Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.
Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.
I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.
Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."
L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.
L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.
Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.
Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).
Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.
Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro.
Dr Antonio Giangrande
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ANNO 2020
L’AMMINISTRAZIONE
SECONDA PARTE
DI ANTONIO GIANGRANDE
L’ITALIA ALLO SPECCHIO
IL DNA DEGLI ITALIANI
L’APOTEOSI
DI UN POPOLO DIFETTATO
Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2019, consequenziale a quello del 2018. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.
Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.
IL GOVERNO
UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.
UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.
PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.
LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.
LA SOLITA ITALIOPOLI.
SOLITA LADRONIA.
SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.
SOLITA APPALTOPOLI.
SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.
ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.
SOLITO SPRECOPOLI.
SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.
L’AMMINISTRAZIONE
SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.
SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.
IL COGLIONAVIRUS.
L’ACCOGLIENZA
SOLITA ITALIA RAZZISTA.
SOLITI PROFUGHI E FOIBE.
SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.
GLI STATISTI
IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.
IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.
SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.
SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.
IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.
I PARTITI
SOLITI 5 STELLE… CADENTI.
SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.
SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.
IL SOLITO AMICO TERRORISTA.
1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.
LA GIUSTIZIA
SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.
LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.
LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.
SOLITO DELITTO DI PERUGIA.
SOLITA ABUSOPOLI.
SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.
SOLITA GIUSTIZIOPOLI.
SOLITA MANETTOPOLI.
SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.
I SOLITI MISTERI ITALIANI.
BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.
LA MAFIOSITA’
SOLITA MAFIOPOLI.
SOLITE MAFIE IN ITALIA.
SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.
SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.
SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.
LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.
SOLITA CASTOPOLI.
LA SOLITA MASSONERIOPOLI.
CONTRO TUTTE LE MAFIE.
LA CULTURA ED I MEDIA
LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.
SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.
SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.
SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.
SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.
LO SPETTACOLO E LO SPORT
SOLITO SPETTACOLOPOLI.
SOLITO SANREMO.
SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.
LA SOCIETA’
GLI ANNIVERSARI DEL 2019.
I MORTI FAMOSI.
ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.
MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?
L’AMBIENTE
LA SOLITA AGROFRODOPOLI.
SOLITO ANIMALOPOLI.
IL SOLITO TERREMOTO E…
IL SOLITO AMBIENTOPOLI.
IL TERRITORIO
SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.
SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.
SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.
SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.
SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.
SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.
SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.
SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.
SOLITA SIENA.
SOLITA SARDEGNA.
SOLITE MARCHE.
SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.
SOLITA ROMA ED IL LAZIO.
SOLITO ABRUZZO.
SOLITO MOLISE.
SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.
SOLITA BARI.
SOLITA FOGGIA.
SOLITA TARANTO.
SOLITA BRINDISI.
SOLITA LECCE.
SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.
SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.
SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.
LE RELIGIONI
SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.
FEMMINE E LGBTI
SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.
L’AMMINISTRAZIONE
INDICE PRIMA PARTE
SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Burocrazia Ottusa.
Burocrazia retrograda.
L’abuso d’ufficio: il reato temuto dagli amministratori.
Dipendenti Pubblici. La sciatteria e la furbizia non è reato.
La Trasparenza è un Tabù.
Le province fantasma.
L’Insicurezza. Difendersi da Buoni e Cattivi.
I Disservizi nella viabilità e nei trasporti.
Banda “Ladra”: Gli Sfibrati.
INDICE SECONDA PARTE
SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Il Volontariato e la Partigianeria: Silvia Romano e gli altri.
Il Volontariato: tra buoni e cattivi.
Morire di Lavoro.
Morire di Povertà.
La Povertà e la presa per il culo del reddito di cittadinanza.
La Disabilità oltre le barriere.
I medici ignoranti danneggiano tutti noi.
I Medici pestati.
La Cattiva Sanità.
La Buona Sanità.
In Montagna si invecchia prima.
Salute: Carcere e Caserma.
Tumore ed altro: i malati abbandonati senza sussidio.
Alcool e Riflessi.
Medicinali e riflessi.
Le Malattie neurodegenerative.
La resistenza agli antibiotici.
Tumore: scoprirlo in anticipo.
L'anemia.
Tumore allo stomaco.
Il Tumore del Pancreas.
Tumore esofageo.
Prostata e Prostatite.
Tumore della vescica.
Il Cancro al Seno.
Il Cellulare provoca il tumore?
Tumore al Cervello.
Tumori, in Italia sopravvivenza più alta che nel resto d’Europa.
Ecco il santo protettore dei malati di cancro.
L’Amiloidosi.
La Brucellosi.
L’Infarto.
La trombosi venosa.
Sindrome aerotossica: il sistema di areazione degli aerei fa male?
L’encefalomielite mialgica (ME): sindrome da fatica cronica CFS.
La meningite.
L’emicrania.
I Colpi di Testa.
Cefalea invalidante.
Il Fegato Malato.
Il Colesterolo.
La Sla. Sclerosi laterale amiotrofica.
La Fibromialgia.
L’Epilessia.
La dislessia è anche un business.
Lo stress (fa anche venire i capelli bianchi).
Riposare o dormire?
Il Sonniloquio.
Psoriasi.
L’Herpes Zoster: «Fuoco di Sant’Antonio».
La Mononucleosi: la "malattia del bacio".
L’Autismo.
La sindrome di Asperger.
Tricotillomania, il disturbo ossessivo di strapparsi i capelli.
La Disfunzione Erettile.
L’Infertilità.
Tocofobia, Contraccezione ed Aborto.
La Menopausa.
Le Malattie sessuali.
La Vulvodinia
La sindrome da odore di pesce marcio.
Il Mento sfuggente.
Questione di Lingua…
La Glossofobia.
Gli Integratori.
Gli alimenti salutari.
L’Obesità.
La dieta.
L'Anoressia.
La canizie.
L’Alopecia.
L’Anzianità.
La Frattura del Femore.
La Balbuzie.
L’ittiosi epidermolitica.
La cura tradizionale alternativa.
Ti cura Internet.
Preservare la vista.
Ipoacusia: deficit uditivo.
Le Puzzette.
La puzza e le Ascelle.
La stipsi: La stitichezza.
Le Urine svelatrici.
La Demenza. La Sindrome di Korsakoff.
La distimia e la Depressione.
L’ictus cerebrale.
Mente sana in Corpo sano.
Il cervello è l’ultimo a morire.
La Ludopatia.
Il Mancinismo.
L’Evoluzione del naso.
Benessere e Calzature.
IL COGLIONAVIRUS. (Ho scritto un saggio dedicato)
L’AMMINISTRAZIONE
SECONDA PARTE
SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
· Il Volontariato e la Partigianeria: Silvia Romano e gli altri.
Fare volontariato e partigianeria. Onori ai cooperanti partigiani. Oneri per la comunità.
Spese di sostentamento delle ONG; spese di riscatto per il rapimento e costi per il rimpatrio del rapito; lesione dell'immagine della società occidentale e propaganda e proselitismo per i terroristi. Giuliana Sgrena, Greta Ramelli e Vanessa Marzullo, Silvia Romano. Chissà perché rapiscono quasi sempre solo giovani donne?
Valentina Errante Cristiana Mangani per “Il Messaggero” il 10 ottobre 2020. Sono tornati a casa gli ultimi due ostaggi italiani nelle mani dei terroristi islamici. Provati, magri, ma in buona salute. Erano stati rapiti in Niger due anni fa, in momenti diversi e in situazioni diverse. Ieri hanno raccontato la loro prigionia ai pm Sergio Colaiocco e Francesco Dall'Olio. Padre Pier Luigi Maccalli e Nicola Chiacchio, silenzioso e riflessivo il primo, espansivo e loquace il secondo. Barbe lunghe, capo coperto da un cappello e la mascherina sul viso. «Abbiamo saputo del Covid da una radio che ci è stata data dai sequestratori», hanno spiegato. Ad accoglierli il premier Giuseppe Conte e il ministro degli Esteri Luigi Di Maio in un aeroporto reso off limits dall'epidemia in corso. Sono stati anni difficili, di paura. «A un certo punto - hanno raccontato ai magistrati - c'è stato un bombardamento con elicotteri e si credeva che fosse un'operazione di liberazione, che ci fossero venuti a prendere. Ma invece era un'altra situazione. La gente scappava». «Anche io sono fuggito - aggiunge Chiacchio - Avevo percorso un bel tratto, ma poi sono stato ripreso».
LE PUNIZIONI. Non sono stati picchiati, ma a volte, per punizione, gli venivano messe le catene ai piedi, oppure li facevano stare scalzi. Come quando è riuscito a fuggire Luca Tacchetto, il padovano tornato libero a marzo dopo 15 mesi di prigionia. «Il momento peggiore è stato proprio quello - raccontano - ci hanno tenuti per alcuni giorni incatenati agli alberi. Ci hanno detto che uno degli ostaggi era stato ucciso, la donna svizzera. Ma non abbiamo saputo se fosse veramente morta». Chiacchio, sequestrato mentre faceva un giro dell'Africa in bicicletta, ha anche tentato di convincere i rapitori: «Ho detto che mi volevo convertire - dice ai pm - ma l'ho fatto perché volevo essere trattato meglio». Ha scelto realmente l'Islam, invece, l'ostaggio francese, la 75enne operatrice umanitaria Sophie Petronin. Dopo 4 anni di prigionia è tornata con il capo coperto e, come Silvia Romano, ha cambiato nome: si chiama Mariam. Ha rischiato la vita per motivi di salute, ma fa progetti per tornare in Mali, per il quale «implora le benedizioni e la misericordia di Allah». Subito dopo la liberazione, i due italiani hanno raccontato di essere stati trasportati in auto per 5 ore fino all'aeroporto. Poi 3 ore di volo verso Bamako, dove sono stati accolti dal presidente del Mali, il colonnello Goita, che, per ottenere la liberazione degli ostaggi, ha rilasciato 180 prigionieri.
LA TRATTATIVA. Le trattative non si sono mai interrotte, in questi due anni sono arrivate diverse prove dell'esistenza in vita degli ostaggi, ma l'annunciata liberazione non avveniva. La svolta è stata politica: oltre alla francese Petronin, infatti, tra i rapiti c'era anche il politico maliano Soumaila Cisse, leader dell'opposizione sequestrato la scorsa primavera alla vigilia delle elezioni. I disordini interni e la recente pronuncia della Corte Costituzionale, che ha ribaltato il risultato elettorale, hanno costretto il presidente a trattare con i sequestratori. Resta ancora sotto sequestro il medico australiano Ken Elliott, la suora colombiana Gloria Cecilia Narvaez Argoti (per la quale stava mediando anche il Vaticano), il cittadino sudafricano Christo Bothma, il romeno Julian Ghergut e la svizzera Beatrice Stockly, che sarebbe stata uccisa durante la detenzione, perché si sarebbe ribellata.
I RAPITORI. «Siamo stati gestiti da tre gruppi, in particolare da Jnim, tutti appartenenti alla galassia jihadista legata ad al Qaeda - è ancora la ricostruzione fatta con i pm - Il primo è stato quello dei pastori fulani, il secondo composto da rapitori di origine araba e il terzo da tuareg. Siamo stati sottoposti a lunghi spostamenti, che duravano giorni, anche su moto e barche, attraversando il Burkina Faso per arrivare fino in Mali. Siamo stati tenuti insieme da marzo del 2019 fino alla liberazione». Il religioso, sacerdote della Società delle Missioni Africane, è stato prelevato intorno alle 23 del 17 settembre 2018. In base a quanto ricostruito dagli inquirenti sarebbe stato «venduto» da un soggetto che aveva avuto contatti con la missione Bomoanga, a circa 150 km dalla capitale nigerina Niamej. «L'uomo bianco è tornato», la frase recapitata al gruppo di jihadisti, i pastori fulani, che hanno gestito il primo mese di sequestro. «Un gruppo di uomini armati, a bordo di sei moto, ha fatto irruzione all'interno del locale parrocchia e mi ha portato via», ricorda Maccalli. I familiari aspettano ora i due ex ostaggi a casa. «Felicissima» la sorella del missionario (il fratello Walter è pure lui missionario, in Liberia): «Non vedo l'ora di riabbracciarlo», ha detto. La notizia tanto attesa è stata accolta dai rintocchi a festa delle campane dell'intera Diocesi di Crema.
Alice Brignoli, la vedova dell’Isis da Bulciago a Raqqa: «La Siria non era come pensavo». Alice Brignoli: la fuga in Siria con i figli, il marito ucciso, la resa: «Ci portarono via sul carro bestiame». Giuseppe Guastella su Il Corriere della Sera il 5 ottobre 2020. Più di 3.400 chilometri a tappe forzate su una vecchia macchina attraverso i Balcani, i proiettili dell’esercito turco che fischiano sulle loro teste mentre, trascinandosi dietro i tre figli, passano di notte il confine con la Siria accecati dal sogno dello stato islamico e della guerra all’Occidente, lo stesso che si trasformerà nell’incubo dei campi profughi e del carcere in Italia. Arrestata in Siria per terrorismo internazionale dopo la morte del marito sotto le bombe, trasportata in Italia Alice Brignoli racconta 5 anni di vita e guerra nel Califfato ai pm milanesi Francesco Cajani e Alberto Nobili che la interrogano per la prima volta. La donna, 42 anni, ha lasciato Bulciago (Lecco) il 21 febbraio 2015con il marito disoccupato e i loro tre bambini (allora di 6, 4 e 2 anni) ai quali se ne aggiungerà un quarto nato in Siria. Ammette di aver condiviso le idee integraliste del marito Mohamed Koraichi. «Mi disse che voleva partire per la Siria per rispondere all’appello di al Bagdadi (giugno 2014, ndr.) di recarsi nei territori del proclamato Califfato», dichiara rispondendo alle domande dei magistrati assistita dall’avvocato Carlotta Griffini. Si era radicalizzato sul web, dice. «Abbiamo preso quello che c’era in casa», e sono partiti su una vecchia Citroen Xara con i tre bambini e la spesa fatta al supermercato. I Carabinieri del Ros seguiranno le loro tracce in Bulgaria e in Turchia fino a pochi chilometri dal confine con la parte della Siria allora in mano all’Isis. Lì il marito incontra un uomo che «fa da intermediario con quelli dell’Isis». Fornite le credenziali di jihadista avute chissà come, ottiene l’autorizzazione ad entrare nel Califfato.
L’attraversamento del confine. «Arrivarono due persone con una macchina. Mio marito mi disse di prendere solo lo stretto necessario, anche perché dovevamo camminare. Era notte e ci lasciarono a 20 minuti circa (dal confine, ndr). C’erano ad aspettare anche altre cinque famiglie con figli piccoli come i nostri e donne, se ben ricordo, francesi dal loro accento». Il gruppo si avvia a piedi per un difficile cammino di due ore. «Dovevamo stare attenti, c’erano i controlli dell’esercito turco». Fino al confine. «Abbiamo tagliato un filo spinato e abbiamo sentito degli spari, nessuno è rimasto ferito». Ancora a piedi finché non li recupera un pulmino che li porta a Tel Abiab da dove andranno a Raqqa, sede del quartier generale Isis, e da lì a Resafa dove Mohamed verrà addestrato alle armi e indottrinato ulteriormente.
Vita quotidiana nei territori dell’Isis. Qual era la vostra vita, chiedono i pm. «All’inizio era tranquilla a Raqqa, io a casa con i figli che andavano a scuola». Condivideva le scelte del marito. «Sapevo che se si cresceva in quell’ambiente anche per i miei figli, con il tempo, sarebbe arrivato il momento dell’addestramento: ne ero consapevole e concordavo anche su questo». Mohamed viene incorporato in un battaglione. «Per tre volte nel primo anno non ha partecipato a combattimenti veri ma solo ad azioni militari come supporto logistico», dichiara Alice provando a confutare l’accusa di aver supportato un uomo agli ordini dell’Isis, che ha partecipato ad «azioni violente». Anzi, dice, Mohamed lascia il battaglione «perdendo il sussidio, meno di 100 dollari al mese, che riceveva dallo Stato». Per riaverlo si arruola in un reparto che ripara mezzi militari.
La decisione di consegnarsi. Con l’avanzare dei curdi sul suolo siriano la situazione precipita: «Ci siamo spostati a Medine (così la cita, ndr) perché a Raqqa era iniziato l’attacco militare. Mio marito aveva forse capito che qualcosa stava cambiando in senso militare e che era oramai impossibile ritornare a casa. Abbiamo passato un altro anno e mezzo in questa situazione e poi anche Medine è stata attaccata». La ritirata dell’Isis in rotta li trascina in un’altra area dove «mio marito è stato ferito alla testa da un pezzo di bomba». Il verbale non mitiga il senso di sconfitta. «Appena iniziata la tregua abbiamo deciso di consegnarci (...). Arrivarono camion bestiame per portarci via e consegnarci al campo» di al-Hawl, Nord della Siria. Era il 21 marzo 2019. «A giugno c’è stato un nuovo controllo e sono stata incarcerata per due mesi e dieci giorni, sempre insieme ai miei figli e con altre donne e bambini. Alla fine siamo stati trasferiti in un altro campo».
Mattarella “in apprensione” per Silvia Romano. Ecco cosa sappiamo del suo rapimento. Alessandro Barcella su Le Iene News il 07 febbraio 2020. La giovane cooperante milanese è stata rapita in Kenya il 20 novembre 2018 e da allora di lei non si sa più nulla. Il presidente della Repubblica: “Siamo in apprensione, il nostro pensiero si unisce al costante impegno per liberarla”. Iene.it ha pubblicato testimonianze esclusive e documenti che raccontano di un rapimento forse legato a una denuncia per pedofilia che Silvia aveva presentato 9 giorni prima di essere sequestrata. "Desidero ribadire l'apprensione per le sorti di Silvia Romano, la giovane rapita in Kenya mentre svolgeva la sua opera generosa di solidarietà e di pace". Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, intervenuto questa mattina alla cerimonia per "Padova capitale europea del volontariato", ha ricordato la giovane milanese misteriosamente rapita a 23 anni in Kenya il 20 novembre del 2018 di cui non si sa più nulla. "Non può mancare per lei il nostro pensiero che si unisce al costante impegno delle istituzioni per la liberazione". Della 24enne Silvia Romano, che faceva la volontaria per la onlus marchigiana “Africa Milele”, non si hanno più notizie da quando un commando di uomini armati l’ha rapita nel piccolo villaggio di Chakama. Qualche mese fa è iniziato a Malindi il processo a carico dei due indiziati, Moses Luari Chende e Abdulla Gababa Wari, di origine somala. Proprio di un possibile rapimento a opera di estremisti somali si è parlato negli ultimi tempi, anche se l’ipotesi che la ragazza sia in mano ai miliziani islamici di Al Shabaab appare poco probabile. Silvia Romano è ancora viva e nelle mani dei suoi rapitori? È stata venduta a qualcun altro? È difficile riuscire a dare una risposta certa in un caso in cui, da oltre un anno, non si hanno che voci spesso incontrollate e infondate. Noi torniamo sugli elementi e le testimonianze esclusive che Iene.it ha raccolto con le sue inchieste. Inchieste che erano finite anche sui banchi del Parlamento e che erano partite dall’indiscrezione di un rapimento forse collegato a una denuncia fatta dalla ragazza milanese contro atti di pedofilia, appena 9 giorni prima della sua sparizione. Vi avevamo fatto ascoltare la testimonianza esclusiva di uno dei due volontari italiani che avrebbero accompagnato Silvia a fare la denuncia contro un prete keniota: “C’era questa struttura affittata da Africa Milele, erano alcune stanze, noi dormivano lì. La stanza di questo prete era a tre metri dalla nostra, nello stesso nostro complesso, la Guest House. Abbiamo visto palpeggiamenti, strusciamenti, cose assolutamente non consone per nessuno, soprattutto per un prete. All’inizio me ne sono accorto solo io, e poi l’ho detto a Silvia e all’altra volontaria, e siamo stati tutti più attenti. Abbiamo visto le ragazzine che entravano nella stanza di quest’uomo e ci stavano pochissimo, due, tre, cinque minuti. Non so fino a che punto arrivasse, però atti pedofili c’erano eccome. Vedere certe cose e rimanere fermo… Io sono arrivato al punto di dire: ‘Facciamo qualcosa in fretta o io da qui me ne vado!’” Il volontario, che aveva raccontato di non essere mai stato sentito dagli inquirenti italiani, aveva aggiunto alcuni dettagli su quella denuncia: “È stata fatta a nome di Silvia, firmata e presentata. Avevamo fatto il nome di quel prete e c’era anche un mandato d’arresto per lui… L’11 novembre, nove giorni prima che Silvia venisse rapita, facciamo questa denuncia e subito dopo torniamo a Chakama. Il prete però non c’era più, tutto era finito in una bolla di sapone”. Un racconto poi confermato, sempre a Iene.it, anche da Lilian Sora, presidente della Onlus per cui Silvia Romano lavorava: “A Chakama sono arrivati Silvia e gli altri due volontari. Nella casa dove ci siamo noi, ci sono altre camere. Di solito insieme a noi ci sono gli insegnanti della scuola secondaria che affittano altre due stanze. Quando i ragazzi sono arrivati, nella stanza numero 1 c’era un altro signore, che noi non conoscevamo, quello che chiamavano 'father'. I ragazzi si sono accorti di alcuni atteggiamenti di questa persona, e cioè hanno raccontato che faceva entrare nella sua camera, con la porta aperta, delle bambine attorno ai 10 anni. Ho chiesto subito a Silvia di confrontarsi con Joseph, il mio compagno di etnia Masai che è sul luogo, perché è il referente africano di Africa Milele. Joseph si è preoccupato e ha parlato subito con il padrone della guest house, un uomo che noi chiamiamo il boss. Lui ci ha spiegato che questo prete era un pastore anglicano. Lì in Kenya il fatto che sia un prete mette fine ad ogni discussione, soprattutto se si parla di pedofilia, una cosa che dunque è da escludere a priori. Il boss ci ha detto che il 'father' sarebbe andato via nel giro di un paio di giorni, e che era lì come commissario d’esame per la scuola primaria, perché era un prete ma anche un insegnante. Il boss ci ha detto che le bambine andavano in stanza da lui a fare catechismo, a pregare. Il giorno dopo i miei ragazzi hanno ripreso a dirmi che il prete aveva atteggiamenti non adeguati, e che loro avevano fatto in modo che le bimbe non entrassero. Il 'father' però usciva dalla stanza e stava con loro, sfiorandole. Era però difficile capire quanto i miei volontari si fossero lasciati prendere e quanto invece fosse vero. Non è facile andare a dire che c’è un pedofilo!” Lilian Sora, su quella denuncia per pedofilia, aveva anche aggiunto un dettaglio che sembrerebbe gettare un’ombra sulle modalità d’indagine degli inquirenti kenioti. “I ragazzi sono usciti dalla centrale di polizia di Malindi con in mano un mandato di arresto per il ‘father’. I ragazzi avrebbero dovuto portare quel mandato il giorno dopo alla polizia di Langobaya, che è referente per il villaggio di Chakama. Insieme a loro sarebbe dovuta partire una poliziotta per andare a sentire le presunte vittime a Chakama. A Langobaya la polizia ha chiesto ai tre volontari 30 euro per pagare la benzina per le loro moto che dovevano andare a Chakama… Mi sono confrontata telefonicamente con i volontari e abbiamo detto: ‘ci pensiamo, ma anche no’. E allora il mandato d’arresto per il prete presunto pedofilo è rimasto in mano alla polizia di Langobaya”. E così la polizia, davanti a quel rifiuto dei 30 euro, non sarebbe partita per andare a cercare il prete. Vi avevamo anche raccontato di un italiano che forse si nascondeva dietro l’identità di uno sciacallo che aveva chiesto il riscatto per la giovane, pochi giorni dopo la sua sparizione. Uno sciacallo di cui sempre Lilian Sora aveva spiegato: “Da sei mesi questa persona manda email: la prima è arrivata il giorno dopo il rapimento e la seconda il 25 novembre. Io ci ho parlato, mi ha chiamato una mattina da un numero americano dello stato dell’Illinois, penso uno di quei numeri che si comprano su Internet. Si è presentato come Yusuf Aden: è una persona non giovane, direi di mezza età. Dal suo inglese e dal modo di parlare credo che sia un keniano, però noi pensiamo che dietro di lui ci sia un italiano". E aveva aggiunto: “Questa persona scrive da un'email fornita da un provider svizzero, che non consente di risalire all’indirizzo Ip di provenienza e dunque di essere localizzato. Un provider altamente criptato, che neanche i i Ros dei Carabinieri sarebbero riusciti a identificare. Negli ultimi messaggi poi questa persona sta scrivendo che io me ne sarei fregata…”. Infine, se non ce ne fossero già abbastanza, c’è il mistero sulla cauzione pagata da uno degli arrestati. Si tratta di circa 25mila euro regolarmente versati da uno dei presunti componenti del commando di rapitori, un uomo che però proviene da una famiglia di poverissime origini. Qualcuno ha pagato la cauzione per tenere l’uomo lontano dai riflettori e per assicurarsi il silenzio sulla sorte di Silvia Romano?
Troppi misteri nel rapimento di Silvia Romano? Le Iene News l'1 dicembre 2020. Con Massimo Alberizzi, storico corrispondente del Corriere della Sera, analizziamo le troppe cose che sembrano non tornare nella vicenda del sequestro di Silvia Romano, la cooperante milanese rapita in Kenya il 20 novembre 2018 e liberata in Somalia dopo oltre 500 giorni di prigionia. Matteo Viviani e Riccardo Spagnoli tornano sulla vicenda di Silvia Romano, la cooperante milanese sequestrata in Kenya il 20 novembre del 2018 e liberata in Somalia dopo oltre 500 giorni di prigionia l’8 maggio del 2020. Una vicenda che ha letteralmente diviso l’opinione pubblica e sulla quale sembrano ancora tante le cose che non tornano. Incontriamo Massimo Alberizzi, storico corrispondente del Corriere della Sera, consulente delle Nazioni Unite incaricato di investigare sul traffico d'armi in Somalia e oggi direttore della testata online Africa-Express sulla quale continua a pubblicare le sue inchieste. “Io ho cercato di capire cosa stesse succedendo…”, racconta Alberizzi, che per lunghi mesi è stato sul campo, in Kenya, per cercare di sciogliere alcuni di questi misteri. “Non conveniva liberare Silvia Romano. L’Italia non aveva nessun interesse a liberarla in fretta…”, esordisce il giornalista. Sono tante le cose che dobbiamo chiederci a proposito del rapimento di Silvia Romano: Silvia poteva essere liberata prima? È stato fatto tutto il possibile per portarla presto a casa? Dove sono stati, se ci sono stati, gli errori? Partiamo dalla cronaca: è il 20 novembre del 2018 quando verso le sette di sera un gruppo di uomini armati con fucili e machete piomba nel villaggio di Chakama, dove Silvia vive e lavora come cooperante e dopo avere aperto il fuoco per spaventare i presenti, la preleva con la forza per poi scappare a piedi scomparendo nella foresta. Dopo il rapimento un gruppo di ranger della zona si mette sulle tracce del commando e, seguendo le urla della ragazza, arriva fino al fiume Galana dove sulla sponda opposta vede Silvia insieme ai suoi rapitori. Massimo Alberizzi racconta che un ranger “aveva individuato il bivacco, chiama con la radio dicendo "possiamo arrivare, l’abbiamo trovata!, e rispondono "no, aspettate i rinforzi…”. Insomma Silvia sarebbe stata lì, davanti a loro, ma dai piani alti sarebbe arrivato il primo stop. “Li lasciano praticamente andare, questi scompaiono…”, aggiunge Alberizzi. E così la prima occasione buona per togliere Silvia dalle mani dei suoi aguzzini svanisce insieme a loro. La polizia keniota fa partire delle ricerche serratissime con gli elicotteri che iniziano a sorvolare la zona del rapimento da una parte all’altra del fiume. Vengono interrogate molte persone, ne vengono arrestate altrettante per poi scoprire che Silvia è in mano a tre dei rapitori che puntano verso nord, dritti al cuore della foresta.
“Boni Forest è al confine tra Kenya e Somalia, dove non ci va neanche la polizia… È un covo di Al Shabaab”, racconta ancora Alberizzi. Stiamo parlando della cellula somala di Al Qaeda, gli stessi che qualche anno prima del rapimento di Silvia erano entrati in un campus dell’università di Garissa in Kenya, e avevano trucidato 147 ragazzi a sangue freddo. È anche per questo che inizialmente si pensa ad un rapimento con finalità terroristiche piuttosto che per un semplice riscatto. Una cosa che però a Massimo non torna…“No perché in questi casi, li ho visti, ammazzano prima tutti, anche perché ci sono i testimoni quindi è meglio togliere di mezzo i testimoni, invece qui, mi ha sempre dato l’idea che fosse una banda armata…”. E in effetti, stando ai racconti dei testimoni, i rapitori avrebbero sparato in aria, ferendo delle persone ma casualmente. E, come ha raccontato alla tv un testimone, parlando del dialogo tra i rapitori e Silvia, “le chiedevano i soldi, vogliamo i soldi, vogliamo i soldi non ti faremo del male”. La polizia a distanza di una settimana dal rapimento pubblica le foto di 3 uomini mettendo sulla loro testa una taglia da un milione di scellini. “È ridicolo, sono 7mila euro”, spiega ancora Alberizzi, “non puoi dare due anni di stipendio ad uno che rischia di fuggire tutta la vita perché si trova tra due fuochi”. D’informazioni infatti ne arrivano ben poche ma nonostante questo i rapitori sembrano sentire il fiato sul collo… “Stanno facendo molti errori”, ha detto il capo della polizia locale al Corriere della Sera. Ma a un certo punto, stando sempre alle scoperte di Massimo Alberizzi, per la seconda volta si intravede un barlume di speranza. “C’è uno che viene chiamato come scout dai ranger, trova i rapitori con Silvia febbricitante. Cosa fa lo scout? Va in un villaggio dove c’è un presidio dell’esercito e dove sono tra le altre cose ospitati i servizi italiani. Arriva lì e dice ‘ragazzi io li ho trovati ma ho bisogno assolutamente di antibiotici’. Invece di dargli gli antibiotici e magari seguirlo, i kenyoti arrestano lo scout…”. Una decisione ancora una volta inspiegabile, che non farebbe altro che dare un ennesimo vantaggio ai rapitori di Silvia. “Come son scappati la prima volta quando sono stati bloccati riscappano un seconda volta, probabilmente a quel punto trovano rifugio in Somalia”. Alberizzi sostiene: “Secondo i comunicati ufficiali tra la nostra intelligence e il governo kenyota c’era grandissima collaborazione. Questa cosa mi ha insospettito perché sul campo non li vedevo…” Massimo racconta di essere andato a Chakama in agosto e di avere chiesto se qualche italiano fosse arrivato lì, ma gli avrebbero detto che era venuto solo il console il giorno dopo il rapimento e più nessun altro. Non sappiamo se sia vera questa circostanza, certo magari la nostra intelligence si stava muovendo cercando di non dare nell’occhio… Qualcosa però succede, perché verso gli inizi di dicembre vengono arrestate 3 persone. Il primo è Ibrahim Omar, considerato dalle autorità kenyote capo del commando armato che ha rapito la giovane Silvia a Chakama e che viene trovato in un rifugio, riconducibile ai terroristi di Al Shabaab, assieme a parecchie munizioni e a un kalashnikov. “Un altro è noto per essere il bracconiere della zona e quindi era già stato arrestato più volte”, spiega ancora il giornalista italiano. “Il terzo era un poveraccio che viene arruolato come manovalanza e non ha voce in capitolo”. Di Silvia però neppure l'ombra e tra gli investigatori kenyoti si fa sempre più insistente il pensiero che alla fine la ragazza sia stata ceduta davvero ai terroristi somali che stanno per attraversare il confine verso il loro paese. A questo punto succede l’ennesimo colpo di scena, che riguarda un aspetto della storia che non è mai stato chiarito fino in fondo. Emerge da un documento esclusivo degli inquirenti kenioti, che Massimo pubblica sul suo sito e che recita: “rapimento al fine di richiedere un riscatto all’ambasciata italiana per riscatto chiesti all’ambasciata italiana come unica condizione per il rilascio”. Una circostanza che dopo la liberazione della ragazza, verrà smentita a gran voce dall’attuale ministro degli Esteri Luigi Di Maio, che dice: “È legittimo farsi domande, a me non risultano riscatti altrimenti dovrei dirlo”. La cosa certa però è che dopo gli arresti dei 3 rapitori il riserbo che cala sulla questione Silvia Romano diventa assordante. Nessuno parla più, né dal Kenya né tanto meno dall’Italia. Gli unici aggiornamenti infatti arrivano proprio dai pochissimi giornalisti italiani che sono sul posto e che seguono udienza dopo udienza il processo che si apre nei confronti dei 3 arrestati. Un processo dal quale saltavano fuori altre stranezze, perché per esempio dopo le prime udienze, come ci dice Massimo, “i signori vengono rilasciati su cauzione… il poveraccio non ha i soldi quindi resta in galera”. A essere liberati su cauzione sono Moses Chende, che versa la cifra molto alta, almeno in Kenya, di 25 mila euro, e Ibrahim Omar il più pericoloso della banda, quello trovato con munizioni e kalashnikov, per il quale la cauzione viene pagata misteriosamente. Pagata, come spiega ancora Alberizzi, “da un sarto che guadagna due lire…”. È infatti una circostanza incredibile se pensiamo che lo stipendio medio in quelle zone del Kenya è di circa 70 euro al mese. Nonostante questo, un perfetto sconosciuto che sostiene essere amico del rapitore mette in pegno la bellezza di 26 mila euro per farlo uscire di galera…. “E l’uomo dopo essere stato scarcerato scompare”, aggiunge il giornalista italiano. Il processo, seppur senza uno degli indagati più importanti continua, i due rapitori che non sono fuggiti collaborano ma poco tempo dopo accade che sia la procuratrice che un capo della polizia vengono trasferiti.. “A pensare male si va all’inferno ma ci si azzecca”, dice ancora Alberizzi. Insomma, l’impressione è che qualcosa, soprattutto nei primi mesi sia andato come non doveva, troppe sono le coincidenze e altrettanti i misteri che, a oggi, restano tali e quali. Il resto della storia lo conosciamo tutti: la ragazza viene liberata grazie a un'operazione congiunta tra i nostri servizi segreti e le forze speciali turche che la recuperano in un villaggio a pochi km da Mogadiscio e il 10 maggio del 2020 Silva tocca il suolo italiano dove può finalmente riabbracciare la sua famiglia. Da quel giorno di questa storia se n’è parlato pochissimo e nessuno ha veramente capito come siano andate le cose. Noi però una strada potremmo averla trovata. E se lo stop alle ricerche fosse arrivato direttamente dall’Italia? Massimo trova questa ipotesi possibile e allora gli chiediamo di riconoscere delle persone in una fotografia e il giornalista, visibilmente turbato, dice: “Ragazzi se questa cosa è vera è una bomba”…Che cosa abbiamo scoperto? Ve lo racconteremo nel corso della prossima puntata di questa nostra inchiesta sui troppi misteri nel rapimento della cooperante italiana Silvia Romano.
