come condannare la figura di Abramo Lincoln perché comprò parte dei voti che posero fine alla schiavitù negli Usa, o giudicare solo come «latitanti» o «condannati» anche Silvio Pellico o Giuseppe Mazzini, con Giuseppe Garibaldi qualificato come «confinato a Caprera». Appare invece evidente, oggi, che Craxi anticipò la cosiddetta Seconda Repubblica a dispetto di ogni inchiesta giudiziaria. Il seme del cambiamento l' aveva piantato lui, come i suoi scritti e la sua azione hanno dimostrato. Dobbiamo a Craxi anche il bipolarismo (Dc e Pci difendevano gli abbracci collusivi tra governo e opposizione) mentre oggi la logica dell' alternanza è pane quotidiano; dobbiamo a lui anche l' elezione diretta del segretario di partito che ai tempi, invece, era denunciata come «deriva plebiscitaria» proprio da chi, poi, cercò di imitare il modello americano delle primarie. I cosiddetti «ragazzi di Berlinguer» furono gli eredi illegittimi del revisionismo craxiano, ma è chiaro che non l' avrebbero mai ammesso, sicché accesero odio sui morti e invidia sociale sui vivi. Rimovendo un passato imbarazzante, e cancellando Craxi, l' intera sinistra rimase senza anima né storia. Fu molto più semplice, per i più, riconoscere che la democrazia italiana doveva essere riconoscente a Craxi per aver restaurato l'autorità dello Stato liberal-democratico, e per aver rivalutato l' immagine dell' Italia sulla scena internazionale, e per aver ripudiato ogni ideologia estremista (di sinistra e di destra) e persino per aver riformato, da laico, i rapporti tra Stato e Chiesa rimasti fermi al Fascismo. Resta invece da elaborare in sede storica - se ne riparlerà per il centenario della morte - il ruolo di Bettino Craxi nel furto della nota Fontana di Piazza Castello (Milano) e soprattutto nel surriscaldamento globale del Pianeta.
· Craxi ed i giornalisti nemici.
La solidarietà del Psi. La vignetta di Natangelo su Craxi è becero squadrismo e ironia di bassa lega. Redazione de Il Riformista il 23 Gennaio 2020. «Si tratta di becero squadrismo e di ironia di bassa lega. A Piero Sansonetti va tutta la nostra solidarietà. È surreale che nessuno, a cominciare dall’Ordine dei Giornalisti, si ponga delle domande su questo tipo di giornalismo, intriso di odio, rancore e fatto di offese e sporca provocazione». Così il segretario del Psi Enzo Maraio ha espresso vicinanza al direttore del Riformista per la vignetta contro di lui firmata dal disegnatore del Fatto quotidiano Natangelo. Sansonetti è diventato oggetto della vignetta, fortemente offensiva, dopo aver criticato – in un editoriale sul Riformista – quella su Craxi pubblicata sulla home page del Fatto sempre a firma Natangelo. «Le idee di Sansonetti sono storicamente anticraxiane. E nonostante ciò – prosegue il segretario del Psi – si è opposto, in solitudine, a un fatto gravissimo e offensivo di tutta la comunità socialista e della famiglia di Bettino Craxi. Si chiama giornalismo». Maraio, pubblicando una vignetta di risposta del Psi, ha aggiunto: «Se Craxi avesse visto la vignetta, anzichè abbassarsi al loro livello, avrebbe risposto con gli strumenti e i simboli della libertà: con un garofano rosso puntato in una pistola. Nonostante la merda sparata da Travaglio, soltanto per provare a vendere più copie», ha concluso.
Ordine dei giornalisti, perché Travaglio è intoccabile? Redazione de Il Riformista il 22 Gennaio 2020. Vi ricordate quella storia della patata bollente? Era un titolo goliardico e, a nostro parere, molto volgare, che campeggiava un paio d’anni fa sulla prima pagina di Libero. Si riferiva alla sindaca Raggi. Secondo la direzione del giornale non era malizioso, voleva solo segnalare che la Raggi era nei guai, per motivi giudiziari e sentimentali. In realtà il doppio senso era indiscutibile, e il riferimento sessuale e anche antifemminista era piuttosto evidente. Noi del Riformista troviamo che sia sempre sbagliato reagire a quelli che consideriamo errori o cadute di stile o – persino – mascalzonate, con le querele, le iniziative della magistratura, le censure dell’Ordine dei giornalisti. E invece il povero Piero Senaldi, direttore responsabile di Libero, si è trovato in mezzo a un sacco di guai, perché la Raggi lo ha querelato, lui è finito sotto processo penale e in più l’Ordine dei giornalisti lo ha censurato e ha respinto il suo ricorso contro la censura. Reprobo, reprobo, reprobo. Vabbè. Ora però una domanda piccola piccola vorremmo porla all’Ordine dei giornalisti: ma l’avete vista la vignetta del Fatto quotidiano on line nella quale si sostiene che Craxi deve mettere la faccia nella merda e tenercela per tutta l’eternità, e stare nudo per tutta l’eternità, e tenersi anche una carota nel sedere perpetuamente? Vi sembra meno volgare e offensiva di quel titolo di Libero? Possiamo sapere se immaginate che il Fatto quotidiano dovrà subire le stesse traversie di Libero, o se invece esiste uno statuto speciale per il quale se un giornale è molto molto amico dei magistrati può avere un trattamento di favore? P.S. Posta questa domanda, aggiungiamo che a nostro giudizio sarebbe invece più logico abolire le censure per tutti, persino per chi fa quelle vignette su Craxi che dimostrano una capacità modestissima di usare il cervello. Per la verità non saremmo neppure molto contrari all’abolizione dell’Ordine dei giornalisti. Ma questa è una discussione seria che è meglio non mescolare con le oscenità infantili del Fatto.
Il Fatto Quotidiano e l’odio di cui si nutre la redazione, qualcuno ha voglia di dire basta? Piero Sansonetti il 21 Gennaio 2020 su Il Riformista. Ieri è apparsa sulla home page del Fatto Quotidiano la vignetta che pubblichiamo qui accanto. La pubblichiamo, sebbene sia una vignetta evidentemente oscena, perché pensiamo che sia bene sapere fino a che punto può arrivare il nuovo corso del giornalismo italiano. Non ho la minima idea di chi sia questo Natangelo. Sarà un ragazzo giovane, spero, che sa poco di politica, che non ha mai conosciuto Craxi, ha letto poco la storia e si è imbevuto delle idee e dei sentimenti che animano la sua redazione. Quali sono le idee? Lo ignoro. I sentimenti? Uno solo: odio. Odio allo stato puro, odio come carburante del giornalismo e del mercato. È un odio speciale. Forse non è neanche esattamente un sentimento, è quasi una teoria. La teoria secondo la quale per fare politica o per vendere i giornali bisogna avere un nemico, e che per avere un nemico occorre odiarlo, e che per odiarlo è giusto stracciare tutti i codici della civiltà, dell’informazione, della conoscenza. Bisogna evitare di darsi limiti. Da diversi giorni il Fatto conduce una campagna di odio – volgarissima – contro Craxi, a firma del direttore e di altri giornalisti. Il suo direttore e altri giornalisti del Fatto sanno poco o niente di Craxi. Si occupano solo di carte bollate, di sentenze, di atti di accusa, di veline di Procure. Son persone così: se chiedi loro qualcosa di Leopardi, probabilmente, ti rispondono che dalle carte dell’epoca risulta che pagava le tasse. Se gli chiedi di Enrico Mattei cadono dalle nuvole. La domanda che faccio è semplice: può sopravvivere a questi indegni livelli di autodegradazione il giornalismo italiano, se non reagisce? Esiste qualcuno che ha voglia di reagire? Ci sono dei giornalisti, anche del Fatto, che hanno voglia di dire: ora basta?
P.S. Quanto mi piacerebbe poter discutere liberamente di Craxi, dei suoi errori, che secondo me – anti-craxiano da sempre – furono molti. Furono i molti errori di un grande statista.
Estratto dell’articolo di Marco Travaglio per “il Fatto quotidiano” il 20 gennaio 2020.
Via Craxi. "(Il sindaco di Hammamet, ndr) ha onorato il ricordo di Bettino a cui la città ha intitolato una brutta strada, una bretella di scorrimento" (Francesco Merlo, Repubblica, 19.1). L' ideale era una tangenziale.
Valori bollati. "Craxi fa parte del nostro patrimonio di valori" (Andre Marcucci, capogruppo Pd al Senato, 20.1). Più che altro, aveva un notevole patrimonio e sarebbe ora che qualcuno lo restituisse.
Il gesto. "Credo che Mattarella farà un gesto" (Stefania Craxi, 19.1). Quello dell' ombrello, si spera.
Percentuali. "Craxi supera Di Maio perfino in popolarità. Su internet è positivo il 42% dei commenti su Bettino contro il 37% di quelli su Gigino" (Renato Farina, Libero, 18.1). Pretende il 5% pure da morto.
Disinteresse. "Posso testimoniare che poche altre volte nella vita ho avuto la fortuna di un' amicizia sincera e disinteressata come quella con Craxi" (Silvio Berlusconi, presidente FI , Tg2 Dossier, 12.1). E stavolta non deve neppure comprarsi il testimone.
Il dilettante. "Io ad Hammamet ci sarei pure andato: serve serenità di giudizio, lui interpretava la modernità. Come partito noi non ci siamo, storicamente all' epoca delle inchieste noi stavamo dall' altra parte, ma dopo vent' anni possiamo dire cosa ci fosse di buono, abbiamo il dovere morale e storico di farlo. Non c' è stato arricchimento personale" (Giancarlo Giorgetti, Lega, In mezz' ora, Rai3, 19.1). Il bottino sui conti in Svizzera nel 1993 era di appena 40 miliardi di lire. Mica 49 milioni di euro.
L'altruista. "Soldi ad antifascisti e anticomunisti. La sua internazionale. Il libro di Martini sulle missioni estere di Craxi" (Mattia Feltri, La Stampa, 16.1). Dunque, vediamo. I soldi agli antifascisti devono essere i 15 miliardi al partigiano Maurizio Raggio, inclusa la Porsche e l'"amica messicana" da 235mila dollari, per combattere in Centromerica, e gli 80 milioni di lire al comandante Bobo per lottare in una villa a Saint Tropez. Invece quelli agli anticomunisti sono senz' altro i 100 milioni al mese alla nota dissidente Anja Pieroni, più casa, albergo, servitù, autista e segretaria.
L'autogolpe. "Il libro dell' ex ministro Martelli. La grande coalizione degli affari che eliminò Craxi" (Corriere della sera, 15.1). Quindi si eliminò da solo.
La santificazione di Craxi e Pansa è un insulto alla Costituzione repubblicana. Paolo Flores d’Arcais il 21 gennaio 2020 su Micro Mega de La Repubblica. La santificazione concomitante e parallela di Bettino Craxi e Giampaolo Pansa segna la vittoria completa di Tangentopoli su Mani Pulite e della Costituzione materiale partitocratico-affaristica sulla Costituzione Repubblicana nata dalla Resistenza antifascista. In realtà la guerra dell’establishment contro la rivoluzione della legalità tentata da Mani Pulite iniziò quasi subito, quando le tv di Berlusconi, che per un momento avevano svolto un ruolo giornalistico con imparziali cronache di onesta informazione sulle vicende giudiziarie che andavano coinvolgendo l’intero gotha politico e imprenditoriale, diventarono le cannoniere mediatiche della neonata “Forza Italia”, con cui il medesimo Berlusconi si impadroniva di parlamento e governo. Non già l’imprenditore al posto dei politici, come pure si vociferò nel servo encomio, ma il fuorilegge dell’etere locupletato a imprenditore monopolistico da quello stesso Craxi, via “legge Mammì”. E tuttavia, quella revanche di Tangentopoli contro Mani Pulite, di cui Berlusconi, con Fini e la Lega utili e ricompensati furbi, fu cavaliere e crociato, trovava ostacoli e resistenze, antagonisti e refrattari. Pane per i suoi denti, insomma. Non nella politica, o comunque sempre meno, poiché la speranza dell’Ulivo di Prodi svanì con la nomina del suo Flick a ministro della Giustizia, la cui prima chanson de geste fu mandare ispettori contro il pool di Borrelli. La speranza da allora sopravvisse come illusione. Ma visse nella società civile che si manifestò e organizzò in modo autonomo, dal popolo dei fax nel maggio 1993 ai Girotondi nel 2002, continuando con “Il popolo viola”, “Se non ora quando” e le manifestazioni contro le leggi bavaglio, avendo sullo sfondo la colonna sonora e visiva delle trasmissioni di Barbato, Biagi, Santoro d’antan (quello di recenti esternazioni è ormai establishment colato), e anche la parte migliore della carta stampata, con “la Repubblica” spesso punta di diamante del giornalismo-giornalismo, e intellettuali che non temevano di mettere a repentaglio notorietà e privilegi prendendo posizione in quelle lotte, e spesso promuovendole, Bobbio, Galante Garrone, Sylos Labini, Pizzorusso, Giolitti, Visalberghi, Laterza, (nel 1994 per l’ineleggibilità di Berlusconi) Camilleri, Tabucchi, Margherita Hack, Dario Fo, Franca Rame...Oggi di tanta passione civile, che nel “Resistere, resistere, resistere!” di Francesco Saverio Borrelli all’inaugurazione dell’anno giudiziario 2002 trovò la sua più alta e quasi unica manifestazione istituzionale, non resta quasi più nulla. E la figlia di Bettino annuncia addirittura che il presidente della Repubblica troverà il modo di mettere il suo sigillo alla santificazione del criminale morto latitante venti anni fa. Perché di questo, secondo l’ordinamento costituzionale, si tratta. Bettino Craxi è stato condannato con sentenze definitive. Sulla base di leggi da lui stesso volute o mantenute, visto che era membro eminentissimo del potere legislativo (oltre che esecutivo). Ma pretendeva che lui e i suoi pari o colleghi, i politici insomma, fossero legibus soluti, potessero violare le leggi che essi stessi facevano e alla cui obbedienza erano invece tenuti i cittadini comuni. E infatti, nel famoso discorso in parlamento del 3 luglio 1992, Craxi non negò affatto, anzi affermò tonitruante, che nel finanziamento dei partiti esistesse “uno stato di cose che suscita la più viva indignazione, legittimando un vero e proprio allarme sociale e ponendo l’urgenza di una rete di contrasto che riesca ad operare con rapidità e con efficacia. I casi sono della più diversa natura, spesso confinano con il racket malavitoso, e talvolta si presentano con caratteri particolarmente odiosi di immoralità e asocialità”.
La sua difesa fu solo che “tutti sanno”. Tutti sanno “che buona parte del finanziamento politico è irregolare o illegale”. Questi “tutti” non sono naturalmente i cittadini, ma i politici, per cui il discorso di Craxi non approda alla sua logica conseguenza, secondo legge e democrazia: se nessuna “possa alzarsi e pronunciare un giuramento in senso contrario a quanto affermo” allora “gran parte del sistema sarebbe un sistema criminale”, e perciò tutti a casa e una nuova classe dirigente. Bensì, contro logica e democrazia: se tutti criminali nessun criminale, e insomma tutti impuniti, legibus soluti, appunto: tarallucci e vino. Craxi, condannato, poteva malato venire a farsi curare in Italia. Anche da detenuto non gli sarebbero certo state negate le cure migliori. Ma Craxi pretendeva di essere al di sopra di quella condanna, di essere al di sopra di ciò che come Potere legislativo aveva statuito, perché risibile era stato il tentativo di negare nel processo che gli addebiti fattuali contestatigli non fossero provati. Craxi fu condannato per una mole di prove, testimonianze, riscontri. Per aver commesso quelli che egli stesso, come potere legislativo, aveva qualificato come crimini. Definire Craxi un criminale acclarato, morto latitante, è semplice descrizione fattuale, se si prende sul serio l’edificio costituzionale che ci rende con-cittadini. Se questa definizione è considerata calunniosa, ingiuriosa, o nel migliore dei casi “obsoleta” e da superare perché divisiva e ingenerosa, è solo perché Mani Pulite (e i pool antimafia) e le macchie di leopardo di magistratura che ancora ne onorano l’esempio, è stato e resta il vero nemico assoluto e l’unica bestia nera dell’establishment (di cui Salvini, che detesta i magistrati-magistrati, è infatti lo Scherano). Chi oggi vuole santificare Craxi, o semplicemente si rassegna a una riabilitazione, nega la validità dell’ordinamento costituzionale che ha portato alla sua condanna, vuole più che mai due giustizie, una per i cittadini comuni e una per i potenti o “eccellenti”. Vuole che la Costituzione materiale, che ha imperversato sempre più a iniziare dal giorno dopo la promulgazione della Costituzione, faccia aggio fino a cancellarla sulla Costituzione repubblicana approvata il 22 dicembre 1947 da una delle migliori Assemblee rappresentative che le democrazie dell’intero pianeta abbiano mai conosciuto nella loro intera storia. Quella Costituzione, che dovrebbe ancora essere la nostra, manifesta quasi ad ogni articolo (tranne il famigerato numero 7) il DNA della Resistenza antifascista e dei suoi valori unitari. La Resistenza antifascista è perciò la fonte storica di legittimità della nostra democrazia, la Grundnorm in senso kelseniano, senza la quale viene meno l’intero edificio giuridico del nostro vivere insieme, dello Stato, della Patria. Contro questa legittimazione storica e morale Pansa ha versato il suo inchiostro da quando ha visto frustrate le sue ambizioni di direzione nel gruppo Repubblica/Espresso (lo adombra con elegante veleno Eugenio Scalfari, con inoppugnabili rimembranze dirette, ricordando Pansa il giorno dopo la morte, ma era vox populi, vox dei). Questo ingaglioffirsi di Pansa ad aedo degli odiatori della Resistenza è stato analizzato e stigmatizzato lucidamente sul sito di MicroMega da Tomaso Montanari, guadagnandosi ovvie sbrodolate d’insulto dal mainstream mediatico, anche con onore di prima pagina, di questi tempi oscuri di revisionismo storico e impalpabilità morale. MicroMega del resto aveva già dettagliatamente ricostruito il carattere falsificatorio e propagandistico dei libri di Pansa contro la Resistenza pubblicando nel gennaio del 2010 un ampio saggio di Angelo d’Orsi. Ne aveva del resto già scritto Sergio Luzzatto sul “Corriere della sera” quattro anni prima [“Perché queste tonnellate di carta copiativa trovano ogni volta un ampio pubblico di lettori, o quanto meno un ampio mercato di acquirenti? … il profilo merceologico del cliente di Pansa coincida con quello del cliente dei volumi di storia di Bruno Vespa (un giornalista che pure, in confronto a Pansa, torreggia come un gigante della storiografia). È un cliente che non sa distinguere fra chi ha credito scientifico e chi non ce l’ha, e per il quale il gesto di comprare un libro prolunga il gesto di fare zapping sul telecomando”], ne aveva puntualmente scritto Giorgio Bocca cui si deve uno dei libri più belli sulla Resistenza, e che prima di scriverne l’aveva fatta, e la lista potrebbe essere per fortuna assai lunga. Una fortuna che riguarda il passato. Oggi di onestà intellettuale e rigore storico rimangono sempre più solo lacerti. E della passione civile che da Mani Pulite fino ai Girotondi e oltre ha preso sul serio la Costituzione repubblicana restano solo casematte di resistenza. Sarebbe bello pensare che le Sardine annuncino un risveglio di democrazia, capace di mettere di nuovo in mora santificazioni di Craxi, Pansa e consimili degenerazioni etico-politiche, e magari addirittura riaprire una stagione di lotte per giustizia-e-libertà. Staremo a vedere, nel senso che per parte nostra faremo il possibile.
Le metamorfosi del craxismo. Questo testo, che mette in luce due Craxi, è stato pubblicato sul terzo numero di MicroMega, nell’autunno del 1986, quando l’onorevole Craxi era Presidente del Consiglio e erano ancora lontani di anni i sospetti sull’esistenza e l’ampiezza di Tangentopoli, che avrebbero rivelato un terzo Craxi. Paolo Flores d'Arcais, da MicroMega 3/1986 ripubblicato su Micro Mega de La Repubblica il 20 gennaio 2020.
Prologo. Craxi, da dieci anni, è oggetto di polemiche quasi sempre fuori misura. Pure, il craxismo è novità d troppo rilievo per abbandonarlo ai toni rissosi, e in conclusione frivoli, della chiacchiera da trattoria {o da salotto buono). Il craxismo, infatti, è la politica egemone in Italia per un'intera fase, quella successiva al crepuscolo del '68 e al dileguare della stagione dei movimenti. Egemone, la politica di Craxi, esatta· mente come furono egemoni la politica di De Gasperi prima e di Moro poi. Sul craxismo, le sue caratteristiche, le sue metamorfosi, il suo futuro, è perciò tempo di indagini e bilanci meno approssimativi. Sine ira et studio, per il possibile. Al Midas hotel, dieci anni or sono, non si consuma semplicemente un mutamento di segreteria ai vertici del Psi. Palese la distanza di personalità e stile, naturalmente. Dignitosa cultura accademica sul versante demartiniano, ma il politico appare fiacco e rassegnato, fino alla subalternità. Apprendistato vissuto tutto nel chiostro degli apparati, quello di Bettino Craxi, ma l'uomo, energico fino all'arroganza, esprime al meno una certezza: che le circostanze politiche, malgrado ogni apparenza, schiudano ai socialisti italiani un destino da protagonisti. All'epoca, pare ai più una stravaganza. Si tratta, invece, di un'intuizione ad alto tasso di realismo. Che viene immediatamente articolata in un disegno politico dettagliato, inedito, coerente. Gli osservatori esercitano mediocri talenti analitici sulla rapidità della manovra craxiana all'interno del Psi, in virtù della quale il nuovo segretario si rende padron e del partito, ma l'essenziale sta altrove. Vediamo.
Il craxismo come progetto per porre fine all'anomalìa del "caso italiano". Craxi non si rassegna all'anomalìa del «caso italiano» e intende porvi fine, avvicinando il paese alla normalità europea, dove in politica si alternano al governo destra e sinistra, chiare maggioranze conservatrici ed altrettanto autosufficienti maggioranze «progressiste». L'essenziale del craxismo è tutto qui, e suona inammissibile eresia a fronte dei consolidati riti della mediazione e del trasformismo nazionale. L'Italia, a quasi quarant'anni dalla fine della guerra, resta l'unico paese del vecchio continente dove un governo della sola sinistra (e dell'intera sinistra) non si annunci neppure nell'orizzonte degli ipotizzabili. Bizzarra eccezione, che Craxi non intende subire. Nessun destino cinico e baro, però. La sinistra italiana è anche l'unica, infatti, a persistente egemonia comunista, e «riformista» è aggettivo screditato, adibito allo scherno e all'insulto. Si tratterà, allora, di ribaltare radicalmente la situazione. L'alternativa di sinistra, che diviene il dichiarato obiettivo del nuovo Psi, si legittima, del resto, quale strumento per un programma che risponda alle inevase domande del paese in termini di equità ed efficienza. Il «caso italiano», infatti, se sotto il profilo politico si chiama ininterrotto dominio democristiano, conosce poi, quale risvolto civile, una amministrazione pubblica di rara inefficienza, sprezzante verso il cittadino, oscillante tra spreco e corruzione. Sovrano disprezzo per i meriti e i bisogni, si dirà poi. Lo Stato democristiano tutela solo interessi e valori capaci di procurarsi «santi in paradiso» e altre protezioni. L'orizzonte è quello d'un divario crescente fra i valori della Costituzione e la pratica materialmente vigente. L’ethos dominante è informato alle regole dell'arte di arrangiarsi piuttosto che al criterio della certezza del diritto e della buona amministrazione, e (come osserverà Norberto Bobbio) vera Grundnorm è il manuale Cencelli per la lottizzazione.
Un conflitto su due fronti. Perché il Psi abbia un futuro, dunque, le ostilità vanno aperte su due fronti: contro la Dc, responsabile di una mancata modernizzazione a carattere europeo, e verso il Pci responsabile, per dottrina e prassi ancora estranee alla sinistra occidentale, del congelamento di un terzo dell'elettorato. Per sbloccare la situazione, tuttavia (altra intuizione decisiva), non può bastare un programma riformista coerente (e la corrispondenza dei fatti alle parole): è ineludibile anche una «grande riforma» delle regole elettorali e dei meccanismi istituzionali. Le norme esistenti garantiscono assoluta proporzionalità nella rappresentanza parlamentare (il parlamento «specchio fedele del paese» caro a Togliatti), ma sottraggono al cittadino la scelta fra definite maggioranze di governo (e quindi di programma), poiché impongono il for marsi di una coalizione «al centro» e un quotidiano commercio sotto banco con le opposizioni, pena lo stallo. Ciascuno diviene titolare, in dosi più o meno massicce, di un autentico diritto di veto. Si governa mediando, e ancor più procrastinando, tra compromesso e consociazione, un «tirare a campare» governativo di cui Moro sarà massima espressione. Il cittadino, rappresentato fedelmente, conta sempre meno. L'anticomunismo del nuovo gruppo dirigente socialista è di solida tempra ma, soprattutto, esce fuori dagli schemi ordinari. Viene combattuto il carattere rivoluzionario e insieme conservatore della cultura comunista, prima ancora che Berlinguer lo teorizzi. Di più. Viene messo a fuoco l'essenziale: la cultura dell'attesa «millenaria», che disprezza il finito delle riforme in nome dell'infinito della rivoluzione, consente i più mediocri compromessi con l'esistente. Lo zucchero di una obsoleta filosofia della storia, quale risarcimento nell'immaginario per la rinuncia a trasformare e progredire hic et nunc, è l'ideologia che tiene insieme i militanti comunisti e unito il suo gruppo dirigente. Il centralismo democratico ne rappresenta la proiezione procedurale.
Ma tutto ciò, per la sinistra, vuoi dire paralisi. Craxi avverte, tuttavia, che la questione «partito» riguarda anche il Psi, frantumato nel caleidoscopio di correnti, cordate, personalismi, e cementato poi dalla mentalità (subalterna per logica intrinseca) del «partito degli assessori». Questa struttura umilia e respinge le energie migliori, intellettuali, sindacali, imprenditoriali, morali infine, di ampi settori della società civile che nel Psi potrebbero trovare il luogo «naturale» di impegno politico. Di qui l'ipotesi di un proliferare di club, l'idea stessa di una «area socialista» addirittura privilegiata rispetto al partito, di qui l'insistenza (autolesionista solo in apparenza) perché l'intellettuale e il militante pratichino la virtù della disorganicità.
La sfida riformista e il tramonto dell'egemonìa comunista. Proponimenti ambiziosi, quelli sommariamente richiamati. Senza i quali tuttavia - si faccia attenzione - non si sarebbe parlato di craxismo. In primo luogo, il nuovo gruppo dirigente socialista fa proprio solennemente il «progetto» elaborato dagli intellettuali giolittiani, radicale e realistico, capace di offrire concretezza ai valori della più seria (ancorché marginale) tradizione della sinistra italiana: quella azionista. Allo stesso tempo, mentre ribadisce la necessità e il dovere di una sinistra che governi e si sostituisca alla Dc nella guida del paese, il nuovo Psi demolisce l'egemonia culturale comunista. Il craxismo si annuncia, insomma, quale sfida riformista. Duplice sfida, abbiamo visto. «Con il 10% si può fare molto» non è, all'epoca, solo affermazione arrogante di una consapevole superiorità nella manovra tattica. Esprime, all'epoca, anche l'ipotesi che il riformismo possa rivelarsi vincente contro il Pci e contro la Dc, possa aggredire, scomporre, rimescolare le tradizionali forme di consenso. Si tratterà, nei confronti di una parte almeno dell'elettorato moderato (quella «moderna», «produttiva», meno legata a clientelismo e confessionalismo), di mostrare che il riformismo offre chances superiori anche in tema di efficienza e di sviluppo. Di modernizzazione capitalistica, insomma. Anzi: che solo il riformismo è in grado di inserire il paese a pieno titolo nel contesto occidentale europeo, superando stratificate ragioni di arretratezza economica e civile. Si tratterà, sul versante della base comunista, di dimostrare come solo la scelta riformista costituisca un'alternativa praticabile al regime democristiano. E non già in termini di tattica, schieramenti, occupazione di stanza dei bottoni, ma di effettiva promozione del benessere, delle libertà, del potere di quanti lavorano, sono emarginati, risultano comunque deprivilegiati. Si tratterà di dimostrare, insomma, che l'unica rivoluzione possibile è la prosa delle riforme realizzabili, e che essa merita largamente il sacrificio dell'ambiguo sogno rivoluzionario.
La coerenza del riformismo per realizzare la seconda Repubblica. Inquietante per gli avversari, che all'inizio ne hanno sottovalutato la portata, questa strategia craxiana, benché arrischiata, può essere vincente. Ad una condizione: che il suo referente resti quell'ipotetica e virtuale nuova aggregazione di consensi da suscitare giorno per giorno con la coerenza del riformismo. Abbassare il tiro, concedere al piccolo cabotaggio, vorrebbe dire restare invischiati nella mera redistribuzione partitocratica della rappresentanza. Di un consenso, cioè, sempre più stanco, disaffezionalo, espresso ai partiti tradizionali faute de mieux, funzionale a immobilismi e consociazioni, nel cui quadro il Psi è irrimediabilmente perdente. Sotto questo profilo, fin dalle origini, il craxismo esprime l'esigenza di una seconda repubblica. Proprio per questo, del resto, abbiano indicato in Craxi il protagonista della politica italiana dell'intero perio do successivo al '68. Proviamo a chiarire. La resistenza antifascista, purtroppo, è stata un fatto di ristrette élites. In chiave democratica, di ethos e istituzioni, i partiti sono nell'immediato dopoguerra «Un passo più avanti» rispetto alla gente. Con la modernizzazione economica e civile del paese (cui grandemente concorrono i partiti di sinistra all'opposizione) lo scarto viene colmato e la situazione tende a rovesciarsi. Gli esiti deludenti del centrosinistra chiudono questo primo ciclo. I movimenti - non solo quello studentesco del '68 e quello operaio dell'autunno caldo e dei consigli, ma anche quello per i diritti civili promosso a più riprese dai radicali - esprimono disagio per la crescente estraneità e chiusura dei partiti macchine e manifestano evidenti istanze di cittadinanza. L'acquisita maturità democratica esige vita politica attiva. Una seconda repubblica, più democratica «più repubblica», appunto (e meno partitocratica). Riprendiamo il filo. Abbiamo richiamato gli intendimenti del craxismo e la coerenza dei suoi inizi. All'epoca il craxismo viene giudicato politica irresponsabile, destabilizzante, avventurista. I più benevoli si domandano se tanto «estremismo» non sia solo astuzia tattica transitoria. Specchietto per le allodole, insomma. Sospettare delle dichiarazioni dei politici è sempre lecito, beninteso. Almeno altrettanto lecito, tuttavia, prenderne sul serio le parole e gli ambiziosi programmi e farne anzi criterio e banco di prova su cui saggiarne la prassi. Tanto più che, nella fattispecie, proprio la coerenza del riformismo costituisce l'ingrediente decisivo della razionalità, credibilità, realismo del nuovo gruppo dirigente socialista.
Il circolo vizioso della governabilità. Veniamo, con ciò, al craxismo «seconda maniera». E asserviamone metamorfosi e continuità sospendendo il giudizio di valore, con sguardo da entomologo. Nel 1981 Craxi riporta il Psi al governo. Ma, si badi, in nome della continuità con la strategia in precedenza affermata. Questo è il ragionamento: per l'alternativa (fatta astrazione dai «ritardi» comunisti) mancano comunque i numeri in parlamento. Un'anticipazione sulla via che all'alternativa conduce può, intanto, essere costituita dalla «alternanza». Si tratta di incalzare la Dc sul suo terreno di elezione, il governo, affermando nella pratica il venir meno di ogni subalternità. Con la «pari dignità» (e il pari potere ministeriale) prima, e con la presidenza socialista poi. Craxi rovescia sulla Dc l'accusa di non garantire stabilità, e si fa pa· ladino della governabilità. Con due stringenti conseguenze. Che il Psi dovrà essere governativo a tutti i costi e dovrà, in modo altrettanto ineludibile, garantirsi egemonia all'interno del governo. Rispetto a questi due imperativi, nessun cedimento, nessuna libertà di manovra (malgrado le apparenze) è concessa. Il pentapartito diviene l'unica formula praticabile. Ad essa è ora condannato Craxi, più e prima di De Mita, benché sia quest'ultimo a reclamare superflue professioni di fede sul carattere «strategico» del pentapartito medesimo. Il carattere «corsaro» di tante iniziative socialiste nasce da qui. Dentro la camicia di Nesso del pentapartito i socialisti, per non riprodurre antiche e vituperate (a ragione) subalternità, devono ricorrere alla «guerriglia» permanente contro le velleità democristiane di rivincita (confortate dai numeri, oltre tutto). E sfruttare a fondo, con micidiale spregiudicatezza, la rendita di posizione che deriva loro da una collocazione di frontiera. I democristiani, quasi avessero da sempre praticato il fair play, grida no allo scandalo del «ricatto». Si tratta, invece, dell'intima logica di un «superpartito» di governo con due aspiranti alla leadership, nessuno dei quali può rinunciare, pena il crepuscolo politico. Momento tattico in vista dell'alternativa, il pentapartito diviene per i socialisti un cul de sac. E infatti. Risibile la minaccia di rovesciare le alleanze. Un accordo col Pci priverebbe Craxi delle vaste simpatie moderate che potrebbero domani trasformarsi in voti, e le restituirebbe alla più stretta osservanza demo· cristiana. (Risibile, reciprocamente, ogni velleità dc di aprire ai comunisti, scavalcando i socialisti. Sarebbe, per Craxi, il più opulento dei doni). Resta il ricorso alle elezioni anticipate. O la speranza di più favorevoli rapporti di forza nella prossima legislatura. Ma i dilemmi, in un quadro di esacerbata rissosità, resterebbero i medesimi. Fino a che il Pci resta il primo partito della sinistra, il Psi può sceglierlo per alleato solo collocandosi all'opposizione. Una collocazione di entrambi al governo esige preliminarmente un Psi superiore al Pci per risultato elettorale. Fin quando, almeno, ci si comporterà col Pci secondo la logica degli esami che non finiscono mai. Una volta finiti quegli esami, però, la rendita di posizione socialista dileguerebbe, poiché anche la Dc sarebbe legittimata al giro di valzer con i comunisti. Paradossalmente, tuttavia, il craxismo può vantare il più clamoroso e inedito dei successi. Craxi è oggi, infatti, non solo il capo del governo ma anche, e contemporaneamente, il capo effettivo dell'opposizione. Se i democristiani si mostrano incapaci a contrastarne l'iniziativa, i comunisti giocano di rimessa (o non giocano affatto), avendolo come solo punto di riferimento. Dal punto di vista scacchistico, Craxi li ha pressoché paralizzati entrambi. In compenso, si governa poco (e male) e non ci si oppone affatto. Paralizzate risultano, in altri termini, le due funzioni essenziali della democrazia occidentale.
Il riformismo senza riforme, surrogato dell'alternativa. Il punto è un altro. Vincere a scacchi in politica non basta, se si tratti d'una politica di riforme. Quali che siano i successi, l'attuale corso craxiano costituisce un simulacro e un surrogato della politica di alternativa. Il susseguirsi dei colpi di scena (e di qualche colpo basso}, il privilegio accordato alla politica in chiave di spettacolo, diventano ingredienti obbligati, poiché si tratta di sostituire, col luccichio delle apparenze, la cosa stessa. Il criterio del successo non può essere assunto come decisivo. Se il risultato del craxismo dovesse ridursi alla sostituzione della Dc con il Psi quale partito «centrale», nel permanere di pratiche, comportamenti, politiche dei decenni trascorsi, il bilancio evidenzierebbe un mero episodio di trasformismo patrio. È invece in termini di riformismo, abbiamo visto, che i dieci anni della segreteria Craxi, e i tre anni di presidenza del governo, vanno giudicati. Bilancio magro. I due provvedimenti governativi che più hanno inciso (e incideranno ancora a lungo) nella vita concreta del paese, restano il nuovo Concordato (arretratissimo) e la legalizzazione degli abusi edilizi (un autentico scandalo). Oltre a qualche timida innovazione fiscale, dovuta soprattutto all'iniziativa del ministro Visentini. Parlare di surrogato e simulacro può sembrare eccessivo. Stiamo ai fatti. La riforma dei codici di procedura penale, il rinnovamento del processo civile, la riforma delle carceri, restano nei cassetti. Tutto fermo, insomma, nel pianeta Giustizia, malgrado l'urgenza da tutti riconosciuta. A surrogato, tre referendum di lega dubbia, uno dei qua li, certamente, lesivo dell'autonomia dei magistrati e capace, qualora venisse approvato, di sollecitare pericolosi conformismi. Nessuna azione sul terreno dell'istruzione scolastica, benché lo scadi mento abbia raggiunto livelli di guardia per un paese che intenda restare nel «primo mondo». A compenso, confusi accenni di privatizzazione (è la confusione che preoccupa, soprattutto) buoni solo a stringere sodalizio con Comunione e liberazione. Nulla in fatto di alloggi, sanità, ambiente (il decreto Galasso resta merito esclusivo del sottosegretario che gli ha dato il nome). E per quanto riguarda l'energia, una conversione tardiva (sempre benvenuta) al rifiuto del nucleare, che impegna soprattutto a rompere il patto di «staffetta» con la Dc, piuttosto che a precisare un alternativo piano energetico da parte del governo. Di trasformare il partito non si parla più, confermando il sospetto che la scelta della governabilità celasse non solo spirito di servizio verso gli interessi generali del paese ma anche, più prosaicamente, l'incapacità del Psi, pur nella nuova versione, di reggere a lungo fuori del governo. Una resa al «partito degli assessori», insomma. Invece di puntare alla leadership dell'opposizione, rovesciando all'in terno di essa l'egemonia comunista e rendendo per questa via plausi bile un governo di alternativa (è quanto accade in Francia e Spagna), Craxi decide per la rendita di posizione, punta tutto sul ruolo di ago della bilancia di un sistema immobilistico. Poteva replicare Mitterrand e Gonzales. Preferisce Ghino di Tacco. Lucra sui difetti dell'attuale sistema politico, ma in tal modo li perpetua e se ne fa garante. Né vale l'obiezione che il modello francese e spagnolo fosse irripetibile. Non di un modello si tratta, infatti. L'alternativa di sinistra si realizza, in quei paesi, sotto condizioni diversissime. Un terzo episodio, nelle inedite circostanze italiane, non era perciò affatto da escludere. Semplicemente: non è stato tentato.
La rinuncia alla trasformazione istituzionale. Ma soprattutto: della Grande riforma elettorale e istituzionale dilegua anche il ricordo. Resta un topolino: l'abrogazione del voto segreto in parlamento, contro il malcostume dei franchi tiratori. Effettivo malcostume, e censurabilissimo, ma anche ultima e pallida (benché distorta) garanzia dell'indipendenza del deputato rispetto al proprio partito. Le misure previste, da sole, rendono trasparente il comportamento degli onorevoli allo sguardo vigile delle segreterie, più che al controllo del cittadino, e annientano la speranza che il deputato torni ad essere il rappresentante della Nazione (secondo l'articolo della Costituzione). La rinuncia alla Grande riforma costituisce la metamorfosi più grave - vera e propria svolta riassuntiva degli altri cedimenti - dell'originario riformismo craxiano. Resta in piedi, e si perpetua, il «caso italiano», inteso in tutta la sua negatività. Quale luogo geometrico dell'inefficienza amministrativa (dal fisco agli ospedali, e via enumerando), della illegalità a macchia d'olio, della eclissi del cittadino. Intere zone del paese obbediscono a quel vero e proprio ordinamento «giuridico» (così Kelsen) rappresentato da una criminalità organizzata capace non solo di far rispettare la propria «legge» ma anche dì ottenere consensi di massa (oltre che complicità nei partiti e negli organismi pubblici). Uno Stato nello Stato, insomma, con il quale lo Stato tout court, in mano ai partiti, sembra rassegnato a convivere, benché mafia e camorra rappresentino un'emergenza e una sfida di gran lunga più pericolosa di ogni terrorismo. Del resto, quale possibilità di lotta contro la criminalità se i partiti che governano (compreso il governo delle autonomie locali), a fronte del taglieggiamento mafioso su gioco d'azzardo, droga, appalti e commercio, vantano il taglieggiamento da tangente, a tariffe pubblicamente note, più trasparenti delle quotazioni in borsa? E non si parli di moralismo e di demagogia. Perfino il verbiage sociologico del Censis, apologetico cantore delle magnifiche sorti del «sommerso» (in lingua volgare: imprenditori che non pagano tasse e sfruttano lavoro nero), scopre la questione moral e. Parla di decine di migliaia di amministratori pubblici dediti alla tangente, denuncia l'incalcolabile inefficienza, gli sprechi, l'altissimo danno economico, insomma, della violazione del Codice in nome della «ragion di partito». Panorama levantino, eterna Italia dei «furbi» e dei sudditi, altro che avvicinamento all'Europa. La partitocrazia sottrae al cittadino la politica e, insieme, lo addestra alla irrisione della legalità. In nome, magari, di «legge e ordine».
Tra rendita di posizione e rinascita del cittadino. Amara la conclusione. Il Partito socialista sembra aver rinunciato a quelle novità che potevano renderlo protagonista. A farsi promotore di una seconda repubblica fondata sulla rinascita del cittadino e sull’equità sociale. Fuori di tale prospettiva, resta altamente problematica la possibilità stessa di rimescolare l'attuale - stabile e stagnante - ripartizione della rappresentanza. Solo privilegiando il cittadino e ridimensionando il potere dei «padroni della politica», infatti, possono mutare in profondità anche i rapporti di forza fra i partiti e le relative quote elettorali. Proprio per questo abbiamo parlato, a proposito del l'originario progetto craxiano, di razionalità e di realismo. Conclusione amara, perciò. Ma davvero definitiva? In queste settimane le mosse «Corsare» da parte socialista si vanno moltiplicando e non è detto che non preludano ad un congedo dalla formula di pentapartito. Così come si vanno moltiplicando i segnali di un possibile dialogo con il Pci. Sia chiaro, tuttavia, che la scelta fra riformismo e immobilismo non si gioca in termini di schieramento e che l'incontro fra socialisti e comunisti non mette affatto al riparo - di per sé - dal rischio di un profilo basso di accordi (parziali e non} che pur maturassero. Tanto basta, comunque, per riconoscere come il craxismo sia, oggi, esperienza dagli esiti ancora aperti. A suo merito, probabilmente irreversibile, può vantare una vera e propria «rottura epistemologica»: il declino della Dc quale obbligato centro di gravità degli equilibri politici. Poiché il risultato è stato ottenuto in assenza di un impegno riformatore, in forza di abilità tattica e dì superiorità nella manovra politica «pura», il destino del craxismo sì gioca tutto nella prossima legislatura e in questi mesi che la preparano. Conta poco, infatti, che cambino le élites, gli uomini nelle stanze dei bottoni, il partito che occupa il «centro», se il gioco rimane lo stesso e i cittadini continuano a restarne esclusi, spettatori apatici la cui disaffezione ed estraneità viene magari spacciata per consenso. E perfino un radicale mutamento di alleanze, una ritrovata unità a sinistra, non garantisce affatto dal pericolo della deriva conservatrice, priva di energia riformatrice, interna alla logica della attuale Repubblica dei partiti, incapace di por mano alla indilazionabile opera di rifondazione tanto della Repubblica che della sinistra. Quest'ultima non è affatto immune da mentalità e vizi tipici della sindrome dorotea. Si tratterà di vedere quale sarà la scelta strategica del craxismo in questo scorcio di legislatura. E se l'interlocutore resterà, come oggi, il «Palazzo» con i margini di potere che offre ancora alle mediocri ambizioni di un Psi dedito a sfruttare una rendita di posizione, o se l'interlocutore privilegiato verrà cercato fuori, nella gente, sulla base di un programma e di uomini credibili e affidabili (anche moralmente) per realizzarlo con coerenza. Solo questo secondo scenario consente la speranza, del resto, che venga spezzato l'incantesimo del 10% e che il Psi possa aspirare, anche numericamente, a un destino di socialismo europeo. In tal caso sarà possibile riconoscere fondatezza alla tesi (oggi benevola e ottimistica) che vuole considerare parentesi tattica, nella complessiva vicenda del craxismo, la prassi deludente e rinunciataria di questi tre anni di governo. Non si tratta di «tornare al Midas», quasi che dieci anni non avessero lasciato il segno. Ma certamente di aggiornare sotto il profilo programmatico proprio l'ispirazione ideale e le intuizioni che nei giorni successivi al Midas caratterizzano il nuovo Psi e costituiscono non solo l'originalità del craxismo ma la sua razionalità. Non pochi fra i più accesi tifosi attuali di Craxi lo bollarono allora quale destabilizzatore in preda a irresponsabili farneticazioni «libertarie». Ma è semplice lucidità, a dieci anni di distanza, ritenere che di quel progetto, di quelle riforme (anche se non sempre di quegli uomini), la democrazia italiana continui ad avere bisogno. Le ragioni della sinistra, come ragioni di un riformismo coerente, restano più che mai all'ordine del giorno, per una seconda Repubblica dei cittadini.
· Craxi ed il finanziamento della Politica.
Da Mario Chiesa alle assoluzioni e ai 45 suicidi: Mani pulite e la scomparsa dei partiti. Tiziana Maiolo de Il Riformista il 18 Febbraio 2020. Quella sera a Milano. “Hanno arrestato Mario Chiesa”. “E chi è?”. E’ il 17 febbraio del 1992, il consiglio comunale è riunito – da un mese è caduta la giunta “rossa” e gli eredi del Pci non torneranno più a Palazzo Marino fino al 2011 – e la tensione è molto alta perché il Tar ha annullato 400 nomine sia di municipalizzate che di società per azioni quali Sea (aeroporti), Mm (metropolitane) e Sogemi (mercati generali). La situazione è paradossale perché il ricorso al Tar era stato presentato dai democristiani quando erano all’opposizione e oggi sono in imbarazzo per aver innescato una slavina che danneggia la giunta di cui loro ormai fanno parte. Mentre la sinistra del Pci-Pds che era stata compartecipe di quelle nomine è agitata perché non vorrebbe perderle. Quattrocento “clientes” disoccupati all’improvviso sarebbero una bella pugnalata. Per questo quella sera a Milano il clima politico era caldo, quando d’improvviso qualcuno lanciò la bomba in mezzo al consiglio comunale. Toccò a un uomo dell’opposizione, Tomaso Staiti di Cuddia, parlamentare del Msi, chiedere la parola sull’ordine dei lavori e dire a voce alta quel che si stava già bisbigliando tra i banchi e nei capannelli dei corridoi intorno all’aula: era vero che era stato arrestato Mario Chiesa, beccato con una mazzetta di sette milioni di lire che aveva tentato di buttare nel cesso? Il neo-sindaco di Milano Piero Borghini, moderato ex vice direttore dell’Unità, voluto personalmente da Craxi alla guida della città al posto di Paolo Pillitteri, ebbe un moto di orgoglio. Proprio come Aldo Moro quando in Parlamento aveva detto “non permetterò che si processi la DC né qui né nelle piazze”, liquidò la domanda con un “Non sono a conoscenza di nessuna notizia che riguardi il dottor Chiesa né permetterò processi senza imputati né imputazioni”. Prese allora la parola un preoccupatissimo Carlo Smuraglia, consigliere del Pci-Pds e famoso avvocato che pochi mesi dopo siederà in Senato per tre legislature: “Nessun processo – disse – ma la cosa ci riguarda da vicino. Chiesa è stato nominato da noi alla guida di un ente comunale, il Pio Alberto Trivulzio”. Nel parlamentino milanese per tutta la sera le facce rimasero corrusche. E che facce, in quello che fu l’ultimo consiglio comunale della prima repubblica! C’erano due ministri, il dc Virginio Rognoni, titolare della Difesa e il liberale Egidio Sterpa, ministro dei rapporti con il Parlamento. Poi c’era il dc Andrea Borruso, sottosegretario agli esteri, il repubblicano Antonio Del Pennino, capogruppo del suo partito alla Camera dei deputati. Il Pci-Pds aveva messo in campo il deputato Franco Bassanini, Barbara Pollastrini e Chicco Testa, futuro presidente dell’Enel. Il drappello della Lega, che cominciava a farsi sentire come movimento anti-sistema, era guidato da Umberto Bossi. E c’ero anch’io, unica rappresentante antiproibizionista del Partito radicale. Ero all’opposizione sia della giunta di sinistra che di quella moderata e non conoscevo Mario Chiesa. Ma gli altri sì, lo conoscevano bene. Sedeva in quell’aula una classe politica di tutto rispetto, che nel giro di pochi giorni fu resa debolissima perché a Milano, come nel resto del Paese, erano ormai altri i Poteri che contavano. Il capoluogo lombardo è una città piccola, anche per estensione. Niente a che vedere con le grandi capitali del mondo e con la stessa Roma, che ha anche il triplo dei suoi abitanti. Ma mai come in quei giorni fu importante il perimetro che congiungeva nel centro di Milano il Palazzo di Giustizia con la sede di Assolombarda e quella dell’Arcivescovado. E i palazzi dei grandi giornali. E il carcere di San Vittore. Palazzo Marino era nella penombra di piazza della Scala, a poche centinaia di metri dai luoghi del potere e mai come allora da questi lontano. L’Arcivescovado parlò idealmente quella sera con le parole di un giovane consigliere comunale dell’Aziona cattolica, Giovanni Colombo, considerato vicino al cardinal Martini, arcivescovo di Milano, che si scontrò con il sottosegretario Borruso, esponente di Comunione e Liberazione e prendendo le distanze dal proprio partito disse: “Io vi propongo oggi l’onestà come valore politico”. E si capì bene chi fosse stato il suo ispiratore quando qualche tempo dopo, a un convegno organizzato dall’Anm, il sindacato dei magistrati, lo stesso cardinal Martini, sommerso dagli applausi, disse che “ce n’era bisogno e bisognava fare pulizia”. La sentenza morale era arrivata prima di quella dei tribunali. Era tramontato in quei giorni il partito unico dei cattolici. A poche centinaia di metri da Palazzo Marino e dall’Arcivescovado svetta il Palazzo di giustizia costruito nel ventennio fascista dall’architetto Piacentini. Poco più in là, in via Pantano, c’è la sede di Assolombarda, l’associazione degli imprenditori della regione “locomotiva d’Italia”. Nei corridoi del tribunale succedono cose strane, in quei giorni. Il procuratore capo della repubblica Francesco Saverio Borrelli pare favorevole ad accettare un patteggiamento di Mario Chiesa con confessione per la tangente e venti mesi di carcere. Anche perché è da poco entrato in vigore il nuovo codice di procedura penale che favorisce i riti alternativi. Non la pensa così il giovane sostituto Antonio Di Pietro, che da bravo ex poliziotto preferisce l’inquisizione e le tecniche poliziesche di interrogatorio e, a quanto pare, ha qualche carta nascosta che potrebbe portarlo alla caccia grossa. Di Pietro riesce a stoppare Borrelli, fa parlare Chiesa e lo libera dopo 45 giorni, alla vigilia delle elezione politiche, le ultime della prima repubblica. Quel giorno chi doveva capire, capì. Capirono subito gli imprenditori. Soprattutto dopo la retata del 21 aprile, quando l’arresto dei primi otto di loro si trasformerà in una slavina. Gli otto capirono al volo, nominarono i difensori giusti (i famosi “accompagnatori”) e dissero di esser stati obbligati dalla politica a pagare. Erano concussi, non corruttori. Ringraziavano Di Pietro, che arrestava e scarcerava con un turnover vorticoso, ma molti di loro poi furono costretti a tirar giù le serrande delle loro aziende. Non si salvarono i Torno e i Lodigiani, mentre ne uscivano con il vento in poppa i Romiti e i De Benedetti, con i loro solidi studi legali. Un bel memoriale, qualche mezza verità e un bell’accordo stipulato negli uffici della procura della repubblica. Quel che non fu consentito a Raul Gardini. E i loro giornali si inchinarono. Nacquero i pool dei giornalisti (quelli che tempo dopo brindavano in sala stampa per la prima informazione di garanzia nei confronti di Bettino Craxi) e gli accordi tra i direttori dei principali quotidiani per sostenere la lotta del Bene contro il Male. Una storia che iniziò quella sera e che potrebbe anche esser raccontata così. All’inizio degli anni novanta un gruppo di pubblici ministeri di Milano ha sferrato un colpo micidiale alla classe politica di governo con la complicità di una parte del mondo produttivo proprietaria di grandi quotidiani, della Chiesa e del principale partito dell’opposizione, al lo scopo di attuare un ricambio politico. Ci fu anche l’aiuto di un qualche “papa straniero”? Molti dicono di si. Sicuramente ci fu il sostegno di giornalisti e avvocati “accompagnatori” che abdicarono al proprio ruolo e contribuirono ad aizzare le piazze. Il grido di “onestà, onestà” nacque allora. E non ha portato fortuna ai partiti che, prima della nascita del Movimento 5 stelle, si sono incoronati come “partito degli onesti”, cioè la Rete di Leoluca Orlando e L’Italia dei valori di Antonio Di Pietro. Che non sia stata costruita nessuna società politica degli onesti dopo di allora, è sotto gli occhi di tutti. Ma un lascito la stagione di Mani Pulite ci ha regalato. Alcune regole processuali e dello Stato di diritto sono saltate: la tutela della libertà personale e del diritto di difesa, la predeterminazione del giudice naturale, la presunzione di non colpevolezza dell’imputato, il giusto processo, il principio che la responsabilità penale è personale e che tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge. Ci ha lasciato anche il ricordo dei 43 suicidi, le lacrime a Montecitorio del presidente Napolitano mentre leggeva le parole di Sergio Moroni. Il sacchetto di plastica che segnò la fine di Gabriele Cagliari, le assoluzioni di Darida e Nobili dopo il martirio e la gogna. Quella sera a Milano era caldo, il clima politico. E oggi, nel triste anniversario dell’arresto di Mario Chiesa, non c’è proprio nulla da festeggiare.
Ecco chi sono gli imprenditori che danno soldi ai politici e ai partiti. Il più generoso è Berlusconi (con se stesso). Poi Moratti, Bonsignore, Caltagirone e anche il palazzinaro multipartisan che offre denaro e appartamenti a quasi tutti. L'Espresso vi mostra la mappa dei finanziamenti privati dal 2008 a oggi. Giovanni Tizian e Stefano Vergine il 28 novembre 2017 su L'Espresso. Una legislatura può costare cara. Specie se ti chiami Silvio Berlusconi e gestisci il partito come un’azienda. Coadiuvato dai suoi figli, negli ultimi dieci anni il Cavaliere è stato il principale finanziatore della politica italiana. Ha sborsato di tasca propria la bellezza di 109 milioni di euro. Come lui nessuno mai. Alle sue spalle, sebbene distanziata, c’è però una lunga fila di imprenditori che ama fare regali alla politica. Industriali, armatori, ras degli appalti pubblici, re delle cliniche private, signori dell’accoglienza migranti, nomi noti dell’alta borghesia e della finanza. C’è persino qualche grande evasore, imprenditori bancarottieri e altri con frequentazioni malavitose. Gente di fede politica dichiarata, ma anche donatori laici che preferiscono fare un regalo a tutti per evitare di puntare sul cavallo perdente. L’Espresso, grazie a documenti ufficiali, ha analizzato le donazioni private arrivate a partiti e politici italiani dal 2008 a oggi. Emerge una radiografia del passato per immaginare il futuro. Perché le prossime elezioni saranno le prime senza il finanziamento pubblico ai partiti. Le prime in cui, per effetto di una legge varata a furor di popolo dal governo Letta, i partiti dovranno affidarsi completamente alle donazioni. Ecco perché è utile sapere chi ha già le spalle coperte. Ripartiamo da Berlusconi, di gran lunga la testa di serie numero uno tra i finanziatori della politica. Che cosa sarebbe oggi Forza Italia senza i soldi del suo fondatore? Un partito poverissimo. Se infatti consideriamo solo le donazioni private ricevute da FI negli ultimi dieci anni (escludendo i denari giratigli dal Popolo delle Libertà) il totale arriva a 117 milioni. Dei quali 106 sono stati regalati da Silvio e famiglia. Berlusconi è l’unico dei big spender italiani ancora ufficialmente in gioco. Gli altri due uomini piazzati sul podio delle donazioni hanno infatti smesso da qualche anno di finanziare la cosa pubblica. Con motivazioni diverse. Gian Marco Moratti, patron delle raffinerie Saras, nel solo 2011 ha messo sul piatto 12 milioni di euro per la campagna elettorale della moglie Letizia a sindaco di Milano. Investimento andato in fumo, dato che alla fine a spuntarla è stato Giuliano Pisapia. Diverso il profilo dell’altro grande finanziatore. Costruttore, editore e finanziere, Francesco Gaetano Caltagirone ha regalato all’Udc oltre 3 milioni di euro in dieci anni: quasi due terzi di quanto ricevuto in totale dal partito guidato dall’ex genero Pier Ferdinando Casini. Ex, appunto. E infatti, da quando i due non sono più parenti, il finanziamento si è improvvisamente bloccato. Se Berlusconi e Moratti hanno preferito fare donazioni personali, Caltagirone - così come tanti altri - ha spesso usato le sue società per sostenere la politica. Particolare rilevante se si considerano i vantaggi fiscali. La vecchia legge prevedeva una detrazione del 19 per cento limitata ai primi 109 mila euro donati. Regola valida sia per i cittadini che per le aziende. Non a caso i grandi finanziatori hanno spesso scelto la taglia da 100 mila. Da un paio d’anni le cose sono però cambiate. Oltre all’abolizione del finanziamento pubblico e alla possibilità di devolvere ai partiti il 2 per mille, il parlamento ha modificato le regole per chi dona. La detrazione è stata alzata al 26 per cento, ma il limite su cui viene calcolata è sceso a 30mila euro. Traduzione? Oggi il risparmio fiscale non può andare oltre i 7.792 euro, quasi un terzo rispetto al passato. Le soglie restano uguali per cittadini e aziende, ma c’è una novità: sia le persone che le società possono finanziare al massimo 100 mila euro. O meglio, le prime possono superare la fatidica soglia solo donando a più partiti. Insomma, la nuova legge cerca di mettere un freno alle maxi elargizioni, avvantaggiando quelle diffuse e di piccola entità. Ma la sostanza non cambia: le donazioni private diventeranno fondamentali per la politica. All’appello c’è tutto il giglio magico. Il grande assente nella lista dei donatori del Pd è lui, Matteo Renzi. Dal 2008 a oggi non c’è traccia di un suo versamento nelle casse del partito né in quelle delle sezioni locali. È vero, l’ex premier non è mai stato parlamentare: non vale dunque per lui la prassi, comune a quasi tutte le forze politiche, di girare parte dell’indennità al partito. Ma che dire allora di Giancarlo Muzzarelli, sindaco di Modena, che ha regalato all’organismo nazionale quasi 10 mila euro? Altra scuola. Basta guardare quanto fatto dai membri storici del centro sinistra. Gente come Pier Luigi Bersani, Gianni Cuperlo e Rosy Bindi: dal 2012 a oggi hanno speso più di 280 mila euro per mantenere la “Ditta”. C’è però anche un’altra particolarità che riguarda il Pd: il partito nazionale conta pochissime donazioni private. C’è ad esempio quella di Patrizio Bertelli, proprietario di Prada insieme alla moglie Miuccia, che nel 2013 ha regalato 100 mila euro. E quella del produttore cinematografico, Aurelio De Laurentis, che l’anno scorso, attraverso la Filmauro, ha staccato un assegno da 50 mila euro (50 li aveva versati al Pdl nel 2013). La maggior parte dei benefattori privati del centro sinistra si annida però in provincia. È lì che gli imprenditori preferiscono versare il loro contributo. Così per esempio nella sezione di Cesena troviamo la donazione di una società del gioco legale, la HippoGroup. Senza dimenticare le elargizioni delle cooperative, rosse e bianche, dei consorzi e delle cliniche private. E i regali ricevuti dai singoli parlamentari. Come Pier Paolo Baretta, sottosegretario all’Economia, che attraverso l’associazione AReS ha ricevuto 17 mila euro dalla British American Tobacco e 7 dalla Cisl. Sindacato oggi impegnato a discutere con il governo la riforma delle pensioni. Chi invece ha dato poco utilizzando canali ufficiali sono i grillini. Grillo Giuseppe, comitato elezioni europee 2014: 54 mila euro. Un po’ pochini. Beppe e i suoi seguaci, si sa, non copiano i partiti tradizionali. Nei documenti pubblici si contano in tutto poche decine di migliaia di euro di donazioni. Ma allora come fanno i 5 Stelle a finanziarsi? E dove finiscono i soldi di deputati e senatori? Innanzitutto, ricordano dal movimento, abbiamo rinunciato a 42 milioni di rimborsi elettorali. E poi ci sono i soldi versati dai parlamentari in due fondi, il più ricco dei quali è quello dedicato al microcredito per le imprese (22,3 milioni di euro). E la propaganda elettorale? Le varie feste organizzate a Rimini, Roma o Palermo? Un parlamentare grillino che preferisce non essere citato racconta che per questi eventi vengono aperti dei conti correnti sui quali tutti, potenzialmente anche degli imprenditori, possono versare soldi. Un sistema difficilmente tracciabile, insomma. Proprio come per le fondazioni politiche, il grande buco nero del finanziamento ai partiti, che continuano a restare opache grazie alla possibilità di non dover dichiarare l’identità dei donatori. È il caso della misteriosa fondazione “1000 nomi”, che ha versato 100 mila euro all’ex ministro Giulio Tremonti. O della Kairos di Vicenza, quasi 50 mila euro a Alessandra Moretti per le regionale del Veneto. Tornando alla lista pubblica dei finanziatori della politica, ci si imbatte in un paio di casi particolari. Partiti praticamente inesistenti, ma con entrate rilevanti. Sono le creature personali di Giampiero Samorì e Corrado Passera. Manager di successo che hanno investito alla grande nei propri partiti personali. Senza però aver ottenuto particolare fortuna. Al suo Mir, acronimo di Moderati in rivoluzione, Samorì ha regalato più di 2 milioni di euro in cinque anni. Parecchio, visto lo 0,24 per cento ottenuto alle ultime elezioni. Ha speso più o meno la stessa cifra Passera, ma anche qui sono stati soldi buttati al vento dato che alla fine l’ex ministro ha scelto di appoggiare Stefano Parisi nella corsa a sindaco di Milano.
I dieci maggiori finanziatori privati.
C’è poi chi finanzia tutti, da destra a sinistra passando per il centro. Categoria variegata. C’è Sergio Scarpellini, immobiliarista sotto processo per corruzione (avrebbe pagato tangenti a Raffaele Marra, ex braccio destro di Virginia Raggi) , che negli ultimi dieci anni ha sborsato 222 mila euro per finanziare un po’ tutto l’arco parlamentare, da La Destra di Storace al Pd passando per Verdini e Baccelli. Se le donazioni di Scarpellini si traducono spesso in appartamenti offerti gratuitamente al partito di turno, Gianfranco Librandi punta tutto sui bonifici effettuati dalla sua Tci Telecomunicazioni Italia, azienda del varesotto che produce luci a led. Partito da Forza Italia e approdato nel Pd dopo una parentesi da tesoriere con Scelta Civica, Librandi si è dimostrato trasformista anche nei finanziamenti politici. Per dire: negli ultimi due anni è riuscito nell’impresa di sostenere contemporaneamente Fratelli d’Italia, Pd, Mariastella Gelmini e gli ultimi due candidati-sindaco di Milano, Beppe Sala e Stefano Parisi.
Trascende la dicotomia destra-sinistra anche il gigante della carne Cremonini, proprietario delle catene di ristoranti Roadhouse Grill e Chef Express. Negli ultimi dieci anni ha donato circa 120 mila euro: soldi andati a Forza Italia e Ncd, ma anche a due volti noti del centro sinistra come gli ex ministri Cécile Kyenge e Paolo De Castro. Stessa strategia per l’ex presidente del Palermo, Maurizio Zamparini, che attraverso le sue imprese ha finanziato al contempo il senatore del Pd Nicola Latorre, l’Mpa di Raffaele Lombardo e il Grande Sud di Gianfranco Micciché. Profili nazionali, ma espressioni dei territori dove Zamparini ha investito in progetti commerciali.
Portatori di interessi economici concreti sono anche i ras degli appalti. Le cui donazioni, ora che i finanziamenti pubblici sono stati aboliti, rischiano di risultare ancor più cruciali per i partiti. Prendiamo Vito Bonsignore. Partito dalla Dc, passato per il Pdl e approdato oggi al Nuovo centro destra di Alfano, il politico siciliano è titolare della società di ingegneria Mec. L’impresa ha finanziato soprattutto lo stesso Bonsignore, regalandogli 4,5 milioni di euro all’epoca in cui sedeva sui banchi del Parlamento europeo in quota Pdl. Ma dalle casse aziendali sono partiti bonifici diretti anche ad altri parlamentari: 20 mila euro a Fabrizio Cicchitto e altri 20 mila al sottosegretario Ncd Giuseppe Castiglione, mentre ad Angelino Alfano è stato offerto lo spostamento aereo durante la campagna elettorale del 2013 al costo di 8.400 euro. Il metodo Bonsignore funziona. Perché prima o poi l’appalto arriva. Come nel 2010, quando il Cipe - governo Berlusconi in carica - concede il via libera alla superstrada Ragusa-Catania: della cordata di aziende che si aggiudica l’appalto fa parte proprio la Mec.
Anche il gruppo Gavio, interessato al business di strade e autostrade, contribuisce al finanziamento della politica nazionale. Nel 2008 ha elargito 400 mila euro a Forza Italia. Cinque anni più tardi ha regalato 50 mila euro a Ugo Sposetti, storico tesoriere dei Ds. Ha speso invece un po’ meno il colosso delle costruzioni Astaldi, in lizza per la realizzazione del Ponte sullo Stretto. Nel 2008 l’azienda ha staccato un assegno da 100 mila euro a Forza Italia. Alle elezioni successive ne ha dati altri 10 mila a Linda Lanzillotta, eletta con Scelta Civica e moglie di Franco Bassanini, all’epoca presidente di Cassa Depositi e Prestiti e dunque potenziale finanziatore dell’opera. Un ruolo da donatore (70 mila euro in totale) se lo è ritagliato anche Gemmo, l’azienda vicentina che ha realizzato le parabole del sistema Muos a Niscemi, in provincia di Caltanissetta. Opera contestatissima. Forse per questo il gruppo veneto nel 2008 ha donato 15 mila euro al Movimento per l’Autonomia dell’allora governatore siciliano Raffaele Lombardo, che tre anni dopo firmerà il via ai lavori.
Nel balletto dei finanziamenti privati non poteva mancare Alfredo Romeo. L’imprenditore campano, finito di recente al centro del caso Consip, gestisce appalti in tutta Italia. Pubblici, molto spesso. Chi ha finanziato? All’amico Italo Bocchino - che dopo la fallimentare avventura in Futuro e Libertà diventerà suo consulente personale - alle ultime politiche Romeo ha donato 25 mila euro, ma è con il centro sinistra che l’imprenditore si è rivelato più generoso: con la sua Isvafim ha distribuito equamente altri 75 mila tra Nicola Latorre, Massimo Paolucci (ora Mdp) e il Centro democratico di Tabacci.
Tra le cooperative rosse più attive c’è invece la Cpl Concordia. Nei due anni precedenti allo scandalo in cui è finita per presunti accordi con la camorra (a ottobre i vertici sono stati assolti) ha contribuito alla causa del Pd con 53 mila euro: piccole somme suddivise tra Sposetti, l’ex ministra Kyenge, la lista per Ambrosoli presidente della Regione Lombardia e due sezioni locali del partito.
I signori dell’accoglienza-migranti non sono da meno. Anche loro, come i ras degli appalti, vivono di politica. Perché devono mantenere buoni rapporti con chi gestisce flussi e decide strategie. Bastano pochi spiccioli per farlo. La cooperativa La Cascina, area Comunione e Liberazione, ha interessi nel più grande centro per richiedenti asilo, quello siciliano di Mineo. Una gestione messa sotto la lente d’ingrandimento dalla magistratura.
Nell’indagine che ha coinvolto i vertici della coop bianca è rimasto impelagato anche il sottosegretario Giuseppe Castiglione del Nuovo centrodestra, il partito di Alfano e Lupi. E proprio a Lupi nel 2013 arriverà una mancia da 5 mila euro da Salvatore Menolascina, all’epoca amministratore delegato de La Cascina. L’ex ministro ne riceverà altri 5 mila da Camillo Aceto, ras dell’accoglienza con la sua Senis Hospes, ma comunque legato al mondo della coop La Cascina. Senis Hospes ha foraggiato anche il Pdl per un totale di 15 mila euro, mentre la cooperativa vicina a Cl ha distribuito offerte anche a sinistra. Nel 2013 10 mila euro finiranno infatti al “Comitato provvisorio città di Roma” del Pd, che nello stesso periodo registra un’entrata di identico importo dalla cooperativa 29 giugno. Esattamente quella di Salvatore Buzzi, il boss dell’accoglienza condannato nel processo Mafia Capitale.
Cemento, servizi, migranti. E sanità. Tutti settori in cui l’aggancio politico aiuta. Nel caso delle cure private il vero business ruota attorno agli accreditamenti presso le aziende sanitarie locali, garanzia di introiti sicuri. Per questo gli imprenditori della sanità privata dedicano parte del loro budget a sostenere i politici. Tra i più generosi c’è Federfarma, che rappresenta le farmacie private convenzionate con il servizio sanitario. L’Aiop, che raccoglie circa 500 case di cura in tutta Italia. Ma soprattutto Multimedica, colosso lombardo dei poliambulatori privati, che negli ultimi dieci anni ha versato 190 mila euro ai partiti: quasi tutti finiti a Forza Italia, ma anche alla Lega Nord. Proprio i partiti che hanno governato in Lombardia. Ora, con le elezioni regionali in arrivo, l’azienda sanitaria controllata da Daniele Schwarz ha messo una fiche da 15 mila euro su Lombardia Popolare, il nuovo movimento dell’ex ministro Lupi, espressione di Comunione e Liberazione e da sempre sensibile al mondo delle cure private.
In classifica non potevano mancare i big dell’industria italiana. Il più generoso è Giovanni Arvedi, fondatore dell’omonimo gruppo siderurgico, che ha concentrato i suoi regali nel 2008, alla vigilia delle elezioni poi vinte da Berlusconi. Attraverso le sue società, l’imprenditore ha donato 300 mila euro a Forza Italia. Scommessa vinta solo a metà. Per diversificare il rischio, infatti, Arvedi ha regalato 200 mila euro anche al Pd Lombardia, dove hanno sede quasi tutti i suoi stabilimenti.
Ancor più variegata la lista dei beneficiari del gruppo Maccaferri. La multinazionale bolognese dell’ingegneria meccanica ha usato una tattica particolare: donazioni piccole, suddivise con estrema imparzialità. Il risultato è che i 200 mila euro investiti da Gaetano Maccaferri, membro di Confindustria e del consiglio superiore della Banca d’Italia, sono finiti in mille rivoli: dal Pd a Renato Brunetta, da Scelta Civica agli autonomisti siciliani di Lombardo. Ha scelto invece una strada opposta l’ex presidente di Confindustria Giorgio Squinzi. Attraverso Mapei, la sua azienda, l’imprenditore emiliano ha puntato tutto su un unico cavallo. Sbagliato. Squinzi ha infatti investito 60mila euro per finanziare la campagna elettorale a sindaco di Milano di Stefano Parisi, infine sconfitto da Sala.
Che cosa lega la fedelissima di Berlusconi, Licia Ronzulli, a uno degli uomini più ascoltati dal presidente turco Recep Tayyip Erdogan? Un bonifico da 20 mila euro datato 2014. La donazione in favore dell’allora europarlamentare di Forza Italia, oggi considerata vicinissima al Cavaliere, è firmata Hasan Cuneyd Zapsu. Imprenditore di successo basato a Istanbul, consulente di gruppi globali come Coca Cola e Rosatom, fondatore del partito turco Akp e consigliere speciale di Erdogan, Zapsu ha un solo legame noto con l’Italia: un ruolo da «senior advisor» per il gruppo Ferrero, quello della Nutella, che proprio nel 2014 ha ottenuto dalla Commissione europea l’ok alla contestata fusione con l’azienda turca Oltan, uno dei principali produttori di nocciole al mondo.
Perché Zapsu ha regalato 20mila euro alla Ronzulli? Contattato da L’Espresso, il consulente di Erdogan non ha risposto. La Ronzulli ci ha invece spiegato di conoscere l’imprenditore dal 2012. Tra noi c’è «una buona amicizia», per questo gli ho chiesto «un aiuto per la mia campagna elettorale». C’è un legame con la Ferrero? Nessuno, garantisce l’ex parlamentare, che dice di aver appreso da L’Espresso della consulenza di Zapsu.
Da quando l'ex sindaco di Firenze è diventato segretario, le elargizioni private ricevute dal partito sono calate di un terzo. Ma sono cresciute quelle al giglio magico. E tra i finanziatori persino fiduciarie dal nome misterioso. Ha chiarito la sua posizione anche Salvatore Cuffaro, beneficiario di una donazione particolare. Nel 2013 il politico siciliano si trova infatti in carcere a Rebibbia. La condanna per favoreggiamento aggravato dall’aver agevolato Cosa nostra è diventata ormai definitiva. Eppure, proprio quell’anno, secondo i documenti ottenuti da L’Espresso, Cuffaro riceve un versamento di 220 mila euro da Forza Italia. Perché? «È quanto mi dovevano per la campagna elettorale del 2006, quando diventai presidente della Regione», ci ha risposto l’ex governatore siciliano. «L’Udc saldò subito la sua parte. Forza Italia, nel frattempo diventato Pdl, chiuse invece il debito sette anni dopo. Ma io ci tengo a precisare che di quella cifra non ho mai visto un euro, del resto mi trovavo in carcere. I soldi sono serviti a estinguere il debito contratto all’epoca con la banca per la campagna elettorale». Caso risolto, dunque. Ma Cuffaro, che mastica politica da quando è nato e sa che forma assumono i poteri forti, cosa pensa della fine del finanziamento pubblico? «È stata una garanzia di libertà», dice, «ora il rischio è che i partiti finiscano in mano ai privati. Del resto danno un contributo perché hanno delle speranze, mentre il partito che non ha bisogno di denaro non crea alcuna aspettativa nei privati». Seguendo il ragionamento di Cuffaro, viene da pensare che Giovanni Toti di aspettative ne abbia create parecchie. D’altronde la campagna elettorale dell’attuale presidente della Liguria, scelto da Berlusconi per violare la storica roccaforte della sinistra, è stata lunga e dispendiosa. Per fortuna sono arrivati in suo soccorso un po’ di denari privati. Certo, da un pezzo grosso dell’imprenditoria come Aldo Spinelli - ex patron del Genoa e del Livorno - c’era da aspettarsi qualcosa in più dei 15 mila euro donati. Ma tant’è. L’aiuto simbolico è comunque servito: dopo l’elezione di Toti, Spinelli ha acquistato insieme a Msc il Terminal Rinfuse di Genova. La maggior parte delle donazioni per Toti sono però arrivate dalla Fondazione Change: impossibile dunque conoscere l’origine del denaro. Tra i pochi ad aver fatto bonifici diretti c’è l’imprenditore Giovanni Calabrò, sponsorizzato dallo stesso Toti per l’acquisto del Genoa calcio. Non proprio una mossa felice, visto che quest’anno la Cassazione ha condannato Calabrò a sei anni per bancarotta.