Silvia Romano poteva essere liberata prima? Le dichiarazioni shock di un testimone a Le Iene. Le Iene News il 2 dicembre 2020. Matteo Viviani e Riccardo Spagnoli raccolgono la testimonianza di una persona che sostiene di aver partecipato alle ricerche di Silvia Romano, rapita in Kenya e liberata in Somalia dopo oltre 500 giorni di prigionia. “Poteva essere liberata prima, un mio contatto sapeva al 90% dove si trovava”. Non perdetevi il servizio giovedì dalle 21.10 su Italia1 Silvia Romano poteva essere liberata prima? Ci sono state interferenze nelle sue ricerche? Matteo Viviani e Riccardo Spagnoli, nel servizio in onda domani sera a Le Iene su Italia 1, tornano sul rapimento di Silvia Romano, dopo avervi raccontato nel servizio di martedì i tanti misteri di questa vicenda. Lo fanno raccogliendo le dichiarazioni esclusive e inedite di un testimone, che sostiene di aver preso parte alle ricerche della giovane milanese rapita in Kenya il 20 novembre del 2018 e liberata in Somalia l’8 maggio 2020. Si tratta di un uomo che dice di conoscere molti dettagli sulla vicenda e che per la prima volta racconta la trattativa che c’è stata per la liberazione della Romano, fornendo anche dettagli sul riscatto richiesto dai suoi rapitori. Un racconto con contenuti clamorosi che, se fosse confermato, darebbe una lettura alternativa rispetto a ciò che fino ad oggi è stato detto su questo sequestro. Il servizio, attraverso le clamorose dichiarazioni di questa persona, se confermate, potrebbe dare una versione dei fatti alternativa, cercando di dissipare la coltre di dubbi e misteri che, fin dai primi giorni del rapimento, sembrano accompagnare gli accadimenti. La iena intervista la persona che avrebbe partecipato alle ricerche della cooperante milanese, che racconta alcuni elementi molto interessanti.
Iena: “Silvia Romano poteva essere liberata prima?”
Testimone: “Sì, ne sono sicuro”.
Iena: “Cos’è successo nei primi mesi successivi al suo rapimento?”.
Testimone: “C’erano troppe interferenze sul campo, chi doveva scegliere non poteva farlo con serenità perché aveva troppe proposte da troppe angolazioni”.
Iena: “Come mai da un certo punto in poi di questa storia non se ne è più parlato?”.
Testimone: “Bisognerebbe chiederlo a chi effettivamente stava cercando Silvia”.
(…)
Testimone: “Se sapevo dove era tenuta nascosta Silvia Romano? Sì, avevo un contatto nella foresta che mi avrebbe dato questa informazione”.
Iena: “Quanto eri certo di questa informazione”.
Testimone: “Al 90 percento. Perché non si arriva al dunque (liberazione dell’ostaggio, ndr.)? C’erano interferenze da tutte le parti, chi doveva prendere una decisione non ha potuto farlo con tranquillità. Per la libertà di un ostaggio tutto è possibile, il “come” è un altro discorso”.
Silvia Romano poteva essere liberata molto prima? Le Iene News il 3 dicembre 2020. Matteo Viviani e Riccardo Spagnoli raccontano un retroscena sul rapimento di Silvia Romano che se fosse vero sarebbe clamoroso e gravissimo: qualcuno dall’Italia ha frenato la sua liberazione per intascarsi parte dei soldi stanziati per il riscatto? Dopo avervi raccontato dei troppi misteri nella vicenda del rapimento di Silvia Romano, la volontaria milanese tenuta in ostaggio per 535 giorni tra il Kenya, dove è stata sequestrata e la Somalia, dove invece, è stata liberata, vi mostriamo alcune testimonianze e documenti che, se confermati sarebbero davvero clamorosi. Matteo Viviani e Riccardo Spagnoli lo fanno intervistando un uomo, che per oltre un decennio ha vissuto e lavorato nelle zone dove è avvenuto il rapimento di Silvia. Un uomo che, il giorno dopo il suo sequestro della ragazza, riceve una chiamata molto particolare. Dall’altra parte della cornetta c’è una persona, che chiameremo “il funzionario”, che dice di essere stato autorizzato a trattare per la sua liberazione e di essere interessato a utilizzare i contatti che Stefano ha nel paese africano. Poi il funzionario butta lì una strana storia, che non abbiamo ovviamente modo di verificare: Silvia avrebbe avuto un gps inserito nell’orecchino, un microchip che poteva essere monitorato tra l’altro da un sistema satellitare, chiamato Telespazio, in uso anche alla nostra difesa. Un’ipotesi che ci sembra poco credibile e che fa calare drasticamente la credibilità del “funzionario”. Decidiamo quindi di approfondire le ricerche su di lui. Partiamo dal nome e cognome con il quale si è presentato. Sul web scopriamo il volto dell’uomo e troviamo diverse immagini di repertorio, che lo ritraggono in occasione di altri rapimenti di connazionali, accanto ad esponenti politici di alto rango. Dobbiamo però essere sicuri che quella voce sia davvero la sua quindi troviamo il modo di farci chiamare e, con una scusa, lo teniamo al telefono per qualche minuto, registrando la sua voce che porteremo in un laboratorio di periti fonici che da oltre 30 anni effettua perizie vocali per vari tribunali e procure d’Italia. L’analisi forense parla chiaro, il perito ci dice: “Diciamo che è molto probabile che sia lui…”. Cioè la stessa persona in entrambe le chiamate. Il contatto tra il nostro testimone e il funzionario prosegue. Il 24 novembre 2018, 96 ore dopo il sequestro di Silvia Romano, l'uomo riceve una nuova chiamata da parte del funzionario, che però non fa più riferimento alla storia dell’orecchino ma dà appuntamento in un luogo vicino Roma, nel quale si sarebbe presentato anche un capitano del Ros, ovvero il reparto operativo speciale dei carabinieri, l'unico organo investigativo dell'Arma che ha competenza sia sulla criminalità organizzata che sul terrorismo. Un uomo, racconta Stefano, con il quale il funzionario avrebbe dovuto organizzare la liberazione di Silvia Romano. Le circostanze sembrano tornare, perché proprio nei giorni seguenti i telegiornali raccontano l’arrivo in Kenya degli uomini del Ros e non solo: l’incontro tra Stefano, il funzionario e un capitano del Ros avviene il 24 novembre 2018, lo stesso giorno in cui la polizia keniota pubblica le foto dei 3 principali ricercati mettendo sulla loro testa una taglia da 1 milione di scellini ciascuno. Ma a quel punto però accade una cosa davvero strana: la taglia per i tre ricercati viene aumentata da 1 a 3 milioni di scellini per ciascuno. Una circostanza davvero strana: se come aveva detto il funzionario e la stessa polizia keniota si era ad un passo dalla liberazione di Silvia, perché allora offrire più soldi per trovarla? Una chiave di lettura per questo controsenso, in parte, la riceve proprio Stefano, quando 4 giorni dopo riceve un messaggio dal funzionario, che fa riferimento proprio a quella strana decisione. “Sono stato costretto ad accettare le idee di altre persone. Altri brillanti consiglieri hanno ritenuto opportuno aumentare le taglie a 3 milioni…In questi casi obbedisco…” Pare di capire dunque che secondo il funzionario la richiesta di aumentare le taglie sui tre ricercati sarebbe partita direttamente dall’Italia su consiglio di alcuni “brillanti consiglieri”, dei quali però ovviamente non si fa alcun nome. Il messaggio continua e il funzionario sembra scocciato dalla piega che stanno prendendo le cose. I suoi vertici, sostiene, avrebbero accettato di tentare una liberazione seguendo la strada proposta lui ma qualcuno sarebbe intervenuto. “Anche se ***** aveva accettato di buon gusto la mia ipotesi dopo una riunione con gli altri... ha cambiato parere in quanto si è dovuto allineare con le volontà degli... a che hanno ritenuto mettere in campo AISE”. Vale a dire i servizi segreti italiani che si occupano di ricercare ed elaborare tutte le informazioni utili alla difesa dell’indipendenza, dell’integrità e della sicurezza della Repubblica dalle minacce provenienti dall’estero. Il funzionario, che da quel che ci risulta non farebbe parte dell’organigramma del Ros, ribadisce di essere lì come “ufficiale pagatore”. Insomma, stando a ciò che scrive funzionario, 8 giorni dopo il rapimento di Silvia, in Italia succede qualcosa, ovvero che vengono messi più soldi sul piatto delle taglie e contemporaneamente sarebbero entrati in gioco i nostri servizi segreti esterni. I messaggi però vanno avanti e lui con Stefano si dimostra contrariato, perché convinto che con i contatti di Stefano sul territorio keniota si sarebbe potuti arrivare a Silvia pagando le informazioni il giusto, senza buttare via soldi. Soldi che invece, come lui stesso scrive servirebbero in realtà ad altro “come già capitato in altre circostanze non escludo qualcuno che se ne torna a pancia piena”. Vuole forse dire che c’è il rischio che qualcuno si possa intascare una parte di quei soldi messi in campo per la liberazione di Silvia? Stefano dice a Matteo Viviani: “Così è la sua supposizione, qualcuno avrebbe approfittato di questo movimenti di denari”. Un qualcuno all’interno del territorio italiano, è evidente da quello che scrive”. Ma è davvero possibile che gli interessi economici di qualcuno possano aver influito sul salvataggio di Silvia? Dopo qualche giorno, siamo arrivati al 4 dicembre 2018, il funzionario torna a farsi sentire, dando a Stefano alcuni particolari riguardanti, con molta probabilità, l’ennesima e imminente operazione per la liberazione di Silvia. “Il contatto col capo della polizia penetra nella foresta, ci danno la certezza..” La voce è più tranquilla rispetto alle altre volte, anche se ad un certo punto dice di volersi prendere 4 giorni di riposo, di averne bisogno, che tanto “la ragazza sta in buone mani”. E aggiunge: “A livello di coscienza era da intervenire subito per farle passare qualche notte in meno in mano a quella gente… però caro Stefano pensiamo pure ai cazzi nostri…” Ciò che sostiene Stefano è che quella frase, “la ragazza sta in buone mani “, non vada intesa come “sappiamo dov’è ma aspettiamo a liberarla”, bensì come un “sappiamo che è viva e abbiamo avuto un contatto con i sequestratori”. Il funzionario comunque sembra essere in procinto di organizzare l’ennesima partenza verso l’Africa tanto che chiede a Stefano di rispolverare i suoi contatti in loco. La sua speranza è che, tramite un gancio di Stefano in Kenya, si potesse individuare la zona dove tenevano nascosta Silvia, cercando nello stesso tempo di aprire un canale di comunicazione con i rapitori. Ma considerando che il funzionario gli aveva appena detto di sapere che “Silvia era in buone mani” non si capisce davvero perché l’uomo avesse bisogno di un’ulteriore possibilità di individuarla. Stefano chiede però al funzionario che la polizia kenyota non faccia “cretinate”, cioè non mandi a rotoli in qualche modo tutto questo intenso lavoro sottotraccia e allora lui ribadisce di avere tutto sotto controllo. E ad una domanda precisa di Stefano su chi lui sia, fa capire di non appartenere all’Arma dei Carabinieri. “lasciali perdere”. E poi aggiunge: “io sono della parrocchia numero 1”. Che avrà voluto significare? Il funzionario dice a Stefano “non le abbiamo provate tutte”, facendo forse intendere di avere le mani legate, come se qualcuno o qualcosa ostacoli il suo lavoro. Stefano parla a Matteo Viviani di possibili interferenze da parte della polizia keniota, e del fatto di essere in grado di portare il funzionario direttamente al capo della polizia del paese africano. Qualche giorno dopo, siamo al 10 dicembre, un blogger keniota pubblica per primo una notizia dirompente: l’arresto di uno dei presunti rapitori di Silvia Romano. E quella stessa sera il funzionario scrive a Stefano una mail molto importante, che probabilmente segna un punto cruciale nella vicenda. “Esco adesso da una riunione ai limiti della diplomazia, così come si usa dire, la notte dei Lunghi coltelli. Ritengo corretto e doveroso aggiornarti su quanto è scaturito da questo incontro .. Vista la situazione che si è venuta a UVB creare su richiesta del ….. e di qualche suo collega pur di evitare imbarazzanti situazioni. Ho convenuto una collaborazione con Aise…” L’Aise in realtà sarebbe stata già in campo ma il funzionario aveva proseguito il suo lavoro indipendentemente. Motivo per il quale Stefano intanto continua a raccogliere le informazioni per lui e poco dopo gli fa sapere che Silvia sarebbe “rapata” e con una “gamba gonfia”. Un particolare questo che solo Silvia e chi l’ha sequestrata potrebbero confermare ma che da quanto ci risulta non verrà citato su nessuna fonte di stampa fino a Marzo 2019, cioè 3 mesi dopo il messaggio di Stefano. Deve essere chiaro che questa è la versione dei fatti di Stefano ma è anche vero che i messaggi tra i due, dopo quella famosa mail dove si ribadisce l’entrata in gioco dei nostri Servizi Segreti Esterni, prendono una piega abbastanza particolare… Il funzionario gli scrive un messaggio in lingua swahili, la lingua nazionale del Kenya, in cui dice: “Quando c’è il rumore dei soldi tutto tace”. Che voleva intendere? Erano forse tutti in attesa del pagamento del riscatto? In quel momento sul campo a seguire le tracce di Silvia c’erano i nostri servizi segreti esterni, c’era il ROS dei Carabinieri, la nostra magistratura, la diplomazia, l’esercito Keniota, la polizia e le guardie forestali. Insomma, come Stefano scrive al funzionario: “troppi a parlare” - “Nel pollaio solo un gallo ci deve stare”. L’uomo chiede a Stefano un piacere: “Io avrei necessità di riuscire a parlare di nuovo personalmente col vicepresidente…” La voce del funzionario in questa telefonata è molto decisa, sembra ci siano dei problemi, e ha bisogno di un incontro con i piani alti kenioti. Stefano spiega: “Io quello che so è che c’erano parecchie interferenze da parte delle forze di polizia keniote”. Secondo lui infatti, il sistema di pagamento delle informazioni che fino a quel punto si era utilizzato sarebbe andato fuori controllo. Stefano dice: “Considera che anche le persone in Kenya avevano il loro vantaggio economico… derivante da informazioni, gestione, logistica, e quindi avevano interesse che questa cosa andasse un po’ prolungata nel tempo. Questo è quello che posso pensare io...Lo penso perché è la storia del mondo non l’unico caso dove gli interessi economici hanno prevalso su tante altre situazioni”. Insomma il problema potrebbe essere stato questo cortocircuito pazzesco, che se fosse vero avrebbe lasciato Silvia Romano nelle mani dei rapitori molto più del dovuto. E il funzionario sembrerebbe spiegarlo bene: “Adesso il casino è la quantità di denaro che tu sai benissimo che è in ballo…” E quando Stefano gli chiede se l’uomo in carcere, uno dei tre sequestratori, collabori, lui risponde in modo secco: “Non lo vogliono far collaborare, capisci?” Ma a quanto direbbe il funzionario, in Kenya non sarebbero stati gli unici a volerci guadagnare dalla liberazione di Silvia. “Perché si sarebbe interrotta la catena di dazioni”, sostiene Stefano, aggiungendo: “si è messa in mezzo tanta di quella gente sia del Kenya che dell’Italia che non te ne rendi conto forse. Ci sta una fila di sciacalli da ambo le parti…” Il problema però sarebbe nel mancato accordo sui soldi del riscatto, sembrerebbe di capire dalle parole del funzionario del 19 dicembre. Lui con 500mila euro avrebbe liberato Silvia accontentando la richiesta dei rapitori kenioti, ma a quanto riferisce “gli italiani invece vogliono 20 milioni”. Quindi Silvia non sarebbe stata liberata a quell’epoca perché forse dall’Italia qualcuno voleva mettersi in tasca milioni di euro? A quanto ci risulta, dopo questa telefonata, seguono alcuni giorni di silenzio trai due ma il giorno della vigilia, il telefono di Stefano squilla di nuovo. “Siamo già in territorio di operazione – dice l’uomo -. La polizia ci ha dato già indicazioni sicure. Abbiamo localizzato tutti i loro telefonini, abbiamo localizzato la ragazza, Adesso è una questione di denari e basta”. Quando Stefano chiede al funzionario cosa avrebbero fatto con i rapitori, il funzionario dice: “Abbiamo pattuito che li portiamo via, sani e salvi. Poi li portiamo in Europa, con le famiglie”. “E all’opinione pubblica in Kenya che gli raccontano?” chiede Stefano. “Gli diamo dei corpi di qualche malcapitato che è stato messo al bando, non lo so. È un problema che si sta organizzando la loro struttura”. Silvia Romano avrebbe potuto essere liberata nel dicembre del 2018? Qualcuno ha ostacolato di fatto la sua liberazione perché interessato ai soldi messi in campo per il suo riscatto? La cooperante, intanto, passerà altri 500 giorni nelle mani dei suoi rapitori…
Ecco chi è il “funzionario” che avrebbe trattato per Silvia Romano. Le Iene News il 10 dicembre 2020. Nel precedente servizio Matteo Viviani e Riccardo Spagnoli ci avevano raccontato del rapporto telefonico, durante la prima fase del sequestro di Silvia Romano, tra un imprenditore italiano che ha vissuto in Kenya 30 anni, e un presunto funzionario dello Stato, che diceva di dirigere le trattative per la liberazione dell’ostaggio. Matteo Viviani ci svela chi è il funzionario, ma il mistero, anziché terminare, si infittisce ancora di più. Matteo Viviani e Riccardo Spagnoli tornano sul caso del rapimento di Silvia Romano, la volontaria milanese tenuta in ostaggio per 535 giorni tra il Kenya, dove è stata sequestrata e la Somalia dove è stata liberata. Lo fanno dopo avervi raccontano, nell’ultimo servizio, le dichiarazioni riportate da un uomo che ha lavorato e vissuto a lungo in Kenya, e che ha intrattenuto per mesi una conversazione con chi sosteneva di essere stato incaricato dalla presidenza del Consiglio di dirigere le operazioni per la liberazione di Silvia Romano. Una persona che avrebbe, in sostanza, lasciato intendere che qualcuno dall’Italia stava frenando la liberazione di Silvia Romano, per intascarsi parte dei soldi stanziati per il riscatto. Abbiamo scoperto l’identità di quella persona e il mistero, invece che terminare, sembra essersi infittito ancora di più. Si chiama Valter Tozzi, è un geometra e stando a quando racconta il quotidiano “La Verità” il suo passato sarebbe decisamente opaco. Matteo Viviani lo chiama, per farsi spiegare il perché di quella lunga conversazione con Stefano Saraceni sulle trattative per la liberazione di Silvia Romano. L’uomo però respinge le accuse, spiegando di avere preso parte ad un “teatrino” che nulla ha a che fare con le Istituzioni dello Stato. Un teatrino a suo dire nato quando Stefano Saraceni sarebbe andato da un amico comune (“un semplice corazziere di basso livello, un povero Cristo che vive una vita umilissima, neanche un graduato”) a proporsi per aiutare lo Stato nelle ricerche della giovane ragazza milanese. E così Tozzi e il corazziere, avrebbero deciso di tirare “un bidone” proprio a Saraceni. Tozzi ribadisce con Matteo Viviani la sua assoluta estraneità e partecipazione attiva alla vicenda del rapimento di Silvia. “Non ho mai diretto nessuna operazione, non ho mai messo piede in terra keniota capisce?”, ribadendo che si è trattato di una “scenetta goliardica”. Qualcosa però, comunque, a noi sembra non tornare. Se l’uomo, come vorrebbe fare intendere, è assolutamente estraneo a ogni legame con lo Stato, come si spiega il suo continuo apparire in immagini televisive, accanto a quelle stesse istituzioni, in occasione di eventi normalmente riservate alle più alte autorità? Lo vediamo in immagini di repertorio: è il 6 settembre 2009, il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano è in visita in una zona terremotata, assieme all’allora commissario per la ricostruzione Guido Bertolaso: dietro di loro c’è proprio Valter Tozzi. E sempre Tozzi compare anche nelle immagini televisive del 22 dicembre del 2012, il giorno in cui i due marò Massimiliano Latorre e Salvatore Girone tornano in Italia a bordo di un volo di stato. Eccolo Valter Tozzi: lo vediamo in prima fila, davanti a tutti, addirittura agli stessi familiari dei due marò. A un certo punto l’uomo, che continua a sostenere di essere solo un geometra, entra nell’aereo. Poi esce, si guarda intorno, rientra, esce nuovamente e si mette in attesa assieme a tre graduati della Marina Militare, con i quali sembra anche scambiare due battute. Ma non finisce qui, perché il 28 maggio del 2016, al ritorno in Italia del solo Salvatore Girone, Tozzi è ancora lì, nella sala d’attesa dell'aeroporto. E dopo aver chiacchierato proprio con il padre del militare, si piazza ai piedi della scaletta insieme all’allora ministro della difesa Roberta Pinotti e all’allora ministro degli Esteri Paolo Gentiloni. Ma è davvero possibile che questa persona sia solo un geometra? Tozzi incredibilmente racconta a Matteo Viviani di essere stato invitato lì come giornalista freelance, ma non lo troviamo sull’albo nazionale dei giornalisti e non c’è nemmeno alcuna traccia di suoi articoli in Rete. Il 2 giugno 2018, lo ritroviamo in video accanto al nostro attuale Presidente del Consiglio, mentre tutte le cariche più importanti dello Stato stanno assistendo alla parata per la festa della nostra Repubblica. L’uomo sostiene di essere “pazzo per la collezione di foto con personaggi importanti!”, spiegando che qualsiasi persona può compilare un apposita scheda per entrare a Palazzo Chigi. Noi allora abbiamo provato a contattare alcune delle persone di cui aveva parlato nelle sue telefonate con Stefano durante quelle che lui stesso definiva trattative per la liberazione di Silvia Romano. A partire dall’uomo che, stando al suo racconto, avrebbe ideato lo scherzo a Saraceni. Quando gli spieghiamo il motivo della telefonata, dice di non avere visto il nostro servizio e di non voler sapere nulla di tutta questa storia, e attacca il telefono in faccia a Matteo Viviani. Una reazione simile a quella avuta con un contatto che ricopre una posizione importante in Kenya, e che Valter Tozzi nelle telefonate con Stefano sosteneva di avere sentito: “Non rispondo, per favore, non voglio nessun tipo di coinvolgimento”. Sentiamo anche l’uomo che secondo il racconto fatto da Valter Tozzi a Stefano, sarebbe stato un capitano dei Ros, Un uomo che Stefano ha incontrato ma che Tozzi sostiene essere solo un professore di topografia. Lo cerchiamo e lo troviamo. È davvero un professore ma nega categoricamente di avere mai preso parte ad uno scherzo simile tantomeno di aver finto di essere un Capitano del Ros : “Non faccio niente di queste cose”. E poi smentisce anche di conoscere Valter Tozzi. Chi è veramente Valter Tozzi? Noi ci auguriamo seriamente che sia solo un mitomane ma le domande che vorremmo rivolgere a tutte le Autorità sono poche ma precise. Conoscete quest’uomo? In che veste ha presenziato a tutti questi eventi importanti? Ha ricoperto davvero un ruolo nel caso di Silvia Romano? E se così non fosse, siete coscienti che di quello che dice e di quello che fa?
Silvia Romano è stata rapita per caso oppure no? Le Iene News il 10 novembre 2020. Il nostro Gaston Zama ci parla dei dubbi sollevati dai media sull’attività di Africa Milele, l’organizzazione presso cui operava Silvia Romano quando è stata rapita in Kenya da Al-Shabaab. Nel servizio potete sentire la versione dei fatti di Lilian Sora, presidentessa dell’organizzazione, confrontata con il parere di un esperto di cooperazione internazionale. Lo scorso maggio, dopo 18 mesi di prigionia, Silvia Romano è stata liberata ed è tornata in Italia. Tra i tantissimi messaggi di gioia e qualche stonato messaggio di hater e razzisti, adesso per lei il peggio è passato. Il nostro Gaston Zama, nel servizio che potete vedere qui sopra, ci parla di Africa Milele, l’organizzazione per la quale Silvia Romano stava operando in Kenya. Sui media sono state infatti sollevate ombre e dubbie su questa organizzazione. Gaston Zama è andato a parlare direttamente con la presidentessa di Africa Milele, Lilian Sora, che ci ha raccontato la sua versione di quanto accaduto in quei giorni e ha replicato ai presunti dubbi e critiche sollevate sull’operato della sua organizzazione. Ci siamo poi confrontati con Diego Battistessa, docente universitario ed esperto di cooperazione internazionale, per capire come dovrebbe funzionare un’organizzazione che opera in quel settore e in zone a rischio.
Silvia Romano diventa testimonial di un progetto contro l'islamofobia. Dopo il sequestro e la conversione la giovane ha scelto di impegnarsi contro l'odio religioso. Zita Dazzi su La Repubblica l'11 settembre 2020. Testimonial e operatrice di un nuovo progetto europeo per contrastare l'islamofobia. Silvia Romano, la giovane cooperante rapita in Kenya e tenuta prigioniera in Somalia per un anno e mezzo, dopo il rientro a Milano l'11 maggio, si rimette al lavoro nel campo che lei ha scelto e per cui ha studiato, la mediazione interculturale. "Yes", è il nome del programma europeo nel quale lavorerà nei prossimi mesi. Di discriminazione religiosa, Silvia Romano, 24 anni, purtroppo se ne intende, essendo lei stessa vittima di un linciaggio sui social che non le ha concesso una tregua, nemmeno quando in agosto era in vacanza con la sua famiglia in Liguria. Lei non ne vuole parlare, anche se si fa ritrarre sorridente in una foto promozionale che viene rilanciata sulle pagine Facebook dell'iniziativa contro l'odio religioso e in quelle delle associazioni giovanili musulmane. "Credo che il mio nome possa arrecare più danni che benefici al progetto, alla comunità e alla mia famiglia", si schermisce, con quella serietà che le deriva da mesi vissuti suo malgrado sotto i riflettori, inseguita dalle telecamere, bersaglio di insulti e di minacce a causa della sua conversione all'Islam. Criticata persino dalle femministe per il velo che indossa quando esce di casa, dal giorno del suo rilascio e rientro in Italia. Nasce proprio con l'obiettivo di contrastare questo clima minaccioso e di aggressività, il progetto "Yes" di sostegno ai giovani della comunità islamica. Silvia è stata inserita in squadra come "master equity defender". Con lei altri sette giovani lombardi, quasi tutti immigrati di seconda generazione e un project manager, Domenico Altomonte, 38 anni, esperienze passate con Fondazione Progetto Arca e Albero della vita, associazione di riferimento anche per la campagna "Yes". "Silvia si è candidata e abbiamo ritenuto che il suo profilo e anche le sue capacità fossero perfette per entrare nel nostro gruppo di lavoro - spiega Altomonte - . L'impegno è quello di partire dai giovani per contrastare l'islamofobia, raccogliendo segnalazioni di casi, denunce, ma fornendo anche supporto psicologico ed eventualmente legale, con la consapevolezza che la discriminazione può avere una sua tutela legale anche se esiste poco nell'ordinamento". Dentro al progetto in partnership con Albero della vita e Le Reseau, associazione romana che si occupa di diaspora africana, c'è anche Progetto Aisha di Milano, guidata da quel vulcano che è Amina Al Zeer, mediatrice culturale, esperta in diritti delle donne e lotta alle discriminazioni sessuali. "Questo fine settimana abbiamo finalmente potuto incontrare di persona i Master Equity Defender, gli 8 giovani rappresentanti della comunità islamica milanese selezionati che saranno impegnati in attività di supporto alle vittime di islamofobia oltre che nel primo Forum giovanile internazionale che organizzeremo presto - spiega Al Zeer - . Ci auguriamo di poter contribuire a sensibilizzare l'opinione pubblica su un tema che raramente viene trattato dai media e che invece ha un impatto quotidiano sulla vita delle donne musulmane". Silvia Romano era la candidata ideale per le attività di aiuto alle vittime, con canali di telefono e online per raccogliere le segnalazioni e poi orientare chi deve tutelarsi.
La nuova vita di Silvia Romano: sarà la "testimonial" per l'islam. La cooperante rapita in Kenya seguirà un progetto Ue per supporto psicologico e legale alle vittime di islamofobia. Luca Sablone, Sabato 12/09/2020 su Il Giornale. Ora Silvia Romano scende in campo per combattere e contrastare l'islamofobia: per la cooperante rapita in Kenya e tenuta prigioniera in Somalia per un anno e mezzo è giunto il momento di tornare a condurre una vita "normale" e perciò ha deciso di essere in prima linea per promuovere un progetto europeo dal nome "YES – Youth Empowerment Support for Muslim communities". La 24enne milanese è così pronta a impegnarsi per il sociale sposando la causa del progetto in questione, co-finanziato dalla Commissione europea e realizzato dalle associazioni Fondazione L'Albero della Vita, Le réseau e Progetto Aisha. Stando a quanto riportato da La Repubblica, Silvia nei prossimi mesi si dedicherà all'iniziativa che punta a coinvolgere alcuni giovani rappresentanti della comunità islamica "che saranno impegnati in attività di supporto alle vittime di islamofobia". Tra gli otto giovani lombardi selezionati - con il ruolo di "Master equity defender" - è spuntato anche il profilo della ragazza; il loro principale compito sarà quello di raccogliere le segnalazioni di casi di islamofobia e denunce, fornendo alle vittime un supporto di tipo psicologico ed eventualmente anche legale. Come si legge in un post pubblicato sul profilo Facebook dell'associazione "Progetto Aisha", la volontà è quella di "poter contribuire a sensibilizzare l’opinione pubblica su un tema che raramente viene trattato dai media e che invece ha un impatto quotidiano specialmente sulla vita delle donne musulmane del nostro Paese". Il progetto coinvolge anche altri attori del settore pubblico, privato, profit e no-profit principalmente in Italia. I principali obiettivi previsti sono la sensibilizzazione e il coinvolgimento dei giovani nella lotta contro l'islamofobia, l'acquisizione di competenze e strumenti efficaci nel nostro Paese e in Europa, lo scambio di esperienze e buone pratiche tra i giovani a livello europeo. La partnership a cui ha aderito Silvia Romano ha lo scopo di creare un ambiente favorevole per la promozione della diversità culturale e per ridurre la diffusione degli stereotipi: "Senza una grande consapevolezza della società civile, nessun tentativo di aumentare l’integrazione, il reporting e l’applicazione della legge può essere realizzato". In tal modo si vogliono anche prevenire i fattori di rischio e promuovere i fattori protettivi per le comunità: "È sicuramente una soluzione per mitigare il problema principale che le comunità musulmane affrontano attualmente". Infine vi è l'intento pure di gettare le basi per dare vita a nuovi progetti, pianificati dai partner e da tutte le parti interessate, "creando nuove opportunità per costruire un’Europa più inclusiva".
LA LIBERAZIONE.
La cooperante finalmente libera. Chi è Silvia Romano, la volontaria italiana liberata in Africa. Redazione su Il Riformista il 9 Maggio 2020. L’Italia intera festeggia oggi la liberazione di Silvia Romano, la volontaria milanese rapita il 20 novembre del 2018 da un commando di criminali mentre stava lavorando in un orfanotrofio con la onlus Africa Milele in Kenya, a Chakama, 80 chilometri da Malindi. Silvia aveva 23 anni ed era carica di aspettative e voglia di aiutare chi era nato in una parte del mondo dove fame, guerre e malattie da decenni sono una lotta quotidiana per la popolazione. Dopo la laurea nel febbraio 2018 in una scuola per mediatori linguistici per la sicurezza e la difesa sociale con una tesi sulla tratta di esseri umani, la Ciels, Silvia vola per la prima volta in Kenya, fa poi ritorno in Italia e poi riparte verso l’Africa. Il 20 novembre l’assalto armato e il rapimento da parte di un commando di otto uomini: tre membri della banda sono attualmente sotto processo in Kenya. La giovane cooperante finisce quindi nelle mani di Al Shabab, gruppo terrorista somalo affiliato ad al Qaeda. Nella notte è scattata l’operazione di salvataggio dell’Aise, i servi segreti italiani, con la collaborazione dei colleghi turchi e somali. Il blitz è avvenuto a 30 chilometri da Mogadiscio, in Somalia, in una zona ridotta in condizioni estreme per le alluvioni degli ultimi giorni. Silvia è stata quindi trasportata in un compound a Mogadiscio, dove la attende l’aereo dei servizi segreti che la riporterà in Italia, probabilmente già domenica pomeriggio. “Sono stata forte e ho resistito, sto bene e non vedo l’ora di tornare in Italia”, sono state le prima parole di Silvia.
Fiorenza Sarzanini per il ''Corriere della Sera'' il 10 maggio 2020. «Sono Silvia Romano, sto bene...». È il 17 gennaio 2020, la giovane volontaria appare in un video. È la prova in vita che l’intelligence attendeva per dare il via libera all’ultima fase della trattativa e autorizzare il pagamento del riscatto. Da allora sono trascorsi altri tre mesi e mezzo segnati da un gioco al rialzo che in alcuni momenti ha fatto temere il peggio. Fino a venerdì notte, quando in un’area a 30 chilometri da Mogadiscio avviene lo scambio. La giovane arriva vestita con gli abiti tradizionali delle donne somale e il capo coperto, appare in buone condizioni di salute. Viene subito trasferita nell’ambasciata italiana in Somalia e quando le chiedono di cambiarsi spiega di essere «una convertita», chiarisce di volerne «parlare subito con mia mamma appena la rivedrò». Già nei mesi scorsi era circolata la notizia che fosse stata costretta a sposare uno dei carcerieri e aderire all’Islam. Si tratta di una giovane donna fiaccata da una prigionia durata un anno e mezzo e da pressioni psicologiche atroci, dunque soltanto dopo il rientro in Italia si capirà se sia davvero questa la sua scelta. Forse già domenica pomeriggio quando sarà interrogata dai magistrati e dai carabinieri del Ros proprio per ricostruire questi drammatici 18 mesi.
La svolta a novembre. Il vero segnale che tutti attendono arriva sei mesi fa, pochi giorni prima dell’anniversario del rapimento. È una prova in vita, forse un altro filmato. Le informazioni giunte fino ad allora sono contraddittorie, in alcuni momenti accreditano addirittura la possibilità che sia morta. Alcuni informatori locali e gli stessi rapitori che l’avevano catturata nel villaggio di Chakama, a 80 chilometri da Malindi dove lavorava per la Onlus “Africa Milele”, avevano raccontato di averla ceduta alla fazione fondamentalista somala dopo un viaggio nella foresta durato settimane. L’esame del filmato di gennaio conferma la matrice jihadista. Diplomazia e intelligence coordinati dal direttore dell’Aise Luciano Carta capiscono così che il canale aperto per arrivare al gruppo fondamentalista di Al Shabab è buono. Dunque si procede, consapevoli che più passa il tempo più sale il prezzo del riscatto. I servizi segreti somali sono collaborativi, le “fonti” che hanno consentito di procedere sono diverse. Alcune sono state attivate dalla Turchia che ha un controllo forte su quell’area.
Nella grotta. Gli emissari del gruppo indicano come sede della prigione la zona di Bay, nel villaggio di Buulo Fulaay. Dicono che per un periodo è stata chiusa in un grotta con altri ostaggi. Fissano il prezzo finale, dopo i soldi versati per pagare i vari contatti. Non c’è una cifra precisa. Per avere un’idea, nel 2012 la liberazione di un ostaggio inglese costò al suo Paese l’equivalente di un milione e 200mila euro. Il problema non è il denaro da versare, ma avere la certezza di trattare con le persone giuste. Ecco perché ci si coordina con somali e turchi nei passaggi più delicati. Le condizioni di sicurezza in Somalia sono pressocché inesistenti, si chiede di fare in fretta. Qualche settimana fa arriva l’ultima prova, il negoziato è ormai alle battute conclusive.
Lo scambio. Nei giorni scorsi un gruppo di 007 si trasferisce in Somalia e affianca chi ha seguito la vicenda sin dall’inizio. Bisogna organizzare l’appuntamento, avere la certezza che la consegna dell’ostaggio avvenga senza rischi, sapendo bene che quello dello scambio è il momento più delicato. Si sceglie una zona a 30 chilometri da Mogadiscio, di sera. Ci sono esplosioni di mortaio, c’è soprattutto un’alluvione. Comunque si procede. L’incontro viene fissato per venerdì sera. È già notte quando Silvia arriva accompagnata dagli emissari dei sequestratori. È provata fisicamente e psicologicamente. Il viaggio verso la capitale presenta ancora alcuni ostacoli. Ma qualche ora dopo, in Somalia è ancora notte, arriva la notizia che Silvia è finalmente al sicuro in ambasciata. Libera. Viene interrogata dagli 007 poi parla al telefono con il premier Conte e il ministro Di Maio. Parla con la mamma, con il papà. Li rivedrà oggi a Ciampino. E sarà il ritorno alla vita.
Fiorenza Sarzanini per il “Corriere della Sera” l'11 maggio 2020. Ai suoi carcerieri Silvia Romano aveva chiesto un quaderno. Voleva appuntare ogni dettaglio, annotare date e spostamenti, esprimere sensazioni. È diventato il suo diario. I carcerieri glielo hanno preso prima di liberarla, ma adesso, seduta di fronte al pubblico ministero Sergio Colaiocco e ai carabinieri del Ros, le consente di ricostruire i suoi 18 mesi di prigionia. Lo fa con la voce squillante, il tono sereno, anche se il movimento delle mani tradisce l' emozione e le sofferenze patite. Un racconto angosciante che la giovane volontaria catturata il 20 novembre 2018 in un villaggio del Kenya aveva cominciato con la psicologa che l' ha accolta all' ambasciata di Mogadiscio e le è rimasta sempre accanto anche sul volo che l' ha riportata in Italia. A lei Silvia ha confermato di essersi convertita. Soltanto a lei ha rivelato che «adesso mi chiamo Aisha». Torna indietro nel tempo Silvia e ricorda i momenti della cattura, i tre uomini che la portano via dal villaggio Chakama, a 80 chilometri da Malindi dove lavora per la Onlus «Africa Milele». Sono gli esecutori, la consegnano subito alla banda che ne ha ordinato il sequestro. Comincia il viaggio per arrivare in Somalia. «È durato circa un mese. All' inizio c' erano due moto, poi una si è rotta. Abbiamo fatto molti tratti a piedi, attraversato un fiume. C' erano degli uomini con me, camminavamo anche per otto, nove ore di seguito. Erano cinque o sei». Quando si sparge la notizia che sia rimasta ferita nel conflitto a fuoco e qualcuno ipotizza che possa essere morta, la ragazza è già arrivata nel primo covo. È l' unica donna, la chiudono in una stanza. I primi giorni sono drammatici. «Ero disperata, piangevo sempre. Il primo mese è stato terribile». Poi piano piano si tranquillizza. «Mi hanno detto che non mi avrebbero fatto del male, che mi avrebbero trattata bene. Ho chiesto di avere un quaderno, sapevo che mi avrebbe aiutata». Diplomazia e intelligence sono già al lavoro, cercano un canale per la trattativa convinti che sia ancora in Kenya. È stata la polizia locale ad assicurare che la giovane è sul loro territorio, invece a Natale del 2018 Silvia ha già passato il confine. È stato evidentemente anche questo a ritardare l' attivazione dei canali giusti, ma gli specialisti dell' Aise guidati dal generale Luciano Carta dopo qualche mese riescono comunque ad afferrare un filo. La traccia porta al gruppo fondamentalista Al Shabaab. Il negoziato comincia con la richiesta di una prova in vita. Silvia intanto è già stata spostata in una nuova prigione. «Stavo sempre in una stanza da sola, dormivo per terra su alcuni teli. Non mi hanno picchiata e non ho mai subito violenza». Mentre lo dice Silvia non sa che fuori dalla caserma c' è chi dice che l' abbiano fatta sposare con uno dei carcerieri, addirittura che sia incinta. Non lo sa ma le sue parole bastano: «Non sono stata costretta a fare nulla. Mi davano da mangiare e quando entravano nella stanza i sequestratori avevano sempre il viso coperto. Parlavano in una lingua che non conosco, credo in dialetto». Lei chiede di poter leggere. «Uno di loro, solo uno, parlava un po' di inglese. Gli ho chiesto dei libri e poi ho chiesto di avere anche il Corano». È in questo momento che inizia, probabilmente, il suo percorso di conversione. «Sono sempre stata chiusa nelle stanze. Leggevo e scrivevo. Ero certamente nei villaggi, più volte al giorno sentivo il muezzin che richiamava i fedeli per la preghiera». Passano le settimane, Silvia viene spostata di nuovo. «Non ho mai visto donne, soltanto quegli uomini che mi tenevano prigioniera». Il canale di trattativa intanto rimane aperto, sia pur tra mille difficoltà. Ma evidentemente funziona perché Silvia racconta che le hanno fatto girare un video in cui deve dire il suo nome, la data, assicurare che sta bene. L' intelligence italiana collabora con i colleghi somali, ma ottiene aiuto anche dalla Turchia che in quell' area ha un' influenza molto forte ed evidentemente sa attivare i contatti giusti. Le «fonti» sono rassicuranti, per avere informazioni certe sono necessarie settimane. Gli 007 tengono costantemente informati il ministro degli Esteri Luigi Di Maio e il premier Giuseppe Conte che ha la delega ai servizi segreti. L' unità di crisi della Farnesina gestisce i rapporti con i familiari. A novembre, pochi giorni prima del primo anniversario della cattura, arriva la certezza che Silvia è viva. Il video è evidentemente arrivato a destinazione. «Durante la prigionia - racconta adesso Silvia - ne ho girati tre». C' è la guerra civile in Somalia, gli spostamenti sono difficoltosi. I rapitori decidono comunque di cambiare prigione. Alla fine Silvia ne conta sei, annota tutto nel diario. Lo ripete ora. «Ci muovevamo a piedi o in macchina. Trasferimenti lunghi, faticosi». Il 17 gennaio gira un altro video. Non lo immagina ma alla fine sarà proprio quel filmato a garantirle la salvezza. Intanto si è convertita. «Leggevo il Corano, pregavo. La mia riflessione è stata lunga e alla fine è diventata una decisione». Soltanto il tempo dirà se e quanto su questa scelta abbia influito la pressione psicologica subita in questi 18 mesi, la sindrome che spesso lega gli ostaggi alla realtà dei rapitori. Il magistrato e i carabinieri la lasciano parlare senza fare domande, se non quelle che riguardano eventuali violenze. E lei nega di nuovo. I suoi ricordi sono precisi, il suo racconto è zeppo di date e circostanze. E mentre lo fa appare calma, seppur provata. «Venivo spostata ogni tre, quattro mesi, ma a quel punto non avevo più paura». Di riscatto dice di non aver mai sentito parlare «ma avevo capito che volevano soldi». Il gruppo è accusato di aver rapito altri occidentali. «Io non ho mai visto nessun altro», assicura Silvia. All' inizio di quest' anno la trattativa entra nella fase finale. Si pagano altre fonti, ci si prepara a versare il riscatto. La cifra totale potrebbe oscillare tra i due e i quattro milioni di euro, fondi riservati di cui nessuno avrà mai traccia come sempre accade in questi casi. Poi arriva l' epidemia da coronavirus, il mondo entra in lockdown , la gestione dei contatti appare più difficoltosa, ma comunque prosegue. A metà aprile l' intelligence ottiene il video della prova in vita. «Sono Silvia Romano, è il 17 gennaio...». È trascorso del tempo ma dalla Turchia arrivano nuovi riscontri, il via libera a trattare ancora. Fino a una settimana fa. Quando vengono presi gli accordi per lo scambio. Silvia viene avvisata dai carcerieri: «Ti liberiamo». Lo conferma adesso lei al magistrato. È l' inizio della fine, il conto alla rovescia per tutti. Venerdì 8 maggio, mentre a Mogadiscio ci sono diverse esplosioni gli emissari dell' intelligence prelevano l' ostaggio. Un viaggio in macchina di circa 30 chilometri e dopo una sosta intermedia Silvia entra in ambasciata. «Sto bene, sono stata trattata bene», assicura all' ambasciatore Alberto Vecchi. Indossa gli abiti locali, non vuole toglierli. Mangia una pizza, dorme finalmente in un letto. Accanto a lei ci sono sempre gli uomini dell' intelligence e la psicologa che raccoglie il suo primo racconto, la assiste se ha bisogno di rimettere a posto i pensieri. Le parla della conversione, le rivela come ha deciso di chiamarsi. Le spiega che di tutto questo parlerà con la sua famiglia, con sua mamma. «A lei, spiegherò ogni cosa», dice prima di scendere dalla scaletta dell' aereo di Stato che l' ha riportata a casa.
Da open.online l'11 maggio 2020. - Proprio grazie al Corano, per la verità, Silvia alla fine un po’ di arabo l’ha imparato: «Mi sono convertita all’Islam ma è stata una mia libera scelta – ripete – non ho subito condizionamenti, non mi hanno spinta a cambiare fede». È accaduto a metà della prigionia, poco dopo che ad un primo gruppo di tre carcerieri ne è seguito un altro: «Ho chiesto di leggere il Corano, me ne hanno portato uno che aveva il testo italiano a fronte, questo mi ha permesso di capire meglio e alla fine di scegliere la religione». (…) «Riconosco i miei rapitori nei tre che mi sono stati mostrati, uno è effettivamente un volto che conoscevo», comincia. L’uomo di cui parla Silvia era residente nel villaggio di Chakama in cui ha sede la Ong preso cui lavorava la ragazza, Africa Milele. È stato lui a fare da basista per il colpo, perché frequentava una ragazza del villaggio: «Mi hanno portato fuori, pochi chilometri più avanti è arrivato un secondo gruppo, tre uomini a volto coperto. Si capiva che erano stati loro a organizzare perché davano indicazioni agli altri tre. Con questi ultimi, quelli a volto coperto, ho passato quasi metà della prigionia».
Dal rapimento al riscatto, come è stata liberata Silvia Romano: oggi il rientro in Italia. Redazione su Il Riformista il 9 Maggio 2020. Il rilascio di Silvia Romano è arrivato dopo mesi di estenuanti e complicate trattative portate avanti dai servizi segreti italiani e con la fondamentale collaborazione dei colleghi somali e turchi. Così si è arrivati alla liberazione della volontaria 24enne, rapita il 20 novembre del 2018 in Kenya, a Chakama, 80 chilometri da Malindi, in un raid armato nel quale restarono ferite cinque persone, dove lavorava per la onlus Africa Milele per seguire un progetto di sostegno all’infanzia con i bambini di un orfanotrofio. La consegna di Silvia, come racconta Fiorenza Sarzanini sul Corriere della Sera, è arrivata questa notte dopo la lunga trattativa con il gruppo terrorista islamico di Al Shabaab, con la liberazione avvenuta a circa 30 chilometri da Mogadiscio, dove gli emissari dei sequestratori hanno consegnato la cooperante ai ‘contatti’ dell’intelligence italiana. Soltanto lo scorso novembre le autorità italiane e i servizi segreti hanno avuto la conferma che Silvia stesse bene: per lungo tempo infatti erano mancate le notizie sulla sue condizioni, dopo il passaggio di mano tra i rapitori kenioti che l’avevano sequestrata e i fondamentali somali che l’hanno poi tenuta in custodia. Una volta ottenuta la prova che Silvia era viva, è stata avviata la trattativa per il pagamento del riscatto, con la mediazione dei servizi segreti turchi. Venerdì sera lo scambio decisivo, complicato dalla zona dove è avvenuto, ridotta in condizioni estreme per le alluvioni degli ultimi giorni. Per Silvia Romano il ritorno a casa è atteso per oggi pomeriggio all’aeroporto di Ciampino, dove per le 14 dovrebbe atterrare un aereo speciale.
Fiorenza Sarzanini per il “Corriere della Sera” il 12 maggio 2020. «L' operazione è conclusa, ti liberiamo». È il 5 maggio 2020, il carceriere entra nella stanza di Silvia Romano. Le consegna un vestito e appena un' ora dopo inizia il viaggio: tre giorni a bordo di un trattore per arrivare sul luogo concordato per la consegna dell' ostaggio. Venerdì sera la giovane volontaria è al sicuro in ambasciata a Mogadiscio. Nulla sa della contropartita versata ai sequestratori, di quella triangolazione tra Italia, Turchia e Qatar che ha consentito di chiudere la partita con il gruppo fondamentalista che l' ha tenuta prigioniera per 18 mesi. Su quel quaderno trasformato nel diario del suo incubo Silvia annotava ogni dettaglio. E adesso sono proprio i dettagli a comporre il quadro di una trattativa giocata sempre sul rialzo del prezzo. Quando il 18 novembre 2018 Silvia viene catturata nel villaggio di Chakama in Kenya da tre uomini armati, si accredita la matrice dei criminali locali. E invece è stato tutto pianificato, sono i terroristi ad aver ordinato il sequestro. Fanno un primo tratto di strada in moto, si addentrano nella foresta. «Mi hanno dato dei vestiti, un paio di pantaloni, una maglietta e un maglione. Poi mi hanno tagliato i capelli. Dovevamo camminare tra i rovi, mi hanno detto che era meglio». Un mese dopo, mentre tutti la cercano in Kenya, Silvia è già in Somalia. Gli estremisti hanno già pronte le condizioni per ottenerne il rilascio. Soldi, molti soldi. Da quel momento cominciano a giocare sulla paura, diffondono notizie facendo credere che Silvia sia morta. Prima viene detto che è stata coinvolta in una sparatoria, poi che potrebbe essere rimasta vittima di un' infezione a un piede che non si è riusciti a curare. In Kenya la cercano con i droni e con le battute nella foresta. Più volte la polizia locale annuncia che «la liberazione della cooperante italiana è imminente». Ma è soltanto un bluff. In realtà Silvia è lontana e ha cambiato almeno due covi. A maggio 2019, quando arriva il primo video per provare che è viva, l' intelligence si fa portavoce della risposta del governo italiano: trattiamo le condizioni. «Ero tenuta in ostaggio da sei persone. Arrivavano a gruppi di tre. Avevano sempre il volto coperto ma con il tempo ho imparato a capire le differenze tra loro. Soltanto uno parlava inglese, e credo fosse il capo. È stato lui a ordinare che cosa dovevo dire mentre mi riprendeva con il telefonino. Il mio nome e la data del giorno. Io tenevo il tempo scrivendo il diario». Su quel quaderno Silvia annota quel che accade quotidianamente. I mesi trascorrono, e lei adesso ricorda «quel momento in cui ho sentito il bisogno di credere in qualcosa. Ho chiesto di leggere e mi hanno portato il Corano. Così ho trovato conforto». Così è diventata Aisha. Si sposta ancora, la fanno viaggiare a bordo di macchine e camioncini. La chiudono in una stanza dove le portano da mangiare. È sempre da sola. «Però sentivo vociare nelle altre stanze, il richiamo del muezzin, quindi credo fossero villaggi». Ad agosto il capo del gruppo le chiede di girare un altro video. È la seconda prova in vita chiesta dall' intelligence . Il 19 settembre Il Giornale pubblica la notizia che «Silvia è stata costretta al matrimonio islamico con uno dei suoi aguzzini, obbligata alla conversione». Dopo mesi di silenzio arriva la conferma che è nelle mani dei fondamentalisti. Sale l' angoscia. E anche il prezzo per la sua liberazione. I negoziatori fanno capire che si trova a sud della Somalia, in quell' area del Jubaland dove gli estremisti sono gli unici padroni. Gli 007 dell' Aise guidati dal generale Luciano Carta lavorano in collaborazione con i servizi segreti somali, ma è soprattutto sulla Turchia che si fa affidamento. Su quei contatti che certamente si sono rivelati decisivi per tenere aperto il canale e riportare Silvia a casa. L' ultimo video del 17 gennaio 2020 arriva in Italia a metà aprile. Ma non basta, in questi tre mesi di lockdown mondiale da coronavirus Silvia potrebbe essere morta. La carta decisiva, come del resto è accaduto anche in altri sequestri, si gioca attraverso il Qatar. È lì, tra fine aprile e i primi giorni di maggio, che i mediatori consegnano l' ultima prova in vita e ottengono il via libera al pagamento del riscatto. Poi viene dato il segnale che la partita è chiusa. Martedì scorso il capo della banda entra nella prigione dove Silvia è segregata. Sarà proprio lei a ricordare quel momento domenica pomeriggio, a Roma, nella caserma dei carabinieri dove è stata portata per l' interrogatorio dopo il rientro in Italia. La voce di Silvia tradisce emozione mentre dà forma al ricordo di fronte al pubblico ministero Sergio Colaiocco e al colonnello del Ros Marco Rosi. «Mi ha detto "è finita, ti liberiamo". Poi mi ha caricato su un trattore dove c' era un altro uomo e abbiamo viaggiato per tre giorni». Due notti all' addiaccio, tre giorni prima della fine del dramma. Venerdì pomeriggio, a una trentina di chilometri da Mogadiscio, Silvia scende dal trattore e viene caricata su un auto dove l' aspettano altri due uomini. Sono i rappresentanti dello Stato che la porteranno in ambasciata. Componenti della squadra che in questi 18 mesi non ha mai smesso di cercarla. Mentre entrano nella sede diplomatica vengono sparati alcuni colpi di mortaio. Scatta l' allarme, ma Silvia è ormai in salvo. All' alba comincia il viaggio verso casa dove arriva ieri sera. E in quell' appartamento dove si chiude con la mamma e la sorella comincia la nuova vita di Aisha.
Grazia Longo per “la Stampa” il 13 maggio 2020. Ho capito subito di essere finita nelle mani dei terroristi di Al Shabaab, affiliati ad Al Qaeda a caccia di un riscatto. Perché quando, un mese dopo il sequestro, sono arrivata in una nuova casa, mi hanno detto: "Ora sei in Somalia, noi siamo un' organizzazione militare. Stai tranquilla, non ti faremo del male e sarai liberata". E io sapevo che la Somalia era assediata dagli islamici di Al Shabaab». Nuovi particolari emergono dall' interrogatorio di Silvia Romano - la cooperante milanese liberata sabato scorso dopo 18 mesi di prigionia - di fronte al pm Sergio Colaiocco e al colonnello Marco Rosi dei carabinieri del Ros, guidato dal generale Pasquale Angelosanto, domenica pomeriggio a Roma. A partire dalla consapevolezza di avere a che fare con terroristi che insanguinano la popolazione somala e puntano ai sequestri di persone occidentali per ottenere denaro finalizzato a foraggiare la jihad. «Poiché i mesi passavano e non succedeva niente, ho chiesto più di una volta se per liberarmi stessero aspettando un riscatto. Ma la riposta era sempre la stessa: "Noi eseguiamo solo gli ordini. Non sappiamo altro, siamo qui solo per farti da guardia". In tutto i miei carcerieri erano 6, facevano turni in tre alla volta. Soltanto uno parlava un po' di inglese. Con lui quindi cercavo di capire se volevano liberarmi in cambio di soldi». Diciotto mesi sono lunghi, un' eternità quando sei detenuta da uomini che non ti picchiano, non ti legano, ma ti costringono a dormire per terra su un materasso di fortuna e ti negano ogni forma di libertà. «Con il trascorrere dei mesi ho trovato un equilibrio e una forza interiore, grazie anche alla conversione all' Islam, ma più trascorreva il tempo e più temevo che la mia famiglia mi credesse morta. Per questo ho supplicato ripetutamente di farmi fare una telefonata a mia madre, ma mi hanno sempre risposto che non era possibile. Ho capito però che volevano dimostrare che fossi ancora viva quando mi hanno girato i due video». Anche in quelle occasioni, nel maggio e agosto 2019, Silvia torna sul tema del riscatto. «"Volete dimostrare che sono ancora viva?" domandavo, ma la risposta era sempre la stessa. Erano lì solo per controllarmi».
Il diario. Silvia annotava tutte le sue ansie su un diario. «Avevo chiesto e ottenuto un quaderno e una penna per poter scrivere. E grazie al diario sono anche riuscita ad avere il senso del tempo che trascorreva. Prima del rilascio però ho dovuto consegnarlo ai carcerieri». Quelle pagine custodiscono anche i motivi veri e profondi che l' hanno convinta a convertirsi all' Islam e a prendere il nome di Aisha, la moglie-bambina favorita di Maometto. «Dovunque fossimo, abbiamo cambiato sei covi, i miei carcerieri pregavano cinque volte al giorno. Dopo la conversione lo facevo anche io, ovviamente per i fatti miei, perché i musulmani non prevedono che gli uomini preghino insieme alle donne». Dopo la conversione, cambia anche l' abbigliamento di Silvia che deve nascondere i capelli. Inizia quindi ad indossare l' jilbab, l' abito delle donne somale con il capo coperto. Tipo quello verde che aveva quando è atterrata all' aeroporto di Ciampino con un volo di Stato. La fede in Allah nasce in lei lentamente, in maniera progressiva grazie alla lettura di un Corano su un computer portatile scollegato a Internet. Ma non modifica il comportamento dei terroristi nei suoi confronti. «Quando mi sono convertita mi hanno detto "Brava hai fatto la scelta giusta", ma non hanno cambiato atteggiamento. Non mi hanno cioè trattato meglio di prima. Hanno approvato la mia scelta, ma ogni cosa è rimasta com' era». Tutto fino al giorno del rilascio. Il 5 maggio Silvia viene informata che sarà liberata, il 6 parte con uno dei suoi carcerieri. Per tre giorni viaggiano, anche su un trattore, per raggiungere Mogadiscio. Qui avviene il primo scambio: Silvia viene consegnata a due uomini che su un' auto la conducono a trenta chilometri di Mogadiscio. E qui, sabato scorso, viene finalmente affidata a due uomini dell' Aise guidata dal generale Luciano Carta. «Dai, sali in macchina. È finita. Siamo dell' intelligence, ora ti portiamo in ambasciata e domani torni a casa, in Italia».
Silvia Romano assalita dai fotografi, l'ira della madre: "Sono matta, ve le spacco tutte". Libero Quotidiano il 25 maggio 2020. Silvia Romano, nella sua uscita, si è recata in un centro estetico. La cooperante milanese, dopo la liberazione in seguito a 18 mesi di prigionia in Africa, è stata infatti costretta alla quarantena di 14 giorni scattata quando l'11 maggio è atterrata in Italia. La giovane è uscita insieme alla madre dalla sua abitazione verso le 14.30 per poi, con un taxi, raggiungere il posto. Un'ora, circa, prima che uscisse da una porta secondaria. Fuori dal salone di bellezza la attendevano però una decina di giornalisti e fotografi, nel tentativo di intervistarla e fotografarla. Immediata l'ira della madre Francesca Fumagalli che, infastidita ha iniziato a urlare e a colpire la macchina fotografica di un giornalista. "Sono matta, ve le spacco tutte così vediamo se non la smettete".
Elisabetta Andreis e Cesare Giuzzi per il “Corriere della Sera” il 13 maggio 2020. Silvia indossa pantaloni blu di una tuta, un vestito scuro a fiori e una felpa sportiva. Ai piedi un paio di Superga nere e a cingere il capo un hijab realizzato con una pashmina rossa, arancione e dorata. Sale i cinque gradini di casa e sparisce verso l' ascensore. Accanto a lei c'è la madre Francesca che come a proteggerla le poggia una mano sulla schiena mentre apre la porta. Non sorride, e neppure ne ha il tempo. Anche perché è appena tornata da un interrogatorio durato quasi un' ora e mezza nella caserma di via Lamarmora del Ros dei carabinieri. Mancano pochi minuti alle 18 di una giornata che fino a lì aveva trascorso in casa senza mai alzare le tapparelle. Con la sua famiglia, con il papà che dopo pranzo arriva a trovarla, con i fiori che per tutta la mattina vengono portati dai fiorai della zona. Fiori di amici, di compagni di scuola e di viaggio che per rispetto e per pudore non osano rompere la fragile serenità del suo secondo giorno di libertà milanese. Perché Silvia Romano da sabato non è più nelle mani dei rapitori, ma al suo rientro in Italia ha dovuto affrontare una prova altrettanto dura che lei, con i suoi 24 anni e i sogni violati di ragazza, non avrebbe mai immaginato di vivere. Non qui almeno, nella sua Milano. Dove oggi esce di casa per andare a testimoniare dai carabinieri che indagano sulle minacce di morte che, senza che neppure lo sapesse, le sono piovute addosso da tutta Italia. La sua «colpa» è quella di essersi convertita, di avere sceso la scaletta dell' aereo con uno jilbab, l'abito tradizionale islamico delle donne somale, diventato oggi quasi il simbolo di un alto tradimento per una nazione che le ha salvato la vita e pagato un riscatto. È la mamma Francesca Fumagalli, quando nel primo pomeriggio scende a portare il cagnolino ai giardini di piazza Durante, a chiudere con una frase tutte le polemiche che in queste ore sono esplose sulla scelta religiosa della figlia: «Come vuole che stia? Provate a mandare un vostro parente due anni là e voglio vedere se non torna convertito», dice con un moto di esasperazione. Chiede di «usare il cervello» di fronte alle scelte di vita di una ragazza che per 18 mesi è rimasta nelle mani feroci dei rapitori fondamentalisti di Al-Shabaab. Silvia chiede «tempo». Tempo per «ritrovare se stessa» e anche la sua libertà: «Datemi tempo per elaborare quello che è successo in questi mesi. Tempo tranquillo per ritrovarmi», dice ai familiari. Lo zio Alberto, fratello della mamma, è ancora scosso come tutta la famiglia dallo «tsunami di odio» arrivato dal web: «Bisogna avere rispetto per quello che ha passato Silvia e per quello che è come persona -ripete -. Adesso Silvia ci chiede molto umanamente e con semplicità queste cose. E noi tutti gliele dobbiamo regalare. Ha vissuto situazioni che neanche possiamo immaginare e di cui ancora non riesce a parlare con noi». Davanti al pm Alberto Nobili, capo del pool Antiterrorismo, e al tenente colonnello Andrea Leo del Ros di Milano, Silvia Romano dice di essere «serena», di non avere paura per le minacce. Racconta di essere contenta per la sua liberazione, di essere tornata a casa con la mamma e la sorella Giulia. E quei messaggi di odio non sa da dove provengano. La privacy del suo profilo social è stata rafforzata contro gli haters . In queste ore non ha letto i giornali, non ha guardato le trasmissioni televisive che mostravano le immagini di lei, in mezzo a un fiume di fotografi e telecamere, mentre varcava la porta di casa. «L' abbiamo tutelata», dice la famiglia. La madre Francesca non sa ancora quando «Silvia sarà pronta per parlare, per una conferenza stampa»: «Per adesso deve fare la quarantena sanitaria, lasciateci tranquilli in queste due settimane». In casa Silvia-Aisha riposa e prega in questi giorni di Ramadan. Accanto a lei ha l' affetto di chi sta facendo ogni sforzo per proteggerla. «È una ragazza di 24 anni, ma è come se non avesse mai vissuto gli ultimi due. Ora deve ritrovarsi e recuperare la sua vita».
Cristiana Mangani per “il Messaggero” il 13 maggio 2020. Ora ha paura, Silvia, ma non per se stessa, soprattutto per la sua famiglia, per il clima di odio che si è creato intorno alla scelta di diventare musulmana. Mai avrebbe potuto immaginare, questa venticinquenne di Milano, di dover fare i conti con un rientro così pesante e difficile, tra mille polemiche e insulti. Di quei 18 mesi passati a pensare ai suoi parenti, a quanto potessero essere preoccupati senza sapere nulla della sua sorte, ricorda ogni momento. E al pm Sergio Colaiocco e al colonnello Marco Rosi del Ros, che la hanno ascoltata al ritorno in Italia, ha riferito i particolari. Il verbale di interrogatorio è stato fatto tutto d'un fiato. Parlava senza fermarsi, ancora carica dell'adrenalina scatenata dalla liberazione, dalla nottata passata in ambasciata a Mogadiscio, dal viaggio di ritorno. Sin dal primo momento in cui è arrivata a Roma ha ripetuto come un mantra di essere serena, ribadendo di non essere stata maltrattata e di aver avuto garanzia dai suoi carcerieri che non l'avrebbero uccisa. Del resto, al Shabaab finanzia da sempre il gruppo con il denaro dei sequestri. E Silvia non doveva essere toccata. Durante gli spostamenti tra un luogo e un altro - ha raccontato lei stessa - «mi facevano salire in auto, in moto, o anche su un carretto. Mai a piedi. E una volta raggiunto il nuovo posto dove fermarsi, mi ritrovano da sola in una stanza, dove, non molto distante, c'era un bagno. Non ho visto altri occidentali, né ho vissuto con altre donne. Ho sentito parlare di altri rapiti, ma non mi è capitato di incontrarne». Nelle varie fasi della trattativa per il suo rilascio, sembra che i carcerieri abbiano provato a cedere più di un ostaggio, in cambio di dieci milioni di dollari. Ma l'accordo non ha mai avuto seguito e l'Italia ha proseguito per la sua strada. Nell'aprile del 2019 il gruppo terroristico ha sequestrato in Kenya due medici cubani, parte di un gruppo di 100 medici arrivati nel Paese nel 2018 per potenziare il sistema sanitario nazionale. Sono tuttora nelle mani dei jihadisti insieme a una infermiera tedesca, del Comitato internazionale della Croce rossa, rapita nel maggio del 2018 a Mogadiscio. Ed è certo che anche per loro sia in corso una trattativa. Silvia ha passato molto tempo nella regione del basso Shabelle e nella regione di Bay. Era nelle mani di Amniyat, le unità di elite di al Shabaab, ed è proprio per questo che è stata trasferita più volte, almeno sei, perché era con una fazione che conosce e controlla molto bene il territorio e sa come anticipare le operazioni delle forze di sicurezza. La conversione è arrivata dopo circa 5 mesi dal giorno del sequestro, ed è avvenuta con una vera cerimonia, alla quale erano presenti anche due dei carcerieri. «Avevo bisogno di credere in qualcosa - ha dichiarato la cooperante agli inquirenti - Di conoscere le ragioni di quanto mi stava accadendo. Ho espresso la volontà di diventare musulmana. Ho recitato le formule e ho dichiarato che Allah è l'unico Dio. È durato tutto pochi minuti. Nessuno mi ha obbligata, è stata una mia scelta. E in quel momento ho scelto di chiamarmi Aisha». Gli inquirenti ora stanno verificando se esistano contatti tra il commando e i somali e in che occasioni siano stati girati i tre video che poi sono stati inviati come prova in vita. I video, soprattutto l'ultimo del 22-23 aprile, potrebbero fornire elementi utili anche per agire sulla rogatoria con la Somalia: sono tutti stati fatti con un telefonino e girati dal carceriere che parlava inglese. «Mi spiegava cosa dovevo dire, premettendo sempre nome, cognome e data», ha ricordato la ragazza. La procura e il Ros stanno anche analizzando i documenti in loro possesso. Tra questi una serie di tabulati telefonici recuperati nell'estate del 2019 nel corso di una missione effettuata in Kenya nell'ambito dell'accordo di collaborazione tra gli inquirenti dei due paesi culminato con un vertice a piazzale Clodio nel luglio dell'anno scorso.
Gian Micalessin per “il Giornale” il 14 maggio 2020. Silvia Romano sarebbe finita nella mani dei volontari jihadisti stranieri, che combattono per Al Shabaab. I più pericolosi, legati ad Al Qaida compresi cittadini americani e inglesi con taglie milionarie sulla testa. I buchi neri sul rapimento di Silvia Romano emergono fra le righe della deposizione dell' ex ostaggio alla procura di Roma trapelata a singhiozzo negli ultimi giorni. A tal punto che adesso l' ordine draconiano dell' autorità giudiziaria sarebbe il silenzio assoluto. Il primo punto da chiarire è che i rapitori, probabilmente non sono somali. Silvia sostiene che «parlavano in arabo». La marmaglia locale di Al Shabaab, che vuole dire «gioventù» parla i dialetti somali. L' arabo è la lingua principale degli adepti internazionali di Al Qaida giunti in Somalia per la guerra santa. Si calcola che siano fra i 200 e 300 provenienti dallo Yemen, Arabia Saudita, Iraq, Afghanistan, Pakistan e Bangladesh. E anche dagli Stati Uniti, Canada, Inghilterra e altri paesi europei. Uno dei più famosi e ricercato dall' Fbi con 5 milioni di dollari sulla testa è Jehad Serwan Mostafa. Classe 1981, nato a San Diego parla arabo e inglese. Dalle deposizioni Silvia spiega che «il capo parlava inglese». Ed è stato proprio lui a portarla sulla strada della conversione. Anche se era incappucciato l' ex ostaggio potrebbe riconoscerlo perchè secondo le informazioni dell' Fbi «ha un' evidente cicatrice sulla mano sinistra, gli occhi blu e porta gli occhiali». Nome di battaglia Anwar al-Amriki è un comandante senior degli Al Shabaab, che guida i combattenti stranieri, manipolatore e specialista dei media. Un altro buco nero è capire se Silvia, diventata Aisha, abbia subito un lavaggio del cervello in stile sindrome di Stoccolma o sia stata sottoposta ad un vero e proprio tentativo di radicalizzazione. Nelle deposizioni trapelate la cooperante sostiene che i terroristi le facevano vedere «video tratti da Al Jazeera». Non si trattava certo di Topolino, ma dei soliti filmati sulla guerra santa in Somalia. «Le regole fisse della manipolazione con l' obiettivo di radicalizzare è la conversione per scelta, come ha ammesso Silvia, l' imbonimento con filmati che mostrano come il nemico infedele ammazza i bambini a differenza dei mujaheddin che si immolano con gli attacchi suicidi per difendere il vero Islam» spiega al Giornale una fonte operativa. Poi, come è accaduto con tutte le giovani jihadiste italiane partite dall' Italia, c' è sempre la calamita dell' amore, il matrimonio con un mujahed e i figli che cementano il legame con la guerra santa. Silvia avrebbe subito i primi due passaggi della manipolazione, che ha già ottenuto un risultato con il suo discusso rientro in Italia. «La conversione e la tunica verde sono tutti messaggi interpretati come una vittoria dal mondo jihadista in rete - spiega la fonte - E serve anche ad attirare proseliti da una parte e scatenare gli anti islamici contro Silvia facendola apparire come una vittima». Obiettivo almeno in parte raggiunto, che si intreccia con il buco nero tutto da esplorare a livello internazionale. Gli inquirenti sono al lavoro su tabulati, contatti telefonici e documenti acquisiti dalle autorità del Kenya. Il rapimento sarebbe avvenuto su commissione e pianificato in Somalia grazie da appoggi oltre confine, dove la polizia ha cercato Silvia a vuoto. E soprattutto bisognerà capire la contropartita chiesta dal Mit, i servizi segreti di Ankara, per l' aiuto nella liberazione dell' ostaggio che potrebbe riguardare lo scacchiere libico.