«C’è l’Italia colpevole di Angiola Armellini, che non paga di ereditare un impero senza aver fatto nulla, nasconde due miliardi di euro al fisco». Parola di Giorgia Meloni, che durante la campagna elettorale per diventare sindaco di Roma descriveva così la grande ereditiera da sempre in affari con il Comune capitolino (incassava più di 4 milioni all’anno per l’affitto di suoi appartamenti usati come case popolari). I documenti analizzati da L’Espresso permettono di raccontare un inedito retroscena sul rapporto tra la Meloni e la donna accusata di evasione fiscale. La leader di Fratelli d’Italia ha infatti ricevuto donazioni da quattro società che fanno capo alla Armellini, per un totale di 20 mila euro. Spiccioli- ma sempre ben accetti- per “lady no tax”, che col mattone ha guadagnato miliardi. Ai quali si aggiunge una mancetta dei costruttori romani, i Mezzaroma. Una donazione da 1.500 euro attraverso una società del gruppo. Imprenditori che hanno sempre avuto simpatie per la destra: nel 2010 hanno versato 100 mila euro al partito di Berlusconi, nel quale la Meloni era ministro. Tra i finanziatori della leader di destra alle elezioni comunali - 210 mila euro in totale - c’è anche la società Corallobeach. Il titolare è Claudio Balini, ras dei lidi del litorale e parente di Mauro Balini, a cui la magistratura ha sequestrato beni per 50 milioni di euro. Mauro Balini, per gli investigatori, ha legami con la malavita locale. Insomma, pecunia non olet. Neppure per l’erede di Almirante. Giovanni Tizian e Stefano Vergine il 2 ottobre 2018 su L'Espresso.
Elezioni mancate nel ’91, quando Craxi mi corse dietro: «Fu per i miliardi di Andreotti». Mario Stanganelli il 19 gennaio 2020 su Il Dubbio. Sulla spiaggia di Hammamet tra l’imbarazzo della scorta. Il voto anticipato lo avrebbe salvato. Ma gli dissero che Giulio aveva in tasca 50 miliardi di lire per vincere la campagna elettorale e puntare al colle. L’insolita scenetta si svolgeva sulla spiaggia di Hammamet all’inizio di agosto del ’91. Bettino Craxi inseguiva un malcapitato cronista con l’evidente intenzione di gratificarlo di una tutt’altro che metaforica, ancorché confidenziale, pedata nel sedere e, a sua volta, era seguito dall’onnipresente guardia del corpo a cui il presidente tunisino Ben Ali aveva affidato la custodia dell’illustre ospite. Poliziotto peraltro assai perplesso sul da farsi, in quanto era Craxi in quel momento ad apparire nelle vesti dell’aggressore e non del bersaglio di qualche malintenzionato. In brevissimo il tutto si sarebbe decantato con la deposizione delle ostilità, non senza uno di quei sordi brontolii con cui il leader socialista concludeva spesso le sue non infrequenti ma passeggere sfuriate. Ma cosa aveva innescato il singolare siparietto agostano? La forse incauta, ma per quei giorni quasi obbligata, domanda del cronista tesa a far luce su uno dei misteri politici della tarda primavera del ’91: il perché non si fosse andati alle elezioni anticipando di un anno la fine della decima legislatura, quando sembrava che ce ne fossero tutte le condizioni e le convenienze. Soprattutto per il Psi guidato da Craxi a cui la crisi del Pci dopo la caduta del Muro sembrava offrire l’occasione di farsi promotore di un nuovo quadro politico se non di un nuovo soggetto progressista che unisse l’intera sinistra. Al di là di un simile progetto per il quale i tempi non erano probabilmente ancora maturi, l’anticipo delle urne veniva d’altra parte dato per scontato anche da chi perseguiva obiettivi di più limitata portata, come l’allora segretario della Dc Arnaldo Forlani, sincero alleato di Craxi e il cui portavoce Enzo Carra aveva inondato le redazioni politiche di tutti i giornali con la certezza che le elezioni si sarebbero svolte nella primavera del ’ 91 e non in quella del ’92. Corollario a questo scenario l’ascesa al Quirinale dello stesso Forlani e il ritorno di Craxi a palazzo Chigi. Cosa che, col senno di poi, avrebbe preceduto la stagione di Tangentopoli favorendo un decorso probabilmente molto diverso da quello che vide il crollo del sistema politico italiano e la liquidazione di fatto di tutti o quasi i partiti, per i quali vi è oggi un crescente rimpianto. Le cose, come tutti sanno, andarono assai diversamente, ma nell’estate del ’91 Craxi era ancora convinto di aver fatto la scelta giusta. E allora, mentre stava con l’acqua al ginocchio a guardare i pescetti che gli mordicchiavano le dita dei piedi – cosa che lo divertiva molto – al sentirsi riproporre di nuovo dal sottoscritto l’irrisolta questione del mancato voto decideva, visibilmente irritato, di sbottare in una confidenza. La mia risposta – riconosco – si tenne al disotto del più scontato livello di circostanza: precedette di un istante l’inizio del breve inseguimento di cui sopra. Calmate le acque, si andò insieme a pranzo, previo l’accordo che all’argomento non si sarebbe più accennato, neppure da lontano. Mi rivolsi poi a chi era stato uno strettissimo collaboratore di Craxi raccontandogli l’episodio di Hammamet. Un ricordo affiorò immediatamente alla mente del mio interlocutore, e cioè la rarissima circostanza in cui – così mi venne detto – il leader socialista chiese a lui di essere lasciato solo a colloquio con il personaggio che si accingeva a ricevere nel suo ufficio di via del Corso. Erano i primi mesi del ’91 e l’ospite di Craxi era Giuseppe Ciarrapico, il noto imprenditore legatissimo a Giulio Andreotti, che si intrattenne a lungo con il segretario del Psi lasciandolo poi – sempre secondo i ricordi del suo collaboratore – visibilmente contrariato. Da quanto si poté più o meno frammentariamente ricostruire in seguito, Ciarrapico si era presentato a via del Corso nella veste di capofila di una cordata di imprenditori e finanzieri decisi a dare tutto l’appoggio possibile al progetto del Divo Giulio, che prevedeva l’approdo al Quirinale dello stesso Andreotti il quale, se non ostacolato dai socialisti nel suo disegno, avrebbe conferito a Craxi l’incarico per formare il suo terzo governo. Ma si trattava di un’offerta politica impossibile da accettare per Craxi impegnato nel progetto alternativo, per le forze e le alleanze che metteva in campo, di portare sul Colle più alto Arnaldo Forlani del quale si fidava immensamente più di Andreotti per poter tornare al governo. Andare quindi a uno scontro elettorale anticipato in quelle condizioni venne evidentemente giudicato da Craxi un passo troppo azzardato, soprattutto per la disparità delle risorse finanziarie in campo. Si trattava di fatto dell’eterno ritorno del tema che avrebbe, di lì a poco, determinato la fine traumatica della Prima Repubblica e, con essa, la caduta di quasi tutti i suoi protagonisti, primo tra i quali Bettino Craxi. L’irrisolto problema del finanziamento della politica e dei partiti, non affrontato a tempo debito senza ipocrisie e infingimenti da un sistema politico che alla fine fu facile intimidire e mettere alle corde da un fronte variegato di forze istituzionalmente estranee alla politica. Craxi venne individuato come la pietra angolare del sistema da abbattere soprattutto quando con il celebre discorso del luglio ’92 alla Camera pose il finanziamento dei partiti come problema politico generale che necessitava di una risposta politica e non meramente giudiziaria. Su questo Craxi aveva idee e convinzioni precise, che molti condividevano ma che pochi avevano la coerenza e il coraggio di manifestare.
Craxi con le tangenti finanziò anche l’Olp, Lula e gli esuli cileni. Giuseppe Loteta il 19 gennaio 2020 su Il Dubbio. Fondi e aiuti ai paesi della internazionale socialista, ai popoli oppressi in Africa. Denunciò i finanziamenti illeciti, Tangentopoli lo travolse. Il 19 gennaio del 2000, venti anni fa, Bettino Craxi si mise a letto per riposare qualche ora e non si svegliò più. Era nella sua casa di Hammamet, lontano dall’Italia, dove una campagna diffamatoria bene orchestrata e resa esecutiva a colpi di sentenze aveva trasformato lo statista di Sigonella, il presidente del consiglio che aveva salvato l’Italia dal baratro aperto da un’inflazione galoppante, in un criminale. Adesso, meglio tardi che mai, comincia a farsi strada nella cosiddetta opinione pubblica, nel mondo politico, nei giornali, nelle televisioni e nei social network un giudizio meno fazioso sul ruolo svolto da Craxi, segretario del Psi e capo del governo, nell’Italia degli anni settanta e ottanta del secolo scorso. C’è, invece, chi non ha aspettato tanto per dare a Craxi quel che è di Craxi. Zine El- Abidine Ben Alì è stato il secondo Presidente della repubblica tunisina dopo Habib Bourghiba, il fondatore del giovane Stato nordafricano. E’ lui a decidere il 19 gennaio del 2007, tredici anni fa, di dedicare una strada di Hammamet a Bettino Craxi, lo statista esule accolto e protetto nel 1994 come “rifugiato politico” sulla base di un trattato stipulato tra l’Italia e la Tunisia. E’ una bella strada questa “Avenue Benedetto (Bettino) Craxi”. Ma è soltanto una delle tante testimonianze dell’affetto con cui Craxi è stato accolto in tutta la Tunisia e in particolare ad Hammamet, dove in un ristorante c’è ancora un tavolo riservato a “monsieur le president”. Non lo hanno dimenticato i cileni. L’11 settembre del 1973 il golpe del generale Pinochet instaurava in Cile una feroce dittatura militare. Il presidente della repubblica, il socialista Salvador Allende, moriva nella difesa disperata del palazzo presidenziale. E il suo corpo fu sepolto nel “Cementerio General de Recoleta”, non lontano da Santiago. Bettino Craxi era in quel tempo vicesegretario del Psi e, poche settimane dopo il colpo di stato, guidò una delegazione socialista in Cile per deporre un fascio di garofani rossi sulla tomba di Allende. Missione impossibile. Una schiera di soldati in assetto di guerra non lasciava avvicinare nessuno. Proteste e tentativo di avanzare, ma inevitabile rinuncia quando uno dei militari punta il mitra contro i delegati e urla: “Un paso mas y tiro”. I cileni ricordano. Certo, l’episodio del 1973, ma ricordano soprattutto, a cominciare da quella data, le iniziative di Craxi a favore della resistenza cilena contro il regime dittatoriale. Ingenti contributi finanziari ai movimenti clandestini, ospitalità agli esuli e una costante denuncia dei misfatti di Pinochet, più volte inoltrata a Reagan e particolarmente dura e impegnativa in un discorso al Congresso Usa del 1985. Nel cimitero di Recoleta, a pochi passi dalla tomba di Allende, sorge ora una “Plazoleta Bettino Craxi”. Nella targa che la sovrasta figura una foto dello statista italiano e alcune note biografiche. Si legge, tra l’altro, che Craxi “appoggiò con passione e vigore la causa del ritorno della democrazia nel Cile”. Ma i movimenti di liberazione cileni non sono stati gli unici a usufruire di un sostanziale appoggio da parte di Craxi e dei socialisti italiani. C’è chi ancora si chiede, con una buona dose di disinformazione o di malafede, dove sono finiti i soldi delle tangenti versati al Psi – come a tutti i partiti italiani, tranne i Radicali – negli ultimi anni della prima Repubblica. Non è difficile rispondere. Gran parte di quei fondi si sono trasformati in aiuti ai popoli oppressi. Ne sa qualcosa Felipe Gonzalez, il leader socialista spagnolo dei primi decenni del post- franchismo, che non ha mai rinnegato la sua amicizia e la sua solidarietà con Craxi. Ne sapeva qualcosa Mario Soares, primo ministro portoghese dal 1986 al 1996. Ne sanno qualcosa i dirigenti di “Solidarnosc”, il sindacato cattolico che fece crollare il regime comunista in Polonia, gli ungheresi e i cecoslovacchi. Ma in quest’ultimo caso Craxi fece qualcosa di più. Uno dei maggiori dirigenti della “Primavera di Praga” esule in Italia, Jiri Pelikan, fu eletto al Parlamento europeo nelle liste del Psi per due legislature. In America latina gli aiuti dei socialisti italiani sono andati all’argentino Alfonsin, al brasiliano Lula, al peruviano Garcia, al venezuelano Perez e all’uruguaiano Sanguinetti. In Africa, ai movimenti di resistenza di Palestina, Somalia ed Eritrea. Per Craxi era naturale aiutare i popoli oppressi di tutto il mondo. L’internazionalismo socialista l’aveva respirato fin da bambino. Bettino Craxi è presidente del consiglio dei ministri nel 1983. Il suo governo (in due manches consecutive) dura complessivamente 1272 giorni. Dopo quelli di De Gasperi è il più duraturo della Repubblica ed è, soprattutto, un governo che ottiene risultati ampiamente positivi. In politica estera, l’Italia acquista un rispetto internazionale mai ottenuto prima, a cominciare dagli Stati Uniti. Dopo lo scatto d’orgoglio nazionale di Sigonella, Reagan chiede d’incontrare Craxi, gli stringe la mano e istalla alla Casa Bianca un telefono rosso per i contatti diretti con il presidente del Consiglio italiano. Ma non basta. Il 28 e il 29 giugno del 1985, a Milano, in una riunione dei capi di stato e di governo dell’Unione Europea, Craxi sostiene la necessità di indire una conferenza intergovernativa per riformare alcune parti del trattato istitutivo dell’unione. Margareth Tathcher è contraria. I rappresentanti degli altri paesi appoggiano la proposta italiana e la “lady di ferro” britannica resta sola in minoranza. Non era mai accaduto e non accadrà più. In economia, il taglio della scala mobile e la vittoria nel referendum voluto dai comunisti provocano la discesa dell’inflazione dalle percentuali sudamericane dei mesi precedenti fino a un ragionevole quattro per cento. E l’Italia evita la bancarotta. Il 17 febbraio 1992 è arrestato a Milano Mario Chiesa, un dirigente periferico socialista, per una tangente di 14 milioni di lire, appena consegnatagli da un giovane imprenditore. E l’inizio di “Mani pulite, l’operazione politico- giudiziaria che in un anno distruggerà i partiti che avevano fatto la storia d’Italia dal dopoguerra agli anni novanta, con le uniche eccezioni del Pci e del Movimento sociale italiano, decretando così la fine della democrazia come la si intende nel mondo occidentale. Finanziamento illegale dei partiti e corruzione attraverso un collaudato e capillare uso delle tangenti. Queste le accuse della procura di Milano, guidata da Francesco Saverio Borrelli e con Antonio Di Pietro nell’imitazione nostrana di Viscinski, il grande accusatore dei tribunali staliniani. E, per renderle credibili alla magistratura giudicante, gli accusatori adoperano ogni mezzo, a cominciare dalle carcerazioni preventive, usate per ottenere chiamate di correo nei confronti di persone innocenti. Il socialista Sergio Moroni, Gabriele Cagliari e Raul Gardini pagano con il suicidio colpe marginali o addirittura inesistenti. Borrelli, a conclusione dell’operazione, afferma pubblicamente che i magistrati artefici di Tangentopoli aspettavano una chiamata del Presidente della Repubblica, cioè che erano pronti a sostituirsi alla classe politica. Il bersaglio principale è Bettino Craxi. Sparano (metaforicamente) su di lui i comunisti, uomini e potentati bastonati dal “decisionismo” craxiano, occultamente ma con efficacia gli americani, la Cia, il Pentagono, che non hanno dimenticato Sigonella e le numerose prove d’indipendenza fornite dallo statista italiano. Ma lui risponde alla sua maniera. Rilancia. Il 3 luglio del 1992 conferma in un discorso alla Camera ciò che “tutti sanno”, e cioè che i partiti, soprattutto i più grandi, “hanno ricorso e ricorrono all’uso di risorse aggiuntive in forma irregolare o illegale”. E se c’è qualcuno che afferma il contrario, aggiunge, si alzi e lo dica, “i fatti si incaricherebbero di dichiararlo spergiuro”. Naturalmente, tutti rimasero seduti. La conseguenza dell’intervento era che il finanziamento illegale ai partiti era un problema politico, da risolversi politicamente e non nelle aule giudiziarie. Ma nessuno si alzò a sostenerlo. Inutilmente, in un secondo discorso del 24 gennaio 1993, sempre a Montecitorio, Craxi denuncia il “gioco al massacro” che lo aveva coinvolto e propone la costituzione di una commissione parlamentare d’inchiesta sull’azione di “Mani pulite” e sui finanziamenti registrati dalla politica negli ultimi venti anni. Poi è Hammamet, per sei anni, fino al 19 gennaio del 2000. Anni difficili, di riflessione e di lotta, mai di resa. Craxi è solo, solo con il suo diabete, con il suo tumore che lo porterà alla morte. Con le sue passeggiate sulla spiaggia, con i suoi colloqui con i pescatori tunisini. Con le sue penetranti analisi sulla situazione politica italiana, con i suoi momenti di sconforto e con le decisioni meditate. “Esilio sì, ma né dorato né argentato”, “la mia libertà equivale alla mia vita”. “Non tornerò in Italia, né da vivo né da morto”. Una vita esente da errori? No, di certo. Come non commetterne in tanti anni di attività politica ai massimi livelli? Pannella, a conclusione del governo a guida socialista, scrive a Craxi una lettera che, pannellianamente, non comincia con “Caro Bettino”, ma con “Brutto coglione”, e in sedici righe elenca gli “undici errori” che il leader radicale attribuisce a Craxi, dal Concordato al proibizionismo sulle droghe. E la figlia Stefania ammette: “Il finanziamento illegale genera corruzione e il suo vero errore fu di non accorgersi di quanto fosse cresciuto il livello di corruzione nel partito. Ma il finanziamento illegale non comincia certo con Craxi…. Nel 1976 Craxi trova un sistema oliato da anni. Per lui il denaro era un’arma per la politica… Non a caso, è morto povero”. E forse oggi comincia veramente, dopo venti anni di ostracismo, non la riabilitazione, termine pessimo e del tutto inadatto, ma un cammino di verità sulla vicenda umana e politica di un gigante dell’Italia repubblicana.
Bettino Craxi temeva per la sua vita: “Questi mi ammazzano”. Paolo Guzzanti il 19 Gennaio 2020 su Il Riformista. Ma che sorpresa. L’avesse visto coi suoi occhi, neanche lui ci avrebbe creduto. È tornato Bettino, nel senso di Craxi: “il cinghialone” (come lo chiamava Giampaolo Pansa) non è più tabù, non è più un “pregiudicato con sentenza definitiva” ed è effettivamente morto in esilio, più che in latitanza. Ma al tempo della sua caduta, Craxi era l’Alì Babà con i cento ladroni, Pietro Gambadilegno e Al Capone. Così fu consegnato alle iconografie della cronaca e satira del mainstream, della memoria corretta. A quanto pare, oggi Bettino Craxi torna su come una peperonata maldigerita dalla politica annaspante anche perché è diventata adulta una generazione che non era ancora al mondo quando morì, giusto venti anni fa, in Tunisia. Ricordo quei funerali, quel caldo africano, quella folla, quella disperazione rabbiosa, tutto l’enorme non-detto che gravava su tutti in quei giorni tristi e definitivi. Poi, dopo, Craxi è veramente morto. Quando si è spento il clamore, gli elettricisti si sono portati via i fari, i tecnici del suono hanno riposto i microfoni, allora sono rimasti in pochi: per prima la figlia Stefania che non ha mollato l’osso per un secondo e che se papà l’avesse vista sarebbe felice; e anche Bobo, il maschio che fisicamente gli somiglia, con le loro distanze e differenze. Ricordo una domenica ad Hammamet quando Craxi costrinse tutti, me compreso che ero lì come inviato di Repubblica, a stare a mollo in piedi in mezzo a quel mare opalescente e subito profondo, per parlare. Cioè per essere ascoltato. Parlava accompagnandosi con quei gesti subito imitati circolari, lenti, interrotti da silenzi indecifrabili in cui era meglio non ti azzardassi ad entrare perché non erano silenzi, ma pause. Sua moglie poi lo cambiava amorevolmente e lo asciugava. E quando, nei giorni della catastrofe, mi vide in via dell’Anima dove era in trattoria dopo il suicidio in carcere di Gabriele Cagliari (trovatemi uno che riesca ad ammazzarsi con un sacchetto di plastica da solo) e poco prima di quello di Raoul Gardini (uno che va in sauna, si fa una doccia, ordina un drink e si spara) mi chiese di sedermi. E mi disse: «Questi ti ammazzano. Stai attento. Questi non si fermano di fronte a nulla». Era sconvolto, aveva paura, mi trasmise paura. La fine è nota, ma non troppo. Oggi il film di Amelio, Hammamet, spedito nei cinema per il ventennale della scomparsa, riempie le sale. Spopola. La gente fa la fila. L’interpretazione di Pierfrancesco Favino mi dicono che è straordinaria perché ha studiato i gesti, i tic, i tempi, ha ricostruito un avatar di Craxi. Io non andrò a vederlo perché i film sul tempo che ho vissuto sono inevitabilmente contestati dalla memoria. Ma il fatto storico è che Craxi non è più una parolaccia e che i pochi socialisti ancora sul campo chiedono agli ex comunisti di Zingaretti se intendono o no rendere onore all’uomo che – fra l’altro – sdoganò i comunisti in Europa e che sognava (prima che se lo mangiassero vivo) di “aiutarli” a uscire indenni dal crollo sovietico. Ci fu un camper, lo ricorderete, in cui ricevette a via del Corso i due dioscuri del Pci: il capelluto e sottile Massimo D’Alema e il più gioviale Walter Veltroni. Si era messo in testa, Craxi, di imbarcare nella sua sterzata socialista autonomista tutta la sinistra che lui immaginava allo sfascio. Invece era lui che sarebbe stato di lì a poco rottamato ed eliminato. Io sono stato per puro caso il giornalista che senza alcun merito scoprì il sistema della corruzione politica sistematica che poi sarà chiamata Tangentopoli nel 1980, quando Eugenio Scalfari mi mandò a intervistare il braccio destro di Giulio Andreotti, Franco Evangelisti, che commise una imprudenza: sapendo che mio padre era un vecchio democristiano e amico fraterno di Andreotti, mi accolse dicendomi: «Lo sai che tuo padre è amico di Giulio, vero? Be’, prima di fare l’intervista ti devo raccontare come funziona il background» (che lui chiama black ground) e spassionatamente mi fece quel racconto passato alla storia sotto il titolo “A Fra’ che te serve?”, con la descrizione minuta dei finanziamenti occulti. Poveretto, si dovette dimettere. E la sua intervista (io ovviamente scrissi tutto il suo background) provocò un grande scandalo ma soltanto per i modi romaneschi e popolani dell’uomo, la sua improntitudine di politico pratico. Ci furono convegni e vignette, ma non un solo procuratore della Repubblica, non uno, che aprisse un fascicolo contro ignoti sulle allegre finanze di partiti e politici. Non era un caso: nel 1980 non era prevista Tangentopoli. E me lo spiegarono con calma sorniona gli amici comunisti di allora: «Noi ci finanziamo illegalmente da Mosca con milioni di dollari e l’accordo con gli altri partiti e anche col sistema giudiziario è che ognuno si fa i fatti suoi». Infatti il sistema fu confermato dagli stessi comunisti e spiegato da Francesco Cossiga. Insomma, non c’era motivo, nel 1980, per mettere in crisi il sistema degli approvvigionamenti tutti illegali. Fu ciò che Bettino Craxi disse, con tutte le pezze d’appoggio, nel celebre discorso alla Camera dei Deputati del 29 aprile 1993, quando ammise i finanziamenti illeciti al suo partito sfidando tutti gli altri partiti a negare di essersi finanziati oltre i limiti del codice penale. Nessuno fiatò e Bettino Craxi fu impolpettato da una campagna senza tregua e da accuse e processi fra cui quello di cui Di Pietro fu il leggendario Pubblico Ministero e che – avendo un passato di deferente agente di polizia – interrogò Craxi in tribunale usandogli dei riguardi formali e un tono rispettoso che gli fu aspramente rimproverato da Scalfari su Repubblica: che gioco sta facendo Antonio Di Pietro? Gli italiani furono portati a un tremendo livello di sovraeccitazione di tipo “grillino”, i politici apparivano una gang di criminali incalliti e Bettino Craxi, il cultore del mito di Garibaldi e il finanziatore dei palestinesi e altri movimenti di liberazione (per quei capricci Craxi spese tutto ciò di cui si poteva approvvigionare) diventò un gangster, quello contro cui scagliare con un gesto di disprezzo umiliante, manciate di monetine all’uscita dell’hotel Raphael dove abitava. Aveva quel fisico particolare: un omone altissimo con occhialoni che ingrandivano lo stupore dei suoi occhi, afflitto da un diabete alimentare che lo rendeva spesso emotivo e un divoratore leggendario (con lui al ristorante dovevi difendere il tuo piatto dalla sua forchetta) e aveva l’aria di quei ragazzoni che dalla ferrovia prendevano a sassate i figli di signori col loden. Non portava un loden ma un impermeabile enorme e stropicciato specialmente quando non pioveva e fummo molto vicini quando si trattò di tentare di salvare Aldo Moro in mano alle Brigate Rosse, che la Dc e il Pci avevano di fatto condannato a morte. Ci incontrammo agitati sotto la sede del Partito socialista a due passi da piazza del Popolo e disse, come se il latino fosse diventato la lingua condivisa, “Primum vivere”. Lui e Scalfari erano nemicissimi, ma nell’inimicizia si consideravano gli unici duellanti degni l’uno dell’altro. Scalfari era stato salvato in Parlamento dal segretario socialista Giacomo Mancini che lo aveva fatto eleggere alla Camera per metterlo in salvo dalla condanna per il processo sui fatti del 1967. Era deputato a Milano dove entrò subito in conflitto frontale con Bettino. E quando Scalfari ebbe un diverbio con un vigile milanese per una questione di parcheggio, Craxi fece arrivare la notizia al Corriere della Sera che mise in prima pagina il titolo su Scalfari che diceva “lei non sa chi sono io”. Risultato: Eugenio perse la rielezione per pochi voti, all’Espresso gli sbarrarono la strada e lui fondò Repubblica che fu la modernissima macchina da guerra con cui duellare con Craxi fino alla sua fine. Tuttavia, Craxi vestito di bianco veniva a Repubblica per i forum, accolto dal padrone di casa come li cavalieri antichi dell’Ariosto. I veri nemici implacabili di Craxi furono Ciriaco De Mita della Dc ed Enrico Berlinguer segretario del Pci che stava cambiando in corsa la ruota ideologica del suo partito, eliminando l’esausta spinta propulsiva della Rivoluzione d’Ottobre per sostituirla con un moralismo rigorista più vicino a Santa Maria Goretti che a Lenin. Craxi invece giocava sull’Italia della nuova felicità, della Milano da bere, delle feste e dei famosi “nani e ballerine”, circondato però da cervelli di primissima grandezza come quelli di Gianni De Michelis, Giuliano Amato, Rino Formica (per dire i primi che vengono in mente) e il quasi figlio adottivo Claudio Martelli cui regalò una copia di Giamburrasca, l’apoteosi del monello. Martelli poi ruppe nel momento della disgrazia e fu messo praticamente al bando. Craxi era antisovietico e rese possibile dopo una battaglia ai limiti della guerra civile mentale, l’installazione degli euromissili in risposta a quelli sovietici SS20. Tuttavia fu celebrato, allora come oggi, per l’episodio di Sigonella, quando fece schierare i carabinieri col mitra davanti ai Seals americani nella base della Nato in cui era stato costretto ad atterrare l’aereo che secondo i piani di Craxi avrebbe dovuto portare in salvo i terroristi di Al Fatah che avevano sequestrato la nave da crociera Achille Lauro e assassinato a sangue freddo il cittadino americano Leon Klinghoffer. È possibile che quel colpo di testa e di mano gli abbia valso l’inimicizia eterna della Cia che, lo sappiamo ormai da documenti pubblici e pubblicati, faceva il tifo per portare i comunisti italiani al governo dopo una irreversibile rottura con l’Urss che però mai avvenne, perché il Pci, come ricordava continuamente Scalfari dalla sua ammiraglia, rimase sempre in mezzo al guado. Craxi morì dopo aver subìto un trattamento da criminale e per una operazione sbagliata che non poté fare in Italia per non finire in carcere. Oggi, Craxi è tornato, almeno il suo simulacro cinematografico e il suo nome non sono più tabù. Cancellato dal registro dei ricercati, è riapparso sull’albo della Storia d’Italia.
· Craxi e Mani Pulite - Tangentopoli.
La fame di verità nell’Italia delle trame. I colpevoli scoperti, il grande desiderio di un popolo con la giustizia meno giusta. Roberto Marino su Il Quotidiano del Sud l'11 ottobre 2020. Tutti a indagare, a investigare, a caccia di colpevoli e di verità. Quanti segugi del crimine gli italiani hanno visto sfilare sullo schermo di Mamma Rai e non solo. Dal mitico tenente Sheridan, sigaretta e impermeabile sempre dietro, al vicequestore Schiavone, poliziotto atipico con la passione delle canne in un’Aosta gelida e piena di intrighi. E poi Ingravallo, Montalbano, il maresciallo Rocca, Nero Wolfe. Una lista infinita, la passione per il mistero, le trame oscure, i malvagi e l’ossessione del lieto fine. Tranne qualche epilogo a sorpresa del commissario di Vigata, i cattivi vengono acciuffati e puniti, la giustizia arriva rapida e puntuale, fino a farci cambiare canale rilassati e felici. E quando non sono bastati i nostri, sono arrivati gli altri, la signora in giallo, l’ispettore Derrick. Senza contare le serie tratte da storie vere come quella del Capitano Ultimo, di scena su altre emittenti. I delitti, la paura e le nefandezze dell’umanità raccontate e identificate con i colori: giallo, nero, quasi un’etichetta per non fare confusione con le altre storie della vita. Un esercito di poliziotti, carabinieri, detective privati a caccia del bene più prezioso e raro di un popolo: la verità. Le loro vicende assorbite come un placebo per curare l’ansia e la voglia che tutto sia sempre chiaro, giusto, con i cattivi nel posto che meritano e i buoni protetti, tranquilli, in salvo. L’effetto rassicurante, come fiabe per adulti, dove ogni sfregio o strappo viene rimesso a posto e torna come prima. Dall’indignazione e l’angoscia per il fattaccio iniziale alla conclusione rassicurante. Il sacrilegio accomodato con la giustizia che mette ordine a ogni cosa. Ogni comunità ha i suoi eroi al servizio della verità e paladini dello status quo. Noi italiani abbiamo forse un motivo in più per tuffarci nelle giornate piene di Sheridan o di Montalbano. Abbiamo una fame di verità maggiore, dopo mezzo secolo di stragi, strategie della tensione, misteri ingloriosi. Siamo ancora qui che aspettiamo l’esito finale, senza ombre e dubbi, su Piazza Fontana, Ustica, la stazione di Bologna. Non sappiamo nulla della scomparsa di due ragazze vicine agli ambienti del Vaticano, non si trovano neanche i resti del giornalista De Mauro. Sono talmente tanti i nostri misteri che alla fine da qualche parte dobbiamo avere una consolazione che ci faccia ancora sperare e avere fiducia. E poi volete mettere: in una puntata di 90 minuti si arriva alla conclusione, senza i decenni degli iter giudiziari, i passaggi nei vari gradi di giudizio. Le eccezioni, i cavilli, le prescrizioni. E senza gli errori o l’innocente che finisce dentro. La verità, solo la verità, niente altro che la verità. La Rai ha messo in campo il meglio, con attori, registi, sceneggiatori che hanno reso veri, indimenticabili i personaggi delle storie del crimine, creando figure epiche (si pensi alla Piovra) impegnate nella lotta alle grandi mafie, un altro dei nostri prodotti tipici. Successo scontato e garantito: il Paese che ancora dà la caccia agli assassini di Giulio Cesare ha trovato il modo di evadere dalla realtà. La verità, la verità, la verità. Il vero patrimonio nascosto di un popolo sfiduciato che non vuole arrendersi.
Davigo: «Rapporti tesi con il potere politico dal ’92». Tangentopoli? Come una guerra. Il Dubbio l'11 febbraio 2020. Le parole del consigliere del csm in un verbale del 2012, quando fu ascoltato per il processo sulla trattativa Stato-Mafia. Tangentopoli come una guerra, in cui si era costretti a lavorare «sotto i bombardamenti», una guerra che «non consentiva nessun tipo di vita privata». E da quella stagione che seppellì la prima repubblica «i rapporti con il potere politico sono sempre stati tesi». Sono le parole del consigliere del csm Pier Camillo Davigo in un verbale del 20 settembre 2012 che ora la difesa del generale Mario mori chiede di acquisire per il processo sulla trattativa stato-Mafia. Parlando del forte conflitto con la classe politica dell’epoca Davigo racconta di uno «scontro pubblico con il «presidente del consiglio» di allora «Giuliano Amato, perché il governo preparò, non ricordo se uno schema di disegno di legge o uno schema di decreto legge in cui prevedeva la depenalizzazione del finanziamento illecito ai partiti politici e disse che era quello che chiedevamo noi». «Allora il Procuratore capo di allora Francesco Saverio Borrelli lesse una dichiarazione alla stampa in cui disse: Noi non c’entriamo niente, ci auguriamo che il governo si assuma le sue responsabilità, facciano quello che credano ma non dicano che glielo abbiamo chiesto noi. Poi visto che ci hanno tirato in ballo se proprio volete la nostra opinione è esattamente il contrario di quello che bisognerebbe fare perché una delle valutazioni se depenalizzare o no è che è l’autorità che deve reprimere questi comportamenti, deve godere di indipendenza dai soggetti da reprimere». E ribadisce i rapporti «tesi con il potere» «già dal 1992».
Da liberoquotidiano.it il 12 febbraio 2020. A DiMartedì su La7 va in onda un siparietto tra Maria Elena Boschi e Piercamillo Davigo. Quest'ultimo sostiene che "il giorno più brutto nella mia vita di cittadino della Repubblica è stato quando Bettino Craxi sul finanziamento illecito disse in Parlamento: Qui lo avete fatto tutti. E nessuno si alzò per digli: Ma come ti permetti, io no". Lo studio di Giovanni Floris applaude, ma Davigo viene spento dalla Boschi, che replica con l'ironia: "Io non c'ero in Parlamento, all'epoca facevo le scuole medie". Come a dire, almeno su questo argomento non prendetevela con me e con Italia Viva.
La favola del puro Davigo e dei magistrati che si considerano migliori dei politici ma non vedono l’ora di emularli. Frank Cimini su Il Riformista il 21 Ottobre 2020. C’è un manuale Cencelli dei magistrati e dice che Piercamillo Davigo è stato il numero uno dell’Anm per un anno, una sorta di contratto a termine con incarico a rotazione per i leader di altre correnti in modo da non scontentare nessuno e accontentare tutti o quasi tutti. Si considerano i migliori, dicono peste e corna dei politici, ma in realtà non vedono l’ora di emularli. I politici vengono eletti anche se in realtà nominati dai vertici dei partiti, le toghe hanno solo vinto un concorso. È appena finita con il pensionamento la parabola dentro la categoria di Davigo del quale per anni articolesse perentorie e definitive, editoriali, pezzi di tg hanno raccontato di un magistrato inflessibile la solita favola trita e ritrita di quello che non guarda in faccia a nessuno. Eppure al vertice dell’Anm non ce lo aveva messo lo spirito santo, ma nessuno ha ricordato il “dettaglio” neanche nel momento dello scontro interno alla categoria che ha preceduto la decisione sul pensionamento. In realtà il merito cioè la colpa sta tutta in Mani pulite la più grande presa per i fondelli della storia giudiziaria dov’è ci furono mille pesi e mille misure ma che godeva di buona stampa (eufemismo) perché gli editori a causa delle loro attività imprenditoriali erano tutti sotto lo schiaffo del mitico pool. Davigo fu protagonista di una stagione in cui lo stato di diritto finì in soffitta dopo essere già stato falcidiato anni prima in virtù della delega che la politica aveva dato ai giudici per risolvere il problema della sovversione interna. Davigo, tanto per ricordarne una tra tante, davanti al fascicolo sul generale Giampaolo Ganzer indagato per traffico di droga si inventò letteralmente la competenza di Bologna insieme alla collega Ilda Boccassini altra toga la cui fama va oltre tutte le galassie. La Cassazione si mise a ridere e rimandò il fascicolo su Ganzer a Milano. Insomma semplicemente Davigo e Boccassini non se la sentirono di indagare sull’allora potente capo del Ros dei carabinieri. Del resto si sa che in magistratura è possibile acquisire maggiore potere sia facendo le inchieste che non facendole a seconda della convenienza. Accadde così con Mani pulite dove ci furono interi tronconi di indagine dimenticati nei cassetti. Lo stesso è avvenuto in anni più recenti per Expo dove la procura di Milano se ne fregò dell’obbligatorietà dell’azione penale per salvare l’evento. Davigo come altri magistrati ha scelto quali inchieste fare e quali no. Se non ci sono innocenti ma solo colpevoli che l’hanno fatta franca come ama sproloquiare il nostro ci sono indagati dai quali è meglio stare lontani e passare la palla a qualche collega. Ganzer infatti andò a giudizio e fu condannato in base a indagini fatte da altri. E adesso Piercamillo Davigo ci delizierà con i suoi “giardinetti”, ficcanti editoriali sul Manette Daily e comparsate televisive senza in pratica contraddittorio in cui ripeterà per l’ennesima volta l’aneddotto sul vicino che ti ruba l’argenteria e non devi aspettare la Cassazione per non invitarlo più a cena. Ma non sappiamo se sarà tutto proprio come prima, senza l’incarico e senza il potere che ne derivava.
Piercamillo Davigo, Frank Cimini al veleno: "Comparsate televisive e manette quotidiane", ma quale martire. Libero Quotidiano il 21 ottobre 2020. Piercamillo Davigo è stato il numero uno dell’Anm, ma pochi giorni fa il Csm ha votato per il suo pensionamento per limiti d'età nonostante il parere contrario dello stesso Davigo. Questa scelta è dovuta, secondo lo storico cronista giudiziario Frank Cimini, l'uomo che sa tutto sulla Procura milanese avendo seguito in prima linea gli intrighi di Tangentopoli, proprio a Mani pulite, "la più grande presa per i fondelli della storia giudiziaria dove ci furono mille pesi e mille misure ma che godeva di buona stampa (eufemismo) perché gli editori a causa delle loro attività imprenditoriali erano tutti sotto lo schiaffo del mitico pool", scrive il giornalista sul Riformista. "Davigo - ricorda Cimini - fu protagonista di una stagione in cui lo stato di diritto finì in soffitta dopo essere già stato falcidiato anni prima in virtù della delega che la politica aveva dato ai giudici per risolvere il problema della sovversione interna in magistratura è possibile acquisire maggiore potere sia facendo le inchieste che non facendole a seconda della convenienza". Davigo "come altri magistrati ha scelto quali inchieste fare e quali no". Ma Cimini, infine conclude, che comunque Davigo nonostante la pensione non sparirà dalla ribalta, grazie anche a "ficcanti editoriali sul Manette Daily e comparsate televisive senza in pratica contraddittorio in cui ripeterà per l’ennesima volta l’aneddoto sul vicino che ti ruba l’argenteria e non devi aspettare la Cassazione per non invitarlo più a cena".
Frank Cimini per ''il Riformista'' il 21 ottobre 2020. C’è un manuale Cencelli dei magistrati e dice che Piercamillo Davigo è stato il numero uno dell’Anm per un anno, una sorta di contratto a termine con incarico a rotazione per i leader di altre correnti in modo da non scontentare nessuno e accontentare tutti o quasi tutti. Si considerano i migliori dicono peste e corna dei politici ma in realtà non vedono l’ora di emularli. I politici vengono eletti anche se in realtà nominati dai vertici dei partiti, le toghe hanno solo vinto un concorso. È appena finita con il pensionamento la parabola dentro la categoria di Davigo del quale per anni articolesse perentorie e definitive, editoriali, pezzi di tg hanno raccontato di un magistrato inflessibile la solita favola trita e ritrita di quello che non guarda in faccia a nessuno. Eppure al vertice dell’Anm non ce lo aveva messo lo spirito santo, ma nessuno ha ricordato il “dettaglio” neanche nel momento dello scontro interno alla categoria che ha preceduto la decisione sul pensionamento. In realtà il merito cioè la colpa sta tutta in Mani pulite la più grande presa per i fondelli della storia giudiziaria dov’è ci furono mille pesi e mille misure ma che godeva di buona stampa (eufemismo) perché gli editori a causa delle loro attività imprenditoriali erano tutti sotto lo schiaffo del mitico pool. Davigo fu protagonista di una stagione in cui lo stato di diritto finì in soffitta dopo essere già stato falcidiato anni prima in virtù della delega che la politica aveva dato ai giudici per risolvere il problema della sovversione interna. Davigo, tanto per ricordarne una tra tante, davanti al fascicolo sul generale Giampaolo Ganzer indagato per traffico di droga si inventò letteralmente la competenza di Bologna insieme alla collega Ilda Boccassini altra toga la cui fama va oltre tutte le galassie. La Cassazione si mise a ridere e rimandò il fascicolo su Ganzer a Milano. Insomma semplicemente Davigo e Boccassini non se la sentirono di indagare sull’allora potente capo del Ros dei carabinieri. Del resto si sa che in magistratura è possibile acquisire maggiore potere sia facendo le inchieste che non facendole a seconda della convenienza. Accadde così con Mani pulite dove ci furono interi tronconi di indagine dimenticati nei cassetti. Lo stesso è avvenuto in anni più recenti per Expo dove la procura di Milano se ne fregò dell’obbligatorietà dell’azione penale per salvare l’evento. Davigo come altri magistrati ha scelto quali inchieste fare e quali no. Se non ci sono innocenti ma solo colpevoli che l’hanno fatta franca come ama sproloquiare il nostro, ci sono indagati dai quali è meglio stare lontani e passare la palla a qualche collega. Ganzer infatti andò a giudizio e fu condannato in base a indagini fatte da altri. E adesso Piercamillo Davigo ci delizierà con i suoi “giardinetti”, ficcanti editoriali sul Manette Daily e comparsate televisive senza in pratica contraddittorio in cui ripeterà per l’ennesima volta l’aneddoto sul vicino che ti ruba l’argenteria e non devi aspettare la Cassazione per non invitarlo più a cena. Ma non sappiamo se sarà tutto proprio come prima, senza l’incarico e senza il potere che ne derivava.
Con la pensione di Davigo chiusa l’era di Mani Pulite. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 21 Ottobre 2020. Piercamillo Davigo lascia la toga. O la toga lascia lui. Comunque finisca la vicenda della sua uscita dal Csm, il suo ricorso al Tar, il suo probabile ritorno come showman dai vari Formigli, comunque da due giorni Piercamillo Davigo non è più un magistrato. Un’era è finita. Quella di Mani Pulite di cui lui era il vero erede. L’era di quelli dalle manette facili, del “o parli o ti sbatto in galera e butto la chiave” (non l’ha inventato Salvini), e di quando si erano suicidati in 41 e uno di quei pm (non facciamo il nome solo perché non c’è più) disse che per fortuna qualcuno aveva ancora il senso dell’onore. Un gruppo di capitani coraggiosi, ma con i canini affilati. Saverio Borrelli, il capo, non c’è più. E neppure il suo vice, Gerardo D’Ambrosio. Mi è difficile serbarne lo stesso ricordo, anche umano, che avrei avuto di loro se fossero rimasti quelli che avevo conosciuto all’inizio del mio lavoro di cronista al palazzo di giustizia di Milano. Di D’Ambrosio, “zio Gerry”, ero anche stata amica, fino al 1992. Poi ci fu quella sorta di mutazione genetica che li rese famosi ma anche insopportabili. Così è finita che di Borrelli mi ricordo più il giorno in cui diede dell’ubriacone al ministro Biondi che non quello in cui si era avventurato – lui, il procuratore capo di Milano- nello scantinato della redazione del Manifesto dove lavoravo, per portarmi personalmente una sua precisazione su un articolo che avevo scritto. L’avevo descritto come un “uomo in grigio” e si era un po’ risentito. Ma senza prosopopea, quasi con umiltà. I canini li avrebbe tirati fuori molto tempo dopo, soprattutto nei confronti di Silvio Berlusconi, che non ebbe mai invece cattiveria o senso di vendetta contro di lui. Tanto che un giorno, quando gli avevo detto che Borrelli stava male, aveva sussurrato “Mi dispiace”. Forse gli era sfuggito che, molti anni dopo Mani Pulite, l’ex procuratore del “resistere resistere resistere” aveva dichiarato che, se avesse potuto prevedere che dopo lo sfascio della prima repubblica sarebbe arrivato Berlusconi, forse non avrebbe fatto niente. Con ciò confermando il ruolo politico del pool e di tutta quanta l’operazione Tangentopoli. Gerardo D’Ambrosio aveva forse i canini un po’ meno affilati, ma fu quello che svolse il ruolo più politico (forse anche partitico), spingendosi fino a cercare improbabilissime prove a favore dell’imputato Primo Greganti, cui fece fare qualcosa come seicento chilometri, da Roma a Milano, in dieci minuti. Dimostrando così che, benché la legge preveda, anzi lo imponga, che il pubblico ministero cerchi anche le prove a favore dell’imputato, questo accada solo in casi rarissimi e molto molto particolari. Davigo era proprio rimasto l’ultimo portatore di quel particolare modo di amministrare la giustizia che fu Mani Pulite. Nessuno come lui ha saputo sbatterci in faccia il fatto che siamo tutti colpevoli, ma quelli di noi che sono ancora a piede libero sono i furbetti che l’hanno fatta franca. Non pare pensarla più così Antonio Di Pietro, che lasciò la toga sbattendola da qualche parte in modo improvviso e rabbioso mentre era al culmine della sua carriera. Che poi trasformò in carriera politica. E che oggi, forse perché fa l’avvocato e comincia a capire che cosa si prova dall’altra parte, quando va in tv sembra un vecchio zio, un po’ sornione e molto saggio. Gherardo Colombo è quello che mostra la trasformazione più radicale. Anche se, per chi come me lo ha conosciuto piuttosto bene da prima, non è proprio una sorpresa. Prima di tutto perché Colombo è molto cattolico e ha un’inclinazione a far tracimare la sua rigorosa morale in moralismo. E anche perché, prima che si trovasse tra le mani la bomba politica che prenderà il nome di Tangentopoli, faceva parte di quel gruppo di “estremisti” della sinistra di Magistratura Democratica che erano davvero garantisti. Oggi fa l’editore, ma soprattutto si occupa del carcere nel gruppo La Nave di San Vittore sulla tossicodipendenza e collabora con Nessuno tocchi Caino. Si è reso conto anche dell’inutilità stessa del carcere. Non so se abbia anche fatto il passo successivo, perché in galera si finisce in genere dopo un processo più o meno giusto e purtroppo, come è accaduto in modo feroce con Mani Pulite, anche senza processo, in custodia cautelare. Capire che la pena non dove necessariamente coincidere con la privazione della libertà non sempre coincide con la consapevolezza del fatto che lo stesso processo è già in sé una pena. Francesco Greco è rimasto sulla tolda della nave. Ha raggiunto il posto che fu di Borrelli, procuratore capo di Milano. Non si sa se davvero la sua promozione sia entrata nel paniere delle trattative di Luca Palamara, probabilmente sì. È sempre stato un politico, ma anche lui come i suoi ex colleghi ha raggiunto un certo equilibrio. Quando era un semplice sostituto un po’ scanzonato e pigro detestava quelli come Armando Spataro che usavano il “pentitismo” come leva per le indagini e le chiamate in correità di Marco Barbone per fare gli arresti. Poi c’è stata Mani Pulite e anche lui era cambiato. Ma oggi Greco non direbbe mai frasi come quelle che escono in libertà dalla bocca di Davigo sui colpevoli che l’hanno fatta franca. Era Davigo l’ultimo del pool che distrusse la Prima Repubblica. Oggi, mentre lui lascia la toga, o la toga lascia lui, quel capitolo è proprio chiuso. Troppo tardi. Ma chiuso.
DAL 1992 AL 2020: LA STORIA DEL POOL.
17 febbraio 1992 – Il pm Antonio Di Pietro chiede e ottiene un ordine di cattura per l’ingegner Mario Chiesa, membro di primo piano del Psi
28 aprile 1992 – Francesco Cossiga si dimette da presidente della Repubblica
29 gennaio 1993 – Viene perquisita la segreteria amministrativa nazionale del Psi, in via Tomacelli a Roma
9 febbraio 1993 – Craxi lascia la segreteria del Partito socialista
10 febbraio 1993 – Claudio Martelli riceve l’avviso di garanzia, gli viene comunicato di essere indagato per la bancarotta fraudolenta del Banco Ambrosiano, da cui il suo partito, il Psi, aveva attinto milioni di lire del “conto Protezione” di Licio Gelli, “gran burattinaio” della P2
1 marzo 1993 – Viene arrestato Primo Greganti, noto come il “compagno G”. Non collaborò mai con i giudici negando ogni addebito. L’8 maggio 2014 è stato nuovamente arrestato per tangenti legate all’Expo 2015
4 marzo 1993 – Viene arrestato Enzo Carra, esponente della Dc. Suscitano particolare clamore le foto del suo ingresso in aula con le manette ai polsi
16 marzo 1993 – Luca Leoni Orsenigo, deputato della Lega Nord, sventola nell’aula di Montecitorio un cappio, nell’esplicito riferimento alla necessità di fare pulizia di una classe politica corrotta
30 aprile 1993 – Il segretario del Partito socialista italiano Bettino Craxi, uscendo dall’Hotel Raphael, affronta i contestatori che lanciano una pioggia di oggetti: sassi, sigarette, pezzi di vetro e soprattutto monetine
20 luglio 1993 – Gabriele Cagliari, ex presidente dell’Enel, si uccide soffocandosi con un sacchetto di plastica legato al collo con un laccio da scarpe. La sua morte scatena un acceso dibattito sull’utilizzo dello strumento della custodia cautelare da parte della magistratura
23 luglio 1993 – L’imprenditore Raul Gardini si suicida con un colpo di pistola alla testa
4 agosto 1993 – La Camera autorizza l’indagine su Bettino Craxi
6 dicembre 1994 – Antonio Di Pietro si dimette dalla magistratura. Nel ‘98 fonda Italia dei Valori
17 febbraio 2007 – Esattamente quindici anni dopo l’inizio dell’inchiesta Mani pulite, Gherardo Colombo comunica le sue dimissioni da magistrato
30 marzo 2014 – Muore il magistrato Gerardo D’Ambrosio, altro grande protagonista della stagione di Tangentopoli e membro del pool di Mani Pulite
20 luglio 2019 – Muore un altro protagonista dell’inchiesta Mani Pulite, il magistrato Francesco Saverio Borrelli, anche lui nel pool
19 ottobre 2020 – Piercamillo Davigo, altro membro storico del pool, va in pensione e lascia il suo ruolo da consigliere del Csm. I suoi colleghi si sono espressi con 13 voti contro, 6 a favore della sua permanenza in consiglio, 5 astensioni
Da Mani Pulite a oggi. Sentenza anticipata, lo strumento nato con Tangentopoli e utilizzato ancora oggi (che ha distrutto Cosentino e colpito Renzi e Salvini). Fabrizio Cicchitto su Il Riformista l'11 Ottobre 2020. Caro direttore, il suo è stato l’unico quotidiano che ha dato risalto nei titoli, nelle foto, negli articoli all’assoluzione di Nicola Cosentino. I grandi quotidiani hanno relegato la notizia in uno spazio che era visibile solo per chi la conosceva già e l’andava a cercare. Il Fatto Quotidiano ha balbettato. Saviano non pervenuto. Guai, però, se trattiamo questi episodi e altri (la richiesta di condanna a 8 anni per Nunzia De Girolamo e anche i guai giudiziari di Renzi e di Salvini) come una serie di singoli episodi. No, essi e molti altri rientrano nel fatto che dal 1992-1994 i Pm e il circo mediatico ad essi collegato hanno conquistato il potere in questo paese. Ciò è derivato da una serie di operazioni concatenate che hanno portato al quasi totale cambiamento del sistema politico, dei soggetti politici, dei leaders del nostro paese. Questa operazione, non per banalizzarne lo spessore che è profondo, ma per cogliere lo strumento “attuativo” che è stato adottato dal 1992 in poi, avendo come retroterra la congiunzione fra l’iniziativa giudiziaria e l’impatto mediatico (che è fondamentale) ha preso il nome di “sentenza anticipata”. Il termine è stato brillantemente spiegato dal “cervello” di Mani Pulite che è stato il procuratore Borrelli. In un libro intervista Borrelli ha spiegato cosa si intende per “sentenza anticipata”. Noi la traduciamo in pillole. «Se io Pm invio a te uomo politico, che come tale hai un fondamentale problema di prestigio nei confronti della pubblica opinione e di consenso nei confronti dei cittadini elettori, un avviso di garanzia (il massimo degli effetti sarebbe una bella custodia cautelare) sparato dai maggiori quotidiani, dal quotidiano locale e da alcune televisioni il gioco è fatto: tu sei azzerato come personalità politica sia sul terreno del prestigio che del consenso e a quel punto la sentenza è stata data. Se poi dopo sette anni tu sei assolto con sentenza definitiva dalla magistratura giudicante ciò vale per la tua biografia personale, ma è insufficiente sul piano politico: da tempo prestigio e consenso sono evaporati. Se un’operazione siffatta poi non colpisce solo il “leader maximo” di un partito, ma viene estesa a 1.000-2.000 dirigenti nazionali e locali come negli anni ’92-’94 avvenne per la DC e per il PSI (per il PRI, il partito degli onesti secondo Giorgio La Malfa, il PLI, il PSDI bastò colpire i segretari) ecco che il centro-destra della DC (la sinistra DC venne risparmiata) e l’intero PSI sono stati azzerati. Allora prima di parlare di Nicola Cosentino, e anche di Nunzia De Girolamo, non si può non fare un passo indietro e tornare da dove tutto è partito, cioè da Mani Pulite. Ora, quale fu l’operazione eversivo-rivoluzionaria messa in atto da Mani Pulite? Una cosa semplicissima. Da sempre, dalla fondazione della repubblica tutti i partiti si sono finanziati in modo irregolare. La DC e i partiti di governo erano finanziati dalla FIAT, dall’Assolombarda, dalla Montecatini, poi dalle industrie a partecipazioni statali, addirittura l’ENI con Enrico Mattei e Albertino Marcora tenne a battesimo la sinistra di Base che ha svolto un ruolo politico fondamentale nella DC. A sua volta il PCI ha avuto fino agli anni ’80 enormi finanziamenti dal KGB, poi dalle cooperative rosse, ma anche da privati, una rete di società import-export per privati italiani e per paesi comunisti dell’Est e ha goduto di una permanente rendita petrolifera proveniente dall’ENI di cui ha parlato diffusamente Gianni Cervetti nel suo libro L’oro di Mosca. Il PSI fino all’avvento di Craxi è stato finanziato dal maggiore partito alleato, ai tempi del frontismo attraverso il PCI, dal KGB e dalle cooperative rosse, ai tempi del centro-sinistra attraverso la DC, da aziende dell’Iri e dall’ENI, più imprenditori privati, qualche amico personale di Pietro Nenni, come il vecchio Rizzoli. Gli uni sapevano degli altri. Cossiga ha ricordato che il ministero dell’Interno seguiva gli “scambisti” che traducevano in lire i rubli e i dollari che provenivano dall’URSS al PCI. Parliamoci chiaro: se il metodo e le scelte del pool di Mani Pulite fosse stato adottato nella prima fase della Prima Repubblica De Gasperi, Fanfani, Andreotti, Saragat, Malagodi, La Malfa, Nenni, Morandi, Togliatti, Secchia, Amendola avrebbero avuto guai giudiziari assai seri. Poi quando andò avanti la politica di unità nazionale (’76-’79) e comunque diminuì la tensione fra gli USA e l’URSS, si arrivò anche a operazioni di finanziamento comuni: ad esempio in Italstat venivano gestiti gli appalti per le grandi opere pubbliche: le grandi imprese private e pubbliche dell’edilizia gestivano di comune intesa a rotazione l’assegnazione degli appalti. Da un certo momento in poi alle cooperative rosse fu riservata una quota oscillante fra il 20 e il 30%. Bene, ad un certo punto, specie dopo la sottoscrizione del trattato di Maastricht che imponeva mercato e libera concorrenza, il sistema di Tangentopoli risultò antieconomico. In più con il crollo del muro di Berlino (1989) e la fine del PCUS (1991) i grandi gruppi privati italiani riconobbero sempre meno il ruolo dei partiti, in primis della DC e del PSI. Allora, in uno Stato normale si sarebbe dovuto fare una grande operazione consociativa, magari anche con un’amnistia, nella quale tutto il sistema del finanziamento irregolare veniva smontato, casomai rafforzando il finanziamento pubblico e realizzando una rigorosa regolamentazione dei partiti (art. 49 della Costituzione) per assicurare la democrazia interna. Avvenne tutto il contrario. Un’amnistia ci fu, nel 1989, ma essa servì a preservare il PCI da azioni giudiziarie derivanti dall’enorme finanziamento del KGB di cui aveva goduto. Dopodiché c’è stato il più assoluto arbitrio, due pesi e due misure. Il nucleo originario del circo mediatico-giudiziario che ha dato vita a Mani Pulite è stato costituito dal pool dei Pm di Milano, con gip annesso, dai quattro principali quotidiani (Corriere della Sera, Repubblica, Stampa, Unità) i cui direttori o loro incaricati si sentivano ogni sera alle 19 per concordare titoli e aperture sulla base degli input provenienti dal pool dei Pm, il Tg3 (Sandro Curzi già direttore di Radio Praga), Samarcanda (Santoro), le reti Mediaset che Berlusconi aveva messo a disposizione del pool per evitare i guai giudiziari che stavano colpendo gli imprenditori amici di Craxi (arresto di Salvatore Ligresti). Al suo decollo il circo mediatico-giudiziario non aveva rapporti politici preferenziali neanche con il PCI: quello che voleva era smontare il ruolo e l’influenza dei partiti. Sono stato personalmente testimone della preoccupazione, anzi dell’angoscia di qualcuno dei massimi dirigenti del PDS che sapeva benissimo che il loro partito faceva parte del sistema del finanziamento irregolare. Non a caso al centro delle preoccupazioni era specialmente il PDS di Milano: poco dopo fu arrestato Cappellini, segretario della federazione, berlingueriano di stretta osservanza, non migliorista. Adesso è emerso che Cuccia interpellò Craxi perché lanciasse un’operazione di leadership personale di stampo gollista: Craxi rifiutò perché si sentiva di appartenere al sistema dei partiti e così segnò la sua rovina, in breve tempo divenne “il cinghialone”, colui che impersonava quel sistema politico-partitico che doveva essere smontato con le buone o con le cattive. Per una fase specialmente Borrelli – il più colto e aristocratico del pool – accarezzò il disegno che ad un certo punto Scalfaro chiamasse un nucleo di magistrati a svolgere un ruolo di supplenza politica nella guida dello Stato. Scalfaro non se la sentì e a quel punto ebbe buon gioco il vice di Borrelli Gerardo D’Ambrosio, da sempre esplicitamente comunista, a spingere il pool ad un’alleanza con il PDS, visto che già nel passato il partito era stato alleato della magistratura sul terrorismo e nella lotta alla mafia. Così avvenne (e, dopo essere andato in pensione, D’Ambrosio per 3 legislature è stato eletto parlamentare del PDS). Quindi da un certo momento in poi scattò l’alleanza fra il pool e il PDS. L’alleanza non escludeva che esponenti locali o dirigenti delle cooperative fossero perseguiti. Essa però escludeva che venissero colpiti i massimi dirigenti nazionali: Craxi e Forlani non potevano non sapere, Occhetto e D’Alema potevano non sapere. L’operazione fu smaccata nel caso Enimont. Malgrado che è risultato che Gardini si era recato in via delle Botteghe Oscure portando una valigetta con un miliardo e che Sama e Cusani che avevano partecipato all’operazione sono stati condannati come corruttori, invece nessun corrotto è stato perseguito. «E che mandavo l’avviso di garanzia al signor PCI?», si è domandato quel garantista del Pm Antonio Di Pietro. Successivamente – registriamo la concomitanza solo in termini oggettivi – egli fu eletto dal PDS nel Mugello e poi il suo partito, Italia dei Valori, fu l’unica formazione politica ammessa da Veltroni in alleanza alla lista del PD. Allora, partendo da questa scelta, in Italia si è verificata una cosa unica in Europa: ben cinque partiti rappresentati da sempre in parlamento sono stati eliminati non dal voto degli elettori, ma dal circo mediatico-giudiziario. Altre forze politiche, pur facendo anch’esse parte del sistema del finanziamento irregolare, cioè il PDS e la sinistra democristiana, non sono state perseguite. C’era il problema dei grandi gruppi imprenditoriali che del sistema di Tangentopoli erano stati parti fondamentali: Valletta fu insieme a Enrico Mattei uno dei fondatori del sistema di Tangentopoli. La questione fu risolta attraverso il ricorso inusitato nella procedura penale con le lettere di Romiti per la FIAT, di Carlo De Benedetti per la CIR che confessavano una serie di tangenti presentandosi come dei poveri concussi prevaricati e costretti dai politici, quei terribili concussori. Se Curzio Malaparte potesse scrivere una nuova edizione del suo libro Tecnica di un colpo di Stato, dovrebbe aggiornarlo: senza un carro armato, senza spari in Italia negli anni ’92-’94 è stata attuata un’autentica rivoluzione (o eversione), perché il sistema del finanziamento irregolare riguardava tutti i partiti, senza eccezione alcuna, e tutti i grandi gruppi privati e pubblici, e il pool di Mani Pulite, invece, ha colpito alcuni e salvato altri, acquisendo però per sé e per tutta la categoria un potere enorme. Le cose non si sono fermate lì. Fino a quando Berlusconi ha fatto l’imprenditore e ha messo le sue televisioni a disposizione del pool non è stato nemmeno sfiorato da un avviso di garanzia. Invece quando è sceso in politica è iniziato un autentico bombardamento giudiziario, già nel 1994 e continuato fino al 2013, con la sua estromissione dal Senato. Purtroppo, in quegli anni non funzionava il trojan: se avesse funzionato, sarebbe risultato che Palamara è un untorello, che si occupava di promozioni e spostamenti e per parte sua ha solo sfiorato verbalmente Salvini. I suoi predecessori hanno fatto ben altro, hanno sconquassato governi (il governo Berlusconi nel 1994, involontariamente, per colpire Mastella, quello di Prodi nel 2008), ministri, parlamentari. Ovviamente i colpi non hanno riguardato solo Berlusconi, ma sono scesi “per li rami”. Cosentino aveva la gravissima colpa di aver fatto fare a Forza Italia in Campania passi da gigante sul terreno dei consensi. Per questo è entrato nel mirino e oramai, fra abuso in atti d’ufficio, concorso esterno in associazione mafiosa, traffico d’influenze illecito è facilissimo, specie nel Sud, da parte dei Pm più aggressivi e faziosi azzerare un uomo politico. Per di più, genialmente il governo Letta ha eliminato il finanziamento pubblico, ma, come ha dimostrato il trattamento riservato ad alcuni dei finanziatori della fondazione di Renzi, è facilissimo affermare che un contributo privato deriva da precisi interessi economici perché una (determinata) operazione economica viene gestita o influenzata dalla personalità politica a cui quella fondazione fa riferimento. Nunzia De Girolamo è la vittima di una “coda” del bombardamento su chiunque facesse parte del mondo berlusconiano. Un sistema così perverso non poteva non produrre una distruzione della politica intesa nella sua dimensione “alta” e per ciò che riguardava la qualità della classe politica. I grillini sono il prodotto finale di questa distruzione della politica e della qualità della classe politica. Il paradosso è che ciò sta avvenendo quando l’Italia deve affrontare la più grave crisi della sua storia dal 1945, una pandemia finora senza vaccino che sta provocando migliaia di morti (finora 36.000 morti, di cui 180 medici: queste cifre se le devono mettere bene in testa i grotteschi negazionisti che fra luglio e agosto hanno fatto danni a non finire anche fornendo ai giovani pessimi esempi) e una gravissima recessione. Quindi oggi l’Italia affronta recessione e pandemia con la più mediocre classe politica della sua storia. Ciò riguarda sia la maggioranza (con qualche eccezione individuale nel PD e in Italia Viva), sia l’opposizione (anche in questo caso con una serie di eccezioni individuali).
Frank Cimini per "giustiziami.it" il 19 settembre 2020. Negli anni 90 nemmeno la Mondadori di Silvio Berlusconi impegnato in un duro conflitto con la magistratura che dura ancora oggi accettò di tradurre “Italian guillotine” scritto da Stanton H. Burnett e Luca Mantovani uscito negli Stati Uniti e punto. La lacuna è stata colmata solo adesso da Aracne edizioni, 345 pagine, 18 euro. “Da libero cittadino trovo intollerabile che i miei connazionali vengano privati del diritto di conoscere riflessioni riguardanti l’Italia indipendentemente dal loro contenuto e da chiunque le abbia formulate“ scrive Marco Gervasoni nella prefazione. E il problema è proprio questo. Per oltre 20 anni l’opinione pubblica è stata privata della conoscenza di una riflessione molto critica su una importante operazione politico-giudiziaria. Questo sia chiaro comunque la si pensi. Chi scrive queste poche righe per esempio non crede che Mani pulite fu un colpo di Stato ma semplicemente la vicenda di una magistratura che andò all’incasso del credito acquisito anni prima quando tolse le castagne dal fuoco per conto della politica risolvendo la questione della sovversione interna. Le carcerazioni preventive al fine di ottenere confessioni ma soprattutto chiamate di correo, i due pesi e due misure dell’indagine sono un fatto ormai acclarato anche se all’epoca fummo in pochi a parlarne e a scriverne oltre che additati come “amici dei ladri”. La corruzione c’era e come anche prima del 1992 ma le procure in testa quella di Milano facevano finta di non vederla. Perché evidentemente non era ancora il momento. L’ora ics scattò nel momento in cui la politica si indebolì e le toghe le saltarono al collo gridando “adesso comandiamo noi”. E comandano ancora adesso. Basta vedere come la categoria sta chiudendo la vicenda del CSM con il capro espiatorio Luca Palamara il quale avrebbe fatto tutto da solo. Contribuendo però per esempio alla nomina di 84 colleghi al vertice di uffici giudiziari. 84 complici tutti assolti in via preventiva perché se no si rompe il giocattolo. ”La ghigliottina italiana” è assolutamente da leggere. Vale per chi allora c’era e per chi non c’era. Per cercare di trarne utili lezioni per il futuro. ()
"Mani pulite" fu la prova generale delle nuove tecniche di colpo di Stato. «La ghigliottina italiana» di Burnett esce finalmente anche nel nostro Paese. Marco Gervasoni, Mercoledì 19/08/2020 su Il Giornale. In un messaggio al Congresso dell'Internazionale socialista tenuto a Roma il 21 e 22 gennaio 1997, che nessuno si degnò di leggere, Bettino Craxi, esule ad Hammamet, scrisse che «in Italia hanno preso corpo ed hanno agito con la più grande determinazione e d'intesa tra loro, la violenza organizzata di clan giudiziari e quella di clan dell'informazione, sostenuti all'inizio da potenti lobbies economiche e finanziarie». E definiva la «falsa rivoluzione» di Mani pulite un «golpe postmoderno». Una definizione assai efficace, per comprendere Tangentopoli e altri eventi che poi sarebbero occorsi, in Italia e fuori. Come infatti ci spiegano i più recenti studi, con colpo di stato (che l'inglese lascia nella sua versione in francese, coup d'etat, mentre più raramente utilizza il tedesco putsch), non si intende più tanto la presa del potere dei militari, come è stato per il corso del Novecento e soprattutto per gli anni della guerra fredda; da manuale, in tal senso il colpo di stato di Pinochet in Cile. Dopo il crollo del muro di Berlino, infatti, allorché si voglia rovesciare un governo legittimo, non sono più necessari i militari, ormai utilizzati a tali scopi solo negli Stati africani. Tanto è vero che la letteratura distingue ora tra colpo di stato militare e colpo di stato tout court. Esistono tecniche più raffinate per eliminare un governo o una intera classe politica, sfruttando le possibilità stesse della democrazia: il governo può essere costretto con la forza ad abbandonare il potere attraverso la pressione dei media e di quel sistema che in inglese è chiamato Deep State (e, in Italia, «Stato profondo») tramite l'azione e anzi l'inazione della burocrazia e infine, soprattutto, attraverso i giudici. Questi ultimi in particolare, dopo il crollo del Muro di Berlino, divennero una delle forze principali di contestazione perché, di fronte al discredito generalizzato dei politici, incarnavano la neutralità, l'oggettività, la legalità intesa anche in senso etico (chi rispetta la legge era considerato automaticamente buono in senso morale) e soprattutto, come scrisse subito a caldo Alessandro Pizzorno, il «controllo di virtù». I partiti e la classe dirigente che avevano ricostruito l'Italia dopo il secondo conflitto mondiale, vinto la sfida della guerra civile lanciata dal terrorismo rosso negli anni Settanta, reso prospero il paese fino a farlo diventare terza economia europea negli anni Ottanta e che infine avevano battuto il comunismo, furono vittime del primo vero caso di colpo di stato postmoderno. Nonostante infatti avessero vinto di nuovo le elezioni del 1992, essi furono in breve tempo non solo espulsi dal potere ma costretti a sciogliersi e a decomporsi. L'Italia divenne, come spesse volte nella sua storia, un paese laboratorio.
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Se ad attuare il colpo di stato furono magistrati che gli autori definiscono e dimostrano essere «politicizzati» essi facevano parte di un sistema di alleanze più ampio con soggetti politici che tentarono la via giudiziaria, nella impossibilità di sconfiggere nelle urne Dc e Psi. In primis l'ex partito comunista che, nemico storico di Craxi, vide nella magistratura e in particolare nella sua corrente Magistratura Democratica, la leva di Archimede per liberarsi del nemico. Come racconta Fabio Martini nella storia non ufficiale un passaggio molto significativo è fissato nel novembre 1991: Gerardo Chiaromonte (uno degli ex comunisti che teneva un canale diretto e costante con Craxi), viene ricevuto nello studio del segretario socialista in via del Corso e dopo i preliminari, va al sodo e rivela: «Sappi che abbiamo fatto una riunione riservata a Botteghe Oscure e la linea, di Napolitano e mia, del dialogo con te è stata sconfitta ed è prevalsa la linea dell'opzione giudiziaria». Chiaromonte esce, entra Giusi La Ganga, Craxi gli riferisce e chiede: «Ma cosa ha voluto dire Gerardo? Come fanno ad adottare una linea giudiziaria?». Racconterà anni dopo De Michelis: «Nessuno ci ha badato, non avevamo affatto capito che il Pds sapeva qualcosa in più e si stava preparando a incassare'». Ma a sua volta l'ex partito comunista rispondeva a gruppi e ad ambienti che volevano emanciparsi dalla tutela della classe politica della prima repubblica, settori dell'imprenditoria privata ma comunque legata allo Stato, mondo della finanza che era stato appena riformato e «liberalizzato», grandi funzionari, e in particolare quella élite tecno burocratica che, negli anni passati, aveva attuato già dei colpi di mano per integrare il paese all'interno dell'Europa in un ruolo subalterno: si pensi al cosiddetto divorzio tra Tesoro e Banca d'Italia del 1981, avvenuto senza alcuno passaggio parlamentare e senza coinvolgere neppure il governo nella sua interezza. Con l'adesione a Maastricht, cioè a un'Europa francotedesca, l'Italia aveva da essere ridimensionata. E per ridimensionarla, bisognava colpirla economicamente, a cominciare dal sistema misto di partecipazioni statali che, benché lottizzato ed inefficiente, avrebbe dovuto essere riformato, ma non distrutto.
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Ovviamente, come in tutti i colpi di stato, gli sconfitti sono vittime che hanno contributo, con i loro errori, a scavarsi la fossa. E quella della classe politica della prima repubblica non fu tanto la corruzione, che infatti sarebbe rimasta, anzi sarebbe aumentata negli anni successivi. Fu l'incapacità di costruire un sistema politico funzionante, uno dei tre fattori che, secondo Edward Luttwak, conducono a un colpo di stato. È stato il primo e ultimo colpo nella storia d'Italia? Decisamente no. A parte casi intermedi, un intreccio molto simile a quello di Mani pulite tra media, magistrati, ambienti imprenditoriali, Stato profondo, tecnoburocrazia e intervento di paesi stranieri, lo abbiamo visto in azione nel 2011 quando il governo Berlusconi, che aveva stravinto le elezioni solo tre anni prima, fu costretto ad abbandonare il potere. Ormai il sistema in Italia è rodato. Lo tenga conto chi si illuda che vincere le elezioni sia sufficiente per governare. In qualsiasi paese bisogna distinguere il governo dal regime ma solo in Italia, tra i paesi considerati a democrazia liberale matura, accade che il secondo si opponga violentemente al primo quando lo intravede come una minaccia: e quando il governo, quello democraticamente legittimato, non si piega ai voleri del regime, è sempre accaduto che sia stato l'esecutivo a fare le valigie.