C. Man. per “il Messaggero” il 14 maggio 2020. Voleva tornare libera, Silvia. Sognava ogni giorno di ritrovare la sua famiglia. E lo ripeteva in quei tre video-appello che sono stati inviati agli 007 dell'Aise, il nostro servizio segreto esterno, nei quali diceva: «Vi imploro, liberatemi». Nei 18 mesi di prigionia, chiusa da sola in una stanza, sentiva le voci all'esterno e annotava tutti i particolari in un quaderno che aveva chiesto ai carcerieri. Quello stesso diario che, al momento della liberazione, le hanno vietato di portare con sé. Un elemento importante per la ricostruzione del rapimento e di tutte le fasi che ne sono seguite. Tanto che, durante l'interrogatorio che la giovane cooperante ha avuto con il pm Sergio Colaiocco e con il colonnello del Ros, Marco Rosi, si è molto insistito sul contenuto. Dove si trovava? Che rumori sentiva? Aveva vicino una moschea? È vero che i servizi di intelligence avevano ben chiara la zona dove la ragazza era tenuta prigioniera, ma la scelta di segregarla in una casa è stata presa proprio per rendere più difficile l'individuazione precisa del luogo. E ora, gli inquirenti stanno cercando di mettere insieme tutti gli elementi che possano aiutare a individuare i componenti di al Shabaab che hanno gestito la sua prigionia: dai tabulati telefonici recuperati dal Ros durante una missione in Kenya, alle indicazioni fornite dalla giovane cooperante sui luoghi e i percorsi seguiti. Al centro delle indagini anche i contatti tra il commando e i somali, avvenuti prima del rapimento. Un lavoro che punta a individuare chi ha tradito Silvia. I video sono stati tutti registrati con il telefonino del carceriere che parlava inglese. «Mi diceva cosa dovevo dire, premettendo sempre nome, cognome e data - è ancora il ricordo della cooperante - Non lo ho mai visto in faccia, anche se ormai avevo imparato a riconoscere le loro voci. Erano sei e si davano il cambio, in gruppi di tre». E proprio da quello stesso telefonino sono stati inviati i messaggi per la trattativa. Indicazioni sulle quali è puntata l'attenzione degli investigatori, perché potrebbe fornire elementi utili all'individuazione dei rapitori. Gli inquirenti stanno confrontando le dichiarazioni di Silvia con i documenti in loro possesso. Tra questi un serie di tabulati telefonici che potrebbero fornire risposte sui mandanti e gli organizzatori del sequestro. Si tratta di atti acquisiti dal Ros nell'estate del 2019 nel corso di una missione effettuata in Kenya nell'ambito dell'accordo di collaborazione tra i due paesi culminato con un vertice a piazzale Clodio nel luglio dell'anno scorso. I tabulati dimostrano come i componenti della banda criminale che ha eseguito il sequestro il 20 novembre del 2018, abbiano avuto numerosi contatti con la Somalia sia prima che dopo il blitz avvenuto nelle vicinanze del villaggio Chakama a circa 80 chilometri da Malindi. Un elemento che avvalora ulteriormente l'ipotesi che quello della Romano sia stato un sequestro su commissione, pianificato in Somalia. Un altro fronte sul quale la procura sta lavorando è quello che riguarda la onlus Africa Milele dove Silvia lavorava. Ha garantito i livelli di sicurezza? I magistrati hanno sentito anche i vertici della onlus per verificare le modalità del viaggio e della permanenza della volontaria nel villaggio africano. E ora, dopo il suo racconto e alcune dichiarazioni rese dalla responsabile della ong la procura potrebbe volere proseguire su questo filone. Silvia era reduce da un'esperienza come volontaria in Africa, aveva fatto un colloquio e un corso on line e successivamente è stata mandata nel villaggio in Kenya. Conosceva l'inglese e aveva la qualifica di referente con diverse responsabilità. «Non fu mai lasciata sola - ha detto la fondatrice della ong Lilian Sora sottolineando che per la sicurezza c'erano due «masai armati di machete» ma uno di loro «era al fiume» quando è stata rapita. Silvia era arrivata il 5 novembre: «Non avevamo fatto in tempo ad attivare l'assicurazione», ha concluso.
Silvia Romano, l'ambasciatore Pupi D'Angeri: "Ad un certo punto non era più prigioniera". Libero Quotidiano il 14 maggio 2020. C'è qualcuno che sulla liberazione di Silvia Romano ha delle idee differenti, peculiari, inquietanti. Si tratta di Pupi D'Angeri, ambasciatore del Belize presso l'Unione europea, che ha detto la su a La Zanzara di Radio 24: "Quando è scesa dall’aereo sembrava Sofia Loren, non una prigioniera. E’ uscita che è una meraviglia", ha subito sparato. E ancora: "Sono stato capo dei negoziatori di Yasser Arafat - rimarca - e qualcosa di questo mondo so. Credo sia stata fatta un’offesa, soprattutto ai militari che combattono il terrorismo. Perché questa è una vittoria dei gruppi terroristici. Sappiamo benissimo che una donna che abbraccia la religione musulmana lo fa per sposare l’uomo che ama. Sicuramente ha una relazione, di questo siamo certi". Parole pesantissime. Ma non è finita. Perché D'Angeli aggiunge anche: "Vi rivelo una cosa, a un certo punto lei è stata acquistata e non è stata più in prigionia. Anzi, lei è una signora dalle uova d’oro. Perché ha portato in dote 4 milioni di euro al gruppo terroristico. Lei è una dell’Al Shabab, è una donna straordinaria". L'ambasciatore, poi insiste sul fatto che a suo parere l'arrivo a Ciampino sarebbe stata un'offesa ai nostri militari. Perché? "Perché è scesa dall’aereo vestita prettamente araba, dicendo che si è convertita all’islamismo dei terroristi somali contro i quali combattiamo. E poi la signorina si è trovata così bene, ed io sono felice per lei, che è diventata una fonte di guadagno, in più una moglie. Lei non è mai stata rapita da loro, lo è stata i primi giorni. Non è solo una mia intuizione. E’ stata rapita, ma poi portata in Somalia, dove è scattato l’amore. Cosa che può succedere", ha concluso Pupi D'Angeri. Parole destinate a far molto discutere.
Dagospia il 14 maggio 2020. Da “la Zanzara – Radio24”. “Quando è scesa dall’aereo sembrava Sofia Loren, non una prigioniera. E’ uscita che è una meraviglia”. Così Pupi D’Angeri, ambasciatore del Belize presso l’Unione Europea, a La Zanzara su Radio 24. “Sono stato capo dei negoziatori di Yasser Arafat – dice - e qualcosa di questo mondo so. Credo sia stata fatta un’offesa, soprattutto ai militari che combattono il terrorismo. Perché questa è una vittoria dei gruppi terroristici. Sappiamo benissimo che una donna che abbraccia la religione musulmana lo fa per sposare l’uomo che ama. Sicuramente ha una relazione, di questo siamo certi”. “Vi rivelo una cosa – dice Pupi D’Angeri – a un certo punto lei è stata acquistata e non è stata più in prigionia. Anzi, lei è una signora dalle uova d’oro. Perché ha portato in dote 4 milioni di euro al gruppo terroristico. Lei è una dell’Al Shabab, è una donna straordinaria”. Perché è un’offesa ai militari?: “Perché è scesa dall’aereo vestita prettamente araba, dicendo che si è convertita all’islamismo dei terroristi somali contro i quali combattiamo. E poi la signorina si è trovata così bene, ed io sono felice per lei, che è diventata una fonte di guadagno, in più una moglie. Lei non è mai stata rapita da loro, lo è stata i primi giorni. Non è solo una mia intuizione. E’ stata rapita, ma poi portata in Somalia, dove è scattato l’amore. Cosa che può succedere”. E l’abito lo potevano evitare?: “Vorrei saperlo. Come mai non le hanno detto: togliti questa cosa dalla testa? Perché probabilmente lei sta facendo una vera e propria propaganda all’Islam. E’ come se domattina liberassero un padre gesuita che si presenta vestito da imam. E poi un’altra cosa”. Cosa?: “Voi sapete che per la legge del ricongiungimento familiare lui domattina può venire qua? Perché una donna per legge musulmana deve essere musulmana per sposarsi con un musulmano”.
LO SPOT…
Fausto Carioti per “Libero quotidiano” il 15 maggio 2020. «Conte e Di Maio sono stati due pagliacci. Indegni di rappresentarci». Chi lancia queste accuse gravissime dopo aver visto la «miserabile passerella» di Ciampino non è un quisque de populo spuntato dai bassifondi di Internet e protetto dall' anonimato. È un uomo delle istituzioni, un servitore dello Stato abituato a pesare le parole prima di pronunciarle: il generale Carlo Jean. Curriculum stellare, il suo: 83 anni, incarichi di altissimo prestigio nell' esercito italiano e nella Nato, medaglie e onorificenze che non si contano. È stato direttore del Centro militare di studi strategici, consigliere militare di Francesco Cossiga al Quirinale, presidente del Centro alti studi per la Difesa. Dalla sua cattedra universitaria ha insegnato a generazioni di diplomatici cosa sono gli Studi Strategici, è autore di decine di libri e di un numero imprecisato di saggi sulla geopolitica e la geoeconomia. È uno dei maggiori esperti italiani in materia di jihad e terrorismo internazionale. Ne ha viste tante, tenendo per sé i giudizi più aspri. Stavolta, no. Ha appena scritto un articolo su Start Magazine, rivista online diretta da Michele Arnese. Eccolo: Carlo Jean per startmag.it il 15 maggio 2020. In Italia tutto viene messo in politica. Il risultato sono pagliacciate. Da parte dei “cretini di turno” con le critiche alla conversione della ragazza e alla somma pagata, negata dal nostro ineffabile ministro degli Esteri, con la stessa “faccia di tolla” con cui smentiva di sapere che l’azienda di cui possiede al 50% avesse lavoratori in nero. Dal governo, con la miserrima – a parer mio “miserabile” – passerella fatta a Ciampino per ricevere Silvia Romano. Tanto di cappello al senso dell’onore e della dignità del ministro della difesa Guerini che ha rifiutato di partecipare a tale indegna sceneggiata ”borbonica”. Sapeva bene quanto male essa facesse al prestigio internazionale dell’Italia, ma se ne è chiaramente fregato…Detto questo, sia i “soliti idioti” che se la prendono con la ragazza sia parte del governo hanno cercato di sfruttare l’occasione per guadagnare consenso. Non esiste differenza etica fra i due. Ma restano molti interrogativi. I liberatori di Silvia e certamente anche la ragazza non sono dei cretini. Erano sicuramente consapevoli dell’intenzione di riceverla in pompa magma. Ne hanno informato il governo. Per amore della “passerella” esso se ne è fregato e ha organizzato un comitato d’accoglienza, per celebrare la sua gloria. Le sue immagini avrebbero fatto il giro del mondo. Nei paesi civilizzati hanno a ragione suscitato disprezzo e sarcasmo. Sono poi state abilmente sfruttate dalla propaganda jihadista. Allora, perché nostri governanti si sono prestati al gioco? Ho studiato abbastanza il terrorismo per sapere quanto sia efficiente nelle sue comunicazioni e nello sfruttare ogni occasione favorevole e quanto curi i particolari per evitare effetti boomerang. Penso che, con ogni probabilità, Silvia Romano sia stata liberata non solo con riscatto, ma anche sotto ricatto. Se non si fosse comportata come detto dai suoi carcerieri, essi avrebbero giustiziato qualche ostaggio, suo compagno di prigionia. Questo spiega anche perché i drones Usa schierati nel Corno d’Africa non abbiano bombardato per rappresaglia il villaggio in cui si trovava, tanto per dire allo Shabab di non “scherzare” troppo. Se nei confronti della ragazza vanno usati il massimo rispetto e comprensione, essi non possono esserlo nei confronti dei “pagliacci”, che indegnamente ci rappresentano e che hanno scelto di esibirsi nella sceneggiata di Ciampino, noncuranti del danno che facevano a tutti noi.
DAGONOTA il 12 maggio 2020. Sul caso Silvia Romano, la figura di merda l’hanno fatta Conte e Di Maio. La spettacolarizzazione che hanno messo in opera della liberazione della cooperante diventata Aisha – tweet a pioggia, tutte le tv collegate a Ciampino, portavoce trasformati in paparazzi – ha mostrato ancora una vota che il premier e il ministro degli Esteri sono due dilettanti allo sbaraglio, privi dei fondamentali della politica. Non hanno capito che i tempi del Coronavirus sono diversi, che la pandemia ha esacerbato gli animi e lo stomaco di tanti italiani che hanno visto un futuro prossimo senza lavoro, senza soldi, senza frigo pieno. Questa super esposizione del “trofeo” Silvia Romano si è trasformata in boomerang letale. Pur essendo stati avvisati dagli agenti dell’Aise che la cooperante aveva abbracciato l’Islam, che non aveva nessuna intenzione di abbandonare per l’arrivo a Ciampino il vestito da donna musulmana, Conte e Di Maio hanno fatto la passerella. Mentre “i paesi anglosassoni da tempo non diffondono video del ritorno a casa degli ostaggi liberati e persino dei funerali dei propri caduti militari per non far circolare immagini preziose per la propaganda e le operazioni psicologiche del nemico. Alla fine del 2001 in una lettera che gli statunitensi sostengono di aver trovato in un covo di al-Qaeda in Afghanistan, scritta da Osama bin Laden al mullah Omar, il capo di al-Qaeda sosteneva che “la guerra dei media è uno dei metodi più forti per ottenere la vittoria finale …. Il 90 per cento della preparazione per le nostre battaglie deve essere affidato al bombardamento mediatico”. (vedi articolo a seguire) Ma basta osservare attentamente la foto che oggi il Corriere pubblica a pagina 10, dove si vede “l’ansia da prestazione” che porta Di Maio, conciato con grottesca mascherina tricolore, ad essere un passo avanti alla Romano, che è affiancata da Conte, mentre i genitori di Aisha sono relegati in fondo, come due imbucati, per capire che i 5Stelle hanno come fondamentali della politica il “Grande Fratello”, starring Rocco Casalino, e gli show di Beppe Grillo.
Silvia Romano, il retroscena: Luigi Di Maio non sapeva nulla della liberazione. Libero Quotidiano il 10 maggio 2020. Dopo 18 mesi, Silvia Romano è stata liberata. La cooperante milanese, rapita nel novembre 2018 in Kenya e in mano da mesi ad Al Shabaab, tornerà in Italia oggi, domenica 10 maggio, l'atterraggio è previsto a Fiumicino per le 14. Una bellssima notizia, quando da tempo ormai in molti avevano perso le speranze di riportarla a casa e sottrarla alle grinfie del gruppo jihadista. Ma, si apprende, dalla fine di novembre i servizi segreti italiani avevano la certezza che fosse viva. E in questa bella storia, però, c'è un dettaglio che fa riflettere. E che riguarda Luigi Di Maio. Un dettaglio di cui dà conto Repubblica: il grillino, ministro degli Esteri, non sapeva nulla. Il quotidiano infatti fa sapere che Silvia romano dopo la liberazione è stata portata al compound delle forze internazionali, da dove gli uomini dell'Aise - che fino a quel momento avevano mantenuto il massimo riserbo - hanno dato la notizia della sua liberazione. A quel punto, Giuseppe Conte ha twittato: "Silvia è libera". Ma in quel momento, quando il premier comunicava la notizia all'Italia, Di Maio ancora non era stato informato di nulla: circostanza che ci permette di comprendere in modo plastico, istantaneo, quanto Di Maio alla Farnesina non venga preso sul serio. Poco più di una figurina...
Francesco Bei per ''La Stampa'' l'11 maggio 2020. La photo opportunity all'aeroporto militare di Ciampino, con Silvia Romano stretta fra Giuseppe Conte e Luigi Di Maio, non è bastata a sciogliere il gelo che nelle ultime 48 ore è sceso tra palazzo Chigi e la Farnesina. Uno scontro dietro le quinte che ha avuto per oggetto la "gestione" mediatica del rilascio della rapita più famosa d' Italia, senza dubbio un bel colpo d' ala per un governo in affanno. Il fatto è che l' Aise del generale Luciano Carta già nella serata di venerdì aveva comunicato a palazzo Chigi l' avvenuta consegna della prigioniera, ricevendo però il caldo "consiglio" di aspettare prima di riferire ad altri - in particolare al ministero degli Esteri - la notizia. Così è stato il premier ad annunciare alla nazione l' avvenuta liberazione della cooperante, lasciando di stucco Di Maio, i cui uomini avevano lavorato per mesi sul caso. Dalla corsa a farsi una foto con Silvia, anzi con "Aisha", si è sottratto invece il ministro della Difesa Lorenzo Guerini. Il quale ad amici avrebbe anzi confidato tutto il suo stupore per «la gara di presenzialismo» a Ciampino intorno alla giovane velata e alla sua famiglia. Sta di fatto che Di Maio - ed è questa la notizia più clamorosa - è arrivato al "31esimo Stormo senza sapere che ad accogliere Silvia-Aisha ci sarebbe stato anche il premier. In serata diverse fonti raccontano che tra i due ci sarebbe stato un chiarimento e la questione sarebbe stata diplomaticamente archiviata come uno «spiacevole equivoco». A suggellare la tregua è arrivato l' accordo su chi promuovere all' Aise dopo l' imminente uscita di Carta nominato alla presidenza di Leonardo. La scelta sarebbe caduta sul generale Giovanni Caravelli, da sei anni numero due del controspionaggio. Caravelli ha gestito in prima persona, con i suoi uomini, la partita a scacchi con i rapitori della Romano.
Manuel Fondato per ''Il Tempo'' l'11 maggio 2020. La liberazione di Silvia Romano, cercata o meno, non poteva giungere in un momento migliore per il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, fornendogli la possibilità di un nuovo momento di visibilità e popolarità e distrarre l'opinione pubblica con una splendida notizia. Tuttavia la sua fuga in avanti solitaria nel comunicare la liberazione della ragazza, non è piaciuta a molti. In primis a Luigi Di Maio. Come ministro degli Esteri avrebbe dovuto avere, oltre alla regia, perlomeno informazioni migliori rispetto al tweet del premier, che pare lo abbia colto di sorpresa, in quanto totalmente ignaro dell'accaduto. L'entusiasmo social dello staff di Conte è stato tale da far dimenticare anche la famiglia Romano, all'oscuro di tutto, come è stato confermato dal padre di Silvia, Enzo. La fretta di intestarsi un successo, dopo giorni di polemiche e tensioni, è stata, come spesso accade, cattiva consigliera.
Fausto Biloslavo per “il Giornale” il 12 maggio 2020. Il governo non può chiudere il caso Silvia Romano con un semplice «lasciamola in pace», soprattutto dopo l' inopportuno ritorno a casa in salsa islamica.
Perché il governo ha deciso di spettacolarizzare il rientro dell' ostaggio con la sindrome di Mogadiscio, che rischia di essere un boomerang? L' imbarazzante rientro non solo ha alimentato una marea di dubbi, ma è servito a sollevare la rivolta sui social e nella politica contro l' esecutivo. La scelta è stata doppiamente azzardata perché ha fatto il gioco dei terroristi, che ne sono usciti quasi con una bella figura mediatica senza un solo cenno di condanna dall' ex ostaggio. Il difetto di coordinamento fra il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, e il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio ha ulteriormente ingarbugliato la decisione di accendere i riflettori sul ritorno a casa della cooperante. La stessa intelligence preferiva stendere un pietoso velo sul ritorno vittorioso della convertita.
Perché, oltre all' intelligence turca, non risulta che abbiamo chiesto aiuto agli americani più che operativi in Somalia? Ai servizi italiani non poteva mancare l' avallo politico da Roma per coinvolgere, anche se non in maniera fondamentale, le barbe finte turche ben radicate in Somalia. Peccato che qualche fuso orario più in là, in Libia, i giannizzeri di Erdogan sono riusciti a scalzare l' Italia e fare quello che vogliono con il governo di Tripoli. L' appoggio agli americani è stato evitato o chiesto solo in parte perché la linea di Washington è di incenerire i terroristi con i droni piuttosto che trattare per liberare gli ostaggi. I turchi sono serviti per la linea morbida, mentre il Pentagono avrebbe proposto un blitz armi in pugno. Il comando americano di Africom ha fatto fuori circa 800 terroristi e civili in 110 raid dal cielo dall' aprile 2017. Uno degli ultimi bersagli centrati, l' 8 marzo, è Bashir Mohamed Qorga, comandante degli Al Shabaab che aveva una taglia Usa sulla testa di 5 milioni di dollari.
Come mai non è saltato fuori neppure uno dei video della prova in vita di Silvia? I filmati delle due Simone velate e rapite in Irak o delle «Vispe Terese» sequestrate in Siria sono venuti alla luce come altri video, più o meno drammatici, di ostaggi italiani sotto tiro dei terroristi. Al momento non è saltato fuori nulla del genere per Silvia. Forse nei filmati che gli Al Shabaab hanno girato era già evidente la sindrome di Mogadiscio. E tirarla fuori significava non tanto liberare un ostaggio trattenuto in condizioni terribili, ma evitare che i cugini somali di Al Qaida continuassero a manipolare la cooperante. Non solo il governo, ma l' antiterrorismo dei carabinieri e la procura di Roma dovrebbero seriamente chiedersi fino a che punto è arrivata questa manipolazione. E se Silvia è una vittima e testimone attendibile.
È stato giusto pagare il riscatto? Nessuno deve restare indietro, come insegnano gli israeliani, ma un' ampia fetta della pubblica opinione si chiede se valeva la pena aprire il cordone della borsa. Forse sarebbe stato il momento di invertire la tendenza italica a pagare e non a sparare per liberare un ostaggio.
Lo Stato chiederà il rimborso a chi ha mandato Silvia in Kenya? La famiglia di Silvia Romano avrebbe rotto i rapporti con l' onlus Africa Milele, che l' ha ingaggiata come volontaria in Kenya. Sicuramente non era coperta da un' assicurazione per «recupero e riscatto», che costa molto. Ma è giusto che paghi sempre Pantalone, o meglio i contribuenti italiani?
Gabriele Carrer per formiche.net il 13 maggio 2020. In molti, a partire da Formiche.net e Il Foglio, hanno evidenziato due stili comunicativi diversi e opposti in occasione dell’arrivo all’aeroporto di Ciampino di Silvia Romano, la cooperante rapita in Kenya e rimasta per un anno e mezzo nelle mani dell’organizzazione terroristica Al Shabaab. Da una parte la comunicazione quasi ossessiva del Movimento 5 Stelle con il premier Giuseppe Conte e il ministro degli Esteri Luigi Di Maio presenti sul luogo. Dall’altra quella più istituzionale del Partito democratico, in particolare del ministro della Difesa Lorenzo Guerini, assente nell’occasione. Una differenza evidenziata anche da Filippo Sensi, ex portavoce dei premier dem Matteo Renzi e Paolo Gentiloni, in un tweet: “E poi c’è lo stile di Lorenzo Guerini”. Formiche.net ne ha parlato con Massimiliano Panarari, sociologo della comunicazione, saggista e docente alla Luiss, editorialista de La Stampa e autore del libro Uno non vale uno. Democrazia diretta e altri miti d’oggi (Marsilio, 2018).
Come valuta la comunicazione del governo sul caso di Silvia Romano?
«La gestione comunicativa del rientro della cooperante, una notizia bellissima, ha evidenziato una seria di criticità. È in qualche modo il punto di arrivo di una divaricazione nella gestione di alcune tematiche della politica estera italiana, soprattutto su temi di sicurezza nazionale e il posizionamento del Paese nel sistema delle alleanze internazionali».
Ha parlato di una divaricazione. In che senso?
«Da un lato abbiamo una forte spinta comunicativa ai limiti dell’ossessione, che vede una competizione tra il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, e il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, figli di una cultura comunicativa molto marcata che trova nella proiezione esterna, nella forma un elemento più importante spesso della sostanza. Dall’altro un understatement e una propensione a rispettare una serie di equilibri e silenzi comunicativi che sono molto importanti in materie così delicate da parte del ministro della Difesa, Lorenzo Guerini».
La comunicazione del ministro degli Esteri e del premier è in linea con la tradizione pentastellata?
«Entrambi arrivano dalla tradizione politica del Movimento 5 Stelle, che ha trasformato la sua carica antipolitica in una spinta governista d’emblée, senza maturare un processo di istituzionalizzazione che esso stesso ha rifiutato giocando sull’ambiguità tra movimento, leadership forte ma non definita, assenza di catena precisa di comando e presenza di centri di influenza esterni (un’azienda privata, la Casaleggio associati). E questo crogiolo oggi è entrato nelle istituzioni, con un ruolo per giunta dominante. L’elemento di continuità in questo cambiamento — avvenuto nell’arco di pochissimi anni e che ha portato il Movimento 5 Stelle a essere la prima forza rappresentata in Parlamento, con un ruolo decisivo anche nella gestione di questa crisi pandemica — è per l’appunto la centralità della comunicazione e della propaganda. Sulla base di un retaggio ideologico, quello della trasparenza, e di un’idea di centralità della costruzione di un consenso — che è volatile e volubile — la dimensione della comunicazione fa premio rispetto a qualunque altro elemento».
Lo abbiamo visto anche nella gestione del rientro di Silvia Romano?
«Sì. Da due punti di vista: la questione della sicurezza e il fatto che la guerra terroristica sia innanzitutto comunicativa — e non è un fatto recente, basti pensare agli anarchici dell’Ottocento. E un’esposizione mediatica così forte rischia di regalare cartucce propagandistiche ai terroristi. Per questo, l’ansia prestazionale comunicativa degli esponenti del Movimento 5 Stelle ha trasformato tutto questo in un problema in un Paese che già tra attraversando le difficoltà di questa crisi pandemica. La sobrietà e la gestione senza toni sopra le righe sarebbero state estremamente più opportune».
Arriviamo quindi alla comunicazione di Guerini…
«Esatto. In questo contesto spiccano la mancata presenza del ministro della Difesa e la continuità di uno stile comunicativo molto sobrio e istituzionale, che si addice a chi ha a che fare con la sicurezza nazionale e l’esercizio della forza, basato sulla discrezione e il controllo della situazione. È la comunicazione del premier e del ministro degli Esteri che ha offerto lo spazio a un diverso modello non urlato, che non cavalca l’emozione e che può presentarsi come un punto di ancoraggio e riferimento in una fase che si preannuncia molto difficile anche per quanto riguarda lo spirito delle democrazie liberal-rappresentative».
In che senso?
«Dall’uso della decretazione d’emergenza alla limitazione delle libertà personali, questi processi che vanno contro il senso della democrazia liberale possono essere accettati nella misura in cui vengono definiti nel tempo, spiegati, argomentati nel nome di un bene superiore, in questo caso la lotta alla pandemia e la tutela della salute. Ma nel momento in cui queste restrizioni — che producono anche una serie di aggravamenti della situazione economica e sociale — vengono prolungate e non si ricostruiscono nel Paese fiducia, prospettiva e senso del futuro, la democrazia liberale, che è inseparabile dall’idea della società aperta, delle libertà individuali e del mercato, è in difficoltà. E rispetto a questo abbiamo visto diverse forme di sbavature che minano non soltanto il nostro quadro di relazioni internazionali ma anche la nostra visione della democrazia liberale e rappresentativa. Penso che tutti coloro che hanno a cuore la democrazia liberale debbano preoccuparsi di tutta la retorica sull’efficienza del modello asiatico, cioè delle autocrazie illiberali nella lotta alla pandemia, cosa tra l’altro non vera in termine scientifici».
Torniamo al premier Conte. Ieri sul Sole 24 Ore il professor Roberto D’Alimonte osservava alcune affinità tra lui e uno dei suoi predecessori, Romano Prodi, per i loro sforzi a unire due mondi molto lontani fra loro. Che cosa ne pensa?
«Il premier Conte sa di essere l’elemento di sutura, in un contesto di grande scompaginamento del quadro politico, di un fronte “contro la destra populista”. Ma in Italia assistiamo a uno scenario inedito: in nessun Paese al mondo vediamo la presenza di una forza populista di governo così come di una forza populista di opposizione, entrambe decisive nei numeri. Conte coltiva un’ambizione riconducibile al modello prodiano, una figura senza partito che vuole fare da anello di congiunzione tra due mondi. Ma le differenze sono profonde dal punto di vista politico. Il premier, che insiste molto sulla comunicazione, vede però una finestra da cogliere per fare da primo attore in un contesto in cui le bocce sono in grande movimento. E per altro si fa forza di una serie di ripetute dichiarazione di Nicola Zingaretti e di una parte del Partito democratico che lo aveva fotografato come il leader di un campo progressista».
Ma possiamo davvero chiamarlo campo progressista?
«Naturalmente no. La componente populista è troppo forte e la cultura di governo che si esprime attraverso quelle posizioni che un tempo avremmo definito di centro liberale-moderato è molto minoritaria nella maggioranza. Fattori che la crisi pandemica ha evidenziato in maniera chiarissima».
Esiste una continuità comunicativa tra il ministro Guerini e il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella?
«Mi pare ci sia un’assonanza dal punto di vista della cultura e della tradizione politiche, che ci sia un’idea molto forte del ruolo sobrio e fermo delle istituzioni, specie in momenti di crisi come questo, per evitare lacerazioni. Provengono da una cultura politica collocata in un quadro costituzionale e politico che a lungo è stato un elemento di presidio democratico e istituzionale del Paese nell’ambito dell’atlantismo e dell’europeismo. A tal proposito è sufficiente leggere le parole del ministro Guerini, pronunciate in un contesto difficile come la pandemia, per la fine della missione russa in Italia: frasi molto istituzionali e di ringraziamento nel modo dovuto, che però hanno ribadito con nettezza la nostra collocazione internazionale. Altro tema di politica estera a cui si può applicare questo ragionamento è la Cina, verso cui il Movimento 5 Stelle dimostra particolare consonanza».
Silvia Romano, i servizi segreti italiani contro Giuseppe Conte: gli errori imperdonabili. Libero Quotidiano il 14 maggio 2020. Se invece di cedere al protagonismo avesse ascoltato i consigli dei servizi segreti italiani, pronti a garantire un rientro discreto di Silvia Romano, Giuseppe Conte avrebbe risparmiato una pessima figura all’Italia e un bel po’ di gogna accusatoria alla ragazza. Ne è convinto Il Giornale, che nell’edizione odierna ricostruisce tutti i passi falsi del premier dalle indiscrezioni sul riscatto alla collaborazione con gli 007 turchi fino al ritorno di Silvia in vesti islamiste. Il peggio di sé Conte lo ha dato nell’epilogo del caso, quando ha perso di vista la differenza tra l’azione dell’intelligence, per definizione oscura e discreta, e quella pubblica della politica. Non c’è nulla di strano che la nostra Aise abbia lavorato con servizi segreti concorrenti o addirittura nemici, né che si sia accordata per un riscatto (anche se è illegale): ma tutto ciò doveva rimanere sepolto nelle stanze oscure dei servizi, come accade sempre per casi come questi. Oltre agli errori sul riscatto e sulla spettacolarizzazione del ritorno di Silvia, che si è rivelata un clamoroso omaggio propagandistico ai terroristi di Al Shaabab, secondo Il Giornale sono state disastrose anche le indiscrezioni sulla collaborazione con i servizi segreti turchi e con il Qatar: “Anche qui esecutivo e premier non sembrano aver colto l’essenziale differenza tra il livello della politica e quello dell’intelligence”. Questi, di fatto, i rilievi mossi dai nostri 007 contro un premier sempre più nel mirino.
Gian Micalessin per “il Giornale” il 14 maggio 2020. Sopra i servizi il nulla. È l' amara verità del caso Silvia Romano. Un caso in cui alla consueta efficienza della nostra intelligence è corrisposta la goffaggine, la sconsideratezza e l' improvvisazione di un Giuseppe Conte assolutamente inadeguato a quella delega sui servizi a cui tanto sembra tenere. L' improvvisazione del premier in un settore così delicato era già apparsa evidente ad agosto quando mise i vertici della nostra intelligence a disposizione del ministro della Giustizia statunitense William Barr. Ma il peggio di sé Conte l'ha dato nell'epilogo del caso Silvia Romano quando è sembrato perdere di vista la differenza tra l' azione dell' intelligence, per definizione oscura e discreta, e quella pubblica della politica. Collaborare con un un'altra intelligence, anche se concorrente o addirittura nemica, non è per servizio segreto né un tabù, né una mancanza. È la sua ragion d' essere visto che gli 007 nascono proprio per realizzare operazioni politicamente inconfessabili. Quindi nulla di strano se sotto traccia la nostra Aise lavora con gli agenti di un Erdogan pronto a buttarci fuori dal Mediterraneo e dalla Libia. E nulla di male se un agente segreto discute il prezzo del riscatto e va poi a consegnarlo in un emirato come il Qatar dove i grandi affari si mescolano al finanziamento del terrorismo jihadista. Tutto questo deve però rimanere rigorosamente sepolto nelle stanze oscure dei servizi. La liberazione di Silvia Romano è invece stata accompagnata da indiscrezioni sul pagamento del riscatto e sulla sua entità tracimate non dall' estero, ma dai palazzi governativi. Il tutto senza che l' esecutivo si preoccupasse di diffondere, come sempre in passato, un' ufficiale e vigorosa smentita. L' esecutivo e il premier si sono comportati insomma come se quel pagamento fosse un' operazione lecita o addirittura meritoria nell' ottica della risoluzione del caso e quindi degna di venir fatta conoscere all' opinione pubblica. Ma pagare un riscatto a un' organizzazione terroristica - oltre a essere vietato in ambito internazionale in base all' articolo 2 della Convenzione di New York del 1979 sottoscritta dell' Italia - potrebbe risultare perseguibile sul piano nazionale in base alle leggi sui sequestri di persona. Tanta sprovveduta superficialità rischia di mettere nei guai e coinvolgere in un' eventuale indagine giudiziaria anche gli esecutori materiale del pagamento, ovvero i nostri 007. Gli errori non si fermano qui. La spettacolarizzazione del ritorno di Silvia Romano in vesti islamiste trasformatasi in un clamoroso omaggio propagandistico ai terroristi di Al Shaabab è un autogol mediatico senza precedenti. Se invece di cedere al protagonismo avesse ascoltato i consigli di un'Aise pronta a garantire un rientro discreto dell' ostaggio Giuseppe Conte avrebbe risparmiato una pessima figura all' Italia e un bel po' di gogna accusatoria a Silvia Romano. E altrettanto disastrose sono state le indiscrezioni sulla collaborazione con i servizi segreti turchi e con il Qatar. Anche qui esecutivo e premier non sembrano aver colto l' essenziale differenza tra il livello della politica e quello dell' intelligence. Un' incapacità già emersa in Libia dove da tempo si pretende che l'Aise sopperisca alle assenze del governo. Un' incapacità a cui non sopperisce nemmeno un Pd di Nicola Zingaretti che - come rilevano in ambienti vicini all' intelligence - lascia a «leggere i giornali» esponenti di spessore come l' ex ministro dell' interno Marco Minniti.
LA TRATTATIVA.
Silvia Romano, il giallo della trattativa: drammatica conferma dai servizi. Prigioniera dell'orrore islamico. Libero Quotidiano il 09 maggio 2020. Silvia Romano sarebbe stata rilasciata dopo il pagamento di un riscatto. La consegna dell’ostaggio, rivela Fiorenza Sarzanini su Corriere.it, è avvenuta venerdì 9 maggio notte a in una zona a trenta chilometri da Mogadiscio. La giovane cooperante milanese, rapita un anno e mezzo fa in Kenya, sarebbe stata lasciata “nelle mani del contatto trovato dall’intelligence italiana guidata dal generale Luciano Carta grazie alla collaborazione con i colleghi somali” e a una “sorta di triangolazione con gli 007 turchi”. La trattativa con il gruppo jihadista di Al Shabaab è durata mesi. Venti giorni fa poi è finalmente arrivata la prova che Silvia era viva. Una conferma importante dopo mesi in cui si erano susseguite “voci e illazioni che secondo l’intelligence avevano soltanto l’obiettivo di far salire il prezzo del rilascio”, scrive ancora la Sarzanini.
Quindi, sei mesi fa, quindi, “è stata avviata la trattativa per il pagamento del riscatto. Un negoziato che è entrato nel vivo a metà aprile. Fino al via libera ottenuto grazie alla mediazione dei turchi”. Venerdì notte la svolta con lo scambio in un momento peraltro tragico per la zona in ginocchio per le alluvioni.
Silvia Romano è libera: i retroscena della trattativa. Veronica Caliandro il 09/05/2020 su Notizie.it. Silvia Romano è libera grazie ad un blitz dell'intelligence condotto con la collaborazione dei servizi turchi e somali. Dopo un anno e mezzo dal rapimento finalmente Silvia Romano è libera. Ad annunciarlo è stato il Premier Conte, con fonti dei Servizi che hanno spiegato come l’operazione di recupero sia iniziata all’alba di sabato 9 maggio 2020. Soltanto qualche settimana fa un’amica di Silvia Romano, nel corso di un’intervista a Libero, aveva rilasciato delle dichiarazioni secondo cui la ragazza fosse viva e presto sarebbe tornata in Italia. Ebbene, finalmente la buona notizia è giunta e Silvia Romano è libera. La prova che la ragazza fosse viva era giunta una ventina di giorni fa dopo una trattativa durata mesi con il gruppo jihadista di Al Shabaab, mentre a novembre si era avuta la certezza che stesse bene, seppur provata dalla prigionia. Fino ad allora, infatti, non vi era alcuna certezza che dopo il passaggio dai criminali kenyoti che l’aveva sequestrata ai fondamentalisti che l’hanno custodita, fosse ancora viva. Anzi, quasi un anno fa si era diffusa la voce secondo la quale Silvia Romano fosse deceduta in seguito ad un’infezione dopo essere rimasta ferita nel corso di uno dei trasferimenti da una prigione all’altra. Voci che secondo l’intelligence erano state diffuse con il solo intento di far salire il prezzo per il riscatto. Sei mesi fa, dopo aver ottenuto la prova che la Romano fosse viva, quindi, è stato dato il via alla trattativa per il pagamento del riscatto. Una trattativa entrata nel vivo verso metà aprile, fino al via libero giunto grazie alla mediazione dei turchi. Agli 007 che erano già sul posto si sono poi aggiunti nel corso degli ultimi giorni altri specialisti partiti da Roma e venerdì sera è avvenuto finalmente lo scambio. La consegna dell’ostaggio è avvenuta venerdì 9 maggio notte in un’area a 30 chilometri da Mogadiscio. L’operazione dell’Aise, l’Agenzia informazioni e sicurezza esterna diretta dal generale Luciano Carta, infatti, è scattata nella notte tra l’8 e il 9 maggio. Un blitz, quello dell’intelligence, condotto con la collaborazione dei servizi turchi e somali. In Somalia, infatti, Ankara gestisce una grande base militare dove soldati turchi addestrano militari locali. Silvia Romano si trova al momento in sicurezza nel compound delle forze internazionali a Mogadiscio. Un’operazione di salvataggio, in base a quanto riportato da Globalist, resa possibile dal fatto che Silvia Romano non fosse più nelle mani di un gruppo jihadista, bensì fosse finita nelle mani di una banda di criminali comuni il cui unico interesse erano i soldi. Si attende nel primo pomeriggio l’arrivo a Ciampino dell’areo che riporta a casa la giovane volontaria, previsto per le ore 14 di domenica 10 maggio. Ad accoglierla ci sarà anche il ministro degli Esteri Luigi Di Maio e in seguito Silvia Romano sarà sentita dai pm di Roma. Il rilascio è giunto o dopo una lunga trattativa con il gruppo fondamentalista di Al Shabaab ed è stato organizzato dai servizi italiani in collaborazione con quelli somali e turchi.
Luigi Guelpa per ''il Giornale'' il 10 maggio 2020. «Mi sento bene e non vedo l' ora di tornare in Italia. Sono stata forte e ho resistito». Silvia Romano l' ha fatto per 536 interminabili giorni di prigionia, nonostante il movimento vorticoso di voci, di smentite, e, purtroppo, di notizie poco attendibili confezionate dai media subsahariani. L' annuncio del suo rilascio è arrivato ieri pomeriggio dal premier Giuseppe Conte, che in un tweet ha rivelato la notizia, ringraziando «le donne e gli uomini dei servizi di intelligence esterna. Silvia, ti aspettiamo in Italia!». La volontaria della onlus Africa Milele era stata rapita il 20 novembre del 2018 in Kenya, nel villaggio di Chakama, a 80 chilometri da Malindi. Secondo quanto ricostruito dalla Procura di Roma e dai carabinieri del Ros, era tenuta prigioniera in Somalia da uomini vicini al gruppo jihadista Al Shabaab, l' organizzazione somala affiliata ad Al Qaida e considerata ostaggio politico. Silvia è stata portata ieri pomeriggio in un compound a Mogadiscio, dopo essere stata liberata venerdì notte a 30 chilometri dalla capitale nel corso di un' operazione a cui hanno preso parte agenti somali, turchi e italiani. In Somalia, infatti, Ankara gestisce una grande base militare dove soldati turchi addestrano militari locali. L'aereo dei servizi segreti che la riporterà in Italia oggi alle 14 a Roma era decollato ieri mattina da Ciampino. La trattativa del rilascio è stata condotta dall' Aise diretta dal generale Luciano Carta e si sarebbe sbloccata a metà aprile. Una volta che i nostri 007 hanno avuto la prova che fosse in vita, sono partite le trattative per stabilire il prezzo del rilascio. Il governo italiano ha negato almeno per il momento che sia stata versata una cifra per la liberazione, anche se funzionari vicini al ministro degli Esteri somalo Ahmed Isse Awad sostengono che l' Italia abbia pagato ai rapitori una cifra vicina ai 4 milioni di euro. Dopo la liberazione la volontaria ha parlato al telefono con la mamma Francesca e con il premier Conte. «È provata ovviamente dallo stato di prigionia, ma le sue condizioni di salute si possono considerare buone», ha riferito il presidente del Copasir, Raffaele Volpi. Il rapimento di Silvia Romano era stato pianificato a Eastleigh il quartiere somalo di Nairobi, chiamato anche «la piccola Mogadiscio». All'apparenza un immenso bazaar, ma soprattutto sede della Moschea della Sesta Strada, conosciuta come la più oltranzista, covo di miliziani di Al Shaabab e di loro simpatizzanti. Da Eastleigh proveniva Said Abdi Adan, l' uomo che arrivò a Chakama assieme a due complici per affittare una casa a pochi passi dalla sede dell' Ong Africa Milele, dove viveva e lavorava Silvia. Il loro incarico era quello di tenere sotto controllo la situazione, tentando di valutare il momento propizio per rapire la giovane. I sospetti che Silvia fosse stata «venduta» a più bande fino a raggiungere una roccaforte qaidista hanno trovato con il trascorrere dei mesi decisivi riscontri. Qualcosa del genere era accaduto in un recente passato con i rapimenti della turista britannica Judith Tebbutt, di quella francese Marie Didieu e delle cooperanti spagnole Montserrat Serra Ridao e Blanca Thiebaut, tutte sequestrate in Kenya da predoni locali, affidate ad Al Shaabab e trasferite nel Sud della Somalia (in una logica di controllo del territorio) in attesa del pagamento del riscatto. Il mondo delle istituzioni ha gioito alla notizia della liberazione della ragazza. Su tutti il presidente Mattarella, che in una nota del Quirinale ha fatto sapere che «la notizia della liberazione di Silvia Romano è motivo di grande entusiasmo per tutti gli italiani. Invio un saluto di affettuosa solidarietà a Silvia e ai suoi familiari, che hanno patito tanti mesi di attesa angosciosa».
LE FAKE NEWS.
Silvia Romano: gravidanza, orologio e riscatto, tutte le bufale sulla cooperante rapita. Carmine Di Niro su Il Garantista il 13 Maggio 2020. Il ritorno in Italia di Silvia Romano, la cooperante 24enne rapita il 10 novembre 2018 in Kenya e rimasta prigioniera per oltre 500 giorni in mano al gruppo terrorista islamico somalo di al-Shabab, ha generato un numero impressionante di fake news sulla sua prigionia. Dalla sua conversione all’Islam alla sua presunta gravidanza, dagli orologi Rolex alle foto false della ragazza in giro nuda o in totale libertà nel 2019, il web è stato invaso da un mare magnum di bufale che ancora oggi stanno spopolando sui social network.
MATRIMONIO E GRAVIDANZA – Iniziamo dal suo presunto matrimonio con uno dei suoi carcerieri e col lavaggio del cervello alla quale sarebbe stata sottoposta per la conversione alla fede islamica. Teorie smontate dalla stessa Silvia Romano nel corso dell’interrogatorio avvenuto domenica col magistrato della Procura di Roma Sergio Colaiocco, titolare dell’inchiesta sul suo rapimento. La volontaria ha riferito come durante i 18 mesi di prigionia “non mi hanno mai trattata male, non sono stata incatenata o picchiata. Non sono stata violentata”.
RISCATTO CON I SOLDI DELLA CASSA INTEGRAZIONE – Altra bufala virale è il video di un presunto agente dei servizi segreti che avrebbe lavorato per la liberazione di Silvia. Secondo la testimonianza il denaro per il pagamento del riscatto dalla cooperante sarebbe arrivato dai fondi per la cassa integrazione: una ricostruzione totalmente falsa e creata ad arte per cavalcare anche un tema di attualità come la crisi economica dovuta al Coronavirus e ai ritardi del Governo nell’aiutare i lavoratori italiani che hanno perso il lavoro.
IL ROLEX D’ORO – Silvia Romano indossava un Rolex d’oro al ritorno dalla Somalia? Ovviamente no. Ma sul web è diventata virale una immagine della ragazza al momento della sua discesa dall’aereo che l’ha riportata a Ciampino, con tanto di freccia rossa ad indicare l’orologio al polso, che secondo i bufalari era un Rolex Lady Oro. Peccato che con una semplice ricerca sul web si può chiaramente riconoscere come l’orologio al polso di Silvia e il Rolex non corrispondano neanche lontanamente.
NUDA IN STRADA – Sta girando invece su Telegram la foto fake di una presunta Silvia Romano nuda in mezzo ad un strada, con tanto di messaggio indignato: “Silvia Romano che manifesta a favore degli immigrati prima di partire per l Africa….. questa abbiamo pagato 4.000.000,00”. L’immagine utilizzata è in realtà risalente al 2017, quando una ragazza fece scalpore girando per le strade di Bologna con addosso soltanto una borsa. Ma basta fare un semplice confronto tra le foto della ragazza senza vestiti e con quelle disponibili sul web di Silvia Romano per notare evidenti differenze: la foto virale mostra una ragazza con un importante tatuaggio sopra il seno sinistro, lì dove anche Silvia ha un tatoo, di dimensioni però notevolmente più piccole.
LA FOTO IN AFRICA DA LIBERA – Altro giro, altra foto. Sul web è finita una immagine di Silvia Romano con un ragazzo di colore su una spiaggia, foto utilizzata come prova che la ragazza fosse libera e non sottoposta a prigionia in quanto “datata 2019”. La foto è tratta dal sito Africa ExPress, ma decontestualizzata ad arte. La foto, come è evidente leggendo l’articolo firmato dal giornalista Massimo Alberizzi, mostra Silvia in compagnia di Alfred Scott, fisioterapista dell’ospedale di Mombasa, in un selfie scattato durante un periodo precedente al rapimento.
IL GIUBBOTTO ANTIPROIETTILE TURCO – Anche la foto diffusa dall’agenzia di stampa turca AnadoluLe è un clamoroso falso. Nelle immagini viene mostrato una sorridente Silvia indossare lo jilbab verde e un giubbotto antiproiettile riportante la stella e la Mezzaluna, simboli della Turchia. Peccato che la stessa intelligence italiana, che ha riconosciuto l’importanza dell’aiuto turco nella trattativa per riportare a casa la 24enne, abbia precisato che “il giubbetto antiproiettile indossato da Silvia Romano è una dotazione rigorosamente italiana, senza alcun simbolo, ed è stato fornito nell’immediatezza della liberazione dagli 007 italiani che l’hanno recuperata”.
Silvia Romano e il Rolex Lady Oro, la verità sul giallo dell’orologio. Carmine Di Niro su Il Riformista il 12 Maggio 2020. Il mare magnum di fake news apparse in Italia dalla liberazione di Silvia Romano, la volontaria 24enne tornata in Italia dopo 18 mesi da prigioniera del gruppo islamista al-Shabab, i terroristi che l’avevano rapita nel novembre 2018 in Kenya, continua ad aumentare. L’ultima della serie riguarda un presunto Rolex “Lady Oro” che la cooperante milanese indossava al polso al momento del ritorno in Italia, mentre scendeva dall’aereo che l’ha riportata a Ciampino. La bufala è pensata e realizzata ad arte, con tanti di freccia ad indicare l’orologio. La ragazza indossava effettivamente un orologio all’atterraggio, ma basta zoomare le immagini per notare come il modello di Silvia non corrisponda neanche lontanamente al “Lady Oro”, dal quadrante ovale, mentre quello indossato dalla 24enne ha una forma rettangolare e di colore nero.
I FAMILIARI.
Silvia Romano, il padre non sapeva nulla. La liberazione annunciata da Conte su Twitter prima che ai suoi familiari. Libero Quotidiano il 09 maggio 2020. Silvia Romano è stata liberata ma dietro questa bellissima notizia se ne nasconde una davvero misera. I familiari della giovane cooperante milanese rapita un anno e mezzo fa in Kenya, infatti, non hanno saputo dell'avvenuta liberazione dalle autorità ma dai mezzi di informazione. Evidentemente il presidente del Consiglio Giuseppe Conte per primo e il ministro degli Esteri Luigi Di Maio poi, hanno preferito darne l’annuncio su Twitter. “Lasciatemi respirare, devo reggere l'urto. Finché non sento la voce di mia figlia per me non è vero al 100 per cento”, dice infatti all’Ansa il padre di Silvia, Enzo Romano, all'ignaro di tutto. “Devo ancora realizzare, mi lasci ricevere la notizia ufficialmente da uno dei mie referenti”.
Silvia Romano, il papà: “Non era in Africa per diventare un’icona”. Riccardo Castrichini l'11/05/2020 su Notizie.it. Il papà di Silvia Romano parla con orgoglio di sua figlia, lei che era andata in Africa per seguire ciò che sentiva nel cuore. Silvia Romano, la ragazza italiana rapita in Kenya nel 2018, è finalmente stata liberata e ieri, 10 maggio è tornata in Italia. Ad attenderla all’aeroporto c’erano il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, e naturalmente la sua famiglia. Il papà di Silvia Romano, Enzo, ha così commentato al Quotidiano Nazionale il ritorno a casa di sua figlia: “Ho riabbracciato mia figlia, e non vedevo l’ora di farlo, ma sentivo, e ho sentito anche nelle ore precedenti, che l’accoglienza era collettiva: delle istituzioni, che ringrazio immensamente per il lavoro e il supporto, e di centinaia di migliaia di persone che come noi attendevano questo ritorno. Silvia in quel momento era la figlia e la sorella d’Italia. Tantissime persone si sono immedesimate in lei e nella nostra famiglia, condividendo la nostra gioia”. “Ho voluto accogliere Silvia come meritava – ha aggiunto il signor Enzo – inchinandomi davanti a una figlia di cui sono orgoglioso”. Il papà di Silvia Romano ha poi speso parole per la scelta della figlia di andare a lavorare in Africa: “Penso che, come lei, ci siano tanti ragazzi che si danno da fare per il prossimo e che sono in prima linea per conquistare il mondo che vorrebbero: un mondo diverso e più giusto. Ma mia figlia non è andata in Africa per diventare un’icona, è partita perché era quello che sentiva nel cuore. Era quello che voleva fare: lavorare per gli altri, mettersi al servizio di persone meno fortunate e aiutarle grazie alle sue capacità e al suo sorriso. Poi si è trovata a diventare un’icona, per ciò che le è capitato. Ma, ripeto, ci sono tanti giovani attivi per il cambiamento. Ora, l’importante è che sia tornata da noi sana e salva”. Nelle parole del signor Enzo Romano anche uno stralcio delle sue sue emozione al momento della notizia della libertà della figlia: “Il mio cuore scoppiava di gioia. Poi sono stato subissato di telefonate e messaggi da parte di familiari, amici e giornalisti. Impossibile rispondere a tutti, anzi mi scuso se non sono riuscito a dare retta a molti. Ma a un certo punto ho dovuto pensare a me stesso e a come organizzare la partenza per Roma. Oggi (ieri per chi legge, ndr) è stata una giornata intensa. Felice ma lunghissima”.
Silvia Romano, il padre Enzo: "Ha le palle e cerca di reagire, ma non confondete il suo sorriso". Libero Quotidiano il 12 maggio 2020. “Noi vogliamo stare in pace, abbiamo una ragazza da proteggere e abbiamo solo bisogno di ossigeno”. Così Enzo Romano ha parlato della figlia Silvia a due giorni dalla liberazione in Somalia, dove è stata tenuta prigioniera per un anno e mezzo. “Come sta mia figlia? Come una che è stata prigioniera per diciotto mesi”, è la risposta del padre, che appare ovviamente sfinito e anche un po’ irritato per tutta l’attenzione mediatica. Comprensibile, ma d’altronde quello della figlia è un caso grosso, che ha fatto finire in secondo piano persino il coronavirus e lo scontro durissimo tra il ministro Bonafede e il magistrato Di Matteo sulla scarcerazione dei boss mafiosi. A chi le fa notare che Silvia è tornata in Italia sorridente, il padre Enzo risponde così: “Non è che se uno sorride sta benissimo. Non confondiamo il sorriso con la capacità di reagire per rimanere in piedi dignitosamente in una situazione di cui sei preda e che ti porta poi ad andare nella depressione più totale. Meno male - ha chiosato - che ha un po’ di palle e cerca di reagire, ma è la sopravvivenza”.
Silvia Romano, lo sfogo dello zio: "Chi vuole far carriera sulla sua pelle. Gli appostamenti fuori dal supermercato". Libero Quotidiano il 14 maggio 2020. Un nuovo sfogo dello zio di Silvia Romano, Alberto Fumagalli, fratello della madre della ragazza liberata dopo 18 mesi di prigionia, Francesca Fumagalli. Una famiglia sotto assedio, quello delle persone che non lasciano tregua sotto casa e soprattutto quello delle minacce, degli insulti, dell'odio. "Siamo in silenzio stampa - attacca Alberto -, nessuno ci vuole aiutare ma solo fare carriera sulla nostra pelle e speculare", accusa. E ancora, aggiunge di aver staccato il telefono e di aver visto giornalisti anche fuori dal supermercato ne quale lavora e in giro per il quartiere con la sua fotografia in mano. Caccia ad ogni singola parola, a ogni dichiarazione, in un assedio insostenibile. Poi, riportate dal Corriere della Sera, le parole di un altro familiare, che però sceglie l'anonimato: "Silvia oggi non è più vittima di un rapimento, ma un simbolo, un pretesto, un feticcio da bruciare in piazza in nome di una visione politica". Poi la madre, Francesca, che spiega: "Non le stiamo facendo vedere i telegiornali, usa pochissimo i social e internet. Non vogliamo che tutto quello che sta succedendo interno a lei possa causare ancora più dolore". Poche parole, consegnate dopo aver sbottato contro i giornalisti che non le davano tregua: "Che palle"...
Monica Serra per lastampa.it il 12 maggio 2020. “Come pensate che stia? Provate a mandare un vostro parente là due anni e vedete se non torna convertito”. La mamma di Silvia Romano, la signora Francesca Fumagalli, era andata al parco vicino casa, al Casoretto, periferia nord est di Milano, per portare il cane. Quattro passi all’aria aperta in una giornata di sole. Ha detto solo queste parole e poco più. È tornata a chiedere “pace per la sua famiglia” e per sua figlia. Poco prima, rispondendo alle domande del Tg3, la mamma di Silvia aveva dichiarato: “Cerchiamo di dimenticare, di chiudere un capitolo e aprirne un altro”, ribadendo di aver preso da tempo le distanze dalla onlus Africa Milele per la quale sua figlia ha lavorato in Africa, ma “non sono io l’ordine preposto per parlare di queste cose, c’è una procura che indaga e ci pensano loro, io non rilascio dichiarazioni sull’argomento”. E mentre il pm Alberto Nobili, che coordina il pool antiterrorismo della procura di Milano, ha aperto un fascicolo contro ignoti per minacce aggravate (al punto che Silvia ha deciso di chiudere il suo profilo Facebook) , in mattinata, il medico di famiglia ha visitato Silvia. “Sta bene, come l'avete vista quando è arrivata, anche psicologicamente”, ha detto quando è uscito. “Un controllo va sempre fatto dopo tanti mesi che si manca dall'Italia, è doveroso”. Altre persone sono passate a portarle fiori e anche il papà Enzo è venuto a trovarla.
Da ansa.it il 14 maggio 2020. Vi chiedo di non arrabbiarvi per difendermi, il peggio per me è passato, godiamoci questo momento insieme". Lo scrive la cooperante 24enne Silvia Romano, rapita in Kenya nel 2018 e liberata sabato dopo un anno e mezzo di prigionia su Facebook. "Sono felice - si legge - perché ho ritrovato i miei cari ancora in piedi, grazie a Dio, nonostante il loro grande dolore. Perché ho ritrovato voi, tutti voi, pronti ad abbracciarmi. Io ho sempre seguito il cuore e quello non tradirà mai" Nel post, la giovane ha voluto dire "grazie, grazie, grazie" a "tutti gli amici e le amiche che mi sono stati vicini con il cuore in questo lungo tempo". E ha ringraziato anche "chi non era un amico, ma un conoscente o uno sconosciuto e mi ha dedicato un pensiero. A tutti coloro che hanno supportato i miei genitori e mia sorella in modo così speciale e inaspettato: scoprire quanto affetto gli avete dimostrato per me è stato ed è solo motivo di gioia, sono stati forti anche grazie a voi e io sono immensamente grata per questo". "Non vedevo l'ora di scendere da quell'aereo, perché per me contava solo riabbracciare le persone più importanti della mia vita, sentire il loro calore e dirgli quanto le amassi, nonostante il mio vestito". ha scritto Silvia Romano su Facebook.
Cesare Giuzzi per il “Corriere della Sera” il 14 maggio 2020. La tenda del salotto si scosta per un attimo. Mamma Francesca butta un occhio verso la strada, come a prepararsi a quello che le si parerà incontro. L' assedio mediatico è qualcosa a cui non si è mai preparati, ma al quale in qualche modo si riesce a trovare una misura. Alla mattina Francesca Fumagalli sbotta davanti ai microfoni e all' ennesima domanda a cui non ha intenzione di dare risposta: «Che palle». Al pomeriggio però, quando si incammina verso i giardini di piazza Durante, trova il tempo per sorridere davanti ai fotografi che le chiedono il nome della cagnolina che tiene al guinzaglio: «Si chiama Alma, così la fate diventare famosa». Sono battute e piccole parole che inevitabilmente si scambiano tra chi, da una parte e dall' altra della barricata, sta vivendo l' assedio di questi giorni. Mamma Francesca, che da qualche anno si era trasferita in Liguria, sta cercando in ogni modo di proteggere Silvia. Come di isolarla da quel che le sta accadendo intorno. Sa perfettamente che poche ore prima l' onorevole leghista Alessandro Pagano ha definito sua figlia, rientrata in Italia dopo 18 mesi di prigionia, una «neo terrorista» all' interno dell' aula di Montecitorio. Ma davanti ai giornalisti glissa nascondendo rabbia e dolore: «Non ho sentito e non mi interessa. Perché l' assedio dal quale ora deve difendersi la famiglia di Silvia Romano non è solo di telecamere e fotografi, ma è quello di una politica che ha trasformato l' immagine di sua figlia 24enne che scende la scaletta di un aereo con gli abiti tradizionali islamici usati dalle donne somale in una sorta di alto tradimento allo Stato. «Silvia oggi non è più la vittima di un rapimento, ma un simbolo, un pretesto, un feticcio da bruciare in piazza in nome di una visione politica», racconta un familiare. Invece Silvia è viva, con le fragilità di una giovane donna che per oltre cinquecento giorni è rimasta nelle mani dei rapitori. «Non le stiamo facendo vedere i telegiornali, usa pochissimo i social e Internet. Non vogliamo che tutto quello che sta succedendo intorno a lei possa causare ancora più dolore». Anche lo zio Alberto, fratello della mamma, che per primo ha denunciato il clima d' odio e paura nel quale vive la sua famiglia dopo il rientro in Italia, adesso chiede tranquillità: «Siamo in silenzio stampa, nessuno ci vuole aiutare ma solo fare carriera sulla nostra pelle e speculare». Dice di aver dovuto staccare il telefono, di aver visto giornalisti fuori dal supermercato nel quale lavora o in giro per il quartiere con la sua foto in mano. La paura è che nelle prossime ore il clima d' odio intorno a Silvia possa addirittura peggiorare. L' inchiesta aperta dalla Procura di Milano per minacce potrebbe prendere in considerazione anche l' aggravante dell' odio razziale e religioso. Sono decine i commenti social analizzati dai carabinieri. Per quelli meno gravi la famiglia di Silvia potrebbe sporgere querela per diffamazione. Una scelta che però, finora, è stata scartata proprio nella speranza che tutto questo si fermi. Che questa pagina si possa presto chiudere e cancellare. Anche davanti agli investigatori che martedì le hanno ascoltate in caserma, Silvia e mamma Francesca hanno cercato in ogni modo di smorzare paure e tensioni: «Sono serena, ho bisogno solo di un po' di tempo per riprendermi», ha raccontato la 24enne. Lei per ora resta chiusa nell' appartamento di via Casoretto insieme alla sorella Giulia. Deve superare le due settimane di quarantena Covid imposte a chi rientra in Italia. In pochi sono potuti andare a trovarla. Gli amici si sono limitati a qualche breve telefonata e a molti mazzi di fiori che per tutta la giornata sono arrivati dai fiorai della zona. Solo il papà Enzo, che vive poco lontano dopo la separazione, ha avuto la possibilità di stare qualche ora accanto alla figlia. Anche i vicini si sono accontentati di qualche rapido saluto: «Siamo contenti che sia qui. Quello che le sta succedendo è assurdo, vergognoso. Devono lasciarla in pace, è soltanto una ragazza». Ieri il sopralluogo della polizia Scientifica dopo il ritrovamento dei cocci di una bottiglia scagliata contro la finestra di un vicino, ha involontariamente aggiunto ulteriore drammaticità. C' è il timore che nelle prossime ore si possano verificare altri gesti o azioni di protesta. Si guarda soprattutto ai gruppi di estrema destra, ma il clamore potrebbe creare un pericoloso effetto di emulazione. «Devono proteggerla, ci vuole più sorveglianza», si sfoga un vicino del quinto piano. L' assedio, insomma, non è finito.
Silvia Romano, lo zio a La vita in diretta: "Torna in Africa? Le brucio il passaporto. È stata drogata". Libero Quotidiano il 12 maggio 2020. Dopo la liberazione di Silvia Romano, le parole dello zio, uno dei pochi a parlare nella famiglia della cooperante milanese di 24 anni tenuta in prigionia per 18 mesi e tornata in Italia da convertita all'islam con il nome di Aisha. Lo zio, Alberto Fumagalli, è stato raggiunto telefonicamente da La Vita in Diretta, il programma di Rai 1 del pomeriggio, dove per prima cosa ha smentito che la nipote fosse incinta: "No, non lo è. Non è incinta". Il dubbio aveva iniziato a montare dopo che, scesa dall'aereo a Ciampino, Silvia continuava ad accarezzarsi la pancia. Lo zio ha poi definito il periodo del rapimento "un film dell'orrore". Dunque ha aggiunto: "L’importante è che è viva, sana e salva". Fumagalli nutre però seri dubbi sulla conversione all'islam e lo dice chiaro e tondo: "Lei è stata inquadrata e addestrata, quelli sono esperti, le hanno fatto il lavaggio del cervello. Le avranno anche dato delle droghe. L’avranno anche drogata". Quando l'inviata chiede se reputa possibile una conversione spontanea, taglia corto: "No, assolutamente". Dunque, altri particolari inquietanti: "Ma poi le dico anche che, avendola sentita, non parla neanche nello stesso modo di prima. Non è lei che vuole farsi chiamare Aisha, e questo non l’ha mai detto. Di certo non tornerà più la Silvia che era". Infine, una risposta che sta facendo molto discutere. Pare che Silvia Romano abbia già espresso la volontà di tornare in Africa: la famiglia come la prenderebbe: "Eh, la famiglia come la prende? Che nessuno la fa tornare in Africa, penso. Il passaporto glielo brucio io, così vediamo se torna in Africa", ha concluso, durissimo.
Dagospia il 14 maggio 2020. Da “la Zanzara – Radio24”. Lo zio di Silvia Romano, Alberto Fumagalli, ha parlato con La Zanzara su Radio 24. Ecco i punti principali dell’intervista. Le bottiglie lanciate. “Saranno stati degli ubriachi alle due, tre di notte che hanno lanciato delle bottiglie. Sapevano già dove abitava lei, è diventata un simbolo. Sono arrivati al primo piano ed i cocci sono arrivati alla vicina, poveraccia. Erano degli ubriachi con lo scooter che urlavano ed hanno lanciato delle bottiglie. Ma non abbiamo paura, figurati se Silvia ha paura dopo quello che ha passato. Purtroppo è dovuta venire la scientifica, sono venuti i Ris ed hanno creato fastidio a noi, così, nella nostra privacy. Poi ci sono le telecamere 24h, ne ho contate dodici, puntate alle loro finestre. Tutto è sotto controllo, ma credo sia una cretinata, non è un gesto dimostrativo, ma un gesto di due ubriaconi”.
Minacce su Internet. “Silvia non ha paura delle minacce su internet, assolutamente. Noi ridevamo sul divano nella nostra intimità. Ma avete capito che siamo delle persone normali? Abbiamo sofferto tanto nella vita, questa è l’ultima cosa che non ci aspettavamo e ci ha solo rinforzato. E l’amore è amore, l’odio è odio. I due sentimenti più grandi. Noi non sappiamo che cos’è l’odio. Ieri mi mandavano un video di una pseudo Silvia nuda. E’ tutto falso. Quella ha un tatuaggio e poi non assomiglia a Silvia. Ma l’avete guardata bene in faccia quella lì o no? E’ un video che girava da anni. Girano foto di foto in spiaggia con i kenyoti, ma è tutto falso anche quello. In spiaggia con negri che fa turismo sessuale, ma dai, finiamola”.
Conversione: “Sono rimasto colpito dalla conversione, certo. Già era un simbolo politico, adesso è diventata un simbolo religioso. Io mi devo sincerare se lei vuole veramente questa cosa. Se tu vuoi bene ad una persona, se mio figlio diventa gay, non posso mica ammazzarlo se diventa gay. Qui è lo stesso discorso. Se è una scelta sua indipendente, fatta volontariamente, io voglio bene a Silvia, cosa faccio...? Io le posso bruciare il passaporto, ma se so che lei ci vuole andare veramente, non glielo brucio più sto passaporto.
Soldi riscatto. “Quando parlo dei soldi del riscatto nessuno mi fa dire certe cose. I soldi, indipendentemente che l’abbiano pagato o no il riscatto, sono quelli dei servizi segreti e sono indipendenti dalle tasche degli italiani. Quindi non è che leviamo i soldi agli italiani. Però non me lo fanno dire”.
Lavaggio cervello. “Ho detto che le hanno fatto il lavaggio del cervello. Adesso aspettiamo del tempo per accertarci se lo vuole veramente. Poi ,se tu ami tua nipote, tua figlia, accetterai. Anche se io non condivido la sua scelta, la accetto. Non è che la posso ammazzare, no? Se mio figlio diventa romanista e tu sei laziale, cosa facciamo?”. Pagano. “Ho letto che un certo Pagano ha detto che Silvia è una terrorista. Guarda Cruciani, io vorrei che tutti i terroristi fossero come Silvia”. Sgarbi. “Ha detto che vuole metterla in galera, sì, certo, torturatela, portatela a Guantanamo ,dai”.
Ong. “Ma lo sapete che stanno indagando sulla Ong, Africa Milele, che non l’aveva registrata, la Farnesina non sapeva neanche fosse in quel posto. I bambini orfani lì venivano toccati senza neanche i guanti in lattice. Siamo a dei livelli mai visti. Principianti allo sbaraglio che mandano in mezzo ai leoni e ai coccodrilli tredici ragazzi. Bisogna fare un albo in cui ci sono le ong, timbrate e verificate. Questi ragazzi devono essere sicuri di non andare a morire”. Sposata? “Altra cazzata quella della relazione. Non è incinta e non ha avuto nessuna relazione. Per loro il sequestrato è la cosa più preziosa che hanno. La trattano con i guanti”. Aeroporto. “La cosa è stata gestita male da loro quando è scesa dall’aereo. Non dovevano esporla. Almeno lasciatela abbracciarsi nell’intimità in una saletta. E’ stata gestita male in partenza. Non so se avete notato la passerella con tutti i fotografi come a Cannes, ma cos’è sta stronzata?