Perché i ricordi di Occhetto sono sfuggenti sullo scontro anti- Craxi sui soldi ai partiti. Francesco Damato su Il Dubbio il 21 luglio 2020. Fu una scelta precisa dell’ex segretario Pci che ora non può lamentarsene, o dare l’impressione di farlo, senza offendere la verità e l’intelligenza di tanti italiani. A distanza di 31 anni dalla caduta del muro di Berlino, emblematico del comunismo, e a 28 dal crollo giudiziario della cosiddetta prima Repubblica con l’esplosione di Tangentopoli e le indagini note come “Mani pulite”, potrebbe apparire ozioso o quanto meno inattuale fare le pulci, diciamo così, a qualcuno dei protagonisti di allora della politica italiana che riscrive quella storia a modo suo, dimenticando o omettendo passaggi per lui troppo scomodi. E’ appena accaduto all’ultimo segretario del Pci, l’ormai ottantaquattrenne Achille Occhetto, nella lunga e, a dir poco benevola, intervista fattagli per il Corriere della Sera dall’ex compagno di partito e poi primo segretario del Pd, Walter Veltroni. Maggiori problemi, obbiettivamente, premono sulla collettività nazionale ed assorbono l’attenzione, le ansie, le paure, più ancora delle speranze del nostro Paese. Che però deve i suoi guai – a cominciare dalla intricatissima e paralizzante situazione politica, fatta di equilibri anomali non estranei alle difficoltà, a dir poco, della partecipazione all’Unione Europea, come ha appena dimostrato il vertice comunitario a Bruxelles – ai guai della sinistra. Da cui derivò nel 1994 la nascita, per reazione, di un centrodestra non meno anomalo del campo opposto. A sentire Occhetto, o a risentirlo, i guai della sinistra italiana derivano dal solito Bettino Craxi. Che, caduto il muro di Berlino, prima cercò di annettersi l’orfano Pci con una “unità socialista” affissa sui muri o stampata sulle bandiere del Psi, alle finestre della sede di via del Corso, con la smania del conquistatore. E poi, per amore di potere e paura di rompere con la Dc, coprendosi dietro gli umori e le avidità dei suoi compagni di partito, avrebbe lasciato cadere l’offerta fattagli proprio da Occhetto di rifondare la sinistra, o unirla, in un bagno di opposizione che sarebbe stato di breve durata. Prima o dopo essa avrebbe espresso, secondo Occhetto, tale e tanta “energia” da eliminare il vantaggio numerico di cui lo Scudo crociato avrebbe potuto ancora disporre recuperando i vecchi alleati di centro, dopo le elezioni del 1992, e spostandosi a destra. «Forse hai ragione», ha raccontato Occhetto riferendo della risposta ricevuta da Craxi in un incontro apertosi in modo già assai poco promettente, parlando «dell’odio che ormai c’era tra i popoli socialista e comunista». Tuttavia a quel riconoscimento della ragione del suo interlocutore, Craxi avrebbe aggiunto, riferendosi al proprio partito: «Questi che mi stanno intorno, se vado anche solo un giorno all’opposizione, mi fanno fuori» : forse persino Claudio Martelli, col quale lo stesso Occhetto ha raccontato, o confermato, di avere instaurato allora un rapporto diretto, persino comiziando insieme in una piazza al Nord. Ma Martelli si era spinto anche se l’ex segretario del Pci non lo ha ricordato – a offrirsi in qualche modo al presidente della Repubblica in carica in quel momento, il dc Oscar Luigi Scalfaro, per la guida, o la partecipazione ad un governo guidato da Enzo Scotti, in grado di guadagnarsi la benevola astensione o attenzione del Pds- ex Pci. Credo sinceramente a quel «forse hai ragione» di Craxi raccontato da Occhetto, perché posso testimoniare personalmente l’apertura, del resto fatta persino in pubblico, del leader socialista nella direzione voluta dal suo dirimpettaio di sinistra. «Insieme al governo o all’opposizione», disse in una dichiarazione Craxi parlando del Pci dopo le elezioni del 1992 vinte, ma su misura, dal vecchio centrosinistra allargato nel cosiddetto “pentapartito” ai liberali. Proprio a me – che gli feci notare in una telefonata, dopo avere raccolto le preoccupazioni del nostro comune amico e segretario della Dc Arnaldo Forlani, il curioso “ritorno” di quella sua enunciazione alla linea del predecessore alla guida del Psi Francesco De Martino appiattita sui comunisti-Craxi rispose o spiegò, come preferite: «E’ un passaggio tecnico che debbo concedere a Occhetto per la modestia del risultato elettorale, ma sarà inutile. A liquidare il problema saranno gli stessi comunisti o post- comunisti, come preferiscono essere chiamati». Non aveva torto. In effetti, dopo qualche giorno, quando si era appena aperta una riunione della Direzione socialista in cui si doveva mettere a punto la linea del Psi per l’avvio della nuova legislatura, arrivò dalla direzione del Pci, riunita anch’essa, una pregiudiziale “di carattere morale” sollevata contro Craxi e il suo partito da Occhetto. Era una pregiudiziale ostativa sia di una maggioranza sia di un’opposizione comune. Di fronte a quella specie di schiaffo, Martelli sbiancò. Craxi invece sorrise per la conferma che aveva appena ricevuto delle sue convinzioni sul conto dei fratelli o compagni- coltelli della sinistra. Lo stesso Occhetto, d’altronde, nell’intervista a Veltroni guardatosi bene dal contrastarne in qualche modo il racconto, ha riconosciuto che la caduta del comunismo avrebbe potuto provocare ben altri sviluppi nella sinistra italiana se non ci fosse stata la “sovrapposizione” – l ’ ha chiamata così, precisando di non voler con ciò fare polemica con i magistrati – di Mani pulite. Che fece «sfuggire il controllo del processo alla politica», intendendosi ovviamente per processo l’evoluzione dei rapporti nella sinistra. Ma a cavalcare le inchieste giudiziarie sul diffusissimo fenomeno del finanziamento illegale dei partiti, pur di demolire i socialisti e spingere Craxi all’esilio – o latitanza, come preferiscono ancora chiamarla i suoi avversari anche dopo la morte – fu proprio Occhetto. Che a questo punto, francamente, non può lamentarsene, e neppure dare l’impressione di farlo, senza offendere insieme la verità e l’intelligenza comune. Ora l’ultimo segretario del Pci si goda pure i risultati dei suoi errori: dalla sconfitta elettorale, politica e personale, del 1994 ad opera di Berlusconi alla convivenza spesso subalterna di quel che è rimasto della sinistra con i grillini. Che Massimo D’Alema considera, come i leghisti degli anni di Bossi, una costola della sinistra. Malmessa, come si vede, da parecchio tempo.
Il missile con cui Gherardo Colombo affondò la Bicamerale. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 21 Luglio 2020. Tremila giorni dopo l’inizio di Tangentopoli e Mani Pulite il pool di Milano sferrò la propria guerra lampo dei dodici giorni che segnerà la morte della Bicamerale e il sogno di Massimo D’Alema di passare alla storia come lo statista che, con la riforma della Costituzione, aveva di fatto inaugurato la Seconda repubblica. I giornali protagonisti furono due: il Corriere della sera e un periodico militante, Micromega, diretto da Paolo Flores d’Arcais, una sorta di antenato del Fatto quotidiano. Quel 22 febbraio 1998, era domenica, Micromega aveva indetto un convegno sulla giustizia, ospite d’onore Gherardo Colombo, uno degli uomini del pool di Milano. Il suo arrivo fu annunciato dagli squilli di tromba di un’intervista da lui rilasciata a Giuseppe D’Avanzo del Corriere della sera e che opportunamente uscì proprio quel giorno. Di nuovo il Corriere, di nuovo in esclusiva, di nuovo un pugno in faccia. Non più a Berlusconi, ormai a Palazzo Chigi c’era Romano Prodi e al governo gli uomini di quel partito, il Pci-Pds che il pool di Milano aveva sostanzialmente salvato dalla slavina di Tangentopoli. Ecco perché ci fu grande stupore nel leggere titolo e testo di quell’intervista. Sopra le sei colonne il titolo era molto chiaro: “Le riforme ispirate dalla società del ricatto”. La tesi altrettanto esplicita: la storia d’Italia è storia criminale e la società italiana è corrotta. «Negli ultimi vent’anni la storia della nostra repubblica è una storia di accordi sottobanco e patti occulti. L’Italia la si può raccontare a partire da una parola, ricatto». Segue la più tradizionale impostazione da Stato etico, in cui è pura solo la magistratura, la cui indipendenza “qualcuno” vuol mettere in discussione. Il ragionamento si conclude con un’esplicita minaccia a coloro che avevano avuto il salvacondotto negli anni di Mani Pulite. Della società della corruzione, ricorda Colombo «abbiamo solo scalfito la crosta». Conclusione? Non fate riforme, perché un assaggio di manette è pronto anche per voi. L’allarme coinvolse subito tutte le istituzioni fino ai più alti livelli. Nessuno pensò neppure per un attimo che l’iniziativa di Colombo fosse stata determinata da una qualche personale carenza di visibilità o da uno sfogo emotivo, e neanche che fosse stata un’iniziativa individuale. Reagirono tutti, qualcuno forse anche sotto la regia del presidente Scalfaro. I presidenti di Camera e Senato, Violante e Mancino, resero pubblico un messaggio congiunto in cui accusavano il pm di voler delegittimare l’intero Parlamento e anche di non aiutare la Bicamerale a trovare «gli strumenti più idonei ad assicurare la necessaria indipendenza del Pubblico ministero». Era un messaggio politico, un ammiccamento visibilmente di pugno di Violante, nel momento in cui si stava discutendo di separazione delle carriere e di due Csm. Ma Colombo tira diritto, con le spalle coperte dalla regia di Saverio Borrelli. Viene portato in trionfo al convegno di Micromega, tra abbracci e baci di Ilda Boccassini, da poco entrata a fare parte del pool e che viene descritta come “luminosa in tailleur verde bottiglia” mentre dichiara entusiasta «di quanto detto da Colombo condivido dalla prima all’ultima parola». L’attacco sferrato dal pool aveva diversi obiettivi. Sicuramente gli uomini del Pds, che reagirono nell’immediato molto compatti e addirittura, alcuni, con dichiarazioni sopra le righe. Saggio e previdente Giovanni Pellegrino, avvocato e membro della Bicamerale: «Si fermeranno solo quando saranno cadute tutte le teste». Pietro Folena, responsabile giustizia del partito, accusa Colombo di sentirsi una star, e Fabio Mussi, capogruppo Pds nella Bicamerale, dice che questi magistrati si sentono unti dal signore, la nuova stirpe degli dei, e hanno progetti autoritari e corporativi. Si sprecano battute e allusioni di tipo psichiatrico nei confronti di Colombo. Ma un altro importante obiettivo è una parte della magistratura, quella guidata dalla presidente dell’Anm Elena Paciotti con cui gli esponenti della Bicamerale hanno da tempo aperto un dialogo. Accordi fruttuosi per i magistrati, tanto che dalla bozza del relatore Marco Boato la separazione delle carriere e i due Csm sono già spariti. Ma agli estremisti del pool ancora non basta. Loro non vogliono riforme dell’ordinamento giudiziario e della Costituzione, di nessun tipo. Prima ancora di quella domenica del convegno di Micromega c’era stato il congresso dell’Anm, e Borrelli era stato piuttosto chiaro nello scagliarsi contro la presidente. E non era bastata a rassicurare neppure la presenza al congresso dello stesso D’Alema e del segretario di Alleanza nazionale Gianfranco Fini che avevano garantito un mezzo no alla separazione delle carriere. E quando Colombo aveva irriso «temono che abbiamo ancora qualche scheletrino nei cassetti», gli aveva risposto da lontano il senatore Pellegrino: «Forse teme che una parte della magistratura perda la voglia di guardare nei cassetti». Può parere incredibile, ma in quei primi giorni la stampa non fu schierata con il pool. Neanche quando il 23 febbraio il ministro della giustizia Giovanni Maria Flick avvierà l’azione disciplinare nei confronti di Gherardo Colombo, salvando Borrelli che pure ci era andato giù pesante. Il direttore di Repubblica Ezio Mauro scrisse parole, che forse riflettevano il suo pensiero, ma di cui penso avrà passato poi la vita a pentirsi. Basterebbe il titolo: “Perché sbaglia il pool di Milano”. Poi esprime il suo sdegno per gli attacchi alla politica. «La nostre camere nel 1998 non devono essere in libertà vigilata», conclude. Luciano Violante sceglie il quotidiano di partito, l’Unità, per rivolgersi agli “onesti”, cioè il bacino d’ascolto del pool, per una lezione sulla divisione dei poteri. La storia potrebbe finire qui, raccontando che a un certo punto fu Silvio Berlusconi, scocciato perché l’asse D’Alema-Fini aveva annacquato le riforme fino ad annullarle, a rovesciare il tavolo e uccidere la Bicamerale e il sogno italiano della riforma della giustizia. Invece no, non è andata così. Entrerà in gioco di nuovo il sistema informativo. Nelle vesti di un’emittente, Italiaradio, vicina al Pds, quando un incauto conduttore aveva aperto i microfoni. Trecento telefonate in mezz’ora, e poi un migliaio anche quando la trasmissione era finita. Tutti a favore di Colombo e contro il partito. “Qualcuno” aveva nel frattempo mobilitato il “popolo dei fax”, gli antenati dei social, che avevano fatto contorno alla carriera di Di Pietro. Scoppiò l’inferno. D’Alema non sa più come fare, se la prende con Colombo definendolo “un estremista”, e nella sua cultura è peggio che se gli avesse dato del delinquente. Rossana Rossanda sul Manifesto, che stava già pencolando pericolosamente dalla parte del pool, lo accusa di aver allevato cuccioli di jena e di non aver previsto che sarebbero diventati bestie feroci. Intanto Borrelli parte all’assalto con gli strumenti che maneggia meglio e con i giornalisti amici. Venti pubblici ministeri si pronunciano a suo favore. Non importa se sono solo venti su cinquanta, i giornali scriveranno che “la Procura” si è schierata. Poi partoni sessanta giudici, tra cui suo figlio. Sessanta su un totale di 193, ma non fanno notizia i restanti, perché silenziosi, come silenziosi resteranno i magistrati di tutta Italia. La partita è milanese e a Milano ci sono i giornalisti amici che completano l’opera. Il Pds è in subbuglio, i sondaggi dicono che il 75% dei cittadini è con il pool e l’86% è contrario all’azione disciplinare contro Colombo. Il quale diventerà rapidamente la vittima, mentre salirà sul banco degli imputati il ministro Flick. Ciliegina sulla torta, piccolo capolavoro del circo mediatico-giudiziario: a Milano il tam tam giornalistico fa filtrare la notizia di una possibile riapertura di indagini sulle cooperative rosse. Quel che successe dopo, l’estinzione della Bicamerale dopo 15 mesi di vita travagliata, poi la caduta del governo Prodi (la grande vendetta di D’Alema) e l’inevitabile assoluzione di Colombo dalla sezione disciplinare del Csm, sono storia conosciuta. Non c’era Palamara e non c’erano i trojan, nel 1998. Voi dove l’avreste messo? Io nel telefono di Borrelli. E la storia sarebbe stata diversa.
Quel complotto dell’alta finanza che annientò il Pentapartito. Di Paolo Cirino Pomicino su culturaidentita.it il 30 Giugno 2020. E’ giunto il tempo di affidare agli storici la sciagurata stagione che va sotto il nome di Mani Pulite che annientò quel Pentapartito (DC, PSI, PSDI, PRI, PLI) che aveva vinto la battaglia della Storia contro il Partito Comunista. Affidare loro quella stagione non significa però non cristallizzare i fatti conosciuti e meno conosciuti in modo tale da offrire gli elementi su cui costruire la verità ed individuare le responsabilità di ciascuno. Partiamo dall’anno precedente il febbraio 1992, quando fu arrestato Mario Chiesa ed iniziò la mattanza. Nel marzo del 1991 mi venne a trovare al Ministero del Bilancio Carlo De Benedetti, al quale ero legato da reciproca simpatia e stima, tanto che nel dicembre 1990 aveva partecipato, con il presidente di Confindustria Sergio Pininfarina e Adalberto Falk a un convegno della corrente andreottiana inaugurato e concluso da me. In quel convegno gli apprezzamenti verso il sottoscritto e verso il governo di Giulio Andreotti si sprecarono e De Benedetti si distinse in questo senso. Quasi quattro mesi dopo Carlo mi venne a trovare e mi spiegò che stava lavorando a un disegno politico, insieme a molti autorevoli amici imprenditori, per riformare il sistema e dare all’Italia nuovo slancio. Mi meravigliai, ricordandogli che negli anni ’80 l’Italia era cresciuta del 27% reale e aveva battuto le BR e l’inflazione a due cifre, sconfiggendo il PCI nel referendum sulla scala mobile. Carlo insistette. Sosteneva che quel tempo stava finendo e che, con la liberalizzazione dei mercati e la globalizzazione finanziaria, tutto sarebbe cambiato e mi chiese se volevo diventare il suo ministro in un prossimo governo sostenuto dalle forze che stava mettendo insieme. Siccome eravamo amici gli risposi con una battuta da napoletano, dicendogli che ero onorato, ma che insieme ad Andreotti stavo mettendo in piedi un progetto industriale e avrei voluto tanto che lui fosse il nostro imprenditore di riferimento. Capì la risposta e scherzando ci salutammo. Poche settimane dopo, però, ebbi da più parti conferma di questa iniziativa della cosiddetta borghesia azionista (il salotto buono del capitalismo italiano) e del Partito Comunista che, con la caduta del Muro di Berlino, era rimasto privo di storia, identità e futuro, tanto che proprio in quei mesi al congresso di Rimini cambiò nome. Tentai di spiegarlo ad alcuni amici autorevoli ed anche al caminetto della DC (Andreotti, Forlani, De Mita, Martinazzoli, Gava), che invitai nell’ottobre del 1992 a casa mia sull’Appia antica, ma non fui convincente. A settembre del 1991 ci furono le prime avvisaglie a Cernobbio, quando gli industriali si scagliarono con durezza contro lo stesso governo che dieci mesi prima avevano lodato. A febbraio l’arresto di Mario Chiesa e l’avvio della campagna contro il PSI, secondo lo schema degli Orazi e Curiazi, già preannunciato qualche mese prima da Di Pietro al console americano a Milano Peter Semler. La cronaca successiva è nota, tra arresti anche di innocenti e indagini a tutto campo da parte di varie procure egemonizzate da una minoranza di sostituti che fecero scempio del diritto con i Gip travolti dall’onda mediatica. Il finanziamento elettorale di cui fruivano tutti i partiti , di cui parlò Craxi in Parlamento nel silenzio generale, e la cui illiceità era la mancata dichiarazione alle Camere di appartenenza, si trasformò in corruzione, concussione, riciclaggio. Eppure tanti furono assolti. In 42 procedimenti, personalmente fui condannato una sola volta per finanziamento illecito nella vicenda Enimont, in cui furono condannati tutti i segretari politici dei partiti di governo, Bossi compreso, mentre i vertici del PCI, che avevano ricevuto l’anno prima da Gardini un miliardo di lire consegnato a Botteghe Oscure, rimasero fuori dall’indagine perché, guarda caso, non si scoprì chi li aveva presi e Occhetto, contrariamente agli altri segretari, poteva non sapere. Raccontare dettagli sarà compito degli storici, ma devo ricordare che quando mi arrestarono nell’ottobre del 1995 i due PM, mi domandarono se volevo chiedere gli arresti domiciliari per ragioni di salute (ero già bypassato). Declinai l’invito, dicendo loro che la salute di quel giorno era la stessa del giorno prima, quando mi avevano arrestato, e tornai in cella per 17 lunghi giorni. Fui assolto in istruttoria per uno dei due reati contestati e rinviato a giudizio per corruzione, ma fecero passare ben 13 anni per l’udienza preliminare e prescrissero il procedimento dicendo che questo non significava che Pomicino fosse colpevole. Ciò che ho raccontato fu un fattore di grande sofferenza per molti, ma politicamente un aspetto minore rispetto a quel che accadde il 2 giugno 1992 sul Britannia, il grande Yacht della regina Elisabetta, dove grandi società finanziarie inglesi riunirono i più autorevoli personaggi del mondo finanziario italiano tra cui i capi delle partecipazioni statali, delle banche pubbliche e private e del Tesoro per discutere delle privatizzazioni. All’epoca l’Italia aveva in mani pubbliche il 25% dell’economia nazionale. Dieci mesi dopo il governo Amato fu mandato a casa per affidare a Carlo Azeglio Ciampi la guida di un esecutivo che avviò la svendita di alcune eccellenze finanziarie e diede alla mafia le risposte che pretendeva con le bombe di Firenze, Roma e Milano: nel novembre del 1993 il governo tolse il carcere duro a 300 mafiosi, cominciando a scarcerarne migliaia con condanne passate in giudicato, compresi gli assassini di Giovanni Falcone. Quando la procura di Milano e le sue consorelle in alcune grandi città ebbero portato a termine il proprio lavoro, la macchina da guerra di Occhetto costrinse il prigioniero Scalfaro a sciogliere le camere anticipatamente. Occhetto andò per bastonare, ma fu bastonato dall’elettorato con la vittoria di Berlusconi. La macchina da guerra, però, non fu disarmata e quel che era accaduto al Pentapartito cominciò a subirlo Berlusconi e, con la complicità di Bossi, si arrivò prima al governo Dini e poi a quello di Prodi, con il PCI finalmente nella stanza dei bottoni. Le privatizzazioni continuarono, mentre i vecchi leader erano impegnati a difendere nei tribunali il proprio onore e quello dei rispettivi partiti. Alcuni ci riuscirono, altri no. Molti anni dopo Giuseppe Guarino, ministro dell’Industria nel governo Ciampi, ma non partecipe al disegno politico-economico di De Benedetti, raccontò come rifiutò con sdegno la proposta di Cesare Romiti che, a nome dell’avvocato Agnelli, voleva acquistare l’intera IRI per 80 miliardi di lire (quaranta milioni di euro!). Quanto detto ora, ed altro scritto nei miei libri, è documentato e lo dimostra il fatto che gli eredi del PCI portarono subito in parlamento e al governo molti pubblici ministeri, a cominciare da Antonio Di Pietro, il portabandiera di quel disegno politico che io avevo rifiutato nel 1991.
“Berlusconi fucilato dallo stesso plotone che fece fuori Craxi”, l’accusa di Claudio Martelli. Aldo Torchiaro su Il Riformista l'1 Luglio 2020. Claudio Martelli, oggi direttore de l’Avanti!, è tra i grandi testimoni del terremoto di Mani Pulite. Vicesegretario del Psi nel culmine della vicenda politica della Prima Repubblica, quattro volte deputato, due eurodeputato, è stato Ministro della Giustizia dal febbraio 1991 al febbraio 1993 e in precedenza Vice presidente del Consiglio dal 1989 al 1992. Si avvalse della amicizia e della collaborazione di Giovanni Falcone, che portò con lui al Ministero. «Il plotone di esecuzione per Berlusconi? Lo conosciamo bene, è quello che ha preso la mira su di noi nel 1993, decidendo di far fuori una classe politica», dichiara al Riformista. «Magistrati animati da un interesse politico: Berlusconi è stato l’italiano più perseguitato della storia. Non so più quante indagini, ispezioni, iniziative giudiziarie ha subìto nella vita. Doveva essere eliminato dalla scena politica, e alla fine sono riusciti a eliminarlo. Con processi-farsa, come oggi apprendiamo dalla viva voce degli artefici».
«Vittima di un teorema ordito a tavolino, come Craxi. Anche Craxi e io siamo stati messi nello stesso mirino. Dovevano farci fuori dalla scena pubblica, e ci hanno dato la corsia preferenziale. Dovevamo essere processati subito, platealmente. Dunque il metodo del plotone d’esecuzione si era perfezionato con noi, e i soggetti d’altronde erano gli stessi: la Procura di Milano. Siamo davanti a un audio che parla di sentenza pilotata ad arte. Non c’è una novità vera, erano cose note. Adesso però c’è il corpo del reato. È lì, steso sul tavolo anatomico. Registrazioni, ammissioni. Intanto a Berlusconi è stata fatta una guerra mortale.
Per agevolare qualcuno o per sostituirsi alla classe dirigente?
«Per fare il proprio gioco. I pm non aiutano questo o quel partito, i pm sono un partito. Borrelli all’apice di Mani Pulite fece sapere al presidente della Repubblica di “essere a disposizione” per formare un governo. Di Pietro formalizzò la cosa costituendo un partito e facendo il ministro. Mentre una classe dirigente intera scomparve».
Qual è stato a suo avviso il disegno?
«Tenere in scacco la politica, comportandosi da eversori che si sostituiscono alle istituzioni democratiche, tenute a bada con minacce e ricatti».
Il golpe giudiziario.
«Dove le toghe sostituiscono le divise. In Sud America le forze armate tengono sotto controllo le istituzioni facendo quello che chiamano “un poquito de fracaso”. Accendono i carri armati e li fanno andare avanti e indietro nelle caserme. Non ne escono, ma mettono paura: i politici capiscono e abbassano la testa. Da noi non le forze armate ma la magistratura ha usato il “fracaso” per far sentire il suo potere. Le sirene delle volanti. Il tintinnar di manette».
Quello che un pm chiama “il momento magico”, il terrore.
«Il terrore idealizzato da quel pm era quello che si doveva far vivere durante gli interrogatori. È il momento magico che arriva quando l’indagato, pur di uscirne, è disposto ad accusare anche sua madre. Una idea di giustizia che dovrebbe far orrore a chi ha a cuore la civiltà giuridica».
Una deriva che ha fracassato generazioni di competenti, regalandoci improvvisatori e populisti.
«Alla fine lo ha detto lo stesso Borrelli, nel 2012: “Dobbiamo chiedere scusa agli italiani, non valeva la pena buttare il mondo precedente per cadere in quello attuale”. La confessione di chi capisce di aver compiuto un colossale errore. Hanno distrutto la politica dei vecchi partiti e si sono trovati Berlusconi in campo. Allora hanno iniziato questa guerra a Berlusconi e si trovano con i populisti».
Dal punto di vista moderato, far la guerra a Berlusconi ha spianato la strada a Salvini.
«Questo non l’avevo mai pensato, potrebbe aver ragione. Ma come conseguenza involontaria. Perché hanno provato, come emerge dalle intercettazioni di Palamara, anche ad attaccare Salvini in maniera altrettanto pregiudiziale. E quel ragionamento ha messo in luce in modo eloquente la natura della regìa politica».
Qual è?
«“Salvini ha ragione – diceva Palamara – Ma noi lo dobbiamo fermare”. Perché risponde a un ordine politico. La concezione del diritto di Palamara e di tanti come lui è quella per cui Salvini, quando chiude i porti e nega lo sbarco ai migranti, ha ragione. Ma comunque va combattuto e abbattuto per convenienza politica. Nella premessa c’è un contenuto autoritario, e nella conclusione c’è un contenuto eversivo. E dove è finita la giustizia?»
Non è troppo stupito neanche dal caso Palamara.
«Di porcherie ne succedevano tante, anche all’epoca. Questo bubbone che adesso è esploso, esiste da un pezzo. Oggi c’è il trojan e quindi migliaia e migliaia di intercettazioni. La prova provata del come si comportano le correnti. Adesso tutti, da Mattarella al comune cittadino, parlano di correntismo degenerato. Mi domando: ma non era già successo trent’anni fa? È un sistema sbagliato in radice. E non è un caso Palamara, lo dico senza simpatie per il soggetto in questione. È un problema di sistema. Non mi piace, per cultura politica ed esperienza diretta, chi semplifica tutto riportando a un capro espiatorio».
Lei è stato Ministro della Giustizia dal ‘91 all’inizio del ‘93. C’erano le correnti anche allora.
«Quando ero ministro toccai con mano la realtà di un mondo refrattario a qualsiasi intervento di governo politico, e dunque a qualunque riforma».
Avrebbe potuto fare di più?
«Scrissi una lettera all’allora presidente della Repubblica Cossiga, dal Ministero in Via Arenula. Sollevavo la questione dell’Anm, che allora aveva come presidente Raffaele Bertoni, di Magistratura Democratica. L’Anm è una associazione privata, non un organo dello Stato. Ma decide per i due terzi dei membri del Csm, i membri togati. E in base a quale legge? A quale attribuzione di potere? Chi lo ha stabilito che i magistrati vanno a governare il Csm secondo quel che decide una associazione di tipo sindacale, di diritto privato?»
Non la presero bene.
«No, fu l’inizio della fine. Mi misero nel mirino. Quando feci la Superprocura, o Procura Nazionale Antimafia, Bertoni disse che di una Superprocura antimafia non si sentiva il bisogno: “Non abbiamo bisogno di un’altra cupola mafiosa”. Ci fu lo sciopero nazionale della magistratura e partì una campagna forsennata contro Falcone, accusato di essersi letteralmente venduto a Claudio Martelli. E questo non da parte di agitatori politici, ma di membri del Csm. Che allora io accusai di essere degli infami. Mi querelarono, si andò a processo. In primo grado persi, stabilendo così il diritto da parte della giustizia italiana di definire Falcone “un venduto”. Poi in appello vinsi io».
Iniziò così la guerra Procure-Martelli, la prima battaglia contro il Psi?
«La tesi di fondo era che Martelli intendeva ottenere la subordinazione dei Pm al ministro della Giustizia. Me la fecero pagare cara. Ma sono ancora qui a esporre le mie idee, e lo ripeto oggi: come è possibile che una associazione privata, l’Anm, decida la composizione dei due terzi togati del Csm? Dire correntismo degenerato vuol dire Anm degenerata. Se l’Anm fa e disfa le condotte di un organo costituzionale, siamo in una situazione eversiva, e ci siamo da decenni. Si vuole prendere atto e adottare i rimedi necessari? Si possono prendere in considerazione tutte le ipotesi di riforma, finanche il sorteggio. Non cambia la sostanza: il Csm per due terzi è un prolungamento dell’Anm. E l’Anm è degenerata perché sono degenerate le sue componenti».
Che pure avrebbero avuto il compito di aggiornare, aprire la giurisdizione in senso pluralistico.
«Un conto è l’associazionismo che discute, che anima visioni diverse del diritto. Ma la cabina di regia interna che decide tutto è una follia. E questa presunzione di onnipotenza ha generato la visione folle che confonde legalità e giustizia, una follia contro la civiltà del diritto. Il diritto vive nella tensione costante tra un ideale di giustizia, che è quella dei diritti naturali e la legislazione vigente. Se quest’ultima viene messa sull’altare e diventa intoccabile, la civiltà è finita».
E oggi siamo a quel punto.
«Ci siamo da un bel po’. Quando i magistrati definiscono la magistratura come il corpo che “assicura il controllo della legalità”, siamo usciti di chilometri fuori dal seminato. La magistratura deve reprimere l’illegalità, non prevenire con teoremi astratti le eventuali condotte illegali ancora ignote. Siamo davanti a una furia ideologica dalla quale nascono mostri».
L’Anac è uno di questi mostri?
«Cantone è un bravissimo magistrato, ma mi domando in quale mondo un magistrato diventa il controllore preventivo che scongiura i mali a venire. In quale mondo esiste un Anac che previene i reati? Se fossimo un Paese serio, l’Anac andrebbe sciolta domani mattina. La prevenzione sugli appalti non è compito dei giudici, i magistrati giudicano dopo aver accertato che un reato è stato compiuto».
A proposito. Giovanni Falcone non fece in tempo a lavorare sull’indagine Mafia-appalti, rimasta nel mistero.
«Con Giovanni ci volevamo bene, abbiamo fatto cose straordinarie. E su Mafia-Appalti voleva vederci chiaro. Mi parlò più volte di quella indagine dei Ros, che lui voleva sviluppare in sede giudiziaria, era un suo tarlo. Un giorno accadde un fatto davvero strano».
Quale?
«Il procuratore di Palermo, Giammanco, mi fece arrivare un plico con una lettera accompagnatoria e i documenti fino a quel momento acquisiti sull’inchiesta Mafia-Appalti. Lessi i destinatari: lo stesso giorno venne consegnato a me, come ministro della Giustizia, all’allora presidente del Consiglio Andreotti e al presidente Cossiga. Chiamai Falcone, mi disse: non aprire neanche. La sola cosa da fare è rimandare il plico in Procura a Palermo, intonso. È la Procura che deve decidere se attivare l’azione penale oppure no. Rimandammo il plico chiuso. Da allora non ne seppi più niente».
Quando Craxi disse no agli anti-Casta e i Pm uccisero i socialisti. Fabrizio Cicchitto su Il Riformista l'11 Giugno 2020. Dobbiamo a Beppe Sala una cosa non da poco. E cioè che qualche giorno fa sulla prima pagina del Corriere della Sera è comparso un riferimento al “Socialismo”, ad un “nuovo Socialismo” collocato nel titolo della sua intervista ad Aldo Cazzullo. Era da molto tempo che un riferimento del genere non compariva sulla prima pagina del più autorevole quotidiano italiano. Siccome lo stesso Sala, che spesso nel suo libro vola molto alto, talora al limite della astrazione, tuttavia, giustamente parte proprio da un duro riferimento storico, la sera del 30 aprile 1993 (cioè la sera delle monetine tirate a Craxi alla uscita dell’hotel Rafael) per dire «fu il momento in cui perdemmo una antica parola: socialismo». Siccome proprio Sala parte di lì, non possiamo fare a meno di confrontarci con quel momento di crisi e su ciò che lo aveva provocato. Oggi molti sepolcri imbiancati si scandalizzano per quello che emerge dal trojan applicato al telefonino del magistrato Palamara e per ciò che esso mette in evidenza intorno ai rapporti tra i magistrati delle varie correnti e le relazioni fra essi e alcuni parlamentari. Che cosa sarebbe successo se un trojan fosse stato in azione quando, negli anni 92-94, ogni giorno alle 19, c’era una riunione fra i direttori o loro delegati, del Corriere della Sera, di Repubblica, de La Stampa e de L’Unità per coordinare l’uscita dei loro giornali il giorno dopo sulla base delle “dritte” provenienti dal pool di Mani Pulite? E che sarebbe successo se il trojan fosse stato in azione quando Gardini si recò in via delle Botteghe Oscure per incontrare i massimi dirigenti del Pds, portando con sé una valigetta di 1 miliardo di vecchie lire, oppure quando nel 1994, un esponente della procura di Milano, passò in anticipo al Corriere della Sera l’avviso di comparizione e il giorno dopo un ufficiale dei carabinieri avrebbe consegnato a Berlusconi allora presidente del Consiglio (ben altro che la battuta di Palamara su Salvini?!). Chiedo scusa se volo così basso, ma credo di essere alla stessa altezza del punto di partenza di Sala all’inizio del capitolo sul socialismo: «Credo nella rigenerazione. La sera del 30 aprile 1993 assistemmo ad un cambiamento d’epoca. Fu il momento in cui perdemmo una antica parola: il socialismo». E «quella sera di fine aprile, a Roma, alla televisione centinaia di persone a lanciare monete, le lire… che si sollevavano nell’aria per andare a colpire all’ingresso dell’hotel Raphael emblema del decennio che tanto aveva reso orgogliosa l’Italia, l’uomo della modernizzazione che, non incidentalmente, era socialista» (Sala, Società per azioni, pagina 61, Einaudi 2020 Torino). Allora siccome il retroterra storico viene evocato, esso non può poi essere fatto scomparire con un colpo di bacchetta magica anche perché con esso scompaiono tutti i riferimenti del passato (non solo Craxi ma anche Berlinguer) e ne rimane in campo solo uno, cioè Aldo Moro che secondo noi è un punto di riferimento di straordinario livello (oltre che di drammatica evocazione, perché fra il 16 marzo e il 9 maggio del 1978 è avvenuto uno strappo nella storia italiana che, paradossalmente, può essere messo insieme, nella sostanza più profonda a quello verificatosi appunto il 30 aprile 1993), ma per tutta una altra operazione che talora viene evocata nel libro di Sala, cioè per la rifondazione di un centro degno di questo nome, fondato appunto su un metodo politico, quello della mediazione, che ha ispirato la storia della Dc. D’altra parte, si devono per forza fare i conti con ciò che avvenne nei cruciali anni 92-94, perché se oggi siamo a questo punto di difficoltà con un Parlamento nel quale sono molto forti due soggetti politici – il M5s e la Lega nella versione Salvini che è cosa molto diversa dalla Lega Nord – che rendono quasi ingovernabile l’Italia nel suo momento di crisi più grave dalla fine della seconda guerra mondiale, ciò deriva anche dalla operazione eversiva-rivoluzionaria che fu allora posta in essere. Nessuno può rimuovere un dato di fondo: l’Italia è stato l’unico Paese dell’Europa occidentale (nell’Europa Orientale e in Russia nel 1989 avvenne quel che sappiamo), nel quale ben 5 partiti eletti in Parlamento sono stati eliminati non dal voto degli elettori ma dal circo mediatico giudiziario: se fosse stato ancora vivo Curzio Malaparte avrebbe potuto scrivere una nuova versione del suo libro Tecnica del colpo di Stato. Allora se si vuol fare un discorso storico-politico bisogna fare i conti con la storia che sta alle nostre spalle e con le alternative di fondo che ci scaricano addosso la pandemia tuttora in atto, la profonda crisi del capitalismo apertasi prima del coronavirus, la durissima dialettica geopolitica in corso nel mondo fra gli Usa, la Cina, la Russia, l’India, l’Iran, la Turchia e forse l’Europa. Allora al di là di questioni morali francamente prive di seri presupposti (ci riferiamo a quella prospettata nella famosa intervista di Scalfari a Berlinguer che poi doveva costituire l’unica sostanza della alternativa lanciata a Salerno, che sostituì come strategia quella del compromesso storico e che era una alternativa a tutto e a tutti, senza uno straccio di alleanze politiche, e per di più fondata su una mistificazione, perché Berlinguer sapeva benissimo che il finanziamento del Pci era fondato quasi tutto su voci irregolari), bisogna cercare di capire cosa è veramente successo in Italia dopo il 1999. L’unico in Italia a capire che il crollo per implosione del comunismo in Russia e nell’Europa dell’Est avrebbe avuto conseguenze anche sulla Dc e sul Psi fu Francesco Cossiga. La Dc, il Psi, i partiti laici perdevano la rendita di posizione di cui avevano usufruito dovendo assicurare la governabilità di un Paese nel quale c’era il più forte Partito comunista dell’Occidente. Da quel momento in poi i grandi gruppi industriali- finanziari-editoriali da un lato cercarono di togliere ai tradizionali partiti di governo il potere di intervenire sulle grandi questioni economiche e sulle conseguenti lottizzazioni di potere (l’antipolitica nasce di li, di lì il libro su la Casta di Rizzo e Stella, di lì la campagna sulla liquidazione delle imprese pubbliche e sulle privatizzazioni) dall’altro decisero che era venuto il momento di stringere i cordoni della borsa nel finanziare i partiti. Per di più la fine del Trattato di Maastricht rese antieconomico il sistema di Tangentopoli: Carli e De Michelis che sapevano di cosa si trattava non informarono Andreotti e Craxi delle conseguenze di ciò che stavano firmando. Siccome, però, i “cervelli dei poteri forti” sapevano che comunque bisognava dare una sponda politica a una simile operazione di eversione-rivoluzione ecco il senso di alcune offerte: Cuccia che propose a Craxi di essere l’uomo della svolta presidenziale, maggioritaria, anti partitocratica, De Benedetti che parlò di tutto ciò a Pomicino. Craxi rifiutò di guidare l’operazione contro i partiti e diventò così il principale nemico, l’uomo da distruggere, il “Cinghialone”.
Quando il Pci di Occhetto affondò il bipolarismo. Fabrizio Cicchitto su Il Riformista il 12 Giugno 2020. La fine del Trattato di Maastricht rese antieconomico il sistema di Tangentopoli: Carli e De Michelis che sapevano di cosa si trattava non informarono Andreotti e Craxi delle conseguenze di ciò che stavano firmando. Siccome, però, i “cervelli dei poteri forti” sapevano che comunque bisognava dare una sponda politica a una simile operazione di eversione-rivoluzione, ecco il senso di alcune offerte: Cuccia che propose a Craxi di essere l’uomo della svolta presidenziale, maggioritaria, anti partitocratica, De Benedetti che parlò di tutto ciò a Pomicino. Craxi rifiutò di guidare l’operazione contro i partiti e diventò così il principale nemico, l’uomo da distruggere, il “Cinghialone”. Cambiare nome per il Pci non risolveva il problema della sua strategia di fondo, nel momento in cui il suo retroterra internazionale era saltato. I miglioristi proposero la scelta socialista. Il Pci, cambiando nome, cambiava anche sostanza: doveva diventare un partito socialista riformista per realizzare l’unità con il Psi di Craxi. Di qui l’ipotesi di un bipolarismo alla europea con la Dc che sarebbe diventata il polo conservatore-moderato. Questa ipotesi fu rifiutata dai “ragazzi di Berlinguer” (Occhetto, D’Alema, Veltroni, Mussi) per cui Chiaromonte comunicò a Craxi che il gruppo dirigente del suo partito aveva respinto la proposta dei miglioristi e scelto la via giudiziaria (sono personalmente testimone di ciò perché il segretario del Psi me ne parlò chiedendo anche «Secondo te che vuol dire?»). Poi si capì che cosa ciò voleva dire: partiva un circo mediatico giudiziario contro il sistema di Tangentopoli. Però il sistema come tale coinvolgeva tutto e tutti, tutte le grandi imprese pubbliche e private, senza eccezione alcuna e tutti i partiti, anche in questo caso senza eccezione alcuna. Invece il circo mediatico giudiziario composto come abbiamo già visto dal pool dei pm di Milano, dai direttori dei quattro giornali, più il Tg3 di Sandro Curzi, Samarcanda di Michele Santoro più le tv di Berlusconi (che diede il suo apporto per salvare se stesso e la sua azienda e non finire come Salvatore Ligresti) decise che i segretari del pentapartito non potevano non sapere, mentre i segretari del Pci-Pds e i leader della sinistra Dc potevano non sapere (emblematico il processo Enimont ma gli esempi in materia potrebbero riempire una pagina ). Così il Pds non divenne socialdemocratico, ma la sua revisione rispetto al Pci riguardò due aspetti: divenne giustizialista (e Togliatti non lo era tant’è che la sua amnistia riguardò anche i fascisti) e del tutto favorevole alle privatizzazioni (Occhetto sul Britannia, D’Alema partecipò quasi direttamente con i suoi “capitani coraggiosi”). Da tutto ciò è derivato un nuovo tipo di anomalia Italiana. Il bipolarismo all’italiana non è stato fondato sulla dialettica fra un grande partito conservatore-moderato e un grande partito socialista, ma fra un partito espressione del circo mediatico giudiziario, quale è stato in questi anni il Pds-Ds-Margherita-Pd e Forza Italia, cioè il partito di Berlusconi, per un verso caratterizzato dal conflitto di interesse e per altro verso un grande partito di centro che ha coperto tutto uno spazio moderato liberale, dando anche uno sbocco politico a una parte dell’elettorato e dei quadri politici provenienti dalla Dc, dal Psi e dai partiti laici. Venendo ai giorni nostri, se si vuole riproporre la questione socialista, non si può evitare di fare i conti con questo “grumo storico”, non per nostalgia lo deduciamo, ma perché esso ha segnato la storia di questi anni e ha provocato due risultati politici devastanti prodotti dalla involuzione e dalla crisi di Forza Italia e del Pd: la Lega di Salvini che ha sostituito Berlusconi nella guida del centrodestra e il M5s che è il prodotto finale di una anti-politica, di un populismo, di un giustizialismo che ha avuto nel circo mediatico giudiziario il suo originario punto di riferimento. Infatti dal 1994 a oggi il potere politico autentico è stato esercitato da alcune procure, da alcuni giornalisti d’assalto, da alcune trasmissioni televisive: Berlusconi si è messo di traverso a tutto ciò dal 1994 al 2013 ma alla fine è stato espulso dal Senato con l’interpretazione retroattiva di una legge già di per sé liberticida (la legge Severino approvata non si sa perché dagli avvocati di Berlusconi ). Se allora il trojan fosse stato in azione avrebbe messo in chiaro gli aspetti più significativi di un dramma che ha inferto un colpo durissimo alla democrazia italiana e la fine dello stato di diritto. Adesso Palamara è solo un untorello che ha gestito i materiali di risulta di qualcosa di assai più rilevante del passato. Non a caso Luciano Violante, che conosce benissimo tutto quello che è accaduto, ha sintetizzato la questione con una battuta fulminante: «Bisogna arrivare alla separazione delle carriere dei pubblici ministeri e dei cronisti giudiziari». Allora, chi volesse davvero capire in Italia la questione socialista, da un lato dovrebbe mettere in questione la “constituency de Pd”, dall’altro lato dovrebbe coinvolgere tutti quelli che sono parte di questa storia, in primo luogo il Psi e tutto un mondo politico e culturale fatto da fondazioni e da riviste che derivano dalla storia del Socialismo italiano e anche fare i conti con gli attuali eretici del centrosinistra, purtroppo sminuzzati in tante sigle. Certo, tutto ciò è una questione etica politica in un certo senso pregiudiziale perché poi, fatti i conti con essa, bisogna misurarsi con il mondo “grande e terribile” che ci circonda, il mondo della globalizzazione, del durissimo scontro geopolitico in corso, della pandemia, delle diseguaglianze, della crisi del capitalismo. Infatti la globalizzazione, accompagnata specie negli Usa da finanziarizzazione e deregolamentazione, ha prodotto una serie di contraddizioni. È andata in crisi la tradizionale gerarchia politica ed economica che ha sino a oggi governato il mondo. Finora la Cina ha cavalcato la globalizzazione meglio degli Usa e dell’Europa. A sua volta Putin ha capito prima di tutti gli altri che internet può essere uno strumento essenziale per la destabilizzazione delle democrazie occidentali. A sua volta tanti anni fa Rudolph Hilferding genialmente avanzò la previsione che la finanziarizzazione avrebbe destabilizzato entrambe le classi protagoniste dei rapporti di produzione capitalisti, gli imprenditori e la classe operaia. Veniamo qui al paradosso insito nel capitalismo contemporaneo: per un verso il capitalismo è l’unica formula produttiva possibile, però questo capitalismo deve essere fortemente condizionato e regolato da un incisivo ruolo dello Stato che deve anche esprimere un disegno di politica industriale. Se non c’è questo ruolo di condizionamento e di regolamentazione dello Stato il mercato abbandonato a se stesso produce bolle speculative, titoli tossici ed enormi diseguaglianze. In più esplodono contraddizioni del tutto al di fuori dagli schemi tradizionali quali quella dell’ambiente e della salute. Tutto ciò richiede una ripartizione delle risorse ben diversa da quella ispirata dal neoliberismo: sanità, scuola, ricerca scientifica, infrastrutture. Da questo e da molto altro deriva l’esigenza di un Partito socialista profondamente diverso dai modelli attuali, cioè sia rispetto al Partito socialista subalterno alla globalizzazione, alle privatizzazioni, alla versione rigorista dell’Unione Europea, sia rispetto alla versione alla Corbyn che ripropone il peggio della tradizione massimalista. Un socialismo del terzo tipo che si riallacci alla storia del socialismo riformista e che nel contempo la rinnovi con l’innesto di culture quali l’ambientalismo, la tematica radicale del garantismo e anche con il riferimento ai valori liberali dell’Occidente contrapposti al sovranismo, al razzismo e a tutte le versioni dell’autoritarismo, da quella di Trump, a quella di XI Jinping, a quella di Putin, di Erdogan e di Orban. Come abbiamo già detto, in Italia una opzione socialista autentica e non mistificata può avere vari punti di riferimento, in primo luogo quel Psi che comunque ha resistito a tutti gli attacchi distruttivi, in secondo luogo gli attuali eretici del centrosinistra, in terzo luogo quell’anima che certamente divide e attraversa il Pd, una parte significativa del quale non ha nulla a che fare con questa esigenza perché in tutti questi anni ha costituito parte integrante del circo mediatico giudiziario. Per un verso il socialismo ha un cuore antico, per altro verso esso esprime i termini di una battaglia a viso aperto contro gli autoritarismi e i totalitarismi di tutti i tipi, In primo luogo questa contestazione deve riguardare i totalitarismi che hanno avuto un ruolo dominante nella sinistra. Di conseguenza, per contrappasso, non vanno mai dimenticati né i nomi delle vittime – come quelli di Bernieri, di Nin, di Pietro Tresso, di Imre Nagy, né vanno obliterati coloro che pur assumendo posizioni assai diverse fra loro, si sono battuti per il socialismo e la libertà, da Rosa Luxemburg a Carlo Rosselli a Umberto Terracini a Camilla Ravera a Giuseppe Di Vittorio, a Ignazio Silone, a Vittorio Foa, a Fernando Santi a Riccardo Lombardi, da Saragat a Bertinotti, a Bettino Craxi. Sappiamo bene che l’evocazione di simili riferimenti storici provoca reazioni di rigetto, crisi di nervi, e totale rifiuto nei “nuovisti”. Ma chi sono i nuovisti? Vediamo anche che emergono nell’ambito del capitalismo due posizioni. Una è quella espressa prima della pandemia da un gruppo di manager americani poi riproposta recentemente dall’imprenditore italiano Della Valle: costoro affermano che è necessario che l’impresa stabilisca nuovi rapporti col territorio, con la società circostante, ovviamente con i lavoratori impegnati in essa. C’è poi un’altra tendenza del capitalismo che porta avanti posizioni di feroce darwinismo sociale, di contrapposizione fra il ruolo del profitto che va privilegiato e quello della salute degli individui. Purtroppo il nuovo presidente della Confindustria Bonomi è sulla posizione di secondo tipo. Questa linea non si è espressa solo in termini teorici. Nel corso dei mesi drammatici in Lombardia questo mondo imprenditoriale ha esercitato moltissime pressioni sul mondo politico affinché Bergamo, Brescia e la Valseriana non venissero subito chiuse e dichiarate zona rossa. Purtroppo, da un lato il governo, dall’altro lato la Regione Lombardia, hanno giocato fra loro a rimpiattino perché fosse l’altro a rompere con Assolombarda. Il risultato è stato quello di migliaia di morti. Di conseguenza, sul governo e sulla regione Lombardia pesa una gravissima responsabilità. Tutto ciò non va dimenticato perché parla in modo profondo alla coscienza di un Paese che sta passando uno dei periodi più drammatici della sua storia.
Il mio incontro con Walter Tobagi, a 31 anni era già un veterano e un maestro. Piero Sansonetti su Il Riformista il 28 Maggio 2020. Ho conosciuto Walter Tobagi negli ultimi due anni della sua vita. Credo, se i ricordi non si accavallano, di averlo visto per la prima volta il 16 marzo del 1978, cioè nel giorno del rapimento di Aldo Moro. Per me era il primo giorno del mio nuovo incarico di cronista parlamentare dell’Unità. L’impatto con Montecitorio, un quarto d’ora esatto dopo il rapimento, fu devastante. Lui invece era frequentemente a Montecitorio. Era un ragazzino, aveva 31 anni, ma noi, che eravamo ancora più ragazzini di lui, lo consideravamo un veterano e anche un maestro. Il suo nome lo conoscevamo da diversi anni, perché lui era diventato famoso con il giornalino scolastico del liceo Parini, La Zanzara, che finì sotto processo perché si era occupato di sesso. Era il 1966, il ‘68 era ancora lontano. La magistratura invece era già un po’ come adesso….
Ricordo bene Tobagi perché oltre ad essere autorevole dava l’impressione di essere indipendente. Ho chiacchierato con lui tante volte, lui era molto gentile, e dava anche dei consigli. Mi consigliava di fare un compromesso con la linea del giornale ma di non sposarla mai. Lui diceva che se volevo fare il giornalista, non potevo rinunciare a vedere i fatti senza ideologie e a farmi una idea mia. Poi potevo anche venire a patti con gli ordini superiori, ma dovevo evitare di identificarmi. Allora i giornalisti parlamentari erano quasi tutti succubi di De Mita. I liberali, i comunisti, i democristiani. De Mita dettava legge, era il re dei capannelli, i suoi uomini erano le fonti quasi uniche del giornalismo politico. Anche i giornalisti del Corriere seguivano De Mita. Per questo mi colpiva questo ragazzone, piuttosto timido, firma di punta del Corriere che era l’unico a restare fuori dei capannelli. Cercava informazioni per conto suo, le confrontava le une con le altre, ascoltava i discorsi in aula e poi giudicava, riordinava e scriveva. Mi ricordo che era uno dei pochi che saliva in tribuna ad ascoltare il dibattito in aula, anche se quello non era il suo mestiere specifico. Perché pensava che la politica palese fosse importante almeno quanto la politica occulta. A me è sempre rimasta questa idea molto forte. Dell’indipendenza come caratteristica specifica e necessaria del giornalismo. Lui la pagò cara la sua indipendenza. Era un isolato, non stava nelle squadrette. Allora il giornalismo non era eccessivamente indipendente. Certo, se confrontato al giornalismo di oggi era quasi il paradiso. Però io credo che la degenerazione, e poi la resa del giornalismo politico che lasciò la strada regina a quello giudiziario, iniziò da allora. Resistevano in pochi all’abitudine del vassallaggio. Chissà se è stato questo uno dei motivi per i quali lo hanno ammazzato in quel modo barbaro in mezzo alla strada.
Dagospia il 28 maggio 2020. (estratti dal libro “Moro, il caso, non è chiuso”, LINDAU , 2019, di M.Antonietta Calabrò e Giuseppe Fioroni). La strage di via Fracchia, a Genova, che si svolse in piena notte il 28 marzo del 1980, rappresenta una delle vicende più complesse della storia delle Brigate Rosse e delle azioni che le contrastarono, lasciando molti interrogativi sul reale svolgimento dell’irruzione, divenuto poi un evento cui si riferì simbolicamente la lotta armata, con la costituzione di un gruppo milanese denominato appunto «XXVIII marzo». Fu la Brigata “XXVIII marzo” che uccise l’inviato del «Corriere della Sera», Walter Tobagi, proprio a due mesi dall’irruzione di Genova da parte degli uomini del generale Dalla Chiesa, il 28 maggio 1980. Domani, vent’anni fa. Il «Corriere della Sera», il 2 aprile 1980, negli articoli che illustravano l’irruzione in via Fracchia segnala che sarebbe stata trovata nel covo br una cartellina con un appunto «materiale da decentrare sotto terra». I giornalisti presenti erano Antonio Ferrari inviato a Genova dal direttore Franco Di Bella insieme a Giancarlo Pertegato e Tobagi, appunto, cattolico, socialista, vicino al segretario Bettino Craxi, che ebbe un ruolo nella «trattativa» milanese del segretario del Psi Bettino Craxi, durante il sequestro Moro, emersa solo negli ultimi anni grazie alle indagini della Commissione Moro2 che ha chiuso i battenti nel dicembre 2018. Facendo emergere tanti fatti e circostanze che illuminano gli ultimi anni della vita di Tobagi, e forse, anche della sua morte. Perchè la conoscenza di quegli anni è molto progredita, portando alla luce fatti sorprendenti. Lo dobbiamo alla memoria di Walter, un grande giornalista.
L’impegno di Walter Tobagi per salvare Moro. Umberto Giovine, iscritto al Psi sin da ragazzo, militando nella Federazione milanese, aveva avuto incarichi nell’ambito dell’Internazionale socialista ed era divenuto direttore di «Critica Sociale» alla fine degli anni ’60, ha dichiarato alla Commissione d’inchiesta Moro2 che: l’input per cercare d’intervenire nella vicenda Moro per salvare la vita del sequestrato avvenne qualche giorno dopo il sequestro, a Torino, durante il congresso del Psi. “Ebbi modo di parlare con Walter Tobagi che conoscevo da molti anni e mi disse che secondo lui avrei potuto e dovuto fare qualcosa attraverso «Critica Sociale» visto che lui personalmente, data la sua posizione al «Corriere della Sera» non poteva agire”. Questa attività milanese era speculare ad un’attività con le medesime finalità e medesimi contenuti, una vera trattativa, che era stata avviata a Roma dal segretario Craxi. “Craxi - continua Giovine - in ogni caso poteva contare sull’appoggio e il contributo del generale Dalla Chiesa che era responsabile nazionale delle carceri di massima sicurezza e che in tale veste poteva muoversi anche in modo indipendente e senza specifiche autorizzazioni del Governo. In quelle settimane non ebbi incontri personali con Craxi ma solo colloqui telefonici protetti in quanto lo chiamavo nel ristorante dove andava a pranzo o a cena”.
Il “tesoro” di Genova: tutte le carte di Moro. Massimo Caprara scriverà più volte, in date diverse: «Disse a caldo (dopo l’irruzione nel covo brigatista di via Fracchia, NdA) l’allora procuratore della Repubblica di Genova, Antonio Squadrito: “La verità è che abbiamo trovato un tesoro. Un arsenale di armi… Soprattutto una trentina di cartelle scritte meticolosamente da Aldo Moro alla Dc, al Paese”». I due articoli sono stati pubblicati anni dopo la barbara uccisione di Tobagi, nel numero 1 di «Pagina», del 25 febbraio 1982, e nel periodico «Illustrazione Italiana», n. 32, luglio 1986. La rivelazione di Caprara, ex segretario di Palmiro Togliatti, è precisa e circostanziata. Ma di quelle trenta cartelle «meticolosamente scritte da Aldo Moro», indicate dal magistrato che nel 1980 era al vertice della Procura del capoluogo ligure, non è stata trovata alcuna traccia agli atti del processo. I lavori della Commissione Moro 2 sono partiti da qui. La quantità e l’importanza del materiale sequestrato in via Fracchia si desumono esaminando il verbale di perquisizione e sequestro (acquisito agli atti della Commissione) che reca un impressionante elenco di 753 reperti, che certamente dal punto di vista investigativo poteva essere considerato un «tesoro». Tenuto conto degli interrogativi che sono nati dai parziali ritrovamenti documentali avvenuti nel covo di via Monte Nevoso a Milano (nel 1978 e nel 1990) , la citata esternazione di Squadrito, è apparsa meritevole di serio approfondimento, anche alla luce delle indicazioni sul ruolo che la colonna genovese guidata da Riccardo Dura ha giocato, secondo la Commissione, nel sequestro Moro. Solo agli inizi degli Anni Duemila, sono cominciati ad emergere nuovi fatti. Nell’articolo intitolato “Via Fracchia, ricordi indelebili. Quella donna in giardino, l’uomo con il piccone, pubblicato venerdì 13 febbraio 2004, firmato da Simone Traverso sul Corriere Mercantile, storico quotidiano della città della Lanterna, vengono riportati i ricordi raccolti dalla «gente del civico 12», tra cui quello di «un uomo misterioso, forse Riccardo Dura , che scavava con un piccone nell’erba alta delle aiuole». Testimonianza questa che descrive una caratteristica peculiare del covo: la presenza anche di un giardino di pertinenza, a cui si accedeva dalla cucina e dalla sala da pranzo, e che conduceva alla parte posteriore dell’edificio. «Un giardino che, incredibilmente – annota la Commissione Moro 2 – non trova esplicita menzione negli atti processuali, né viene evidenziato nella ricostruzione della planimetria dell’appartamento». Che sia stato effettuato uno scavo nel giardino pertinenziale è stato confermato ai consulenti della Commissione Moro 2 da Filippo Maffeo, intervenuto sul posto in qualità di pubblico ministero di turno. Il magistrato ha indicato con certezza il particolare che in giardino il terreno appariva smosso da poco tempo, precisando le rilevanti dimensioni dello scavo, corrispondente, a suo avviso, al volume di tre valigie di media grandezza. Uno scavo immediato e verosimilmente mirato non poteva che scaturire dalla disponibilità di indicazioni precise. Quell’operazione dovette durare ore ed ore e terminare, appunto, prima dell’arrivo del magistrato di turno. Anche lo scavo di un’ampia buca nel giardino del covo non fu riferito negli atti giudiziari del 1980, ma è stato esplicitamente rievocato solo il 15 marzo 2017 nel corso delle dichiarazioni a Palazzo San Macuto dal pm Maffeo.
L’agente tedesco nella palazzina di Tobagi, le carte “segrete” di Moro. Umberto Giovine (che ha illustrato da qualche anno il ruolo di Tobagi nella trattativa per Moro) ha anche parlato della opaca vicenda di Volker Weingraber (alias Karl Heinz Goldmann), un agente tedesco occidentale che operò in Italia durante il sequestro Moro.
6 informative del Sisde che lo riguardavano sono state desecretate dall’AISE (l’attuale servizio segreto estero) nel giugno 2017. In particolare, dagli atti del nostro servizio segreto – solo ora resi noti – risulta che Weingraber giunse a Milano nel febbraio 1978 e che si mise in contatto con diverse persone, tra cui il terrorista Oreste Strano e un gruppo che preparava il sequestro di un imprenditore svizzero. L’informativa del 6 novembre 1978 precisava inoltre che «la fonte infiltrata ha avuto contatti con Aldo Bonomi il quale gli avrebbe confermato di essere in grado di procurare armi e documenti falsi per sviluppare attività eversive». La fonte – continua la citazione – «ritiene che Bonomi sia un provocatore e un confidente della Polizia. Sarebbe stato isolato dalle Br perché ha sempre evitato di assumersi compiti rischiosi nell’ambito dell’organizzazione». Ma «la fonte infiltrata» – come risulta da un’altra lettera desecretata del 2 novembre 1990 inviata dall’ammiraglio Martini, capo del Sismi, al capo della Polizia, prefetto Vincenzo Parisi oggi desecretata – altri non era che proprio Weingraber, il quale lavorava in un’operazione congiunta del Sismi e dei servizi segreti tedesco e svizzero. Risulta inoltre che Weingraber – come confermato dal colonnello Giorgio Parisi al giudice Priore il 28 settembre 1990 – entrò in contatto, tramite Strano (che aveva una compagna tedesca), anche con Nadia Mantovani, cioè la persona che aveva avuto l’incarico di battere a macchina il Memoriale Moro, e che prima del suo arresto, a Novara frequentava una radio di sinistra extraparlamentare collegata alla Rote Armee Fraktion. Va pure segnalato che Weingraber alloggiò a partire dal 1978 in Italia nello stesso palazzo dove abitava Tobagi, ucciso il 28 maggio 1980. Ma poi fu lo stesso Strano a denunciare Weingraber pubblicamente come un infiltrato, dopo che al valico del Brennero vennero sequestrati a quattro cittadini tedeschi 800 fogli di documenti: ciò accadde poche settimane prima della seconda scoperta di materiale proveniente dal sequestro Moro nel covo di via Monte Nevoso 8, a Milano, nel novembre 1990”. Moro per sempre, dunque. Il caso non è chiuso!
40 anni fa l’omicidio di Walter Tobagi, così iniziò la guerra tra Craxi e i Pm milanesi. David Romoli su Il Riformista il 28 Maggio 2020. Pochi omicidi degli anni del terrorismo impressionarono a fondo l’opinione pubblica di allora come l’uccisione di Walter Tobagi, quarant’anni fa, il 28 maggio 1980. Due terroristi della neonata Brigata XXVIII Marzo, Marco Barbone e Mario Marano, lo colpirono con cinque colpi per strada, poi Barbone cercò di finirlo con un inutile colpo di grazia. A quel punto Tobagi, colpito al cuore, era già morto. Non era la prima volta che un giornalista veniva colpito. Le Br, tre anni prima, avevano ucciso Carlo Casalegno, vicedirettore della Stampa e ferito Indro Montanelli. La stessa Brigata XXVIII Marzo, prima dell’omicidio Tobagi aveva ferito Guido Passalacqua, di Repubblica. La morte di Tobagi fu in un certo senso ancora più sconvolgente. Era un uomo molto giovane, appena 33 anni, e molto brillante. L’impressione fu davvero quella di una vita spezzata ancora all’inizio, di una promessa alla quale era stato impedito di essere mantenuta. Inoltre, Tobagi era un uomo di sinistra, socialista e cattolico, con alle spalle esperienze redazionali all’Avanti! e poi all’Avvenire. Aveva seguito e scritto un libro importante, già all’inizio degli anni Settanta sul Movimento studentesco e i gruppi marxisti-leninisti. Seguiva la parabola del terrorismo con rigore, senza alcuna civetteria ma anche cercando di capire e scandagliare. Senza furori ideologici. Quell’omicidio fu una sorta di spartiacque per la composizione del gruppo che aveva deciso l’esecuzione. Molti erano ragazzi di buona, anzi ottima famiglia, provenienti da ambienti vicini al Corriere della Sera, il giornale di Tobagi. Appena arrestato, poco dopo l’attentato, il leader, Marco Barbone si pentì quasi ancora prima che le manette si fossero chiuse intorno ai suoi polsi e le sue denunce massacrarono gli ambienti dell’Autonomia, dai quali provenivano tutti i militanti del gruppo. La spiegazione dell’omicidio, poi, fu particolarmente agghiacciante. La XXVIII Marzo voleva entrare nelle Br e aveva bisogno di credenziali di sangue per passare dalla porta principale, non come militanti qualsiasi. A rendere quel caso particolarmente clamoroso fu il seguito. La guerra tra Bettino Craxi e la procura di Milano cominciò infatti allora. Il leader socialista sospettava che i mandanti dell’assassinio fossero rimasti ignoti e provenissero dall’interno stesso del quotidiano di via Solferino. La tensione tra Tobagi, di sinistra e socialista ma anti Pci, e il cdr era in effetti fortissima, i litigi frequenti ed esplosivi, l’ultimo proprio la sera prima dell’omicidio. Sui muri della redazione comparivano scritte come “Tobagi: Craxi Driver”. Ma a destare i sospetti del socialista rampante non era affatto solo l’ostilità della sinistra vicina al Pci nei confronti del giornalista del Psi. C’erano elementi molto più concreti. Il volantino di rivendicazione era anomalo, differiva dalla prosa abituale dei gruppi armati per la precisione dell’analisi e per la conoscenza di dettagli non di dominio pubblico, come un’antica presenza di Tobagi nel cdr del Corsera, diversi da quello del quotidiano e praticamente ignorati, dopo anni, da tutti. Gli analisti conclusero che solo l’ultima parte del documento era davvero di pugno dei ragazzi della XXVIII Marzo. La minuta del volantino, poi, sembrava seguire le regole in vigore allora nelle redazioni, e in particolare in quella del Corriere, con sei spazi bianchi per indicare ai tipografi la necessità di andare a capo. C’era di più. L’approfondimento del Psi rivelò che un infiltrato aveva già preannunciato un attentato contro Tobagi, a opera delle Formazioni Comuniste Combattenti, poi confluite nella XXVIII Marzo, già nel 1979. Su questa base il leader socialista contestava la versione della Procura, sospettava anche che il pentimento dei terroristi non fosse stato spontaneo ma preparato in anticipo per mettere i mandanti al riparo dalle indagini. La tensione iniziale si trasformò presto in guerra aperta a colpi di accuse da far tremare la Repubblica e citazioni in Tribunale. Quando la Procura di Milano decise di infilare la vicenda in uno dei maxi processi contro il terrorismo in voga all’epoca, con decine di imputati e di delitti e dunque senza la possibilità di approfondire il caso, per il leader del Psi fu la prova provata di una fredda volontà di insabbiamento. Craxi non era il solo a sospettare la presenza di mandanti. Subodoravano qualcosa di poco chiaro il generale capo dell’antiterrorismo Carlo Alberto dalla Chiesa, il procuratore Adolfo Beria di Argentine, il ministro degli Interni e futuro presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro. Avevano torto. Nessuno aveva ordinato ai terroristi-in-carriera della XXVIII Marzo di uccidere Walter Tobagi, anche se probabilmente la scelta dell’obiettivo e i contenuti del documento di rivendicazione riflettevano le critiche e l’ostilità della sinistra di allora nei confronti del giornalista “craxiano”. Le informative, come ha acclarato nel 2018 il pm Guido Salvini, c’erano state davvero. Ma si erano fermate nei cassetti dei carabinieri, ai quali erano state consegnate, per sottovalutazione e non per dolo. Lo scontro violentissimo fra Craxi e la procura di Milano andò avanti a lungo. Le bordate del leader socialista, ora Presidente del Consiglio, diventarono sempre più esplicite e agguerrite. Il Csm decise di mettere ai voti una mozione di censura contro il premier, il 5 dicembre 1985. Il capo dello Stato Francesco Cossiga, presidente del Csm, vietò l’odg e annunciò la decisione di presiedere di persona la riunione. Il Csm decise di sfidarlo e di andare avanti comunque. Cossiga spedì un battaglione di carabinieri in tenuta antisommossa di fronte a palazzo dei Marescialli, sede del Csm, e minacciò di far arrestare i togati se avessero insistito. Per protesta tutti i membri togati del Consiglio rassegnarono le dimissioni. Anni dopo la figlia di Tobagi, Benedetta, avrebbe accusato la P2 di aver deciso l’assassinio di suo padre. Un sospetto molto meno giustificato di quelli, pur sbagliati ma non incomprensibili, di Craxi. L’ostilità fra la Procura di Milano e il partito di Craxi non sarebbe mai più rientrata e l’ora della resa dei conti sarebbe arrivata sette anni dopo, con Tangentopoli. Oggi molti ricorderanno, giustamente, il giovane e brillante giornalista ucciso dai terroristi che volevano entrare nelle Br con già pronti i galloni di ufficiali. Saranno molte di meno le voci pronte a ricordare che la fine della Prima Repubblica prese le mosse anche da quell’omicidio.
Da Craxi ad oggi l’Italia ancora bloccata da cattocomunisti e azionisti. Corrado Ocone su Il Riformista il 21 Gennaio 2020. Da Hammamet l’Italia si vede da un’altra prospettiva. È come stare un po’ dentro e un po’ fuori. Il Bel Paese è a poche miglia di mare, i tremila italiani che hanno deciso di vivere qui da pensionati sono proiettati mentalmente verso il continente, ma poi anche loro fanno parte almeno un po’ di un mondo altro e fiero della propria diversità. Che ti avvolge, protegge, contamina. Certo, per un periodo, soprattutto se hai avuto una vita ricca di relazioni, puoi sentirti “come in una gabbia”, come Bettino Craxi si è sentito negli anni di quello che fu a tutti gli effetti un esilio politico. Passeggiava su e giù per la casa, seguiva le vicende italiane, interveniva con fax di puntualizzazione spediti alle redazioni e per lo più ignorati. Faceva anche qualche passeggiata per le vie della vecchia Medina, prendeva un tè o un caffè. Qui Craxi è ancora un “santo laico” di una città musulmana e araba che di storie di incursioni cristiane (persino dei Cavalieri di Malta) ne ha conosciute tante. Al bar della parte più alta della Medina il signore che serve caffè turco indica l’angolo in cui Craxi sedeva, poi tira fuori una vecchia spilla con il rosso garofano simbolo del Psi. Lo volle Craxi, al posto della vecchia falce e martello, per segnalare anche iconicamente la sua visione politica: abbandonare il marxismo e ritornare a quel socialismo umanitario e solidaristico, libertario e progressista, che aveva fatto la sua prova migliore nella Milano di fine Ottocento. Mentre Enrico Berlinguer e i comunisti si illudevano concependo ipotetiche “terze vie” fra socialismo e capitalismo, e predicavano “l’austerità”, Craxi chiudeva definitivamente con le storture del “secolo breve”. I comunisti, non pronti a questo passo, sarebbero stati travolti dalla caduta del Muro. Ma, in verità, lo sarebbe stato anche Craxi, il quale forse non aveva intuito la nuova sponda in cui si sarebbe esercitata l’egemonia culturale a sinistra: non quella di un moderno socialismo, ma quella giustizialista. Come scrisse nei giorni di Hammamet, in Italia si realizzò allora un «golpe postmoderno, senza militari, giocato su nuclei della magistratura e dell’informazione» che seppero toccare «punte altissime di delirio e mistificazione», dilagando «sul terreno della persecuzione». Una storia che dura ancora oggi, ove l’ultimo prodotto di quel clima giustizialista, il movimento di Grillo, è al governo. E il governo qui ad Hammamet non si è fatto vedere. Brutto segno di incapacità di fare i conti con la propria storia non solo da parte della sinistra, ma anche dallo Stato italiano. La libertà di cui abbiamo goduto nei primi cinquanta anni della Repubblica è stata figlia anche di un sistema di finanziamento dei partiti formalmente illegale ma perfettamente legittimo dal punto di vista della ragion di Stato. Tutti ne facevano parte e tutti sapevano, ma Craxi solo ha pagato. Anche come uomo di Stato, primo capo del governo socialista, Bettino ha lasciato il segno.
L’Italia, sotto la sua guida, è diventata la quinta potenza industriale del mondo, sorpassando la Gran Bretagna. Soprattutto Craxi ha individuato un ruolo per l’Italia nel mondo e ha fatto sì che il nostro Paese fosse da tutti rispettato. Sigonella fu ovviamente la prova del nove, con la difesa strenua della nostra sovranità nei confronti di Ronald Reagan (che comunque ebbe modo poi dire che Craxi si era comportato da grande). Un paradosso solo apparente che a non soccombere alle richieste americane fosse uno dei più atlantisti dei leader italiani! E poi c’era l’attenzione per i movimenti di liberazione nazionale, in un’ottica garibaldina e mazziniana insieme, risorgimentale. E la lotta alla povertà, e a ogni tipo di dittatura. Amava la libertà sopra ogni cosa, perché, come è scritto sulla sua lapide, la libertà equivale alla vita. Qualcuno potrebbe pensare che le celebrazioni di Hammamet di questi giorni, con la infaticabile figlia Stefania a far da motore, abbiano guardato al passato, non fosse altro per la presenza di tutti i leader di un tempo (da Margherita Boniver a Claudio Martelli, da Ugo Intini a Claudio Signorile) e per quella di tanti dirigenti anche locali del vecchio Psi. Non bisogna lasciarsi ingannare: esse guardano al futuro. L’Italia è ferma proprio perché quella cultura cattocomunista e azionista che ostacolò Craxi la blocca ancora oggi. Craxi parla a noi anche se non avrebbe probabilmente capito certe derive della postpolitica. Lui che della politica aveva fatto il pane quotidiano. E la sua fine, come dice Marcello Sorgi nel suo libro appena uscito (Presunto colpevole, Einaudi) «concluse gli anni Novanta e consegnò alla storia del Novecento il principio del primato della politica, mettendoci una bella pietra sopra».
Davigo: «Rapporti tesi con il potere politico dal ’92». Tangentopoli? Come una guerra. Il Dubbio l'11 febbraio 2020. Le parole del consigliere del csm in un verbale del 2012, quando fu ascoltato per il processo sulla trattativa Stato-Mafia. Tangentopoli come una guerra, in cui si era costretti a lavorare «sotto i bombardamenti», una guerra che «non consentiva nessun tipo di vita privata». E da quella stagione che seppellì la prima repubblica «i rapporti con il potere politico sono sempre stati tesi». Sono le parole del consigliere del csm Pier Camillo Davigo in un verbale del 20 settembre 2012 che ora la difesa del generale Mario mori chiede di acquisire per il processo sulla trattativa stato-Mafia. Parlando del forte conflitto con la classe politica dell’epoca Davigo racconta di uno «scontro pubblico con il «presidente del consiglio» di allora «Giuliano Amato, perché il governo preparò, non ricordo se uno schema di disegno di legge o uno schema di decreto legge in cui prevedeva la depenalizzazione del finanziamento illecito ai partiti politici e disse che era quello che chiedevamo noi». «Allora il Procuratore capo di allora Francesco Saverio Borrelli lesse una dichiarazione alla stampa in cui disse: Noi non c’entriamo niente, ci auguriamo che il governo si assuma le sue responsabilità, facciano quello che credano ma non dicano che glielo abbiamo chiesto noi. Poi visto che ci hanno tirato in ballo se proprio volete la nostra opinione è esattamente il contrario di quello che bisognerebbe fare perché una delle valutazioni se depenalizzare o no è che è l’autorità che deve reprimere questi comportamenti, deve godere di indipendenza dai soggetti da reprimere». E ribadisce i rapporti «tesi con il potere» «già dal 1992».
Da liberoquotidiano.it il 12 febbraio 2020. A DiMartedì su La7 va in onda un siparietto tra Maria Elena Boschi e Piercamillo Davigo. Quest'ultimo sostiene che "il giorno più brutto nella mia vita di cittadino della Repubblica è stato quando Bettino Craxi sul finanziamento illecito disse in Parlamento: Qui lo avete fatto tutti. E nessuno si alzò per digli: Ma come ti permetti, io no". Lo studio di Giovanni Floris applaude, ma Davigo viene spento dalla Boschi, che replica con l'ironia: "Io non c'ero in Parlamento, all'epoca facevo le scuole medie". Come a dire, almeno su questo argomento non prendetevela con me e con Italia Viva.
Gratteri: “Bisogna fare pulizia anche tra i magistrati e tra certi giornalisti”. Il Corriere del Giorno il 5 Agosto 2018. Il procuratore capo di Catanzaro ha discusso di giustizia ed informazione insieme ai giornalisti Nuzzi e Belpietro, sottolineando: “Tra alcuni avvocati e alcuni clienti l’ampiezza della scrivania si è ridotta. Permettere questo è molto pericoloso”. Aggiungendo “nella mia categoria bisogna fare pulizia. Così come va fatta pulizia negli organi di stampa”. Giustizia ed informazione sono due lati della stessa medaglia. Ad affrontare queste due tematiche delicate, ed allo stesso tempo scottanti, ne ha discusso nel chiostro Sant’Agostino a Paola nel ricordo di Enzo Lo Giudice (avvocato di Bettino Craxi durante la stagione di “Tangentopoli”) Nicola Gratteri, il procuratore capo e della DDA di Catanzaro, da sempre in prima linea nella lotta alla ‘ndrangheta, pungolato dalla presenza due giornalisti: Gianluigi Nuzzi e Maurizio Belpietro. Sin dalle prime battute si è capito che non era il solito convegno intriso di parole e discorsi da salotto, anche perchè quando parla Gratteri finisce la diplomazia. Il magistrato rispondendo ad una domanda di Nuzzi sul ruolo degli avvocati, ha sostenuto che “tra alcuni avvocati e alcuni clienti l’ampiezza della scrivania si è ridotta. Permettere questo, soprattutto in ambito penale, è molto pericoloso. Ma è pericoloso non tanto per i rapporti che si creano con i clienti ma con i colleghi avvocati. Francamente, ce ne sono troppi, e troppe sono anche le cause che non dovrebbero stare in tribunale”. Ai più giovani che intraprendono la carriera di avvocato, Nicola Gratteri si è sentito di dare loro un consiglio. “Non cercate scorciatoie, non servono, fate in modo che con i vostri clienti la scrivania abbia un margine ampio”. Lo Giudice legale di Bettino Craxi nel processo “Mani Pulite”, nato a Paola, era di formazione comunista, ma soprattutto “garantista puro” come ricorda il suo prima praticante, ora avvocato, Francesco Scrivano. Difendere il leader socialista nel tornado giudiziario messo in piedi dal pool di “Mani Pulite” dei tre magistrati Davigo-Di Pietro-Colombo, per Lo Giudice significò confrontarsi anche con il primo episodio vero in Italia di quello che oggi si definisce “processo mediatico”. Infatti da allora molte cose sono cambiate. Sulle colonne dei giornali persino un avviso di garanzia si trasformò in udienza, se non qualche volta persino in una condanna annunciata. “I direttori delle testate italiane più importanti – ha detto l’ Avv. Scrivano – si chiamavano per mettersi d’accordo sul titolo da dare il giorno dopo“. E dice la verità. Così l’avvocato Lo Giudice scrisse parlando di “Mani Pulite”: “C’era la grossa aggressione propagandistica determinata dalla sinergia tra la stampa la televisione e le manette per demonizzare il nemico. Badi bene, coloro che erano indagati non erano visti come inquisiti ma come nemici dopo di che si aveva la condanna pubblica e generalizzata nel Paese prima ancora del processo. Questa condanna pubblica diventava talmente forte che nessun giudice avrebbe avuto il coraggio di scardinarla. Così il cerchio si chiudeva e l’accanimento giudiziario era concluso“. “Era una grande inchiesta quella, e la cavalcammo”. “ È innegabile, sapevamo tutto il giorno prima – ha confessato il giornalista Belpietro – e molti dei nostri colleghi chiamavano a casa dei destinatari di misure cautelari domandando “scusi hanno già arrestato suo marito?”. Belpietro non difende la categoria a cui appartiene, e si assume le proprie responsabilità con grande onestà intellettuale: “Imprenditori e politici, al solo pensiero di finire sul giornale in quegli anni si tolsero la vita. Il processo si consumava ancor prima che venisse fatto l’interrogatorio di garanzia. E su questo sono d’accordo con l’avvocato Lo Giudice, si tratta di una violazione del diritto“. Gratteri invece preferisce rimarcare il binario etica-morale: “Una volta ricevere un avviso di garanzia era una vergogna. Adesso neanche ci si bada, e se le intercettazioni vengono pubblicate è anche perché il livello di educazione dei lettori è basso. Ci si interessa più del pettegolezzo che delle contingenze del reato“. Il network delle notizie giudiziarie ha 3 punti di riferimento: la magistratura, l’ avvocatura e la polizia giudiziaria. In mezzo ci stanno i giornalisti . La necessità di nuove regole e pulizia è condivisa anche Belpietro che però mette i magistrati davanti al fatto compiuto: “Se un magistrato commette un errore nell’esercizio delle sue funzioni, non può essere semplicemente spostato, deve essere sospeso“. Ed aggiunge: “Negli altri Paesi c’è la regola dell’intralcio alla giustizia, solo da noi non si riesce a trovare un giusto equilibrio su cosa raccontare nella fase di indagine”. Gratteri, non ha riservato sconti neanche ai suoi colleghi e bacchetta quei giornalisti “pregiudicati” che continuano a scrivere e a screditare. “Nella mia categoria – ha detto il procuratore capo di Catanzaro – bisogna fare pulizia. Così come va fatta pulizia negli organi di stampa. Ci sono cronisti con una pagina e mezzo di reati giudicati che continuano a esercitare la professione, così come quelli che scrivono per screditarmi. Ho disposto 169 arresti, il Riesame ne libera 5 e alcuni giornali dicono che l’operazione sia stata un ‘flop’”. Gratteri ha dimenticato quei giornalisti che si salvano con la prescrizione, o con i soldi pagati dall’editore alle parti lese pur di non andare a processo. Alla domanda di Belpietro, il magistrato Gratteri sorride :”Io ministro della giustizia? Bisognerebbe chiederlo a Napolitano – continua – anche se quelli che mi vogliono bene mi dicono sempre che mi sono salvato”. Il procuratore capo della Dda di Catanzaro ha quindi ricordato quando gli chiesero aiuto per la riforma della giustizia, come dei 250 articoli scritti passò solo quello del processo a distanza. Il governo nel frattempo ha messo in archivio la legge sulle intercettazioni, quindi tutto rimane com’è. “Finché le cose stanno così – ha concluso Belpietro – anche io continuerò a pubblicare, ma se le cose dovessero cambiare non ne faccio un dramma. Si può tranquillamente continuare a fare il nostro lavoro“. E noi la pensiamo una volta come lui.
Perfino Di Pietro riscrive Mani pulite: «Smettetela di usare Craxi come simbolo». Francesco Damato su Il Dubbio il 22 gennaio 2020. Di Pietro in un passaggio della sua intervista, a proposito delle strade o piazze che qualcuno vorrebbe dedicargli in Italia, è riuscito anche a parlare di Craxi come di un “esule”, anziché di un latitante. Con un po’ di buona volontà potrebbe anche considerarsi un contributo alla rilettura della vicenda politica di Bettino Craxi, nel ventesimo anniversario della sua morte, la versione di Mani pulite che uno dei protagonisti di quella famosa indagine, Antonio Di Pietro, ha voluto offrirci in una lunga intervista all’Espresso. «Dovete smetterla» è sbottato ad un certo punto l’ex magistrato riferendosi a quanti ancora indicano in Craxi – come è tornato a fare Marco Travaglio domenica sul suo Fatto Quotidiano- il massimo esponente di quella specie di criminalità politica decimata negli anni Novanta, insieme con la cosiddetta prima Repubblica, dalle inchieste e dai processi sul finanziamento illegale dei partiti. Craxi, secondo Di Pietro, «era un normale politico, come tutti gli altri, ha fatto quello che hanno fatto anche gli altri. Non è che ha agito diversamente. Lo ha ammesso anche lui. Non c’è una differenza, non fatelo più grosso di quello che è», ha insistito l’ex Pm parlando del leader socialista ancora al presente, forse proprio per attaccarsi meglio alle cronache che hanno contrassegnato in questi giorni le celebrazioni dei 20 anni dalla sua morte in terra tunisina. Di Pietro in un passaggio della sua intervista, a proposito delle strade o piazze che qualcuno vorrebbe dedicargli in Italia, è riuscito anche a parlare di Craxi come di un “esule”, anziché di un latitante: qualifica preferita invece dagli avversari più irriducibili anche a vent’anni dalla sua morte. Se «era come gli altri» attori di Tangentopoli, resta naturalmente da sapere e chiarire perché a Craxi fu riservata quella «durezza senza uguali» riconosciuta dieci anni fa dall’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano: una durezza, come mi è già capitato di scrivere sul Dubbio, che conferma l’impressione di un trattamento da capro espiatorio riservato al leader socialista. Nell’assolversi dall’accusa di essere stato un persecutore di Craxi – e anche da quella dei craxiani di essere stato lui un addetto, o qualcosa del genere, dei servizi segreti nel perseguimento di chissà quale operazione politica, magari dividendosi fra gli Stati Uniti e qualche loro ufficio diplomatico in Italia- Di Pietro ha raccontato che, in realtà, da inquirente egli pensava o aspirava a chiedere più l’arresto di Giulio Andreotti che quello del leader socialista. E ciò per via delle notizie e quant’altro raccolte occupandosi per un certo tempo di mafia e appalti e di 150 milioni di lire fatte versare da Enimont a Salvo Lima, il capo degli andreottiani siciliani. Era di quello, in particolare, che Di Pietro avrebbe voluto parlare con Raul Gardini nell’interrogatorio al quale l’imprenditore si sottrasse il 23 luglio 1993 uccidendosi. Mi ero fermato, a proposito dell’indagine siciliana su mafia e appalti, all’intreccio con la vicenda della “trattativa” fra la stessa mafia e lo Stato, ancora aperta giudiziariamente a Palermo in sede d’appello. Ora Di Pietro ce la propone anche come una specie di filone centrale da lui perduto per ragioni di competenza, a favore della Procura di Palermo, per cui “Mani pulite” sarebbero rimaste o diventate quasi un’appendice, o una vicenda parallela e forse persino minore. Clamoroso, quanto meno.
Craxi, il grande capro espiatorio di Tangentopoli. Antonio Selvatici il 22 Gennaio 2020 su Il Riformista. «Craxi è stato il grande capro espiatorio di Tangentopoli». Un’ efficace mezza riga estrapolata dall’ultimo libro di Marcello Sorgi che rilegge la fine umana e politica di Bettino Craxi (Marcello Sorgi, Presunto colpevole – Gli ultimi giorni di Craxi, Einaudi, euro 13). L’ex direttore de La Stampa a venti anni dalla morte del segretario del Psi (Hammamet, 19 gennaio 2000) offre un saggio di facile lettura e propone una panoramica ben più ampia del riduttivo, ma attraente per il mercato, sottotitolo Gli ultimi giorni di Craxi. Molto meglio il titolo Presunto colpevole. L’autore attraverso la testimonianza di Stefania Craxi, affettuosa custode del padre sofferente e indisciplinato, fa vivere al lettore spezzoni della vita tunisina. Non potevano non esserci «Le forzature giudiziarie, grazie alle quali gli sono (a Bettino Craxi, n.d.a.) state inflitte condanne così pesanti che, malmesso com’era, non sarebbe mai stato in condizione di espiare, fanno ancora oggi della sua vicenda un caso irrisolto». Emergono i metodi persecutori utilizzati da alcuni magistrati della Procura di Milano: «L’offerta non dichiarata dei Pm è quella a cui si sono piegati la maggior parte degli imputati eccellenti: confessare per poi patteggiare e salvarsi pagando il minor prezzo possibile come pena da scontare». E’ il «tintinnio di manette» (musica evocata nel discorso di fine anno del 1997 dal Presidente Oscar Luigi Scalfaro), la minaccia della carcerazione preventiva, della custodia cautelare protratta che produce grandi e insperati effetti. Una sorta di tortura psicologica: «o parli o rimani in galera». Più volte l’ex direttore del quotidiano torinese tocca un tema largamente sottovalutato: dov’è il «tesoro» di Craxi, «i soldi che avrebbe lucrato per arricchimento personale e avrebbe fatto sparire in conti esteri»? Alla pagina successiva la scontata risposta: «Il lato debole dell’inchiesta, però, è che i soldi non si trovano». Già, sono trascorsi quasi trent’anni dall’avvio di Tangentopoli (17 febbraio 1992), sono tanti gli anni passati dall’arresto del «mariuolo» Mario Chiesa, ma l’inestimabile «tesoro» di Craxi dov’è? Dopo un trentennio viene da chiedersi: è mai esistito? Di certo sappiamo una cosa: «Alla fine di Tangentopoli, saranno una ventina quelli che si sono tolti la vita». Lo sapevano tutti come i partiti si finanziavano extrabilancio, quello era il ben noto «sistema». Quello dei quattrini non contabilizzati, un abbeveratoio comune dov’era consuetudine ficcarci dentro il muso (Craxi: «Lo sapevano tutti come si finanziavano i costi della politica»). Di grande utilità per capire il clima che ha segnato la fine della cosiddetta Prima repubblica quanto l’autore ha scritto riguardo la visita di Stefania Craxi in Vaticano, ricevuta dal cardinale, nonché potente Segretario di Stato, Angelo Sodano. Quella della figlia dell’ex segretario del Psi era l’ennesimo tentativo, il procurarsi una notabile sponda per cercare di far eseguire in Italia presso una struttura adeguata l’operazione al cancro avanzato al rene destro dell’ex leader del Psi che è stato il firmatario del Concordato con la Santa Sede: «Mi ascoltò con grande attenzione, poi si mise la mano in tasca. Ne trasse due rosari benedetti dal Papa e me li consegnò, assicurandomi che avrebbe ricordato mio padre nelle sue preghiere». I capitoli centrali rischiano di far sbandare il saggio: “La Cia in casa” contiene alcune sfumature che potrebbero portare il lettore verso un’interpretazione dei fatti che lo avvicinano pericolosamente a teorie complottiste. Sappiamo quanto le teorie complottiste siano fastidiose e a volte, ma non è questo il caso, fantasiose, se non fantascientifiche. La conclusione del capitolo dedicato al presunto coinvolgimento dei servizi segreti degli Stati Uniti nella vicenda Tangentopoli cerca di aggiustare (malamente) la questione: «Che lo sciagurato epilogo di Craxi possa essere stato manovrato da una “vendetta” americana, tuttavia, resta da dimostrare». Il libro impone e propone alcune riflessioni che vent’anni dopo la morte di Bettino Craxi sarebbe opportuno diventassero veri argomenti di discussione. Il meccanismo del ragionamento è noto: verità processuale e verità storica. Ora che, con le dovute eccezioni per quelli che della forca continuano a farne un mestiere, i linguaggi e i comportamenti rivoluzionari si sono placati si può (si deve) cominciare a ragionare sulla verità storica. Sicuramente sopraffini giuristi sono ancora in grado di placare i ragionamenti gettando nel calderone del diritto (di quello che si applica e di quello che s’interpreta) ogni via di fuga. Occorre andare oltre, scavalcare l’ipocrisia giudiziaria. Una nota geopolitica: Francesco Saverio Borrelli, Procuratore capo a Milano è stato la vera guida di Tangentopoli e del celebrato pool di mani pulite. Magistrato dottrinale, carismatico dal comportamento nobiliare, figlio e nipote di uomini di legge. Il Psi di Bettino Craxi è milanocentrico (non solo per la nota “Milano da bere”), la testa, gli interessi del partito di Bettino Craxi (nato a Milano) erano a Milano. Se il baricentro del Psi fosse stato a Roma, avremmo vissuto il trambusto e il travaglio di Tangentopoli? Infine, torniamo al libro di Marcello Sorgi, l’ultima pagina dell’ultimo capitolo è un po’ un amarcord: «Finito il tempo di Moro e Craxi, affondate una dopo l’altra la Prima e la Seconda Repubblica, si vive l’epoca del populismo, della comunicazione drogata, dei leader dei cosiddetti “partiti liquidi”, degli elettori che non vanno più a votare, perché tanto, ogni giorno, ogni ora, ogni momento si vota su Facebook e su Twitter. Avanti in questo modo, davvero, non è facile dire per quanto si potrà andare». Marcello Sorgi ha ragione. Senza una seria riflessione riguardante gli avvenimenti che hanno segnato il recente passato, dove andremo? Per superare il diffuso sentimento del “terrapiattismo” occorre non confondere la verità giudiziaria con quella storica.
Gianni Barbacetto per il “Fatto quotidiano” il 21 gennaio 2020. È frastornato e deluso, Antonio Di Pietro, per l' aria di santificazione che tira in questi giorni sul più famoso dei suoi indagati, Bettino Craxi. E anche per un paio di episodi che gli sono capitati. Un signore distinto, sul treno Italo Napoli-Milano, lo ha apostrofato: "Lei è quello che ha rovinato l'Italia". A Roma, invece, su un autobus, un ragazzo gli ha chiesto: "Lei è Antonio Di Pietro, quello di Mani Pulite?". "Sì". Uno sputo addosso e una fuga, alla fermata di piazza Venezia.
Sono passati vent'anni dalla morte di Craxi e 28 dall'inizio di Mani Pulite e..
«…e c'è un completo stravolgimento della realtà. Io quel ragazzo che mi ha sputato addosso lo avrei voluto abbracciare: perché ai tempi di Mani Pulite non era neanche nato e non è colpa sua se oggi è rimasto vittima di un'informazione pilotata e artefatta. Quanto al signore su Italo, gli ho risposto che non ho rovinato l'Italia, ma ho solo cercato di curarla, di guarire la malattia della corruzione. E per fortuna ho trovato attorno, sul treno, molte persone che erano d'accordo con me. Io negli anni di Mani Pulite ho fatto soltanto il mio dovere, che era quello di fare le inchieste. Ma oggi mi si rimprovera perché ho fatto il mio lavoro e si mette in discussione l' esercizio di un dovere».
Evidentemente Mani Pulite fa ancora male.
«Tangentopoli fa ancora male, perché quella era il male, non Mani Pulite che ha cercato di curarla. Si continua a raccontare una storia diversa dalla realtà. Si continua a diffondere un'informazione falsata. Io non ho niente contro una famiglia che ricorda un padre, un marito, morto vent'anni fa. La famiglia e gli amici vanno solo rispettati. Ma ce l'ho con una informazione che trasforma in vittima una persona che in vita si era macchiata di crimini e aveva avuto delle condanne definitive. Come si fa a proporre di dedicare la via di una città a un latitante condannato per gravi reati?»
In questi giorni è stato detto che Craxi, segretario del Psi, è stata la vittima di Mani Pulite, l'unico che ha pagato per un intero sistema.
«Ma finiamola: Craxi è stato vittima di se stesso, avendo scelto di farsi corrompere pure lui come migliaia di altri indagati delle inchieste di Mani Pulite. C'è chi, in altri partiti, ha avuto più avvisi di garanzia di lui. Vittima? Ma ci sono le sentenze, le confessioni, i conti all'estero, i miliardi di lire spariti».
Le rimproverano di avere impedito che fosse curato in Italia.
«I magistrati non hanno alcuna possibilità di garantire un salvacondotto giudiziario a un condannato definitivo fuggito all'estero e dunque dichiarato latitante. È un potere che ha, semmai, la politica, il presidente della Repubblica, il presidente del Consiglio, non so…So che se fosse tornato in Italia nessuno gli avrebbe potuto togliere il suo diritto a essere curato in ospedale. È scritto nei codici. Lui invece chiedeva, con una sorta di ricatto allo Stato, un salvacondotto preventivo che i magistrati non potevano dare».
Claudio Martelli ha detto che Craxi non era un latitante, ma un rifugiato politico.
«Sarà stato un rifugiato politico per la Tunisia. Per lo Stato italiano era un condannato definitivo dichiarato latitante. Anche i terroristi rossi in Francia si dichiarano e sono considerati rifugiati politici, ma questo non toglie che per l' Italia sono e restano latitanti».
La politica costa, dicono i suoi difensori, dunque il finanziamento illecito era comune a tutti i partiti. Ed era necessario per far vivere la democrazia.
«Violavano la legge che i partiti stessi avevano fatto. Finanziavano illegalmente i partiti, ma poi ne approfittavano anche per i loro interessi personali. Ora elogiano il discorso di Craxi in Parlamento che diceva: i bilanci di tutti i partiti sono falsi. Ma non era coraggio, era una furbata dell' ultimo minuto, che ammetteva quello che avevamo già scoperto, senza parlare però degli appalti truccati, né dei conti personali all' estero. Si ammette il finanziamento illecito, ma non la corruzione e la concussione. Gli imprenditori erano costretti a pagare mazzette per ottenere i lavori. E poi facevano lavori spesso inutili e soprattutto pagati più del dovuto, o costruivano ponti con tanta sabbia e poco cemento, destinati a venir giù».
Avete abbattuto Craxi, ma salvato i comunisti.
«L'amnistia per i finanziamenti dell'Unione sovietica al Pci l'hanno fatta i partiti nel 1989, prima di Mani Pulite. Quanto alle tangenti, siamo riusciti ad arrivare fino ai segretari amministrativi dei partiti, della Dc (Severino Citaristi), del Psi (Vincenzo Balzamo) e anche del Pci (Renato Pollini e Marcello Stefanini, che non sono stati condannati perché nel frattempo sono morti e da morti certamente non potevano mettere per iscritto che uso avevano fatto dei soldi ed eventualmente a chi li avevano dati)».
Eravate manovrati dalla Cia.
«Ma anche dal Kgb, dal Mossad e chi più ne ha più ne metta. Ma siamo seri. I soldi che abbiamo trovato nei conti svizzeri di tanti corrotti, Craxi compreso, ce li hanno messi loro o io per conto della Cia?»
Quando Di Pietro rispose a Craxi: “Cancrena? È solo un foruncolone”. A vent’anni dalla morte dell’ex segretario socialista, un libro di Andrea Spiri scava nei suoi pensieri nell’esilio di Hammamet. Tra aneddoti e verità dimenticate. Maurizio Tortorella il 10 gennaio 2020 su Panorama. Lo storico Giuseppe Tamburrano ha giustamente scritto di lui che “Mai in Italia un uomo politico e di Stato era passato così rapidamente dal servo encomio al codardo oltraggio”. È vero: a Bettino Craxi è andata forse peggio che a Benito Mussolini. A vent’anni dalla sua morte (19 gennaio 2000) il personaggio Craxi resta purtroppo ostaggio di un’insopportabile appendice di quella anomala guerra civile che fu Tangentopoli. A scavare con onestà intellettuale nei giorni e nei pensieri del suo esilio da latitante è ora Andrea Spiri, con un bel libro: L’ultimo Craxi, diari da Hammamet (Baldini e Castoldi, 16 euro, 128 pagine). Il saggio di Spiri entra nell’intimo dei pensieri del Craxi tunisino, in fuga dai processi (già dal maggio 1994) e poi condannato definitivo, restituendone la spiritualità: gli ultimi giorni di Craxi vengono ricostruiti grazie alle riflessioni che agitano la mente dell’ex segretario del Partito socialista, o attraverso i ricordi dei figli Stefania e Bobo, mentre le condizioni di salute del condannato si aggravano. È un libro delicato e interessante, che coglie il Craxi intimo e ultimo: l'uomo che si macera nella solitudine e lentamente perde la speranza di rivedere l'Italia. Dove, nel frattempo, come sempre si discute e ci si divide: in particolare sull’eventualità di un suo rientro. È anche un libro coraggioso, questo saggio di Spiri, perché fa giustizia di tante oscene ipocrisie tangentopolesche che sopravvivono a vent’anni dalla morte di Craxi. È un libro accurato, perché puntualizza mille dettagli che la cronaca ha sempre ignorato e continua a ignorare: per esempio, anche nella ridda delle celebrazioni del film di Gianni Amelio, si è letto qua e là che tra il 12 novembre 1996 (data della prima condanna definitiva, in Cassazione: cinque anni e sei mesi di reclusione alla fine del processo Eni-Sai) e il gennaio 2000 Craxi fosse pienamente estradabile dalla Tunisia, e che questo passaggio giudiziario non sarebbe accaduto soltanto perché l’autorità giudiziaria non si spinse mai a cercare quel risultato. Ma è un falso: il libro di Spiri ricorda che ad Hammamet Craxi era pienamente al sicuro, perché un accordo bilaterale fra Roma e Tunisi, risalente al 1967, prevede che l’estradizione venga negata per i reati «connessi a infrazioni politiche». Spiri ricorda anche che Bettino, nel suo esilio-latitanza, aveva manifestato piena disponibilità a incontrare più di un giudice italiano: “Tutti i magistrati che, tramite i miei avvocati, hanno manifestato l’intenzione di incontrarmi a Tunisi, o in Tunisia, hanno sempre avuto come risposta una mia dichiarazione di piena disponibilità” racconta la sua voce nel libro “ma nessuna di queste intenzioni, che pure era stata manifestata, si è poi mai concretata”. Spiri ricorda anche aneddoti, vicende dimenticate. Rievoca, tra gli altri, un fatto sottaciuto, se non bellamente ignorato dai media italiani: e cioè che grazie a un ricorso degli ottimi avvocati di Craxi, Giannino Guiso ed Enzo Lo Giudice, nel dicembre 2002 la Corte europea dei diritti dell’uomo condannerà l’Italia per il mancato rispetto dell’articolo 6 sull’equo processo. Tardivamente, perché ormai l’ex presidente del Consiglio è morto da quasi due anni. Il libro racconta, ovviamente, anche la malattia di Craxi: la progressiva cancrena al piede e alla gamba, frutto di un diabete mal curato in Tunisia. Ricorda, Spiri, che inutilmente Craxi cerca di trasmettere alla magistratura italiana la sua istanza per potersi curare in Italia: non da carcerato, però, bensì da uomo libero. Il certificato medico trasmesso al Tribunale di Milano descrive la cancrena che avanza, con le “serie complicazioni degenerative” della malattia: una “lesione coronarica e una lesione distale infettiva all’arto inferiore sinistro”. La risposta mediatica arriva da Antonio Di Pietro, il pubblico ministero simbolo di quella stagione: “Se ho ben capito” commenta ironico il magistrato in un’udienza del processo per la tangente sull’affaire Enimont “mi sembra che più che un’ulcerosi l’imputato abbia un foruncolone al piede, con pus. È non ha provato di non essere in grado di deambulare”. Purtroppo Craxi non segue l’intelligente consiglio che nel 1994 gli aveva dato un (come sempre) pragmatico Marco Pannella: “Bettino, fatti arrestare. Vai a Rebibbia per un po’, ti curi e smetti di fumare. Riceverai tonnellate di lettere e ne uscirai come un trionfatore”. Troppo orgoglioso per cedere, lui. Troppo vigliacca e insipiente la politica italiana per cercare una via d’uscita dignitosa alla storia umana che si stava spegnendo in un vicolo cieco. E sicuramente avrebbe meritato una fine assai meno ingloriosa. Andrea Spiri insegna presso il dipartimento di Scienze politiche dell’Università Luiss “Guido Carli” di Roma. Ha spesso scritto sulla traiettoria della democrazia repubblicana. Tra i suoi lavori: Io parlo, e continuerò a parlare. Note e appunti sull’Italia vista da Hammamet (Mondadori, 2014) e, di prossima uscita, La seconda Repubblica: origini e aporie dell’Italia bipolare.
Di Pietro: “Volevo arrestare Andreotti, Mani pulite fu fermata da giudici”. Dante Bigi il 19 Gennaio 2020 su Il Riformista. In una recente intervista apparsa sull’Espresso di Susanna Turco ad Antonio Di Pietro, l’ex pm ha dichiarato che Mani Pulite è nata in realtà da Falcone dentro il maxi processo di Palermo, aggiungendo che Craxi fosse solo uno dei suoi obiettivi. Al contrario, nelle sue intenzioni, avrebbe arrestato Andreotti. E poi aggiunge: «Mani pulite non è stata fermata dalla politica: è stata fermata dai giudici». Dichiarazioni forti che riscrivono la storia degli ultimi trent’anni, visto che come ricorda Di Pietro, «Mani pulite ha generato un’onda antipolitica e la nascita non solo del Movimento 5 stelle, ma anche dell’Italia dei valori». L’ex pm non si risparmia neanche sull’abuso d’ufficio, considerandolo ormai di moda, e su Davigo, dal quale prende le distanze, impugnando il Codice penale e ripercorrendo tutta la sua carriera. Da quando era poliziotto a indagato, da testimone a imputato, Di Pietro dice: «Ho visto così tante giustizie, che le certezze granitiche di Davigo non ce le ho più». Ma è sicuramente su Mani pulite che rivela elementi inediti, specie a proposito dell’esito dell’inchiesta del maxi-processo di Palermo, quando «Falcone riceve, riservatamente, da Tommaso Buscetta la notizia che è stato fatto l’accordo tra il Gruppo Ferruzzi e la mafia» e poi, continua, «Falcone dà l’incarico al Ros di fare quel che poi è divenuto il rapporto di 980 pagine che doveva andare a Falcone, prima di essere trasferito». Un’inchiesta che la politica non avrebbe potuto fermare, se i giudici avessero fatto il loro dovere. E d è proprio sull’interruzione di Mani pulite, quando arriva alla connessione appalti-mafia che Di Pietro si fa più reticente. Ha intenzione di parlarne, ma non ora, ha carte e documenti, ma ha pensato addirittura di farli bruciare, nonostante l’opposizione di sua moglie e sua figlia, e attende il momento in cui questa storia venga rivista. Per Di Pietro, quindi «Mani pulite nasce come figlia di Mafia pulita» e spiega che Raul Gardini, che si suicida il 23 luglio 1993, lo fa perché sa che quella mattina, recandosi proprio da Di Pietro, «avrebbe dovuto fare il nome di Salvo Lima, che aveva ricevuto una parte della tangente Enimont da 150 miliardi di lire». È proprio questo ad aprire un nuovo scenario nel caso. Se Gardini avesse parlato e se Salvo Lima non fosse morto, Di Pietro avrebbe quindi avuto «elementi sufficienti per chiedere al Parlamento di arrestare Andreotti». E invece, cosa succede? Succede che con una serie di esposti alla procura di Brescia, Di Pietro è costretto a dimettersi, altrimenti sarebbe stato arrestato, perché sul suo capo gravava il reale pericolo di inquinamento delle prove, finché era magistrato.
«Dopo l'intervista di Di Pietro rompo il silenzio: lasciate in pace mio padre Raul Gardini». Maria Speranza, figlia dell’imprenditore morto suicida nel 1993, risponde all'ex pm: «Le sue nuove accuse sono basate su un “teorema dei se”. E sono rivolte a un uomo che non può più difendersi». Maria Speranza Gardini il 06 febbraio 2020 su La Repubblica. Dottor Di Pietro, dopo aver letto la sua intervista sull’Espresso, pubblicata domenica 19 gennaio, mi sono decisa a scriverle unicamente perché il dolore che le sue parole hanno riacceso mi soffoca. Raul Gardini, prima di tutto, era un padre amorevole e affettuoso, nel mio ricordo sempre presente anche quando lontano, leale, coraggioso. Io, ragazzina, lo ammiravo e lo ammiro oggi con maggiore consapevolezza per gli insegnamenti di vita che mi ha dato e per i valori che mi ha trasmesso: la dignità, il rispetto per gli altri, l’importanza dell’amicizia e delle proprie radici. Desidero che lei comprenda, quindi, quanto sia impossibile per me, da figlia, rimanere in silenzio quando tornano alla luce periodi così bui e tragici che io vorrei non fossero mai esistiti. Mio padre è morto. Tragicamente. La sua assenza pesa sulla mia anima oggi come allora. Come lei, dottor Di Pietro, ho un figlio e una figlia. Loro, il nonno Raul non lo hanno mai conosciuto se non dai miei racconti, dalle cronache e dalle sue immagini, tante, di uomo pubblico.
L'ex pm riscrive la storia di Mani Pulite: «L'inchiesta nasce a Palermo, con Falcone e Borsellino, ucciso per quel che poteva ancora scoprire». E poi: «Gardini doveva farmi il nome di Salvo Lima, avrei chiuso il cerchio e aperto il processo mafia-appalti». Sul segretario Psi: «Un politico normale, ha agito come gli altri. Non fatelo più grosso di quel che è».
Mi rivolgo, dunque, a lei perché è anche padre, certa che saprà comprendere quale indignazione abbiano generato in noi le sue parole, tanto più drammatiche perché usate per narrare supposti aspetti deplorevoli e agghiaccianti della vita di un uomo che non c’è più, che non ha potuto raccontare la sua verità allora e che, adesso, non può più difendere il proprio onore e la propria reputazione. Ho meditato su quanto la sua intervista possa avere contenuti diffamatori e offensivi per la memoria di mio padre e quindi, di conseguenza, per i suoi famigliari; ho riflettuto su quanto le sue parole possano aver leso l’immagine che tante persone conservano ancora di lui. Ma questo, si fidi, è per me un aspetto secondario. Desidero invece ricordare il valore di mio padre, che io ho conosciuto come assoluto e che, a distanza di così tanti anni, in molti stanno riconoscendo per l’acutezza delle intuizioni e la scanzonata libertà che lo ha sempre caratterizzato. Lei ha inutilmente creduto di mettere in dubbio le mie certezze con un “teorema dei se” che di certezze, invece, ne ha ben poche. Non mi interessa altro se non difendere il suo ricordo: mi creda, vorrei tanto e solo che mio padre potesse finalmente riposare in pace.
Intervista. Antonio Di Pietro: «Craxi era solo uno dei tanti. Io puntavo ad Andreotti, mi hanno fermato». L'ex pm riscrive la storia di Mani Pulite: «L'inchiesta nasce a Palermo, con Falcone e Borsellino, ucciso per quel che poteva ancora scoprire». E poi: «Gardini doveva farmi il nome di Salvo Lima, avrei chiuso il cerchio e aperto il processo mafia-appalti». Sul segretario Psi: «Un politico normale, ha agito come gli altri. Non fatelo più grosso di quel che è». Susanna Turco 16 gennaio 2020 su L'Espresso.
«Craxi? Ma Craxi era solo uno dei tanti». D’improvviso, allo scoccare della seconda ora e mezza di conversazione, con quel suo modo un po’ buffo e stratificato di parlare – sopra approssimativo, sotto preciso, fulmineo - Antonio di Pietro, 69 anni, ex pm, ex politico, oggi avvocato sostanzialmente lontano dalle scene, butta già l’ultimo feticcio che era rimasto in piedi di una pagina che ripercorre in un modo mai visto. Ci si doveva vedere a pranzo, a casa sua, a Montenero di Bisaccia, per parlare appunto di Bettino Craxi, a vent’anni dalla morte. Arrivati al caffè, quel nome ancora non l’ha pronunciato. Si muove da tutta un’altra parte. Racconta una storia diversa, un binario parallelo e inedito, che in parte ha depositato nella sua ultima testimonianza, al processo d’appello sulla trattativa Stato-mafia a Palermo, a ottobre. «Mani pulite è una storia che andrebbe riscritta», dice adesso il volto più noto dell’inchiesta del Pool di Milano che ha buttato giù la Prima repubblica. Lui che è una pagina di storia. E che, quindici anni dopo, si è ritrovato di nuovo al centro dei giochi, nel cuore di uno degli prodotti di Mani pulite, l’onda antipolitica che ha portato - anche all’ombra di Casaleggio - alla nascita e alla crescita dei movimenti tra rete e realtà: non solo il Movimento 5 stelle, ma anche l’Italia dei valori, di cui proprio Casaleggio curò la comunicazione. Ecco lui, uomo di tanti snodi chiamato a parlare di Craxi, quando apre la porta di casa per prima cosa parla del codice penale. Ti accoglie così: «Scusi, ma il 323, io l’ho mai contestato? Non mi ricordo di averlo fatto».
Prego? Il 323?
«L’abuso d’ufficio adesso va molto di moda. Io l’ho sempre considerato una sconfitta dello Stato. Perché vuol dire che non hai la forza di scavare un po’ meglio. Lo dico perché, a differenza di Piercamillo Davigo, che è sempre stato monolitico sul tema - per lui sei colpevole fino a prova contraria - io ormai... Prendete il Codice: al primo capitolo ci sono i soggetti processuali. Ecco, io ho fatto il poliziotto, il giudice, il pm, il testimone, la parte lesa, la parte civile, l’indagato, l’imputato: mi manca soltanto il “responsabile civile per le ammende” e le ho fatte tutte. Ho messo talmente tanti abiti, ho visto così tante giustizie, che le certezze granitiche di Davigo non ce le ho più, perché dipende dai vestiti che indossi, prima cosa. Secondo: sono sempre convinto che noi del pool di Milano abbiamo creato un effetto positivo, ma anche una conseguenza non voluta: pur nell’entusiasmo generale abbiamo creato tanti dipietrini. Già all’epoca: è stato quello che ha bloccato Mani pulite».
A bloccare Mani pulite sono stati i magistrati?
«Mani pulite non è stata fermata dalla politica: è stata fermata dai giudici. È una storia che va riscritta, prima o poi. La politica non la poteva fermare, se i giudici avessero fatto il loro dovere. Mani pulite si ferma oggettivamente quando si rompe l’unicità dell’inchiesta. La sua forza era infatti nel cosiddetto fascicolo virtuale, nell’idea cioè di creare una connessione probatoria tra tutti i fatti, per cui procedeva una sola autorità giudiziaria. Ma nel momento in cui nascono i conflitti di competenza territoriale, il fascicolo si smembra: e allora non ha più tutti gli elementi, non si può più utilizzare, e soprattutto il pm che sta qua, non conosce l’insieme degli elementi del pm che sta là. E allora, nel 1994, ecco gli emulatori: Roma, Napoli, Catania, Foggia, Bari, Venezia, Genova etc. Oltretutto, invece che cercare il reato, ci si è messi a investigare per cercare se c’era un reato... Questo è un lato della faccenda: l’altro sta in quello che è successo a me con la vicenda Filippo Salamone, il dossier Achille, di cui ho parlato nell’aula bunker».
A Palermo ha detto anche che Mani pulite si interrompe quando arriva alla connessione appalti-mafia. Partiamo da qui?
«Parliamoci chiaro. Ho intenzione prima o poi di parlarne, sto portando le mie carte e i miei documenti un po’ qua e un po’ là, nell’indecisione di cosa farci: io e mia figlia li vogliamo bruciare, mio figlio e mia moglie dicono di no. Ma se adesso si pensa di intitolare una strada a una persona esiliata, e si dice che Mani pulite è stata come piazzale Loreto, sembra di vedere la storia in modo capovolto. Ma ci sarà un momento per rivalutare questa storia. Ci sarà. Mani pulite non l’ho scoperta io: nasce all’esito dell’inchiesta del maxi-processo di Palermo, quando Giovanni Falcone riceve, riservatamente, da Tommaso Buscetta la notizia che è stato fatto l’accordo tra il Gruppo Ferruzzi e la mafia. Là nasce. E Falcone dà l’incarico al Ros di fare quel che poi è divenuto il rapporto di 980 pagine: che doveva andare a Falcone, ma lui viene trasferito».
A Roma, come direttore generale degli affari penali al ministero di Grazia e Giustizia.
«E il rapporto dei Ros rimane lì, a Palermo, in mano a Pietro Giammanco, che lo mette in cassaforte. Falcone, appena vede tutto questo, ne parla con altre persone. Ne parla con me, perché io stavo lì, al ministero, e lui nemmeno lo conoscevo. Ero perito elettronico, ero stato alla Difesa, mi occupavo di informatizzazione degli uffici giudiziari. Sono stato chiamato lì perché all’epoca nessuno sapeva come funzionava, e invece scoprono che c’è uno che capisce qualcosa di informatica. Così conosco Falcone, la Del Ponte e vengo a sapere di questa realtà. Falcone aveva l’idea che doveva informatizzare questa cosa, quindi già nasce lì».
E l’altra persona a cui ne aveva parlato?
«L’altra era Paolo Borsellino: gli aveva detto di portare avanti quell’inchiesta del Ros. Con Borsellino ci siamo parlati ai funerali di Falcone: nella camera ardente, appoggiati alla colonna. E lui, che nel frattempo evidentemente aveva saputo che Falcone me ne aveva parlato, ripeteva: dobbiamo fare presto, dobbiamo fare presto. Io da parte mia ero partito due o tre anni prima, con Lombardia informatica. Dopo Capaci, Borsellino chiama, si arrabbia come una bestia, si fa dare il fascicolo da Giammanco e si mette a indagare. Chiama Giuseppe De Donno. Borsellino poi viene ammazzato. E io ho sempre sostenuto, ho anche degli elementi, che non è stato ucciso per quel che aveva fatto, ma per quel che doveva ancora fare in quell’inchiesta: non per il maxiprocesso insieme a Falcone, ma perché insieme a Falcone doveva far nascere Mafia pulita».
Mafia pulita?
«Mani pulite non nasce con Mani pulite, nasce come figlia di Mafia pulita. E il mio obiettivo non era scoprire quello che ho scoperto: era arrivare al collegamento al quale già erano arrivati loro, a Palermo. Raul Gardini non si suicida così, per disperazione, il 23 luglio 1993: si suicida perché sa che quella mattina, venendo da me, doveva fare il nome di Salvo Lima, che aveva ricevuto una parte della tangente Enimont da 150 miliardi di lire».
Scusi ma è roba nuova questa?
«Ma no! Ne ho parlato con la procura di Brescia, Milano, ne ho parlato col Copasir, con la procura di Palermo, a Caltanissetta, ma sembra che a nessuno interessi più di tanto, eppure è una storia drammatica».
Cioè, lei sta dicendo: la tangente Enimont era andata un pezzo anche a Salvo Lima, come rappresentante di Andreotti e della mafia.
«Se quel fatto veniva detto, se Gardini parlava, se Salvo Lima non moriva, io avrei potuto avere elementi sufficienti per chiedere al Parlamento di arrestare Andreotti».
Si sarebbero saldate le inchieste, Milano e Palermo.
«Invece all’improvviso le solite manine della delegittimazione mandano una marea di esposti contro di me alla procura di Brescia, che mi costringono alle dimissioni. Ma quando a me rimproverano: “ti sei dimesso”, possibile che nessuno si chieda perché l’ho fatto?».
Veramente ce lo chiediamo da 25 anni.
«Sì, ma è da 25 ani che lo racconto alle autorità giudiziarie. Ma a quanto pare a nessuno fa piacere la mia risposta: era una scelta di campo. Se non mi fossi dimesso sarei stato arrestato, perché le accuse fatte nei miei confronti lo prevedevano obbligatoriamente: c’era il concreto pericolo di inquinamento delle prove, finché ero magistrato. Dunque a Brescia avrebbero potuto arrestarmi. Proprio nel mentre, io stavo arrivando alla cupola mafiosa grazie alle dichiarazioni che mi aveva fatto il pentito Li Pera su un certo Filippo Salamone, imprenditore agrigentino intermediario tra il sistema mafioso e il sistema imprese-appalti, il nord che veniva gestito soprattutto da Gardini e dalla Calcestruzzi spa di Panzavolta. Insomma Palermo arriva prima di me, nel 1992».
E lei quando ci arriva?
«Io l’anno dopo. Con la morte di Falcone e Borsellino cambio strategia: mi dedico solo alle imprese, perché - mi dico - l’unico modo per arrivare a scoprire le malefatte di Tangentopoli e Mafiopoli è non più passare attraverso il reato di corruzione, ma di falso in bilancio. Cerco di arrivarci da quest’altro fronte: e vado avanti come un treno, fino a quando mi trovo di nuovo allo stesso punto, che è Filippo Salamone. Quando io ri-arrivo lì, scoppia il dossier Achille e tanti altri dossieraggi dello stesso tipo».
E lei si dimette.
«Vengo a sapere molte cose anche io, perché in tutta questa storia ho una persona che mi sta idealmente vicina: Francesco Cossiga. Fin quando c’è stato lui sono stato rispettato dalle istituzioni».
Ma lei pure era un confidente di Cossiga, no?
«Eh sì, non solo di Cossiga se è per questo. Di questa storia sono due le persone con cui interloquivo: uno era Cossiga, l’altro Montanelli. La può raccontare, se vuole, Vittorio Feltri, che ogni tanto era presente».
Sta raccontando Mani pulite e Palermo come un’unica storia.
«Ma è così, una storia unica».
Mentre, nella percezione del 1992-93, il pool di Milano si occupava dei partiti, e loro si occupavano della mafia. Lei si occupava di Craxi, loro di Andreotti.
«Tutti dicono che ho fatto Mani pulite per mettere sotto processo la Prima repubblica. Io invece ho processato una persona sola: Cusani. Gli altri erano indagati per reato connesso. Il vero casino nasce quando io faccio il grande errore di non fidarmi di Gardini. Perché io capisco - lo capivo perché già lo sapevo - che dovevo arrivare a Gardini: con lui avrei chiuso il cerchio».
Se Gardini non fosse morto, quello invece che il processo Cusani sarebbe stato il processo Gardini?
«No: sarebbe stato il processo Mafia-appalti, Andreotti compreso».
Ma perché non si è fidato di Gardini?
«L’interfaccia tra me e Gardini è un ex procuratore aggiunto di Milano, che era diventato il suo co-difensore. Concordiamo tutto. Cosa Gardini dirà, e il fatto che se ne andrà con le sue gambe, cioè non sarà arrestato. L’accordo è che lui viene alle otto la mattina. Abbiamo la certezza che è all’estero, in Svizzera, quindi per venire da me deve andare a dormire da qualche parte. Per cui io faccio mettere carabinieri, finanza, polizia, a Milano, Roma, Ravenna. Non faccio capire nulla a nessuno. Quello per venire da me deve necessariamente rientrare in Italia: e da allora non mi deve scappare più. Perché anche io lottavo contro il tempo, c’era anche l’ipotesi di farmi fuori - non dimentichiamo. Comunque, a mezzanotte mi chiamano i carabinieri, uno di quelli del capitano Zuliani, e mi dicono: è arrivato a piazza Belgioioso, lo prendiamo? E io: no, mantengo la parola sennò non mi parla più. Poi mi chiedono, e io do, l’ordine formale di non arrestarlo. Se l’avessi arrestato ora sarebbe ancora vivo. Ora non so più quello che avrebbe messo per iscritto davanti a me. Alle otto mi telefona l’avvocato di Gardini, dice “stiamo arrivando”. Lui era già vestito. Da quanto riferisce il maggiordomo, si affaccia e vede i carabinieri. E pensa che io l’ho tradito. A quel punto: bum, è un attimo. Si è ammazzato perché era convinto che lo stavo arrestando».
Così si blocca l’indagine.
«Devo individuare un altro imprenditore del nord che potesse avere un qualche collegamento con le persone potenti del sud. Mi imbatto nel frattempo in imprese che fanno capo al Gruppo Berlusconi. Ma non arrivo a Silvio, arrivo al fratello Paolo che non c’entra nulla con le vicende su cui stavano indagando in Sicilia. Poi arriviamo anche a lui, con l’avviso di garanzia a Napoli. Dopodiché si ferma tutto. Non perché entra in gioco Berlusconi, ma perché entra in gioco la raffica di esposti nei miei confronti su cui si mette in moto la procura di Brescia che rigirerà la mia vita come un calzino. Ma alla fine tutte le inchieste verranno archiviate e io prosciolto. Mi rimane ancora oggi l’amaro in bocca per l’attività investigativa nei miei confronti portata avanti in particolare dall’allora pm di Brescia Fabio Salamone che poi sarà sanzionato dal Csm, in quanto non avrebbe potuto indagare su di me proprio perché io prima avevo indagato su suo fratello Filippo Salamone. Ma questa è un’altra storia e lasciamola lì».
Chi ha comandato i dossieraggi di cui parla?
«Sono cose che posso dire solo all’autorità giudiziaria, come peraltro ho già fatto più volte!».
E Filippo Salamone?
«È morto. Questo è il dramma, perché l’errore è stato commesso a mio avviso a Palermo. Due volte. Il primo errore lo commette l’ex procuratore Giammanco, quando chiude a chiave in un cassetto del suo ufficio il dossier del Ros del 1991. Il secondo lo commetto io, quando mi lascio convincere a trasferire gli atti riguardanti le vicende mafiose a Palermo per competenza territoriale».
E come?
«Perché a Palermo, nonostante gli ottimi rapporti con il procuratore Caselli e alcuni sostituti come Ingroia, c’erano altri sostituti nel pool, un altro ambiente, di cui il Ros di De Donno evidentemente si fidava poco. Quindi un bel giorno l’allora capitano mi porta a Regina Coeli, a parlare con l’ex capo area della Rizzani De Eccher in Sicilia, Giuseppe Li Pera. Il quale mi tira fuori Filippo Salamone. A quel punto, mentre discutiamo su chi deve procedere, arrivano i dossieraggi a Brescia e io sono costretto a dimettermi. In pratica quando il fascicolo riguardante Filippo Salamone arriva a Palermo, egli riesce subito a patteggiare, previa derubricazione della associazione a delinquere a stampo mafioso con quella semplice. Resta il fatto che il mandante dell’azione di dossieraggio nei miei confronti manca».
E lei sa chi è?
«Certo. Più esattamente: non lo so, me lo doveva dire Gardini. La cosa più drammatica è che io al Copasir sono stato due giorni interi a spiegare i fatti, hanno fatto la relazione, una nel 1995 e una nel ‘96, ma il mio interrogatorio è ancora lì fermo e nessuno prosegue quegli accertamenti che pure si erano impegnati a fare . E io da quel giorno ogni legislatura scrivo, scrivo a ogni capo dello Stato, ho scritto sempre a tutti. Per favore volete continuare? Ed è un peccato, perché tutti hanno visto la Sicilia come una realtà solo mafiosa e Milano come una realtà solo imprenditoriale. Seconda cosa: non è vero che Mani pulite sia partita solo da Milano. C’era già il rapporto del Ros del ‘91, quello messo in cassaforte dal procuratore di Palermo Giammanco, dove veniva raccontato quello che io ho scoperto anni dopo».
Raccontata così, sembra tutta un’altra storia.
«Ma io ho vissuto tutto un’altra storia rispetto a quella che ho letto sui giornali».
E Craxi? Tutta la parabola di Mani pulite vive dell’incontro tra voi due.
«Nell’immaginario collettivo sì, ma nella realtà io non ho mai avuto un rapporto con Craxi. Io miravo all’ambiente malavitoso che girava intorno ad Andreotti».
E invece ha pescato Bettino.
«Che era uno dei tanti».
Vuol togliergli pure il ruolo di protagonista?
«Lo sanno anche le pietre: Andreotti è stato prescritto, fino al 1980, non è che è stato assolto. E dall’altra parte ci stava il sindaco, Vito Ciancimino, e Salvo Lima. Quindi, voglio dire: quello era il potere vero. Craxi era l’emergente, quello che faceva parte della Milano da bere. Nell’89 dal maxi-processo di Palermo si discute dell’ambiente che gravitava intorno alla Dc. Poi, per l’amore di Dio, la mia persona viene sempre accostata a Craxi: ma le indagini non erano finalizzate a lui come puntiglio personale».
Il leader del Psi aveva centralizzato il finanziamento, aveva un canale suo.
«Questo dovete smetterla di dirlo. Il finanziamento passava attraverso Vincenzo Balzamo. Mentre i soldi trovati in Svizzera a nome di Giorgio Tradati, amico d’infanzia di Bettino, non era finanziamento: era corruzione. Craxi faceva come tanti: siccome quello era il sistema, una quota se la tenevano per loro e ci facevano quel che ci dovevano fare, a fini personali. Era un normale politico come tutti gli altri, che ha fatto quello che hanno fatto anche gli altri. Non è che ha agito diversamente. L’ha ammesso anche lui. Non c’è una differenza, non fatelo più grosso di quello che è».
Che cosa pensa del suo famoso discorso alla Camera?
«Lo ritengo solo una furbata politica dell’ultimo momento, quando in Aula ha detto: assumiamoci la responsabilità di come funzionano i finanziamenti ai partiti. Se l’avesse detto quando era al governo, avrebbe detto una cosa giusta. Se lo dici il giorno dopo che ti hanno beccato, non sei più credibile, soprattutto sembra solo un tentativo di difesa personale. Bettino Craxi ha fatto un grosso discorso politico, però l’ha fatto il giorno dopo che l’abbiamo scoperto. Quindi quando si parla di questo suo grande gesto di responsabilità: ne prendo atto, tenendo presente che lo ha fatto quando è stato preso con le mani nella marmellata».
Perché nell’immaginario collettivo ci siete, però, voi due, Tonino e Bettino?
«Perché l’immaginario l’ha creato Craxi, i craxiani soprattutto, creando l’idea di Mani pulite come operazione politica. Ma non lo è stata, men che meno nei confronti del Psi».
Dicevano che lei era amico dei socialisti.
«Ed era un paradosso. È vero: ho frequentato quell’ambiente, era l’unico modo per sapere. Il primo lavoro che ho fatto, all’arrivo in polizia a Milano, è stato l’infiltrato».
E prima, al ministero della Difesa?
«Ci stavo da perito elettronico, che poi è tutto quel film che si sono inventati Craxi e il mondo socialista, e poi anche Berlusconi: il telefilm di me agente dei servizi. Ma non ci azzecca niente. È vero, quando ero militare feci un concorso, poi andai all’estero, poi vinsi, ritornai in Italia e andai a lavorare al ministero della Difesa. Lì, visto che ero l’unico perito elettronico tra i liceali, mi hanno messo a farei controlli su taluni apparati elettronici degli aerei F104, quindi mi mandarono a fare i controlli nelle aziende militari che facevano questi collaudi. Mi occupavo della parte prettamente elettronica, non è che facevo l’agente segreto: controllavo i giroscopi per i sottomarini».
Che anni erano?
«Avevo 24 anni, sarà stato il ’74, ’75. È chiaro, quello è un ambito militare, altamente “controllato” reciprocamente da tutte le superpotenze. Però io ero un semplice impiegato impegnato nei collaudi di apparati elettronici e basta. Erano le prime mosse di informatica che stavo apprendendo: mi ha permesso di capire il meccanismo, i codici, capire poi tante cose. Anche come funzionava quell’ambiente, certo. Ma non ho mai fatto parte dei servizi, non so nemmeno cosa sono i servizi».
Tutte montature di Craxi?
«Io non ho avuto mai nulla contro questo signore. Sono i craxiani, prima e più di lui, che hanno montato la storia che ce l’avevamo con loro. Ma in realtà non è cosi. Non c’era proprio niente. Hanno creato l’idea che questa fosse una operazione politica gestita dal partito comunista, oppure gestita dagli americani. Due cose diverse. Due balle mostruose».
Peter Semler, console americano di Milano, dice che già nel 1991 gli aveva detto che avreste arrestato Chiesa e sareste andati su Craxi.
«È una invenzione totale. Nel ’91 io Mario Chiesa nemmeno sapevo che esistesse. È vero che io stavo facendo delle indagini molto delicate, dall’89, dal ’90, ma rispetto a una realtà che conoscevano pure le pietre. Per me Craxi è uno dei tanti, lui la gira sul politico inventandosi, facendo scrivere questa storia dei servizi, dossieraggi, che non ci azzecca niente».
Ma al consolato ci andava? Nella sua storia americana non c’è solo Semler, c’è molto di più.
«Ah già! Quella cena famosa di Natale al consolato dove c’era Bruno Contrada, il capo dei servizi, c’era il responsabile dei servizi americani, il console americano, l’allora colonnello Leonardo Gallitelli. Cosa succede quel giorno? Per me quello era un pranzo natalizio in una pausa tra gli interrogatori. C’era un mare di gente e mi avevano messo al tavolo centrale, col console americano, francese e non so chi altro. Quindi quella foto che poi è girata nelle redazioni dei giornali sembra il pranzo del complottista. Ma escludo che quel pranzo sia stato fatto per fini complottisti. E, se pure lo fosse, certamente non col concorso mio e nemmeno con il concorso di Gallitelli».
Sta suggerendo che qualcuno l’abbia usata?
«Che qualcuno possa aver usato il mio nome io non lo so, me lo sono chiesto anche io mille volte, e non me la sento neanche di escluderlo. Ma io non ho mai avuto a che fare con un solo agente segreto in vita mia. Io sapevo solo che c’era questa situazione ambientale in Italia, grossa come una casa, sapevo del maxi processo, sapevo che c’era questo rapporto del Ros. Sapevo che questa era una grande inchiesta che si poteva fare, e ho cercato di farla. E di Craxi, in questo momento l’unica cosa che ricordo è che quando l’ho visto in tv parlare alla Camera, ho detto: “Va sentito subito, perché è una confessione. Ora lo chiamo”».
Intervista all'ex pm: "I grillini sono incompetenti". Di Pietro: “Mani pulite fu una primavera. Rifarei tutto tale e quale”. Angela Nocioni il 6 Novembre 2019 su Il Riformista. Antonio Di Pietro sta raccogliendo le olive a casa sua in Molise. Dice di sentirsi ormai parte dell’associazione combattenti e reduci. D’essersi pentito d’aver fatto politica. Mani Pulite, invece, la rifarebbe tale e quale. «Quell’inchiesta andava fatta in quel modo. La rifarei non una, ma mille volte così come l’ho fatta», dice l’ex pm del pool dello scandalo Tangentopoli. «Allora mi ritrovai tra le mani un malato grave con un tumore gravissimo, la corruzione ambientale, che aveva infettato lo Stato, corrotto la politica e rovinato la libera concorrenza. L’intervento chirurgico era urgente, altrimenti sarebbe morta la democrazia. Poi però è successo che l’Italia si è ritrovata nel vuoto. Era necessario che le redini del governo fossero prese in mano da qualcuno in grado di farlo. Invece il sistema italiano questo qualcuno non è stato in grado di produrlo. Ci siamo affidati al personaggio di turno. Dopo Mani pulite, i partiti hanno cominciato ad addensarsi attorno a una persona. Ora una, ora un’altra. Vista come quella che potesse risolvere tutti i guai del mondo. Così è nato Berlusconi, così è nato Bossi. E anche Di Pietro. Il cittadino dopo Mani pulite ha cominciato a votare più la faccia che la sostanza. Tutto di pancia. Non va bene».
E questo bel guaio mica l'avrà fatto lei?
«No. L’intervento chirurgico spettava alla magistratura. Il progetto politico invece no. Non spettava alla magistratura. E invece… La classe politica venuta fuori ora è incapace di risolvere i problemi. Non rifarei politica, se tornassi indietro».
Quelli che per fare politica hanno usato il suo nome, la sua popolarità, lanciati anche da lei, hanno seguito la sua eredità o l’hanno tradita? Parlo di Ingroia, per esempio.
«Il primo a salire sul carro del partito personale che è spuntato fuori tra gli effetti di Mani pulite è stato Berlusconi. E pure io. Ma mica siamo stati i soli. Poi è arrivato Grillo. In un momento di grande confusione Grillo è riuscito a portare la rabbia, la voglia di rivalsa e la delusione dei cittadini nelle urne. Meglio nelle urne che a sfasciare le vetrine. È stato bravo. L’errore di Di Pietro e anche di Grillo quale è stato? Lo dico perché i grillini li considero miei figli putativi, sono figli legittimi di Grillo, ma pure figli putativi miei. Io ho fatto un errore: mi sono ritrovato dalla sera alla mattina con un grande consenso popolare, una classe politica da costruire e ho pensato di poterla costruire con chi aveva già fatto politica in precedenza. E mi sono portato appresso nel mio partito parte del tumore della Prima repubblica, purtroppo. Grillo ha fatto un errore diverso. Ha escluso chi aveva fatto politica in precedenza. Come chiedeva Casaleggio padre, che l’aveva capito guardando l’errore che avevo fatto io. E così Grillo ha portato al governo del paese degli incompetenti che a mala pena saprebbero fare un drink al bar».
Visto il clima politico del momento, crede ci sia il rischio di un nuovo ’92, ’93 in Italia? Di un terremoto politico con protagonisti dei magistrati?
«Non c’è stato nessun rischio allora, c’è stata una primavera. Il rischio per la democrazia c’era prima, c’è stato fino al ’92 perché il malato di tumore stava per morire. L’intervento chirurgico era obbligato dalla legge. Non l’ho fatto per motivi ideologici, io non ho mai chiesto a nessuno di che partito era. Chiedevo: quanti soldi hai preso?»
Prima c’erano Andreotti, Craxi, Forlani. Personaggi discutibili che lasciavano supporre d’aver fatto bene le elementari. Ora c’è Di Maio.
«Ha fatto bene a citarmeli. Andreotti, prescritto per mafia. Forlani condannato perché responsabile di finanziamenti illeciti. Craxi per corruzione. Questi c’erano. Padreterni?»
No. Ma se Craxi discuteva qualcosa a nome dell’Italia, il cittadino medio poteva avere mille riserve e supporre che chi lo rappresentava avesse chiaro che Pinochet non è stato il dittatore del Venezuela.
«Sono preoccupato che un Di Maio qualsiasi rappresenti il mio paese con una conoscenza che è quella che è. Sono amareggiato nel vedere Di Maio che parla delle cose del mondo. Però questo non mi dà la possibilità di giustificare un Craxi che sapeva tutto su come gestire la crisi di Sigonella, tanto di cappello, ma sapeva anche di conti, aveva anche il know how per molto altro. Altro non lecito».
Quindi passati anni dalla morte di Craxi, col senno del poi, lei non ha cambiato idea?
«Io non ce l’avevo né con lui né con altri. Io ho trovato un signore con la marmellata in mano. Di quello mi sono occupato».
Quando lei dice d’aver fatto l’errore di importare nel suo partito un modo di fare della Prima repubblica si riferisce a Razzi e Scilipoti o anche ad altri?
«Non mi riferisco tanto alle persone, ma a una cultura. Razzi poi è il meno peggio di tutti. In questa legislatura ce ne sono centinaia che hanno cambiato casacca. Stanno zitti o fanno finta di averlo fatto per una ragion di Stato che non esiste. Solo interessi personali. Razzi nella sua ingenuità ha detto perché l’ha fatto. E Razzi, di tutti quelli che hanno cambiato casacca, è l‘unico a essere stato eletto con le preferenze».
Lei litigò con il pool di Milano? Com’erano i rapporti tra lei e Borrelli?
«Con il dottor Borrelli ho sempre avuto un rapporto formale, gli ho sempre dato del lei. Un rapporto corretto. Veniva citato da me quotidianamente. L’unica lamentela sua nei miei confronti, un complimento che mi fece in realtà, è che producevo talmente tanti atti da non dargli il tempo di leggere tutto. È una persona per la quale avevo stima perché nei momenti delicati di Mani Pulite ci ha sempre messo la faccia. Lui all’inizio, quando feci arrestare Mario Chiesa, disse: è stato arrestato in flagranza di reato, va in direttissima, tra 15 giorni si chiude tutto. Dopodiché ha avuto modo di prendere atto della realtà dell’inchiesta, ha visto come si allargava. Ebbe modo di capire come il fascicolo cresceva e si comportò in modo corretto. Io lo rispetto. Con gli altri del pool ancora oggi capita che ci troviamo a qualche convegno insieme. A parte Piercamillo Davigo che è al Csm, facciamo parte dell’associazione combattenti e reduci oramai. Il pool di Palermo era diverso. Falcone e Borsellino hanno avuto un pezzo di vita privata insieme. Io con i miei colleghi no, avevamo solo rapporti professionali».
Nessuna lite?
«No».
Cosa pensa del generale Mori?
«Per rispetto di chi deve scrivere la sentenza di quel processo, parlerò dopo. Sono stato testimone, non posso inficiare la mia testimonianza».
Qual è la verità sulle undici case che sembrava fossero sue? Erano sue?
«Sto ancora facendo atti di esecuzione per persone che devono risarcirmi di danni che mi hanno fatto per diffamazione. Alcuni con undici sentenze passate in giudicato. Mai ho portato a giudizio un giornalista che ha messo il microfono sotto il naso di qualcuno che mi ha diffamato, solo le persone che hanno mentito diffamandomi».
Gianroberto Casaleggio come l’ha conosciuto?
«Casaleggio l’ho conosciuto per motivi professionali, nel modo più semplice del mondo. Quando ho iniziato a fare politica e lui si occupava già di rete e di comunicazione, m’è arrivata una email che diceva: noi offriamo questo servizio. L’ho incontrato, ne abbiamo discusso. Lui ha gestito per una certa parte la mia comunicazione e io ho pagato il corrispettivo. Poi io ho preferito continuare a gestirla da solo. Lui ha continuato a occuparsi della comunicazione di Beppe Grillo, cosa che già faceva. Siamo rimasti amici, nel senso di rispetto reciproco, ci confrontavamo, l’ho anche difeso in alcune sue cause per diffamazione. Ma non eravamo intimi, non andavamo a mangiare un piatto di spaghetti».
Con Davide Casaleggio ha rapporti?
«Non lo conosco bene. Non ho avuto con lui il rapporto che ho avuto con il padre».
Si ricorda di quell’agosto romano di quando lei studiava a Roma, era senza casa e le affidarono un cane?
«Ah sì. Non è un segreto. Sa, quando vedo i migranti che vengono in Italia io ho rispetto per il loro dolore, io sono stato parecchie volte in una situazione delicata, io mi ricordo di quando sono stato immigrato in Germania e lavoravo tantissime ore, giorno e notte, e dormivo in baracca. Noi ci facevamo un mazzo così. La classe operaia emigrata si è sempre fatta un mazzo così».
Sì, ma il cane?
«Andavo a scuola ancora. Lavoravo in una casa editrice a Roma che faceva degli albi. In questa casa editrice c’era una coppia di anziani con un cagnolino bellissimo. Se lo coccolavano tanto. Ad agosto la casa editrice non lavorava. I due signori m’hanno lasciato il cane. Questo cagnolino tutti i giorni a mezzogiorno mangiava una tagliata di vitello. Una al giorno. Io latte e pane. Insomma, per farla breve, gli ho insegnato a bere un po’ di latte e gli ho dato un po’ del mio pane. E ogni tanto mangiavo un pezzettino della sua tagliata. Era più la carne di vitello che il cane buttava che quella che mangiava. Gli ho insegnato a vivere un po’ da cane. Siamo stati benissimo insieme eh! Mi voleva bene. S’era affezionato il cagnolino».
La vera storia di Mani Pulite (che nessuno vi vuole raccontare). Paolo Guzzanti il 21 Novembre 2019 su Il Riformista. Prologo. Per puro caso misi il piede su una grossa merda: avrebbe potuto essere, ma ancora non doveva, Tangentopoli, rivelata con dodici anni d’anticipo. Era il 27 febbraio del 1980 e Eugenio Scalfari mi chiese di intervistare Franco Evangelisti, braccio destro di Giulio Andreotti e ministro della Marina Mercantile, interlocutore di Tonino Tatò, a sua volta fiduciario di Enrico Berlinguer. Evangelisti, in un impulso imprudente, mi raccontò in romanesco come funzionava il finanziamento di partiti e poi mi disse: «Vabbè, adesso riprendi il tuo taccuino e famo l’intervista vera. Tu me chiedi: che è ‘sta storia? e io te risponno che indubbiamente occorrerebbe fare una riforma…». Io invece scrissi tutto e l’intervista provocò uno scandalo, ma non perché mettesse in piazza lo stato reale delle mani sporche. La reazione scandalizzata fu sulla forma, la volgarità del povero Evangelisti: Paolo Flores d’Arcais, indisse un convegno su «A Fra’, che te serve?» e tutta la sinistra derise Evangelisti per il suo sfrontato romanesco democristiano, ma nessuno fece una piega sulla rivelazione dei finanziamento occulto. Nel 1980 il Compromesso Storico era morto da due anni con l’omicidio di Aldo Moro e il Pci seguitava ad essere finanziato dall’Urss, dettaglio fondamentale per comprendere il filo conduttore. I comunisti che interpellai mi spiegarono che non era assolutamente il caso di toccare la questione dei finanziamenti perché vigeva non il compromesso, ma un gentlemen agreement: il Pci si riforniva illegalmente, ma alla luce del sole di finanziamenti sovietici e di conseguenza tutti gli altri partiti si ritenevano autorizzati a pareggiare i conti con le tangenti, cui peraltro usufruiva anche il Pci negli affari con l’Urss. Francesco Cossiga mi raccontò che quando l’emissario del Pci tornava da Mosca con i contanti che Boris Ponomariov gli aveva fatto sistemare in una valigetta, lo attendevano gli uomini del Viminale e due funzionari del Tesoro americani, incaricati di controllare l’autenticità dei dollari. Poi, andavano in Vaticano allo sportello dello Ior per cambiare i dollari in lire e ognuno tornava a casa sua. Valerio Riva nel suo celebre Oro di Mosca ha ricostruito tutto. Questo antefatto è indispensabile per illuminare un solo punto: quando Evangelisti svelò come funzionava il meccanismo delle tangenti, non un solo procuratore della Repubblica ritenne di aprire un fascicolo. Bisognò aspettare dodici anni affinché il pm Antonio Di Pietro ottenesse l’ordine di cattura per l’ingegner Mario Chiesa, da cui partì il meteorite che portò all’estinzione di tutti i dinosauri della prima Repubblica. Fu allora che Francesco Saverio Borrelli adottò la parola d’ordine di mobilitazione morale “Resistere, resistere, resistere” che entusiasmò la sinistra, ma fece imbufalire la destra che nel Consiglio comunale di Milano gli negò l’ambito “Ambrogino d’oro” proposto da Nando dalla Chiesa, Basilio Rizzo, Giovanni Occhi, Letizia Gilardelli, Giovanni Colombo e Sandro Antoniazzi. A quell’epoca Francesco Cossiga aveva già scatenato l’inferno annunciando che la caduta del comunismo sovietico avrebbe lasciato nudo il sistema delle impunità fino ad allora garantite dalla posizione geografica dell’Italia. Luca Mantovani e Stanton H. Burnett, autori di The Italian Guillotine: Operation Clean Hands and the Overthrow of Italy’s First Republic (Operazione Mani Pulite e l’abbattimento della Prima Repubblica), che nessun editore italiano ancora oggi ha avuto il fegato di pubblicare, spiegarono già vent’anni fa che “la ghigliottina italiana” era stata concepita e programmata in un piano nato negli Stati Uniti da un gruppo di procuratori, giuristi, e specialisti dell’ “Italian desk” di Washington. Prima che la guera fredda terminasse, il Dipartimento di Stato e l’ex segretario di Stato Henry Kissinger (diventato amico e ammiratore di Giorgio Napolitano) avevano messo gli occhi sul partito di Berlinguer. Avevano pensato di raggiungere un doppio scopo: quello di staccare in maniera netta il Pci da Mosca e farlo passare senza tentennamenti allo schieramento d’Occidente, e quello di liquidare la corrotta e ambigua classe dirigente italiana, specialmente della Dc e dei socialisti di Craxi dopo lo scontro di Sigonella, quando Craxi schierò i mitra dei carabinieri contro i Seal americani rifiutando di consegnare i terroristi che avevano sequestrato la nave Achille Lauro uccidendo il cittadino ebreo americano Leon Klinghoffer. A questa operazione partecipò l’attuale consigliere e avvocato di Donald Trump, Rudolph Giuliani, che all’epoca era uno dei principali procuratori prima di essere il sindaco di New York durante l’attacco alle Torri Gemelle dell’11 Settembre 2001. Anche Giovanni Falcone frequentava il gruppo americano per le operazioni anti Cosa Nostra e insieme alle teste d’uovo della Central Intelligence Agency. Come hanno documentato Paolo Mastrolilli e Maurizio Molinari in L’Italia vista dalla Cia, 1948-2004, la potente macchina dell’Intelligence americana era favorevole al Compromesso Storico promosso dallo stesso Enrico Berlinguer che in una clamorosa intervista al Corriere della Sera annunciò di «sentirsi più al sicuro sotto l’ombrello della Nato». L’operazione sarebbe dovuta scattare installando il garante degli alleati, Aldo Moro, al Quirinale per guidare l’operazione che però non andò in porto perché Moro fu invece rapito con una straordinaria operazione da commandos, fu interrogato per quaranta giorni e poi assassinato. Berlinguer aveva subito a sua volta un attentato mascherato da incidente in Bulgaria e la sua improvvisa morte nel giugno del 1984 destò più di un sospetto nel suo entourage. Il Pci restò così a metà del guado fra Est e Ovest senza avere la forza per completare il tragitto iniziato da Berlinguer che aveva già sostituito la Rivoluzione d’Ottobre – che aveva «ormai perso», disse, «la sua spinta propulsiva» con l’ideologia della “questione morale” che si ispirava più a santa Maria Goretti, simbolo cattolico dell’onestà senza compromessi, che alla presa del Palazzo d’Inverno. Quando cadde il sistema sovietico e Achille Occhetto cambiò in corsa nome e ragione sociale del partito (miracolosamente uscito indenne dalla tempesta perfetta) candidandosi a raccogliere l’eredità dell’operazione “Clean Hands”, scattò alla disperata la contromisura di Silvio Berlusconi con la sua alleanza impossibile tra destre e moderati per impedire l’insediamento del Pci nella stanza dei bottoni. Ma già allora nella sinistra italiana serpeggiava un boato allarmato: gli inglesi avevano in mano un dossier russo, in cui si svelava sia l’ala filosovietica del Pci, sia quella ormai da molto tempo collegata agli americani, sicché scoppiò all’interno della sinistra un enorme putiferio che portò dopo qualche anno ad una Commissione d’inchiesta, ma questo è un altro capitolo della nostra storia.
· Prima della Morte.
Craxi, le ultime ore nella casa di Hammamet: «Ha aperto gli occhi e non ha più risposto». Pubblicato venerdì, 10 gennaio 2020 su Corriere.it da Aldo Cazzullo. «La mattina del 19 gennaio Stefania Craxi è appena arrivata a Hammamet. Bettino, a guardarlo, fa molta pena: è magrissimo, come non è mai stato, le gambe sembrano trespoli, il collo e le spalle sono cadenti. Ma sta in piedi, sorride, finalmente. Dopo averlo visto per settimane sulla sedia a rotelle, debole, accasciato, bisognoso di aiuto per qualsiasi cosa, oggi sua figlia è felice. “Stasera andiamo a cena fuori” propone Stefania, e lui non risponde, perché non sa se riuscirà a sostenere un’uscita…». Sono passati vent’anni da quei giorni. Marcello Sorgi li racconta in «Presunto colpevole», libro che Einaudi pubblicherà la prossima settimana, ricco di rivelazioni e racconti inediti. Come quello dettagliato della morte del leader socialista, restituito dalla figlia: «Verso le due e mezzo, mi avvisa che va a stendersi sul letto, per riposarsi. Mi chiede anche di fargli portare un bicchiere d’acqua. La tavola è già sparecchiata. Vado in cucina a prenderglielo e dopo due minuti entro nella sua stanza. Sembrava che dormisse, girato su un fianco, la faccia rivolta verso il muro. Mi avvicino facendo piano, non volevo svegliarlo. Forse avverte la mia presenza, si gira, apre gli occhi, fa per sollevarsi e poi cade riverso. Lo chiamo, non risponde. Corro a cercare il medico, ma non c’è più nulla da fare». La fine di Craxi assomiglia abbastanza a un suicidio. È la tesi di alcuni tra i vecchi compagni socialisti: Bettino sceglie di restare in Tunisia, essere operato in condizioni precarie, morire ed essere sepolto là. Il suo mondo era già finito. Lo dice ora Fabrizio Cicchitto: «Bettino si è lasciato andare perché ha capito che la sua epoca, il suo ruolo politico non potevano tornare. È stato un suicidio nella forma di un lieto addio alla vita». «Lo sai, no, che è l’ultima volta che ci vediamo?» chiede Craxi a Francesco Cossiga, che è venuto a trovarlo qualche giorno prima del Natale 1999. E la diabetologa Ornella Melogli, che arriva dal San Raffaele per visitarlo e medicargli il piede piagato («un foruncolone» secondo Di Pietro), lo vede strapparsi subito dopo le bende e camminare a piedi nudi sullo sterrato, incurante della malattia che finirà per ucciderlo. Il premier era Massimo D’Alema, che offrì il funerale di Stato, rifiutato dalla famiglia; proprio come la famiglia Moro aveva rifiutato lo stesso onore. Confida lo stesso D’Alema a Sorgi: «La proposta conteneva un sincero riconoscimento al ruolo politico di Craxi. Non avevamo condiviso la decisione dei magistrati di Milano di non farlo rientrare senza imporgli l’arresto. Era stata una risposta corporativa, dettata da cecità politica, all’iniziativa del governo per un gesto che avrebbe avuto un grande valore conciliativo. L’offerta dei funerali di Stato era il nostro modo, pubblico, di prendere le distanze». Tra i molti spunti che offre il libro, c’è il tentativo di rispondere a una domanda che molti socialisti si fecero al tempo: quanto c’entrano gli americani con la rovina politica di Craxi? Non è in discussione la violazione delle norme sul finanziamento illecito ai partiti. Ma perché proprio nel 1992 si mette in moto il processo che porterà al crollo dei partiti della Prima Repubblica, alla fine di un’intera classe politica, alla liquidazione delle aziende di Stato? Sorgi cita le carte della Cia, le visite di Di Pietro al consolato americano di Milano. Ricostruisce i giorni di Sigonella e le divergenze con Reagan. Molto interessante pure il capitolo che getta nuova luce sui tentativi di Craxi di aprire un canale con le Br, anche d’intesa con una parte della Democrazia cristiana. Ma le pagine che inevitabilmente restano più impresse sono quelle sulla fine dell’uomo che fu il più potente d’Italia. «Tornati a casa dal funerale, rimettendo in ordine la stanza in cui Craxi è morto, si trova sotto il letto un foglio di carta con il suo ultimo appunto, scritto poco prima della fine. Si può dire che sono le sue ultime parole. Eccole: “In questo processo, in questa trama di odio e di menzogne, devo sacrificare la mia vita per le mie idee. La sacrifico volentieri. Dopo quello che avete fatto alle mie idee, la mia vita non ha più valore. Sono certo che la storia condannerà i miei assassini. Solo una cosa mi ripugnerebbe: essere riabilitato da coloro che mi uccideranno”».