Ma perché no la mandate subito dai genitori? Non so se avete visto quanto tempo ci ha messo Silvia a scendere dall’aereo. Ci ha messo tanto perché lì c’è stata una discussione. Vestita così non andava bene. La discussione ci sarà stata perché non volevano farla scendere conciata così. Perché era pronto tutto il loro star system. Era meglio scendere vestita diversamente? E’ quello che sto dicendo. E’ stata gestita male. E poi lei è testarda. Non doveva scendere vestita in quel modo ed in più le doveva scendere ed andare subito in una stanzetta per raggiungere la famiglia. Non doveva essere un atto trionfale. Doveva essere una cosa intima, trionfale tra di noi che non la vedevamo da un anno e mezzo.
Parole contro terroristi. “Lei festeggia di vedere la madre e la sorella, il padre. Logico, dopo due anni è logico che sorrida. Vi sareste aspettati una parola contro i sequestratori, gli aguzzini? Avete ragione. Ma non le hanno dato modo, l’hanno sbattuta in prima pagina. Ma vi rendete conto? Lei non stava capendo, lei cercava solo i genitori. Lei non sa neanche chi è Antonio (sbaglia, ndr) Conte e Di Maio Luigi. Questa si è ritrovata sconcertata. Avrebbero dovuto preparare un discorso, una conferenza stampa che sbolliva il tutto con quattro parole di routine, di rito, ed eravamo tutti a posto. Ci sarebbe stato l’odio sui social lo stesso, ma non in questo modo. Una parola contro i terroristi? Ma non le hanno dato la parola”.
Islam. “Sono stato adesso quattro ore con lei a parlare sul divano. Se la conversione secondo me è sincera? Si. Secondo me non tornerà indietro da questa cosa. Come vuole sviluppare il suo islamismo? Normalmente, come tutti i musulmani integrati in italia. Non c’è niente di male. In più è cresciuta in un quartiere multietnico. E non andrà in giro sempre vestita così. Anche qui non hanno capito un cazzo”.
L’ACCOGLIENZA A CASA.
Cesare Giuzzi per corriere.it l'11 maggio 2020. «Sto bene, sto bene», poche parole scendendo dall’auto. È tornata a casa, nel quartiere Casoretto di Milano, Silvia Romano, la 24enne volontaria catturata il 20 novembre 2018 in un villaggio del Kenya, liberata venerdì 8 maggio dopo 18 mesi di prigionia e rientrata domenica in Italia. La giovane cooperante ha lasciato Roma lunedì mattina in automobile e pochi minuti dopo le 17 è arrivata a casa, insieme con la madre e la sorella, su una vettura grigia, scortata dai carabinieri. Numerosi giornalisti si erano appostati sotto casa della giovane, con la presenza anche della polizia locale: l’affollamento era tale che la via per alcuni minuti è stata chiusa al traffico. Ad accogliere Silvia anche don Enrico Parazzoli, da pochi mesi parroco della chiesa di Santa Maria Bianca della Misericordia frequentata dalla famiglia della ragazza. Silvia, sempre vestita con l’abito tradizionale somalo di colore verde, la madre e la sorella in pochi istanti hanno varcato il portone del palazzo, scortate dai carabinieri e nell’assedio delle telecamere. Silvia è stata accolta da un applauso di tutti i presenti e dai saluti dei vicini affacciati ai balconi. Un quarto d’ora dopo la 24enne si è affacciata a una finestra, sempre con il capo coperto dal velo verde, ha salutato con la mano sorridendo, a chi chiedeva «Cone stai Silvia?» ha risposto mostrando il pollice in su, ha mandato un bacio sulla punta delle dita. Poi è sparita di nuovo dietro i vetri. «Tutti, in questo momento, la sentiamo nostra figlia»: il cardinale Gualtiero Bassetti, presidente della Cei, ha parlato così di Silvia Romano. Lo ha fatto intervistato dal sito Umbria24. «Una nostra figlia che ha corso dei pericoli enormi, che ha avuto coraggio e forza d’animo» ha aggiunto l’arcivescovo di Perugia. Lunedì pomeriggio anche il Consiglio comunale di Milano, in apertura di seduta in videoconferenza, ha salutato la liberazione e il ritorno a casa di Silvia con un «bentornata a casa» da parte di tutta l’aula. «Sono grandissime la gioia e l’emozione per la liberazione di Silvia - ha detto il presidente del Consiglio comunale, Lamberto Bertolé -. L’abbiamo aspettata per 18 mesi e auguriamo a lei e alla sua famiglia di riuscire a recuperare la serenità dopo questa grande prova. Noi come città e come Consiglio comunale siamo orgogliosi della forza con cui ha affrontato questa prova durissima. Davvero di cuore bentornata a casa da parte di tutta l’aula».
Dagospia l'11 maggio 2020. Riceviamo e pubblichiamo: Caro Dago, ovviamente alle decine di tweettaroli che si chiedevano se Silvia Romano fosse incinta, ne sono seguite migliaia di utenti scandalizzati per la morbosità. In effetti non è stata una discussione di buon gusto, ma purtroppo non era di buon gusto neanche la diretta tv/streaming dell'arrivo della ragazza a Ciampino. Nessuno ha chiesto al governo di mandare premier e ministro degli esteri a fare quella celebrazione, con tanto di discorsi. Se mandi le telecamere, avrai la morbosità: come sta, com'è diventata, è ingrassata, è dimagrita, eccetera. Il problema più serio è che non c'è niente da celebrare, perché una vittoria privata della famiglia Romano, che ha potuto riabbracciare la figlia, si accompagna a una sconfitta politica per il governo italiano, che ha appena finanziato con 4 milioni la strategia di morte di uno dei gruppi più sanguinari e spietati del mondo. Sarebbe stato più corretto tenere tutto riservato: Ciampino è chiuso per coronavirus, il volo era militare e dunque poteva essere tenuto segreto, così come sono stati tenuti segreti i volti degli uomini dei servizi che sono scesi dalla scaletta con lei. Avrebbero potuto fare un comunicato sulla liberazione e sul ritorno in Italia, lasciando questo momento solo a Silvia e alla sua famiglia, dando loro la possibilità di fare una conferenza stampa nei prossimi giorni, in un momento di maggiore calma e lucidità. Invece vuoi la spettacolarizzazione, la diretta, la festa? E allora ti becchi anche i tweet sulle gravidanze, sull'impatto che fa vedere una ragazza per 18 mesi ''conosciuta'' attraverso le sue foto in canottiera e hot pants, che ora scende dall'aereo con una tunica islamica. Se qualcuno ha una responsabilità per aver scatenato gli odiatori da tastiera, è il governo. Filippo Giusti
Gianluca Nicoletti per “la Stampa” l'11 maggio 2020. Silvia Romano si era appena affacciata al portellone dell' aereo che l' aveva riportata a casa; chi l' attendeva sulla pista di Ciampino ha immediatamente realizzato che l' effetto della cerimonia mediatica avrebbe preso una piega di non semplice gestione. Il Presidente Conte è restato immobile. A molti sarà persino sembrato d' indovinare l' espressione attonita del Ministro Di Maio sotto la mascherina tricolore. Inutile far finta di nulla, è chiaro che nessuno potesse prevedere che la cooperante italiana che una brillante operazione d' intelligence aveva liberato dai suoi rapitori si presentasse indossando lo Jilbab. Prima ancora che Silvia potesse dare una minima spiegazione di questo particolare, indubbiamente «forte» e non casuale, è partita la carica dei leoni da tastiera. Sin troppo facile immaginarlo, diciamocelo.
L' equazione banale. L'equazione era di una semplicità disarmante, persino il più sprovveduto analfabeta funzionale ha immediatamente considerato un' occasione più che mai ghiotta per arrivare dritto alla soluzione più scontata. L' idea che si fosse convertita all' Islam cancellava ogni minimo senso di soddisfazione per una cittadina italiana, tornata in patria dopo diciotto mesi di prigionia. Il fronte estremo del partito odiatore si è subito coalizzato su Twitter facendo svettare la tendenza #convertita, che prevede citazioni dal Corano sulla condizione femminile subordinata, confronti storici con il caso Moro, inviti a toglierle la cittadinanza, ironia sulla nuova "brand ambassador della fede islamica".
I tre fotogrammi. I più acuti osservatori da tre fotogrammi della sua prima intervista hanno anche dedotto che, sotto quel tendone verdolino, potesse esserci la prova evidente che fosse incinta. Un secondo livello, apparentemente meno truce, è quello che ha raccolto, sotto l' insegna #stoccolma, una nuova categoria di specialisti. Dopo l' inflazione d' epidemiologi, virologi, psicologi che hanno letto con scrupolo Wikipedia, è apparsa dal nulla la competenza diffusa di esperti nell' omonima sindrome. Naturalmente si cita anche per dire che è una panzana inventata dagli psichiatri, dai buonisti ecc. Non sono mancati spiritosi paragoni con il voto dei meridionali, o chi l' ha buttata in schiamazzo con doppi sensi infami. Forse però sarebbe stato troppo chiedere a tutti quanti di aspettare almeno una versione ufficiale dell' accaduto.
La lettura consigliata. Lo scrittore Shusaku Endu nel suo capolavoro "Silenzio" racconta la conversione forzata e sofferta del padre Ferreira, gesuita portoghese vissuto nel XV° secolo, divenuto apostata dopo atroce tortura in Giappone, dove era andato per evangelizzare. Non è certo un libro assimilabile alla realtà di cui stiamo parlando, ma ne è comunque consigliabile la lettura per chi se la sente di giudicare dalla sua comoda poltrona, come dall' indubbia libertà d' esprimere ogni suo pensiero, le circostanze che potrebbero esistere dietro alle scelte di vestiario di una giovane ragazza. Soprattutto se finita in mano a feroci e spietati integralisti, per cui la vita di una donna non sottomessa vale meno di zero.
Franca Giansoldati per “il Messaggero” l'11 maggio 2020. «Ringraziamo Dio. Silvia è sana e salva e questa è una bella notizia. Se è tornata in buone condizioni vuol dire che è stata trattata bene. Essendo donna considerata la sua esperienza e la sua giovane età non sarebbe stato facile resistere se non si fosse convertita». E' il commento che sgorga a caldo, a padre Paolo Latorre, classe 1967, Cavaliere della Repubblica e missionario comboniano in Kenya da 16 anni, una vita dedicata ai miseri negli slum di Nairobi dove la realtà supera di gran lunga la fantasia. La vicenda della cooperante italiana la ha seguita da Nairobi, a oltre settecento chilometri di distanza da dove Silvia Romano è stata rapita. «In Kenya c'è una forte radicalizzazione islamica, un fenomeno che viaggia veloce ed è carsico. Si concentra soprattutto sulla costa dove è più alta la disoccupazione e si stanno creando le condizioni per un ulteriore peggioramento della situazione».
In che modo?
«Mi riferisco alla situazione di blocco dovuta al Covid. E' chiaro che gli effetti economici negativi finiranno per produrre altra disoccupazione e miseria tra i giovani ed è in queste sacche di disperazione e rabbia che vanno a pescare gli Shabab. Per quello che vedo non potrà che essere così purtroppo».
Anche a Nairobi la situazione di radicalizzazione dell'Islam avanza così tanto?
«Qui è meno accentuato. Certo ci sono problemi, ma il quadro è meno evidente e drammatico. Il fenomeno si concentra sulla costa con modalità abbastanza evidenti».
In che modo?
«Esistono fondazioni attive che hanno tantissimo denaro, forse fondazioni finanziate dai paesi del Golfo e poi ci sono gruppi che hanno il controllo del commercio. Sulla costa in passato sono state chiuse moschee che reclutavano e all'interno sono stati trovati materiali e armi».
Per i cristiani, dopo la strage di Garissa, nel campus universitario dove nel 2015 gli Shabab decapitarono 148 studenti cristiani, c'è pericolo?
«Stragi così non ci sono più state. Garissa però è lontana da Nairobi (ed è la zona dove è stata rapita anche Silvia ndr). Ogni tanto a noi arrivano degli allarmi specifici sul telefonino. L'ultimo tre mesi fa; ci metteva in guardia di evitare i luoghi affollati, di non andare negli hotel, nei mercati. Fortunatamente non è accaduto nulla. L'ultimo attacco è avvenuto l'anno scorso in un hotel frequentato da stranieri».
Anche nella sua parrocchia ci sono controlli?
«Oggi le celebrazioni sono sospese in tutto il paese per contenere la pandemia, ma fino a dicembre anche la mia chiesa era soggetta a controlli. Chi entrava veniva controllato con attenzione. C'erano metal detector per vedere se qualcuno portava dentro materiale esplosivo, pistole o altro. I controlli venivano effettuati a volte dall'esercito a volte da volontari. Ma la stessa cosa capitava nelle moschee. La radicalizzazione è un problema anche per l'Islam moderato».
Silvia Romano, lo striscione davanti a casa: "Perdona l'umano". La ragazza sotto-shock: "Ha capito cosa sta accadendo". Libero Quotidiano il 12 maggio 2020. Un inquietante "bentornata" per Silvia Romano, uno striscione definito "inquietante". Davanti a casa sua al Casoretto, quartiere popolare di Milano, i vicini hanno applaudito commossi quando la cooperante è rientrata insieme ai familiari dopo un anno e mezzo da sequestrata in Somalia. Come spesso accade in questi casi, la ragazza è stata letteralmente "lapidata" sui social sia per il riscatto di 4 milioni che lo Stato ha pagato ai terroristi di Al Shabaab per liberarla, sia soprattutto per la sua sorprendente conversione all'islam durante la prigionia. Sussulti di odio che secondo il Corriere della Sera avrebbero fatto valutare alla Prefettura (che ha smentito) l'opportunità di mettere sotto sorveglianza l'intero palazzo "per il timore di qualche gesto di intolleranza da gruppi neofascisti o xenofobi". "Per alcuni Silvia è diventata un simbolo di conversione all'Islam e adesso ci sono quelli che la vogliono ammazzare. È una situazione molto pesante per tutti noi", è l'allarme dello zio. E poi c'è quello striscione che Silvia ha trovato appeso vicino alla propria abitazione, con parole scritte a spray: "Perdona l'umano, bentornata Silvia Romano". Un messaggio definito dal Corriere "dal sapore ambiguo e amaro, che ha molto turbato Francesca, la mamma. "Si è resa conto del clima intorno a lei - spiega ancora lo zio di Silvia/Aisha - quando è scesa dalla macchina e ha visto quello striscione...".
Silvia Romano, vergognoso assembramento sotto casa sua: ne paga le conseguenze il poliziotto. Libero Quotidiano l'11 maggio 2020. Immagini clamorose che arrivano dal quartiere Casoretto, a Milano. Frame rilanciati su Twitter della diretta del Corriere.it per l'arrivo di Silvia Romano, la cooperante tornata a casa dopo un anno e mezzo in mano ai suoi rapitori. Immagini clamorose e sconcertanti: pur di strapparle una parola, e di riprenderla, si scatena una clamorosa gazzarra proprio davanti all'ingresso della palazzina della famiglia Romano. Il tutto in barba a distanziamento sociale e distanze di sicurezza. Immagini che anche Pierluigi Battista, firma proprio del Corsera, ha bollato come "vergognose". In mezzo alla folla scatenata si nota un agente di polizia, sommerso dalla folla, suo malgrado in mezzo a simile delirio nei giorni della Fase 2 del coronavirus.
Da ansa.it il 13 maggio 2020. Al vaglio dei pm di Milano, che indagano sugli insulti e sulle minacce a Silvia Romano, c'è anche un post di Vittorio Sgarbi, il quale ha scritto che la giovane "va arrestata" per "concorso esterno in associazione terroristica". Del post, tra l'altro, ha parlato, da quanto si è saputo, la stessa 24enne nell'audizione di oggi pomeriggio, come persona offesa, davanti al pm di Milano Alberto Nobili, capo del pool antiterrorismo, e agli investigatori del Ros dei carabinieri.
Da repubblica.it il 13 maggio 2020. La polizia scientifica sta effettuando rilievi all'interno dell'appartamento al piano di sotto rispetto a quello dove vive Silvia Romano, la cooperante milanese tornata lunedì a casa dopo essere stata sequestrata per un anno e mezzo fra Kenya e Somalia. Secondo quanto filtra, la famiglia che abita nell'appartamento avrebbe trovato dei cocci di vetro sospetti vicino a una finestra. Ieri sera c'è stato un tentativo di intrufolarsi nel palazzo da parte di un uomo egiziano, che voleva dimostrare la propria solidarietà a Silvia Romano. E intanto sono al vaglio degli investigatori del Ros di Milano decine di messaggi social indirizzati a Silvia Romano e contenenti frasi d'odio. L'analisi è appena cominciata, dopo che ieri la giovane cooperante milanese liberata dopo un rapimento durato un anno e mezzo è stata ascoltata per più ore in procura, nell'ambito dell'indagine per minacce aperta dalla sezione antiterrorismo guidata dall'Aggiunto di Milano Alberto Nobili. Stamattina gli investigatori si sono recati in via Casoretto, dove abita insieme alla madre e alla sorella: c'era anche il comandante del Ros Andrea Leo, ma la visita, durata circa mezz'ora, sarebbe stata "solo di cortesia". Ora le indagini puntano a individuare con precisione gli autori delle intimidazioni online e delle minacce. Gli inquirenti stanno anche verificando eventuali collegamenti tra autori di messaggi e gruppi dell'estrema destra. Sotto il palazzo dove Silvia Romano è rientrata domenica pomeriggio passano di frequente le pattuglie delle forze dell'ordine: finora, infatti, non è stata decisa una tutela fissa, ma da prefettura e questura è arrivata la decisione di mantenere un controllo continuo delle pattuglie. Continua anche la presenza dei cronisti anche stranieri sotto casa della cooperante. Ieri Silvia Romano accompagnata dalla madre Francesca Fumagalli è stata sentita dal responsabile dell'antiterrorismo milanese Alberto Nobili e dai carabinieri del Ros che indagano per minacce aggravate e sono in contatto con i colleghi di Roma che invece hanno aperto un fascicolo sul sequestro vero e proprio. Un lungo colloquio con gli inquirenti e gli investigatori milanesi ai quali ha confidato di sentirsi "serena" nonostante tutto. Si è trattato di un'audizione in cui la giovane cooperante si è fatta conoscere e nella quale, oltre a parlare del suo periodo di volontariato trascorso in Kenya, ha messo in fila le minacce e gli insulti che, da quando è scesa dalla scaletta dell'aereo a Ciampino, sono andati moltiplicandosi e che l'hanno convinta ad aumentare la privacy anche sul suo profilo Facebook.
Silvia Romano, le donne dell'Anpi: "Attacchi razzisti e sessisti". Il Coordinamento Nazionale Donne Anpi "condanna con fermezza gli attacchi mediatici che in queste ore sono stati lanciati, soprattutto attraverso i social, a Silvia Romano. Sono attacchi non solo razzisti, ma anche e soprattutto sessisti. Mai, in passato, per ostaggi uomini liberati grazie ad un pagamento (alcuni poi anche convertiti ad altre religioni), c'è stata una così violenta aggressione e un tentativo così marcato di delegittimazione. Sotto accusa il modo di vestire di Silvia, la conversione, il riscatto, persino la sua felicità per il ritorno a casa e il suo sorriso. Silvia resta una giovane donna coraggiosa e generosa che si è messa al servizio dei bambini di un orfanotrofio in Kenya. Un meraviglioso esempio di solidarietà e altruismo, valori fondamentali del vivere civile. Silvia resta una donna libera in tutte le scelte personali, intime e pubbliche. Noi antifasciste e resistenti siamo state felici di averla rivista viva .- grazie all'impegno del Governo - e abbracciare commossa i genitori, la sorella, la famiglia e quanti volendole bene l'aspettavano con ansia".
Silvia Romano, il nordafricano e il tentativo di irrompere a casa della ragazza: "Cosa non torna". Libero Quotidiano il 15 maggio 2020. Come se non bastassero polemiche, insulti e minacce, a turbare Silvia Romano dopo il ritorno a casa al termine di 18 mesi di prigionia tra Somalia e Kenya, anche il misterioso tentativo di intrusione di un uomo nordafricano, poco prima delle 20 di martedì, nel palazzo dove abita la ragazza. Come è noto, l'uomo è stato sorpreso sul pianeorottolo della casa dei Romano, al secondo piano. Gli investigatori hanno sequestrato un filmato che era stato realizzato da una troupe televisiva che si trovava davanti al palazzo e che, per puro caso, ha ripreso l'intruso. Secondo quanto si apprende, nel video si vede il nordafricano con jeans e cappuccio della felpa alzato uscire rapidamente dallo stabile, in fuga. L'uomo però non è ancora stato identificato. Ma soprattutto non si comprende perché, dopo essere stato sorpreso da alcuni vicini di casa, si sia messo a urlare affermando che voleva vedere Silvia. Dunque, prima della fuga, ha provato anche una reazione brandendo un ombrello. Un gesto che sembra quello di un folle, un mitomane, uno squilibrato. Eppure dalla procura fanno sapere che ci sono diverse cose che non tornano, a partire - rivela il Corriere della Sera - dal fatto che conoscesse il piano e la porta dell'appartamento della famiglia Romano.
Da repubblica.it il 15 maggio 2020. Un videomessaggio corale per esprimere a Silvia Romano solidarietà e gioia per la sua liberazione: la comunità dei musulmani d'Italia lo ha pubblicato sulla pagina Facebook “La luce news”, e Silvia Romano, la cooperante milanese liberata dopo un lungo rapimento, ha risposto con un commento in arabo e italiano: "Assalamualaikum wa rahmatullahi, a tutti voi che Allah vi benedica per tutto questo affetto che mi state dimostrando. Grazie a Dio, grazie grazie!!!!! E' bellissimo questo video, è un'emozione grande. Ciao fratelli! A presto in sha Aallah!", ha scritto la ragazza, usando la formula tradizionale del saluto arabo, l'equivalente di "la pace sia con voi". Nel video numerosi cittadini musulmani che vivono in Italia salutano Silvia Romano, che ha spiegato appena rientrata in Italia di essersi convertita e di aver preso il nome di Aisha. Una scelta che è diventata ulteriore bersaglio di insulti e minacce web per la ragazza, tanto che la procura di Milano ha aperto un'inchiesta e le forze dell'ordine vigilano sulla casa in cui abita con la madre e la sorella e in cui sta trascorrendo la quarantena. Nel post si legge: "La giovane cooperante Silvia Romano è tornata domenica in Italia dopo aver vissuto la drammatica esperienza del sequestro in Somalia per 18 mesi per mano del gruppo estremista armato Al Shabab. Il suo ritorno all'Islam le ha attirato non solo critiche ma veri e propri attacchi carichi d'odio e violenza, escalation che ha portato a minacce e ad un inquietante episodio di aggressione nei suoi confronti. I musulmani italiani hanno voluto perciò testimoniare a Silvia tutto il loro affetto, tutta la loro vicinanza e solidarietà con questo video".
Monica Serra per “la Stampa” il 15 maggio 2020. Tre maghrebini sono andati sotto casa di Silvia a farle una serenata. È successo pure questo martedì sera: uno suonava musica islamica alla chitarra, gli altri due cantavano. Erano professionali, sembrava un gesto commissionato da qualcuno per fare un regalo alla cooperante 24enne appena liberata in Somalia dopo diciotto mesi di prigionia. Così l' episodio non ha inquietato la famiglia Romano. Perché, alla fine, non fa male come le minacce e gli insulti social: parole feroci e insensate. E non spaventa quanto la misteriosa incursione di uno straniero nel palazzo, quella stessa sera. O, peggio, come il lancio della bottiglia di birra contro la finestra dei vicini la notte successiva. Per non parlare di quanti, quand' è buio, suonano il campanello o, dalla strada, invocano il nome di Silvia Romano. Tutti episodi che hanno allarmato le istituzioni. Al punto che, ieri pomeriggio, il comitato provinciale per l' ordine e la sicurezza pubblica ha disposto la «vigilanza generica radiocontrollata». Una misura d' urgenza, che sarà ratificata al prossimo incontro ufficiale in prefettura. È la forma più lieve di protezione per garantire la sicurezza della ragazza: la ronda di pattuglie dedicate, di polizia e carabinieri, che passano sotto il palazzo al Casoretto, quartiere multietnico della periferia Nordest della città. Se ci sono movimenti sospetti si fermano, appuntano ogni cosa, la comunicano alla centrale. Se c' è necessità, intervengono. «Per il momento - precisa la prefettura - è una misura assunta in via cautelare: una valutazione dei rischi personali che Silvia corre sarà fatta solo al termine della quarantena di quindici giorni». Magari la decisione riuscirà a ridurre gli episodi preoccupanti. Così come l' inchiesta per minacce aperta dal pm Alberto Nobili - che sta valutando l' aggravante dell' odio razziale - ha attenuato il numero di insulti sui social. Molti commenti sono stati rimossi dagli autori. Per la maggior parte profili fake: in tanti usano come foto la faccia di Mussolini. E tra i giornalisti, come Vittorio Sgarbi, i politici, i poliziotti e i carabinieri, ci sono anche neofascisti, xenofobi ed estremisti che iniziano a essere identificati dagli investigatori del Ros, diretti dal comandante Andrea Leo. Sui social circola di tutto: fotomontaggi della ragazza nuda, o abbracciata a kenioti in spiaggia, becere illazioni e parole volgari. La violenza è inaudita. Alle indagini non risulta, ma è lo zio Alberto Fumagalli a raccontare che a lanciare sul palazzo la bottiglia di birra, che si è infranta sulla finestra dei vicini, sarebbero stati «due ubriachi in scooter alle tre di notte. Mia sorella Francesca li ha sentiti. Urlavano a squarciagola: Silvia!». La signora Fumagalli non avrebbe avvisato la polizia. A chiamarla sono stati i vicini di casa, i signori Parisi, dopo aver trovato i cocci. Sull' episodio indaga la Digos, che sta visionando le immagini delle telecamere del Comune per individuare gli autori del gesto, mentre attende gli esiti delle analisi della Scientifica sui quindici pezzi di vetro repertati. E anche sulla strana «visita» del maghrebino che è entrato nel palazzo per cercare Silvia, ed è stato cacciato da un condomino, qualche novità potrebbe arrivare. La questura ha acquisito le immagini raccolte dalla telecamera di Quarto Grado, piazzata davanti alla finestra di Silvia, che riprendono la fuga dell' uomo. Aveva circa trent' anni, jeans e felpa blu col cappuccio in testa. Intanto, a difendere la giovane cooperante ci pensa anche lo zio, che in un' intervista radio alla Zanzara precisa: «L' Ong che ha mandato Silvia in Africa è di dilettanti allo sbaraglio». Poi, un dettaglio su Silvia: «Lo sapete perché ha aspettato tanto prima di scendere dalle scalette dell' aereo? Perché non volevano che scendesse con quel vestito, ma lei è testarda. Sulla conversione non tornerà indietro».
Quel retroscena su Silvia Romano: "Gli 007 volevano farle togliere il velo". Per la ragazza scatta la vigilanza generica radiocontrollata: "Lei è a rischio". La rivelazione dello zio: "Così ha conquistato i rapitori". Luca Sablone, Venerdì 15/05/2020 su Il Giornale. Lancio della bottiglia di birra contro la finestra, campanello suonato a più riprese, nome urlato ripetutamente sulla strada, minacce e insulti: la situazione che sta vivendo Silvia Romano ha fatto scattare l'allarme. Per la ragazza si temono gravi ripercussioni non solo da un punto di vista fisico, ma anche da quello psicologico. Proprio per questo nel pomeriggio di ieri il comitato provinciale per l'ordine e la sicurezza pubblica ha disposto la "vigilanza generica radiocontrollata": si tratta di una misura d'urgenza che verrà ratificata in occasione del prossimo incontro ufficiale in prefettura. È la forma più lieve di protezione che consentirà alla giovane cooperante, liberata dopo quasi 2 anni di reclusione tra Kenya e Somalia, una maggiore sicurezza: polizia e carabinieri osserveranno e appunteranno ogni cosa, anche i movimenti sospetti nei pressi del palazzo al Casoretto, il quartiere multietnico della periferia Nordest di Milano. Come riportato da La Stampa, la prefettura ha sottolineato che per il momento è da intendersi come una misura presa in via cautelare: "Una valutazione dei rischi personali che Silvia corre sarà fatta solo al termine della quarantena di quindici giorni". E poi c'è l'inchiesta per minacce aperta dal pm Alberto Nobili. Gli insulti ricevuti sui social - dove circolano pure fotomontaggi - pare stiano diminuendo: molti commenti sono stati rimossi dagli autori; in altri casi si trattava di profili falsi. Intanto gli investigatori del Ros, diretti dal comandante Andrea Leo, continuano a tentare di identificare neofascisti, xenofobi ed estremisti.
La bottiglia e il velo. Secondo Alberto Fumagalli sarebbero stati due ragazzi ubriachi in scooter verso le tre di notte a lanciare una bottiglia contro le finestre dell'abitazione della 25enne: "Mia sorella Francesca li ha sentiti. Ma non abbiamo paura, figurati se Silvia ha paura dopo quello che ha passato". Le immagini delle telecamere del Comune sono al vaglio della Digos, che sta lavorando per individuare gli autori del gesto; nel frattempo si attendono anche gli esiti delle analisi della Scientifica sui 15 pezzi di vetro rinvenuti. Lo zio della giovane però, intervenuto ai microfoni de La Zanzara su Radio 24, ha assicurato: "Tutto è sotto controllo, ma credo sia una cretinata, non è un gesto dimostrativo, ma un gesto di due ubriaconi". Il signor Fumagalli, si legge sul Corriere della Sera, ha inoltre rivelato un retroscena sul vestito indossato dalla ragazza che ha fatto tanto discutere: "Ha 'litigato' per tutto il tempo del viaggio di ritorno con i Servizi perché voleva tenersi la veste islamica e il velo. Quando doveva scendere dall' aereo, e loro le chiedevano di toglierla forse perché faceva più comodo un altro tipo di immagine, ha insistito che avrebbe tenuto quella. Irremovibile". Sono stati mesi lunghi, duri e difficili: nel diario della prigionia di Silvia sono contenuti tutti i racconti di quei drammatici attimi. Ma lo zio ha fatto sapere che i rapitori hanno avuto pieno rispetto nei confronti di sua nipote: "Non le hanno torto un capello. Dice che avevano un atteggiamento protettivo". E infine ha svelato come è riuscita a "conquistare" i rapitori: "Quando è stata consegnata alla banda di rapitori per prima cosa ha chiesto come si scrivevano in arabo i loro nomi e loro, stupefatti, glieli hanno disegnati con i bastoncini sulla terra, mentre calava il sole".
Per Silvia Romano scatta la vigilanza 24 ore su 24. Antonino Paviglianiti il 15/05/2020 su Notizie.it. Lo ha disposto il Prefetto di Milano: sotto casa di Silvia Romano ci sarà sempre una pattuglia presente, 24 ore su 24. Silvia Romano dovrà convivere con la vigilanza speciale. Almeno, al momento è così. Lo ha deciso la prefettura di Milano dopo i recenti fatti di cronaca che hanno coinvolto la cooperante milanese liberata da diciotto mesi di prigionia lo scorso 9 maggio. Per la giovane, infatti, non solo insulti e minacce sui social network, ma anche gesti eclatanti. Al Casoretto, nella giornata di mercoledì, sono stati lanciati cocci di bottiglie di vetro contro l’appartamento di Silvia Romano. Inoltre, come riportato dallo zio della cooperante, c’è stata anche gente che ha provato a entrare nel condominio dove abita la famiglia della giovane. Insomma, tanti piccoli segnali che preoccupano la prefettura di Milano. La prefettura di Milano, infatti, ha scelto di innalzare il livello di guardia nei confronti della giovane cooperante dopo quanto avvenuto nei giorni scorsi. Così, è stata stabilita una misura di Vigilanza generica radiocontrollata. Si tratta del primo passaggio delle misure di protezione personali. Successivamente ci sarà la tutela e, infine, se la situazione non dovesse placarsi, toccherà la scorta per Silvia Romano. Da venerdì 15 maggio, dunque, polizia e carabinieri vigileranno la casa dove la giovane vive con la madre e la sorella per l’intero periodo di quarantena al quale è obbligata la cooperante milanese. Continuano le indagini sugli insulti e le minacce rivolti via social a Silvia Romano che hanno portato all’apertura di un fascicolo d’inchiesta in Procura. Al momento non ci sono iscrizioni nel registro degli indagati, mentre si sta valutando se aggiungere l’aggravante di istigazione all’odio razziale. Molti degli insulti infatti, tutti provenienti da account fake così come spiegato dal capo dell’Antiterrorismo Alberto Nobili, sono a sfondo razzista.
IL DIARIO.
Fiorenza Sarzanini per il “Corriere della Sera” il 13 maggio 2020. «Sono Silvia Romano, è il 17 gennaio 2020. Mi appello a voi... Vi imploro... Liberatemi, fatemi tornare a casa». Lo sguardo è fisso, la testa coperta dal velo. Nel video consegnato ad aprile la voce della ragazza è pacata, ma lo sguardo tradisce la disperazione. E nel racconto che Silvia ha consegnato al magistrato Sergio Colaiocco e al colonnello del Ros Marco Rosi, emerge la stessa ansia, anche se lei ripete in continuazione «sto bene, ho avuto paura solo all' inizio, dopo no. Mi trattavano bene». «Qualche giorno prima del rapimento erano venuti a cercarmi due uomini al villaggio di Chakama in Kenya. Quando l' ho saputo non ho dato importanza alla cosa». E invece poi arrivano in quattro con due moto e la portano via. «Il viaggio nella giungla è stato tremendo. Le moto si sono rotte subito e quindi abbiamo continuato a piedi per un mese. Mi hanno tagliato i capelli perché dovevamo passare in mezzo ai rovi. Ero terrorizzata. Faceva caldo, ma poi la notte c' era freddo e dormivamo all' aperto. Mi hanno dato i vestiti e anche alcune coperte. Abbiamo dovuto attraversare un fiume. Il fango mi arrivava alla vita. Dopo ho saputo che siamo stati in cammino un mese».
Quando arrivano nella prima casa Silvia è stremata.
«Mi hanno chiuso in una stanza, dormivo su un pagliericcio. Mi davano da mangiare e non mi hanno mai trattata male, non sono stata incatenata o picchiata. Non sono stata violentata. Però ho chiesto un quaderno. Volevo tenere il tempo, capire quando era giorno e quando scendeva la notte. Volevo scrivere tutto. Ho chiesto anche di poter leggere, libri».
Le portano un computer non collegato e un quaderno.