L'ultimo cameraman di Craxi: "Vi racconto l'esilio ad Hammamet". “Avevo 26 anni, ero più emozionato di trovarmi comunque davanti a Bettino Craxi che consapevole della storia che stavi vivendo”. I ricordi di Paolo Semeraro sono nitidi, soprattutto riguardo a certi particolari. Simone Savoia, Lunedì 13/01/2020, su Il Giornale. “Avevo 26 anni, ero più emozionato di trovarmi comunque davanti a Bettino Craxi che consapevole della storia che stavi vivendo”. I ricordi di Paolo Semeraro sono nitidi, soprattutto riguardo a certi particolari. È il 1997. Il giovane telecineoperatore milanese viene contattato da un collega free-lance più anziano, Luca Meregalli, per un lavoro particolare. Luca Josi, già segretario dei giovani socialisti dal 1991 fino alla tempesta di Tangentopoli, enfant prodige del Garofano rosso e strettissimo collaboratore di Bettino Craxi fino alla fine, vuole realizzare alcune interviste all’ex segretario del Psi. Documenti che entreranno nella storia italiana, con diverse previsioni sul disastrato cammino dell’Unione Europea. Ma la Storia, si sa, è fatta da storie. Come quella appunto di chi era dietro la telecamera per inquadrare uno dei protagonisti più importanti della politica italiana del Secondo Dopoguerra. E così, agli inizi del 1997, per una settimana circa, Paolo Semeraro si trova a varcare il portone di Route El Fawara ad Hammamet in Tunisia, da maggio 1994 la sede della latitanza-esilio di Craxi fino alla morte il 19 gennaio 2000. “Una strada sterrata, poco fuori Hammamet, lontana dal mare. Ero arrivato lì con la testa piena di notizie bomba sul mitico bottino, il tesoro di Tangentopoli. In Italia si diceva che ad Hammamet Craxi vivesse in una villa, che nell’immenso giardino ci fosse la fontana di largo Cairoli a Milano, che nelle toilettes ci fossero i rubinetti d’oro… non era vero nulla!”
Com’era la casa di Craxi in Tunisia?
“Una casa vissuta, modesta, come poteva essere quella di tanti italiani che andavano in vacanza ad Hammamet. Ricordo in molti angoli i cimeli garibaldini di cui Craxi, anzi Monsieur Le President come lo chiamavano tutti, era collezionista, i vasi di terracotta che dipingeva, le foto con i grandi della Terra, Reagan, Gorbaciov, la Thatcher”.
C’era personale di servizio che lavorava all’interno della casa?
“Ci saranno state un paio di persone a fare alcuni servizi per tenere in ordine una casa vissuta, ma niente di più. Ricordo l’autista-factotum che si spostava su una Toyota Land Cruise marrone. Il tavolo da lavoro sembrava quello della redazione di un quotidiano, affollato di carte, giornali, riviste, libri. Da questo mare emergeva solo il fax”.
Come vi accolse Craxi?
“Vidi per prima sua moglie Anna. Poi lui. Ricordo questa specie di mantello a pois che gli copriva le spalle. E poi la scarpa da ginnastica tagliata in punta per lasciare libero il piede gonfio. Restai colpito, io l’avevo visto sempre in giacca e cravatta, lo ricordo uscire dal Tribunale di Milano dopo aver deposto al processo Enimont (17 dicembre 1993, ndr)”.
Le guardie armate?
“Quella è un’invenzione cinematografica del film di Gianni Amelio. C’erano degli agenti al cancello d’ingresso, ovvio, ma era una presenza discreta”.
Dove avete girato le interviste?
“In casa nello studio e nel salone dove c’era il televisore. All’esterno girammo nei pressi di un carrarmato inglese della seconda guerra mondiale e poi avremmo voluto utilizzare come location il Colosseo tunisino di El Jem, ma non ci fu possibile”.
Perché, che successe?
"I servizi segreti tunisini ci seguivano sempre, non capii mai fino a che punto fossero a protezione di Craxi e dove iniziasse invece un controllo. Fatto sta che bloccarono la strada e ci costrinsero a fare ritorno ad Hammamet”.
Mangiavate a casa con Craxi?
“No, perché prediligeva un ristorante italiano sul lungomare di Hammamet. Una sera, mentre stavamo cenando già da un po’, arrivò una comitiva di turisti italiani. All’inizio foto, autografi, lo stupore d’incontrare un presidente del Consiglio. Poi gli insulti tipici dell’epoca di Tangentopoli”.
Come reagì Craxi?
“Non disse nulla, ci alzammo e lasciammo il ristorante, anche perché avevamo quasi finito. Ma una volta fuori, notai che aveva gli occhi umidi di pianto. Ne rimasi molto colpito”.
Vide qualcuno dei nani e delle ballerine (copyright di Rino Formica) che lo avevano adulato negli anni del potere?
“In quei giorni no. C’erano Umberto Cicconi, il suo fotografo personale, un romano molto simpatico e Luca Josi, un’intelligenza fuori dal comune”.
Come si svolgevano le interviste?
“Josi faceva la domanda, Craxi iniziava a rispondere ma poi ragionava a ruota libera, senza mai perdere il filo del discorso. Ripeto, ero molto giovane, ma consapevole di trovarmi davanti a una personalità carismatica. Una sensazione simile me l’hanno trasmessa solo, nel mio lavoro con la telecamera, Robert De Niro e Giorgio Armani, per capirci”.
In questi giorni si parla molto del film di Gianni Amelio, Hammamet. Lo ha visto? Le è piaciuto?
“L’atmosfera è ben ricostruita, anche perché hanno utilizzato la vera casa tunisina di Craxi. Ma, come ho detto, non c’erano le guardie armate, né cecchini sui tetti”.
Rimpianti?
“Se all’epoca ci fossero stati i videofonini e i social network, chissà in quell’occasione cosa si sarebbe potuto fare a livello di comunicazione video!”.
Hammamet, l'ultima intervista a Craxi. Le conversazioni informali di Bettino Craxi con la nostra Paola Sacchi, a vent'anni dalla sua scomparsa, raccolte ad Hammamet tra il 1997 ed il 1999. Paola Sacchi il 10 gennaio 2020 su Panorama. Doveva essere un libro-intervista sulla mancata unità a sinistra, sul perché oggi l’Italia è l’unico paese europeo dove non c’è un vero partito socialista. Non ci fu il tempo per farla. Bettino Craxi nelle estati tra il 1997 e 1999, quando lo incontrai ad Hammamet , forse pensava che ce ne sarebbe stato ancora per un viaggio nella memoria del duello tra Pci e Psi. L’ultima volta che lo sentii nell’ottobre del 1999, pochi giorni prima del suo ricovero all’Hopital Militaire, aveva una voce rauca e stanca. «Una bronchitella», disse, sbrigativo. Quanto a quell’ultima intervista: «Ora mi ci metto giù, con la biro, come Pietro Nenni». Craxi le interviste autorizzate le dettava. Allora, ero un inviato di politica dell’Unità, attualmente sono giornalista politico parlamentare di Panorama. Senza che potessi registrare né prendere appunti ecco però le riflessioni e i ricordi che, a più riprese, in maniera incompiuta e volante mi regalò sulla terrazza dell’Hotel Sheraton con sullo sfondo le note di “Mambo number five” di Lou Bega, la canzone che impazzava in quelle estati lì, quando non era di moda andare ad Hammamet. Dove Bettino commentò la scomparsa di lady Diana (31 agosto ’97), che aveva conosciuto nelle visite uffciali da presidente del Consiglio, con un affettuoso: «Povera figlia», aggiungendo: «Ma si è capita la dinamica dell'incidente?». Quanto ai comunisti, ecco come li ricordava. Enrico Berlinguer? «Io credo alla fine che all’origine di quei suoi attacchi nei miei confronti ci fosse la rottura consumata con il padre socialista». Massimo D’Alema? «Io e lui siamo accomunati solo dall’essere figli del partito della partitocrazia». Walter Veltroni? «Lui è un’altra cosa: fa parte del partito di Scalfari-Caracciolo-De Benedetti». E i miglioristi, quelli ritenuti più vicino a lui? «Ma se anche Gerardo Chiaromonte mi diceva: tu Bettino non capisci il valore della rivoluzione mondiale dall'Urss a Cuba...». Era la sera del 4 settembre del 1999, l’ultima sera che lo incontrai. Mi congedò dicendomi: «Un giorno sarà Occhetto a spiegarmi quello che combinò Claudio Martelli contro di me». Per un paio d’ore Craxi intorno a un tavolo al quale si erano uniti alcuni militanti e ex parlamentari socialisti, turisti non per caso ad Hammamet, espose ragioni e origini del suo anticomunismo.
Presidente Craxi, dove prese la sua prima tessera?
«Alla sezione del Psi di Lambrate a Milano, dove c’era ancora un ritratto di Stalin, pensa tu… Ma fu durante un viaggio a Praga nel ’54, che incominciai ad avere i primi dubbi sul comunismo. Un’immagine mi si impresse per sempre negli occhi. Quellla di un giovane che mi fermò ad un angolo della strada e mi disse: qui non c’è libertà, c’è uno stato di polizia. Io che pure da giovanissimo mi ero letto tutto Marx, Engels, Lenin e credevo ancora nella rivoluzione, tornai in Italia con tanti dubbi in testa».
E cosa fece?
«Divenuto un dirigente del movimento giovanile socialista, ebbi un dissenso con Pietro Nenni (il leader autonomista del Psi dalla cui parte il giovane Craxi era schierato ndr) proprio sull’atteggiamento dei socialisti verso i paesi dell’Est. Accadde dopo l’invasione sovietica in Ungheria nel ’56. Io mi spinsi fino a chiedere l’uscita del movimento giovanile socialista dalla federazione internazionale dei giovani comunisti. Li tenni una notte intera su una paginetta che conteneva una riga dove c’era scritto che non ne dovevamo più far parte. Li presi per stanchezza e la spuntai, ma sull’Avanti quella riga non fu riportata. Chiesi il perché a Nenni e lui mi rispose: manda una lettera all’Avanti. Io gliela mandai. Pensai: anche se non la pubblicano almeno la mia richieta resta agli atti. In quegli anni ero rimasto colpito da uno scritto del laburista inglese Col, secondo il quale nessun uomo può essere uguale all’altro, al massimo può essere quasi uguale. Mi azzardai a dirlo in una riunione di partito e apriti cielo, tutti si scagliarono contro di me».
Lei fu accusato dal Pci di aver cambiato patrimonio genetico al Psi, tradendo Francesco De Martino, il segretario che la precedette alla guida del partito e che aveva lanciato la formula degli «equilibri più avanzati», vale a dire: il Psi non andrà più al governo senza l’unità con il Pci. Come risponde a queste accuse?
«Alle elezioni del ’76 il Psi toccò il suo minimo storico prendendo solo il 9,6%. Ma poco dopo, in un sondaggio che commissionai appena diventato segretario, il partito era già crollato al 6%. Io presi in mano un partito che rischiava di morire e gli ridetti ossigeno e vita».
Lei fu alla guida dei quarantenni che congiurarono contro De Martino la mattina del 12 luglio ’76 a Roma all’hotel Midas, dove fu eletto segretario del Psi a 42 anni?
«Quella mattina io non sapevo che sarei diventato il nuovo segretario del Psi. In realtà la mia candidatura nacque dal fatto che Giacomo Mancini decise di sbarrare la strada a quella di Giolitti, che puntava alla segreteria. Mancini si mise di traverso e sono uscito fuori io…Ma non è vero che ero contro De Martino, che aveva già deciso per conto suo di dimettersi dopo la sconfitta elettorale. Un episodio inedito lo dimostra…».
Quale?
«Ricordo che quando uscimmo dalle consultazioni dal capo dello Stato Giovanni Leone al Quirinale, De Martino mi disse: parla tu. Ma come tu non parli?, gli chiesi, sbalordito. Fu lì che capii che si voleva dimettere».
Si sentì con il vento in poppa?
«Erano tutti quarantenni i dirigenti alla guida del partito (Enrico Manca, Claudio Signorile, Gianni De Michelis ndr). Un vantaggio, ma anche uno svantaggio. Mi dissi: questi durano, il rischio è che si vada avanti per cooptazione senza poter rinnovare la classe dirigente. Il pericolo è creare una nomenclatura bloccata, sclerotizzata».
Questo quanto ha influito nella vicenda giudiziaria che ha travolto il Psi, una vicenda in cui lei viene perfino accusato di arricchimenti personali?
«Basta con questa storia! Io possedevo la casa in affitto di Via Foppa a Milano e ora ho solo la casa di Hammamet . Lo vedi la vita sobria che io e la mia famiglia facciamo qui…».
Ma lei pensa che la deflagrazione del suo partito sia solo frutto di accanimento giudiziario, che pure c’è stato, o anche di problemi legati alla struttura della classe dirigente?
«Nel Psi c’era una struttura diversa dal Pci il quale aveva fondi esteri, provenienti dall’Urss fino agli anni ’80, e strutture pesanti, meno leggere di quelle del Psi. Dove c’erano capicorrente, gente che agiva anche per conto personale, che utilizzava i fondi per le proprie campagne elettorali». Pausa, sospiro: «E chi li controllava quelli? Avrei dovuto mettere la Guardia di Finanza dentro il Psi..Figuriamoci!».
Io, Enrico e la rottura su Moro. Niente di più sbagliato pensare di trovare un Craxi animoso e furente contro il Pci e il suo segretario Enrico Berlinguer. Da politico a tutto tondo, molto più pacato e riflessivo di quanto la vulgata giustizialista lo descriveva in quegli anni l’ex premier socialista lucidamente ragionava sulla distanza anche psicologica che c’era tra lui e il suo avversario a sinistra. Quello che conobbi nelle ultime estati di Hammamet era un Craxi che ancora si interrogava sul perché il segretario comunista lo combattè con tanta durezza. Certo anche lui con «Enrico» non andò per il sottile: al congresso del Psi di Verona nel 1984, poco prima che Berlinguer morisse, il segretario comunista fu accolto da una salva di fischi. Craxi avallò: «Se sapessi fischiare, fischierei anche io». Ma da qui a dare del «bandito», come fece Antonio Tatò, il portavoce di Berlinguer, all’avversario Craxi ce ne correva. Per l'ex leader e premier socialista da parte di Berlinguer c’era un’avversione nei suoi confronti che andava oltre il normale scontro politico. E che poteva persino avere una qualche origine psicoanalitica.
Si è dato una spiegazione degli attacchi che le mosse il segretario del Pci Enrico Berlinguer?
«Più volte mi sono interrogato sulle ragioni di quella sua profonda avversione nei miei confronti. Enrico ed io ci conoscevamo fin da giovani. Quando ero segretario del movimento giovanile socialista lui venne a Milano per un incontro dei rispettivi movimenti giovanili. Mia moglie Anna con la quale mi ero appena sposato andò a prenderlo al treno. Lui poi ruppe, ma fino a un certo punto con l’Unione sovietica, anche se all’Urss creò non c’è dubbio problemi. Ancora me lo chiedo perché si incattivì così tanto contro di me. Ma mi sono ormai dato questa spiegazione: le ragioni credo che vadano cercate anche in questioni relative alla psicologia e alla storia personale di Berlinguer. Lui veniva da una famiglia nobile, socialista e massona, quando decise di diventare comunista consumò un atto di rottura profonda con i suoi. Evidentemente il suo rapporto con me, il suo antisocialismo risentiva della rottura consumata con il padre. Io mi sono alla fine convinto che sia così».
Qual è l’accusa che la ferì di più?
«Fu quando Enrico arrivò a dire che i socialisti tranne Sandro Pertini, non avevano fatto molto per la Resistenza. Mi colpì, mi ferì, ci restai male, perché noi abbiamo avuto esiliati, martiri…».
Ma la vera rottura tra lei e il segretario del Pci avvenne sul caso Moro. Cosa successe in quei giorni?
«Io ero a favore della trattativa per liberare Aldo Moro. Il Psi prese contatti con Lanfranco Pace (l’obiettivo era liberare lo statista dc in cambio della scarcerazione della brigatista Paola Besuschio che non si era macchiata di reati di sangue ndr). Ho ancora vivissimo il ricordo di un iincontro con Berlinguer in una sera di quei terribili 55 giorni nel cortile di Palazzo Chigi. Io uscivo, lui invece entrava per andare a incontrare Andreotti. Lo vidi da lontano e decisi subito di affrontarlo. Lui si appoggiò a una colonna per ascoltarmi. Gli dissi: «Guarda Enrico, voi prendete pure la vostra posizione, d’accordo, io non dico niente, ma a me lasciami fare… Lui mi rispose secco che lo Stato andava difeso, che era in gioco la sua sicurezza… come se io fossi ignaro di quei concetti. La cosa mi offese. E pensare che in quei 55 giorni si svolse solo una riunione collegiale dei segretari di partito, si andò avanti per incontri separati».
Con chi nel Pci ebbe i migliori rapporti?
«Paradossalmente gli amici miei nel Pci erano quei vecchi stalinisti di Giancarlo Pajetta e Armando Cossutta. Con Pajetta negli ultimi anni soprattutto stabilii un bel rapporto. Ricordo un incontro che ebbi con lui a casa di Gianni Cervetti (l’ex leader dei miglioristi milanesi ndr). Non a caso ho una bella collezioni di dipinti di Mafai (il pittore padre della compagna di Pajetta, Miriam Mafai ndr).
Ma non erano i miglioristi, l’ala destra del Pci, quella da sempre considerata filosocialista, i suoi migliori amici a sinistra?
«Con Gerardo Chiaromonte avevo un ottimo rapporto. E però anche lui alla fine delle nostre conversazioni mi rimproverava con un : "Sì, sì Bettino, ma tu non capisci il senso della rivoluzione mondiale, quella dall’Urss a Cuba" . E se questo lo diceva anche un riformista come lui ti cadevano le braccia. Con Emanuele Macaluso parlai una sola volta in un gruppetto di deputati nel Transatlantico di Montecitorio. In realtà Macaluso ha sempre avuto un filo diretto con Rino Formica, loro due sono una specie di ditta».
Craxi frugando nella memoria aveva ancora netto il ricordo di un incontro avuto con Enrico Berlinguer, poco prima che il Psi, dopo il periodo dell’unità nazionale con il Pci che dette di fatto un sostegno esterno alla Dc, tornasse ad appoggiare governi guidati dallo Scudocrocuato. Era il periodo nel quale si svolse l’incontro alla scuola quadri del Pci alle Frattocchie tra i leader del Pci e del Psi, che suscitò molte attese per l’unità a sinistra.
Perché quell’occasione naufragò?
«Ci vedemmo prima delle Frattocchie a casa di Paolo Bufalini (altro leader migliorista del Pci ndr). Enrico mi propose di fare l’alternativa di sinistra . Ma io gli risposi: guarda che io e te insieme andiamo sotto, riusciamo solo ad arrivare al 40%…».
Eppure solo un anno prima, nel 1978 al congresso socialista di Torino lo slogan era quello dell’alternativa di sinistra…
«Io dissi che l’alternativa di sinistra era possibile solo in una chiarificazione da parte del Pci relativa ai suoi rapporti di ordine internazionale con l’Unione sovietica, l’ alternativa era possibile solo in un riequilibrio dei rapporti di potere tra Pci e Psi. Ma in realtà non ci credevo tanto».
Allora perché lo fece?
«Lo feci anche perché non avevo ancora la maggioranza nel partito, dove la sinistra premeva per l’alternativa di sinistra. Poi si è visto come è andata a finire: come si presentò l’occasione : Claudio Signorile (leader della sinistra del Garofano ndr) al governo si accomodò e come! Io l’unità a sinistra certo che la volevo, ma con un maggior peso del Psi. Io lo dovevo salvare il mio partito: rimasi colpito da uno schemino che Giulio Andreotti aveva lasciato sul tavolo dopo una riunione …».
Che c’era scritto?
«Dc più Pci. E il Psi?, trasalii. Il Psi era stato cancellato».
Eppure i segretari del Pci nei momenti clou non esitavano a venirla a trovare…
«Ricordo che Achille Occhetto venne da me quando Alessandro Natta era malato a chiedermi di appoggiarlo se fosse succeduto a lui nel ruolo di segretario. E Natta, a sua volta, prima che si ammalasse era venuto a trovarmi per chiedermi un parere sulla possibilità che gli succedesse il giovane Occhetto, l’ex ragazzo di bottega di Michelangelo Notarianni».
Come andarono i suoi incontri con Occhetto sull’unità a sinistra?
«Gli dissi: Achille faccio prima a fare l’Unità socialista che a rubarti due milioni di voti. Lui tornò in Via del Corso (sede del Psi ndr) e mi disse: «Bettino, mi dispiace ma la maggior parte del mio partito preferisce un rapporto con la Dc. Fu allora che «Occhetto si alleò con quella parte del Psi che era contro di me».
Che spiegazione si è dato?
«Evidentemente Achille già avvertiva l’arrivo di quella sarebbe stata la valanga giudiziaria. Credo che il Pds i giudici li abbia assecondati per la paura di restare travolto. Le toghe rosse hanno creato un enclave all’interno del Pci-Pds-Ds. La verità è che il mio nemico numero uno fu la Dc…Quanto al no di Occhetto all’unità socialista, un giorno chiederò proprio a lui che ruolo ebbe anche Claudio Martelli nel suo ripensamento».
Un altro importante momento che fece sperare in un passo in avanti nell’unità tra Pci Psi fu al congresso dell’Ansaldo a Milano quando lei ricevette nel famoso camper Massimo D’Alema e Walter Veltroni. Che ricordo conserva?
«Suggerii ai due di chiamarsi socialisti».
Che opinione si è formato dei due eredi dell’ex Pci?
«Veltroni, secondo me più che dei Ds fa parte di un altro partito: quello di Scalfari-Caracciolo-De Benedetti. Lui vuole il Partito democratico, staccarsi dalla tradizione socialista».
E di D’Alema che ricordo e opinione ha?
«Ha da venì Baffone dicevano i vecchi comunisti, e invece guarda un po’ è venuto Baffino…( Scherzò Craxi con ironia tranchant su D’Alema divenuto presidente del Consiglio nell’ottobre ‘98 ndr) . Io e D’Alema siamo accumunati da una sola cosa: siamo figli del partito della partitocrazia. Quando è diventato presidente della Bicamerale, gli ho mandato un biglietto consigliandogli di non tenere insieme le due cariche di leader di partito e di presidente della Bicamerale. Gli ho scritto che il partito ne avrebbe risentito. In politica queste non sono mai buone scommesse. Quel biglietto glielo ho fatto avere da miei emissari, lui non mi ha mai risposto».
Lei è stato il primo a porre il tema della Grande Riforma, ovvero il rinnovamento delle istituzioni, lo snellimento dei lavori parlamentari, l’elezione diretta del capo dello Stato. Perché poi lei sembrò abbandonare quella strada? Prevalse il compromesso politico con la Dc o cos’altro?
«Ma non ti ricordi che per avere sostenuto per primo l’elezione diretta del Presidente della Repubblica mi raffiguravano nelle vignette nei panni di un gerarca fascista con il fetz e gli stivaloni?».
Ma intanto per Romano Prodi presidente del Consiglio, ad essere controproducente era proprio la Bicamerale che bollò come «Bicamerale del nulla», per spezzare la possibilità di dialogo tra Pds e Berlusconi, che venne bollato come «l’inciucio». Il Partito democratico era lontano, e già impazzava il conflitto tra prima e seconda gamba dell’Ulivo, cioè tra post comunisti e post dc. Il governo D’Alema (Ottobre ’98) era alle porte, ma Craxi guardava lontano e pronosticò per gli anni a venire: «Prodi è un furbacchione di tre cotte, vedrai alla fine li metterà tutti nel sacco». Al governo, dopo la vittoria dell’Ulivo nel ’96, gli ex comunisti ritornarono con lui 10 anni dopo nel 2006. Ma solo per una breve stagione.
· Essere Bettino Craxi.
«Sono Pesci ascendente squalo». Storia di un (s)pregiudicato e del Bettino che vive in noi. Claudio Rizza il 9 febbraio 2020 su Il Dubbio. Chi era Craxi e cosa eredita un Paese che, come lui, continua a remare “Controcorrente”. Ci sono modi diversi per leggere un libro, come quello scritto da Fabio Martini sulla vita di Bettino Craxi. Si può leggere la storia per ripassare avvenimenti vissuti e in parte dimenticati, si possono apprezzare i dettagli, concentrarsi sulle ricostruzioni, sui segreti svelati, i retroscena planetari e minuscoli… su tutto questo il racconto del cronista dà ampia soddisfazione. Ricco, minuzioso, illuminante. Ma “Controvento” ( ed. Rubbettino) non è solo un titolo che racconta l’epopea craxiana, i sedici anni di vita politica dello statista morto ad Hammamet «giuridicamente da latitante» ma «da capo politico in esilio», come lo ha fotografato Giuliano Ferrara. Controvento è la metafora di questo Paese che sembra non imparare mai nulla dalla storia e dagli errori, e che finisce di ricadere sempre nella voragine di questo vizio. Come una nave a vela che combatta contro il vento contrario, arranchi di bolina per superare onde e tempeste, avanzando faticosamente miglio dopo miglio e poi, improvvisamente, scuffi e torni indietro trascinata dalla corrente. La tempesta può chiamarsi Tangentopoli, il deficit, Maastricht, il crollo dei mercati, la Grande Riforma, la Corruzione, il finanziamento dei partiti, un referendum o la legge elettorale. E’ il nostro destino, remare controvento. Non c’è bisogno di affrontare le pagine sul socialismo- che- fu pensando di dover schierarsi contro o pro il politico Bettino Craxi, perché tutti gli uomini si rivelano poi double face: sembrando granitici, cocciuti e decisionisti, poi sono costretti a scendere a patti con la vita e col nemico, se vogliono sopravvivere e portare a casa un risultato che valga non per sé, o per la propria squadra, ma per far avanzare un Paese. Durezza e fragilità, decisione e paura si alternano implacabili, e la vita politica è, in questo senso, una continua doccia scozzese. L’uomo e il suo carattere aiutano a capire tante cose. Del suo segno zodiacale diceva: «Pesci, ascendente squalo». Per la sua segretaria era «un tipo burbero» e la frase più gettonata quando si spazientiva era un diretto «non mi rompete i coglioni». Che detto da uno alto 1,89 e bello grosso somiglia molto ad un viatico. Faceva paura e se ne approfittava, la vendetta veniva annunciata con un «gli spezzerò le ossa». Diciamo che non voleva fare il simpatico. Quando il cronista lo intervistava, di solito guardava da un’altra parte e non solo per pensare alla risposta ma per sottolineare la differenza tra i due piani: tu giù, ignorantello rompipalle, lui su nell’iperspazio. E spesso era così, perché il giornalismo politico ha sempre avuto una predilezione per i registratori e per gli esteti, più interessati alle battute che alla sostanza dei problemi. Uomo sospettosissimo che non si fidava di nessuno. Praticava il gentilsesso che lo dipinse così, con Marina Ripa di Meana: «Era un impasto di allegria, sotto il tagliar corto, Sforbiciava i fronzoli a tutti. Era cafone ma anche sentimentale. Sbrigativo ma attento, preoccupato». Tanto si è scritto sulla politica di Bettino, e tutto si spiega in queste pagine. La rottura a sinistra, il rifiuto della sudditanza al Pci. Tatò, portavoce di Enrico Berlinguer, avvisò il capo: «I compagni della segreteria convengono a quattr’occhi che Craxi è un avventuriero, anzi un avventurista, uno spregiudicato calcolatore… maneggione e ricattatore». Botte da orbi. E siamo solo nel 1976, molto lontani dall’emergere delle tangenti. Bettino ha un pensiero fisso: per fare politica servono i soldi. Soldi per finanziare il partito, soldi per avere un’autonomia finanziaria senza la quale la partita con Dc e Pci è persa in partenza: Washington da una parte, Mosca dall’altra, gli industriali di là, le cooperative e la Cgil di qua. Poi, siccome non si fidava di nessuno invece di affidare la borsa al segretario amministrativo aprì un canale personale, per gestire i fondi direttamente. Non per arricchire se stesso, ma per rinforzare il peso del Psi. E come spiegò il procuratore di Milano, nel 1996 dopo Mani Pulite, Gerardo D’Ambrosio: «La molla di Craxi non era l’arricchimento personale, ma la politica». Infatti è morto povero, alla faccia di chi continua a parlare di tesori scomparsi. Ma il problema dei finanziamenti alla politica ancora non è stato risolto, come se i soldi che adesso si fanno sul web non c’entrassero. Come non è stato mai risolto quello della Grande Riforma, che lui stesso non riuscì a concretizzare e, dopo di lui, le inutili bicamerali. Più delle leggi elettorali e delle “Porcate” non siamo riusciti a immaginare. Gli intellettuali che vennero mobilitati per sostenere il riformismo craxiano, sappiatelo, si chiamavano Amato, Colletti, Forte, Giugni, Marconi, Momigliano, Pasquino, Ruffolo, Pellicani e i giovani erano i Salvati, Galli della Loggia, Flores d’Arcais, Stame, Mughini e Lerner. Certo, ripensando ai giorni nostri, ci assale il deserto di Grillo e Casaleggio, degli estratti a sorte, illetterati e impreparati. L’affare Moro, il tormento tra il partito della fermezza e quello craxiano della trattativa; il sì nell’ 83 agli euromissili in Italia, mossa decisiva per vincere la guerra fredda con i Pershing e i Cruise, per la soddisfazione di Washington. La squadra di governo craxiana fu meritocratica: Boniver, Carraro, Forte, Giannini, Reviglio, Ruggiero, Ruffolo, Vassalli. Un governo con Andreotti agli Esteri, Scalfaro, Martinazzoli, Visentini, Spadolini. Proprio come gli “scappati di casa”. Controcorrente, per battere l’inflazione tagliò un paio di punti alla Scala mobile, con la benedizione di quasi tutti i sindacati, escluso il Pci di Berlinguer. Noi siamo alla beneficienza del reddito di cittadinanza. Accerchiò gli americani a Sigonella per impedire a Reagan di “rapire” i terroristi della “Achille Lauro”. Uno strappo che liberò l’Italia dalla sudditanza non solo psicologica a Washington, ma sarebbe costata cara a Bettino negli anni difficili di Tangentopoli. Andreotti lo bruciò: «Vado in Cina con Craxi e i suoi cari». Dipingendo il malaffare socialista di cui Craxi non si stava rendendo conto, e che lo stava per affossare. Marco Pannella lo consigliò: «Se accetti il carcere diventerai un punto di riferimento e ne uscirai da eroe». Ora Bettino ci vede correre alla rinfusa dietro Trump, Xi e Putin, senza uno straccio di progetto. Ci basta un capro espiatorio, e tiriamo avanti.
Craxi divide ancora gli italiani. Tra i leghisti prevale chi lo apprezza. Pubblicato venerdì, 24 gennaio 2020 su Corriere.it da Nando Pagnoncelli. Il sondaggio Ipsos: il leader socialista condannato dal 63% della base 5 Stelle. Maggiori i «contro» anche tra i democratici. A vent’anni dalla scomparsa di Bettino Craxi si è tornati a parlare di uno dei principali protagonisti della politica italiana del Dopoguerra: la sua figura ha da sempre polarizzato le opinioni per la sua azione politica e la forte personalità. Cosa pensano oggi di Craxi gli italiani? Interpellati in proposito il 39% dichiara di conoscere bene (7%) o abbastanza bene (32%) il leader socialista, il 40% lo conosce poco, il 16% ne ha solo sentito parlare e il 5% ignora chi sia. Sono soprattutto i più giovani, tra i 18 e i 34 anni, a non conoscerlo o ad averne una conoscenza molto superficiale, mentre al di sopra dei 50 anni quasi uno su due dichiara di avere un buon livello di conoscenza. Le opinioni si dividono su Craxi: escludendo dal sondaggio coloro che non lo conoscono, il 5% lo considera un grande statista, il 30% reputa sia stato un buon politico, con più pregi che difetti, mentre il 19% ritiene sia stato un politico mediocre, con più difetti che pregi, e un altro 19% lo liquida come un politico corrotto, il 27% non si esprime. Dunque, il 35% ha un giudizio positivo e il 38 negativo. Sorprende l’opinione dei leghisti (50% di giudizi positivi e 39% di negativi), tenuto conto che all’epoca di Tangentopoli assunsero posizioni fortemente giustizialiste. Ma si trattava di una Lega diversa, in termini di consenso, proposta politica e profilo degli elettori. Le opinioni positive prevalgono anche tra gli elettori di Forza Italia e Fratelli d’Italia (57%), mentre quelle negative sono preponderanti tra i dem (53%) e i pentastellati (63%). Craxi fu una personalità complessa, a cui furono associati diversi giudizi: oggi il 29% ritiene sia stato un politico opportunista (43% tra gli elettori del Pd e 41% tra quelli del M5S), il 16% autoritario, mentre il 15% lo considera un modernizzatore (26% tra i leghisti e gli elettori di FI e FdI) e il 10% un libertario. L’elettorato leghista, pur mostrandosi diviso, è quello che associa maggiormente a Craxi i due attributi positivi considerati nel sondaggio (40%). In definitiva, il 46% ritiene che le critiche a Craxi siano in parte giuste, ma gli vada riconosciuto anche un ruolo positivo, il 5% ritiene che sia stato ingiustamente demonizzato e la sua figura debba essere riabilitata, mentre il 22% è di parere opposto e si esprime severamente su di lui. Quest’ultima opinione prevale solamente tra i pentastellati (51%). Ed è interessante osservare che tra gli elettori del Pd — molti dei quali provengono dal Pci, che di Craxi fu acerrimo avversario — pur permanendo opinioni non benevole nei confronti del leader socialista prevalga l’idea che vadano riconosciuti i suoi meriti. Insomma, con il passare del tempo l’immagine di Craxi continua a polarizzare le opinioni di chi ricorda la sua stagione politica, mentre tra chi ha conosciuto poco la sua storia i più sospendono il giudizio o ne danno una valutazione negativa. Nonostante poco meno della metà di chi ricorda quella stagione ritenga che si debbano riconoscere i meriti di Craxi, la maggioranza conferma che il nostro è un Paese che fa fatica a fare i conti con la storia.
Il thriller inedito di Craxi: «Storia di Ghino, premier ad Hammamet». Pubblicato lunedì, 13 gennaio 2020 da Corriere.it. Pubblichiamo un brano del romanzo di Bettino Craxi «Parigi-Hammamet»: il narratore descrive «Ghino», primo ministro in vacanza in Tunisia. E Craxi firmava i suoi articoli proprio con lo pseudonimo «Ghino di Tacco», celebre bandito medievale Conoscevo Ghino da almeno vent’anni. Ogni estate andava a trascorrere le vacanze ad Hammamet. Da tempo non era più un turista, ma uno di noi. Una persona semplice, disponibile, pronta a farsi carico dei problemi di tutti, delle questioni anche più banali e quotidiane, tanto diffidente e cauta nei confronti dei suoi pari, intendo dire i politici, i dirigenti, gli uomini di potere, quanto fiduciosa nelle persone qualsiasi, amica di tutti, pronta a sedersi nella più umile casa di pescatori per discutere, inframezzando francese, italiano e arabo, sulle cose di tutti i giorni. Una volta s’era messo in testa di insegnare a un mio parente come conservare le alici sotto sale. E ci rimaneva male, perché quel giovane pescatore si dimostrava scettico e tradizionalista, sicuro che non ci fosse nulla di meglio che far essiccare le sardine al sole. E, mentre nella villa di Hammamet lo aspettavano ministri, industriali, magistrati eIl romanzo amici altolocati, lui rimaneva lì, accanto al pescatore, a perorare la causa del «sotto sale», senza spazientirsi, anche davanti all’impuntatura e alla testardaggine. Io ci avrei litigato. Lui, tranquillo, perorava e spiegava. Dopo pochi giorni, a conferma che la strategia delle alici gli stava sinceramente a cuore, ne parlò a cena, a casa sua, dove aveva invitato me e Samira. A tavola c’erano un giornalista americano, uno scultore dell’Est europeo, due ex ministri, un magistrato in cerca di favori, un suo amico francese, un regista carico di Oscar con la moglie e due collaboratori. E, infine, due signore amiche della moglie di Ghino. Di recente era diventato presidente del Consiglio, primo ministro d’Italia, mica poco. Trascorreva sempre una settimana di vacanza, anche se non di riposo, nel suo rifugio di Hammamet. Gli ospiti avrebbero voluto ben figurare, parlare dei massimi sistemi del mondo. Alcuni di loro avevano ben studiato qualcosa ed erano pronti a recitarla davanti al presidente. Non ho mai ben capito la ragione, ma Ghino stimola la voglia di apparire più di quello che si è anche se non c’è alcun interesse a farlo, perché o già ti stima oppure ti ritiene un cretino con le ali da cretino. Nei giudizi sugli uomini è un conservatore. Può passare, in casi eccezionali, dalla stima alla disistima, mai viceversa. Credo di aver compreso il suo metro di classificazione, che non tiene affatto conto del ceto sociale, della nazionalità, dell’etnia, del livello culturale. Gli piacciono l’intelligenza e la fattività, con una marcata preferenza per l’homo faber, comunque giudicato più sapiente dell’homo sapiens. Probabilmente in ciò v’è una punta di narcisismo, giacché lui per primo è un gran lavoratore. Al mondo esistono, per lui, persone utili a se stesse e agli altri, che danno un senso al loro esistere, e parassiti velleitari, non utili e, talora, anzi troppo spesso, dannosi. Questi ultimi non li sopporta neanche in fotografia. E lo dà a vedere senza problemi, benché sia restio ad andare sino in fondo, a cancellarli del tutto dalla sua vista, una volta per sempre. La cena delle alici, dunque. C’erano convitati pronti a cogliere al balzo un aggettivo, una frase, uno spunto qualsiasi, sul quale costruire il lifting di se stessi. E lui, invece, senza alcuna ombra di perfidia, anzi con il candore di un bambino, li costrinse a restare terra terra sul problema delle sardine, una questione che ovviamente nessuno aveva studiato per tempo. A parte Michel, il suo amico nizzardo, che la sapeva lunga, almeno sul modo di cucinarle, pur con una punta di campanilismo — «Le alici delle mie parti sono le migliori», ripeteva, esaltando il mar Ligure ed umiliando tutti i restanti mari e oceani incapaci di far crescere saporiti i pesci —, tutti gli altri, me compreso, non andavano più in là della definizione di «pesce azzurro».
Mario Ajello per “il Messaggero” il 14 gennaio 2020. Lui parlava di questo romanzo di suspense e d'intrigo internazionale senza dargli molta importanza ma un po' gliene dava: «È una spy story indegna di John Le Carré e di Ian Fleming. Si tratta soltanto di un passatempo, ma che contiene elementi di verità». Ecco come Bettino Craxi recensiva con gli amici il suo giallo politico-spionistico, che scrisse al crepuscolo della sua vita. È stato ritrovato nella montagna di carte della villa tunisina e ora esce per la prima volta (ma ci fu con lo pseudonimo Ben Khaled un'edizione clandestina stampata nel 98 dal fratello del leader socialista, Antonio Craxi) e lo pubblica Mondadori: Parigi-Hammamet, s'intitola.
Cento pagine. E un plot gonfio di trame, misteri, storie d'amore e di tradimenti, vendette e paure. C'è un ex premier italiano, scappato a Parigi, che è inseguito da una super-Spectre, da una terribilissima organizzazione che vuole controllare il mondo e assoggettare la politica che non le obbedisce. Koros, questo il nome che si sono dati gli oscuri manovratori, vuole uccidere Ghino perché così si chiama - e già da ciò si capisce che il protagonista del romanzo di Craxi è Craxi, il cui nomignolo affibbiato dai nemici fu Ghino di Tacco negli anni in cui aveva forza e potere - l'esule nascosto nella capitale francese. Koros vuole far pagare a Ghino, il quale guarda caso nel romanzo fuma le sigarette al mentolo proprio come Bettino nella realtà, il suo passato politico e la sua determinazione a non rispettare i compromessi imposti dalla centrale affaristico-spionistica che vuole assoggettare tutti. E che non accetta i ribelli ma solo i subalterni. Ghino - in questo racconto che nacque da un'idea di Craxi, sviluppata da Giancarlo Lehner e poi rivista e corretta dall'ex segretario del Psi - per sventare il complotto ai propri danni chiama a Parigi dalla Tunisia l'amico Karim, un poliziotto di 44 anni che vive ad Hammamet. Riuscirà Karim a battere Koros? Si arriva alla fine, attraverso una girandola di fughe, tradimenti, vendette, omicidi e tentativi di omicidi. Karim è la voce narrante, e dice: «Dietro tutto questo c'è il delirio di onnipotenza. A volerci uccidere sono i gruppi della finanza internazionale. Sono loro i cervelli della destabilizzazione europea e mediterranea. Koros vuole scolpire popoli e nazioni come se fossero marmo grezzo. Il presidente è troppo ingombrante, ora più di prima, ha dato sempre fastidio a quella gente. E non solo perché si è sempre dimostrato filo-arabo». E questo è un romanzo? Sì. Ma le parole di Karim su Ghino sono esattamente quelle che pensava e che diceva Craxi, quello vero, alla fine della sua parabola esistenziale. E allora sarà pure fiction questa, ma nel gioco letterario c'è il dramma politico e personale che stava vivendo Bettino. Il quale, più che tramite il romanzo, riusciva forse a distrarsi scrivendo poesie ermetiche. Il figlio Bobo tra le sue carte ne ha trovate 4, non ancora pubblicate, e anche se non sono di facile comprensione ne pubblichiamo due - Se tu morissi e Contabilità - in questa pagina. Ma da queste strane composizioni in versi, rieccoci al romanzo che sembra avere una sua forza. «Ghino - spiega Karim - appartiene alla categoria del tutto o niente: o lo si ama o lo si odia». E ancora: «Ghino considera la Tunisia la sua seconda patria. Anche questo disturba.
Anche questo è considerato un segnale. I documenti venuti per accidente in nostro possesso dimostrano che la super-centrale spionistica lo vuole morto per tre ordini di motivi. Ritengono che possa rivelare qualcosa sui membri italiani di Koros. Presumono un potere e relazioni forse superiori alla realtà attuale, specie con i Paesi Arabi e del Terzo mondo. Vogliono comunque spazzar via qualsiasi ombra che possa ostacolare le prospettive in atto e a medio termine in Italia e nella regione mediterranea». E al centro del mirino, oltre a Ghino, c'è anche Karim più una coppia di bodyguard francesi e una spia russa. I russi? Ci sono anche i russi, in mezzo agli americani cattivi - che di Ghino avevano detto tempo prima: «Gliela faremo pagare cara» - e all'insidiosissima Germania riunificata. «I dirigenti sovietici - così si legge ancora in questo racconto finora sconosciuto - avevano a carico la loro vecchia, stagionata ed esosa consorte, il Pci. Ghino le tradizionali fidanzate occidentali, egoiste e infedeli, senza possibilità di divorzio». Tra fiction e realtà, il premier italiano braccato a Parigi con il suo fido poliziotto italo-tunisino è uno che ama le donne: «Ghino ha il carattere di un orso. Può sciogliersi clamorosamente solo in un caso. Quando è vicino a una donna affascinante che sembra inarrivabile, anche se lui è convinto che non lo sia». Ma Koros non ha pietà neppure per gli sciupafemmine.
"Io, i magistrati e la morte". Gli ultimi pensieri di Craxi. Gli appunti inediti dello statista nel volume di Spiri: "Mi manca l'Italia, mi costringono a spirare in esilio". Stefano Zurlo, Mercoledì 15/01/2020 su Il Giornale. La libertà, i pm e la morte. Appunti. Carte volanti. Riflessioni manoscritte. È un Bettino Craxi furioso e insieme consapevole del proprio destino quello che emerge dai documenti inediti anticipati dal Giornale e contenuti nel libro di Andrea Spiri L'ultimo Craxi. Un primo blocco di frasi è un tentativo di guardarsi allo specchio senza retorica e con spietata lucidità. Il potere non c'è più, la corte di adoratori si è dileguata, il leader socialista combatte ormai per la sopravvivenza lontano dall'Italia. Una condizione difficilissima che Craxi riassume con alcune annotazioni in cui riversa tutti i suoi stati d'animo: «Chi conosce la storia sopporta meglio il peso delle ingratitudini, delle viltà, dei tradimenti. Tanti amici mi hanno tradito e voltato le spalle. È capitato a tanti prima di me nella storia. Tanti altri invece mi hanno conservato la loro solidarietà e il loro affetto». Molti vanno a trovarlo in Tunisia, alcuni sono spariti. Fa parte delle dinamiche della vita, ma Bettino soffre per la famiglia: «Sono dispiaciuto - scrive a ottobre 1996 - per la mia famiglia costretta a subire la mia stessa sorte». E ancora: «Non ho nessun grande progetto, nelle condizioni in cui mi trovo sarebbe una velleità vera e propria. Quando penso al futuro, penso innanzitutto alla morte. Lo faccio con serenità». Inutile illudersi. L'uscita di scena si avvicina nella gabbia di Hammamet, malattie, umiliazioni e sofferenze si susseguono senza soluzione di continuità. Sì, il sipario sta per scendere l'ultima volta. E l'ex capo del governo si dispera: «Ho grandissima nostalgia dell'Italia, ingigantita dalla sensazione che non ci potrò mai più tornare. Mi condannano a morire in esilio». L'unica soluzione sarebbe consegnarsi in manette alla giustizia italiana che gli dà la caccia. Un'idea che Craxi rifiuta, fra orgoglio e paura: «Andreotti è senatore a vita, io non potevo fare come lui, rimanere in Italia nel tentativo di provare la mia innocenza. La mia vita l'avrei dovuta difendere e probabilmente l'avrei persa». Craxi, come emerge da diverse testimonianze, teme di fare la fine di Moro, si sente braccato, non si fida dei giudici, anzi pensa di essere davanti a veri e propri plotoni di esecuzione. In un manoscritto finora sconosciuto, conservato sempre negli archivi della Fondazione Craxi e ritrovato da Spiri, il leader socialista racconta un episodio allarmante: «Io, mia moglie, i miei figli, un mio avvocato, diversi miei collaboratori subimmo una ventina circa di perquisizioni notturne, talvolta simulate da furti nelle nostre abitazioni, uffici, case di campagna». Siamo, secondo Bettino, alla persecuzione. È una caccia a strascico. Altro che consegnarsi ai propri carnefici. E poi ci sono i suicidi che hanno insanguinato Mani pulite, la gogna in prima pagina, i presagi della fine. Sulla spiaggia di Hammamet, con lo sguardo rivolto all'Italia, Craxi fissa alcuni punti del suo corpo a corpo estenuante con l'apparato giudiziario. Sono ragionamenti brevi, possibili spunti, quasi titoli di altrettanti capitoli che non vedranno mai la luce. Ma sono anche le tappe del suo calvario, fra procedimenti, arresti, anni e anni di pene. «L'uso violento del potere giudiziario». E ancora: «Gli arresti illegali». Non basta: «Le discriminazioni negli arresti - nelle detenzioni». E poi: «L'orologeria politica rispetto alle scadenze di governi nazionali, regionali, locali». L'elenco delle storture è interminabile: «Violazioni sui diritti umani». E subito dopo: «Rapporto illegale e perverso con la stampa». Spiri, professore di Storia dei partiti politici alla Luiss, ha raccolto moltissimo materiale e ci accompagna nelle diverse fasi del Craxi «tunisino». In un primo momento, Bettino coltiva la speranza di poter risalire la china. L'eterna questione giudiziaria si mischia con i problemi di salute. Il diabete lo tormenta, un piede è aggredito dalla malattia anche se Di Pietro parlerà sbrigativamente di «foruncolone». E però Craxi non si arrende e a marzo '97 immagina ancora un futuro che non ci sarà, un ritorno alla condizione fisica precedente: «Sono diventato un po' fragile e mi sento affaticato, ma mi darò da fare per rimettermi in forma. Conto presto...». Quei puntini dovrebbero essere un ponte verso il domani, ma il countdown corre inesorabile verso la fine: mancano meno di tre anni all'epilogo. E i disturbi si moltiplicano. Il cuore è logorato, ma intervenire in Tunisia è un azzardo. Poi spunta il tumore che si somma al diabete e a tutto il resto. Si tenta in extremis di farlo tornare a casa, ma la magistratura milanese non cambia posizione: nessuno sconto o altro. Craxi dovrà andare al San Raffaele da detenuto. Niente da fare. La possibile mediazione fallisce. L'ultimo intervento chirurgico si svolge all'ospedale di Tunisi, in una situazione precaria: un infermiere tiene la lampada. E quei pensieri diventano la colonna sonora dell'addio: «Ho grandissima nostalgia dell'Italia, ingigantita dalla sensazione che non ci potrò mai più tornare. Mi condannano a morire in esilio». O da latitante, secondo il linguaggio delle toghe. Il 19 gennaio 2000 la profezia si avvera. Bettino Craxi muore ad Hammamet.
· La pellicola su Bettino Craxi.
Il processo a Craxi dal tribunale al teatro: Caselli è il giudice, Pif tra i testimoni. Domani sera al Carignano di Torino, gli anni scorsi le sentenze (assolutorie) per Galileo e Garibaldi. Sara Strippoli il 09 febbraio 2020 su La Repubblica. Essere il terzo ad essere processato dopo Galilei e Garibaldi lo renderebbe orgoglioso visto che è noto che Bettino Craxi tenesse un piccolo busto di Garibaldi nel suo studio in via del Corso. Domani sera al Teatro Carignano il leader socialista sarà di nuovo processato, questa volta a misura di palcoscenico. E’ il ventennale della morte di Craxi: il ricordo ad Hammamet di un folto gruppo di politici e il film di Gianni Amelio interpretato da Pierfrancesco Favino ha riportato sotto i riflettori il dibattito sulla sua parabola e sul suo ruolo nel Paese. Lo spettacolo di domani è organizzato dall’associazione Il Libro Ritrovato, che già ha portato appunto in scena il dibattito su Galileo e Garibaldi. La regia, dei precedenti processi come di questo, è di Pietra Selva su una idea di Laura Salvetti Firpo. Marco Travaglio veste con entusiasmo i panni dell accusatore, il giudice è Gian Carlo Caselli, che questa volta avrà finalmente la possibilità di emettere una sentenza diversamente da quanto gli accadde nel processo Andreotti, quando era procuratore capo. L’avvocato della difesa sarà un ironico Bruno Gambarotta. Fra i testimoni sfilerà pure Pif, mentre Silvia Martino avrà il ruolo di Ania Pieroni. Testimone sarà anche l’ex assessore comunista della Città e ora presidente del Castello di Rivoli Fiorenzo Alfieri. "Tutti processi che abbiamo messo in scena finora hanno portato a una assoluzione - ricorda Salvetti Firpo - ma è probabile che questa volta la platea si dividerà”. Non si tratta solo di stabilire la colpevolezza o l’innocenza di Craxi, chiarisce il testo di presentazione dello spettacolo “ma di provare a riflettere su una crisi nazionale profonda, sull'illegalità diffusa e accettata della società italiana”. Per assistere al processo si pagano 15 euro per il biglietto intero, 10 ridotto. La serata sarà dedicata a una raccolta fondi per Nutriad International onlus, organizzazione umanitaria per la tutela dei diritti dell'infanzia.
Roberto Faenza per “il Fatto quotidiano” il 24 gennaio 2020. L' articolo firmato da Marco Travaglio sul film Hammamet, che racconta il cosiddetto "esilio" di Bettino Craxi in Tunisia, induce a riflettere sul senso del cinema quando si avventura a ricordare personaggi controversi. In questo caso non è in discussione l' interpretazione di Pierfrancesco Favino, in stato di grazia, forse ancora più di quando ha interpretato il boss Tommaso Buscetta nel film di Marco Bellocchio Il traditore. Né è in discussione la regia di Gianni Amelio, uno dei nostri migliori registi. La questione è un' altra: è possibile raccontare la biografia di un malandrino senza cadere nell' agiografia? Lo stesso quesito si è posto all' uscita del film Il divo su Giulio Andreotti, firmato da Paolo Sorrentino, che a molti è parso più un peana che una critica alle sue imprese, come l' appoggio ad alcune consorterie in odore di mafia. Anche all' uscita dei film di Martin Scorsese sui protagonisti appartenenti alla criminalità italoamericana molti si sono chiesti se non fosse latente l' omaggio da parte di un regista cresciuto in una strada di Little Italy, Elizabeth Street, dove di mafiosi ne poteva incontrare tutti i giorni, magari dovendo stringergli la mano. Lo stesso The Irishman, il suo film per Netflix, ripropone l' antica querelle: critica o tributo alle gesta dei gangster più efferati? Come non appassionarsi alle imprese di Robert De Niro o del suo mentore Joe Pesci, un formidabile interprete che anche quando ammazza e fa ammazzare ti induce a pensare solo a quanto è bravo e non a quanto è scellerato. Qualcosa di simile è accaduto anche quando, alcuni fa, in Germania è stato realizzato un film sugli ultimi giorni di Hitler. Titolo La caduta. Protagonista un meraviglioso Bruno Ganz, scomparso da poco. Così bravo, così credibile, così appassionato, che alla fine pensi a Hitler come a uno psicopatico che avrebbe avuto bisogno di cure anziché trovare la morte nel bunker. Delle gesta del leader del Partito socialista, Travaglio ha dipanato una sequela impietosa e non mi sembra ci sia da discutere. Si tratta di fatti, date e avvenimenti che ormai appartengono alla storia. Il problema è se il cinema, nel momento in cui si cimenta con personaggi reali, sia in grado di essere obiettivo oppure no. Ho avuto occasione parecchi anni fa di conoscere Bettino Craxi nel suo regno romano all' Hotel Raphael, quando insieme a un suo sodale, Massimo Pini (che conoscevo in quanto editore di un mio libro), mi fu proposto di realizzare un film sul Partito comunista di allora, ovviamente critico, che sarebbe servito al Psi per farne buon uso. Venivo dal successo di un film satirico e impietoso sulla Democrazia Cristiana, Forza Italia! (sceneggiato da Antonio Padellaro e Carlo Rossella) e l' idea del leader socialista era di fare altrettanto nei confronti del Pci. Risposi "no grazie", non perché pensassi che alcune esecrabili gesta di quel partito non meritassero un film, ma perché non sono solito lavorare per conto terzi. Anni dopo, quando Craxi era ormai fuori dai giochi, mi fu proposto da alcuni suoi amici di realizzare un film sull' esilio tunisino. Di nuovo rifiutai per le stesse ragioni. Ora il film è stato fatto e secondo me è comunque un bene, perché serve a discutere su un personaggio, che di certo non è passato inosservato. Anche in questo caso l' attore che lo interpreta è così bravo che mentre lo guardi non ti viene in mente che si tratta comunque di un politico fuggito per non farsi processare. Craxi si autoassolve, sostenendo con fierezza che se ha rubato ha fatto né più né meno come tutti gli altri colleghi seduti in Parlamento. Aggiungendo che, stando così le cose, non si sarebbe fatto giudicare da tribunali altrettanto corrotti o corruttibili. Mio Dio, ma vi sembra la giustificazione di uno statista? È come se approvassimo un ladro o un assassino che si oppone all' arresto perché in giro ci sono molti altri simili a lui.
Hammamet, tra verità e finzione: cosa c'è di vero (e cosa no) nel film su Bettino Craxi. Pubblicato mercoledì, 15 gennaio 2020 su Corriere.it da Arianna Ascione. «La verità di solito è più dura della fantasia, però un po' di quella tragedia Gianni Amelio ha saputo riportarla e mi auguro che questo film riesca a far riflettere»: così Stefania Craxi, intervistata da Radio Cusano Campus, ha descritto «Hammamet», il film di Gianni Amelio che racconta gli ultimi mesi di vita di suo padre Bettino (interpretato da Pierfrancesco Favino). Anche se si basa su una vicenda politica e umana (vera) la pellicola non vuole essere un biopic, quindi inevitabilmente presenta alcune differenze con la realtà. Stefania ad esempio è sì presente, interpretata da Livia Rossi, ma il suo nome è stato cambiato (in Anita, da Anita Garibaldi passione del leader socialista). Anche suo fratello Bobo compare (gli dà il volto Alberto Paradossi): il suo rapporto con lo statista è molto più conflittuale. «La storia di mio padre non si può assorbire in due ore di cinema, ma la sceneggiatura tocca il cuore. Anche se non combacia con la realtà. Diciamo che Gianni Amelio s’è preso qualche licenza poetica. Per esempio su mia sorella: Stefania ebbe una forma di rimorso, per essere stata lontana in quegli anni, ma capisco che nel racconto il rapporto padre-figlia funzioni meglio» ha spiegato il politico al Corriere.
Essere Bettino Craxi. In "Hammamet", il nuovo film di Gianni Amelio, a interpretare il leader socialista è un impressionante Pierfrancesco Favino. Sul "Venerdì" del 3 gennaio una doppia esclusiva: le interviste all'attore e al regista. La Repubblica il 2 gennaio 2020. Per l'uscita di Hammamet, l'attesissimo film di Gianni Amelio sugli ultimi mesi di vita di Bettino Craxi, il Venerdì del 3 gennaio propone una doppia esclusiva: le interviste a Pierfrancesco Favino, che, a vent'anni dalla morte del leader socialista (19 gennaio 2000), lo interpreta nel suo momento più mesto, e al regista Gianni Amelio, che ha scelto di cimentarsi con un periodo della vita politica italiana che, anche dalle polemiche della vigilia, appare come una ferita ancora aperta. A Paola Zanuttini l'attore racconta le riprese sul set, nella villa tunisina della latitanza (“dell'esilio” ha sempre detto la famiglia Craxi): oltre cinque ore ogni giorno solo per truccarsi, con il risultato di una mimesi quasi perfetta. «Tanto che» dice Favino «quasi subito ho notato che nella troupe era nata una forma imbarazzante di riverenza: sull'autorevolezza non ho dovuto lavorare». Amelio spiega invece ad Arianna Finos di non avere voluto raccontare un politico all'apice del suo potere, «ma la parabola di un uomo sconfitto». E i figli di Craxi, Bobo e Stefania, come l'hanno presa? «Gli ho fatto leggere la sceneggiatura, spiegando loro che non avrei fatto né un santino, né un film fazioso. Si sono fidati». Segue una testimonianza: il racconto di Pino Corrias di un pomeriggio trascorso a Hammamet, nel 1996, per realizzare un servizio televisivo che poi non andò in onda perché Craxi pretendeva di decidere i tagli e di approvare il montaggio dell'intervista. «Ma aveva voglia di parlare» ricorda Corrias, «così si sedette e disse: “Ora ti racconto come stanno le cose”»: era un fiume in piena sui soldi e le tangenti, sugli amici diventati nemici, sul complotto degli americani e i “ricatti” di Mani pulite, «pieno di collera e di nostalgia» ma determinato a non chiedere né clemenza né grazia.
La pellicola su Bettino Craxi. Hammamet, un film bellissimo sul rapporto genitori-figli. Marco Palillo il 14 Gennaio 2020 su Il Riformista. Hammamet di Gianni Amelio è stato definito un film intimista, poco politico. È vero, la sceneggiatura non approfondisce il ruolo chiave di Bettino Craxi nella storia del Paese e della sinistra italiana, concentrandosi piuttosto sull’epilogo tragico della morte in terra straniera. A molti socialisti è sembrato un’opportunità mancata per fare un po’ di luce dopo decenni di mistificazioni e rimozioni. Eppure, a questi compagni vorrei dire, cosa c’è di più politico dell’esilio che Amelio rappresenta attraverso il linguaggio della drammaturgia classica? Una tragedia, quella di Craxi, che è sì intima e familiare, perfettamente catturata dall’interpretazione di Pierfrancesco Favino, ma che riguarda un’intera comunità rimasta orfana il 19 gennaio del 2000. Hammamet è, infatti, un grande film sui “figli” come testimonia il filo rosso che lega la figlia di Craxi con Fausto, il figlio del tesoriere del partito morto suicida a seguito di Tangentopoli. Di figli che si sono ritrovati senza padri (come quelli di Sergio Moroni). Di figli che hanno visto la loro casa in fiamme (per usare il linguaggio della tragedia classica caro ad Amelio). Di figli che non capiscono i padri (la scena più commovente del film è quando Bobo canta Piazza Grande al padre). Di figli a cui a scuola gli altri bambini dicevano: «Domani arriva Di Pietro e arresta tuo padre!». Di figli che hanno visto i padri lottare contro i mulini a vento pur di non perdere l’onore, la salute e in qualche caso anche la vita; come appunto Fausto, il personaggio che Amelio, fa finire non a caso in un ospedale psichiatrico. E allora va spiegato ai giustizialisti, ai moralisti e ai cinici azzeccagarbugli, che l’esilio, prima di essere una categoria del diritto, lo è sul piano simbolico per tutti i socialisti. Chi scrive è un “figlio” di socialisti, come molti altri. Troppo giovane per ricordare gli anni di Tangentopoli ma che è testimone delle conseguenze di quel periodo. Il senso d’impotenza nel vedere la propria memoria saccheggiata da chi invece era uscito sconfitto dal confronto con la Storia. L’umiliazione di sentirsi politicamente “apolide”, mentre a degli “scappati di casa” veniva affidato il compito di guidare questo Paese. È il dramma della diaspora socialista a cui ancora nessuno dei dirigenti della sinistra italiana post comunista ha voluto dare una risposta e su cui ancora molti banchettano. E infatti la sinistra democratica è minoranza nel Paese da oltre due decadi mentre la destra impera e si rafforza. Sarà perché come spesso ricorda Stefania Craxi la maggioranza dell’elettorato riformista non ha votato per i propri carnefici. Sarà perché i dirigenti socialisti, ovunque collocati, non hanno saputo attualizzare il patrimonio valoriale del socialismo democratico italiano, preferendo battaglie di testimonianza. Ecco perché il film di Amelio è il più politico che si potesse fare: perché svela gli effetti di quel clima di terrore, rappresentato dal cappio agitato in Parlamento da un parlamentare leghista, sulla vita privata dei militanti del Psi e delle loro famiglie. Il dolore che diventa una categoria politica a fronte della violenza subita. Una violenza che non può appartenere alla giustizia in uno stato democratico. Non c’è vittimismo in queste parole, ma una lucida e amara consapevolezza. A farne le spese ne è stato comunque il Paese. Il morbo del giacobinismo, che raggiunse il suo apice con il lancio delle monetine al Raphael, ha infettato ogni ambito della vita politica e sociale. Mentre da oltre vent’anni manca al dibattito pubblico una cultura autenticamente riformista. La demagogia, il conformismo e il dogmatismo regnano incontrastati, a destra come a sinistra. Sarebbe bello sperare nelle nuove generazioni, ma nessun riformista autentico si può macchiare della colpa più grave: l’ingenuità. Bisognerà dunque essere molto pragmatici senza alcun complesso d’inferiorità e continuare a parlare per chi non c’è più. Come la scena finale del film di Amelio, in cui una pietra squarcia il soffitto di cristallo, i “figli” continueranno a parlare per i “padri”.
Hammamet, il film su Craxi riapre il dibattito sul leader. Enzo Maraio il 10 Gennaio 2020 su Il Riformista. La “questione Craxi” non si è mai chiusa. E come tutte le storie che rimangono incompiute, vale la pena di rileggerla, anche dopo vent’anni. All’epoca, intellettuali, politici e giornalisti, la liquidarono con marginalità e moltissime amnesie. Un primo punto fermo. Craxi fu un leader del ‘900: ingombrante, molto discusso, aspramente criticato da quella sinistra berlingueriana che aveva esaltato il leninismo e che aveva, senza indugio, coltivato con feroce ostilità la figura riformista e decisionista di Craxi. La ferita – e l’errore storico – è che sia stato sommariamente liquidato – dagli stessi intellettuali che oggi riempiono pagine di giornali e interi talk televisivi – come caso giudiziario, e non politico. L’errore più grande. Perché di storia politica, invece, si tratta. La ferita, per chi come noi ha dovuto subìre vent’anni di damnatio memoriae, è ancora aperta. A vent’anni di distanza, con l’uscita del film di Gianni Amelio, Hammamet, tenendo lontana ogni forma di nostalgia, un sentimento che lasciamo a chi crede che il Psi sia rimasto sepolto nelle macerie di Tangentopoli, il Paese riscopre Craxi. Se lo fa riaprendo un nuovo processo oppure con una seria riappacificazione con la sua memoria e una dovuta revisione storica, questo non è ancora dato saperlo. Ciò che è innegabile è che Craxi diede una spinta innovatrice al Paese, di modernizzazione e coraggio: l’Italia era quinta potenza industriale nel mondo, oggi scivoliamo verso il decimo posto. Portò l’Italia nel novero delle grandi nazioni industrializzate, seppe interpretare i grandi cambiamenti nel Paese. Capì, con il piglio e la visione che gli erano propri, che c’era la necessità di adeguare il mercato del lavoro ai grandi cambiamenti della società industriale; fece grande l’Italia nel mondo, riaffermando la sovranità del nostro Paese nello scacchiere euro-mediterraneo. Sigonella fu uno dei pochi episodi di dignità nazionale: sfidò i grandi della terra: “alleati, non subalterni”. E poi le profezie sull’Europa, le migrazioni, la necessità di rivedere i parametri di Maastricht. E se la sinistra non capirà che questo è l’occasione per raccogliere l’eredità del riformismo craxiano, riapriremo il fronte alla destra populista, esattamente come avvenne vent’anni fa. I conti con la storia vanno sempre fatti. Il film in uscita e le celebrazioni ad Hammamet, probabilmente non produrranno una riabilitazione, ma non solleticherà neppure l’esigenza di chi ha archiviato il caso come appendice del malaffare della Prima repubblica. Di certo ha avuto il merito di aprire un dibattito, di parlarne e riflettere sull’errore storico che si aggira attorno alla sua figura. Ed è già un buon punto dal quale partire. Per tutti.
«Hammamet»: Craxi, una cinestoria più «vera» della storia. Il declino di un leader umano, troppo umano, nel nuovo film di Gianni Amelio con Piefrancesco Favino. Oscar Iarussi su La Gazzetta del Mezzogiorno il 10 Gennaio 2020. La cittadina tunisina Hammamet serba nell’etimo arabo l’hammam, il bagno o le terme, e Hammamet di Gianni Amelio è a suo modo un lavacro di storia patria. Da ieri nelle sale, il film arriva a vent’anni dalla scomparsa del leader socialista Bettino Craxi che, condannato in via definitiva per corruzione e finanziamento illecito del Psi, negli ultimi anni si stabilisce a Hammamet e vi muore quasi sessantaseienne il 19 gennaio 2000. Craxi è stato, fra il 1983 e l’87, il primo presidente del Consiglio di sinistra della storia repubblicana, ma fu anche un paladino del «decisionismo» riformista non più in soggezione nei confronti del Pci, con lo sguardo proteso verso altri orizzonti, il socialismo mediterraneo e l’America Latina. Tuttavia Craxi nell’immaginario collettivo resta l’emblema dell’arroganza e della rapacità castigate dalle inchieste giudiziarie su Tangentopoli. Il film ne sublima la dimensione tragica al centro di un intreccio pressoché scespiriano di potere, figli, amori, contumacia o «esilio»... Certo, nelle tumultuose stagioni di «Mani Pulite» la moralità e il moralismo, la legge e il giustizialismo, si confusero e si saldarono, mortificando la nozione stessa di Politica. Amelio scandaglia quel passaggio storico e lo fa nella chiave ricorrente nel suo cinema: il tormentato rapporto tra padri e figli (Colpire al cuore) e la condizione dell’orfano (Il ladro di bambini, Lamerica). La mancata elaborazione di un lutto - ammoniscono gli psicologi - agisce traumaticamente sul futuro. Quando oggi ci crucciamo dei populismi o dei rigurgiti fascisti, è forse alla fine della Prima Repubblica che dovremmo tornare per cercare di capire meglio. In Hammamet il protagonista è chiamato «il Presidente», ma è Craxi sin dalle prime immagini sul palco del congresso socialista dell’89 nell’ex fabbrica Ansaldo di Milano, dominato dalla «piramide telematica» dell’architetto Filippo Panseca, che nel finale del film tornerà a mo’ di scenografia onirica. Il Craxi di Hammamet è ormai lontano da quei fasti, dal trionfo del Garofano rosso, dall’esercizio di una sicumera rispetto alla quale - nell’Ansaldo - l’aveva messo in guardia l’amico e compagno interpretato da Giuseppe Cederna. Il figlio di quest’ultimo si chiama Fausto, come il ragazzo che denunciava il padre estremista rosso in Colpire al cuore (1983), ed è un personaggio immaginario concepito da Amelio con il co-sceneggiatore Alberto Taraglio. Fausto raggiunge il leader malato nella villa tunisina, forse per vendicarsi dopo il suicidio del papà, ed estrania il racconto dal recinto del melodramma di famiglia. Il suo è un punto di vista quasi documentario, giacché con una telecamerina raccoglie le confidenze craxiane, e nel contempo destinato alla follia, proprio di chi non riesce a elaborare il dolore della perdita, appunto. Film sul crepuscolo, sull’autunno di un patriarca, Hammamet è però solare, aereo, intenso, e tende un arco (anzi... una fionda, vedrete) tra l’infanzia e la morte con una fluidità drammaturgica di raro vigore. Orfani non sono soltanto i due figli del Presidente e in particolare Anita (il nome allude alla passione garibaldina di Craxi), amorevole fino al punto di condurre il padre dall’amante per uno struggente commiato. È il protagonista a essere orfano di una storia gloriosa che si disarticola nella colonna sonora di Nicola Piovani, in cui echeggia, dissonante e minimalista, l’Internazionale socialista e comunista ascoltata al principio del film. Ma Craxi è anche orfano del suo Paese, di Milano, dei genitori... Nell’epilogo vagamente felliniano (un po’ si aggroviglia), lo vediamo passeggiare a piedi nudi fra le guglie del Duomo ed è difficile non pensare a Moro-Herlitzka finalmente libero in Buongiorno, notte di Marco Bellocchio (2003). Il Moro che aveva detto «Non ci faremo processare nelle piazze» e che Craxi avrebbe voluto salvare trattando con le Br. Dopo Il traditore di Bellocchio (2019), Hammamet rincuora la rinascita di un cinema civile animato dal sentimento verso la nostra storia «profonda». Entrambi i film si giovano del talento straordinario di Pierfrancesco Favino, che qui è al culmine e non solo grazie alle protesi e al trucco. Lo spettatore di una certa età ritrova Craxi «vivo» sullo schermo, sebbene nella mimesi di Favino vi sia una sottilissima «distanza» che lampeggia in un movimento appena fuori tempo o in un segnale di desiderio nell’agonia del diabetico. È una microfisica del potere e del dolore (parafrasando Foucault) che rende il Presidente umano, troppo umano.
Hammamet, un grande Pierfrancesco Favino per un piccolo film. Superba la prova dell’attore che interpreta Bettino Craxi. Ma il resto lascia a desiderare. Fabio Ferzetti il 14 gennaio 2020 su l'Espresso. Il vecchio carroarmato è arenato nella sabbia africana dai tempi dell’ultima guerra. Imponente ma inoffensivo, trasmette una hybris luciferina e insieme una solitudine definitiva, minerale. Insomma è la perfetta metafora di quell’uomo malato e costretto all’autoesilio, un esilio che molti chiamano fuga. Così, davanti a quel residuato bellico il Presidente (nel film Craxi resta innominato) decide di parlare. Di raccontare tutto a quel ragazzo venuto da lontano per ucciderlo (Luca Filippi), a cui però non può non voler bene. Perché gli ricorda se stesso da giovane. Perché è il figlio di un vecchio compagno suicida (memorabile Giuseppe Cederna) che aveva intuito fin dall’inizio come sarebbe andata a finire. Perché ha occhi da angelo vendicatore e una pistola nello zaino. Oltre che una videocamera con cui riprende l’ex-leader. Anche se non sapremo mai cosa questo gli dica. In “Hammamet” infatti Amelio non vuole fare cronaca e neppure fantacronaca, bensì reinventare - poeticamente - gli ultimi mesi di un colosso caduto. Con poche concessioni alla scena politica di quegli anni (il 49° congresso del Psi, con lo schermo triangolare di Panseca un po’ Star Trek e un po’ Scientology). E molte scene che ricreano in chiave intimista la parabola del grande decisionista. Per cui Sigonella diventa un gioco di soldatini del nipotino, Tangentopoli una macchinazione, il Raphaël uno spauracchio agitato dai turisti. E Berlusconi appare solo in un vecchio tg, come un rimorso. Per alludere ai danni provocati dalle tv del Cavaliere, meglio una scena da “Secondo amore” di Douglas Sirk. Anche se sarà proprio un varietà stile Mediaset, beffarda nèmesi, a uccidere il Presidente. Il quale però, malgrado la superba prova di Favino e di tutto il cast, resta sempre un poco astratto. Un concentrato di grandezza e bassezze destinato a scontrarsi, come re Lear, con la figlia che vuole aiutarlo (Livia Rossi), o con l’ex compagno che ha deciso di collaborare coi giudici (Renato Carpentieri). E magari a sognare, fellinianamente, il padre scomparso (Omero Antonutti, alla sua ultima apparizione purtroppo). Ma anche a restare ostaggio di un film sempre un po’ troppo obliquo e calcolato per avvincere. Raccontare Craxi senza il craxismo era un’idea seducente. Ma per farne un personaggio a tutto tondo la cornicetta del discolo in collegio non può bastare.
Finita la condanna all'oblio. È il merito del film su Craxi. Roberto Chiarini, Sabato 11/01/2020, su Il Giornale. Abbiamo dovuto aspettare vent'anni perché nel muro della damnatio memoriae eretto attorno alla figura di Bettino Craxi si aprisse un varco. Abbiamo dovuto sperimentare che cosa significhi consegnare le redini del paese nelle mani di politici improvvisati per sentire la nostalgia dei politici d'antan. Abbiamo dovuto vedere l'Italia declassata a fanalino di coda dell'Europa per rimpiangere i tempi in cui era considerata la quinta potenza mondiale. Abbiamo dovuto aspettare il ventesimo della morte perché del leader socialista si tornasse a parlare, facendolo uscire dal cono d'ombra in cui è stato eclissato per questi lunghi anni. Lo spunto non è politico, ma cinematografico: è appena uscito nelle sale il film Hammamet, con un titolo che riconduce immediatamente al luogo d'esilio in terra tunisina, ultimo rifugio di Craxi. E questo non a caso! Il regista Gianni Amelio dedica solo pochi, rapsodici riferimenti, potremmo dire di rimando, alla sua opera di politico e di statista. Sono passaggi in cui emerge l'ossessiva, angosciosa e disperata ricerca da parte dell'ex leader, caduto in disgrazia, di trovare una ragione per la situazione in cui il suo partito e lui stesso si sono trovati, costretti a giustificare azioni e comportamenti davanti a un'Italia inferocita contro la classe politica. La diegesi filmica è tutta rivolta alla figura di Craxi negli anni del declino e della malattia; alla parabola che trasforma il primo presidente del consiglio socialista, nell'imputato per il finanziamento illecito del partito, esempio paradigmatico della corruzione politica. È stata, crediamo, una scelta felice per più ragioni. Risulta difficile pensare a un film incentrato sulla «narrazione» della sua politica, sebbene decisiva per quegli anni. L'aver privilegiato il risvolto privato della sua vita, in particolare dell'ultimo tempo, il più doloroso, ha conferito alla ricostruzione una tale drammaticità da suscitare nello spettatore un sentimento di umana compassione. È stato, questo, forse il modo migliore per non toccare direttamente il periodo di Tangentopoli che avrebbe suscitato nello spettatore un inevitabile e pregiudiziale cortocircuito, sovrapponendo il politico Craxi all'uomo nella memoria degli italiani. Qual è l'importanza di questo film, al di là del suo valore estetico? L'aver smosso un interesse che, ci auguriamo, porti a una revisione dei giudizi, spesso impietosi, e la fine della demonizzazione del leader socialista, per ora solo scalfita da una riabilitazione per lo più monca e spesso pronunciata solo a mezza voce. Il suo è forse l'unico caso nella lunga storia d'Italia di un politico di prima grandezza vittima di una damnatio senza appello per sé e per il partito di cui è stato leader. Sono stati numerosi i nostri governanti finiti in storie di corruzione e di sospetti finanziamenti illeciti (a cominciare da Francesco Crispi e Giovanni Giolitti), ma nella memoria dei posteri è rimasto il loro complessivo operato politico, non segnato dallo stigma di un'etica negativa. Altro è stato per loro il metro di giudizio: politico e non giudiziario. Risolvendo invece l'azione politica Craxi a mera storia criminale per aver fatto ricorso al finanziamento illegale del partito (pratica corrente dell'intero nostro sistema politico), significa anche piegare l'intera storia repubblicana a romanzo criminale, con buona pace delle conquiste economiche e politiche, in termini di benessere, di libertà e di democrazia, ottenute a partire dal 1945. La vera questione da porre, se almeno si vuole uscire dalle secche del giustizialismo e del moralismo, oggi imperanti, sarebbe un'altra: cercar di capire se Craxi fu solo il più corsaro dei praticanti di quell'illecita modalità di finanziamento, seguita dai partiti della Prima Repubblica; se la sua opera da leader del socialismo italiano e da presidente del consiglio fu positiva o meno ai fini della crescita economica e civile del paese e del consolidamento della democrazia italiana; se fu un aspirante dittatore o uno statista modernizzatore; se piegò il suo ambizioso disegno di ridimensionamento dei due maggiori partiti nazionali la Dc e il Pci al bisogno di arricchimento personale o si servì dei copiosi mezzi finanziari procuratisi col finanziamento illecito per coltivarlo. Sono questi i quesiti che ci sembrano degni di esser posti per storicizzare finalmente l'operato di un personaggio che, piaccia o meno, ha segnato nel profondo la recente storia politica nazionale. C'è bisogno di una verità che faccia bene non solo a Craxi, ma anche agli italiani.
Craxi redivivo grazie a Francesco Favino nell' "Hammamet" di Gianni Amelio. Ritratto intimo, romanzato e mai ossequioso di un leader caduto in disgrazia e prossimo alla fine. Un film che poggia interamente sulla performance stupefacente dell'attore protagonista. Serena Nannelli, Sabato 11/01/2020, su Il Giornale. Uscito in oltre quattrocento copie, "Hammamet" di Gianni Amelio racconta gli ultimi sei mesi di vita di Bettino Craxi, contumace nella sua villa-rifugio in Tunisia. Il film, arrivato a quasi vent'anni dalla morte del suo protagonista (l'anniversario sarà il prossimo 19 Gennaio), si astiene dal formulare qualsiasi giudizio di natura storica e politica. Non ci troviamo di fronte ad un'opera celebrativa o riabilitativa, bensì al viaggio nei tormenti di un ex-potente prossimo alla fine del suo cammino esistenziale. Girato nella vera residenza di Craxi a Hammamet, il film di Amelio non si schiera, limitandosi a narrare il crepuscolo di un'epoca attraverso quello che ne fu un simbolo. In veste politica vediamo Craxi soltanto nel prologo, prima dei titoli di testa, impegnato durante il 45° congresso socialista all'ex Ansaldo di Milano. Dopo di che Amelio ci catapulta nel 1994, anno dell'auto-esilio o latitanza (argomento controverso) con cui l'ex-leader del partito socialista si sottrasse alle condanne di corruzione e finanziamento illecito al partito. "Hammamet" è un film in cui i nomi sono evitati, una scelta elegante e piena di significato: Craxi è semplicemente "il Presidente", la figlia Stefania (Livia Rossi) è Anita (omaggio a Garibaldi, un mito per Craxi). La narrazione è romanzata, a tratti shakespeariana e riporta episodi veri ma si avvale anche di alcuni personaggi di fantasia, come quello di Fausto (il poco convincente Luca Filippi), inventato a tavolino dal regista e dal suo co-sceneggiatore, Alberto Taraglio, per scopi drammaturgici. Il ragazzo, ambiguo e inquietante, è il figlio di un compagno di partito suicidatosi a seguito di Tangentopoli, ma la sua non sarà l'unica visita in arrivo ad Hammamet, dove vedremo anche un vecchio avversario politico (Renato Carpentieri) e l'ultima amante storica (Claudia Gerini). Craxi è raffigurato come uno spirito inquieto, ostaggio di un orgoglio cocciuto, restio ad ammettere di aver commesso errori così come ad accettare di difendersi dentro un tribunale anziché soltanto in Parlamento. Servito e riverito ma anche rancoroso e claudicante, con una gamba che rischia di andare in cancrena per il diabete, il re nudo e tragico dipinto da Amelio sembra avere momenti d'entusiasmo solo davanti a un piatto di pasta. Debolezze, fantasmi interiori e contraddizioni sono in primo piano e restituiscono la sofferenza di chi, per conservare una parvenza di libertà, si condannò a quella che fu comunque una prigionia. L'attrattiva del film risiede quasi interamente nell'interpretazione monumentale di Pierfrancesco Favino. La sua è un'autentica mimesi vocale e gestuale. Il trucco prostetico frutto ogni giorno di cinque ore di lavoro è notevole, ma non sarebbe bastato a far rivivere Craxi se realizzato su qualcuno che non fosse anche in grado di appropriarsi del respiro, della camminata e dei convincimenti profondi di questa discussa figura. Ad appesantire la visione, invece, è una parte conclusiva, prolissa e stancante, in cui vengono inanellati più finali, uno meno riuscito dell'altro, in una deriva parzialmente onirica e non necessaria. Il film di Amelio non intende risarcire il politico Craxi, ma semplicemente contrastare la lunga rimozione collettiva di cui è stato oggetto negli ultimi vent'anni. L'importante pagina di storia italiana che egli contribuì, nel bene e nel male, a scrivere, resta soltanto sullo sfondo, forse per mancanza di coraggio, forse per un senso di rispetto nei confronti di un essere umano che non si intende giudicare, bensì osservare da vicino, attraverso uno sguardo filiale e pieno di pietas, in quella che fu la stagione finale e più dura della sua vita.
Hammamet, un super Favino è un Craxi tragico - Recensione. Gianni Amelio inquadra il politico del garofano rosso nei suoi mali fisici e interiori. Con venti minuti di troppo, ma con un grande attore. Simona Santoni il 10 gennaio 2020 su Panorama. Con l'indimenticabile interpretazione di don Masino Buscetta ancora nei nostri occhi, quella presenza ingombrante, la cadenza siciliana, il procedere lento ma inesorabile delle parole, Pierfrancesco Favino si trasforma ancora. Dopo Il traditore di Marco Bellocchio, il film più bello tra gli italiani del 2019 (secondo noi), ora l'attore romano è protagonista pieno e prepotente di Hammamet, dal 9 gennaio al cinema. E si trasfigura con sorprendente somiglianza in Bettino Craxi, riletto da Gianni Amelio a vent'anni dalla sua morte, avvenuta il 19 gennaio del 2000 nel suo esilio in Tunisia, ad Hammamet, appunto.
Amelio in uno sforzo super partes. C'erano una volta i garofani rossi, le vacche grasse, l'esuberanza di una politica italiana che vantava un Pil superiore a quello inglese. E c'erano le bustarelle. Quelle, ci sono ancora, ma all'epoca del Partito Socialista Italiano e di Craxi leader forte sembravano una novità e un malcostume esteso ma circoscritto. Ecco, con gli occhi di oggi, di chi sa che malcostume è tale sia oggi che ieri, ma che il giustizialismo e le forche sono sempre un male, con questi occhi che si sforzano di non guardare dall'alto di uno scranno, Gianni Amelio ci presenta oggi Bettino Craxi, interpretato da un Favino sfavillante. Il Bettino Craxi visto da Amelio è "presuntuoso, arrogante, cafone", come lo taccia con ironia il politico rivale ma non nemico che gli fa visita nella sua villa tunisina (interpretato con il suo consueto vigoroso smalto da Renato Carpentieri). È prepotente, a volte anche cattivo. E non ha troppa coscienza dei "peccati veniali" commessi. Però, sembrano così banalotti e triviali i turisti italiani che, riconoscendo Craxi nella loro visita ad Hammamet, lo insultano come se vedessero Satana.
I politici intelligenti e disonesti. Il ritratto di Craxi fornito da Amelio, in maniera indiretta, ci mette di fronte ai mali della politica contemporanea. Craxi trasuda sicurezza, a volte ha anche un linguaggio non da gentiluomo, ma rispetto ai politici che escon fuori dai social network oggi sembra sempre un signore. O meglio: la sua statura culturale emerge anche dalle piccole cose. I libri, i fogli sul tavolo, la lezione sulla spedizione dei Mille improvvisata al suo nipotino. La corruzione di certo era - ed è - il male. Ma, dopo Craxi, ci siamo dovuti abituare ad altri nuovi mali, tipo l'ignoranza e la stoltezza. Il Craxi di Favino, nella sceneggiatura scritta dallo stesso Amelio insieme al suo collaboratore Alberto Taraglio, dice: "L'intelligenza è un'arma a doppio taglio. Ma la preferisco. Che te ne fai della lealtà di uno stupido".
Favino, quanti Oscar se fosse americano. Pierfrancesco Favino merita un capitolo a parte. Si chiamasse Bradley Favino o simile, fosse statunitense e non italiano, oggi avrebbe in bacheca almeno un Oscar. Invecchiando, lui migliora. Sa essere cangiante, sa calarsi completamente. E sa far sprizzare di emozioni i suoi personaggi, anche sotto make up massicci. Anche nei silenzi. Semplicemente con la gestualità delle mani, gli sguardi traversi, il piegarsi del corpo pesante. Favino è uno dei più grandi attori che ci regala il cinema italiano contemporaneo.
Il trucco prostetico. Dopo aver tessuto le lodi del trucco prostetico di Pinocchio di Garrone, ora c'è da stupirsi di nuovo, per come Favino, incredibilmente, sia stato reso fisicamente simile - quasi identico - a Bettino Craxi. Il merito è da attribuire ad Andrea Lanza, prosthetic makeup designer. Bisogna ammetterlo: frequentemente ci si sofferma sul volto di Favino, per cercare di capire dove finisce lui e dove inizia il Craxi appiccicatogli sopra. A volte sembra di intuire dove cominci la calotta di silicone messagli in viso... Ma questo non inficia la concentrazione (cosa che invece non si può dire, ad esempio, per la Judy Garland di Renée Zellweger in Judy: lì Renée va in overdose di mossette e tic, tanto da distogliere spesso l'attenzione dalla storia e lasciarla attaccata alle sue mimiche facciali).
Quel commovente amore filiale. Stefania Craxi, la figlia di Bettino, è interpretata da Livia Rossi, che enfatizza un po' le emozioni tragiche ma riesce comunque a trasferire il giusto pathos al suo personaggio. Soprattutto, ben rappresenta l'amore tenace e protettivo di Stefania. È commovente ed eroico il suo arroccarsi attorno al padre, il re caduto che lei cura, serve, ama. Lei lotta per lui, con ostinazione, sopra a ogni diceria e verità. Bettino/Favino dice di lei: "Ogni volta che la guardo vedo il male che le fanno. Perché quel male arriva prima a lei". Nell'esilio dorato e dolente di Craxi in Tunisia, Amelio fa penetrare, di soppiatto, un personaggio di finzione disturbatore, Fausto, interpretato con troppa astrazione maledetta da Luca Filippi. E poi arriva sul posto anche l'amante: Claudia Gerini interpreta Patrizia Caselli, la conduttrice oggi 59enne ultima compagna dell'ex presidente del consiglio.
Quei 20 minuti di troppo. A conti fatti, quindi, Hammamet indovina molte cose: l'attore principale, il make up, il punto di vista. Ma... 126 minuti di durata pesano un po' sullo spettatore. I mali fisici e interiori di Craxi, che si proiettano a valanga su sua figlia, asciugati di venti minuti, probabilmente risulterebbero più efficaci e diretti.
Cosa ha detto Stefania Craxi del film. Stefania Craxi, oggi senatrice di Forza Italia, ha avuto parole abbastanza buone per Hammamet. "Certamente non è un grande affresco storico-politico", ha detto a L’Italia s’è desta su Radio Cusano Campus. "È un film intenso, che racconta una tragedia umana prima ancora che politica e Favino ricorda gli stilemi della tragedia classica. La verità di solito è più dura della fantasia, però un po’ di quella tragedia Gianni Amelio ha saputo riportarla e mi auguro che questo film riesca a far riflettere".
Sull'interpretazione di Favino, Stefania Craxi è favorevole: "Ha dato una prova d'attore degna dei grandi attori americani, dovrebbe vincere l'Oscar per questa interpretazione che è impressionante. Più che il timbro di voce mi ha impressionato la gestualità. Il carattere lo coglie in certi momenti, soprattutto nella seconda parte del film, all'inizio non l'ho riconosciuto, al congresso Craxi non avrebbe mai risposto in modo così sprezzante a un compagno. Mio padre aveva un tratto di durezza che nascondeva una timidezza, ma non è mai stato arrogante. Aveva anche degli scatti d’ira, ma arroganza mai, aveva una profondissima umanità e questa Favino ogni tanto la rende". La villa del film è la reale residenza tunisina di Craxi: "Ho concesso di girare il film lì, almeno la finiamo con questa storia della villa favolosa, perché era una casa normale". Normale, forse per persone normalmente ricche.
«Così ho trasformato Favino in Craxi»: i segreti del truccatore Andrea Leanza. Pubblicato mercoledì, 22 gennaio 2020 su Corriere.it da Rossella Burattino. Make-up artist, designer e prosthetic sculptor, Leanza ha realizzato con il suo team di 13 persone più di 500 protesi e 44 «facce» di Bettino Craxi, una per ogni giorno di lavorazione. «Gli attori sono pagati per aspettare». Pierfrancesco Favino cita Marcello Mastroianni in un video su Facebook. E lui, protagonista di Hammamet di Gianni Amelio, di pazienza ne ha portata parecchia per diventare fisicamente identico a Bettino Craxi. Quattro ore di trucco, più una dedicata a costume e ritocchi, ogni giorno per due mesi. Quasi «operazioni chirurgiche» a cui si sottoponeva, cominciando all’alba per essere pronto al primo ciak delle 9. A trasformarlo nel leader del Partito socialista è stato Andrea Leanza, make-up artist, designer e prosthetic sculptor. Trentotto anni, nato a Catania, è cresciuto nel Varesotto. «Le riprese del film sono state precedute da una lunga preparazione — rivela —. Io e il mio team del laboratorio di Saronno abbiamo realizzato una scansione della testa dell’attore e una stampa in 3 D del busto, poi abbiamo lavorato manualmente con resine e silicone. Infine, abbiamo creato dei negativi e colato al loro interno del silicone al platino per far calzare perfettamente le maschere. Un risultato ottimale si ottiene mediando tra somiglianza, mobilità facciale e morbidezza delle protesi per rendere naturali le espressioni del volto».
I ferri del mestiere: «Pennelli, pinzette, adesivi chirurgici e una colla usata in medicina che costa 600 euro al litro. Tutto è testato medicalmente per non rovinare la pelle. Le parti più delicate su cui applicare gli stampi sono gli occhi e il naso. Abbiamo ricoperto tutta la testa di Favino aggiungendo anche lobi, labbra e una dentiera. È stato un lavoro molto invasivo, ma lui è un grande professionista: preciso e paziente. Anche Amelio lo è stato: all’inizio ci aveva chiesto di far apparire più l’attore rispetto al personaggio, man mano ha cambiato idea e alla quinta prova trucco ha dato il suo ok». La prima settimana hanno girato a Legnano, poi, la partenza per la Tunisia. «La sveglia era alle 3 per iniziare con il trucco alle 4. In una scena al Duomo di Milano, invece, abbiamo cominciato a lavorare all’una di notte. Dopo, seguivo Pierfrancesco per i ritocchi a ogni ripresa. Un lavoro enorme, il più difficile che abbia mai fatto. Al mio fianco 13 persone tra cui, Federica Castelli, la key artist, che si occupava della precolorazioni e di inserire ogni volta con un ago 250 capelli veri sulla calotta cranica, le nostre assistenti, Elisabetta Zanieri e Denise Boccacci, che pulivano i pezzi che settimanalmente arrivavano dall’Italia e l’hair designer Massimiliano Duranti». I numeri: più di 500 protesi e 44 “facce” di Bettino Craxi, una per ogni giorno di lavorazione.
Andrea è un autodidatta: «Ho sempre avuto la passione di modellare, fare scherzi, confezionare costumi per Carnevale o Halloween — racconta l’artista —. A 12 anni usavo la cera del formaggio e il ketchup per mimare bolle e ferite. A 15 ho scoperto in edicola le videocassette “Magic movie” e mi sono reso conto di che cosa succede dietro le quinte del cinema. La prima vera maschera? Il gobbo di Notre-Dame per la compagnia teatrale amatoriale del mio professore al liceo». Grazie al passaparola ha fatto diventare la sua passione un mestiere. Nel 2005 è arrivato in televisione con «Sputnik» su Italia 1. Al cinema con il film «World War Z»: «Mark Coulier, il prosthetic designer, aveva chiamato a raccolta 35 truccatori di diverse nazionalità e 4 erano italiani, tra cui io. Un’esperienza stupenda ho imparato tantissimo. Ho vissuto a Londra tre anni. A inizio 2014 ho viaggiato per due anni in giro per il mondo dal Sudafrica alla Svezia. Nel 2016 ho aperto il laboratorio in Italia e nei momenti “liberi” insegno: ho più di 30 allievi sparsi per l’Europa».
«Hammamet» è il risultato di una grande squadra: «Non avrei mai potuto farcela da solo — afferma Leanza —. Ho provato emozioni fortissime e ricevuto tante soddisfazioni. Anche sotto il profilo umano. Inoltre, Favino si è preso cura di noi, ha sempre ringraziato il mio team in ogni intervista e non è scontato».
Originale e mai prevedibile nelle scelte. Ma questo colore di capelli? «Verde-blu pavone – sorride Andrea -, rispecchiano la mia personalità. Così sono riconoscibile tra la folla».
E Il Fatto stronca preventivamente il film su Bettino. Margherita Boniver il 31 Ottobre 2019 su Il Riformista. Sul Fatto Quotidiano di ieri una stroncatura preventiva di un film che esce a gennaio – Hammamet, lacrime d’autore (e di Stato) per un Craxi martire il titolo del pezzo – dà un bell’esempio di censura precoce, genere non si sa mai. Il film, firmato da Gianni Amelio e interpretato da Pierfrancesco Favino, verrà distribuito in concomitanza con una ricca serie di iniziative per il ventennale della morte di Bettino Craxi organizzate dalla Fondazione che porta il suo nome. La scelta degli autori di fare un ritratto di un uomo nella drammatica fase finale della sua vita causerà grandi sofferenze ai familiari e ai moltissimi che rimpiangono Craxi il politico. Lo statista socialista non fu mai sconfitto politicamente, ma abbattuto, sì, da una tempesta giudiziaria nel ’92-’93 che usò notoriamente due pesi e due misure, e che scelse l’eliminazione selettiva di cinque partiti politici che avevano governato l’Italia nel dopoguerra. Noi preferiamo ricordare Bettino per le sue straordinarie capacità e intuizioni, dall’installazione del sistema missilistico europeo a Comiso, dall’epopea di Sigonella, la battaglia vinta sul referendum sulla scala mobile, la campagna per salvare la vita di Aldo Moro, il sostegno solidale ai partiti socialisti in esilio durante le dittature in Spagna, Portogallo e Cile tra gli altri, le leggi su divorzio e aborto che portano le firme di socialisti illustri, le battaglie per la parità uomo/donna, una straordinaria politica con i Paesi del Mediterraneo che è scomparsa con lui, e molto altro ancora.
Marco Travaglio per “il Fatto quotidiano” il 9 gennaio 2020. Complice il film Hammamet di Gianni Amelio, è ripartita la rumba per la beatificazione del fu Bettino Craxi. Che poi, in realtà, è l' ennesimo, disperato tentativo dei politici ladri purtroppo viventi di autosantificarsi. Da vent'anni le provano tutte per cancellare le sentenze che lo issavano sul trono di Re di Tangentopoli. Ora, fallita l'Operazione Amnesia, si contentano di farci credere che sì, magari Craxi rubacchiava, ma fu comunque un grande politico moderno, uno statista europeo, un padre del riformismo e un leader innovatore. Ora, anche volendo giudicare l'ex segretario del Psi ed ex premier al netto delle mazzette (50 miliardi di lire scovati nel '93 da Mani Pulite sui suoi conti svizzeri, per tacere degli altri rimasti intatti in giro per il mondo), quello che emerge è un concentrato dei vizi e dei malvezzi della peggior politica, corresponsabile primario dei disastri che la Prima Repubblica ci ha lasciato in eredità. Durante i quattro anni del suo governo (1983-87) il debito pubblico passò da 400 mila a 1 milione di miliardi di lire e il rapporto debito-Pil dal 70 al 92%, di pari passo con l'impazzimento della spesa pubblica e dell' abusivismo selvaggio (anche grazie al suo mega-condono edilizio). Per il resto, il "riformismo" craxiano è una lunga galleria di orrori. In politica interna: la trattativa con le Br per liberare Moro contro la fermezza del fronte Dc-Pci-Pri; l'opposizione a ogni risanamento dei carrozzoni delle Partecipazioni statali, gestiti dai boiardi craxiani (Di Donna, Bitetto, Cagliari, Necci) come vacche da mungere a spese dello Stato con passivi miliardari; la feroce lottizzazione della Rai, l'attacco ai giornalisti e persino ai comici scomodi (da Alberto Cavallari a Beppe Grillo) e, sotto la presidenza di Enrico Manca, la pax televisiva con la Fininvest; i due decreti ad personam del 1985-'86 per neutralizzare le ordinanze dei pretori che pretendevano di far rispettare la legge all'amico Silvio e, nel '90, la legge Mammì, monumento al monopolio della tv privata; l'ostilità alle poche privatizzazioni giuste e necessarie (come quella della Sme, che produceva panettoni di Stato con voragini nei conti pubblici, tentata dall'Iri di Prodi nel 1985; e quella dell'Alfa Romeo, che Prodi nell' 86 voleva vendere alla Ford, mentre Craxi preferì regalarla alla Fiat); l' assalto alla Mondadori tramite l' apposito B., col contorno di tangenti ai giudici; l' ingaggio come consulente giuridico del giudice corrotto Renato Squillante, che garantiva i socialisti da indagini e arresti. E, in compenso, i primi attacchi politici ai migliori magistrati e i progetti piduisti per assoggettare le procure al governo. Il referendum del 1987 sulla responsabilità civile dei magistrati per intimidire quelli che già allora stavano scoprendo le mazzette craxiane. Il proibizionismo sul consumo delle droghe leggere, che portò all' assurda legge Vassalli-Iervolino. Le prime picconate alla Costituzione in nome di una "Grande Riforma" cesarista, affidata al fido Giuliano Amato e poi ripresa anni dopo da Berlusconi. La gestione satrapica del partito, con congressi plebiscitari e antidemocratici (quando Norberto Bobbio, nel 1984, denunciò la "democrazia dell' applauso" dopo la rielezione per acclamazione di Craxi al congresso di Verona, questi lo zittì sprezzante: "Quel filosofo ha perso il senno"). Il nepotismo sfrenato, che lo portò a piazzare il giovane figlio Bobo al vertice del Psi milanese e il cognato Paolo Pillitteri a sindaco di Milano. La repressione di ogni dissenso interno, culminata nella cacciata di Codignola, Bassanini, Enriques Agnoletti, Leon, Veltri e altri, bollati nell' 81 come "piccoli trafficanti della politica" e accusati di intelligenza col nemico (il Pci di Berlinguer) per aver osato sollevare la questione morale sullo scandalo Ambrosiano. Le porte spalancate a "nani e ballerine" dell' assemblea socialista. Le candidature in Parlamento di statisti del calibro di Gerry Scotti e Massimo Boldi. E, tutto intorno al Capo, preclari figuri da museo Lombroso come Larini, Mach di Palmstein, Tradati, Troielli, Raggio, Giallombardo, Parretti, Fiorini, Chiesa &C...Senza dimenticare i traffici con Gelli e Calvi e i rapporti persino con l' entourage di Epaminonda. Tutti personaggi piuttosto lontani dalla tradizione "riformista", tant' è che nella "Milano da bere" si diceva che il Psi era passato "da Turati a Turatello". In politica estera, si ricorda sempre Sigonella, dove nel 1985 Craxi si sarebbe opposto intrepido alla tracotanza di Reagan. In realtà sottrasse al blitz Usa i terroristi palestinesi che avevano appena sequestrato la nave Achille Lauro e assassinato un ebreo paralitico, Leon Klinghoffer, gettandone il cadavere in mare; si impegnò a farli processare in Italia; poi fece caricare il loro capo Abu Abbas su un aereo dei servizi segreti recapitandolo prima nella Jugoslavia di Tito e poi in Iraq, gradito omaggio a Saddam Hussein. Fu l' acme di una politica filoaraba e levantina che portò all'appoggio acritico all'Olp di Arafat (ben prima della svolta moderata), paragonato da Craxi addirittura a Mazzini in pieno Parlamento. Quanto all'europeismo craxiano, basta ricordare l' appoggio dato a regimi sanguinari e corrotti come quelli del tagliagole somalo Siad Barre in cambio di leggendarie ruberie sulla "cooperazione". E il capolavoro della guerra delle Falkland, nel 1982, quando Bettino si schierò col regime dei generali argentini (quelli che avevano fatto sparire migliaia di oppositori) contro la Gran Bretagna appoggiata da tutto l' Occidente. Ecco quel che resta, al netto delle mazzette, di Craxi. Lasciatelo riposare in pace, ché è meglio.
Roberto Faenza per “il Fatto quotidiano” il 10 gennaio 2020. L' articolo firmato da Marco Travaglio sul film Hammamet, che racconta il cosiddetto "esilio" di Bettino Craxi in Tunisia, induce a riflettere sul senso del cinema quando si avventura a ricordare personaggi controversi. In questo caso non è in discussione l' interpretazione di Pierfrancesco Favino, in stato di grazia, forse ancora più di quando ha interpretato il boss Tommaso Buscetta nel film di Marco Bellocchio Il traditore. Né è in discussione la regia di Gianni Amelio, uno dei nostri migliori registi. La questione è un' altra: è possibile raccontare la biografia di un malandrino senza cadere nell' agiografia? Lo stesso quesito si è posto all' uscita del film Il divo su Giulio Andreotti, firmato da Paolo Sorrentino, che a molti è parso più un peana che una critica alle sue imprese, come l' appoggio ad alcune consorterie in odore di mafia. Anche all' uscita dei film di Martin Scorsese sui protagonisti appartenenti alla criminalità italoamericana molti si sono chiesti se non fosse latente l' omaggio da parte di un regista cresciuto in una strada di Little Italy, Elizabeth Street, dove di mafiosi ne poteva incontrare tutti i giorni, magari dovendo stringergli la mano. Lo stesso The Irishman, il suo film per Netflix, ripropone l' antica querelle: critica o tributo alle gesta dei gangster più efferati? Come non appassionarsi alle imprese di Robert De Niro o del suo mentore Joe Pesci, un formidabile interprete che anche quando ammazza e fa ammazzare ti induce a pensare solo a quanto è bravo e non a quanto è scellerato. Qualcosa di simile è accaduto anche quando, alcuni fa, in Germania è stato realizzato un film sugli ultimi giorni di Hitler. Titolo La caduta. Protagonista un meraviglioso Bruno Ganz, scomparso da poco. Così bravo, così credibile, così appassionato, che alla fine pensi a Hitler come a uno psicopatico che avrebbe avuto bisogno di cure anziché trovare la morte nel bunker. Delle gesta del leader del Partito socialista, Travaglio ha dipanato una sequela impietosa e non mi sembra ci sia da discutere. Si tratta di fatti, date e avvenimenti che ormai appartengono alla storia. Il problema è se il cinema, nel momento in cui si cimenta con personaggi reali, sia in grado di essere obiettivo oppure no. Ho avuto occasione parecchi anni fa di conoscere Bettino Craxi nel suo regno romano all' Hotel Raphael, quando insieme a un suo sodale, Massimo Pini (che conoscevo in quanto editore di un mio libro), mi fu proposto di realizzare un film sul Partito comunista di allora, ovviamente critico, che sarebbe servito al Psi per farne buon uso. Venivo dal successo di un film satirico e impietoso sulla Democrazia Cristiana, Forza Italia! (sceneggiato da Antonio Padellaro e Carlo Rossella) e l' idea del leader socialista era di fare altrettanto nei confronti del Pci. Risposi "no grazie", non perché pensassi che alcune esecrabili gesta di quel partito non meritassero un film, ma perché non sono solito lavorare per conto terzi. Anni dopo, quando Craxi era ormai fuori dai giochi, mi fu proposto da alcuni suoi amici di realizzare un film sull' esilio tunisino. Di nuovo rifiutai per le stesse ragioni. Ora il film è stato fatto e secondo me è comunque un bene, perché serve a discutere su un personaggio, che di certo non è passato inosservato. Anche in questo caso l' attore che lo interpreta è così bravo che mentre lo guardi non ti viene in mente che si tratta comunque di un politico fuggito per non farsi processare. Craxi si autoassolve, sostenendo con fierezza che se ha rubato ha fatto né più né meno come tutti gli altri colleghi seduti in Parlamento. Aggiungendo che, stando così le cose, non si sarebbe fatto giudicare da tribunali altrettanto corrotti o corruttibili. Mio Dio, ma vi sembra la giustificazione di uno statista? È come se approvassimo un ladro o un assassino che si oppone all' arresto perché in giro ci sono molti altri simili a lui.
Giuseppe Pipitone per ilfattoquotidiano.it il 12 gennaio 2020. “Questa prendila tu, perché se la prendono loro ci sporcano il nostro Paese”. “Questa” è una videocassetta in cui Bettino Craxi racconta la sua verità. “Cose – dice – che tutti gli altri non sanno, cose che neanche immaginano”. E dunque se la verità indicibile dell’ex presidente del consiglio fosse stata diffusa non si sarebbe fatta luce su uno dei periodi più controversi della storia recente. No, si sarebbe “sporcato il Paese“. Finisce così Hammamet di Gianni Amelio, il film sugli ultimi sei mesi di vita di Craxi. Un lavoro molto atteso a vent’anni esatti dalla morte dell’ex leader del Psi. Non potrebbe essere altrimenti visto che si tratta dell’uomo-simbolo di Tangentopoli. Nel film di Amelio, però, non ci sono mazzette o bustarelle, o almeno non si vedono. Il Craxi del regista calabrese non gestisce denaro, anche se vive in una villa guardato a vista da una dozzina di uomini armati, che evidentemente paga di tasca sua. Amelio cita un paio di volte le due condanne definitive inflitte al protagonista, le ombre delle tangenti e di Mani Pulite fanno capolino sullo sfondo della villa tunisina, ma il problema è che a parlarne è sempre solo lui: Pierfrancesco Favino trasfigurato nei panni del segretario del Psi. L’imputato giudica se stesso e pare assolversi con formula piena. “Prendevamo i soldi per il partito“, dice Favino/Craxi a un vecchio politico democristiano non meglio identificato che va a trovarlo ad Hammamet. “Sì, rubavamo per il partito ma qualcosa attaccato alle mani ci è rimasto“, replica quello. Stop: nel film di Amelio manca qualcuno che spieghi agli spettatori – magari a quelli più giovani – come quelle mazzette non servissero soltanto per finanziare i partiti ma rimanessero soprattutto attaccate alle mani di chi le prendeva. Le tangenti non erano un “peccato veniale“, come le definisce lo stesso Craxi immaginato da Amelio, ma hanno portato il Paese al tracollo facendo esplodere il debito pubblico e costringendo il governo di Giuliano Amato a fare una manovra da 93mila miliardi, a riformare le pensioni, a prelevare il 6 permille dai conti correnti dall’italiani. Si dirà: Hammamet è un film, non è un documentario né un’inchiesta giornalistica. Vero, ma la sensazione che si ha alla fine del film è di compassione per uno statista dimenticato e tradito dal Paese che ha servito. Un uomo costretto a morire in esilio. Anche se era una latitanza. Per questo motivo, è forse il caso di ricordare due o tre fatti che dal film di Amelio non si percepiscono per il semplice fatto che non ci sono. Il 19 gennaio del 2000, al momento della morte, Craxi non aveva sulla testa solo “due pesanti condanne che considero ingiuste” (come le definisce il Bettino interpretato da Favino). Si tratta di due sentenze definitive per corruzione e finanziamento illecito a un totale dieci anni di carcere: aveva preso cinque anni e mezzo nel processo per le tangenti Eni-Sai, quattro anni e mezzo per quelle della Metropolitana milanese. In quel momento, però, erano in corso altri procedimenti che vennero estinti per “morte del reo“. Erano quattro in totale e tre si erano già conclusi con condanne: a tre anni per finanziamento illecito (la cosiddetta Maxitangente Enimont), cinque anni e cinque mesi per corruzione (tangenti Enel), cinque anni e nove mesi per il bancarotta fraudolenta (il conto Protezione). In primo grado, invece, Craxi era stato stato condannato – insieme a Silvio Berlusconi – al processo All Iberian: i reati accertati si prescriveranno poi in Appello e quindi in via definitiva in Cassazione. È un procedimento che al suo interno contiene una serie di smentite a quanto affermato dal leader del Psi: non è stato condannato solo perché “non poteva non sapere”, ma sapeva tutto benissimo, non rubava per il partito, ma soprattutto per sé e per le persone a lui vicine. Come hanno ricostruito Peter Gomez, Marco Travaglio e Gianni Barbacetto nel libro Mani Pulite, 25 anni dopo (Paper First) indagando sui soldi di Craxi i pm hanno accertato l’esistenza di 150 miliardi di lire, movimentati da diversi prestanome. Uno si chiama Giorgio Tradati, era un suo compagno di scuola e sul conto Constellation Financiere e Northern Holding riceve tra il 1991 e 1992 ventuno miliardi di maxi tangente versata da Silvio Berlusconi dopo che la legge Mammì salva le reti Fininvest. Tradati ha raccontato ai pm che tutto era cominciato “nei primi anni ’80” quando “Bettino mi pregò di aprirgli un conto in Svizzera. Io lo feci, alla Sbs di Chiasso, intestandolo a una società panamense. Funzionava così: la prova della proprietà consisteva in una azione al portatore, che consegnai a Bettino. Io restavo il procuratore del conto“. Su quel conto arriva un fiume di denaro: nel 1986 erano già 15 miliardi. Poi i conti si sdoppiano: nasce International Gold Coast, affiancato da Northern Holding, messo a disposizione da Hugo Cimenti. “Per i nostri – risponde Tradati – si usava il riferimento ‘Grain’. Che vuol dire grano“. Quindi scoppia Mani Pulite. “Il 10 febbraio ‘93 – continua Tradati – Bettino mi chiese di far sparire il denaro da quei conti, per evitare che fossero scoperti dai giudici diMani pulite. Ma io rifiutai e fu incaricato qualcun altro: so che hanno comperato anche 15 chili di lingotti d’oro…I soldi non finirono al partito, a parte 2 miliardi per pagare gli stipendi”. Sono le paghe dei giornalisti dell’Avanti!. A cosa servì il resto dei soldi? “Che cos’erano tutti quei prelievi dai due conti svizzeri di Craxi?”, domanda il pm Di Pietro a Tradati. Che risponde: “Anzitutto servivano per finanziare una tv privata romana, la Gbr della signora Anja Pieroni“. “Ma coi soldi di uno dei due conti in Svizzera ci hanno pure comperato case?”. E Tradati: “Un appartamento a New York“. Per il partito? “No di certo“. E con l’altro conto svizzero? “Un appartamento a Barcellona“. La ricostruzione della procura è stata riconosciuta come provata dai giudici del processo All Iberian, sia dal Tribunale che da quelli della corte d’appello di Milano, ed è stata poi confermata dalla Cassazione. Scrivono i giudici del processo di secondo grado che “Craxi dispose prelievi sia a fini di investimento immobiliare (l’acquisto di un appartamento a New York), sia per versare alla stazione televisiva Roma Cine Tv (di cui era direttrice generale Anja Pieroni, legata a Craxi da rapporti sentimentali) un contributo mensile di 100 milioni di lire. Lo stesso Craxi, poi, dispose l’acquisto di una casa e di un albergo (l’Ivanhoe) a Roma, intestati alla Pieroni”. Alla donna Craxi fa pagare anche “la servitù, l’autista e la segretaria”. Il leader del Psi dice a Tradati che bisogna “diversificare gli investimenti”. Il suo ex compagno di scuola eseguiva. Dalle indagini risultano diverse “operazioni immobiliari: due a Milano, una a Madonna di Campiglio, una a La Thuile“. E poi un prestito di 500 milioni per il fratello di Craxi, Antonio e per sua moglie Sylvie Sarda. Insomma non erano solo soldi rubati per finanziare i partiti. Le sentenze smentiscono anche un’altra affermazione ripetuta più volte dai fedelissimi di Craxi e contenuta anche nel film, e cioè quella del leader del Ps condannato solo perché “non poteva non sapere”. Nella sentenza All Iberian si legge: “Craxi è incontrovertibilmente responsabile come ideatore e promotore dell’apertura dei conti destinati alla raccolta delle somme versategli a titolo di illecito finanziamento quale deputato e segretario esponente del Psi. La gestione di tali conti…non confluiva in quella amministrativa ordinaria del Psi, ma veniva trattata separatamente dall’imputato tramite suoi fiduciari… Significativamente Craxi non mise a disposizione del partito questi conti”. Ma non solo. “Non ha alcun fondamento – continua la corte d’Appello – la linea difensiva incentrata sul presunto addebito a Craxi di responsabilità di ‘posizione’ per fatti da altri commessi, risultando dalle dichiarazioni di Tradati che egli si informava sempre dettagliatamente dello stato dei conti esteri e dei movimenti sugli stessi compiuti“. Altra convinzione dell’ex leader del Psi, contenuta anche in Hammamet, è che le condanne fossero legate a una sorta di vendetta nei suoi confronti. La corte europea dei diritti dell’uomo, interpellata dai legali dell’ex presidente del consiglio, non la pensa allo stesso modo. Il 31 ottobre del 2001, come ricordava Travaglio qualche tempo fa, i giudici di Strasburgo scrivono: “Non è possibile pensare che i rappresentanti della Procura abbiano abusato dei loro poteri”. Anzi, il procedimento “seguì i canoni del giusto processo” e le accuse ai giudici “non si fondano su nessun elemento concrete. Va ricordato che il ricorrente è stato condannato per corruzione e non per le sue idee politiche“. Non si sa se “sporca” il Paese, ma è una differenza fondamentale.
Ordine dei giornalisti, perché Travaglio è intoccabile? Redazione de Il Riformista il 22 Gennaio 2020. Vi ricordate quella storia della patata bollente? Era un titolo goliardico e, a nostro parere, molto volgare, che campeggiava un paio d’anni fa sulla prima pagina di Libero. Si riferiva alla sindaca Raggi. Secondo la direzione del giornale non era malizioso, voleva solo segnalare che la Raggi era nei guai, per motivi giudiziari e sentimentali. In realtà il doppio senso era indiscutibile, e il riferimento sessuale e anche antifemminista era piuttosto evidente. Noi del Riformista troviamo che sia sempre sbagliato reagire a quelli che consideriamo errori o cadute di stile o – persino – mascalzonate, con le querele, le iniziative della magistratura, le censure dell’Ordine dei giornalisti. E invece il povero Piero Senaldi, direttore responsabile di Libero, si è trovato in mezzo a un sacco di guai, perché la Raggi lo ha querelato, lui è finito sotto processo penale e in più l’Ordine dei giornalisti lo ha censurato e ha respinto il suo ricorso contro la censura. Reprobo, reprobo, reprobo. Vabbè. Ora però una domanda piccola piccola vorremmo porla all’Ordine dei giornalisti: ma l’avete vista la vignetta del Fatto quotidiano on line nella quale si sostiene che Craxi deve mettere la faccia nella merda e tenercela per tutta l’eternità, e stare nudo per tutta l’eternità, e tenersi anche una carota nel sedere perpetuamente? Vi sembra meno volgare e offensiva di quel titolo di Libero? Possiamo sapere se immaginate che il Fatto quotidiano dovrà subire le stesse traversie di Libero, o se invece esiste uno statuto speciale per il quale se un giornale è molto molto amico dei magistrati può avere un trattamento di favore? P.S. Posta questa domanda, aggiungiamo che a nostro giudizio sarebbe invece più logico abolire le censure per tutti, persino per chi fa quelle vignette su Craxi che dimostrano una capacità modestissima di usare il cervello. Per la verità non saremmo neppure molto contrari all’abolizione dell’Ordine dei giornalisti. Ma questa è una discussione seria che è meglio non mescolare con le oscenità infantili del Fatto.
Marco Travaglio ce l’ha piccolo…Tiziana Maiolo il 16 Gennaio 2020 su Il Riformista. Una volta molti anni fa, quando non esistevano i social e comunque lui non lo conosceva nessuno, avevo scritto da qualche parte “Marco Travaglio ce l’ha piccolo”. Naturalmente non parlavo del cervello e neppure di quella cosuccia cui potrebbe alludere un pensiero malizioso. No, il mio cruccio era determinato dall’impossibilità di poter incrociare le spade con una persona così priva di senso dell’umorismo. Perché “ce l’ha piccolo”. E, poiché si sa che quel che distingue l’uomo dall’animale non è l’intelligenza ma l’ironia, possiamo stabilire, al di là di ogni ragionevole dubbio, che Marco Travaglio è molto intelligente. Val la pena (oddio, ho detto pena!) leggerlo ogni giorno. Con grande generosità e sprezzo del pericolo elargisce condanne, manette, carcere e pena capitale. Usa il sarcasmo, parente povero e frustrato dell’ironia. Prendiamo ieri, quando ha attaccato a testa bassa il Potente di turno, cioè il presidente del consiglio. Prima di capire se parlasse del Conte due (cioè l’attuale premier) o del Conte uno (il precedente) abbiamo dovuto rileggere due volte, nel dubbio che forse con lo sguardo all’indietro stesse distruggendo Gentiloni o Renzi. Macché, il Nostro stava coraggiosamente infilzando il potente di trent’anni fa, infatti chiama Bettino Craxi “il Buonanima”. Così, tanto per essere sicuro che sia morto davvero, che sia stato condannato davvero, che sia stato sconfitto e sputtanato davvero. Che sia tutto così definitivo e che altri abbiano preceduto il direttore del Fatto nella tragica gogna mediatico-giudiziaria che ha perseguitato Craxi nel suo esilio ad Hamammet. Gli dà fastidio il fatto che, nel ventennale della morte, si parli di un grande statista che fino all’ultimo seppe lanciare nel programma di governo la modernizzazione come flessibilità nei rapporti con i cittadini, con le attività produttive, con la vita sociale. Un uomo di cui è impossibile dimenticarsi. In positivo, ormai quasi da parte di tutti. Tranne quelli del triste capannello in cui Travaglio si accompagna a Davigo. Ogni giorno parla di catene, la grande ossessione del piccolo Travaglio. Così, se viene annunciata la pubblicazione postuma di un noir scritto di suo pugno dallo stesso ex segretario del Psi, non si può che chiamarlo “romanzo d’evasione”, in modo che lo stupido lettore sia indotto a immaginare una lima infilata tra le sbarre di una cella. Se poi il libro viene pubblicato dalla principale casa editrice italiana non è per meriti e neanche (paradossalmente) per appoggi politici, ma per complicità nei reati più turpi tra lo scrittore e l’editore: “Pubblicato da Mondadori, e da chi se no?”. Un bell’articolo 416 (e aggiungiamoci anche il bis, per non farci mancare niente) del codice penale, che accomuna nell’associazione anche il Corriere, reo di aver pubblicato uno stralcio del testo, e il Messaggero che ne ha fatto la recensione. Senza dimenticare la Stampa, messa al rogo per aver notato che il Pd sarà l’unico assente alla commemorazione ad Hammamet. E il povero “compagno” Giorgio Gori, trafitto più di san Sebastiano, non tanto perché estimatore di Craxi quanto perché ex dirigente Fininvest, quindi anche lui facente parte del 416 bis. Naturalmente il libro, non essendo stato scritto da Travaglio né da Gomez o da altri nerboruti ragazzotti amici loro, è una cialtronata, mal scritto, “una cagata pazzesca”. Giù le mani dal senso dell’ironia di Fantozzi, per favore. Lui non ce l’aveva di certo piccolo.
Casini: “Hammamet ricostruzione condivisibile, Craxi uomo retto”. Antonio Selvatici l'11 Gennaio 2020 su Il Riformista. Hammamet va visto. E sentito. Perché è un film che fa riflettere, colpisce e lascia il segno. Finzione e realtà si sovrappongono e si confondono anche senza l’utilizzo né d’immagini di repertorio, né facendo utilizzare agli attori il nome di battesimo dei veri protagonisti. Probabilmente sarebbe stato semplice e banale sentire Bettino chiamare e discutere con l’adorata figlia chiamandola Stefania. Sarebbe stato comodo riprodurre le immagini delle folle osannanti, ammassate nei, tanto strabordanti quanto opulenti, congressi politici dove le pareti erano segnate dai garofani rossi. Tecnicamente è un film magistralmente interpretato da Pierfrancesco Favino diretto da un esperto e competente Gianni Amelio, ottima Livia Rossi che ben incarna l’ansia e l’affetto di Stefania Craxi verso il padre malato, insofferente a volte prepotente e scorbutico. Bravi gli attori, bella la fotografia, ottima l’idea di girarlo nella casa-prigione della famiglia Craxi di Hammamet. I detrattori, i volta gabbana, gli inquisitori, il folto popolo frequentatore dei Bar Sport con lo stecchino stretto tra i denti, i nani e le ballerine sembra possano dormire sonni tranquilli: ora si può nominare Craxi. Uscire dal cinema e fermarsi sul marciapiede al freddo, a parlare di Craxi non è stato un tabù. Probabilmente, come già detto la parte artistica è da elogiare, il merito che si deve al film Hammamet è, e sarà, quello di stimolare un dialogo liberatorio. Non a caso il film è uscito pochi giorni prima il cadere del ventesimo anniversario della morte del leader socialista. Ora, tutti, anche chi soffre di tremende e ingiustificate pudiche timidezze può parlare di quel periodo storico, di cui ora siamo figli, che ha cambiato il corso della politica italiana. Si può finalmente dire che Bettino Craxi è stato un grande politico, prepotente, ma decisionista. E’ stato l’uomo politico coraggioso fino al punto di mandare i Carabinieri alla base aerea di Sigonella a fronteggiare i militari statunitensi (nel film la cosa viene proposta in modo originale attraverso il nipote, figlio di Stefania che giocando sulla sabbia simula al nonno innocentemente l’affronto), azione che provocò un inedita esplosione di orgoglio nazionale. Il messaggio politico che Bettino Craxi ripete più volte nel corso del film è quello che si era sentito alla Camera dei Deputati e anche, in parte, nel corso della deposizione al processo Enimont. Chi non ricorda il Segretario del Psi che stimolato dal pubblico ministero Antonio Di Pietro in aula al Tribunale di Milano con lucidità ammette come «da decenni tutto il sistema politico aveva una parte del finanziamento irregolare o illegale. Non lo vedeva solo chi non lo voleva vedere e non ne era consapevole solo chi girava la testa dall’altra parte». A Roma, alla Camera, aveva sfidato tutto l’emiciclo: «Non credo che ci sia nessuno in questa aula responsabile politico di organizzazioni importanti che possa alzarsi e pronunciare un giuramento in senso contrario a quanto affermo, perché presto o tardi i fatti s’incaricherebbero di dichiararlo spergiuro». Quella volta nessuno s’alzò, ma Craxi commise un errore. Quelli che genericamente aveva definito come “i fatti”, sfiorarono o ferirono lievemente procurando solo una manciata di giorni di prognosi o non colpirono affatto tutti i partiti della cosiddetta Prima Repubblica. Questo aspetto emerge chiaramente anche nel film. Più volte viene citato il “sistema”, perché Craxi sapeva e tutti sapevano che si trattava di un sistema che coinvolgeva tutti i partiti. Il protagonista imprigionato nella bella casa –prigione tunisina cita i finanziamenti al Pci provenienti da Mosca, tutti sapevano ed ora l’apertura degli archivi dei Paesi dell’Est confermano quanto inutilmente detto. Curiosamente tra gli spettatori alla proiezione del film Hammamet anche Pierluigi Casini: «Il film mostra il tratto umano di Craxi. Mi sembra una costruzione reale fatta in modo interessante e abbastanza condivisibile. Per chi l’ha conosciuto Craxi aveva l’ossessione del Pci e della Dc, voleva essere politicamente autonomo e il finanziamento era un mezzo per esserlo». L’ex Presidente della Camera riconosce «La grande umanità e rettitudine di Craxi».
Marco Giusti per Dagospia l'8 gennaio 2020. Nostalgia di Bettino. È già divisivo il film che Gianni Amelio regista e Agostino Saccà produttore hanno dedicato agli ultimi giorni di Bettino Craxi, Hammamet. È di destra, è di sinistra, è troppo craxiano, troppo poco... Aiuto! Finisce come per Tolo Tolo, ma con vecchi rancori che tornano a galla. A Milano, ai vecchi compagni di partito rimasti, è piaciuto, a Roma, dove il craxismo era meno dilagante, molto meno. Personalmente ho trovato adorabili i tre riferimenti cinematografici presenti nel film a tre capolavori del nostro 900 cinematografico firmati Anthony Mann, Jacques Tourneur e Douglas Sirk. Ho trovato elegante la regia, strepitoso Favino e giusta la chiave di Gianni Amelio di farne appunto un racconto di coerenza politica e morale del tardo 900, in questo il Craxi di Favino vale un James Stewart o un Robert Mitchum. Rispetto alla scarsa coerenza politica e morale, poi, dei personaggi politici che abbiamo avuto dopo...Lo stesso Berlusconi, anche se non nominato nel film, fa una pessima figura e riceve un commento feroce da Craxi. Non avendo a sua disposizione una vera storia, in fondo abbiamo di fronte a noi il Craxi Napoleone del suo esilio in attesa di un cambiamento che non verrà, e potendo solo permettersi una serie di episodi più o meno ispirati alla realtà, l'incontro con un vecchio avversario politico amico, Renato Carpentieri, l'incontro con la sua ultima amante, Patrizia Caselli. Amelio e il suo sceneggiatore, Alberto Taraglio, sono costretti a inventarsi un meccanismo narrativo, un personaggio di fantasia che possa portare avanti il racconto. È il giovane Fausto, Luca Filippi, figlio di un compagno di partito, Giuseppe Cederna, che all'inizio del film, alla fine del congresso trionfale di Milano all'Ansaldo, si permette di attaccarlo proprio sui punti che lo porteranno alla rovina politica. Come il diabete, che lo consumerà nel fisico, anche la persecuzione dei magistrati, giusta o sbagliata che fosse, gli starà addosso anche nel suo esilio come una malattia inguaribile. Nel continuo rantolo del respiro del Craxi di Favino senti la fatica del dover sopportare continuamente questi pesi. Quello che ci presenta Amelio è un politico di alta statura che non vuole né arrendersi né rinnegare la propria storia, che vede chiaro il progetto politico e che per perseguirlo ha considerato peccati della politica quelli che la magistratura e l'opinione pubblica vede come ladroneggio. Aver girato il film nella stessa villa di Craxi, nelle vere strade di Hammamet, con l'aiuto evidente della famiglia, e con l'occhio attento di un regista che sa muoversi nelle leggende cinematografiche del passato, fa di questo Hammamet un viaggio commosso nella storia recente italiana e se non un risarcimento, almeno un civile e sentito omaggio alla coerenza di un politico che non si è mai piegato ai venti del momento e alle facili giravolte. Magari avremmo voluto un film ambientato in altri anni del craxismo, ma la scelta di Amelio ci riporta a una brutta pagina della nostra storia e ci sembra che l'abbia trattata senza livori o risentimenti. Favino è bravissimo a muoversi e a parlare come Craxi, anche se non sempre il trucco funziona perfettamente. Ma anche in quei casi riesce sempre a ragionare sul personaggio.
Filippo Facci per “Libero quotidiano” il 9 gennaio 2020. Dio, che occasione persa. È terribile assistere ai primi tentativi di storicizzare qualcosa che hai fatto in tempo a vivere: bisognerebbe morire prima. Poi ti diranno che no, sbagli, l' aspettativa era fuori luogo, non voleva essere «un film storico o un pamphlet»: e infatti nessuno ha capito che cosa voleva essere il film Hammamet di Gianni Amelio. Davanti al cinema Anteo, ieri mattina, dopo la prima milanese, c' erano craxiani di provata fede (anche parenti) che si guardavano negli occhi come in preda a un imbarazzo annichilente, incapaci di proferire verbo perché consapevoli che ogni critica o lode al film - ogni stroncatura o esaltazione - sarebbe parsa scontata, fisiologica, preconcetta: e però nessuno si aspettava che il film potesse rivelarsi così brutto. Proprio brutto oggettivamente, tecnicamente, di una noia cosmica, ipnotica, incapace di catturare anche il più feticista di cose craxiane o politiche, da seccare un fan di Tarkosvky, una ridondanza di fiction inafferrabile attorno all' unico perno interessante e iper-realista: Bettino Craxi, personaggio storico mai nominato in tutto il film e circondato da mezze figure mai sviluppate e malissimo recitate, tipo una moglie di sconcertante banalità, disinteressata a tutto, poi una figlia nevrotica e ancillare, un figlio ingrullito e inane, un politico turista d' inesistente fattura (un po' comunista, un po' cattolico, un po' furfante, un po' moralista: somma zero) più un' amante didascalica e da motel, e - il peggiore - un ragazzetto monocorde e improbabilissimo che trascina penosamente per tutto il film la storia di suo padre socialista - il depressivo Antonio Cederna - che non interessa a nessuno, come tutto ciò che non sia lui, l' innominato. Ma passiamo alle cose belle, oltre alla musica discreta e incisiva di Nicola Piovani e all' ambientazione fedelissima nella vera casa craxiana di Hammamet, concessa dalla famiglia in sfida alla buona sorte. Anche perché la cosa bella è una sola, e ovviamente è lui, Pierfrancesco Favino, di una bravura impressionante (tutti d' accordo) col suo makeup prostetico ma soprattutto con una voce che sembrava Craxi in ogni registro, così come lo sembrava nelle posture soprattutto da seduto, nella «zoppicata» caracollante e nelle movenze sin troppo nervose. Di più non poteva, Favino, sul serio: non poteva certo allungarsi di 13 centimetri (Craxi era 1.93) e non poteva non risultare, perciò, un po' schiacciatino, corto, in scala minore, così come non poteva correggersi l' occhio cadente: ma un' interpretazione e uno studio del genere, da parte di un attore italiano, non si erano mai visti. Peccato aver sacrificato tanta professionalità in un film che, detto con rispetto, non serve veramente a un cazzo. Tanto valeva accogliere la proposta iniziale del produttore Agostino Saccà e fare un film su Cavour nel rapporto con la figlia (da sfondare i botteghini, certo) piuttosto che cercare di «entrare nel privato» di un personaggio che il privato, in pratica, non ce l' aveva, perché Craxi respirava politica in privato e la respirava in pubblico e probabilmente la sognava pure la notte: poi non c' è stata più, la politica, e allora lui è morto, fine, e ci ha lasciato qui, con questi menomati. Poi sia chiaro - avviso ai lettori - che lo scrivente stava al telefono con Craxi con frequenza quotidiana dal 1994 al 1997, e che andò ad Hammamet non più di 4 o 5 volte (funerale compreso) e ci andò anche nel luglio 1999, periodo che rientra negli ultimi mesi focalizzati dal film: anche se, di film, lo scrivente ne vide tutt' altro. Ma ci sta, è normale, ciascuno ha gli occhi suoi e il cuore suo. Dopodiché Pierfrancesco Favino ha detto che non era craxiano (anzi) e poi Gianni Amelio ha detto che non era craxiano (anzi) e allora tanto vale dirlo: chi se ne frega, allora non ero craxiano neanch' io, ero solo un uomo quando ne circolavano pochi. Amelio ha detto a Repubblica: «Tangentopoli è stata la perdita dell' innocenza della mia generazione È impressionante la velocità con cui si è cancellata una statura, una responsabilità e, se vogliamo, una retorica politica quasi ottocentesca che allora in Parlamento c' era ancora. Si può dire di tutto di Craxi, ma è stato l' ultimo grande politico italiano». Ecco, magari ci piacerà un film anche su questo, ma la verità è che per raccontare «l' Italia di allora, molto più rilevante sul piano internazionale» (Favino, Repubblica) serviva un Paese che non è ancora pronto, e che forse non sarà mai pronto: anche perché, per fare i conti col proprio passato, occorre almeno saper contare. Ma questo è un altro discorso, un discorso pessimista e un po' qualunquista. Questa non è una recensione cinematografica, e non c' è da prendersela con Gianni Amelio che almeno ha fatto qualcosa su un tema tra i più rimossi in assoluto. Ma il suo Hammamet è un film che non saprei a chi consigliare. Guardando la pellicola, ho ritrovato Craxi nel suo rapporto coi bambini: sembrava davvero lui. L' ho ritrovato nella scena in cui spalanca il frigo, di notte: è come lo vidi nel luglio 1996, mentre imbracciava un coltello da quaranta centimetri e infilzò una caciotta con inaudita violenza, e rimase lì, un poco storto, invincibile, le gambe allargate, la posa da guerriero. Nel film, poi, ambientato nei suoi ultimi mesi in uno scenario un po' délabré, è descritto come un derelitto affianco alla sua piscina vuota. Io, invece, nel luglio 1999, lo vidi alzarsi faticosamente, saltellare su un piede solo, sino al bordo della piscina, e tuffarsi di testa.
Natalia Aspesi per “la Repubblica” il 9 gennaio 2020. Se di un uomo che è stato politicamente importante, che ha segnato la storia di un Paese nel male ma anche nel bene, prepotente, e violento, che è stato molto amato, molto odiato, molto temuto e ha avuto nemici spietati e amici smemorati, si raccontano non gli anni della fortuna e del potere, ma quelli dell' umiliazione, dell' esilio-latitanza, della solitudine e della malattia (diabete, gamba in cancrena, cuore, tumore al rene), è facile commuoversi, percepirlo solo come vittima, assolverlo: soprattutto in tempi come questi, quando basta niente per scatenare santificazioni o maledizioni. Ma non è così per il Bettino Craxi del regista Gianni Amelio e dell' attore Pierfrancesco Favino, immaginato negli ultimi anni di vita ad Hammamet, quelli amari della sconfitta e di una rivalsa impossibile, ma senza far dimenticare il passato che lo ha perduto, attraverso i suoi ricordi, l' invenzione di un personaggio misterioso che lo segue sempre, le visite di politici melliflui ed elegantoni senza nome, gli incontri con turisti italiani che lo insultano ricordandogli le monetine dell' albergo Raphael. Per chi se li ricorda gli anni di Sigonella, del terrorismo italiano di Mani Pulite e Tangentopoli, della politica economica del primo presidente del Consiglio socialista, della Milano, ma forse anche dell'Italia da bere, sarà difficile non provare un moto di nostalgia non tanto per lui quanto per un' Italia diversa, anche se allora le guerre tra partiti e nei partiti erano più cruente perché più serie, ma ci si sentiva in qualche modo protetti, sicuri di scegliere, i democristiani furbetti e le sinistre pure, e pazienza se si doveva far fuori qualcuno e prestare un orecchio alle mafie e far leggi per gli amici per ricavarne un bel po' di denaro. Magistratura Torquemada o dormiente, e un nuovo partito secessionista, la Lega Nord, anche allora piuttosto rustica, che in Parlamento sventolava il cappio, ed era il 1993, l' anno della fuga di Craxi. Due condanne definitive, altre quattro in attesa, l' accusa di aver incassato centinaia di miliardi di lire, negando sempre. Favino, dal trucco impressionante, è davvero identico al presidente, ed è grande nella stanchezza, nelle rabbie, negli affetti, nel dolore fisico e nella fame costante che gli fa frugare nei piatti degli altri, a dargli la stanchezza che lo farà crollare in una scena che se non c'era pazienza, quella di una delle sue tante amanti (Claudia Gerini) che lo raggiunge in Tunisia, lo riceve in albergo in vestaglia, se lo struscia tutto, lui musone, e ognuno può decidere se sì o no. È molto credibile Favino quando grida con verità la continua autodifesa del personaggio: io non ho rubato, i soldi se li prendeva il partito, tutti i partiti l' hanno fatto, la democrazia costa. Sono passati 27 anni, il Partito socialista non esiste più, né la Democrazia cristiana e i comunisti: è vivissima invece solo la Lega non più Nord che ha annunciato con la solita smemoratezza e faccia tosta che il 19 gennaio, ventennale della morte di Craxi, andrà sulla sua tomba ad Hammamet. C'è ovvio la possibilità, anzi la certezza che sia chi ha visto il film, sia chi si accontenta di immaginarlo e cincischiarlo sui social, chi Craxi se lo ricorda o chi non ne ha mai sentito parlare, si scatenerà nella solita lotta fratricida sul web, lasciando finalmente in pace Zalone. Hammamet ci ricorda anche altri pensieri: c'erano disastri anche allora, ma i politici parlavano di politica, di ciò che era il Paese e di cosa poteva diventare. E il voto segnalava oltre a scelte economiche, anche quelle morali, civili: non si può immaginare Andreotti che si facesse ritrarre in mutande a bere alcol, né Amato a farsi fotografare mentre cadeva sciando. C'era una idea di compostezza, di decoro, che magari nascondeva massime porcherie, ma la carica non subiva oltraggi, e quello che oggi si autoproclama popolo, non insultava il presidente della Repubblica, non si umiliava dimenticando la sua funzione di rappresentanza per tutti noi.
Le contraddizioni di Craxi. Pubblicato mercoledì, 08 gennaio 2020 su Corriere.it da Paolo Mereghetti. Hammamet è un film su Craxi. O forse non lo è. Meglio: forse non lo vuole essere. Ed è proprio in questa contraddizione che va cercato il senso del film di Gianni Amelio, che racconta gli ultimi sei mesi di vita del leader politico, quando era contumace in Tunisia. Con un breve prologo sotto la piramide del congresso milanese del 1989. E un finale fellinian-sciasciano che moltiplica i punti di domanda. Forse non poteva essere diversamente, da parte di un regista che si è sempre tenuto lontano dalla politica: «Non ho mai votato per il Partito Socialista o simpatizzato per Bettino Craxi quando era in vita» ha dichiarato a Ciak. Ma evidentemente il ritratto di un uomo sconfitto dopo aver esercitato un grande potere, convinto di essere oggetto di una persecuzione politica e per questo deciso a combattere fino alla fine rappresentava un soggetto di grande fascino per un regista che si è spesso misurato con i nodi tra la psicologia e la vita, tra il privato e il pubblico. E così il suo «presidente» — non c’è mai un nome identificabile nel film, la figlia (Livia Rossi) si chiama Anita, dichiarato omaggio all’ammirazione craxiana per Garibaldi — è un personaggio che vorrebbe misurarsi ancora con la politica ma deve fare i conti con il diabete che lo attacca, che vuole replicare alle accuse ma sente le forze affievolirsi, che tiene orgogliosamente testa ai consigli della figlia o ai suggerimenti degli amici eppure continua a sentirsi ferito e chiuso in gabbia. Così, per trovare come innescare le confessioni politiche, Amelio e il suo co-sceneggiatore Alberto Taraglio si sono inventati il personaggio di Fausto (Luca Filippi), il figlio di un compagno di partito grillo parlante (Giuseppe Cederna) che si suicida e lascia una lettera da recapitare a Hammamet. In questo modo, riprendendo il presidente con una telecamerina, Fausto funziona da «deposito» delle sue confessioni ma permette anche alla regia, che rimpicciolisce lo schermo da sei noni a quattro terzi (com’era alla fine degli anni Novanta lo schermo delle videocamere) di riportare le dichiarazioni di Craxi — contro la politica italiana e soprattutto i metodi inquisitori allora in voga — come fossero virgolettate. Quasi prendendone le distanze. Ma finendo anche per fidarsi un po’ troppo della memoria dello spettatore. Perché se non si sono vissuti quegli anni, così aspri nel confronto politico soprattutto a sinistra, si fatica a cogliere il senso di certe allusioni, di certe recriminazioni, di certe esternazioni. Amelio racconta quel periodo senza giudicare, evitando ogni possibile pregiudizio, ma rischia di appiattirsi su quello che è il vero punto di forza del film, la magistrale prova di Pierfrancesco Favino, che non solo ci restituisce il volto di Craxi (grazie al trucco prostetico di Andrea Leanza) ma sa imitare alla perfezione la voce del leader. Tanto che durante la proiezione mi sono ritrovato a chiedermi dove fosse finito l’attore, cercando di identificarlo in un battito di palpebre o nella cadenza della voce. Di fronte a una tale prova di bravura, che letteralmente umilia gli attori più giovani (solo Carpentieri sa tenergli testa, nei panni di un democristiano che lo va a visitare), lo spettatore finisce per essere irretito da una specie di ammirazione per il personaggio, persino quando il presidente non nasconde la sua superbia, il suo orgoglio o la sua arroganza. Ma così il film rischia di togliere forza a una possibile riflessione sulla politica italiana degenerata in spettacolo, come ci ricorda l’incontro con la rabbiosa comitiva di turisti. Riflessione resa ancor più ambigua da un finale plurimo: il sogno milanese sul Duomo, il ricordo della ribellione infantile, il cabaret che sembra uscito da Roma di Fellini, una misteriosa registrazione che non sarebbe dispiaciuta allo Sciascia di Todo Modo. Così da frenare la forza di un film che ha però il coraggio di parlare di uno dei grandi rimossi dell’Italia.
Amelio: «Hammamet, il mio film su Craxi non è contro Mani Pulite». Pubblicato mercoledì, 08 gennaio 2020 su Corriere.it da Valerio Cappelli. «Questo non è un film contro Mani Pulite, ho raccontato con tutte le sue contraddizioni la lunga agonia di un uomo di potere che il potere lo ha perso e va verso la morte», dice Gianni Amelio, regista di uno dei film più attesi di inizio anno, Hammamet (nelle sale dal 9 gennaio in 430 copie). Piefrancesco Favino si è sottoposto ogni giorno a oltre cinque ore di trucco per diventare Bettino Craxi, si avvicinava a un altro copro e si allontanava dal suo, acquisendo con straordinario virtuosismo mimetico la stessa camminata ciondolante e zoppicante per i problemi a una gamba, la voce identica, quel modo di toccare la montatura degli occhiali con la mano destra, il respiro ansimante: «Ho lavorato sul respiro, più che sulle pause che ne caratterizzavano l’eloquio. Quando mi mettevano sopracciglia e occhiali, il rituale si compiva e attraversavo il ponte verso l’oblio di me». Il regista aggiunge che serviva una personificazione totale: «Ci siamo serviti del trucco ma l’abbiamo combattuto anche, è una trappola se non alimentato da qualcosa che nasce dall’interno». Storia di un re che ha perso la corona. Il film è nato così. Il produttore Agostino Saccà ha il pallino di un film su Cavour e di sua figlia, Amelio gli ha proposto Craxi e il rapporto con sua figlia Stefania (severa, arrabbiata, innamorata del padre, nel film si chiama Anita come Anita Garibaldi, passione di Craxi), «la buttai lì giusto per liberarmi di Cavour». Ma l’antagonista, nella parte romanzata, è il figlio del tesoriere suicida della Democrazia Cristiana, per cui Craxi diventa il padre putativo, mentre Bobo nel film viene relegato sullo sfondo, ragazzo fragile al quale il padre non lascia alcuna eredità politica. E Craxi? Il regista ( che ha parlato a lungo con Anna, la vedova del leader socialista, scoprendone la vena cinefila), non è mai stato socialista e non ha preso posizione, lo considera «un politico su cui è calato da decenni un silenzio assordante, forse ingiusto. Lo si può anche criticare, in modo corretto e non fazioso». Il personaggio interpretato da Renato Carpentieri resta indefinito, riassumendo tanti democristiani: sarà lui, in visita in Tunisia (hanno girato nella casa di Craxi) a dirgli, «forse stai sbagliando tutto perché talvolta è giusto chinare la testa per poterla rialzare dopo». Amelio precisa che «l’orgoglio, la presunzione di essere nel giusto è stato qualcosa che aveva perso Craxi, riteneva di dover essere giudicato in Parlamento e non in tribunale. Un film non è obbligato a dare risposte ma a fare domande». Favino: «Conoscevo l’uomo politico, non l’uomo. Ho cercato di comprendere il suo punto di vista, non essendo né un politico né un magistrato». Ha detto che è stato l’ultimo grande leader politico: «Non sono un esperto, ma ricordo il volto dei miei genitori mentre guardavano i tg con i protagonisti dell’epoca, si capiva che occupavano un ruolo perché avevano una preparazione specifica». Craxi aveva subito due condanne passate in giudicato: corruzione e finanziamenti illeciti. Nel film si ribadisce la sua tesi: «Così facevano tutti i partiti». Latitante o esule, nella sua casa ad Hammamet? Per Amelio, né l’uno né l’altro: «Latitante è qualcuno cercato dalla legge ma la legge non dsa dove ti trovi. Provenzano è stato latitante. Di Craxi si conosceva perfino il numero di telefono. Contumace, magari: lo è qualcuno che dovrebbe andare in tribunale e non si presenta». È morto il 19 gennaio 2000 in Tunisia. «Chissà se qualcuno gli avesse dato la possibilità di essere operato da qualche altra parte, i medici del San Raffaele di Milano, vedendo i macchinari della Tunisia ne hanno avuto orrore e non l’hanno voluto operare».
Gianni Amelio: “Hammamet non fa politica ma è un film su un uomo solo”. Redazione de Il Riformista il 9 Gennaio 2020. Le premesse di Hammamet, il nuovo film di Gianni Amelio, uscito oggi in Italia, suonano alquanto audaci. A vent’anni dalla sua morte, il film racconta gli ultimi sei mesi di vita di Bettino Craxi che trascorse ad Hammamet, in Tunisia, dove si era rifugiato per evitare il carcere, in seguito allo scandalo di Mani Pulite. Né biografia, né film politico, né reportage giornalistico, nelle note di regia, Amelio definisce Hammamet come «la storia di un uomo solo, la sofferenza morale e fisica dopo la presa di coscienza di essere stato abbandonato da tutti». Un film nato per caso dopo una conversazione illuminante con Maria Grazia Saccà, produttrice in collaborazione con Rai Cinema, nel quale lo storico leader del Psi, è interpretato da Pierfrancesco Favino, la cui somiglianza è impressionante (supportata da ben cinque ore di trucco). Amelio tiene inoltre a precisare che nessuno dei personaggi viene chiamato per nome: Favino è “il presidente”, Bobo Craxi, semplicemente “il figlio del presidente”, l’amante, interpretata da Claudia Gerini, rimane innominata e lo stesso vale per l’onorevole democristiano che va a trovare Craxi ad Hammamet. L’unico personaggio riportante un nome è la figlia del presidente, Stefania, chiamata Anita, in omaggio alla moglie di Garibaldi, verso cui il presidente nutriva una grande passione storica. Così come Craxi fu una figura emblematica, che ha sempre diviso l’opinione pubblica (alcuni lo considerarono un “esule politico” e altri un “latitante”), anche il film ha già suscitato forti opinioni. Sulle pagine del Fatto quotidiano, Marco Travaglio ha stroncato preventivamente la sceneggiatura del film, accuse dalle quali il regista, indignato, si è difeso ieri in conferenza stampa. Ha invitato il direttore del Fatto a vederlo, prima di commentarlo, perché Hammamet «non è contro Mani Pulite», ma la rappresentazione del personaggio e le inquadrature in 4/3 somigliano a delle citazioni, virgolettati ai quali Amelio ha voluto dare vita e umore. Hammamet parte dal congresso del Psi del 1989 per poi arrivare cronologicamente all’esilio in Tunisia e il Craxi di Amelio è un uomo orgoglioso, ma sconfitto, che accusa magistrati e giudici perché sente di essere stato un capro espiatorio del sistema e vittima di un’ingiusta inchiesta giudiziaria. Anche Bobo Craxi, figlio di Bettino, ha sollevato inizialmente delle perplessità, soprattutto a proposito degli elementi romanzati che prevalgono su quelli politici. Ma il regista ha giustificato la scelta di spostare l’interesse dalle inutili critiche a un ripensamento della figura umana.
· Ridateci i Leaders, anche se lupi famelici.
"Mani pulite" non è servita a niente, anzi dilagano ignoranza e corruzione. Redazione de Il Riformista il 28 Gennaio 2020. A 29 anni dall’inchiesta "Mani pulite" del pool di Milano “il sistema di corruzione non è stato sconfitto e i politici sono peggiori e meno preparati”. A pensarlo sono, secondo un sondaggio realizzato da IZI, il 63,3% degli intervistati. Il dato emerge dalle rilevazioni prodotte da IZI a vent’anni dalla morte di Bettino Craxi e nel giudizio degli italiani nei confronti dell’ex presidente del Consiglio e leader del Partito socialista italiano.
IL GIUDIZIO SU POLITICI E CORRUZIONE – Solo per il 2,2% degli intervistati infatti, alla luce di quanto successo nel nostro Paese dopo l’inchiesta ‘Mani pulite’ sulla corruzione nel mondo della politica e dell’imprenditoria, “il sistema corruttivo è stato sconfitto e i politi sono migliori” di quelli della prima repubblica. Per il 29,2% dopo quasi tre decenni dall’inchiesta “non è cambiato nulla”.
CRAXI E LA RIABILITAZIONE – A vent’anni dalla morte ad Hammamet di Bettino Craxi anche il giudizio degli italiani sta cambiando. Ne è prova che per il 13,4% degli intervistati l’ex leader socialista “sia stato un grande statista del nostro Paese”. Per il 33,2% il giudizio sulla caratura da statista di Craxi non cambia, ma all’ex presidente del Consiglio viene attribuita la ‘colpa’ di aver “contribuito a costruire il sistema di corruzione politico”. Un politico “capace di fare qualcosa di buono per il Paese” ma “corrotto”: è questo invece il giudizio del 22,2% degli intervistati, mentre una bocciatura tout court arriva da un restante 15,7% che giudica Craxi “un politico corrotto colpevole dell’esplosione del debito pubblico e delle successive crisi nazionali”.
Da “il Venerdì - la Repubblica” il 28 Gennaio 2020. Lettera di un lettore a Michele Serra.
Buongiorno Serra, il ventennale e il film (interpretazione superba di Favino) hanno riaperto la discussione su Craxi. Personalmente, al netto della pietas per i parenti, non trovo motivi per santificarlo. Lui e i suoi sodali (passati con armi e bagagli quasi tutti in Forza Italia) hanno tenuto in scacco l' Italia di allora. Non si muoveva foglia senza l' assenso del suo partito che, seppure non maggioranza, rappresentò l' ago della bilancia in diverse occasioni. Ricordo però con chiarezza la vigliaccheria di tanti suoi beneficiati (molti ancora in circolazione) che, nel momento della sua maggiore debolezza, lo hanno abbandonato prendendo altre strade a loro più convenienti, alla faccia dell' ideologia politica o di ogni altra considerazione.