«Volevo pregare e mi hanno messo il Corano scritto in arabo e in italiano. Mi hanno anche dato dei libri. Ero sempre da sola e a un certo punto mi sono avvicinata a una realtà superiore. Pregavo sempre di più, passavo il tempo a studiare quei testi. Ho imparato anche un po' di arabo». In quel momento la conversione è già cominciata. Silvia ne parla con il suo carceriere che conosce l' inglese, quello che «per me era il capo». E alla fine c' è anche lui quando si celebra la shahada , la cerimonia per l' adesione all' Islam. Lei recita la formula e in quel momento si converte. «Pregavo e guardavo video. Mi mettevano filmati su quello che accadeva fuori, li prendevano da Al Jazeera. Io vivevo chiusa nella stanza ma sentivo vociare fuori e il richiamo del muezzin. Questo mi ha fatto pensare che fossero caseggiati, erano villaggi con altre persone anche se io ho visto soltanto i sei uomini che mi tenevano prigioniera. Erano divisi in due gruppi da tre. Non ho mai visto donne». Le fanno cambiare rifugio e ogni viaggio lo fa a piedi «oppure sui carretti, qualche volta abbiamo usato la macchina. Sono sempre stata nelle case, chiusa in una stanza». Per due volte sta male, tanto male. «Avevo dolori forti e la febbre, hanno fatto venire il dottore e mi hanno curata. Mi hanno sempre dato da mangiare, se la sera eravamo in viaggio per i trasferimenti e faceva freddo mi davano le coperte». Lentamente Silvia si abitua a stare con i suoi carcerieri. «Non li ho mai visti perché entravano con il volto coperto, però ormai li riconoscevo dalla voce anche se parlavano solo arabo». I video li gira invece davanti a un telefonino. Sono tre, cambia la data ma il testo che le fanno recitare è lo stesso. Lei annota tutto sul diario. «Volevo sapere la data, volevo sapere quanto tempo passava». All' improvviso entra l' uomo che parla inglese. «Mi disse che l' operazione era finita, che mi liberavano. Dopo qualche giorno è venuto a prendermi. Mi ha fatto salire su un carretto trainato da un trattore. Sopra c' era un tavolo. Il viaggio è durato tre giorni e due notti. per dormire mi sono messa sotto il tavolo con le coperte». Arrivano all' appuntamento con chi deve prenderla in consegna, lei sale su una macchina. «C' erano due uomini, erano somali. Abbiamo fatto un tratto che non è durato tanto». Sono circa 30 chilometri. La portano prima in un compound militare, poi la trasferiscono nell' ambasciata italiana a Mogadiscio.
La riceve l' ambasciatore Alberto Vecchi. Quando entra nella sede diplomatica Silvia indossa gli abiti delle donne somale e una lunga tunica. Ha il volto coperto. le chiedono se ha desideri. Chiede di mangiare una pizza. Mentre preparano la cena le viene chiesto se vuole cambiarsi, se ha bisogno di altri abiti. Lei sorride e risponde sicura: «No, sto bene così. Adesso mi chiamo Aisha, tornerò in Italia con questi vestiti. Continuerò a tenere il velo. Ne parlerò poi con mamma». Quando scende dalla scaletta sorride e vola ad abbracciare i genitori e la sorella. «Sto bene fisicamente e psicologicamente», ripete.
Il "diario" della prigionia di Silvia Romano, dal mese nella giungla all’Islam: “Non sono stata violentata”. Redazione su Il Riformista il 13 Maggio 2020. “Mi hanno chiuso in una stanza, dormivo su un pagliericcio. Mi davano da mangiare e non mi hanno mai trattata male, non sono stata incatenata o picchiata. Non sono stata violentata. Però ho chiesto un quaderno. Volevo tenere il tempo, capire quando era giorno e quando scendeva la notte. Volevo scrivere tutto. Ho chiesto anche di poter leggere, libri”. È questo parte del racconto che Silvia Romano, la cooperante 24enne liberata venerdì scorso dopo oltre 500 giorni di prigionia a seguito del suo rapimento, avvenuto il 20 novembre 2018 in Kenya, ha consegnato durante l’interrogatorio avvenuto domenica davanti al magistrato della Procura di Roma Sergio Colaiocco e al colonnello del Ros Marco Rosi. Silvia è tornato sui 18 mesi vissuti con i suoi rapitori, il gruppo terrorista somalo al-Shabab. I momenti immediatamente successivi al rapimento sono i peggiori, con il “tremendo” viaggio nella giungla, le moto che si rompono subito costringendo Silvia e i rapitori a continuare a piedi “per un mese”. La ragazza racconta di come i terroristi le hanno tagliato i capelli “perché dovevamo passare in mezzo ai rovi“. “Ero terrorizzata. Faceva caldo, ma poi la notte c’ era freddo e dormivamo all’aperto. Mi hanno dato i vestiti e anche alcune coperte. Abbiamo dovuto attraversare un fiume. Il fango mi arrivava alla vita. Dopo ho saputo che siamo stati in cammino un mese“, spiega nel suo diario della prigionia. Arrivati nella prima casa i suoi carcerieri le portano anche un computer, non collegato alla rete internet, e un quaderno. La 24enne milanese quindi, come spiega il Corriere della Sera, chiede di poter pregare: “Mi hanno messo il Corano scritto in arabo e in italiano Ero sempre da sola e a un certo punto mi sono avvicinata a una realtà superiore. Pregavo sempre di più, passavo il tempo a studiare quei testi. Ho imparato anche un po’ di arabo”. È così che inizia la sua conversione all’islam, che culminerà poi nella shahada , la cerimonia per l’ adesione all’Islam, e con il cambio del suo nome in Aisha. Quanto ai suoi carcerieri di al-Shabab, dal racconto di Silvia la conferma di non averne mai visto il volto. Quello che la volontaria considera “il capo” conosceva l’inglese, mentre a sorvegliarla era un gruppo di “sei uomini”, divisi in due gruppi da tre, senza alcuna presenza femminile. “Non li ho mai visti perché entravano con il volto coperto, però ormai li riconoscevo dalla voce anche se parlavano solo arabo”, conferma a Colaiocco Silvia, che racconta anche dei due periodi peggiore della prigionia. In due occasioni infatti la ragazza si sentirà male: “Avevo dolori forti e la febbre, hanno fatto venire il dottore e mi hanno curata. Mi hanno sempre dato da mangiare, se la sera eravamo in viaggio per i trasferimenti e faceva freddo mi davano le coperte”, spiega la volontaria. Oltre 500 giorni dopo il rapimento arriverà quindi la liberazione, frutto di un estenuante e faticoso lavoro di intelligence dei servizi segreti italiani con la collaborazione dei colleghi turchi e somali. A comunicare a Silvia il rilascio è il carceriere che parla inglese. “Mi disse che l’operazione era finita, che mi liberavano. Dopo qualche giorno è venuto a prendermi. Mi ha fatto salire su un carretto trainato da un trattore. Sopra c’era un tavolo. Il viaggio è durato tre giorni e due notti. per dormire mi sono messa sotto il tavolo con le coperte”. La cooperante viene consegnata a due uomini somali a bordo di un’auto, dopo trenta chilometri l’arrivo in un compound militare e quindi l’arrivo all’ambasciata italiana, dove ad aspettarla c’è l’ambasciatore Alberto Vecchi.
Il diario della prigionia di Silvia Romano: “Vi imploro, liberatemi”. Antonino Paviglianiti il 13/05/2020 su Notizie.it. Il diario di Silvia Romano, la cooperante milanese rapita nel novembre 2018 e liberata a maggio 2020. Silvia Romano, durante la sua prigionia, ha affidato i propri pensieri, i propri timori e le proprie speranze alle pagine di un diario. Nei diciotto mesi lontani da casa, da novembre 2018 a maggio 2020, la paura più grande era quella di non tornare più a casa: “Vi prego – si legge in uno dei tanti passaggi del diario di prigionia – liberatemi. Vi supplico!” Questo messaggio è del 17 gennaio 2020, dopo un anno pieno di carcerazione. E fa emergere tutta la paura di Silvia Romano che – stando a quanto sostenuto da chi l’ha interrogata domenica 10 maggio – soffre di stati d’ansia e non è per nulla tranquilla. L’incubo per la giovane cooperante, come si legge nel suo diario, è iniziato così: “Qualche giorno prima del rapimento erano venuti a cercarmi due uomini al villaggio di Chakama in Kenya. Quando l’ho saputo non ho dato importanza alla cosa”. Ma è il segnale che qualcosa stava per succedere. Nel diario di Silvia Romano si legge il primo viaggio da rapita: “Il viaggio nella giungla è stato tremendo. Le moto si sono rotte subito e quindi abbiamo continuato a piedi per un mese. Mi hanno tagliato i capelli perché dovevamo passare in mezzo ai rovi. Ero terrorizzata. Faceva caldo, ma poi la notte c’era freddo e dormivamo all’aperto. Mi hanno dato i vestiti e anche alcune coperte. Abbiamo dovuto attraversare un fiume. Il fango mi arrivava alla vita. Dopo ho saputo che siamo stati in cammino un mese”. Al suo arrivo nel primo covo dove i rapitori l’hanno tenuta, Silvia Romano racconta cosa ha provato: “Mi hanno chiuso in una stanza, dormivo su un pagliericcio. Mi davano da mangiare e non mi hanno mai trattata male, non sono stata incatenata o picchiata. Non sono stata violentata. Però ho chiesto un quaderno. Volevo tenere il tempo, capire quando era giorno e quando scendeva la notte. Volevo scrivere tutto. E sulla conversione, nel diario di Silvia Romano si legge come tutto sia iniziato perché voleva leggere qualcosa: “Volevo pregare e mi hanno messo il Corano scritto in arabo e in italiano. Mi hanno anche dato dei libri. Ero sempre da sola e a un certo punto mi sono avvicinata a una realtà superiore. Pregavo sempre di più, passavo il tempo a studiare quei testi. Ho imparato anche un po’ di arabo”. I rapitori le mostravano video “su quello che accadeva fuori, li prendevano da Al Jazeera. Io vivevo chiusa nella stanza ma sentivo vociare fuori e il richiamo del muezzin. Questo mi ha fatto pensare che fossero caseggiati, erano villaggi con altre persone anche se io ho visto soltanto i sei uomini che mi tenevano prigioniera. Erano divisi in due gruppi da tre. Non ho mai visto donne”. Nelle pagine del diario di anche il racconto di quando ha scoperto di essere salva: “All’improvviso entra l’uomo che parla inglese. Mi disse che l’operazione era finita, che mi liberavano. Dopo qualche giorno è venuto a prendermi. Mi ha fatto salire su un carretto trainato da un trattore. Sopra c’era un tavolo. Il viaggio è durato tre giorni e due notti. per dormire mi sono messa sotto il tavolo con le coperte”. E sulla consegna racconta: “C’erano due uomini, erano somali. Abbiamo fatto un tratto che non è durato tanto”. Fino ad arrivare all’ambasciata italiana: “Sto bene fisicamente e psicologicamente, adesso mi chiamo Aisha”.
IL RUOLO DEI TURCHI.
Estratto dell’articolo di Francesco Grignetti per “la Stampa” il 12 maggio 2020. […] Nel frattempo gli 007 la cercavano tra mille difficoltà. Per fortuna, a Mogadiscio le nostre forze armate hanno un agguerrito contingente di 200 istruttori tra carabinieri, paracadutisti e varie altre specialità. Il loro lavoro quest'anno è stato doppio, dovendo istruire i somali e fare da scorta agli agenti dell'Aise. Nonostante ciò, i limiti erano evidenti. Raccontano le voci di dentro: «In un territorio fuori controllo come la Somalia, dove c'è una guerra non dichiarata, un occidentale non può muoversi inosservato. Occorre trovare il mediatore giusto». Sottolineano l'aggettivo: «Ci sono tanti sciacalli e velleitari». Tra quelli che si sono proposti all' Aise, pure un italiano famoso che da qualche anno si è trasferito in Somalia: quel Mario Scaramella, già consulente della Commissione Mitrokhin, oggi direttore della scuola di diritto dell' Università Statale del South West, che vanta buone entrature, ma il cui attivismo non è stato gradito. […]
Silvia Romano, retroscena sulla liberazione: oltre alla Turchia spunta il Qatar e i Fratelli musulmani. Libero Quotidiano il 13 maggio 2020. Emergono nuovi dettagli sulla liberazione di Silvia Romano, la giovane cooperante tenuta in ostaggio per un anno e mezzo dai terroristi somali di Al Shabaab. Nella fase finale infatti è stato cruciale il ruolo del Qatar. Eppure - come riporta Il Giornale - l'Emirato non è mai stato neutrale nell'ambito dei rapporti con lo jihadismo e il terrorismo. Lo stesso Dipartimento del Tesoro americano segue i finanziamenti usciti dalle casse dell'Emirato e destinati a quelli di Al Qaida prima e dello Stato islamico poi. Non solo, perché nel 2012 le forze speciali francesi, mandate a preparare l'intervento nel Mali occupato dalle cellule jihadiste, scoprirono che l'Emirato era tra i grandi sostenitori del nemico. Oltretutto Doha (capitale del Qatar) risulta essere anche la grande finanziatrice delle moschee legate ali Fratelli musulmani (una delle più importanti organizzazioni islamiste internazionali ndr). Come se non bastasse - prosegue il quotidiano di Alessandro Sallusti - il Qatar è anche il grande alleato della Turchia nella partita libica. In conclusione, ad ogg sia Ankara che Doha puntano a tagliarci fuori dallo scenario libico in modo da annullare qualsiasi dipendenza di Tripoli dall'Europa e dall'Occidente e garantirsi l'egemonia dei gruppi islamisti legati alla Fratellanza.
Silvia Romano, servizi segreti americani esclusi dall'Italia: "Avrebbero incenerito i terroristi anziché trattare". Libero Quotidiano il 12 maggio 2020. Perché, oltre ai servizi segreti della Turchia, non risulta che l’Italia abbia chiesto aiuto agli Stati Uniti, più che operativi in Somalia, per liberare Silvia Romano? È la domanda alla quale Il Giornale offre una risposta piuttosto convincente. “L’appoggio agli americani - scrive Fausto Biloslavo - è stato evitato o chiesto solo in parte perché la linea di Washington è di incenerire i terroristi con i droni piuttosto che trattare per liberare gli ostaggi”. Di conseguenza non sarebbero stati utili gli 007 a stelle e strisce per l’intento dell’Italia, che è stato quello di ottenere la liberazione tramite il pagamento di un riscatto da 4 milioni di dollari. “I turchi sono serviti per la linea morbida - si legge su Il Giornale - mentre il Pentagono avrebbe proposto un blitz armi in pugno. Il comando americano di Africom ha fatto fuori circa 800 terroristi e civili in 110 raid dal cielo dall’aprile 2018”. Neanche a farlo apposta, uno degli ultimi bersagli centrati è un comandante degli Al Shabaab, il gruppo che ha sequestrato la 25enne milanese.
Felici per Silvia Romano, un po’ meno per il ministro degli Esteri Di Maio. Toni Capuozzo il 10/05/2020 su Notizie.it. La generosità di una giovanissima ragazza va capita, apprezzata e sempre difesa. Ma è il caso di raccontare alcuni retroscena della liberazione di Silvia Romano. Non viviamo nel paese dei balocchi, e anche il lieto fine della favole non può essere privo di lati oscuri. È triste vedere molti commenti perplessi sulla liberazione di Silvia Romano, che va accolta con gioia, anche perché libera un po’ noi tutti dal peso opprimente, nei media e nelle nostre teste, di Covid 19. Altra cosa, ma per favore in un altro momento, sono i discorsi sul volontariato fai da te. Sarebbe costato di più, forse, preparare e pagare un’educatrice locale a seguire quei bambini kenjoti, ma avrebbe aggiunto una busta paga alla misera economia locale. Possiamo però permetterci di dire che la generosità di una giovanissima ragazza va capita, apprezzata, e comunque difesa? Sì, i soldi del riscatto poi li paghiamo tutti. E quanto vale una vita? Quanto sarebbe stato bello poter pagare per Fabrizio Quattrocchi, per padre dall’Oglio, per Enzo Baldoni…. Lasciamo perdere gli odiatori di destra, speculari a quelli di sinistra (ricordate il ricovero di Boris Johnson, o quello di Bertolaso?), forse è il caso di raccontare alcuni retroscena della liberazione. Non l’ammontare del riscatto che si conosce, ormai, ma su cui è meschino fare i conti. Ma il ruolo dei servizi di intelligence turca, cui dobbiamo essere grati. Badate bene: la Turchia di Erdogan, che lascia morire in carcere musicisti, che arresta giornalisti, combatte i curdi…. Non esattamente i lancieri bianchi della democrazia. Nel 2017 la Turchia ho aperto a Mogadiscio la più grande base militare fuori dai suoi confini nazionali. Una presenza ingombrante, che ha provocato, lo scorso dicembre, un attacco terroristico, che aveva nel mirino degli “ingegneri” turchi, ma ha ucciso almeno un’ottantina di persona, in grande maggioranza studenti e un numero imprecisato di feriti. Curati da medici e infermieri turchi. Ma cosa ci fa la Turchia in Somalia? Più o meno quello che ci fa in Libia. Scalzare la presenza altrui, ad esempio italiana, per affermare il proprio ruolo di potenza regionale, campione di un islamismo radicale – stile Fratelli musulmani – ma non estremo come quello degli Shebaab, i “ragazzi” di Al Qaeda. E ci sta, anche, per fare affari. A gennaio è stato annunciato un accordo per garantire alla Turchia l’esplorazione di risorse energetiche, sula terraferma e in mare, e del resto il porto di Mogadiscio è gestito da una società turca. Qualcosa che ricorda le pretese turche su giacimenti off shore in cui operava l’Eni nel Mediterraneo?). E l’Italia si fa sempre più in là. I più giovani non possono ricordare che fino al 1960, in quanto ex colonia, la Somalia è stata “amministrata” dall’Italia. E qualcuno ricorderà, almeno per aver visto Black Hawk Down che la Somalia è stata teatro di una infelice missione Onu, Restore Hope, nel corso della quale a un posto di blocco nella capitale – il check point PASTA – vennero uccisi tre soldati italiani. Non è che non ci siano militari italiani o uomini dell’intelligence italiana, in Somalia, oggi. Sono loro ad aver chiesto ai turchi di liberare alcuni detenuti di Al Shebaab, quasi come uno scambio di prigionieri, che si è cumulato al riscatto. Felici per Silvia, un po’ meno per il ministro degli Esteri Di Maio.
Francesco Grignetti per “la Stampa” il 12 maggio 2020. È stata una lunga corsa a ostacoli, la liberazione di Silvia Romano, ad opera di una cellula dei servizi segreti che si era trasferita in Kenya 48 ore dopo il rapimento, sperando di chiudere subito la partita assieme alle forze di polizia locali e con droni potenti, proseguita poi in Somalia per quasi un anno e mezzo. Una corsa che non s'è mai interrotta neppure tra silenzi, inganni e false piste. Era l' agosto dell' anno scorso, per dire, quando agli uomini dell' intelligence italiana a Mogadiscio arrivò un video. Una sorta di pizzino di un minuto scarso. Silvia Romano diceva poche parole, aria smunta. Sul momento sembrò che il sequestro fosse sul punto di concludersi. Invece no; quella pista si rivelò vana. Gli agenti però da allora furono forti di una certezza: «Silvia era un ostaggio prezioso». Ci sono stati momenti brutti. La giovane è stata molto male: ha sofferto di malaria o febbre gialla. Intere settimane trascorse da sola con il febbrone, buttata sul giaciglio che le avevano preparato. La conversione all'Islam matura in questa solitudine e disperazione estrema. Nel frattempo gli 007 la cercavano tra mille difficoltà. Per fortuna, a Mogadiscio le nostre forze armate hanno un agguerrito contingente di 200 istruttori tra carabinieri, paracadutisti e varie altre specialità. Il loro lavoro quest'anno è stato doppio, dovendo istruire i somali e fare da scorta agli agenti dell'Aise. Nonostante ciò, i limiti erano evidenti. Raccontano le voci di dentro: «In un territorio fuori controllo come la Somalia, dove c'è una guerra non dichiarata, un occidentale non può muoversi inosservato. Occorre trovare il mediatore giusto». Sottolineano l'aggettivo: «Ci sono tanti sciacalli e velleitari». Tra quelli che si sono proposti all' Aise, pure un italiano famoso che da qualche anno si è trasferito in Somalia: quel Mario Scaramella, già consulente della Commissione Mitrokhin, oggi direttore della scuola di diritto dell' Università Statale del South West, che vanta buone entrature, ma il cui attivismo non è stato gradito. Dopo il video di agosto e il fallimento inaspettato, la cellula dell' Aise che dipende per catena gerarchica dal vicedirettore Giovanni Caravelli (che s' è conquistato la promozione sul campo) è dovuta ripartire, ma con un dettaglio in più. Ha capito che per arrivare all' altro capo del filo occorreva «rivolgersi ai colleghi turchi», ovvero il servizio segreto, il Mit. Un passo indietro: a livello di intelligence, tra Aise e Mit le cose filano a meraviglia. Il direttore uscente Luciano Carta ha coltivato il rapporto con il suo collega Hakan Fidan in nome della comune appartenenza alla Nato, consapevole che i turchi hanno notevolmente esteso la loro rete nel Medio Oriente e nel Corno d'Africa. In effetti Ankara non lo ha deluso. Di qui i pubblici ringraziamenti dal primo minuto. Ma qualcuno ha voluto esagerare. All' Aise non hanno apprezzato la fotografia che il Mit ha voluto far circolare, con Silvia che indossa un giubbotto antiproiettile a marchio turco. La foto suggerisce che il lavoro l' avessero fatto tutto i turchi. E invece no. «Quella foto potrebbe essere un fake - fanno sapere - perché è stata recuperata dagli uomini dell intelligence italiana con quello stesso giubbetto che si vede nella foto, che è dotazione rigorosamente italiana, e che le è stato dato nell' immediatezza senza alcun simbolo». Verissimo, insomma, che grazie alla filiera «turca», attivata a dicembre, dopo poche settimane c' è stato un balzo in avanti nella gestione del rapimento ed è giunto ai nostri 007 un secondo video. Una nuova prova che Silvia era in vita e anche «che si stava trattando con le persone giuste». Assai ingeneroso, invece, sostenere che il lavoro difficile lo abbiano fatto gli altri perché la cellula italiana è stata sul campo, eccome. Per un lavoro d' intelligence alla vecchia maniera. Oltretutto i sequestratori sono stati sempre molto accorti. «Non le hanno mai concesso una telefonata alla madre, come pure aveva chiesto». Pensavano, non a torto, che sarebbe stato facile intercettarli e localizzarli. Alla fine, sono stati gli italiani che l' hanno portata al sicuro nel compound militare di Mogadiscio. E se mai servisse una controprova di quali pericoli si corrono da quelle parti, si racconta che la telefonata con Conte s' è interrotta perché gli insorti sparavano con i mortai e sono dovuti correre tutti ai ripari. «Perché questa è Mogadiscio».
Silvia Romano, la guerra tra gli 007 italiani e quello turchi sulla sua liberazione: quel dettaglio sul giubotto antiproiettile. Libero Quotidiano l'11 maggio 2020. Silvia Romano, liberata dalla prigionia, ha sfoggiato un giubotto antiproiettile con un patch con la bandiera della Turchia. Una foto divulgata dall’agenzia turca Anadolu per celebrare il ruolo svolto dai servizi segreti turchi nell'operazione che ha riportato la cooperante milanese in Italia. Un dettaglio, quello dello "stemma", che la nostra intelligence si è prestata a smentire: Silvia infatti - scrive Il Giornale - sarebbe stata recuperata nella notte tra venerdì e sabato dai nostri 007 “con quello stesso giubbetto che si vede nella foto, che è dotazione rigorosamente italiana e che le è stato fornito nell’immediatezza senza alcun simbolo” e “quindi non è da escludersi che quella foto sia un fake”. Eppure con ogni probabilità i segreti italiani si sono affidati a quelli turchi per cercare di ricostruire gli spostamenti della giovane e, infine, per ottenere la sua liberazione. Ed ecco che ora Recep Tayyip Erdogan è pronto a prendersi i suoi meriti e, quello accaduto oggi non è solo che l'inizio.
La guerra tra gli 007 turchi e italiani sulla liberazione di Silvia Romano. Matteo Carnieletto su Inside Over l' 11 maggio 2020. La “bomba” è stata sganciata oggi dall’agenzia turca Anadolu, che ha pubblicato una foto in cui si vede Silvia Romano mentre, subito dopo esser stata liberata, indossa un giubbotto antri proiettile con, attaccato, un patch raffigurante la bandiera turca. L’articolo, chiaramente una velina gentilmente offerta da Ankara, è molto scarno ed è confezionato solamente per celebrare il ruolo svolto dai servizi segreti turchi nell’operazione che ha portato alla liberazione della cooperante italiana. Servizi segreti che o hanno direttamente scattato la fotografia alla Romano oppure hanno provveduto a modificarla ad hoc, in modo tale da accentuare il lavoro svolto. La versione di Ankara è stata ovviamente smentita dall’intelligence italiana: la cooperante italiana, infatti, sarebbe stata recuperata nella notte tra venerdì e sabato dai nostri 007 “con quello stesso giubbetto che si vede nella foto, che è dotazione rigorosamente italiana e che le è stato fornito nell’immediatezza senza alcun simbolo” e “quindi non è da escludersi che quella foto sia un fake”, fanno sapere i nostri servizi. Che poi precisano: “Gli uomini dell’intelligence italiana che hanno compiuto l’operazione di liberazione sono gli stessi che nel novembre 2018, 48h dopo il sequestro, sono immediatamente stati inviati in territorio keniota dove, in collaborazione con le forze locali, hanno iniziato le operazioni di ricerca anche con l’ausilio di sofisticati droni” e che, “dopo aver avuto contezza del trasferimento della rapita in Somalia, si sono trasferiti stabilmente in quel paese, senza mai interrompere le attività di ricerca, fino all’operazione dell’altra notte, quando, in silenzio e con professionalità, hanno recuperato Silvia Romano”. Molto probabilmente, però, i servizi segreti italiani si sono affidati a quelli turchi per cercare di ricostruire gli spostamenti della giovane e, infine, per ottenere la sua liberazione. Come scrivevamo su queste pagine, infatti, il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha saputo tessere una fitta rete di rapporti con i governi e i gruppi somali che in quest’occasione sono risultati parecchio utili. Ankara è infatti presente nel Corno d’Africa da 19 anni e qui ha creato una rete che tocca i principali snodi politici e commerciali di quest’area. Tutto è iniziato nel 2011, come ricorda l’Agi, “a seguito di una visita del presidente Recep Tayyip Erdogan in una Mogadiscio devastata dalla carestia”. Il Sultano, proprio come cercherà di fare anni dopo in Siria, sfrutta il vuoto di potere che si è creato in Somalia e, grazie all’agenzia per la cooperazione Tika (Turk Isbirligi ve Koordinasyon Idaresi Baskanligi) Ankara fa arrivare a Mogadiscio finanziamenti, avvia progetti di sviluppo e apre scuole, sostenendo il governo del presidente Mohamed Abdullahi Farmajo. Con questa operazione Erdogan cerca di raggiungere due obiettivi: allargare la propria sfera di influenza in Africa e contrastare i Paesi del Golfo rivali: Emirati Arabi Uniti e Arabia Saudita. Come ricorda l’Agi, “le aziende turche gestiscono le rotte aeree e marittime di Mogadiscio e addestrano soldati del governo somalo. Gli sforzi di Ankara per sostenere il governo somalo sono stati premiati lo scorso gennaio con la proposta di Mogadiscio a effettuare esplorazioni petrolifere in acque somale, come annunciato dallo stesso Erdogan il 20 gennaio scorso di ritorno dal vertice di Berlino sulla Libia, altro paese in cui Ankara è fortemente impegnata, anche militarmente, a sostegno del Governo di accordo nazionale (Gna)”. Ma non solo. In seguito allo scoppio della pandemia da Coronavirus, la Turchia ha inviato due carichi di aiuti e dispositivi sanitari in Somalia. Un’ottima occasione per il presidente turco per mostrarsi un valido alleato per Mogadiscio. Come abbiamo visto, il presidente turco è abile a destreggiarsi nel caos politico. E ora che l’operazione per liberare Silvia Romano è andata a buon fine, il Sultano è pronto a giocarsi il suo credito nei confronti del governo italiano. La foto pubblicata oggi da Anadolu potrebbe essere solo il primo asso nella manica di Erdogan.
Dietro le quinte dell’“intelligence”. I retroscena della liberazione di Silvia Romano. Il Corriere del Giorno l'11 Maggio 2020. L’Italia dopo questa liberazione si è messa in un gioco complicato di equilibri e a Washington non piace sicuramente questo espansionismo dell’”intelligence” turca senza una chiare definizione dei ruoli. E’ abbastanza chiaro che questa “operazione” per liberare Silvia Romano non sia molto vista di buon occhio dal comando Usa per l’Africa . Infatti per gli Stati Uniti è essenziale coordinare i due alleati nella Nato, in quanto esistono degli equilibri e delle strategie che non si possono trascurare o ignorare . La liberazione di Silvia Romano sta per diventare un vero e proprio “problema” per le diplomazie occidentali, e soprattutto per i “servizi”. Il suo rilascio sembra avere un solo vincitore dietro le quinte: i servizi della Turchia. Infatti negli ambienti dell’intelligence il coinvolgimento dei “servizi” del governo turco si è subito dimostrato essenziale per la complicata gestione della trattativa tra i sequestratori e l’AISE l’agenzia dei servizi esteri del governo italiano. Il ruolo fondamentale della Turchia emerge chiaramente dalla fotografia fatta circolare non casualmente dall’ agenzia di stampa turca Anadolu nelle ultime ore, che mostra Silvia Romano sorridente dopo la liberazione con indosso un giubbotto anti proiettile con i simboli della bandiera turca. Una fotografia che dice e spiega tante cose. E se qualcuno avesse avuto qualche dubbio sul ruolo turco e sull’importanza “politica” di questa liberazione, ci hanno pensato gli 007 di Erdogan a rimuovere ogni dubbio e fare chiarezza. L’operazione era necessaria al Governo italiano per far rientrare in patria una concittadina rapita, ma serviva soprattutto nel mondo dell’intelligence per far capire pubblicamente i nuovi equilibri in quella parte del mondo. Giusto e legittimo farsi qualche domanda. Per quale motivo è stato necessario passare dalla Turchia quando Mogadiscio è ben nota nota per avere rapporti proficui con le nostre unità di intelligence sin dai tempi della decolonizzazione ? E come mai non stati allertati in maniera chiara gli americani della CIA? Ma soprattutto occorrerà capire quale sarà il prezzo politico pagato con questo intervento risolutore dei “servizi” turchi? Domande a cui non è facile rispondere chiaramente, ma per le quali è possibile iniziare ad identificare e tracciare degli scenari partendo da una premessa: in Somalia è andata in corso una vera e propria operazione diplomatica e di spionaggio che ha consentito di portare alla luce un imponente movimento strategico nel territorio somalo. E’ questo quindi il primo punto su cui ragionare per cercare comprendere perché l’Italia ha di fatto dovuto delegare l’operazione alla National Intelligence Organization meglio nota come Mit (il “servizio segreto” turco) ed ai “servizi” della Somalia. E come si è pervenuti a questa conclusione è facile capirlo. Una fonte “qualificata” ha rivelato al Fatto Quotidiano il retroscena del dietrofront negli ultimi anni della diplomazia e dell’”intelligence italiana” dal territorio somalo, con l’effetto controproducente che la vecchia rete di rapporti invidiata da tutti ai nostri “servizi”, persino dagli stessi americani della C.I.A. e dai servizi europei, al momento risulta essere completamente depotenziata. Un depotenziamento che coincide con la fine del mandato di capo dei servizi segreti somali di Abdullai Ghafow che era stato “addestrato” anche dagli italiani. Di conseguenza al momento l’Italia conta sempre di meno a Mogadiscio. E non è un caso accidentale che proprio a seguito di questa ritirata che non si può valutare “strategica” sia arrivata in Somalia la forte penetrazione dei “servizi” di un Paese come la Turchia che invece da anni ha avviato un lento e costante processo di inserimento al punto tale tanto che Erdogan ha ormai vestito le vesti di protettore delle sorti internazionali della Somalia. Una presenza che va di traverso soprattutto agli Emirati Arabi Uniti, che invece volevano sfruttare la debolezza politica dell’Africa orientale per entrare in un conflitto politico in cui da un lato c’è la Turchia di Erdogan e dall’altro lato il suo finanziatore occulto: il Qatar . Infatti Roma sembrerebbe aver chiesto anche informazioni ad Abu Dhabi, che però stando ad alcune indiscrezioni, avrebbe chiesto in cambio un ruolo più importante in una partita dalla posta ben più elevata e che riguardava la Libia. Il vero punto punto dolente è infatti proprio la Libia. Perché se è assodato che la Turchia ha dimostrato di poter decidere le sorti della Somalia, è altrettanto veritiero che il prezzo da pagare non riguarderà soltanto l’immagine di un’Italia che si ritira dai territori del Corno d’Africa, ma una possibile e pericolosa contropartita libica. Gli Emirati Arabi avrebbero chiesto all’Italia il cambio di sponda con un appoggio politico internazionale a Khalifa Haftar e non all’avversario libico di Tripoli. La Turchia mentre si trova a convivere difficilmente accanto all’ Italia il sostegno a Fayez al Sarraj, otterrà sicuramente una maggiore libertà operativa in territorio libico. Va ricordato però che “operazione Irini” permettendo al momento si nota la presenza solo di una nave francese nelle acque del Mediterraneo. Questo complicato incrocio di servizi e diplomazia tra l’ Italia e la Turchia ovviamente non poteva non coinvolgere gli Stati Uniti e gli inglesi del Regno Unito che sembrano non aver assolutamente condiviso le decisioni assunte dal Governo italiano con quello turco ad Ankara. Secondo il quotidiano La Repubblica il Governo italiano si aspetta nei prossimi giorni una richiesta di chiarimenti ed informazioni dagli alleati Usa. E’ abbastanza chiaro che questa “operazione” per liberare Silvia Romano non sia molto vista di buon occhio dal comando Usa per l’Africa . Infatti per gli Stati Uniti è essenziale coordinare i due alleati nella Nato, in quanto esistono degli equilibri e delle strategie che non si possono trascurare o ignorare. Come si fa giustificare il pagamento del riscatto milionario a dei terroristi affilati ad Al Qaeda che gli americani bombardano sempre maggiore intensità con i loro caccia e droni da qualche anno? E soprattutto vogliono capire il presunto scambio di favori in Libia quando gli stessi americani dubitano sia dell’interventismo turco che della leadership di Sarraj? L’Italia dopo questa liberazione si è messa in un gioco complicato di equilibri e a Washington non piace sicuramente questo espansionismo dell’”intelligence” turca senza una chiare definizione dei ruoli. In particolar modo se a guidare il gioco è una persona come Erdogan che ha dimostrato più volte di non voler seguire e rispettare la linea guida dalla Nato in Siria così come anche nel Mediterraneo orientale. La foto di Silvia Romano con il giubbotto antiproiettili scattata sabato 9 maggio qualche secondo dopo la liberazione di Silvia Romano in Somalia, mostra l’ostaggio italiano a bordo di un veicolo mentre indossa un giubbotto antiproiettile con al centro il simbolo turco della Mezzaluna e la stella. L’immagine fotografica è stata diffusa dall’Agenzia di stampa turca Anadolu, ed è un documento fornito da Ankara in modo ufficiale. Così è stato anche pubblicato da molti altri media turchi, fra cui la Trt, la televisione di Stato, citando sempre l’Anadolu. Fonti dell’ Aise, l’Agenzia informazioni e sicurezza esterna, dl Governo italiano, hanno successivamente fatto circolare una versione differente: “Silvia Romano è stata recuperata dagli uomini dell’intelligence italiana con quello stesso giubbetto che si vede nella foto, che è dotazione rigorosamente italiana, e che le è stato fornito nell’immediatezza senza alcun simbolo, quindi non è da escludersi che quella foto sia un fake“. Il “non è da escludersi” è una maniera subdola di smentire senza alcuna ufficialità. Un Paese serio a parere nostro una smentita la fa secca e chiara. Quando dice la verità!