Risposta di Michele Serra. La caduta di Craxi per via giudiziaria, con le conseguenti interminabili dispute tra "garantisti" e "manettari", ha in sostanza impedito, per trent' anni, che si discutesse del craxismo in termini politici. Io stesso devo confessarti, caro Nadalig, di avere avuto qualche rimorso per certi titoli di Cuore (uno per tutti: "Torna l' ora legale, panico tra i socialisti"), dimenticando che lo scontro, ben prima che Mani Pulite intervenisse a risolverlo in maniera molto brusca, non era legale, o solamente "etico": fu profondamene politico. Ciò che ricordo più nitidamente di quegli anni (in sostanza, gli Ottanta del secolo scorso) è la sfrenata retorica della "modernità" in base alla quale, tra le altre cose, il mondo comunista, e il suo capo Berlinguer, si ritrovarono fuori dai giochi. In parte perché effettivamente i loro parametri di giudizio e la loro cultura politica erano stati travolti dal passaggio d' epoca: il terziario era il settore in ascesa, la fabbrica cominciava a perdere la sua centralità, la dialettica operaio/padrone si disfaceva in una serie di variazioni più sfumate e sfuggenti. In parte perché passò lo sciagurato concetto (e i craxiani ne furono tra i principali artefici) che ogni critica alla società di mercato e al consumismo fosse "moralista". Le magnifiche sorti della società di mercato parevano al di sopra di ogni critica, lo sviluppo sembrava incontenibile, il futuro gravido di benessere e di progresso, le ideologie un gravame detestabile (si usciva dagli anni di Piombo). Ma è anche a causa di quel clima così acritico e imprevidente, diciamo da cicale, che il debito pubblico italiano aumentò in modo smisurato, fino a raddoppiare. Prima di Berlinguer era toccata a Ugo La Malfa, che invitava a fare con maggiore scrupolo i conti pubblici, la fama del guastafeste, dello scocciatore pessimista. Ma il Berlinguer dell' austerità, riletto oggi, francamente a me sembra molto più moderno di Craxi. E lo era proprio a partire da quei parametri (la sobrietà, la critica del consumismo, i limiti delle risorse, il rispetto dell' ambiente) che ieri furono bollati di lugubre moralismo, ma oggi focalizzano il dibattito politico. E che nel craxismo, e negli anni Ottanta in generale, non erano presenti oppure erano perdenti. Anche la lettera che segue invita a rileggere il nostro passato politico con un poco di nostalgia in meno, un po' di senso critico in più.
Da Craxi ad oggi l’Italia ancora bloccata da cattocomunisti e azionisti. Corrado Ocone il 21 Gennaio 2020 su Il Riformista. Da Hammamet l’Italia si vede da un’altra prospettiva. È come stare un po’ dentro e un po’ fuori. Il Bel Paese è a poche miglia di mare, i tremila italiani che hanno deciso di vivere qui da pensionati sono proiettati mentalmente verso il continente, ma poi anche loro fanno parte almeno un po’ di un mondo altro e fiero della propria diversità. Che ti avvolge, protegge, contamina. Certo, per un periodo, soprattutto se hai avuto una vita ricca di relazioni, puoi sentirti “come in una gabbia”, come Bettino Craxi si è sentito negli anni di quello che fu a tutti gli effetti un esilio politico. Passeggiava su e giù per la casa, seguiva le vicende italiane, interveniva con fax di puntualizzazione spediti alle redazioni e per lo più ignorati. Faceva anche qualche passeggiata per le vie della vecchia Medina, prendeva un tè o un caffè. Qui Craxi è ancora un “santo laico” di una città musulmana e araba che di storie di incursioni cristiane (persino dei Cavalieri di Malta) ne ha conosciute tante. Al bar della parte più alta della Medina il signore che serve caffè turco indica l’angolo in cui Craxi sedeva, poi tira fuori una vecchia spilla con il rosso garofano simbolo del Psi. Lo volle Craxi, al posto della vecchia falce e martello, per segnalare anche iconicamente la sua visione politica: abbandonare il marxismo e ritornare a quel socialismo umanitario e solidaristico, libertario e progressista, che aveva fatto la sua prova migliore nella Milano di fine Ottocento. Mentre Enrico Berlinguer e i comunisti si illudevano concependo ipotetiche “terze vie” fra socialismo e capitalismo, e predicavano “l’austerità”, Craxi chiudeva definitivamente con le storture del “secolo breve”. I comunisti, non pronti a questo passo, sarebbero stati travolti dalla caduta del Muro. Ma, in verità, lo sarebbe stato anche Craxi, il quale forse non aveva intuito la nuova sponda in cui si sarebbe esercitata l’egemonia culturale a sinistra: non quella di un moderno socialismo, ma quella giustizialista. Come scrisse nei giorni di Hammamet, in Italia si realizzò allora un «golpe postmoderno, senza militari, giocato su nuclei della magistratura e dell’informazione» che seppero toccare «punte altissime di delirio e mistificazione», dilagando «sul terreno della persecuzione». Una storia che dura ancora oggi, ove l’ultimo prodotto di quel clima giustizialista, il movimento di Grillo, è al governo. E il governo qui ad Hammamet non si è fatto vedere. Brutto segno di incapacità di fare i conti con la propria storia non solo da parte della sinistra, ma anche dallo Stato italiano. La libertà di cui abbiamo goduto nei primi cinquanta anni della Repubblica è stata figlia anche di un sistema di finanziamento dei partiti formalmente illegale ma perfettamente legittimo dal punto di vista della ragion di Stato. Tutti ne facevano parte e tutti sapevano, ma Craxi solo ha pagato. Anche come uomo di Stato, primo capo del governo socialista, Bettino ha lasciato il segno. L’Italia, sotto la sua guida, è diventata la quinta potenza industriale del mondo, sorpassando la Gran Bretagna. Soprattutto Craxi ha individuato un ruolo per l’Italia nel mondo e ha fatto sì che il nostro Paese fosse da tutti rispettato. Sigonella fu ovviamente la prova del nove, con la difesa strenua della nostra sovranità nei confronti di Ronald Reagan (che comunque ebbe modo poi dire che Craxi si era comportato da grande). Un paradosso solo apparente che a non soccombere alle richieste americane fosse uno dei più atlantisti dei leader italiani! E poi c’era l’attenzione per i movimenti di liberazione nazionale, in un’ottica garibaldina e mazziniana insieme, risorgimentale. E la lotta alla povertà, e a ogni tipo di dittatura. Amava la libertà sopra ogni cosa, perché, come è scritto sulla sua lapide, la libertà equivale alla vita. Qualcuno potrebbe pensare che le celebrazioni di Hammamet di questi giorni, con la infaticabile figlia Stefania a far da motore, abbiano guardato al passato, non fosse altro per la presenza di tutti i leader di un tempo (da Margherita Boniver a Claudio Martelli, da Ugo Intini a Claudio Signorile) e per quella di tanti dirigenti anche locali del vecchio Psi. Non bisogna lasciarsi ingannare: esse guardano al futuro. L’Italia è ferma proprio perché quella cultura cattocomunista e azionista che ostacolò Craxi la blocca ancora oggi. Craxi parla a noi anche se non avrebbe probabilmente capito certe derive della postpolitica. Lui che della politica aveva fatto il pane quotidiano. E la sua fine, come dice Marcello Sorgi nel suo libro appena uscito (Presunto colpevole, Einaudi) «concluse gli anni Novanta e consegnò alla storia del Novecento il principio del primato della politica, mettendoci una bella pietra sopra».
Non è più una terra per giganti: c’erano una volta Craxi e Berlinguer. Paolo Guzzanti il 17 Novembre 2019 su Il Riformista. “C’era una volta… un re, diranno subito i miei piccoli lettori”. Eh no, cari ragazzi del nuovo millennio, stavolta non si tratta del ciocco di legno che ben intagliato diventò Pinocchio simbolo della bugia col naso lungo, ma di un oggetto più fiabesco e meraviglioso: la politica. La politica era sempre ideologica (cioè partiva da postulati e pregiudizi chiamati ideali) e sempre duellante secondo copioni codificati. Chi è nato dopo gli anni Settanta non può ricordarne quasi nulla, ma chi ha un’anzianità anagrafica di lungo corso, è ancora in grado di riascoltare nelle emozioni le gioie e dolori di quel tempo antico in cui due mostri, nel senso di creature uniche, si davano battaglia occupando quasi tutta la scena: Craxi e Berlinguer. Nei primi anni, il segretario del Partito Comunista Enrico Berlinguer e Bettino Craxi, segretario del Partito socialista, si sfidavano manovrando di fronte all’armata del popolo di mezzo, ovvero della Democrazia Cristiana, che però aveva perduto i suoi due mitici “cavalli di razza”: Amintore Fanfani, scivolato nell’oblio dopo aver perso la battaglia contro il divorzio, e Aldo Moro, rapito, interrogato e assassinato da quell’entità tuttora misteriosa che furono le Brigate Rosse, un po’ “boy-scout della rivoluzione” (secondo la benevolentissima definizione del Presidente della Repubblica Francesco Cossiga) e un bel po’ gruppo armato per impedire il compromesso storico, inventato da Enrico Berlinguer dopo il colpo di Stato in Cile per chiudere la partita della guerra fredda interna, fare pace con la Dc e passare armi e bagagli nel mondo occidentale, di cui aveva già accettato la Nato. Berlinguer voleva chiudere con l’Unione Sovietica, sostituendo il mito della Rivoluzione d’Ottobre – ormai privo della sua “spinta propulsiva” – con una ideologia fondata sulla “questione morale” in cui sostanzialmente i comunisti si presentavano come gli ariani del bene e gli altri dovevano dimostrare di essere alla loro altezza. Finito nel sangue di Aldo Moro l’esperimento del “compromesso storico” (Berlinguer aveva subìto un attentato in Bulgaria da cui si salvò per un pelo, e quando morì di ictus in casa sua molti sospettarono un attentato) cominciò un periodo di scossoni e accuse fra il segretario comunista e Bettino Craxi, campione di un socialismo anti-comunista e antisovietico in modo esplicito: eliminò come primo atto la falce e il martello dai simboli socialisti sostituendoli con quelli originari: un libro aperto e il Sol dell’avvenire. Poi rammodernò burocrazia e stile di vita a sinistra in modo molto pop e provocatorio e quando venne il momento della tragedia della nave Achille Lauro e dei terroristi che l’avevano dirottata sfidò a braccio di ferro gli Stati Uniti di Ronald Reagan e fece schierare i carabinieri armati contro i militari americani nella base di Sigonella, diventando così l’incontestato eroe di una guerra d’indipendenza contro gli americani, cosa che probabilmente gli costò la testa. La “guerra fredda” era a quei tempi una guerra molto febbrile, mieteva forse meno vittime di una guerra armata, ma sacrificava senza pietà sui giornali e nelle coscienze il rispetto della verità, situazione che fu riconosciuta e sdoganata con l’augusto nome delle diverse “linee editoriali”, consacrate nei palinsesti della Rai: uno a me, uno a te, un frammento anche alla verità. Ma con giudizio. Era un teatro in cui erano in piedi gli ideali, i miti, i riti della politica del Novecento mentre si faceva strada la novità di considerare l’onestà amministrativa una ideologia con cui rimpiazzare i presupposti ideologici del passato. Fra i sacri miti e riti, c’era quello della “scala mobile” (che era un sistema di adeguamento automatico degli stipendi all’inflazione), difesa a spada tratta dal segretario del Pci Enrico Berlinguer come strumento di riequilibrio della giustizia sociale che pareggiava le diseguaglianze facendo lievitare l’inflazione che allora viaggiava a due cifre, tanto che la gente si batteva moneta da sola inventandosi dei miniassegni. A Berlino era ancora in piedi il Muro e la moneta forte era il Marco della Repubblica federale tedesca, capitale Bonn. A quella ideologia si oppose Bettino Craxi che sfidò Berlinguer con un decreto che ridimensionava la scala mobile e poi accettando un referendum in cui si chiedeva agli italiani: volete l’adeguamento automatico del vostro salario con la scala mobile che tutto pareggia, oppure preferite uno spiffero di libertà e di rischio? Vinse Craxi (ma a quel punto Berlinguer era già morto): gli italiani scelsero il rischio e un po’ di diseguaglianza. Fu un momento di rottura molto deciso per un Paese ingessato nella sclerosi dei partiti. Oggi sembra impensabile, ma a quell’epoca c’erano le Regioni rosse (Umbria Toscana Emilia) che votavano rosso, le Regioni bianche (Lombardia e Triveneto) che votavano bianco democristiano e un Sud squacquaracquato che votava come capitava e secondo convenienza. Uno degli attori di seconda linea, aspiranti alla prima, c’era: La Repubblica creata genialmente da Eugenio Scalfari, che era un giornale e un partito, una lobby di pensiero e di pressione. Scalfari sognava di guidare lui il Pci di Berlinguer, il quale resisteva all’abbraccio. Ma Scalfari giocava a sua volta un duello mortale con Bettino Craxi di cui era nemicissimo, su un terreno di duelli all’arma bianca che era cominciato nel parlamentino universitario dell’Orur (negli anni cinquanta) dove c’erano Achille Occhetto, Marco Pannella, lo stesso Scalfari e tanti altri e dove furono messe le basi per odi inconciliabili e amori sfrenati. C’erano poi in vesti settecentesche i pensatori isolati e aristocratici del Partito repubblicano come Ugo La Malfa e Giovanni Spadolini, e i socialisti anti-craxiani che tentarono di rimuoverlo dalla segreteria del partito e dal governo, quando arrivò al governo, puntando su Antonio Giolitti, figlio dell’antico primo ministro Giovanni Giolitti e che era stato uno degli allievi di Palmiro Togliatti, uscito dal Pci per “i fatti d’Ungheria”, cioè la brutale repressione sovietica con i carri armati della rivolta studentesca e operaia di Budapest del 1956 fortemente voluta proprio da Togliatti e Mao Zedong, che Nikita Krusciov, successore di Stalin aveva tentato di evitare. La politica era ancora un campo di battaglia che riverberava sangue, bombe – quelle del terrorismo a cominciare da quella di piazza Fontana del 12 dicembre del 1969 – e guerra mondiale imminente. Sullo scontro fra grandi potenze, il Pci di Berlinguer non seppe evitare di stare dalla parte sovietica opponendosi allo schieramento in Sicilia di missili di medio raggio dopo che l’Urss aveva improvvisamente schierato i suoi SS-20 sui Balcani minacciando il cuore dell’Europa. Lì avvenne un’altra battaglia divisiva che oggi stenteremmo a capire: Spadolini, ministro repubblicano atlantista, e Craxi si schierarono a favore di una risposta ai missili sovietici e tutte le sinistre si opposero, perdendo ma lasciando sul campo lacerazioni sempre più profonde. Come oggi sappiamo dalle carte desecretate dal Dipartimento di Stato, americani e Nato facevano il tifo affinché il Pci di Berlinguer passasse in campo occidentale e assumesse il comando in Italia, ma dopo aver rescisso tutti i suoi legami sovietici. Americani e inglesi ne avevano abbastanza sia dei bizantinismi di Andreotti che seguiva una sua politica filoaraba e anche filosovietica e dello stesso Craxi che aveva dato prova di troppo autonomia. Per questo fu preparato un grande dossier americano cui partecipò l’attuale avvocato di Donald Trump, Rudolph Giuliani, allora procuratore generale e in parte anche nostri procuratori come Giovanni Falcone. Quel dossier fu chiamato “Clean Hands”, mani pulite, e avrebbe dovuto essere gettato sul terreno della lotta politica in Italia prima che cadesse il muro di Berlino e la stessa Unione Sovietica. (Ma di questa storia, molto interessante, ne riparliamo in un altro articolo, la settimana prossima). Le cose andarono diversamente, come sappiamo, ma il teatro di lotta e di scontro di quelle guerre d’allora aveva scene ricche e mobili sulle quali i grandi samurai ideologici si battevano con spade affilate, seguiti da un’Italia ancora organizzata in grandi chiese ideologiche, che comprendevano anche quella cattolica in crescente dialogo con quella comunista. La fine degli anni Ottanta e la fine dell’Urss sconvolsero la scena con la violenza di una bomba atomica e tutto cambiò per sempre senza più trovare uno o più punti di stabilità.
Renzi riabilita Craxi: "Un gigante rispetto ai politici di oggi". Repubblica Tv il 15 gennaio 2020. "Se ci paragoniamo agli altri noi di Italia viva abbiamo carte da giocare. Ma i personaggi del passato, Craxi, Moro e De Gasperi, rispetto ai politici di oggi, erano dei giganti". Il leader di Italia viva commenta durante la puntata del 14 gennaio de L'aria che tira su La7, la politica di Bettino Craxi. "Conoscendo la sua storia, ha un posto incredibile nella politica del nostro Paese."
Alberto Giorgi per il Giornale il 15 gennaio 2020. L'ode di Matteo Renzi a Bettino Craxi. Ospite del salotto televisivo di La7 de L'aria che tira, il fondatore di Italia Viva ha voluto ricordare il fu presidente del Consiglio, deceduto il 19 gennaio del 2000. A diciannove anni di distanza, l'uscita del film Hammamet – il film diretto da Gianni Amelio e interpretato magistralmente da Pierfrancesco Favino – sugli ultimi sei mesi di vita del leader del Psi ha riacceso il dibattito sulla figura che ha fatto la storia della politica italiana. "Se ci paragoniamo ai politici di oggi, noi di Italia Viva abbiamo tutte le nostre carte da giocare. Ma con la stessa onestà intellettuale dico che pensando a certi personaggi del passato, rispetto ai politici di oggi, come me, loro sono dei giganti. Mi riferisco a Craxi, a Moro, a De Gasperi. Non metterei nel mio Pantheon Craxi, perché vengo da una cultura che ha sempre visto Craxi come un avversario. Ma conoscendo di più la sua storia, dico che Craxi deve stare comunque a un posto incredibile della storia del Paese. Aveva capito prima degli altri come l'Europa rischiava la sconfitta. E riconosco anche che lui ha avuto più coraggio di tanti altri. Io non la penso come i populisti, perché sono abituati a dare giudizi in bianco e nero", ha risposto l'ex rottamatore alla domanda della padrona di casa Myrta Merlino che gli chiedeva se si rivedesse nel riformismo craxiano. Il senatore di Iv ammette di non aver ancora visto la pellicola Hammmet e rivela di essersi avvicinato alla figura di Craxi quando era studente al liceo: "Io ho preso la maturità nel 1993 e all’epoca, in quegli anni, tutti noi studenti delle scuole superiori vedevamo Craxi come l’incarnazione del male. C'era un racconto, quasi un pensiero unico contro Craxi anche nei giornali. Faceva eccezione forse solo Il Giorno di Paolo Liguori, ma tutti gli altri giornali erano contro. Eppure il leader Psi ha scritto pagine pazzesche di riformismo nella storia della Repubblica italiana". Quindi, l'ex segretario del Partito Democratico ha chiosato ricordando velocemente il caso Tangentopoli, che vide Craxi sul banco degli imputati: "Non possiamo ignorare che la giustizia italiana lo ha condannato con una sentenza passata in giudicato. Ma onestà intellettuale vuole che si dica che è stato condannato col presupposto secondo cui non poteva non sapere, cioè non è stato trovato coi soldi per sé e per i fatti suoi…".
Crisi in Libia, quanto manca Craxi unico premier con una visione internazionale. Margherita Boniver il 15 Gennaio 2020 su Il Riformista. Nessuna riabilitazione per Bettino Craxi. A vent’anni dalla sua morte in Tunisia, questa considerazione continua ad affollare i miei pensieri. Eliminata brutalmente la prima Repubblica per via giudiziaria selettiva, abbattuta la cosiddetta Seconda con la demonizzazione del Cavaliere Nero Silvio Berlusconi, anche lui colpito da una sentenza con effetti retroattivi, e coadiuvata da buone dosi di veleno marchio Bruxelles, eccoci alle comiche finali verrebbe da dire. Intendiamoci, fa piacere sentire dei ripensamenti e delle ammissioni masticate a mezza bocca da personaggi insospettabili di simpatie socialiste. E possiamo quasi intenerirci a sentire quanto dichiarava Renzi a Tg 2 Dossier l’altra sera, con accenni che sembravano dipingerlo come il prossimo agnello sacrificale. Ma se una riabilitazione deve esserci, e ci sarà, non saranno solo i libri di storia a farne una lettura vigorosa e contemporanea, così come forte, decisionista e a largo spettro è stata la politica del segretario e poi unico presidente del Consiglio socialista. Basti ricordare la sua straordinaria visione della politica mediterranea e internazionale, oggi spesso evocata e rimpianta da un Paese come il nostro alle prese con il groviglio del caos libico. Ma la lista è molto più lunga, e ci arrivano a sprazzi, rompendo la censura dell’oblio, ricordi di un’epoca ormai lontana, di un Italia in pieno boom economico, ma alle prese con grandi contraddizioni. A cominciare dalla sfida al sistema del terrorismo degli anni ‘70 che per un decennio ha insanguinato le cronache con le atroci morti di magistrati, docenti e sindacalisti e che con il rapimento di Aldo Moro sembrava aver raggiunto limiti invalicabili. A questa sfida Craxi dette un eccezionale contributo, prima evitando la presentazione di leggi emergenziali e in seguito adoperandosi, in splendida solitudine, con l’adesione tardiva di Fanfani, per salvare la vita dello statista democristiano. Che venne sacrificata all’altare della politica della fermezza, capitanata da certa stampa assetata di sangue dal Pci e da una Dc mesmerizzata. Senza mai una autocritica a posteriori. Si continua con gli euromissili installati a Comiso, che provocarono enormi manifestazioni di dissenso, probabilmente anche finanziate da fondi sovietici dove il bersaglio era Craxi boia, e che per settimane riempirono le piazze da nord a sud. La vicenda di Sigonella è forse la più nota, e risvegliò in Parlamento e fuori un grande sentimento di dignità nazionale lasciando forse aperta la porta a vendicazioni postume. Ma anche la sua opposizione alla svendita della Sme e la sua contrarietà alla privatizzazione selvaggia del patrimonio industriale pubblico gli fecero schiere di nemici eccellenti. Ma Craxi non venne mai sconfitto politicamente, e avvicinandosi alla fine della sua parabola pubblica si manifestò soprattutto una avversione da parte degli stessi gruppi, giornali ed élite per comodità di lessico che pochi anni dopo si coagularono in identiche formazioni contro Silvio Berlusconi, reo di aver impedito la vittoria di Occhetto. Craxi, come arcinoto, divenne il capro espiatorio di una sarabanda mediatico-giudiziaria, gli venne applicato il teorema “non poteva non sapere”, venne accusato di aver ricevuto fondi irregolari e soprattutto non più amnistiati come in precedenza per il Psi, e divenne il fulcro di una impressionante campagna demonizzatrice che travolse verità e giustizia. Fu costretto dal precipitare di questa violenta e falsa rivoluzione moralista a recarsi in Tunisia dove venne accolto e protetto con rispetto e grande cura. Non venne mai abbandonato dal suo popolo, diversamente da troppi dirigenti del suo partito, che continuarono ad andare a trovarlo ad Hammamet. Nei lunghi dolorosi anni dell’esilio, ricordo innumerevoli delegazioni di socialisti, moltissime provenienti dal Sud. La sua tomba, nella parte cristiana del cimitero tunisino, ogni anno viene visitata da migliaia di persone, che lo ricordano uomo libero morto da uomo libero.
Quando gli Stati Uniti scaricarono Bettino Craxi. L'incontro tra il presidente Bush e Falcone a Roma. E il colloquio segreto tra Cuccia e il leader Psi. Così, tra il 1989 e il 1990, si preparò la fine della Prima Repubblica. Fabio Martini l'8 gennaio 2020 su L'Espresso. Anticipiamo in queste pagine uno stralcio del nuovo libro di Fabio Martini “Controvento. La vera storia di Bettino Craxi”, Rubbettino editore, in uscita il 9 gennaio, in occasione del ventesimo anniversario della morte del leader socialista, avvenuta il 19 gennaio 2000 nella sua casa di Hammamet, in Tunisia. Negli anni che precedono il crollo del sistema politico italiano, in merito all’interessamento americano alle vicende italiane vanno accesi i riflettori su una vicenda finora non illuminata ma estremamente interessante. Racconta Giuseppe De Tomaso, direttore della Gazzetta del Mezzogiorno: «Nei primi anni Novanta incontrai un altissimo esponente dell’amministrazione degli Stati Uniti che mi raccontò uno scenario mai sentito prima: nel 1989 il presidente George Bush si rende conto che la proliferazione degli stupefacenti mette a rischio la possibilità di poter formare forze armate perfettamente efficienti. Convoca le principali forze investigative e dispone una drastica svolta politica: spezzare i rapporti con tutti i regimi corrotti del Centro e Sudamerica collegati col narcotraffico. In quella occasione gli viene fatto notare quanti problemi arrivino anche dalla mafia italiana che opera nel mar Mediterraneo e che è collegata ad alcuni politici italiani». È in questo contesto che inizia lo sganciamento da un personaggio come Giulio Andreotti e l’interessamento di Bush per la figura di Giovanni Falcone, il magistrato che aveva istruito il più importante processo alla mafia nella storia italiana. Nel maggio del 1989 il presidente degli Stati Uniti, a Roma per una visita di Stato, invita Falcone ad un ricevimento a Villa Taverna, residenza dell’ambasciatore: è l’unico magistrato presente e Bush chiede di potergli parlare in privato. Qualche tempo dopo, all’amico pm Giuseppe Ayala che gli chiese cosa si fossero detti, Falcone con la sua proverbiale riservatezza si limitò a rispondere: «Ha chiesto di incontrarmi e sono andato». Ma tutti potevano vedere la grande foto di Bush che Falcone teneva nel suo ufficio e la testimonianza di De Tomaso aggiunge un passaggio in più: «Da quel che mi fu detto confidenzialmente, l’amministrazione avrebbe visto bene Falcone per la guida di un nuovo corso italiano. All’inizio era lui, non Di Pietro, l’eccellenza sulla quale puntavano gli americani». Ma non c’è solo la droga. Nel 1991 Henry Kissinger incontrò Craxi a New York nel periodo nel quale ricevette l’incarico all’Onu da Perez de Cuellar sul debito del Terzo mondo, vicenda che l’amministrazione Bush guardava con sospetto e da quel che è dato sapere il vecchio diplomatico sondò l’ex Presidente del Consiglio anche sul futuro dell’Italia nel nuovo contesto internazionale. Dopo il crollo del Muro di Berlino, gli americani avevano avviato lo sganciamento da quei politici amici che li avevano aiutati nella lotta al comunismo, ma che erano appesantiti dalla corruzione. È una stagione nella quella la Cia viene messa in quarantena, per stemperare le collusioni col Kgb e con i servizi e con i leader europei più compromessi. In Italia - oltre ad un’attività sotterranea che sarà difficile “tracciare” - alla luce del sole si vede irrompere la punta di lancia di questo new deal, l’Fbi, che arriverà a partecipare alle indagini per la morte di Falcone. E d’altra parte quanto l’amministrazione americana guidata dai Repubblicani seguisse le vicende italiane, è stato illustrato da due illuminanti interviste realizzate da Maurizio Molinari e pubblicate su La Stampa nell’agosto 2012: all’ex console americano Peter Semler a Milano e all’ex ambasciatore a Roma Reginald Bartholomew. Semler ha rivelato di aver coltivato un rapporto assai intenso - prima della stagione di Mani pulite - con Antonio Di Pietro, sostenendo che l’ex pm gli avrebbe anticipato i possibili sviluppi di un’indagine che era in corso su Mario Chiesa, con eventuali ricadute su Bettino Craxi. Di Pietro ha smentito categoricamente ogni intenzionalità preventiva sul leader socialista, ma a conferma di un rapporto confidenziale, c’è anche la rivelazione dell’ex console sul viaggio di Di Pietro negli Stati Uniti nell’autunno del 1992. «Sono stato io a suggerire all’ambasciata di Roma di invitarlo, poi fu il Dipartimento di Stato ad organizzargli il viaggio» e a Washington e New York «gli fecero vedere molta gente». Se in una fase avanzata della crisi italiana una parte dell’amministrazione Usa decide di “scaricare” dear Bettino, pochi sanno che in Italia il vecchio ordine fu tentato di affidare proprio a Craxi la guida di un nuovo corso tutto da costruire. E il sondaggio su Craxi lo fece nientedimeno che Enrico Cuccia, il “padrone dei padroni”. Negli ultimi giorni del 1989, anno che si era rivelato di svolta e preannunciava tempi nuovi, il patron di Mediobanca aveva inviato a Craxi un enigmatico biglietto di auguri con una frase di Goethe: «Da oggi comincia una nuova epoca e voi potete dire di esservi stato presente». Un segnale di attenzione che nel giro di qualche mese si trasformò in qualcosa di molto significativo: Cuccia, uomo felpatissimo e di proverbiale riservatezza, grazie alla mediazione di Salvatore Ligresti chiede di incontrare riservatamente il leader socialista. È la primavera del 1990 e in quel primo incontro Cuccia trasmette a Craxi la propria preoccupazione per i cambiamenti che sarebbero intervenuti in Italia dopo l’adesione ai Trattati di Maastricht: diventava sempre più plausibile il rischio di una colonizzazione del sistema produttivo italiano e dunque era urgente una svolta politica che tenesse in primo piano gli imperativi del mercato ma in una logica nazionale. Diventava impellente privatizzare, a prezzi ragionevoli, affidando a mani italiane i rami fertili delle imprese pubbliche, riducendo la spesa pubblica e creando - in una fusione tra Mediobanca e i tre istituti di proprietà dell’Iri - una banca di respiro internazionale, capace di agire da propulsore per questa fase nuova. Naturalmente ai partiti sarebbe toccato un passo indietro e, a parere di Cuccia, l’unico che fosse in grado di guidare questo processo era proprio Bettino Craxi. E lui a caldo come reagì? Chi lo conosceva, racconta che Craxi fu lusingato e incuriosito: chiamava Cuccia «lo gnomo di via Filodrammatici», ne conosceva l’antica militanza azionista e per lui era difficile dimenticare come si chiamasse la moglie: Idea Nuova Socialista. Ma per tanti motivi Craxi diffidava di Cuccia. In un secondo incontro, stavolta a Roma, si parlò anche di dettagli operativi - per esempio dell’appoggio che i media avrebbero garantito all’impresa - ma senza trovare un accordo. A fine giugno i due si incontrarono ancora una volta, di nuovo a Roma e in quella occasione il segretario socialista respinse l’offerta. E lo fece, attingendo al suo dna: la politica la fanno i politici, il mercato va governato. Alle tante pressioni su di lui, Craxi risponderà col suo discorso al congresso straordinario del Psi di Bari, il 27 giugno 1991, diciotto giorni dopo la bruciante sconfitta al referendum sulla preferenza unica. In un passaggio della sua relazione è contenuta una frase, sul momento considerata pleonastica, ma che a distanza di anni si presenta ricca di significato, decisiva. Dice Craxi: «In un libro intervista di alcuni anni fa, Giovanni Spadolini ricorda, e fa suo, un significativo monito di Ugo La Malfa: “Se capeggiassi un movimento di rivolta al sistema - mi disse - avrei tre, quattro milioni di voti. Non li potrò mai avere questi voti. Sono un uomo del sistema, della democrazia, così come è nata dopo la Liberazione, mi muovo nel quadro dei partiti. L’ansia antipartitica che sta investendo il Paese non può essere accarezzata. Il compito di noi politici, è di incanalarla, non di servirla o essere asserviti ad essa”». Finita la citazione, Craxi chiosa così: «Penso che questo sia anche il compito nostro». E a quel punto - un anno dopo l'incontro con Cuccia - si chiude l’ultimo cerchio. Degli incontri che Craxi aveva avuto con il leader di Mediobanca (dei quali ha dato ampio conto l’ex ministro socialista Carmelo Conte nel suo “Dal quarto stato al quarto partito”) non è più possibile ricostruire le sfumature (in certi casi decisive) che accompagnarono l’offerta. Ma ne conosciamo l’esito: si concluse senza un accordo. Dunque, prima che il piano della “vecchia” politica si inclinasse per sempre, Craxi rifiutò l’offerta che gli era venuta da parte del più temuto e potente regista dei principali intrecci economici e finanziari del dopoguerra, il capofila di un mondo del quale il leader socialista aveva diffidato per tutta la vita. Rifiutando, restò sé stesso e non volle cambiare percorso né compagni di viaggio. Ma non volle neppure provare a correggere la sua traiettoria: riformare il sistema, alleggerire la presenza dei partiti. Nelle settimane nelle quali Craxi e Cuccia si incontrarono, nella primavera del 1990, era iniziata la raccolta delle firme per i referendum Segni in materia elettorale. Incassato il rifiuto di Craxi, Cuccia farà qualcosa di inusuale per un uomo riservato come lui: andò nella sede del Giornale e platealmente mise la sua firma sotto i moduli per i referendum. Un investimento ben indirizzato: i referendum avrebbero contribuito a far saltare il vecchio sistema. Inutile immaginare cosa sarebbe accaduto se Craxi avesse detto un sì, magari condizionato, all’offerta di Cuccia. Senza eccessive fantasie si può persino ipotizzare che la crisi italiana avrebbe potuto prendere un corso diverso, a cominciare dalla vicenda di Mani pulite, in quel momento ancora lontana. Quel no, allora rimasto segreto, resta una pietra miliare nella vita di Bettino Craxi e probabilmente nella successiva storia della Repubblica.
Ridateci i lupi e i leader, anche se famelici…Giovanna Corsetti il 24 Dicembre 2019 su Il Riformista. Un sistema non può svilupparsi e crescere se privato di un suo elemento, soprattutto se, come nel caso dei lupi, a scomparire è il vertice di tutta una piramide territoriale ed alimentare. Da sempre l’uomo costruisce i suoi migliori modelli sociali osservando ed emulando la natura, le nostre comunità vivono sostenute dalle stesse leggi che governano la monarchia delle api con la loro regina, o la laboriosa cooperazione delle formiche. Ogni sistema vive della sua totalità, dell’armonia degli elementi, la mancanza o la scomparsa di un tassello può far soffrire e ammalare l’intero ambiente. Così quando anche l’Italia, come molti altri sistemi, ha cominciato a dare la caccia ai suoi lupi, convinta di poter sopravvivere meglio senza, si è condannata. Nel bosco della politica i lupi, i leader, sono sostanziali e indispensabili quanto quelli a quattro zampe, sono la fonte di idee, riforme, progetti e sviluppo di cui vive ogni partito, movimento o comunità. Anche i nostri lupi, come quelli in natura, erano figure maestose, dall’ululato forte, eloquente, colti, eleganti, autorevoli e astuti, a volte persino coraggiosi. Capaci di grandi imprese e di sacrifici, anche del sacrifico definitivo, come nel caso del lupo dalla frezza bianca, Aldo Moro. Poi, dal 1992 nel nostro paese non siamo più stati disposti a sfamare i lupi, a nutrire i partiti e i loro uomini, accusati di razziare ogni risorsa, di depredare la collettività a vantaggio della loro forza. La magistratura si è offerta con abilità, di svolgere la funzione di rangers, di abbattere i lupi e poi ogni altro animale che potesse agire come un lupo, cavalli di razza e giovani leoni. La caccia è stata estrema e capillare, promossa su grandi nomi, organizzata dall’invidia e compiuta dalla mediocrità. La prima stagione di caccia fu il massacro, ogni branco perse il suo leader, Partito socialista, democrazia Cristiana, e altre forze politiche, private del maschio alfa, furono ridotte a un branco smarrito e randagio. I rangers accusarono i lupi di saccheggiare meschinamente e avidamente le risorse di tutti, di pensare solo al proprio utile o a quello del loro piccolo branco, contro le leggi del bosco e della democrazia. Hanno punito come furto ogni risorsa usata per mantenere e far crescere il leader e il suo branco, indispensabile per assicurare la protezione del territorio e degli abitanti, di tutti gli abitanti di ogni specie, ma i lupi, tutti i lupi, furono accusati di essere ladri, corrotti e corruttori e come tali dovevano essere annientati. Qualche lupo tentò di resistere e dare l’allarme, uno in particolare, Ghino di Tacco il suo nome di battaglia, prima dell’esilio pronunciò un ultimo appello agli altri capo branco nel tentativo di metterli in guardia sulla loro stessa fine. “Nella vita democratica di una Nazione non c’è nulla di peggio del vuoto politico. Nel vuoto tutto si logora, si disgrega e si decompone. C’è un problema di moralizzazione nella vita pubblica che deve essere affrontato con serietà e con rigore, senza infingimenti, ipocrisie, ingiustizie, processi sommari e grida spagnolesche…tutti sanno che buona parte del finanziamento politico è irregolare o illegale… Se gran parte di questa materia deve essere considerata materia puramente criminale, allora gran parte del sistema sarebbe un sistema criminale. Non credo che ci sia nessuno in quest’Aula, responsabile politico di organizzazioni importanti, che possa alzarsi e pronunciare un giuramento in senso contrario a quanto affermo: presto o tardi i fatti si incaricherebbero di dichiararlo spergiuro… “tutti sapevano e nessuno parlava”. Un finanziamento irregolare ed illegale al sistema politico, non è e non può essere considerato ed utilizzato da nessuno come un esplosivo per far saltare un sistema, per delegittimare una classe politica, per creare un clima nel quale di certo non possono nascere né le correzioni che si impongono né un’opera di risanamento efficace, ma solo la disgregazione e l’avventura”. A quella prima caccia molte ne sono seguite, ripetendo ciclicamente il medesimo schema: attesa, osservazione, congiura e azione. I ranger ben piazzati e armati hanno con pazienza atteso e osservato come nuovi leader formassero il loro branco e dominassero territori sempre più vasti, con il successo è arrivata la congiura e poi l’azione distruttiva. I rangers, guidati dall’estremo giustizialismo, desideravano il potere dei lupi e il loro territorio, non contenti di far rispettare l’ordine e le leggi volute dai leader, hanno indebolito e condannato ogni nuovo capo branco, con la promessa di agire per il bene di tutti gli abitanti del bosco, i cittadini.
1992 Ritorno al futuro, partito dei Pm all’assalto. Piero Sansonetti il 5 Novembre 2019 su Il Riformista. È in corso un attacco senza precedenti alla politica italiana da parte della magistratura. Anzi, un precedente c’è: 1992. Cioè l’anno della grande inchiesta “Mani Pulite”, quella che portò all’annientamento di una intera generazione politica, e precisamente della generazione che forse è stata la migliore degli ultimi 150 anni. Quella che ha reso grandi i partiti (soprattutto la Dc, il Psi e il Pci) e ha portato l’Italia a diventare la quarta potenza industriale del mondo e uno dei paesi dove più si riducevano, progressivamente, le disuguaglianze sociali. L’attacco di ieri si è verificato attraverso tre o quattro bocche di fuoco. Principalmente quelle controllate da tre magistrati molto noti: Giuseppe Pignatone, Nino Di Matteo e Nicola Gratteri. Ciascuno per conto suo ha sistemato i cannoni ad alzo zero e ha iniziato il bombardamento. Pignatone ha contestato la sentenza della Cassazione, recentissima, che esclude la presenza della mafia nella vicenda “Mondo di Mezzo”. (La Cassazione aveva spiegato che corruzione e mafia non sono necessariamente la stessa cosa). Di Matteo, che è un ex Pm e un membro del Csm (recentemente escluso da un gruppo di lavoro della superprocura Antimafia perché troppo ciarliero coi giornalisti) ha usato la Tv per entrare nella contesa politica e mettere in moto una valanga di fango contro Berlusconi. Gratteri – che dei tre è il più concreto – senza tanto rumore ha fatto capire al Pd e al centrodestra calabrese che i candidati alla Presidenza della regione è meglio che li scelga lui. E ha deciso che né il governatore uscente – candidato naturale del centrosinistra – né il sindaco di Cosenza – candidato naturale del centrodestra – sono adatti all’incarico. Siccome il governatore e il sindaco sono di gran lunga i candidati favoriti, in vista delle elezioni di gennaio, Gratteri ha ottenuto già un buon risultato: probabilmente centrodestra e Pd piegheranno il capo e presenteranno un candidato gradito a Gratteri, e così, ovviamente, faranno anche i 5 stelle. In questo modo il risultato delle regionali è abbastanza sicuro: vincerà un gratteriano. Non so se qualcuno ricorda quella favola di Esopo del Leone e del topolino, rielaborata nella versione di Trilussa, che finisce con quei versi memorabili in dialetto: “Tenente, la promozzione è certa, e te lo dico perché me so magniato er capitano”. Ecco, il lavoro di Gratteri si ispira un po’ al poeta romanesco. Di Trilussa gli manca solo l’ironia.
Aggiungiamo a questi attacchi diretti anche l’attacco indiretto che viene in seguito all’arresto a Palermo di un ex detenuto e militante radicale. Il quale è accusato di avere avuto rapporti coi boss e di avere utilizzato per questi rapporti la possibilità di visitare i carcerati a seguito dei parlamentari. Quel che colpisce è la foga con la quale da molte parti (non dalla Procura di Palermo, proprio per confermare che una cosa è la magistratura e una cosa diversa e non coincidente è il partito dei Pm) si è chiesto di cogliere al balzo questa notizia di cronaca per limitare le visite in carcere e per rendere le prigioni un luogo ancora più inaccessibile e dove i diritti sempre di più diventino una opzione discrezionale. Nel titolo di questo articolo, ricordiamo il 1992. Perché? Non solo perché la virulenza dell’attacco dei magistrati fa ricordare la grandiosità di Mani Pulite. Ma per altre due ragioni. La prima riguarda la situazione politica, la seconda riguarda le istituzioni. La situazione politica oggi è molto simile a quella del 1992. La politica è debolissima, allo sbando, e non sembra in grado di controllare i movimenti di chiunque abbia intenzione di ferirla. Il governo è sorretto da partiti che nel Paese sono minoranza. L’opposizione è sostenuta invece da una maggioranza abbastanza forte, nell’opinione pubblica, e tuttavia – specialmente per le recenti esperienze governative della Lega – dà la sensazione di non avere né idee né competenze sufficienti per governare la crisi. I partiti sono allo sbando. I due partiti che negli ultimi 30 anni si sono alternati al vertice del potere politico, e cioè Forza Italia e il Pd, sono ridotti ai minimi termini e sono martoriati dalle scissioni successive. L’intellettualità è in ritirata, impaurita, spaesata, incapace di esprimere giudizi e tantomeno di indicare prospettive. La pancia del Paese è in grande agitazione, travolta dalla cultura del “vaffa” ma senza più aver fiducia neppure in chi quella cultura ha creato. Tutto ricorda i tempi drammatici del ‘92-’93, quando i partiti di governo persero in pochi mesi più della metà dei consensi che avevano, mentre l’ex Pci sbandava e poi si accodava ai magistrati. E i giornali, in gran parte subalterni al potere economico – anche lui intimidito dall’offensiva della magistratura – decisero di schierarsi a testuggine a difesa delle Procure. La seconda ragione per la quale vediamo una somiglianza tra l’offensiva di oggi e quella del ‘92 è la larghezza dell’attacco. Che non si limita a colpire i partiti e a pretendere (Gratteri) il diritto a surrogarli, ma giunge fino a mettere in discussione l’intero assetto democratico. Compreso, in parte, il potere giudiziario. L’attacco di un gruppo di magistrati guidati da Marco Travaglio alla Corte Costituzionale, e ora l’attacco di Giuseppe Pignatone alla Corte di Cassazione, spiegano benissimo la natura di questa offensiva. Il partito dei Pm non solo spara a palle incatenate contro i partiti, ma intende mettere in discussione anche i meccanismi fondamentali del garantismo che funzionano all’interno dell’Ordine giudiziario. L’obiettivo è grandioso e semplice: mettere in mora lo Stato di Diritto. In tutte le sue articolazioni. Queste righe che ho scritto sono di semplice analisi politica. Non vi nascondo che il sentimento che questa analisi produce, in me, è di paura. Siccome sono, di formazione, un vecchio comunista, ricordo Antonio Gramsci e la sua analisi sulla sovversione delle classi dirigenti. Mi pare attualissima. Oggi la sovversione avviene da parte del partito di Pm. P.S. Lo ripeto per l’ennesima volta, e non come precisazione formale. Partito dei Pm e magistratura non coincidono. E in buona parte sono in conflitto tra loro. Però il partito dei Pm, oggi, è fortissimo, e sta fagocitando la magistratura.
Mani pulite, la stagione dei suicidi. Roberta Caiano il 19 Novembre 2019 su Il Riformista. Tangentopoli e tutto ciò che ne conseguì non solo cambiò il volto della politica italiana, che segnò la fine della cosiddetta Prima Repubblica, ma provocò 41 suicidi tra politici e imprenditori. Conosciuta anche come l’inchiesta di Mani Pulite, deve il suo nome al Pm Antonio Di Pietro il quale aprì un fascicolo alla Procura di Milano nel 1991 dando inizio alle indagini. Il vero inizio, però, si ha nel febbraio 1992 quando Di Pietro chiese e ottenne un ordine di cattura nei confronti dell’ingegnere Mario Chiesa, presidente del Pio Albergo Trivulzio e membro del Psi di Milano. Dapprima Chiesa, incarcerato a San Vittore, si rifiutò di collaborare con il pubblico ministero, ma in seguito confessò che lo scandalo delle tangenti era in realtà molto più esteso di quello che si riteneva. Da quel momento lo scalpore si allargò a macchia d’olio attraverso una risonanza mediatica molto forte.
I PRIMI SUICIDI – Furono 41 le persone che si tolsero la vita a causa di queste indagini. La maggior parte lo fece al di fuori dal carcere o ancora prima di essere ufficialmente indagati. Questo accadde come conseguenza della pressione dell’opinione pubblica, per il timore che si venisse marchiati a vita, oltre che condannati. Il primo a suicidarsi fu Franco Franchi, coordinatore di una USL di Milano. Sebbene non fosse ancora entrato nelle indagini, sapeva che prima o poi sarebbe rientrato e così si uccise nella sua auto soffocato dal monossido di carbonio. A seguire ci furono quello del segretario del Partito Socialista di Lodi, Renato Morese, che si tolse la vita con un colpo di fucile alla testa, poi quelli di Giuseppe Rosato, della Provincia di Novara, Mario Luciano Vignola, della Provincia di Savona, e dell’imprenditore di Como Mario Comaschi.
I SUICIDI ECCELLENTI – Il 2 settembre del 1992 è la volta del deputato del Partito socialista Sergio Moroni. Tesoriere del partito in Lombardia, a Moroni vengono notificati ben tre avvisi di garanzia per una serie di presunte tangenti e il pool di Mani Pulite chiede alla Camera l’autorizzazione a procedere. Moroni scrive una lettera all’allora presidente della Camera Giorgio Napolitano nella quale parla di ipocrisia e sciacallaggio e di un processo sommario e violento. Rifiuta che venga definito come un ladro e contesta di non aver mai preso una lira concludendo con una frase inquietante: “ma quando la parola è flebile non resta che il gesto“. Il 2 settembre si spara un colpo di fucile alla testa nella cantina della sua casa di Brescia. Uno dei nomi più famosi è quello Gabriele Cagliari. Presidente dell’ENI ed uno dei più importanti manager pubblici, dopo 4 mesi nel carcere di San Vittore si toglie la vita soffocandosi con un sacchetto di plastica. La sua vicenda è quella che ha destato più scalpore perché vengono trovate delle sue lettere in cui esprimeva il suo senso di impotenza nei confronti della gogna mediatica a cui era sottoposto. Cagliari più volte aveva dichiarato di essere all’oscuro delle tangenti ma la pressione proveniente dall’esterno della cella è stata più forte portandolo al suicidio.
A soli tre giorni dalla morte di Cagliari, si uccide un altro indagato: Raul Gardini. Il manager, a capo dell’impero agro-alimentare della famiglia Ferruzzi di Ravenna, viene indagato per una maxi-tangente da 150 miliardi dell’affare Enimont. Quando uno dei suoi dirigenti viene arrestato in Svizzera, Gardini pensa che lui sia il prossimo ad essere arrestato così si toglie la vita nella sua casa di Milano. Infine il 25 febbraio del 1993 viene ritrovato il corpo senza vita di Sergio Castellari, ex direttore generale del Ministero delle Partecipazioni Statali, che muore con un colpo di revolver Calibro 38. Risultano brutali le parole di Piercamillo Davigo del pool di Mani Pulite “la morte di un uomo è sempre un avvenimento drammatico. Però credo che vada tenuto fermo il principio che le conseguenze dei delitti ricadono su coloro che li commettono non su coloro che li scoprono“.
· Non era Mafia, ma Tangentopoli Siciliana.
Borsellino, 5 giorni prima della strage, ai colleghi: «Approfondite mafia-appalti!» Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 21 agosto 2020. Nell’audizione al Csm, del 29 luglio 1992, del magistrato Domenico Gozzo alcuni particolari inediti delle richieste di Borsellino su mafia-appalti. Cinque giorni prima di finire stritolato a Via D’Amelio, in riunione Paolo Borsellino ha chiesto davanti a tutti i magistrati della Procura di Palermo che si approfondisse l’indagine sul dossier mafia appalti. Non solo. Oltre a fare degli appunti ben circoscritti, ha anche chiesto il rinvio della riunione per approfondire ulteriormente il tema. Purtroppo non fece in tempo. In esclusiva Il Dubbio mette in luce nuovi particolari che potrebbero essere utili per i magistrati nisseni. Sì, perché la procura di Caltanissetta è l’unica titolata per competenza territoriale a fare luce sul movente della strage di Via D’Amelio. Lo stesso avvocato Fabio Trizzino, legale di parte civile della famiglia di Borsellino, durante il processo contro Matteo Messina Denaro – accusato di essere uno dei mandanti delle stragi di Capaci e di via D’Amelio – ha ribadito che bisogna cercare le risposte nei 57 giorni tra le due stragi. «Dobbiamo capire quali informazioni possano essere finite a Borsellino, potremmo iniziare a vedere la finalità preventiva di bloccarlo sul fronte del dossier mafia e appalti», ha osservato Trizzino.A questo punto vale la pena aggiungere l’ennesimo tassello. Siamo nel 14 luglio 1992. Data dell’ultima riunione in Procura a cui ha partecipato Paolo Borsellino. Il vertice a Palermo voluto dall’allora capo procuratore Pietro Giammanco è attestato nelle testimonianze rese al Csm, a fine luglio ’92, da altri magistrati all’epoca in servizio nel capoluogo. Tra di loro c’è Domenico Gozzo, all’epoca sostituto procuratore presso la procura di Palermo da un mese e mezzo. Tra i vari magistrati, Gozzo è stato uno dei pochi a spiegare con dovizia di particolari tutto ciò che è accaduto nell’ultima riunione alla quale partecipò Borsellino.
Tensione durante la riunione del 14 luglio. Dal verbale del Csm datato 29 luglio 1992 si apprende che alla domanda sulla situazione generale dell’ufficio di Palermo, il dottor Gozzo specifica che era arrivato il 2 giugno del ’92 trovando una atmosfera abbastanza tesa e ha assistito a delle assemblee perché «alla Procura di Palermo c’è questa consuetudine di fare delle assemblee in cui si discutono di vari temi». A quel punto un membro del Csm gli pone una domanda più specifica, ovvero se questa atmosfera di tensione l’avesse colta anche prima della strage di Via D’Amelio. Risponde affermativamente e dopo aver spiegato i problemi che si sono verificati nelle riunioni precedenti e dei problemi organizzativi nella procura, Gozzo va al dunque e parla della riunione del 14 luglio. «È stata l’ultima a cui ha partecipato Paolo Borsellino, era seduto due sedie dopo di me – spiega l’allora sostituto procuratore -, era una riunione che era stata convocata per i saluti prefestivi e per parlare anche di tutta una serie di problemi che dopo la morte di Falcone erano apparsi sui giornali (in questo momento non mi ricordo la scaletta, mi ricordo, tra gli altri, i processi mafia e appalti), cioè i vari colleghi erano chiamati a riferire sui processi che avevano gestito». Gozzo sottolinea che «su mafia e appalti, quindi, c’era il collega Pignatone (se non ricordo male) e doveva esserci anche il collega Scarpinato che però non poté venire per problemi di famiglia». Il magistrato Gozzo prosegue: «Ho visto proprio questo contrasto più che latente, visibile, perché proprio Borsellino chiese e ottenne che fosse rinviata – perché al momento aveva dei problemi -, la discussione su questo processo e fece degli appunti molto precisi: come mai non fossero inserite all’interno del processo determinate carte che erano state mandate…». Gozzo specifica che il processo è quello relativo a mafia-appalti e, alla domanda di che carte si trattassero, risponde: «Si trattava di carte che erano state inviate (quello che ho sentito là, chiaramente, posso riferire) alla procura di Marsala – e nella fattispecie dal collega Ingroia, che adesso è anche lui alla Procura di Palermo – che era lo stesso processo però a Marsala. C’erano degli sviluppi e, quindi, erano stati mandati a Palermo e lui (Borsellino, ndr.) si chiedeva come mai non fosse stata seguita la stessa linea». Gozzo prosegue nel racconto indicando un particolare non da poco: «E, poi, diceva che c’erano dei nuovi sviluppi (in particolare un pentito di questi che ultimamente aveva parlato), e sono rimasto sorpreso perché dall’altra parte si rispose: “ma vedremo”». Gozzo sottolinea questo passaggio del racconto mostrando le sue perplessità in merito alla risposta data a Borsellino: «Cioè, di fronte ad una offerta così importante (io riferisco i fatti): “Ma vedremo se è possibile, ma è il caso di acquisirlo”».
Aveva studiato il dossier dei Ros. Dopo il racconto sulle altre problematiche relative alla procura di Palermo, più avanti un membro del Csm ritorna sulla questione mafia-appalti e chiede a Gozzo di dire qualcosa di più specifico sulla richiesta di chiarimenti da parte di Borsellino. «Probabilmente potete chiedere anche qualcosa di più interessante su questo famoso rapporto dei Ros su mafia- appalti anche a mia moglie Antonella Consiglio – risponde Gozzo – , perché mia moglie ha avuto modo di consultare queste carte proprio per il processo che ha fatto a Termini Imerese che si riferiva a Angelo Siino (l’ex ministro dei lavori pubblici di Cosa nostra, ndr) che orbita in quell’area di Termini Imerese e della Madone». E aggiunge: «Lei mi riferiva che probabilmente in un primo momento questo rapporto poteva non sembrare significativo, ma che in effetti offriva notevoli spunti di attività investigativa». Quello che sappiamo è che dopo la strage di Capaci, Borsellino (all’epoca procuratore capo a Marsala e dal marzo 1992 di nuovo alla procura di Palermo come procuratore aggiunto) decise – pur non essendo titolare dell’indagine – di approfondire l’inchiesta riguardante gli appalti, ovvero il coinvolgimento della politica e delle imprese nazionali con la mafia, perché – come disse al giornalista Mario Rossi – la ritenne la causa della morte del suo amico Giovanni Falcone. Ciò è confermato sia da un incontro che Borsellino volle tenere il 25 giugno 1992, presso la Caserma dei Carabinieri Carini di Palermo, con gli ex Ros Mario Mori e Giuseppe De Donno, ai quali chiese di sviluppare le indagini riferendo esclusivamente a lui, sia dalle conversazioni avute dallo stesso Borsellino con Antonio Di Pietro, che all’epoca stava conducendo le indagini sugli appalti al centro di Mani pulite. A questo si aggiunge il fatto che Borsellino sentii anche il pentito Leonardo Messina, il quale gli riferì che la Calcestruzzi Spa (all’epoca del gruppo Ferruzzi – Gardini) sarebbe stata in mano a Totò Riina. Ora, grazie alle audizioni rese al Csm tra il 28 e il 31 luglio 1992, sappiamo che Borsellino aveva una conoscenza approfondita del dossier mafia-appalti tanto da avanzare rilievi importanti e ottenere una nuova riunione in Procura per approfondire il tema. Non fece in tempo. Dopo pochi giorni il tritolo esplose sotto la casa della mamma e che massacrò, oltre a lui, i ragazzi della scorta Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina. Il 14 agosto del 1992, in pieno periodo ferragostano, il gip Sergio La Commare archivia il dossier mafia-appalti. La richiesta di archiviazione viene stilata il 13 luglio e depositata il 22 luglio, solamente tre giorni dopo l’assassinio di Borsellino.
Perché fu ucciso Paolo Borsellino, ora lo sappiamo ma non perché non si indagò. Piero Sansonetti de Il Riformista il 22 Agosto 2020. Molti tasselli adesso si incastrano e comincia a diventare abbastanza chiaro il motivo per il quale fu ucciso Paolo Borsellino. Fu ucciso perché voleva indagare sul dossier mafia-appalti, probabilmente l’atto di accusa più documentato e clamoroso di sempre sui rapporti tra economia mafiosa (e potere mafioso) ed economia legale. Forse è lo stesso motivo per il quale è stato ucciso Giovanni Falcone, ma questo non è sicuro. Occorrerebbero delle indagini. Fin qui la Procura di Palermo (diciamo in questi quasi trent’anni), non ha ritenuto di doverle svolgere. Si è limitata a cadere nella trappola tesagli da un falso pentito (Vincenzo Scarantino) che – come si dice – l’ha mandata pe’ campi per parecchi anni, con l’aiuto (o il mandato) di diversi uomini delle istituzioni; e poi a mettere in piedi quel processo un po’ farsa, quello sulla presunta trattativa Stato-mafia, dove l’imputato principale, paradossalmente, è il generale Mori, cioè l’uomo che ha raccolto il dossier mafia-appalti, cioè l’amico di Falcone e Borsellino, cioè l’uomo che, dopo Borsellino e Falcone, ha dato di più nella lotta a Cosa Nostra. Per ora noi giornalisti non possiamo fare altro che raccogliere gli elementi di assoluta evidenza. Quelli che risultano dai documenti, dalle dichiarazioni, dalle testimonianze, comprese quelle che sono state ignorate dalla magistratura. Un giornalista che fa questo con molto impegno da diversi anni è Damiano Aliprandi, del Dubbio, che ieri ha pubblicato stralci della testimonianza pronunciata nel 1992 davanti al Csm da uno dei magistrati palermitani, Domenico Gozzo, che in quei giorni era sulla piazza. Gozzo parla di una riunione di tutti i Pm della Procura di Palermo, convocati dal procuratore Giammanco, il 14 luglio del 1992, una cinquantina di giorni dopo l’assassinio di Falcone. Era presente Paolo Borsellino in qualità di Procuratore aggiunto. Da sola questa testimonianza dimostra che Paolo Borsellino, dopo l’uccisione di Falcone, voleva che si lavorasse sul dossier mafia- appalti e mostrava di conoscere bene quel dossier, e rimproverava i suoi colleghi di averlo sottovalutato. Non poteva sapere che, proprio il giorno prima, i sostituti procuratori Roberto Scarpinato e Guido Lo Forte avevano firmato la richiesta di archiviazione del dossier. Nessuno glielo disse. Alla riunione, secondo il ricordo di Gozzo, del dossier parlò Pignatone, che era uno dei sostituti procuratore che erano incaricati di seguirlo. Pignatone però non era tra quelli che il giorno prima aveva firmato la richiesta di archiviazione. Possibile che non sapesse niente? E poi, alla riunione pare ci fosse anche Lo Forte (Scarpinato aveva problemi a casa): perché quando Borsellino chiese del dossier e pretese anche che fosse fissata una riunione ad hoc per discuterne, Lo Forte non avvertì che era stata già chiesta l’archiviazione? Timidezza, paura dell’ira di Borsellino? O un modo per evitare una seccatura, o strategia? La riunione chiesta da Borsellino non si tenne mai. Perché nel frattempo Borsellino fu ucciso. Forse si potrebbe anche scrivere: Borsellino fu ucciso perché quella riunione non si tenesse mai. E chi lo uccise raggiunse lo scopo. Perché a nessun magistrato che ne aveva il potere e la competenza venne in mente di convocare la riunione, dopo la morte di Borsellino. Preferirono ascoltare Scarantino… Per capire bene che non mi sto inventando niente, ricopio le frasi più importanti della deposizione del magistrato Domenico Gozzo, riportate ieri da Aliprandi sul Dubbio (il verbale della deposizione al Csm è del 29 luglio del 1992, appena 10 giorni dopo l’uccisione di Borsellino). Alla fine della descrizione mi limiterò a ricordarvi alcune date, la cui successione fa impressione. Ecco le parole di Gozzo: «Alla Procura di Palermo c’è questa consuetudine di fare delle assemblee in cui si discute di vari temi… La riunione del 14 luglio è stata l’ultima a cui ha partecipato Paolo Borsellino, era seduto due sedie dopo di me, era una riunione… in cui i vari colleghi erano chiamati a riferire sui processi che avevano gestito… su mafia e appalti, quindi, c’era il collega Pignatone (se non ricordo male) e doveva esserci anche il collega Scarpinato che però non poté venire per problemi di famiglia. Ho visto proprio questo contrasto più che latente, visibile, perché proprio Borsellino chiese e ottenne che fosse rinviata – perché al momento aveva dei problemi – la discussione su questo processo e fece degli appunti molto precisi: come mai non fossero inserite all’interno del processo determinate carte che erano state mandate…». Gozzo specifica che il processo è quello relativo a mafia- appalti e, alla domanda di quali carte si trattasse, risponde: «Si trattava di carte che erano state inviate (quello che ho sentito là, chiaramente, posso riferire) alla procura di Marsala – e nella fattispecie dal collega Ingroia, che adesso è anche lui alla Procura di Palermo – che era lo stesso processo, però a Marsala. C’erano degli sviluppi e, quindi, erano stati mandati a Palermo e lui (Borsellino, ndr.) si chiedeva come mai non fosse stata seguita la stessa linea. E, poi, diceva che c’erano dei nuovi sviluppi (in particolare un pentito di questi che ultimamente aveva parlato), e sono rimasto sorpreso perché dall’altra parte si rispose: “ma… vedremo”… Cioè, di fronte ad una offerta così importante (io riferisco i fatti): “Ma, vedremo se è possibile… ma, è il caso di acquisirlo?”». Benissimo. Ora un occhio alle date, perché qualcosa dicono.
13 luglio. Scarpinato e Lo Forte firmano la richiesta di archiviazione del dossier mafia-appalti.
14 luglio. Si tiene l’assemblea dei Pm nella quale Borsellino parla di mafia-appalti senza evidentemente sapere che è stata già avanzata la richiesta di archiviazione.
19 luglio. Borsellino viene ucciso insieme alla scorta.
22 luglio. La richiesta di archiviazione del dossier mafia-appalti viene depositata formalmente.
14 agosto. Mafia-appalti è archiviata e non se ne parlerà più. Nel dossier erano indicate tutte le aziende dell’Italia continentale che trattavano con la mafia.
P.S. 1 – La domanda è questa: il processo sull’ipotesi di trattativa tra stato e mafia è stato messo in piedi per dare una spiegazione all’uccisione di Borsellino diversa dalla ragione che ora appare in tutta la sua evidenza e sulla quale non si è voluto indagare?
P.S. 2 – Un ricordo: nei verbali di interrogatorio della moglie di Borsellino, dopo la sua uccisione, si legge questa frase: «Ricordo perfettamente che il sabato 18 luglio 1992 andai a fare una passeggiata con mio marito sul lungomare di Carini, senza essere seguiti dalla scorta. Paolo mi disse che non sarebbe stata la mafia a ucciderlo, della quale non aveva paura, ma sarebbero stati i suoi colleghi e altri a permettere che ciò potesse accadere. In quel momento era allo stesso tempo sconfortato, ma certo di quello che mi stava dicendo».
Dopo aver letto queste parole, c’è qualcuno che può restar tranquillo?
Mafia & appalti, una verità scomoda. Luciano Tirinnanzi su Panorama 12 Luglio 2013. Cosa c'è dietro e cosa c'è stato dopo l'inchiesta condotta dai Ros. Quando, negli anni a venire, si guarderà con lo sguardo freddo e distante della storia agli eventi che contraddistinsero i fatti avvenuti tra la seconda metà del 1992 e l’estate del 1993, si accetterà probabilmente la vera ragione per cui sono morti Giovanni Falcone prima e Paolo Borsellino poi: l’indagine su Mafia e Appalti condotta dai carabinieri del ROS. Una delle vicende più cupe e al contempo rivelatrici dell’animus italico - stretto tra segreti di Stato e condizionamenti della mafia, tra soldi e potere - si fa improvvisamente chiara, quando leggiamo quell’indagine da cui tutto ha avuto origine e che ha portato i suoi destinatari, i giudici Falcone e Borsellino, alla morte e i suoi autori, il colonnello Mario Mori e il capitano Giuseppe De Donno, a un ventennio di processi a loro carico. In quest’Italia, infatti, spesso si vogliono ammantare di misteriosi enigmi e ridde di complotti, anche le verità più palesi. Una di queste verità è scritta nella sentenza della Corte d’Assise di Catania del 22 aprile 2006, dove si afferma, a proposito del movente della strage di via D’Amelio: “la possibilità che il dottor Borsellino venisse ad assumere la Direzione Nazionale Antimafia e, soprattutto, la pericolosità delle indagini che egli avrebbe potuto svolgere in materia di mafia e appalti“. Ma andiamo con ordine. Ben prima che la Procura di Milano avviasse l’inchiesta che passerà alla storia come “Mani Pulite” nei primi mesi del 1992, già il 20 febbraio 1991 il ROS depositò l’informativa Mafia e Appalti, relativa alla prima parte delle indagini sulle connessioni tra politici, imprenditori e mafiosi, dove si rivelava l’esistenza di un comitato d’affari illegale e si facevano i nomi di società e persone coinvolte.
Falcone e l’importanza di depositare “Mafia e Appalti”. Il deposito di Mafia e Appalti fu voluto espressamente da Giovanni Falcone, il quale all’epoca stava passando dalla Procura di Palermo alla Direzione degli Affari Penali del Dipartimento di Giustizia capitolino: Falcone si raccomandò con i carabinieri del ROS di depositare subito quelle carte, poiché ritenute cruciali per spiegare le connessioni tra mafia e politica. Lo ricordò lo stesso giudice al convegno palermitano del 14 e 15 marzo 1992, a Castello Utveggio: “la mafia è entrata in borsa” disse due mesi prima di saltare in aria. Quelle carte “scottavano” al punto che divennero da subito motivo d’imbarazzo e indecisione da parte della Procura di Palermo. Che inizialmente, sulla base di Mafia e Appalti emise solo 5 provvedimenti di custodia cautelare per associazione a delinquere di stampo mafioso (7 luglio 1991), diversamente dai 44 che suggeriva l’informativa. Giovanni Falcone, nei suoi diari, dirà in proposito: “Sono scelte riduttive per evitare il coinvolgimento di personaggi politici”. Non solo. Agli avvocati difensori dei 5 arrestati fu indebitamente e insolitamente consegnata l’intera informativa del ROS (890 pagine più 67 di appendice, dunque comprensiva di tutte le 44 persone oggetto d’indagine), anziché stralci dei soli passaggi relativi alle loro posizioni. Con ciò fu svelata l’architettura investigativa complessiva, emersero i nomi di tutti i soggetti nel mirino del ROS e si vanicò sostanzialmente l’intera indagine. Dopodiché inizia a scorrere il sangue. Il primo a morire fu il deputato andreottiano Salvo Lima, il 12 marzo 1992, l’uomo “delle cosche” che non poteva più garantire per esse. Poi, il 4 aprile successivo, toccò al maresciallo Giuliano Guazzelli, ucciso perché - su esplicita richiesta - rifiutò di stemperare le accuse contro Angelo Siino, uno dei 5 arrestati di Mafia e Appalti e ritenuto dal ROS “l’anello di congiunzione tra mafia e imprenditoria”. Quindi, come noto, il 23 maggio morì lo stesso Falcone e il 19 luglio 1992 la stessa sorte toccò anche a Paolo Borsellino.
Borsellino e le confidenze a Ingroia. Borsellino, il 25 giugno del ‘92, volle incontrare segretamente negli uffici del ROS gli autori dell’informativa, il colonnello Mori e il capitano De Donno, riferendo loro che l’inchiesta Mafia e Appalti era “il salto di qualità” investigativo che avrebbe permesso di individuare sia i responsabili della corruttela siciliana sia gli autori della morte di Falcone. Borsellino indicò proprio in Mafia e Appalti la causa della morte dell’amico giudice e chiese il massimo riserbo sull’incontro, in particolare nei confronti dei colleghi della Procura di Palermo, per timore di fughe di notizie. Il giudice Antonio Ingroia, intimo di Borsellino, confermò alla Corte d’Assise di Caltanissetta che Borsellino gli aveva confidato di essere convinto che, attraverso gli appunti di Falcone relativi all’inchiesta Mafia e Appalti, si sarebbero potuti individuare i moventi della strage di Capaci. Fatto confermato anche da Giovanni Brusca, autore materiale della strage, il quale nel 1999 dichiarò alla DDA di Palermo che i vertici di Cosa Nostra erano “preoccupati delle indagini sugli appalti”.
L’archiviazione di “Mafia e Appalti”. Il fatto più inquietante avvenne però il 20 luglio, il giorno dopo la morte di Borsellino quando, non ancora allestita la camera ardente per le vittime di via d’Amelio, la Procura di Palermo depositò inspiegabilmente la richiesta di archiviazione dell’inchiesta Mafia e Appalti, nella parte in cui ci si riferiva a imprenditori e politici. Il decreto di archiviazione arrivò il 14 agosto. Anche in seguito a quell’atto, la frattura all’interno della Procura di Palermo e tra questa e il ROS, sembra non essersi mai più sanata. Così come non si rimarginano le ferite aperte dalle stragi mafiose del 1992, che hanno originato sospetti e liti di cui ancor oggi vediamo gli effetti, non solo nelle aule di tribunale.
Vito Ciancimino e la trattativa. Vale la pena ricordare anche la cosiddetta “Trattativa Stato Mafia” che gira intorno alla persona dell’ex sindaco di Palermo nonché “uomo delle cosche” , Vito Ciancimino. Tutto ebbe inizio il 5 agosto 1992, dopo le stragi di mafia. Ciancimino fu avvicinato dal ROS perché collaborasse alle indagini Mafia e Appalti, visto che rivestiva il ruolo di cerniera tra il mondo politicoimprenditoriale e quello mafioso. Ed, effettivamente, il sindaco consegnò qualcosa ai militari. Ma non il famigerato “papello” , bensì il libro “Le Mafie” redatto dallo stesso Vito, dal quale si evinceva la sostanziale convergenza tra la tesi dell’inchiesta Mafia e Appalti e la realtà di Palermo. Su sua espressa richiesta, Ciancimino chiese ripetutamente - ma senza esito - di essere ascoltato dalla Commissione Parlamentare Antimafia, dove all’epoca sedeva Luciano Violante. Violante fu informato dei contatti con Ciancimino dal colonnello Mori il 20 ottobre 1992, nel giorno della sua audizione all’Antimafia. Una settimana dopo, Mori consegnò al presidente Violante una copia del libro “Le Mafie” che, per la verità, a detta di entrambi non conteneva fatti poi così rilevanti. Un mese prima, Mori discusse dell’importanza dell’attività investigativa relativa agli appalti anche con Piero Grasso, all’epoca consulente della Commissione Parlamentare Antimafia. E poi con Giancarlo Caselli, poco prima che divenisse Procuratore della Repubblica, fatto che avvenne il 15 gennaio, stesso giorno in cui fu arrestato Salvatore Riina, il capo di Cosa Nostra.
Conclusioni. I passaggi di cui sopra sono tutti certificati e agli atti dei tribunali. Ma, in ultima istanza, essi saranno giudicati dal solo tribunale che conta davvero, quello della storia. Detto questo, è quantomeno bizzarro credere che vi sia stata una “trattativa segreta” ad opera del ROS finalizzata a favorire la mafia, quando erano stati proprio i carabinieri a svelare la connessione mafiapolitica attraverso l’indagine Mafia e Appalti e quando di tali circostanze erano a conoscenza quantomeno i più alti rappresentanti delle istituzioni. Davvero, nel 2013, pensiamo ancora che uomini dello Stato, carabinieri, abbiano ordito contro il nostro Paese per favorire Cosa Nostra? E a quale scopo, esattamente? Favorire Salvatore Riina? Ma Riina è o non è in carcere da vent’anni grazie alle indagini del ROS? E, da ultimo, è o non è vero che oggi la mafia fa affari miliardari con gli appalti, come scoprirono proprio i carabinieri e come pensava anche Giovanni Falcone?
Le parole di Paolo Borsellino, 28 anni dopo: «Sto arrivando a trovare cose, altro che Tangentopoli». Enzo Boldi il 19/07/2020 giornalettismo.com. I verbali delle audizioni sono stati desecretati. Paolo Borsellino aveva raccontato alla sorella di Falcone di aver trovato cose più gravi di Tangentopoli. Ventotto anni dopo sono state desecretate le audizioni. Il 23 maggio e il 19 luglio del 1992 sono due date incise nella storia delle tragedie italiane. La prima fu quella della strage di Capaci, l’attentato in cui persero la vita il giudice Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e tre uomini della scorta (Rocco Dicillo, Vito Schifani e Antonio Montinaro); la seconda, 57 giorni dopo, fu quella della strage di via D’Amelio (a Palermo) in cui persero la vita il magistrato Paolo Borsellino e cinque componenti della sua scorta: Agostino Catalano, Walter Eddie Cosina, Emanuela Loi, Claudio Traina, Vincenzo Fabio Li Muli. Ora, 28 anni dopo, sono stati desecretati i verbali delle audizioni di quel periodo marchiato con il sangue nella storia dell’Italia. In questi anni si sono rincorse varie ipotesi sull’omicidio di Paolo Borsellino. Aveva trovato i mandanti e gli autori di quell’attentato che costò la vita al suo amico e collega Giovanni Falcone? O era riuscito a individuare quei collegamenti tra Stato e Cosa Nostra di cui si è continuato a parlare per diversi anni. Ora La Repubblica riporta uno stralcio di quei verbali di audizione, in cui Maria Falcone – sorella maggiore del magistrato ucciso il 23 maggio ’92 – racconta cosa gli aveva confessato Borsellino.
Paolo Borsellino, le audizioni dopo la strage di via D’Amelio. «Dopo la messa per Giovanni, Paolo mi aveva portato a vedere il campetto di calcio dove giocavano da bambini. Gli confidai che ero scoraggiata – raccontò Maria Falcone agli inquirenti pochi giorni dopo l’attentato che costò la vita a Paolo Borsellino e a cinque componenti della sua scorta – . Mi disse: "Sto lavorando tanto, state tranquilli. Sto arrivando a trovare delle cose, altro che Tangentopoli e Tangentopoli"».
28 anni dopo. Oggi, 28 anni dopo, Matteo Messina Denaro – il superlatitante boss di Cosa Nostra – è indicato come uno dei mandanti di delle stragi del 1992. I pm hanno chiesto l’ergastolo, ma di lui non v’è traccia da anni, proprio da quegli anni di tragedie. Una storia che non si limita ai 57 giorni intercorsi tra le due stragi, ma che sembra avere radici molto più profonde.
Alberto Di Pisa: «Borsellino ucciso per mafia-appalti». Damiano Aliprandi Il Dubbio il 18 luglio 2020. Alberto Di Pisa ha lavorato con Falcone e Borsellino. Dopo l’accusa di essere il “corvo” gli fu tolta e archiviata l’inchiesta su mafia-appalti palermitana. «Proprio il giorno dell’attentato di Via D’Amelio Paolo Borsellino aveva urgenza di parlarmi, ma purtroppo non c’ero quando era passato a cercarmi». A raccontarlo a Il Dubbio è il dottor Alberto Di Pisa, magistrato di lungo corso che aveva fatto parte del pool antimafia fin dagli albori. Ha lavorato a stretto contatto con Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, ed è stato tra i giudici che istruirono il maxiprocesso. Ha svolto importanti inchieste come l’omicidio del sindaco di Palermo Giuseppe Insalaco, iniziò il processo Ciancimino, che gli fu affidato come singolo e non come componente del pool. Avviò anche una inchiesta sui grandi appalti di Palermo gestiti dall’allora ben noto “comitato d’affari”. Gliele tolsero tutte di mano per via dell’accusa – poi conclusasi con una piena assoluzione – di essere stato l’autore della lettera del “corvo”. In particolar modo l’inchiesta su mafia e appalti palermitani, passata di mano per volere dell’allora capo della procura di Palermo Pietro Giammanco, finì per essere archiviata. Nel 2016, dopo 45 anni di attività giudiziaria, ha riposto la sua toga per limiti di età. A 72 anni ha lasciato l’ufficio di procuratore di Marsala, un posto che prima ancora fu occupato da Borsellino. Recentemente ha pubblicato un nuovo libro dal titolo “Morti opportune” dove analizza alcuni decessi sospetti come i suicidi, infarti, incidenti stradali, ma che riguardano persone che appartengono alle forze dell’ordine e ai servizi segreti. Morti che sarebbero state archiviate troppo frettolosamente.
Dottor Di Pisa, lei conosceva molto bene Paolo Borsellino?
«Sì, eravamo in ottimi rapporti. Sia al livello professionale visto che abbiamo lavorato assieme nel pool antimafia, sia al livello umano. Inoltre abbiamo anche una parentela in comune. Purtroppo hanno scritto di tutto, anche che i miei rapporti con Falcone e Borsellino non erano idilliaci. Eppure, per quanto riguarda Giovanni Falcone basterebbe leggere i verbali di quando fu sentito al Csm. Alla domanda quali fossero i rapporti con me, lui rispose che erano ottimi e professionali. Non solo, quando io fui nominato procuratore aggiunto a Palermo, Falcone venne a trovarmi per congratularsi e dirmi che avremo lavorato insieme. Ritornando a Borsellino, sa cosa mi disse quando uscì l’articolo di Repubblica dove si scrisse che io sarei stato l’autore della lettera del “corvo”?»
No, mi dica.
«Mi disse che non ci avrebbe creduto nemmeno se lo avesse visto con i propri occhi che quell’anonimo l’ho scritto io. Quella vicenda, mi creda, la vorrei cancellare dalla mia mente. Tutto iniziò quando Totuccio Contorno venne arrestato a San Nicola l’Arena. Arrivò segretamente a Palermo quando era già collaboratore di giustizia negli Stati Uniti. Era sotto protezione, ma giunse in Sicilia nel periodo in cui si stava verificando un regolamento di conti all’interno della mafia. Io stesso, in una riunione dove erano presenti tutti i miei colleghi del pool, dissi apertamente che bisognava fare delle indagini per capire come fosse possibile che un collaboratore di giustizia fosse impunemente tornato in Sicilia. Ricordo che proprio in quel periodo Tommaso Buscetta disse che Contorno è stato pregato di tornare a Palermo, ma poi ha ritrattato questa sua affermazione».
Poi arrivò la lettera del “corvo” che in sostanza puntò gravissime accuse nei confronti anche di Falcone e Giovanni De Gennaro, l’allora dirigente superiore della Polizia. A quel punto è stato lei a farne le spese.
«Dovrò aspettare quattro anni prima di essere definitivamente scagionato dall’accusa di essere il “corvo” di Palermo. L’accusa nasce dalla costruzione di una pseudo prova. L’allora alto commissario Domenico Sica mi prese le impronte sul tavolo di vetro sul quale tamburellavo con le dita. In realtà, come ben spiegato nelle motivazioni della sentenza di assoluzione, non c’è mai stata una mia impronta sulla lettera anonima, ma solo la foto di un’impronta costruita a tavolino. Nella lettera c’è solo una macchia, probabilmente un pasticcio da chi ha cercato invano di trasferirle la mia impronta. Tra l’altro denunciai Sica per abuso di potere, perché quell’indagine doveva essere eseguita dalla Polizia giudiziaria e non da un organo amministrativo».
Ma secondo lei chi è stato l’autore del “corvo”?
«Basta leggere la sentenza di assoluzione. Dice chiaro e tondo che queste lettere nascono da una faida interna alla Criminalpol. E infatti in quel periodo c’era uno scontro tra la squadra di De Gennaro e quella di Bruno Contrada. Il “corvo” bisognava cercarlo lì, ma nessuno lo fece».
Ma come mai c’è stata la volontà di incastrarla?
«In quel periodo avevo inchieste scottanti, tra le quali quella su mafia e appalti del comune di Palermo. Era il periodo della famosa primavera, con Leoluca Orlando sindaco. Ma in realtà appurai che i grandi appalti erano ancora in mano a referenti mafiosi. In realtà non era cambiato nulla e Vito Ciancimino ancora contava. Inchieste che l’allora capo della procura di Palermo Pietro Giammanco me le tolse. Ancora non ero stato raggiunto da un avviso di garanzia per il Corvo, ma era bastato un articolo de La Repubblica contro di me – che giorni prima aveva invece avanzato sospetti per il ritorno di Contorno – per sospendermi. Quella sugli appalti fu affidato ad un collega della procura di Palermo che poi fece richiesta di archiviazione. In quel periodo, ad esempio, mi occupai anche della vicenda di Pizzo Sella, sperone di granito che è diventata “la collina del disonore”. Scoprii che furono rilasciate dalla giunta comunale guidata da Salvatore Mantione centinaia di concessioni edilizie a Rosa Greco, sorella del boss Michele Greco. Fu una lottizzazione abusiva avvenuta in cambio di favori. Dopo anni uscì fuori che in questa operazione edilizia ci fu l’interessamento della Calcestruzzi di Ravenna del gruppo Gardini-Ferruzzi. In quel periodo chi toccava gli appalti veniva delegittimato oppure moriva».
Perché, chi è morto per gli appalti?
«Sicuramente Paolo Borsellino. Non c’entra nulla la trattativa, perché ne avrebbe parlato e soprattutto denunciato in Procura se avesse appurato una cosa del genere. In realtà è morto per la questione appalti, erano lì tutti gli interessi della mafia. Lui stesso si era incontrato con i Ros per discutere delle indagini relative al dossier».
A lei ne ha mai parlato?
«No, ma ricordo che in una occasione – se non erro ai funerali di Falcone – gli chiesi se l’attentato fosse una strategia di “destabilizzazione”. Lui mi rispose di no, ma che è “stabilizzante”. Le racconto un’altra circostanza. Quella domenica del 19 luglio Borsellino era passato da mio cognato che vive nella zona di Marina Longa, la località estiva dove Paolo ogni tanto, il fine settimana, andava. Lui sapeva che ci andavo pure io. Purtroppo non ho fatto in tempo a incrociarlo. Quando arrivai, mio cognato mi disse che Borsellino mi aveva cercato, anche con insistenza. Rimango con questa amarezza nel non averlo incrociato, chissà cosa mi avrebbe voluto dire con una certa urgenza».
A proposito di magistratura, il caso Palamara le ha sorpresa?
«Io che provengo dall’esperienza della Procura dei veleni assolutamente no. Ho scritto recentemente nella mailing list dell’Associazione nazionale magistrati che questo sistema uscito ora, in realtà esiste da 30 anni. Ad esempio, tutti gli incarichi direttivi venivano sempre dati agli esponenti di Magistratura Democratica. Non dimentichiamoci di Falcone. Con la sola eccezione di Gian Carlo Caselli, tutta MD votò contro di lui come successore di Antonino Caponnetto alla guida dell’ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo».
Ma lei pensa che ora ci sia un cambiamento?
«No. Non c’è la volontà politica di fare un cambiamento radicale del sistema. Ho letto il progetto di riforma e mi pare acqua fresca. D’altronde potrebbe esserci il rischio che Luca Palamara diventi l’unico colpevole, una sorta di capro espiatorio della magistratura e, infatti, la sua linea difensiva mi pare chiara. Ovvero che non è solo lui, ma un sistema generalizzato».
Di Pietro racconta “Tangentopoli”. “Quando Borsellino mi disse: Tonì facciamo presto, ci resta poco”. Carmen Sepede il 17 dicembre 2018 su isnews.it. Il racconto di una delle pagine più importanti della storia italiana, in una lezione-intervista che l’ex magistrato del Pool di “Mani pulite” ha fatto nel “Caffè letterario” dell’Istituto “Pilla” di Campobasso. Il terrorismo e gli attentati di mafia, la delegittimazione e l’ingresso in politica, l’Italia oggi e il rapporto con il suo Molise, in una ricostruzione che ha lasciato gli studenti a bocca aperta. Antonio Di Pietro doveva morire. Lo aveva deciso la mafia, che lo aveva messo al terzo posto della lista dei nemici da abbattere. Dopo Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Lo ha raccontato l’ex magistrato del Pool “Mani pulite”, oggi a Campobasso, nel “Caffè letterario” dell’Istituto “Pilla” di Campobasso, intervistato dal giornalista Giovanni Minicozzi davanti agli studenti della scuola, rimasti a bocca aperta nel sentire, dal vivo, il racconto di una delle pagine più importanti della storia del nostro Paese.
“Tangentopoli” e i rapporti tra Stato e Mafia. “Ero ai funerali di Giovanni Falcione – ha ricordato Di Pietro – Borsellino mi si avvicinò e mi disse. “Tonì, facciamo presto, abbiamo poco tempo”. Il tempo che gli era rimasto lo conoscete tutti. A me è andata meglio, a Milano ero più protetto, abitavo in una casetta di campagna, sorvegliato notte e giorno con quattro telecamere collegate alla questura. Dopo gli attentati mandai però la mia famiglia in America, in Costa Rica e in Ohio, con un falso passaporto e protetti dallo Stato. Io invece decisi di restare. Quando morì anche Borsellino – ha aggiunto – tornai a casa a Montenero di Bisaccia. Non avevo più i genitori e mi rivolsi a mia sorella. “Concettì, che devo fare?” le chiesi. E lei, “fai il tuo dovere e pagane le conseguenze”.
Al suo anco c’erano gli altri magistrati del Pool di Milano, Gerardo D’Ambrosio, Francesco Saverio Borrelli, Ilda Boccassini, Gherardo Colombo e Piercamillo Davigo. Tra il 1992 e il 1993, nel cuore di ‘Tangentopoli’, Antonio Di Pietro era diventato uno degli uomini più potenti d’Italia, sulle copertine di tutti i quotidiani del mondo. Dal lanciare il suo nome come possibile Presidente della Repubblica, com’è pure avvenuto, alla macchina del fango e “allo sputo in faccia”, come ha ricordato, ne è passato poco. “Dopo gli omicidi di Falcone e Borsellino – le sue parole – lo Stato ha rialzato la testa nei confronti della mafia, come aveva fatto con il terrorismo dopo l’omicidio Moro. Allora, visto che non si è potuto più uccidere, è stata utilizzare un’altra strategia. Quando vuoi fermare una persona puoi utilizzare due metodi: o ammazzarlo, o delegittimarlo, che è la morte civile. Ed è quello che hanno tentato di fare con me. Perciò “Mani pulite” è riuscita solo per metà”.
Dopo la caduta della Prima Repubblica, “che in tanti hanno attribuito a me”, Di Pietro ricevette una telefonata. "Arrivava dall’ufcio della Presidenza della Repubblica. Proposero a me di fare il ministro dell’Interno e a Davigo il Ministro della Giustizia. Io ho riutato, perché se avessi accettato sarei stato un 'padreterno', ma corrotto”. Patentino Muletto da 120€ Corsi in tutta Italia. Trova il Corso più vicino a Te. Azienda Sicura APRI ANN. L’impegno in politica, con la fondazione dell’Italia dei Valori e la nomina a ministro dei Lavori pubblici del Governo Prodi, arriva dopo le sue dimissioni da magistrato. “Non mi sono certo dimesso per fare politica – ha voluto precisare – ma per difendermi, sono stato processato 267 volte e sempre assolto. A un certo punto hanno anche detto che ero un agente della Cia. Ma che ci azzecco io con la Cia – ha detto utilizzando il “dipietrese doc” - che non so una parola di inglese”.
Se "Mani pulite" è finita, “è stato un periodo irripetibile”, la corruzione esiste ancora. “Non è però la stessa cosa – Di Pietro ha voluto precisare – oggi se ne parla così tanto perché c’è più lotta alla corruzione. C’è però stata una sbiancatura del reato. Io all’epoca di Tangentopoli ho trovato un pouf pieno d’oro, valanghe di soldi nascosti in uno scarico del bagno. Oggi ci si vende per il viaggio, il regalo, un vantaggio per sé e i propri familiari. Ora come allora la corruzione è però una continua lotta tra guardia e ladri. Quando le guardie scoprono il metodo per incastrare i ladri questi lo cambiano”. Una lezione di cultura della legalità, voluta dalla dirigente del 'Pilla' Rossella Gianfagna, con un monito rivolto agli studenti, “non aspettate che siano gli altri a denunciare, fatelo voi stessi, quando ci sono le circostanze”, come ha detto l'ex ministro. Che ha espresso preoccupazione per il suo Paese, “perché come negli anni Trenta e Quaranta qualcuno parla alla pancia degli italiani”.
Non è mancata una riflessione sulla sua terra d’origine. “Io sono innamorato del mio Molise – ha precisato Di Pietro - e nel corso degli anni credo anche di averlo fatto conoscere. Ma sono convinto che anche in Italia sia necessaria una revisione del sistema delle autonomie. Non credo ci debbano essere più le regioni a statuto speciale e tante regioni piccole, ma servono strutture più ampie con più autonomie, che abbiano più voce in capitolo. Il mio Molise – ha concluso – è troppo piccolo e porta pochi voti. Quindi è poco ascoltato”.
Di Pietro: "Salvo Lima incassò tangente Enimont attraverso Cirino Pomicino". Pubblicato il 03/10/2019 su adnkronos.com. "Anche Salvo Lima incassò una tangente Enimont da Raul Gardini, attraverso i Cct che gli girò Cirino Pomicino". A rivelarlo in aula, al processo d'appello sulla trattativa tra Stato e mafia è l'ex pm Antonio Di Pietro, sentito come teste dalla difesa del generale Mario Mori. Di Pietro parlando dell'inchiesta Tangentopoli nel 1992 ha riferito dei "collegamenti tra affari e politica" e ha ribadito che "i soldi di Gardini finirono anche a Salvo Lima". All'epoca Di Pietro aveva avuto anche dei rapporti di collaborazione con i giudici Paolo Borsellino e Giovanni Falcone. "Il primo che mi disse 'dobbiamo fare presto, dobbiamo chiudere il cerchio' fu Paolo Borsellino", racconta Di Pietro. "L'elemento predominante del collegamento Nord-Sud o affari e mafia, l'ho avuto quando ho avuto il riscontro della destinazione della tangente Enimont da 150 miliardi di lire - dice Di Pietro - e il mio impegno allora era di trovare chi erano i destinatari, perché avevamo trovato la gallina dalle uova d'oro, la cosa che avevamo davanti era la necessitò di trovare i destinatari". E spiega: "L'ultimo destinatario fu proprio Salvo Lima che però incassò attraverso Cct. Non potemmo sapere molto perché nel marzo 1992 Lima venne ucciso a Palermo e Gardini si uccise". "Ma si trattava di vedere chi quella parte di tangente di provvista di 150 miliardi di lire li aveva incassati e abbiamo trovato che 5,2 miliardi li aveva incassati Cirino Pomicino, e fu Cirino Pomicino che diede i cct a Salvo Lima".
La replica di Cirino Pomicino: "Di Pietro non sa l'italiano, non tangente ma finanziamento".
"Nel 1992, da febbraio a maggio e fino all'omicidio Di Falcone, l'inchiesta "Mani pulite" si allargò e assunse una rilevanza nazionale - dice ancora Antonio Di Pietro nel corso della deposizione rispondendo alle domande dell'avvocato Basilio Milio -. Io mi confrontai con Giovanni Falcone che mi disse che le rogatorie erano l'unico strumento per individuare le provviste e mi accennò che da lì si arrivava anche in Sicilia. Ecco perché bisognava controllare gli appalti anche in Sicilia". Di Pietro parlò anche con Paolo Borsellino "degli stessi argomenti". "Man mano che si sviluppava l'indagine era più opportuno andare a cercare dove si formava la provvista". Il suicidio di Raul Gardini, rivela ancora Di Pietro "è il dramma che mi porto dentro...". Nel luglio del 1993 "l'avvocato di Raul Gardini, che all'epoca era latitante, mi assicurò che il suo cliente si sarebbe consegnato. Io volevo sapere che fine avessero fatto i soldi della maxi tangente Enimont. Ma la notte prima dell'interrogatorio l'imprenditore Gardini tornò nella sua abitazione, che tenevamo sotto controllo. La polizia giudiziaria mi chiese se doveva scattare l'arresto. E io dissi di aspettare", racconta Di Pietro. Ma la mattina dopo l'imprenditore si uccise con un colpo di pistola. "E' il dramma che mi porto dentro...", dice Di Pietro con un filo di voce. Per poi aggiungere: "Ma questo che c'azzecca con la trattativa?...". Poi la denuncia dell'ex pm: "L'inchiesta "Mani pulite" è stata fermata quando è arrivata allo stesso punto del rapporto tra mafia e appalti. Sono stato fermato da una delegittimazione gravissima portata avanti in modo abnorme". "Nei miei confronti sono stati svolti una serie di dossieraggi portati avanti da personaggi su ordine di alcuni politici che hanno portato alle mie dimissioni - dice Di Pietro rispondendo alle domande dell'avvocato Basilio Milio - Da lì a poco sarebbe arrivata non solo una grossa indagine nei miei confronti ma anche una richiesta di arresti e io mi dimisi per potermi difendere. Sono stato prosciolto e ho detto che chi ha indagato su di me non poteva indagare, cioè Fabio Salamone che io denunciai al Csm". "Sono convinto che Paolo Borsellino - ha continuato quindi Di Pietro - fu ucciso perché indagava sulle commistioni tra la mafia e la gestione degli appalti. L'indagine mafia-appalti fu fermata. Come accadde con Mani pulite".
Di Pietro: “Volevo arrestare Andreotti, Mani pulite fu fermata da giudici”. Dante Bigi su Il Riformista il 19 Gennaio 2020. In una recente intervista apparsa sull’Espresso di Susanna Turco ad Antonio Di Pietro, l’ex pm ha dichiarato che Mani Pulite è nata in realtà da Falcone dentro il maxi processo di Palermo, aggiungendo che Craxi fosse solo uno dei suoi obiettivi. Al contrario, nelle sue intenzioni, avrebbe arrestato Andreotti. E poi aggiunge: «Mani pulite non è stata fermata dalla politica: è stata fermata dai giudici». Dichiarazioni forti che riscrivono la storia degli ultimi trent’anni, visto che come ricorda Di Pietro, «Mani pulite ha generato un’onda antipolitica e la nascita non solo del Movimento 5 stelle, ma anche dell’Italia dei valori». L’ex pm non si risparmia neanche sull’abuso d’ufficio, considerandolo ormai di moda, e su Davigo, dal quale prende le distanze, impugnando il Codice penale e ripercorrendo tutta la sua carriera. Da quando era poliziotto a indagato, da testimone a imputato, Di Pietro dice: «Ho visto così tante giustizie, che le certezze granitiche di Davigo non ce le ho più». Ma è sicuramente su Mani pulite che rivela elementi inediti, specie a proposito dell’esito dell’inchiesta del maxi-processo di Palermo, quando «Falcone riceve, riservatamente, da Tommaso Buscetta la notizia che è stato fatto l’accordo tra il Gruppo Ferruzzi e la mafia» e poi, continua, «Falcone dà l’incarico al Ros di fare quel che poi è divenuto il rapporto di 980 pagine che doveva andare a Falcone, prima di essere trasferito». Un’inchiesta che la politica non avrebbe potuto fermare, se i giudici avessero fatto il loro dovere. E d è proprio sull’interruzione di Mani pulite, quando arriva alla connessione appalti-mafia che Di Pietro si fa più reticente. Ha intenzione di parlarne, ma non ora, ha carte e documenti, ma ha pensato addirittura di farli bruciare, nonostante l’opposizione di sua moglie e sua figlia, e attende il momento in cui questa storia venga rivista. Per Di Pietro, quindi «Mani pulite nasce come figlia di Mafia pulita» e spiega che Raul Gardini, che si suicida il 23 luglio 1993, lo fa perché sa che quella mattina, recandosi proprio da Di Pietro, «avrebbe dovuto fare il nome di Salvo Lima, che aveva ricevuto una parte della tangente Enimont da 150 miliardi di lire». È proprio questo ad aprire un nuovo scenario nel caso. Se Gardini avesse parlato e se Salvo Lima non fosse morto, Di Pietro avrebbe quindi avuto «elementi sufficienti per chiedere al Parlamento di arrestare Andreotti». E invece, cosa succede? Succede che con una serie di esposti alla procura di Brescia, Di Pietro è costretto a dimettersi, altrimenti sarebbe stato arrestato, perché sul suo capo gravava il reale pericolo di inquinamento delle prove, finché era magistrato.
Mani Pulite, Di Pietro rivela: “Avrei arrestato Andreotti, se Gardini non si fosse ammazzato”. In una lunga intervista l’ex pm ed ex politico Antonio Di Pietro ripercorre le tappe principali dell’inchiesta Mani pulite: “Mani pulite non è stata fermata dalla politica: è stata fermata dai giudici. Sembra di vedere la storia del mondo capovolto, ma ci sarà un momento per rivalutare questa storia”. Annalisa Cangemi su fanpage.it il 19 gennaio 2020. In una lunga intervista su l'Espresso, Antonio Di Pietro, ex pm ed ex politico racconta alla giornalista Susanna Turco la stagione di Mani Pulite. Il ‘pretesto' è offerto dai vent'anni dalla morte di Bettino Craxi. "Nell'immaginario collettivo", spiega Di Pietro, tutta la parabola di Mani pulite ruota attorno all'incontro tra lui e Craxi, ma non per lui: "Nella realtà io non ho mai avuto un rapporto con Craxi. Io miravo all'ambiente malavitoso che girava intorno ad Andreotti". Perché "Craxi era l'emergente, quello che faceva parte della Milano da bere". "Lo sanno anche le pietre: Andreotti è stato prescritto, fino al 1980, non è che è stato assolto. E dall'altra parte ci stava il sindaco, Vito Ciancimino, e Salvo Lima. Quindi, voglio dire: quello era il potere vero". "Mani pulite non è stata fermata dalla politica: è stata fermata dai giudici. È una storia che va riscritta prima o poi", dice l'avvocato 69enne. "Mani Pulite si ferma oggettivamente quando si rompe l'unicità dell'inchiesta. La sua forza era infatti nel cosiddetto fascicolo virtuale, nell'idea cioè di creare una connessione probatoria tra tutti i fatti – spiega – per cui procedeva una sola autorità giudiziaria. Ma nel momento in cui nascono i conflitti di competenza territoriale il fascicolo si smembra: e allora non ha più tutti gli elementi, non si può più utilizzare, e soprattutto il pm che sta qua, non conosce l'insieme degli elementi del pm che sta là". Di Pietro parla della nascita dell'inchiesta, che si interromperebbe quando arriva alla connessione appalti-mafia; e racconta delle carte e di documenti di cui è in possesso, e che vorrebbe divulgare: "Sembra di vedere la storia del mondo capovolto, ma ci sarà un momento per rivalutare questa storia. Ci sarà. Mani pulite non l'ho scoperta io: nasce dall'esito dell'inchiesta del maxi-processo di Palermo, quando Giovanni Falcone riceve, riservatamente, da Tommaso Buscetta la notizia che è stato fatto l'accordo tra il gruppo Ferruzzi e la mafia. E Falcone dà l'incarico al Ros di fare quel che poi è divenuto il rapporto di 980 pagine: che doveva andare a Falcone, ma lui viene trasferito", Poi il rapporto rimane sotto chiave, in mano al magistrato ed ex Capo della procura di Palermo Pietro Giammanco. Dopo la morte di Falcone, Borsellino, il quale, come Di Pietro, era a conoscenza di quel fascicolo, inizia a indagare. E secondo Di Pietro, Paolo Borsellino fu ucciso proprio per questo: "Non per il maxiprocesso insieme a Falcone, ma perché insieme a Falcone doveva far nascere Mafia pulita". Mani pulite fu la conseguenza di Mafia pulita. "Il mio obiettivo non era scoprire quello che ho scoperto: era arrivare al collegamento al quale già erano arrivati anche loro a Palermo. Raul Gardini non si suicida così, per disperazione, il 23 luglio 1993: si suicida perché sa che quella mattina, venendo da me, doveva fare il nome di Salvo Lima, che aveva ricevuto una parte della tangente Enimont da 150 miliardi di lire". Di questo Di Pietro ha parlato tante volte, con le procure di Palermo, Caltanissetta, Brescia, Milano e con il Copasir. Ma non ha sortito alcun effetto. Salvo Lima, in quanto rappresentante di Andreotti e della mafia aveva intascato insomma una parte della tangente Enimont: "Se quel fatto veniva detto, se Gardini parlava, se Salvo Lima non moriva, io avrei potuto avere elementi sufficienti per chiedere al Parlamento di arrestare Andreotti". La rivazione shock di Di Pietro racconta una verità rimasta sepolta per anni, perché qualcuno gli ha impedito di agire: "All'improvviso le solite manine della delegittimazione mandano una marea di esposti contro di me alla procura di Brescia, che mi costringono alle dimissioni. Ma quando a me rimproverano ‘ti sei dimesso', possibile che nessuno si chieda perché l'ho fatto?". Per 25 anni Di Pietro ha cercato di rispondere a questa domanda, ripetendo che la sua è stata una "scelta di campo": "Se non mi fossi dimesso sarei stato arrestato, perché le accuse fatte mei miei confronti lo prevedevano obbligatoriamente". Sarebbe potuto finire in manette, proprio mentre stava per arrivare alla cupola mafiosa, "grazie alle dichiarazioni che mi aveva fatto il pentito Li Pera su un certo Filippo Salamone, imprenditore agrigentino intermediario tra il sistema mafioso e il sistema imprese-appalti, il nord che veniva gestito soprattutto da Gardini e dalla Calcestruzzi spa di Panzavolta".
Tangentopoli, Falcone e Borsellino. 1992, l'anno che cambiò l'Italia. Il Racconto di Enrico De Aglio il 09 febbraio 2012. Tutto accade vent'anni fa, quando una serie di eventi cambiarono il volto del nostro Paese. Prima la sentenza del maxiprocesso contro la Mafia. Poi l'uccisione di Salvo Lima e la stagione delle grandi stragi di Cosa Nostra. Negli stessi giorni, a Milano, Mario Chiesa intascava tangenti, Di Pietro lo convinse a confessare e il “mariuolo fu arrestato. Poi ci fu il boom della Lega e, due anni dopo, Berlusconi scese in campo. Così finì un epoca e si affermò l'idea che fosse una rivoluzione.
Il 1992 - giusto vent'anni fa - fu l'anno che cambiò l'Italia. Davvero. Ma non fu una rivoluzione, gli italiani non fanno rivoluzioni. Tutti coloro che all'epoca avevano l'età della ragione ricordano quell'anno, se lo vedono balzare di fronte alla memoria. Le serate passate alla tv per sapere in diretta chi era stato arrestato a Milano: un mondo politico che sembrava immortale che crollava sotto i nostri occhi. E poi le bombe: tutti ci ricordiamo dove eravamo quando qualcuno ci disse che era stato ucciso Falcone. E Borsellino? Eravamo già in vacanza, mi sembra... Comunque, faceva molto caldo. Subito dopo vennero le immagini dell'esercito italiano in Sicilia: ufficiali con le mimetiche e i Ray-Ban a specchio, a mezzo busto fuori dalle torrette dei blindati, in mezzo a sacchi di sabbia, palazzi di tufo, bambini curiosi: andavamo a mettere mano su una colonia irrequieta. Alla fine dell'anno il governo operò un improvviso e non indifferente prelievo dalle tasche di tutti, per evitare all'Italia di fare la fine dell'Argentina (vent'anni fa la Grecia si chiamava così). Eppure quando cominciò, il 1992 sembrava tranquillo, ancorché "bisestile". Il solito rissoso governo pentapartito guidato dal solito Giulio Andreotti; un ex Pci sempre più diviso in due dopo la caduta del Muro, grande successo per la canzone di Battiato, Povera patria, schiacciata dagli abusi del potere, di gente infame... La normalità di un Paese ricco, insomma. E invece, la cronaca prese il sopravvento. A dare inizio alla valanga fu la pubblicazione, il 30 gennaio, della Sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione nel maxiprocesso contro Cosa Nostra. Era la più grande mazzata che la mafia avesse mai avuto nella sua storia: 360 condanne, 19 ergastoli da scontare in carceri di massima sicurezza, sequestro delle ricchezze accumulate con il delitto. Poteva essere la fine della nostra vergogna nazionale, ed invece la storia ricominciò proprio da lì. Guidata da Salvatore Riina e da Bernardo Provenzano - due contadini semianalfabeti del paese di Corleone, latitanti da decenni - Cosa Nostra passò all'attacco.
Il primo a cadere (a Palermo, il 12 marzo) fu l'eurodeputato Salvo Lima, braccio destro di Giulio Andreotti in Sicilia, il suo granaio elettorale. Freddato sul lungomare di Mondello da due killer in motocicletta: inaudito. E successe un fatto strano: nonostante fosse un uomo potente, solo il suo capo, Andreotti, scese a Palermo per i funerali: tutto il restante mondo politico disertò, annusando l'aria che tirava. Giovanni Falcone, il magistrato che aveva sconfitto Cosa Nostra nel maxiprocesso, capì immediatamente quello che stava succedendo: Cosa Nostra aveva avuto assicurazioni politiche su una sentenza favorevole; non l'aveva ottenuta e si stava vendicando. Non solo, andava alla ricerca di un altro referente politico. Si preparavano tempi di guerra. Negli stessi giorni, qualcosa di grosso stava maturando nella capitale morale, Milano. Una signora divorziata, tale Laura Sala, si era rivolta al giudice perché l'ex marito, l'ingegner Mario Chiesa, personaggio in ascesa della nomenclatura socialista meneghina, presidente del benemerito Pio Albergo Trivulzio (vanto dell'assistenza sociale), le passava poco di alimenti. E dire che era ricchissimo. Guarda, guarda, pensarono i carabinieri. Che furono molto zelanti e arrestarono Mario Chiesa, il 17 febbraio, mentre intascava una tangente di sette milioni e altrettanti li stava eliminando nel water. La pratica era seguita da un pubblico ministero sconosciuto, un ex poliziotto molisano, tale Antonio Di Pietro, 42 anni, sanguigno e dal linguaggio colorito, di simpatie democristiane, e che indossava improponibili cravatte di pelle. Di Pietro convinse Mario Chiesa a confessare. E così si scoperchia la più grossa storia di corruzione della Repubblica italiana, passata alla storia come "Tangentopoli " (una specie di Paperopoli di Walt Disney); o "Mani pulite". Ogni giorno qualche pezzo grosso finisce nel carcere di San Vittore; ogni giorno qualcuno denuncia qualcun altro; gli industriali raccontano che non possono lavorare se non danno il 5-10 per cento ai partiti. Il procuratore di Milano, Francesco Saverio Borrelli, affianca altri due magistrati a Di Pietro; Gherardo Colombo (che dieci anni prima aveva scoperto l'esistenza della P2) e Piercamillo Davigo, un forte conoscitore del codice. Il neonato Tg4, diretto dal giornalista ex Rai Emilio Fede, ha l'idea di piazzare un telegiornale in diretta dal Palazzo di giustizia, per dar conto di arresti e confessioni. E le notizie non mancano: crollano dirigenti politici cittadini, regionali, nazionali di quasi tutti i partiti; affondano la Dc e il Psi, vengono ridotte a zero antiche e storiche formazioni come il Pli e il Pri, e più recenti come il Psdi; rimane un po' contuso, ma sostanzialmente salvo il Pds, erede del Pci; estraneo solo il Msi, perché piccolo ed escluso dalla torta degli appalti. Gli italiani fanno un corso accelerato di procedura penale: imparano che cos'è un avviso di garanzia, le differenze tra pm e gip, quella strana cosa che si chiama concussione. La satira di ispirazione comunista raggiunge il suo apice quando può pugnalare i compagni alleati. Settimanale Cuore, titolo a tutta pagina: "È scattata l'ora legale, panico tra i socialisti".
Il 7 aprile si va alle urne: la Dc perde due milioni di voti, il Psi se la cavicchia, il Pds di Achille Occhetto è ridotto al sedici per cento dei consensi. Il bottino è della Lega lombarda di Umberto Bossi, che conquista tre milioni di voti (nel giro di cinque anni questo partitino ha moltiplicato per trenta il suo elettorato in Lombardia e Veneto). L'ideologo della Lega è un vecchio professore universitario, Gianfranco Miglio, che ama vestirsi come un borghese sudtirolese nei giorni di festa, tutto loden e cappellini. La sua proposta è netta: l'Italia va divisa in tre regioni, Padania, Etruria e Mediterranea, e aggiunge che quest'ultima andrebbe governata direttamente dalla mafia, dato che esprime la migliore classe dirigente.
Il 25 aprile, con un interminabile messaggio televisivo (45 minuti), si dimette, con sei mesi di anticipo, Francesco Cossiga, ottavo presidente della Repubblica. Negli ultimi anni del suo mandato si era reso famoso per le sue esternazioni; proclami populistici, attacchi, spesso oscuri, a magistrati, minacce di rivelazioni di segreti di Stato si accompagnavano alla difesa di massoni e carabinieri, dei quali ultimi il presidente invocava una maggiore presenza nella vita pubblica. Di lui si diceva che era pazzo; il bello era che lui confermava.
E così arriviamo alla primavera del 1992. Le elezioni per il nuovo presidente (in genere più lunghe di un conclave vaticano) sono fissate per il 13 maggio. Il favorito dai bookmaker è la vecchia volpe Giulio Andreotti, anche se segnata dal delitto siciliano. Il 23 maggio è un giorno come gli altri. I milioni di appassionati di ciclismo aspettano l'inizio del Giro d'Italia scommettendo su Chiappucci contro il favorito Indurain; gli appassionati di politica seguono le elezioni presidenziali che si trascinano da dieci giorni (Forlani, l'ex pallido segretario della Dc era sembrato farcela, ma Andreotti è pronto al balzo finale). Quasi nessuno presta attenzione a un dispaccio dell'agenzia Agir datata 22 maggio (Agir è una delle decine di foglietti del sottobosco politico romano), diretta da Vittorio Sbardella, potente ex andreottiano. Questi prevede uno stato di improvvisa emergenza per un "bel botto esterno, qualcosa di drammaticamente straordinario". Alle 17.55 questo avviene.
L'autostrada Palermo Punta Raisi, in località Capaci, si solleva come un muro di fuoco al passaggio del convoglio che trasporta il giudice Giovanni Falcone. Nel più grande attentato mai visto in Europa dalla fine della guerra - 800 chili di esplosivo in un canale di scolo, un telecomando azionato a 400 metri di distanza - muoiono Falcone, sua moglie Francesca Morvillo, gli agenti Vito Schifani, Antonio Montinaro, Rocco Di Cillo. Si salva l'autista Giuseppe Costanza e la sua vicenda chiama in causa l'esistenza del Fato. Falcone aveva chiesto di guidare "per rilassarsi" Costanza si era seduto sul sedile posteriore, nel posto che sarebbe stato del giudice (se fosse rimasto alla guida, la Storia sarebbe cambiata). Nella notte, il centro di Palermo si riempie di lenzuola bianche appese ai balconi, "No alla mafia". Il 25 maggio Oscar Luigi Scalfaro, novarese, tradizionalista, democristiano "senza correnti", presidente della Camera, viene eletto nono presidente della Repubblica con 672 voti. La sua prima presenza pubblica sarà a Palermo ai funerali delle vittime di Capaci, in una tremenda tensione emotiva.
Quando tutto sembrava essere finito, quando il paese era in vacanza, ecco il 19 luglio, di nuovo a Palermo. Un'autobomba in una caldissima domenica pomeriggio distrugge la vita del giudice Paolo Borsellino (il magistrato che avrebbe dovuto prendere il posto di Falcone alla guida della Procura nazionale antimafia) e della sua scorta. È a questo punto - quando veramente sembra che l'Italia non esista più - che arriva l'esercito in Sicilia e un ponte aereo trasporta centinaia di mafiosi incarcerati nell'isola di Pianosa, una specie di Guantanamo ante litteram. Ma, davvero, il 1992 non era ancora finito.
Il livello di corruzione che l'Italia politica aveva espresso (tale che nemmeno la magistratura di Milano sembrava comprenderlo appieno); il livello di violenza terroristica che la mafia aveva scatenato; le pulsioni secessioniste di un Nord economicamente annichilito e senza rappresentanza politica; tutto questo ebbe il suo esito nella più grave crisi finanziaria italiana dal dopoguerra, prima dell'attuale. I Bot non venivano sottoscritti, la Banca d'Italia riusciva, ma solo con l'esborso di 40.000 miliardi, ad impedire il crollo della nostra moneta. Toccò al governo di Giuliano Amato (il socialista che era succeduto a Giulio Andreotti) imporre, in una notte, un prelievo forzoso da tutti i conti correnti; toccò ai sindacati firmare un accordo in cui rinunciavano per due anni ad aumenti salariali e alla indicizzazione della scala mobile. La lira, svalutata del 7 cento, ridiede così un po' di competitività alle esportazioni e ci salvò dal baratro. Ad ottobre, il grande pentito di mafia Tommaso Buscetta - ormai una specie di oracolo - tornò dagli Stati Uniti per annunciare anche agli italiani quello che aveva già detto dieci anni prima all'Fbi; e cioè che Giulio Andreotti era il capo politico di Cosa Nostra.
Il 3 dicembre il magistrato Domenico Signorino, uno dei giudici che aveva retto l'accusa contro Cosa Nostra al maxiprocesso di Palermo, si suicidò, dopo essere stato accusato di essere al soldo della mafia. Il 15 dicembre il segretario del Psi, Bettino Craxi ricevette l'avviso di garanzia che determinò la sua fine politica e personale (pochi mesi dopo, partendo per la Tunisia, dichiarò: "Non starò qui a prendermi le bombe"). La Democrazia cristiana, da sempre il partito di riferimento degli italiani, nello stesso periodo cessò, anche formalmente, di esistere. Alla vigilia di Natale, Bruno Contrada, il capo dei nostri servizi segreti con competenza sulla Sicilia, fu arrestato con l'accusa di avere protetto, per anni, la mafia. E, finalmente, l'anno finì.
Il 1993 sarebbe stato ancora più drammatico e violento. Si aprì con l'arresto spettacolare di Salvatore Riina (il latitante imprendibile viveva da sempre e tranquillamente a casa sua a Palermo, con moglie e quattro figli; e la sua cattura - oggi si sa - fu una colossale farsa); continuò con l'incriminazione di Andreotti per mafia; i suicidi eccellenti (il potentissimo presidente dell'Eni Gabriele Cagliari e il più ricco industriale italiano, Raul Gardini); fu costellato dalle tremende bombe mafiose di Firenze, Roma e Milano e terminò con la più inattesa delle novità: la discesa in campo in politica di Silvio Berlusconi, uno dei pochissimi industriali milanesi che era passato indenne dalle inchieste di Mani pulite, e che godeva di solidi appoggi finanziari nella Sicilia di Cosa Nostra. Il suo (imprevisto) dominio sull'Italia è durato diciassette anni. Un altro beneficiato dagli eventi fu il magistrato Antonio Di Pietro, che divenne prima un "eroe italiano", poi un uomo politico di una certa importanza che dura tuttora. La cronaca è il racconto degli avvenimenti così come si susseguono nel tempo. La storia è il senso di quegli avvenimenti. Ma purtroppo, il "senso di quel 1992" ancora non lo conosciamo.
La magistratura di Milano salvò il Pci-Pds? Bettino Craxi (il cattivo numero uno dell'epoca) fu affossato perché si era opposto agli americani ai tempi di Sigonella? Cosa Nostra determinò l'eliminazione di Andreotti dalla competizione per il Quirinale? Paolo Borsellino fu ucciso perché si era opposto ad una trattativa tra lo Stato e la mafia? Marcello Dell'Utri, il fondatore del nuovo partito di Forza Italia, agiva come emissario di Cosa Nostra? La Lega e Cosa Nostra perseguivano l'obiettivo comune della divisione dell'Italia? O gli avvenimenti si susseguirono senza alcuna regia? Ognuno metta in una busta la sua spiegazione. La verità - ma solo almeno tra cinquant'anni - sarà premiata dalle autorità competenti. Nel frattempo, in occasione del ventennale, ricordiamo commossi il 1992, gli eroi uccisi, l'indignazione popolare, la società civile, l'anelito risorgimentale. E pazienza se la corruzione e la mafia sono più forti di venti anni fa.
Intervista all'ex pm: "I grillini sono incompetenti". Di Pietro: “Mani pulite fu una primavera. Rifarei tutto tale e quale”. Angela Nocioni su Il Riformista il 6 Novembre 2019. Antonio Di Pietro sta raccogliendo le olive a casa sua in Molise. Dice di sentirsi ormai parte dell’associazione combattenti e reduci. D’essersi pentito d’aver fatto politica. Mani Pulite, invece, la rifarebbe tale e quale. «Quell’inchiesta andava fatta in quel modo. La rifarei non una, ma mille volte così come l’ho fatta», dice l’ex pm del pool dello scandalo Tangentopoli. «Allora mi ritrovai tra le mani un malato grave con un tumore gravissimo, la corruzione ambientale, che aveva infettato lo Stato, corrotto la politica e rovinato la libera concorrenza. L’intervento chirurgico era urgente, altrimenti sarebbe morta la democrazia. Poi però è successo che l’Italia si è ritrovata nel vuoto. Era necessario che le redini del governo fossero prese in mano da qualcuno in grado di farlo. Invece il sistema italiano questo qualcuno non è stato in grado di produrlo. Ci siamo affidati al personaggio di turno. Dopo Mani pulite, i partiti hanno cominciato ad addensarsi attorno a una persona. Ora una, ora un’altra. Vista come quella che potesse risolvere tutti i guai del mondo. Così è nato Berlusconi, così è nato Bossi. E anche Di Pietro. Il cittadino dopo Mani pulite ha cominciato a votare più la faccia che la sostanza. Tutto di pancia. Non va bene».
E questo bel guaio l’avrà mica fatto lei?
«No. L’intervento chirurgico spettava alla magistratura. Il progetto politico invece no. Non spettava alla magistratura. E invece… La classe politica venuta fuori ora è incapace di risolvere i problemi. Non rifarei politica, se tornassi indietro».
Quelli che per fare politica hanno usato il suo nome, la sua popolarità, lanciati anche da lei, hanno seguito la sua eredità o l’hanno tradita? Parlo di Ingroia, per esempio.
«Il primo a salire sul carro del partito personale che è spuntato fuori tra gli effetti di Mani pulite è stato Berlusconi. E pure io. Ma mica siamo stati i soli. Poi è arrivato Grillo. In un momento di grande confusione Grillo è riuscito a portare la rabbia, la voglia di rivalsa e la delusione dei cittadini nelle urne. Meglio nelle urne che a sfasciare le vetrine. È stato bravo. L’errore di Di Pietro e anche di Grillo quale è stato? Lo dico perché i grillini li considero miei figli putativi, sono figli legittimi di Grillo, ma pure figli putativi miei. Io ho fatto un errore: mi sono ritrovato dalla sera alla mattina con un grande consenso popolare, una classe politica da costruire e ho pensato di poterla costruire con chi aveva già fatto politica in precedenza. E mi sono portato appresso nel mio partito parte del tumore della Prima repubblica, purtroppo. Grillo ha fatto un errore diverso. Ha escluso chi aveva fatto politica in precedenza. Come chiedeva Casaleggio padre, che l’aveva capito guardando l’errore che avevo fatto io. E così Grillo ha portato al governo del paese degli incompetenti che a mala pena saprebbero fare un drink al bar».
Visto il clima politico del momento, crede ci sia il rischio di un nuovo ’92, ’93 in Italia? Di un terremoto politico con protagonisti dei magistrati?
«Non c’è stato nessun rischio allora, c’è stata una primavera. Il rischio per la democrazia c’era prima, c’è stato fino al ’92 perché il malato di tumore stava per morire. L’intervento chirurgico era obbligato dalla legge. Non l’ho fatto per motivi ideologici, io non ho mai chiesto a nessuno di che partito era. Chiedevo: quanti soldi hai preso?»
Prima c’erano Andreotti, Craxi, Forlani. Personaggi discutibili che lasciavano supporre d’aver fatto bene le elementari. Ora c’è Di Maio.
«Ha fatto bene a citarmeli. Andreotti, prescritto per mafia. Forlani condannato perché responsabile di finanziamenti illeciti. Craxi per corruzione. Questi c’erano. Padreterni?»
No. Ma se Craxi discuteva qualcosa a nome dell’Italia, il cittadino medio poteva avere mille riserve e supporre che chi lo rappresentava avesse chiaro che Pinochet non è stato il dittatore del Venezuela.
«Sono preoccupato che un Di Maio qualsiasi rappresenti il mio paese con una conoscenza che è quella che è. Sono amareggiato nel vedere Di Maio che parla delle cose del mondo. Però questo non mi dà la possibilità di giustificare un Craxi che sapeva tutto su come gestire la crisi di Sigonella, tanto di cappello, ma sapeva anche di conti, aveva anche il know how per molto altro. Altro non lecito».
Quindi passati anni dalla morte di Craxi, col senno del poi, lei non ha cambiato idea?
«Io non ce l’avevo né con lui né con altri. Io ho trovato un signore con la marmellata in mano. Di quello mi sono occupato».
Quando lei dice d’aver fatto l’errore di importare nel suo partito un modo di fare della Prima repubblica si riferisce a Razzi e Scilipoti o anche ad altri?
«Non mi riferisco tanto alle persone, ma a una cultura. Razzi poi è il meno peggio di tutti. In questa legislatura ce ne sono centinaia che hanno cambiato casacca. Stanno zitti o fanno finta di averlo fatto per una ragion di Stato che non esiste. Solo interessi personali. Razzi nella sua ingenuità ha detto perché l’ha fatto. E Razzi, di tutti quelli che hanno cambiato casacca, è l‘unico a essere stato eletto con le preferenze».
Lei litigò con il pool di Milano? Com’erano i rapporti tra lei e Borrelli?
«Con il dottor Borrelli ho sempre avuto un rapporto formale, gli ho sempre dato del lei. Un rapporto corretto. Veniva citato da me quotidianamente. L’unica lamentela sua nei miei confronti, un complimento che mi fece in realtà, è che producevo talmente tanti atti da non dargli il tempo di leggere tutto. È una persona per la quale avevo stima perché nei momenti delicati di Mani Pulite ci ha sempre messo la faccia. Lui all’inizio, quando feci arrestare Mario Chiesa, disse: è stato arrestato in flagranza di reato, va in direttissima, tra 15 giorni si chiude tutto. Dopodiché ha avuto modo di prendere atto della realtà dell’inchiesta, ha visto come si allargava. Ebbe modo di capire come il fascicolo cresceva e si comportò in modo corretto. Io lo rispetto. Con gli altri del pool ancora oggi capita che ci troviamo a qualche convegno insieme. A parte Piercamillo Davigo che è al Csm, facciamo parte dell’associazione combattenti e reduci oramai. Il pool di Palermo era diverso. Falcone e Borsellino hanno avuto un pezzo di vita privata insieme. Io con i miei colleghi no, avevamo solo rapporti professionali».
Nessuna lite?
«No».
Cosa pensa del generale Mori?
«Per rispetto di chi deve scrivere la sentenza di quel processo, parlerò dopo. Sono stato testimone, non posso inficiare la mia testimonianza».
Qual è la verità sulle undici case che sembrava fossero sue? Erano sue?
«Sto ancora facendo atti di esecuzione per persone che devono risarcirmi di danni che mi hanno fatto per diffamazione. Alcuni con undici sentenze passate in giudicato. Mai ho portato a giudizio un giornalista che ha messo il microfono sotto il naso di qualcuno che mi ha diffamato, solo le persone che hanno mentito diffamandomi».
Gianroberto Casaleggio come l’ha conosciuto?
«Casaleggio l’ho conosciuto per motivi professionali, nel modo più semplice del mondo. Quando ho iniziato a fare politica e lui si occupava già di rete e di comunicazione, m’è arrivata una email che diceva: noi offriamo questo servizio. L’ho incontrato, ne abbiamo discusso. Lui ha gestito per una certa parte la mia comunicazione e io ho pagato il corrispettivo. Poi io ho preferito continuare a gestirla da solo. Lui ha continuato a occuparsi della comunicazione di Beppe Grillo, cosa che già faceva. Siamo rimasti amici, nel senso di rispetto reciproco, ci confrontavamo, l’ho anche difeso in alcune sue cause per diffamazione. Ma non eravamo intimi, non andavamo a mangiare un piatto di spaghetti».
Con Davide Casaleggio ha rapporti?
«Non lo conosco bene. Non ho avuto con lui il rapporto che ho avuto con il padre».
Si ricorda di quell’agosto romano di quando lei studiava a Roma, era senza casa e le affidarono un cane?
«Ah sì. Non è un segreto. Sa, quando vedo i migranti che vengono in Italia io ho rispetto per il loro dolore, io sono stato parecchie volte in una situazione delicata, io mi ricordo di quando sono stato immigrato in Germania e lavoravo tantissime ore, giorno e notte, e dormivo in baracca. Noi ci facevamo un mazzo così. La classe operaia emigrata si è sempre fatta un mazzo così».
Sì, ma il cane?
«Andavo a scuola ancora. Lavoravo in una casa editrice a Roma che faceva degli albi. In questa casa editrice c’era una coppia di anziani con un cagnolino bellissimo. Se lo coccolavano tanto. Ad agosto la casa editrice non lavorava. I due signori m’hanno lasciato il cane. Questo cagnolino tutti i giorni a mezzogiorno mangiava una tagliata di vitello. Una al giorno. Io latte e pane. Insomma, per farla breve, gli ho insegnato a bere un po’ di latte e gli ho dato un po’ del mio pane. E ogni tanto mangiavo un pezzettino della sua tagliata. Era più la carne di vitello che il cane buttava che quella che mangiava. Gli ho insegnato a vivere un po’ da cane. Siamo stati benissimo insieme eh! Mi voleva bene. S’era affezionato il cagnolino».
Quando Di Pietro riceveva i giornalisti in ciabatte. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 19 Luglio 2020. E poi venne Di Pietro e cambiò tutto. Nacquero i pool dei giornalisti, omologhi a quelli dei magistrati. Le fonti delle notizie uniche e unificate si sposarono con la stampa unica e unificata. E per ventotto anni sarà così. È ancora così. Nella sala stampa del Palazzo di giustizia di Milano il pubblico ministero Antonio Di Pietro non ancora Tonino, e neanche La Madonna. Prima del 1992 era considerato uno “inattendibile”. Chi ce l’ha quell’inchiesta? ci si chiedeva. Se la risposta era “Di Pietro”, un’alzatina di spalle liquidava subito la faccenda, tanto sappiamo che finirà in niente. L’avvocato Giuliano Pisapia, che pure in quegli anni non fu ostile alla procura di Milano, raccontò un giorno con sgomento le modalità e l’esito di un’inchiesta condotta dal pm nel 1991, proprio alla vigilia dei giorni che poi lo renderanno il più famoso d’Italia. Vale la pena riportare per esteso il racconto di Pisapia, anche per ricordare con precisione il tipo di professionalità e di rispetto delle regole che portarono alla distruzione di una classe politica che aveva governato per cinquant’anni e aveva garantito la democrazia al Paese. «Di Pietro fece scattare un grosso blitz – dice l’avvocato Pisapia – . Senza osservare le regole, alcune persone, anziché essere invitate a comparire come previsto dal nuovo codice, furono prelevate alle sei di mattina e portate non in Procura ma nella sede della Criminalpol, e interrogate con modalità non conformi al codice, nella convinzione che questo modo choccante di interrogare favorisse la raccolta di dichiarazioni utili. Di Pietro contestò l’associazione per delinquere e la truffa». Inutile dire che l’inchiesta finirà in nulla, con l’archiviazione dell’associazione per delinquere e la derubricazione della truffa. Pure il blitz era stato annunciato come il famoso “scandalo delle patenti false”. I tempi non erano ancora del tutto maturi. Ma colpiscono i metodi usati: annuncio roboante, reato associativo, persone svegliate e prelevate alle sei del mattino, stile di interrogatori da caserma vecchio stampo, violazione di ogni regola del nuovo codice di procedura. Uno stile che si ripeterà, pur con gli osanna generalizzati della stampa, negli anni successivi e nelle più fortunate inchieste che andranno sotto il nome di Mani Pulite. Più o meno nello steso periodo aveva cominciato a farsi notare una giovane pm grintosa e disinvolta, che fu subito battezzata dagli avvocati “la pm in blue-jeans” per il suo abbigliamento poco formale. Era Ilda Boccassini, cui era stato affidato il coté milanese di un’inchiesta di narcotraffico condotta a Palermo da Giovanni Falcone con l’aiuto del capitano Di Caprio. Fu quell’inchiesta il primo tentativo di forzatura politica, con ampio uso di intercettazioni, anche ambientali. Così, da quella che si dimostrerà in seguito solo una vanteria («ho già dato 200 milioni di lire all’assessore», dirà il narcotrafficante), la procura milanese si gettò a corpo morto sulla giunta Pillitteri, che in quegli anni governava Milano. I cronisti giudiziari erano ancora in parte quelli del vecchio conio. Io ero stata nel frattempo eletta al consiglio comunale con la lista dei Radicali antiproibizionisti. Ero all’opposizione, pure qualcosa non mi tornava di quell’inchiesta che coinvolgeva il sindaco Pillitteri e un assessore del suo stesso partito. I socialisti erano sempre stati proibizionisti sulla droga, possibile che fossero in combutta proprio con un gruppo di narcotrafficanti? Ancora si poteva discutere e litigare, in sala stampa al Palazzo di Giustizia in quei giorni, ma fu il quotidiano La Repubblica quello che si buttò a pesce più di tutti, titolando “Le mani della mafia su Palazzo Marino”. Si costituì addirittura una inutile e nullafacente commissione “antimafia” in Comune. Il clima stava davvero cambiando. Se qualcuno ha la curiosità di sapere come andò a finire quella vicenda, cerchi in internet la voce “Duomo connection” e la sentenza della corte di Cassazione del 1995, che condannò, come era prevedibile, solo i narcotrafficanti. Gli altri, politici e “colletti bianchi” che nel frattempo erano stati coinvolti, sono passati da modesti abusi d’ufficio alla sparizione totale dal processo. Ma il 1992 era alle porte. Si racconta che il giudice per le indagini preliminari Italo Ghitti un certa sera del 1991 abbia detto alla moglie: forse oggi ho messo la firma sotto la mia richiesta di trasferimento. Aveva autorizzato le intercettazioni dei telefoni di Mario Chiesa, presidente del Pio Albergo Trivulzio e potente esponente socialista milanese. Il Gip Ghitti non sarà mai trasferito e diventerà il giudice unico che firmerà in seguito tutta intera la valanga delle perquisizioni e degli arresti che si susseguiranno senza soluzione di continuità per oltre due anni. Se nessuno aveva potuto dimostrare che Milano era diventata la città della mafia, fu facile mostrare al mondo che quella che era stata la “capitale morale” d’Italia era diventata la città delle mazzette. Era nata Tangentopoli. Il rapporto tra la stampa e i pubblici ministeri diventò un matrimonio indissolubile, a Milano come a Roma e in tutta Italia. Al pool dei pm faceva eco quello dei cronisti giudiziari. Il metodo che Di Pietro aveva inaugurato con l’infruttuosa inchiesta sulle patenti false portò i suoi risultati, fin dall’arresto dei primi nove imprenditori. Ogni parola, ogni confessione divenne moltiplicatore di altre, fino alla valanga che indusse alcuni avvocati a trasformarsi in “accompagnatori” dei propri assistiti che imploravano un interrogatorio che evitasse le manette. Di Pietro sedeva nel suo ufficio come su un trono. Riceveva i cronisti in ciabatte quasi a dimostrare che non andava mai a dormire. Il flusso delle notizie e dei verbali era costante. Le fotocopiatrici eruttavano carte a getto continuato. Se l’imputato era un pesce piccolo, ci pensavano gli uomini in divisa a saziare la fame della stampa, mentre i grossi erano riservati alle toghe. I direttori dei grandi quotidiani di proprietà imprenditoriale furono schieratissimi a salvarsi la pelle, fino a concordare la sera i titoli del giorno dopo, in spregio della concorrenza e anche alla libertà di stampa. Quando ci fu la palese Grande Ingiustizia, l’accordo del procuratore Borrelli con la Fiat e l’invito di Romiti dalle colonne del Corriere della sera a tutti gli imprenditori perché collaborassero, andò Di Pietro a interrogare in questura il mancato imputato come persona informata dei fatti. E pensare che Romiti, dei 15 episodi che avrebbero potuto essergli contestati, ne raccontò solo un paio. Ma i magistrati si accontentarono. E anche i giornalisti. In sala stampa le mosche bianche come Frank Cimini, che si ribellarono al pensiero unico della Grande Ingiustizia venivano guardate male. Ormai si battevano le mani e si brindava, si faceva la ola e si scodinzolava, obbedienti soldatini prigionieri di un meccanismo e di un palazzo pronto a divorare tutti, da Craxi fino a Berlusconi, senza pietà. Ma soprattutto senza che nessun (o quasi) giornalista mettesse in dubbio i contenuti e i metodi usati dai pubblici ministeri per raggiungere i loro scopi. Che furono troppo spesso politici. Lo scorso gennaio Goffredo Buccini, che fu cronista giudiziario al Corriere in quegli anni, ha ricordato in modo critico un episodio di allora. «Il 15 dicembre del 1992 – ha scritto – grida di giubilo si levarono dalla sala stampa del palazzo di giustizia di Milano: Bettino Craxi aveva ricevuto il primo avviso di garanzia nell’inchiesta Mani Pulite». E ha poi continuato ricordando come tutta l’inchiesta fosse stata una sorta di inseguimento al vero bersaglio, Craxi. Denunciando infine quel che era successo, e cioè che «cronisti e magistrati erano stati troppo vicini, in una prossimità anche emotiva che è perfettamente umana, ma può finire per confondere pericolosamente gli spartiti». Ecco, questa è la lezione di quegli anni. Quel che sta succedendo oggi mostra che non è ancora finita, che il pensiero unico dell’informazione complice del partito dei pm è ancora lì. E non sappiamo neanche più se si tratti di Magistratopoli o di Giornalistopoli. O di tutte e due.
· Quelli che…al tempo di Tangentopoli.
Tommaso Labate per corriere.it il 17 luglio 2020. Il selciato su cui piovvero le monetine che lo consegnarono a una tragica leggenda è deserto. E l’ingresso sbarrato, come se l’edificio fosse abbandonato. La dicitura dei motori di ricerca su Internet è «temporaneamente chiuso», l’ultima recensione su Tripadvisor risale al febbraio scorso. E il titolare Roberto Vannoni, che Bettino Craxi all’epoca chiamava affettuosamente «Robertino», dice «la nostra clientela è soprattutto americana. Siamo chiusi da marzo a causa del Covid e riapriremo a settembre, o quantomeno ci speriamo. Dipenderà dall’economia, dal resto...». E lascia la frase così, sospesa. Sul palcoscenico dell’Hotel Raphaël di Roma, a pochissimi passi da Piazza Navona, è calato il sipario. Consegnato alla storia nostrana come la residenza capitolina di Bettino Craxi, che là davanti — 30 aprile 1993, in piena Mani Pulite — fu oggetto del lancio di monetine da parte di una folla inferocita, l’albergo è stato il teatro di una storia lunga più di mezzo secolo. Che parte da molto prima che il leader socialista finisse per abitare i quarantacinque metri quadri dell’attico («La gente pensava a chissà che, ma erano giusto una camera e un cesso», è la sintesi del figlio Bobo) e della terrazza, che negli anni a venire sono stati trasformati in un ristorante. Un ristorante che è stato attivo fino a pochi mesi fa, meta dei clienti dell’albergo e non solo. La vetrata che lo protegge, ma questo nessuno può immaginarlo, ha una blindatura a prova di arma da fuoco. Ed è ancora la stessa fatta montare dalla Presidenza del Consiglio dei ministri nell’estate del 1983 per proteggere Craxi, appena insediatosi a Palazzo Chigi. Undici anni prima, al pianoforte del Raphaël, era nato uno dei capolavori più popolari di bossa nova, Aguas de março, canzone firmata da Antonio Carlos Jobim. «L’albergo era il ritrovo delle celebrità brasiliane, che spesso dormivano là per la vicinanza con la loro ambasciata», racconta Bobo Craxi, venuto a conoscenza dell’aneddoto dai diretti interessati. Jobin e Chico Buarque, in un giorno di pioggia di un marzo dei primi anni Settanta, tornano alle loro stanze del Raphaël dopo una serata passata in giro per Roma a fare bisboccia. Con loro c’è anche Vinícius de Moraes. I fumi dell’alcol, il sonno che non arriva, il pianoforte dell’albergo, l’improvvisazione su note che – tempo qualche anno – avrebbero cominciato a fare il giro del pianeta. La nascita del Raphaël sembra uno scherzo del destino, a guardarla con gli occhi del «dopo». La proprietà dell’albergo che avrebbe accompagnato l’epopea del leader socialista più odiato dai comunisti, l’uomo del duello con Enrico Berlinguer e del referendum sulla scala mobile, aveva radici ultra-comuniste. Nel 1945 Spartaco Vannoni, che avrebbe lasciato l’hotel al figlio Roberto, è l’assistente di Eugenio Reale, il braccio destro di Palmiro Togliatti che anni dopo avrebbe abiurato il comunismo. Lo segue a Varsavia, dove Reale alla fine della guerra diventa ambasciatore italiano in Polonia. Al ritorno in Italia, Vannoni è l’archetipo del finanziere rosso, uno di quelli che vede da vicino i rubli che viaggiano da Mosca a Roma. Il palazzo in cui fonderà il Raphaël negli anni Cinquanta lo prende in affitto da un ente e lo riempie di pezzi d’arte, tra cui anche un Picasso. L’albergo, negli anni a venire, avrebbe ospitato il drammaturgo Arthur Miller e Simone de Beauvoir, presenze fisse durante i loro viaggi in Italia. Poi, all’inizio degli anni Settanta, arrivano i socialisti, a cominciare da Francesco De Martino. Dormono al Raphaël Tonino Caldoro, papà di Stefano, e il calabrese Nino Neri, che diventa ufficiale di collegamento tra Craxi e Giacomo Mancini. «Neri alle volte si metteva a un tavolo vicino a mio papà per origliare. E poi andava a spifferare qualcosa ai giornalisti a Montecitorio», sussurra Bobo Craxi. La presenza di Bettino al Raphaël, già prima dell’elezione a segretario del Psi, è stabile. Prima dorme in una stanza poi prende quella «camera e cesso più terrazzo» che lascerà soltanto dopo la fuga ad Hammamet nel 1994. Non vi tornerà mai più. «Le sue cose andai a prenderle io, nel 1995. Credo che mio papà avesse avvertito il proprietario che la stanza poteva anche liberarla», ricorda Bobo. In Tunisia Craxi porta con sé un «pezzo» in carne e ossa dell’albergo. E cioè il centralinista-receptionist Marcello Giovanbattista, che «protegge» le telefonate in entrata e in uscita dell’illustre ospite negli anni al Raphaël e finisce per diventarne una specie di assistente personale, che lo seguirà sull’altra sponda del Mediterraneo. Storie e fantasmi di un’epoca che non c’è più. Al contrario delle note di Aguas de março, che ancora girano il mondo. «É o pau, é a pedra, é o fim do caminho. È legno, è pietra, è la fine della strada». Profetico, quasi.
Lettera di Bobo Craxi a Dagospia il 17 luglio 2020. Caro Dago. Leggo una lunga dissertazione filologica dell’amico Molendini sulla genesi del conclamato pezzo di Jobim “Aguas de Março”. Sono io che ho raccontato, tramandandola, l’epopea della breve frequentazione degli artisti brasiliani al Raphael negli anni dell’esilio prima di trasferirsi nella periferia Nord Romana. Fu Sergio Bardotti che mi raccontó che una sera al piano Tom Jobim accennó alle note di Agua de Março,probabilmente ancora in gestazione, che certamente non si ispira all’albergo romano ma ha avuto un suo primario concepimento al piano che stazionava nella Hall. Che la “risciacquatura” del celeberrimo pezzo avvenne con la vista della Baia di Guanabara, come sostiene Molendini, é sicuro e non probabile. Che il parto dell’intuizione musicale possa essere avvenuta al Raphaël come raccontava il compianto Sergio Bardotti in questo caso non dubiterei. E comunque Tommaso Labate ha reso poetica una Storia che sta alle nostre spalle e che tutti, da Rio a Roma rimpiangiamo.
Marco Molendini per Dagospia il 17 luglio 2020. No, Aguas de março, il capolavoro di Antonio Carlos Jobim, genio della musica brasiliana e della musica del Novecento in genere non fa parte della storia dell'Hotel Raphael. L'episodio, ovvero il padre della bossa nova che avrebbe composto la canzone durante un suo soggiorno nell'albergo romano, fa parte di un racconto che Tommaso Labate fa sul Corriere della sera di oggi, rievocando la vita di un luogo legato a un pezzo di storia, a Craxi e a un episodio famoso come il lancio delle monetine (primo episodio di populismo contemporaneo?). Aguas de março, un brano memorabile che ha avuto grandiose interpretazioni (dallo stesso Jobim a Joao Gilberto a Elis Regina, a Mina, a Art Garfunkel, a Ella Fitzgerald) è nata in altro modo. Ispirata al ritmo della pioggia, che in Brasile è particolarmente battente nel mese di marzo, è stata scritta in una residenza familiare a cui Tom (così viene chiamato Jobim in Brasile: «Tom non da Tommaso, ma da tom, sostantivo che in portoghese sta per tono», ci teneva a spiegare) era particolarmente affezionato, il podere fra lo Stato di Rio de Janeiro e il Minas Gerais di Poço Fundo dove abitavano i genitori e dove ha scritto molte altre canzoni (da Corcovado a Estrada branca, le prime note di Chega de saudade, Dindi). Nel 72 Jobim si era ritirato a Poço Fundo per completare un progetto sinfonico, intitolato Matita peré, ispirato a grandi scrittori come João Guimarães Rosa e Carlos Drummond de Andrade. Sono state le piogge di quei giorni a suggerirgli, però, un altro tema inventato di getto alla chitarra, cantando la melodia: si ferma, gli piace, prende un pezzo di carta, di quelli per incartare il pane, e scrive le prime idee della canzone: «E' pau, é pedra, é o fim do caminho». La canzone è singolare, non ha la forma classica, è un moto perpetuo e le parole non hanno un senso logico esplicito, sono piuttosto un flusso di coscienza. Non posso dimenticare una sera per pochi, negli anni Settanta, a casa di Sergio Bardotti con Jobim che spiegava all'amico poeta e partner di tanti successi, Vinicius de Moraes, il significato della sua canzone, parola per parola: ogni tanto interrompevano e si mettevano a ballare con le loro giovani mogli (Ana e Gilda) su uno spettacolare album di Stevie Wonder, Songs in the key of life. Aguas de março è una canzone è leggera come l'acqua , ma è tutta giocata sui contrasti: a cominciare dall'andamento ritmico allegro che si scontra con il testo profondamente drammatico, metafora della vita quotidiana con la prospettiva della morte. In quel periodo Jobim era fortemente depresso: beveva molto, aveva parecchi acciacchi, era in una fase di stasi professionale (proprio Aguas de março lo avrebbe rilanciato), non aveva comunque perso la sua ironia e immaginava una fine carriera a 80 anni cantando ancora Garota de Ipanema in un tenda da circo nell'interno del Brasile con il pubblico che lo fischiava. Purtroppo non è andata così: Jobim non è mai stato fischiato e se ne è andato molto prima, a 67 anni, a causa di un tumore. Non solo, ai tempi di quel ritiro a Poço Fundo era poi reduce da un periodo di persecuzione politica che lo aveva turbato in seguito all'adesione a un manifesto di protesta contro la censura della dittatura militare seguito dal boicottaggio del Festival Internacional da Canção delle Rede Globo. In dodici, fra cui Tom, Chico Buarque e altri furono prelevati dalla polizia e portati in caserma per spingerli a rinunciare alla contestazione. La pressione ottenne il risultato voluto, ma per un periodo Tom venne tenuto sotto sorveglianza, seguito e con la corrispondenza e il telefono intercettati. La soluzione venne trovata da un funzionario di polizia conciliante che fece firmare a Jobim una dichiarazione paradossale che diceva, a proposito di quel boicottaggio: «Questa carta dichiara che il signore non aveva l'intenzione». E lì finì. Aguas de março ha rilanciato Jobim in tutto il mondo. Ma a differenza di quanto era successo con la prima ondata della bossa nova, Tom aveva scritto lui stesso anche una versione del testo in inglese, cercando parola per parola sul vocabolario per essere il più fedele possibile all'originale. Aveva imparato la lezione appresa ai tempi del primo boom, quando i discografici imposero traduttori in inglese che si mangiavano una bella fetta di royalties e quando le traduzioni, come quella di Garota de Ipanema, arrivarono anche a realizzare una paradossale versione al maschile, The boy from Ipanema (assurdo per un pezzo costruito sull'andamento sinuoso e sensuale di quella ragazza che transitava ogni giorno davanti al bar preferito da Tom e Vinicius per andare in spiaggia). Ai tempi, ricordava con amarezza Jobim a proposito della prima avventura americana, se ne tornava in albergo e si metteva letteralmente a piangere di dolore.
FLASH DAGOSPIA il 18 dicembre 2019. - "JENA" BARENGHI: "ORMAI SIAMO COSI' MALRIDOTTI CHE QUANDO VEDREMO IL FILM SU CRAXI, LO RIMPIANGEREMO" - LA RISPOSTA FULMINANTE DI STEFANIA CRAXI: "SIAMO COSÌ MALRIDOTTI CHE ABBIAMO PERSO LA MEMORIA. NON SA IL SIGNOR BARENGHI O FA FINTA DI NON SAPERE CHE IL MANIFESTO STAVA IN PIEDI ANCHE GRAZIE AI SOLDI “SPORCHI” DI CRAXI E DEI SOCIALISTI?".
Frank Cimini su Dagospia il 19 dicembre 2019. Caro Dago. Questa volta Jena Barenghi se l’è andata a cercare con la battuta che rischiamo di rimpiangere Craxi e la replica di Stefania la figlia sui soldi dei socialisti al Manifesto. Ricordo una ficcante puntata di ‘’Porta a porta’’ dove Valentino Parlato maramaldeggiava sui socialisti ladri e Craxi collegato da Hammamet non si fece pregare: “Vedo che il dottor Parlato si agita ma era andato da Balzamo il nostro tesoriere a incassare un prestito per il suo giornale. Parlato imbarazzato precisò: “Ma poi li restituimmo”. Insomma un po’ come un illustre magistrato simbolo di Mani pulite. E ricordo ancora che il giorno dopo parlai della trasmissione con l’allora procuratore Gerardo D’Ambrosio che napoletanamente chiosò: “Parlato tenev o mariuolo ‘ncuorp... era meglio si se stev zitt”.
Craxi, i diari inediti e la lettera di Amato che a Bettino non piacque. Pubblicato domenica, 05 gennaio 2020 su Corriere.it da Tommaso Labate. «Caro Presidente, ho seguito e seguo con trepidazione queste tue settimane difficili. L’ho fatto in silenzio, perché difendo i miei sentimenti dall’avidità senza pudore di quella che è oggi l’informazione. Tu sai – e ne ho dato prova del resto in tutti questi anni – che di te ho sempre custodito e ribadito l’immagine di un Presidente che ha guidato l’Italia con grandi capacità. (…) È l’immagine che altri deve ora ricollocare nella storia; il che, a quanto vedo, sta cominciando ad accadere. Sai dell’impegno con il quale ci si è adoperati e ci si adopera per verificare la possibilità (…) di consentirti un rientro a finalità curative a condizioni legittime e appropriate. Ma ora – come tu dici – tocca ai bravi medici tunisini rimetterti in sesto. Auguro a te e a tutti noi che così sia; dal più profondo del cuore. Giuliano». Amato e la trattativa. È uno dei tasselli mancanti degli ultimi giorni di vita di Bettino Craxi. La lettera di cui in molti hanno parlato ma che nessuno – tolti il mittente, il destinatario e le due persone che hanno fatto da tramite – aveva mai letto. È datata «Roma, 23 novembre 1999». La scrive Giuliano Amato, all’epoca ministro del Tesoro del governo D’Alema, che la consegna a Umberto Cicconi, che a sua volta la lascia nelle mani di Bobo Craxi perché la dia al padre, ricoverato in Tunisia in attesa dell’intervento per l’asportazione al rene ormai divorato dal tumore. L’ex presidente del Consiglio, questo lo racconterà nel 2003 il figlio in un libro scritto con Gianni Pennacchi, legge il contenuto. Poi accartoccia il foglio di carta intestata della Camera dei Deputati e lo lancia via dicendo «Amato si sta rivelando il peggiore di tutti». La lettera è stata scovata pochi giorni fa da Andrea Spiri, tra l’altro nel giorno in cui lo storico e ricercatore – uno dei massimi esperti accademici del craxismo – avrebbe dovuto consegnare all’editore Baldini+Castoldi le bozze del suo «L’ultimo Craxi. Diari da Hammamet», in libreria dal 17 gennaio prossimo. L’autore ha rinviato di qualche giorno la consegna del testo e il documento è diventato parte integrante dell’opera. Insieme a tantissimi diari inediti. A novembre del 1999, insomma, Craxi capisce che la fine è vicina. Amato gli dà conto della trattativa del governo D’Alema per arrivare a una soluzione umanitaria che gli consenta un ritorno in Italia. Del suo ex sottosegretario all’epoca di Palazzo Chigi, un socialista a cui il destino avrebbe consegnato una sorte diversa dalla sua, Craxi non si fida neanche in punto di morte. «Niente fantasmi». Di notte, a volte, lo inseguono sogni di guerra, scrive l’ex premier malato in un appunto; quelli incollati alla mente del bambino che era stato negli anni Trenta. «I fantasmi non so cosa siano, ed anche i sogni mi inseguono raramente. Se ci sono sogni che mi hanno qualche volta perseguitato, sono stati sogni di guerra. Una eredità infantile. I miei sonniferi sono neutrali. Sono in ogni caso necessari...». «La scomparsa va evitata». «Sono addolorato, ma sono sereno. Non sono né sfiduciato né rassegnato. Penso sempre alle cose terribili che sono successe nella storia, e alle sofferenze sofferte da altri e questo mi aiuta ad accettare con equilibrio tutto ciò che mi sta succedendo», scrive in un diario Craxi nell’ottobre del 1996. Mancano pochi giorni al pronunciamento della Cassazione sulla sentenza di condanna per la tangente Eni-Sai. Il 12 novembre 1996, dopo che la Corte conferma il giudizio di appello, l’ex premier annota: «La sconfitta è inevitabile, ma la scomparsa va evitata». Qualche mese più avanti appunterà: «Non sono un pentito, salvo che per alcune cose che riguardano le mie relazioni umane (…). Mi pento di aver dato fiducia e potere a uomini che non lo meritavano». «Caro Andreotti». Tra le carte inedite riemerse dagli archivi della Fondazione Craxi e riportate alla luce da Spiri c’è anche un biglietto firmato da Giulio Andreotti e datato 27 febbraio 1982. «Caro Craxi, poiché scripta manent, desidero ripeterti quello che ti ho detto iersera: è totalmente falso che io ad arte abbia detto di te che ti occupi di problemi tra un safari e l’altro. Ancora una volta qualche cialtrone si inventa motivi di dissenso addirittura sul piano personale… Io non sono certo un tuo ammiratore a tempo pieno, ma riscontro con rammarico che, come ai tempi del governo di solidarietà nazionale, vi è un certo numero di seminatori di zizzania e di calunnie che dovremmo operare per mettere fuori gioco». Nel luglio 1993, in piena Tangentopoli, sarà Craxi a scrivere. «Caro Andreotti... penso che abbiamo il dovere di reagire in tutti i modi possibili. L’uso violento del potere giudiziario ha aperto la strada a un golpismo strisciante e variamente vestito, di fronte al quale c’è solo la paralisi, lo sbandamento e la viltà di tante forze democratiche. A presto. Tuo B. Craxi». Dopo il 21 marzo del 1994, quando Craxi salirà sull’aereo che l’avrebbe portato per sempre lontano dall’Italia, non si sarebbero visti mai più.