L’ombra di Erdogan dietro la liberazione di Silvia. Lorenzo Vita su Inside Over il 10 maggio 2020. La liberazione di Silvia Romano è un risultato fondamentale di tre fattori: lavoro di intelligence, opera di diplomazia e capacità operative sul campo in uno dei teatri più difficile del mondo, il Corno d’Africa. Un’operazione che si è svolta all’alba del nove maggio a trenta chilometri da Mogadiscio, in Somalia, e che è il completamente di un lavoro cominciato subito dopo le 19.30 del 20 novembre del 2018, quando la cooperante italiana venne rapita da una banda armata nel villaggio di Chakama in Kenya. Le cose hanno subito una decisa accelerazione nel novembre dell’anno scorso, quando i servizi segreti italiani hanno avuto la certezza che Silvia Romano fosse viva. Una sicurezza che ha permesso al numero uno dell’Aise, Luciano Carta, di muovere le pedine definitive nelle scorse settimane, con l’invio dei suoi uomini a Nairobi, in Kenya. Il contatto era quello giusto, spiegano le fonti di Repubblica, tanto che in pochi giorni è arrivata la svolta per il negoziato. L’appuntamento viene fissato nella notte tra l’8 e il 9 maggio sotto la pioggia battente di Mogadiscio. E mentre nella capitale somala esplodevano colpi di mortaio, non lontano dalla sua periferia avveniva lo scambio per riavere Silvia. Uno scambio che indica due elementi che hanno rappresentato da sempre i binari del lavorio degli 007 italiani. Da una parte la questione dei soldi: perché quello di Silvia Romano era stato da subito un sequestro a scopo di estorsione. Dall’altro lato, non va sottovalutato un fattore essenziale mai taciuto nemmeno dalle prime agenzie di stampa, ma anzi quasi volutamente ribadito dalle fonti dei servizi: l’apporto dell’intelligence turca. Un elemento importante perché fa comprendere quanto profondo sia il radicamento della Turchia nel Corno d’Africa: un tempo territorio “di caccia” delle potenze europee, con l’Italia in prima linea grazie ai contatti ereditati dal fu impero coloniale, e che ora si trova al centro di una guerra che ha tutto il sapore mediorientale. Lo Stato africano è un complesso ginepraio di interessi strategici e di lotte per il controllo del territorio. I signori della guerra, i pirati, bandi di predoni, i terroristi di Al Shabaab e un governo fragile fanno da sfondo a una vera e propria sfida per il controllo delle aree del Paese. Gli Emirati Arabi Uniti hanno da tempo avviato una loro politica di penetrazione nella parte settentrionale, quella che si affaccia sul Golfo di Aden. Mentre più a Sud, nella capitale Mogadiscio, è con i turchi che bisogna trattare. E gli italiani lo sanno benissimo.
Recep Tayyip Erodgan è stato uno dei primi leader mediorientali e mondiali a intessere rapporti estremamente proficui con i governi somali. E ha saputo sfruttare la debolezza degli esecutivi per imporre la propria agenda. Il sogno neo ottomano del sultano si costruisce su solide basi storiche che non possono non tener conto che i contatti tra la Sublime Porta e il mondo africano arrivavano proprio fino al Corno d’Africa. Ed è così che tra aiuti economici, investimenti, basi militari e contatti con il mondo islamico locale (non estraneo anche alla Fratellanza musulmana), Erdogan ha di fatto reso la Somalia un avamposto della strategia turca. E ancora una volta l’Italia ha dovuto avere a che fare con gli agenti di Ankara: come nel Mediterraneo orientale e a Tripoli, dove ormai sembra impossibile non coinvolgere anche gli uomini del Sultano. La tattica sembra non troppo diversa da quella adottata in Libia: si lascia che la guerra faccia il suo corso, si penetra fra le macerie ripercorrendo i confini dell’antico impero ottomano, si utilizzano le vie della cooperazione, dello sfruttamento energetico e del retroterra culturale, e infine arrivano i militari. Una presenza, quella turca, che ha scatenato da tempo i terroristi di Al Shabaab, che hanno più volte preso di mira lavoratori e unità inviate da Ankara per inviare un segnale a Mogadiscio ma soprattutto al governo turco. Il lieto fine del rapimento di Silvia Romano è in realtà il segnale eloquente di questa realtà. Come in Libia così in Somalia, quelle che un tempo erano colonie italiane – e con cui Roma aveva necessariamente rapporti eccellenti anche una volta diventata indipendenti – ora sono territorio in cui è l’influenza turca a prevalere. Ed è a tutti gli effetti una vittoria di Erdogan: l’unico leader a sapere mantenere e rafforzare i rapporti del proprio Paese nel mono africano confermandosi nella sua strategia neo-ottomana e grazie a un sapiente gioco di diplomazia, strategia militare e alleanze. E per l’Italia c’è poco da sorridere, a eccezione della vittoria di riavere a casa la nostra ragazza. Tanto è vero che già qualcuno inizia a temere che il favore ricevuto dagli 007 turchi in Somalia possa avere importanti ripercussioni sull’altro teatro dove Ankara e Roma si trovano a dover convivere: Tripoli. E lì un lasciapassare italiano agli interessi turchi potrebbe cambiare radicalmente i piani del nostro Paese. in tutto il Mediterraneo allargato.
IL RAPIMENTO.
Francesco Borgonovo per “la Verità” il 19 maggio 2020. Ora che è tornata in Italia, Silvia Romano può contare su illustri personalità pronte a difenderla. Ad esempio Luciana Littizzetto, la quale, domenica a Che tempo che fa, ha deciso di ringraziarla pubblicamente. «Cara Silvia, cara Aisha, perché tutti abbiamo il diritto di farci chiamare come ci pare, volevo dirti grazie», ha detto. «Grazie per aver resistito un anno e mezzo in mano a gentaglia armata, senza perdere quel bel sorriso che hai. E grazie perché continui a sorridere nonostante le ingiurie, gli sputi di odio e i cocci di bottiglia sulla tua finestra. Tutti vogliono sapere se sei stata costretta a convertirti o è stata una scelta tua, io no, non lo voglio sapere, sono affari tuoi». In realtà, se sia stata convertita a forza o meno, e soprattutto come, è un affare di tutti. Se non altro perché saperlo aiuterebbe a capire meglio che cosa significhi essere sequestrati in uno Stato africano da un gruppo di jihadisti, cosa non esattamente equivalente all' abbracciare una nuova fede dopo un pellegrinaggio estivo. Purtroppo per lei (e in parte anche per l' Italia), Silvia può tranquillamente fare a meno dei solerti difensori presenti sul nostro suolo - specie se retorici e banalotti - ma avrebbe avuto un grande bisogno di qualcuno che la difendesse mentre si trovava in Kenya. E invece lì è stata abbandonata in un luogo oscuro, ostile, pieno di figure ambigue. Ci sono indagini in corso sulla Onlus Africa Milele, di cui abbiamo dato conto nei giorni scorsi, e speriamo vivamente che gli investigatori riescano a chiarire che cosa sia realmente accaduto nei giorni del sequestro. I due «masai con il machete» che avrebbero dovuto proteggere la ragazza, infatti, proprio nel momento in cui i rapitori si sono presentati al suo villaggio erano altrove: uno al fiume l' altro in giro a fare chissà cosa. Toccherà ai Ros capirci qualcosa, ammesso che sia ancora possibile. Non sarà facile uscire dal pantano kenyano, e non per nulla questo caos ha già prodotto conseguenze. Karibuni, una delle Onlus italiane più conosciute e più attive in Kenya, ha scelto di non accettare più volontari nelle proprie sedi nello Stato africano. «Abbiamo deciso di non prendere più volontari», spiega alla Verità Gianfranco Ranieri, presidente dell' organizzazione. «Questo nonostante il nostro livello di sicurezza sia elevato. Da questo punto di vista siamo la Onlus più preparata. Abbiamo tantissimi progetti che si possono vedere sul nostro sito e ovunque abbiamo aumentato le misure di protezione. Abbiamo personale masai a gestire la sicurezza, ed è una garanzia. Ci sono sempre due o tre persone che dormono nei luoghi in cui siamo presenti, e che anche la sera controllano». Karibuni agisce in Africa con molta cautela. È presente in Kenya dal 2004, e ha ottenuto parecchi risultati: «Oggi le scuole che abbiamo costruito ospitano oltre 5.000 ragazzi, 60 persone ricevono ogni mese un salario, serviamo più di 1100 pasti al giorno preparati grazie alla verdura, frutta, uova, prodotti nelle fattorie di Karibuni», dicono i responsabili. «Abbiamo curato 15.000 bambini dalla tungiasi, 300 persone al mese visitate da medici locali del Karibuni medical team e decine di attività avviate con il microcredito». Nonostante questo, e nonostante il radicamento sul territorio, hanno modificato il loro approccio con i giovani che arrivano dall' Italia. «Abbiamo preso questa decisione anche in conseguenza del caos che si è creato», dice Ranieri. «Qui stanno riaprendo locali e ristoranti, gli occidentali spesso sono visti come bancomat che camminano, non solo dai terroristi, ma anche dalla delinquenza comune. Proprio nei giorni scorsi ho avuto un incontro con la polizia locale: se noi costruiamo una piccola caserma si sono resi disponibili a mandare personale». Misure imponenti, che la Onlus Africa Milele non ha preso nei giorni in cui Silvia si trovava nel villaggio di Chakama, a 80 chilometri da Malindi. «Il discorso è diverso per le grandi Ong che hanno un mucchio di soldi. In tutti gli altri casi, i volontari per lo più arrivano con il visto turistico», continua Ranieri. «Si fermano uno o due mesi. Il problema riguarda il luogo in cui vanno e le cose che vanno a fare. Secondo me far giocare dei bambini non è un progetto di cooperazione. Qui i bambini non hanno quasi nulla, hanno tantissima fantasia, sono abituati a giocare anche da soli, senza bisogno che qualcuno li faccia giocare. Quando i volontari vengono da noi, vengono a fare cose, a portare competenze che poi possono essere trasferite alla popolazione locale. Bisogna fare del bene sapendo farlo bene». Già: per portare aiuto bisogna avere le necessarie competenze tecniche, la necessaria esperienza. E a volte anche questa non basta. Quando parla di Chakama, Ranieri si fa serio. A suo dire, quel villaggio è «un puttanaio». Delle ombre su Africa Milele abbiamo detto nei giorni scorsi: referenti che in Italia hanno avuto problemi con la giustizia, polizze che mancavano, tensioni all' interno del gruppo. Il tutto in un luogo già difficile di suo. «Chakama è uno dei centri della coltivazione di marijuana», spiega Ranieri. «È un piccolo villaggio, eppure negli anni sono venuti qui in tanti, e forse bisogna chiedersi come mai arrivino tutti qui». Sì, forse bisogna chiederselo. E bisogna anche chiedersi perché Silvia è stata lasciata da sola in un posto del genere.
Anticipazione da “Oggi” il 20 maggio 2020. «Dopo il nostro rilascio, la sola vista di un niqab mi faceva andare il sangue al cervello», rivela a Oggi Raad Abdul Aziz, l’ingegnere iracheno rapito a Baghdad nel 2004 con Simona Torretta e Simona Pari, come lui cooperanti. «Di Islam non volevo sapere più nulla, non riuscivo nemmeno a parlare arabo in pubblico, mi sono serviti anni per fare la pace con la mia cultura di origine», spiega Aziz, che subito dopo la liberazione si trasferì in Svizzera. In un’intervista esclusiva rilasciata al settimanale Oggi, in edicola da domani, Aziz racconta la sua reazione dopo il sequestro da parte dei guerriglieri iracheni, un’esperienza molto diversa da quella di Silvia Romano. E sulle polemiche che investirono “le due Simone” al loro ritorno, additate per aver detto che mancava loro l’Iraq, dice: «Portavamo aiuti e speranza a un Paese massacrato da anni di embargo e dalla guerra, sentivamo di fare qualcosa di importante e ognuno di noi credeva profondamente in ciò che faceva. Così come immagino ci credesse Silvia, anche se il volontariato e la cooperazione internazionale, fatta di professionisti, sono due realtà molto diverse». Quanto a Simona Torretta e Simona Pari, Aziz racconta di non aver mai perso i contatti con loro: «Entrambe hanno portato avanti con passione il loro lavoro di cooperanti in giro per il mondo. Dopo un periodo in Guatemala, Simona Torretta oggi lavora per l’Onu in Colombia. Simona Pari invece si è sposata, ha una bambina, e dopo alcune missioni in Libano e in Giordania l’ultima volta che ho avuto sue notizie lavorava in Africa con il marito italiano, un funzionario dell’Unicef».
Marco Leardi per davidemaggio.it il 20 maggio 2020. Il rapimento in Kenya con un raid nel villaggio di Chakama. La lunga prigionia in mano ai fondamentalisti islamici. I passaggi di mano, le trattative, le piste seguite dai servizi segreti. Infine la liberazione: dai terroristi sì, ma non dai giudizi. Al suo rientro in Italia, Silvia Romano è infatti diventata oggetto di attenzioni, polemiche e speculazioni spesso ben superiori alla gioia che si sarebbe dovuta riservare alla notizia della sua giovane vita salvata. Parole talvolta di troppo, quelle nei suoi confronti. “Nessuno può giudicare. Nessuno potrà mai sapere quello che ha visto e sopportato questa ragazza“: Stella Pende lo afferma senza giri di parole e lo ribadirà questa sera alle ore 23.30 su Rete4 nello speciale di Confessione Reporter da lei dedicato alla cooperante milanese. La giornalista ripercorrerà la vicenda di Silvia Romano partendo da un colpo di scena inedito che l’ha coinvolta in prima persona e che lei stessa ci anticipa. Nello speciale, la reporter romana proverà a “mettere alcuni punti fermi su questa storia“, senza nascondere il proprio punto di vista. Non a caso, il titolo della puntata sarà “Siamo tutti Silvia”. Anzi no: “tutte”, al femminile, come tiene a precisare. Abbiamo litigato fino ad adesso sul titolo, perché si sono sbagliati: il promo dice "Siamo tutti Silvia", invece sarebbe "Siamo tutte Silvia", al femminile. Ho chiarito in trasmissione che questo è un abbraccio maternale di tutte le donne, di tutte le madri, le mogli e le figlie che, come noi, aspettavano il ritorno di una ragazza di venticinque anni che è stata per quasi due anni sequestrata da pericolosi terroristi. Questo è il senso del mio titolo.
Su Silvia Romano si è già detto tanto; voi che taglio darete allo speciale?
«Mostreremo qualcosa che non ha nessuno: un report che ci è arrivato da un’investigazione fatta da Andrea Crosta dell’Earth League International, un’Ong americana molto famosa che ha fatto delle indagini sui crimini ambientali. Lavorando sui rapporti tra Al-Shabaab e il contrabbando di avorio – perché i terroristi campano anche di questo – Crosta aveva chiesto alle sue fonti somale dove fosse Silvia Romano. Un anno fa, di notte, ricevetti un messaggio che mi diceva dove stava la ragazza. Era una dritta fondata».
Credi che da quel momento si sia sbloccato qualcosa per la liberazione di Silvia?
«Giornalisticamente ci ho riflettuto e credo che questo non dimostri che i servizi italiani o il governo non stessero lavorando bene, ma spieghi cosa significhi passare di mano in mano, da una banda all’altra. Chissà quante volte si sono venduti questa ragazza nell’anno che ha separato quel messaggio dalla sua liberazione. Questo report che ho avuto apre anche il giallo della conversione».
Altro aspetto su cui si è discusso molto. Che idea ti sei fatta?
«Questa ragazza è stata due anni con i somali e magari è stata una volta assieme a un pastore, un’altra con un capo villaggio… Gli Al-Shabaab pagano le persone per nascondere gli ostaggi, non li tengono in casa propria, e magari la sua è stata una conversione arrivata nella quotidianità. E poi, come ci dice giustamente Domenico Quirico (rapito a sua volta nel 2013, ndDM), nessuno può capire quello che ha provato una ragazza sequestrata, lasciata in vari tuguri, privata della libertà. Questo voglio dimostrare. Nessuno può giudicarla!»
Televisivamente, come è organizzata questa puntata?
«Avremo una parte in studio e dei servizi. Abbiamo intervistato anche Alessandra Morelli dell’UNHCR, che è stata l’unica sopravvissuta di un attacco kamikaze di Al-Shabaab e che, quando è tornata in Italia, ha chiesto il silenzio stampa perché non voleva rischiare di essere mal interpretata. Evidentemente sapeva che tutte le donne che sono tornate dai rapimenti, dalle due Simone a Silvia, hanno ricevuto questo trattamento. Come mai non hanno rotto le scatole agli uomini che sono stati liberati in questi mesi e sono tornati con la barba rossa di henné, vestiti da islamici?»
Secondo te ci sono buone speranze per gli altri italiani attualmente rapiti?
«Su Padre Gigi Maccalli, che rapirono in Niger proprio quando io ero lì, c’è stata una prova video del fatto che sia vivo, quindi stanno trattando. I terroristi fanno sempre queste cose: registrano dei video, fanno dire delle frasi agli ostaggi. Ci sono delle trattative… Del resto come ci si spiega che in Italia abbiamo avuto un centesimo del terrorismo jihadista che hanno avuto la Francia, la Spagna o l’Inghilterra? Perché i nostri servizi lavorano bene, è inutile dirlo. Sul caso di Silvia Romano, in puntata parleremo anche del giallo del giubbotto antiproiettile turco: Andrea Margelletti ci dice che sono stati gli italiani ad andare a prenderla. I turchi hanno molto aiutato ma il pick-up l’abbiamo fatto noi. Ho camminato in questo giallo e ho cercato di togliere il velo – è proprio il caso di dirlo – su certi aspetti che nei tremila talk show trasmessi erano stati lasciati aperti. Spero di esserci riuscita, anche se questo rapimento resterà sempre un mistero».
Silvia, retroscena sul villaggio: "Succedevano cose strane lì..." Chakama è il "luogo oscuro" dove avvenne il sequestro. Gianfranco Ranieri della Onlus Karibuni ha dei sospetti. Giovanni Giacalone, Giovedì 21/05/2020 su Il Giornale. Il caso di Silvia Romano ha portato al centro della questione il villaggio di Chakama, dove nel novembre del 2018 avvenne il sequestro. Un luogo precedentemente pressochè sconosciuto ai più, per poi ritrovarsi improvvisamente catapultato al centro dell'attenzione mediatica. Inoltre, potrebbe essere proprio a Chakama una delle "chiavi" per capire alcuni di quegli aspetti ancora avvolti nel mistero sul sequestro della Romano. Abbiamo dunque parlato con Gianfranco Ranieri, imprenditore e "veterano" del Kenya nonchè presidente della Karibuni Onlus che da anni opera nel Paese con una serie di iniziative che vanno dalla costruzione di scuole che ospitano più di 5mila ragazzi, alla coltivazione e produzione di alimenti, alla preparazione di team medici ma anche con decine di attività avviate grazie al micro-credito. Chakama ha assunto un po' dei tratti contrastanti dalle descrizioni mediatiche che ne vengono fatte; un piccolo villaggio spensierato dell'Africa rurale che poi improvvisamente assume le sembianze di un "buco nero" dove può accadere di tutto. È proprio per questo che ci ha incuriosito il suo riferimento al villaggio come “puttanaio”.
Ci potrebbe spiegare cosa c’è realmente a Chakama?
«In realtà non ricordavo di averlo detto, ma se anche l’avessi fatto, vorrei chiarire che non mi riferivo al villaggio in sé, perchè Chakama è uno dei tantissimi che ci sono in Kenya, povero, come ce ne sono tantissimi. Con puttanaio mi riferisco a una situazione precisa sulla quale mi pongo una domanda e cioè perché in tutti questi anni ci sono state alcune onlus italiane, private, che hanno concentrato la loro voglia di solidarietà proprio su questo villaggio? È una cosa strana, perché non è che Chakama sia più povero o più problematico di altri villaggi. E’ un’attrazione strana, particolare».
Tanti soldi, quindi tanti progetti e strutture?
«A Chakama sono stati spesi tanti soldi, ma non si capisce per cosa, visto che oggi nel villaggio è rimasta una piccola scuola costruita da italiani ma presa in carico dal governo kenyota perché altrimenti sarebbe stata chiusa; poi ci sono alcuni bambini sostenuti da una signora italiana. Orfanotrofi non mi risulta che ce ne siano. Mi dica lei se c’è da esserne orgogliosi. Sono dunque soldi che sono stati spesi male, senza una logica, senza un controllo, senza un qualcosa che potesse giustificare questa attenzione, questi impegni, queste raccolte fondi, perché ce ne sono state diverse in Italia per progetti orientati su questo villaggio. Quando dico puttanaio, non mi riferisco alla gente di Chakama, ma a questa stranezza. Ci sono stati anni in cui tutti gli italiani andavano a Chakama ma non si capiva per fare cosa. Chakama è un villaggio come tanti, un classico villaggio africano con un po’ di case, ma non ci sono né bar e neanche ristoranti, come invece ho letto su alcuni giornali».
Dunque la vita di Chakama su quali attività si basa?
«Chakama vive prevalentemente di un po' di agricoltura, di allevamento. Non ci sono coltivazioni intensive, nessun allevamento particolare. E’ come tanti altri villaggi che ci sono qua; c’è un’economia piccola, non c’è turismo perché è fuori da quei circuiti, anche se pian piano alcuni turisti iniziavano a venir portati a Chakama dalla costa. Si vedono situazioni brutte, ma non strane perché sono tipiche di ogni villaggio. Si vedono situazioni di povertà e dunque la gente è più propensa poi ad aprire il portafoglio; c’è Chakama come ce ne sono tanti altri. Il territorio è arido seppur vicino a un fiume che sarà largo cento o duecento metri, a volte in piena per via delle alluvioni, ma in altri periodi c’è mezzo metro d’acqua e si passa a piedi».
Il fiume citato nelle ricostruzioni dove si sarebbe recato uno dei due Masai in quel breve tratto di tempo in cui Silvia venne lasciata da sola?
«Esatto. Quel fiume è un po’ una “deadline”, se fossero riusciti a fermare i sequestratori prima che oltrepassassero il fiume, si sarebbe riuscito a riportare Silvia a casa. Oltrepassando il fiume diventa tutto più complicato perché si passa in una zona boscosa e inizia un territorio che si inoltra poi sempre più verso la Somalia».
Sul sequestro di Silvia Romano che idea si è fatto?
«Silvia è capitata lì per caso; è successo a lei perché era lì in quel momento, ma poteva capitare a chiunque. La cosa però non è stata improvvisata, tenevano d’occhio la situazione; io ne ho visti di questi ragazzi di etnia “Orma” (pastori nomadi originari della Somalia ma insediatisi da tempo in territorio kenyota), tutti molto giovani, erano sia a Malindi che a Chakama. Magari avevano qualcuno nel villaggio che controllava la situazione e vedendo una persona sola si sono mossi. Lì probabilmente c’era un meccanismo già attivo e programmato da tempo. Un’azione del genere non si improvvisa. Tra l’altro a Chakama non c’è neanche il posto di polizia e questo loro lo sapevano, quindi non hanno avuto difficoltà ad attivarsi, sparando anche con le armi, perché hanno tra l'altro causato il ferimento di cinque persone. Oltretutto questo è il primo caso. Io vengo qui da anni e ve lo posso assicurare. Non solo a Chakama, ma in tutta la zona non si sono mai verificati fatti del genere. Episodi di delinquenza ci sono sempre stati, in particolare sulla costa, un po’ come ovunque del resto, ma io mi sento molto più tranquillo qua che in Italia. Purtroppo è stata data un’idea sbagliata di questa zona che è sempre risultata tranquilla».
La onlus con cui lavorava Silvia, la Africa Milele, era nota a Chakama?
«Si certo, a Chakama era conosciuta perché sono bravi a fare marketing via web, via social, però cose concrete se ne sono viste poche. Io sono un imprenditore e abbiamo creato un’associazione con l’obiettivo di dare lavoro e questo significa gestire le cose in un certo modo e con quello che produciamo diamo da mangiare a mille e duecento persone. Loro facevano giocare i bambini, ma questo non è un progetto sociale di cooperazione. I bambini africani sono talmente abituati a non avere nulla che giocano tranquillamente da soli con quello che trovano. Poi sui costi, mandare a scuola un bambino per un anno costa un centinaio di euro; il pasto di un bambino costa sui 40 centesimi di euro. Sarebbe sufficiente andare a vedere i bilanci e chiedere con una certa somma cosa si è fatto, quanti bambini sono stati mandati a scuola, quanti bambini hanno mangiato. Con i numeri e i dati si vede cosa si è lasciato di concreto. Occupandomi del settore, mi dà fastidio che si parli della cooperazione italiana in quel modo lì (Africa Milele) quando ci sono fior di organizzazioni che lavorano in modo serio. Non è un'immagine piacevole per l’Italia e se ne sta tra l’altro parlando tanto su giornali e telegiornali».
Da liberoquotidiano.it il 19 maggio 2020. Emergono dettagli sempre più agghiaccianti sul rapimento di Silvia Romano e sulla onlus che l'ha mandata allo sbaraglio in Kenya per prendersi cura dei bambini dell'orfanotrofio. Dopo la perquisizione dei carabinieri del Ros nella sede di Africa Milele, Le Iene aggiungono informazioni a quello che risulta tutt'ora un mistero: perché la giovane milanese è stata rapita dal gruppo terroristico di Al Shabaab? La diretta interessata aveva più volte ribadito che il masai chiamato a proteggerla, nonché marito di Lilian Sora (fondatrice dell'associazione), non fece nulla dopo l'arrivo di due uomini che la cercavano nel villaggio. Ma i dubbi investono anche altri personaggi come Tiziana Beltrami che, sempre per Le Iene, "a Malindi gestisce insieme con il marito Roberto un notissimo ristorante e locale da ballo, il Karen Blixen, che è diventato un punto di ritrovo per la movida malindina e in particolare per gli italiani". Ma sulla donna, che è "anche la referente logistica de facto di Africa Milele", pesa un passato non del tutto limpido. Nel 2016 infatti le sarebbe stato "contestato il concorso in truffa aggravata per due episodi che ammontano ad una cifra di circa centomila euro". Ma di punti oscuri ce ne sono a iosa. Uno in particolare, perché nove giorni prima del rapimento, Silvia sarebbe andata a Malindi per sporgere una denuncia per pedofilia. Le Iene parlano di un prete, forse un pastore, che avrebbe avuto rapporti con le ragazzine del villaggio in cui operava la 24enne. "Palpeggiamenti, strusciamenti, cose assolutamente non consone per nessuno, soprattutto per un prete - aveva raccontato alla trasmissione di Mediaset un altro volontario -.. All’inizio me ne sono accorto solo io, e poi l’ho detto a Silvia e all’altra volontaria, e siamo stati tutti più attenti. Abbiamo visto le ragazzine che entravano nella stanza di quest’uomo e ci stavano pochissimo, due, tre, cinque minuti. Non so fino a che punto arrivasse, però atti pedofili c’erano eccome". Punti bui che potrebbero scoperchiare un vero e proprio scandalo e far chiarezza su quanto davvero accaduto.
Giulio Melis per iene.mediaset.it del 21 giugno 2019. Perché Silvia Romano è stata rapita? Forse perché in Kenya ha assistito a episodi di violenza sessuale? Iene.it ha raccolto in esclusiva la testimonianza di un volontario che ha accompagnato Silvia Romano a sporgere una denuncia alla polizia di Malindi. Era l’11 novembre, nove giorni prima del rapimento. “Ho visto atti di pedofilia su bambini di tre, cinque, dieci anni… Io a questo qua lo volevo ammazzare”. Il volontario, che lavorava per Africa Milele con Silvia Romano, oggi si trova in Italia e ci chiede di rimanere anonimo. Avrebbe assistito a questi episodi quando si trovava a Chakama, il villaggio dove è stata rapita la giovane milanese. “Me ne sono accorto subito appena arrivato, attorno al 7-8 novembre”, continua il volontario. “Attirava i bambini con le classiche cose: caramelle, monetine... Lui non era stupido, aveva capito che ce ne eravamo accorti”. “Lui” è un pastore anglicano che in quei giorni si trovava a Chakama in qualità di prete e di commissario d’esame per la scuola, e veniva chiamato da tutti “Father”. “Un giorno gli ho strappato una bambina dalle mani”, ci svela il ragazzo. “E in quel momento con me c’era anche Silvia”. A confermare che la volontaria italiana sarebbe stata testimone di un episodio di pedofilia è Tiziana Beltrami, una donna laziale che a Malindi gestisce insieme al marito Roberto un notissimo ristorante e locale da ballo, il Karen Blixen, che è diventato un punto di ritrovo per la movida malindina e in particolare per gli italiani. Tiziana Beltrami è anche la referente logistica de facto di Africa Milele, nonostante da statuto non abbia alcun ruolo ufficiale. Il suo locale, il Karen Blixen, è stato infatti in questi anni il punto di arrivo dei materiali spediti per aiutare le popolazioni locali, nell’ambito di quello che viene definito “un ponte solidale Italia-Kenya”. Gli aiuti mandati ad Africa Milele per mezzo del ristorante-pizzeria Karen Blixen sono vari: dai farmaci all’abbigliamento per bambini, fino al materiale ospedaliero. La Beltrami pubblicizza il suo impegno a favore di Africa Milele anche sulla pagina Facebook del ristorante, dove posta numerosissimi messaggi con le foto dei prodotti arrivati al Karen Blixen, destinati a ospedali, missioni e orfanotrofi. Post e immagini che da qualche tempo sono stati cancellati, ma che noi di Iene.it siamo in grado di farvi vedere, e che trovate nella gallery qui sotto. Tiziana Beltrami raccontava del suo ruolo chiave in Africa Milele anche in un audio-messaggio in cui, rivolgendosi a una nuova volontaria della onlus, parlava del sequestro di Silvia Romano, come potete ascoltare qui: “Purtroppo il direttivo di Africa Milele ha deciso di tenere il silenzio stampa", spiega la Beltrami su WhatsApp, "e io sono l’unica persona di riferimento per Africa Milele, sono quella che sta qui lavorando per Africa Milele, sono la custode di alcune cose di Africa Milele, di Silvia, etc.”. E sono diverse le fotografie che ritraggono Tiziana Beltrami nel villaggio di Chakama e in altri villaggi della zona, impegnata insieme alla presidentessa di Africa Milele, Lilian Sora, a distribuire pacchi alla popolazione locale. Tiziana Beltrami conosceva personalmente Silvia Romano, come dimostra questa fotografia postata su Facebook da un altro volontario. È ancora Tiziana Beltrami in un audio messaggio su WhatsApp a raccontare della denuncia per pedofilia, che Silvia avrebbe provato a presentare alla polizia di Malindi. “Silvia quando è arrivata [in Kenya, dopo che era rientrata in Italia, ndr.] è andata direttamente ad Africa Milele. È tornata a Malindi l’11 novembre per fare una denuncia di pedofilia”. Nove giorni prima del rapimento, quindi, la Beltrami dice che appena arrivata in Kenya da Milano, Silvia si reca a Chakama e poi da lì sarebbe andata a Malindi per la denuncia. Secondo la donna altri due volontari, oltre a Silvia, avrebbero sporto denuncia. Tiziana Beltrami, la referente logistica di fatto per Africa Milele, aggiunge anche una pesante accusa: Lilian Sora, la presidentessa di Africa Milele, avrebbe in qualche modo tentato di evitare questa denuncia, perché questo sarebbe andato contro gli interessi del chairman, il capo villaggio di Chakama. Uno dei due volontari di cui parla Tiziana Beltrami racconta a Iene.it del suo arrivo a Chakama: “C’era questa struttura affittata da Africa Milele, erano alcune stanze, e noi dormivano lì. La stanza di questo prete era a tre metri dalla nostra, nello stesso nostro complesso, la Guest House”. Ed è lì che i volontari avrebbero assistito agli episodi di pedofilia da parte del prete. E il ragazzo entra nei particolari: “Palpeggiamenti, strusciamenti, cose assolutamente non consone per nessuno, soprattutto per un prete. All’inizio me ne sono accorto solo io, e poi l’ho detto a Silvia e all’altra volontaria, e siamo stati tutti più attenti. Abbiamo visto le ragazzine che entravano nella stanza di quest’uomo e ci stavano pochissimo, due, tre, cinque minuti. Non so fino a che punto arrivasse, però atti pedofili c’erano eccome. Vedere certe cose e rimanere fermo… Io sono arrivato al punto di dire: ‘facciamo qualcosa in fretta o io da qui me ne vado!’” Ed è così che decidono di andare alla polizia di Malindi. “La denuncia è stata fatta a nome di Silvia, firmata e presentata. Avevamo fatto il nome di quel prete e c’era anche un mandato d’arresto per lui… L’11 novembre, nove giorni prima che Silvia venisse rapita, facciamo questa denuncia e subito dopo torniamo a Chakama. Il prete però non c’era più, tutto era finito in una bolla di sapone”. La polizia aveva detto di avvisare se si fosse ripresentato il prete. “Mandarono però una volontaria che collaborava con la polizia, che avrebbe dovuto aiutarci ad andare più fondo su questa cosa”. E cioè avrebbe dovuto fare domande ai bambini che sarebbero stati vittime delle attenzioni del prete. Ma dopo poco la donna sarebbe stata allontanata dal capo villaggio. “Io non sono mai stato interpellato dalla Farnesina”, lamenta il volontario. “Mi sono dovuto recare spontaneamente dai Ros dei carabinieri, che non mi avevano chiamato. Siamo andati di nostra iniziativa sia io che l’altra volontaria di Africa Milele”. Sempre sulla denuncia per pedofilia, raccogliamo un’altra importante conferma. È quella riferita da una nostra fonte, che racconta alcuni dettagli che le sarebbero stati rivelati da un alto ufficiale della polizia di Malindi. Stando alle rivelazioni dell’ufficiale di polizia, Silvia e altri due volontari di Africa Milele, accompagnati da Tiziana Beltrami, il giorno 11 novembre sarebbero andati alla CID di Malindi, il dipartimento di polizia criminale, per presentare la denuncia. Però, secondo la nostra fonte che riporta quanto spiegato dall’ufficiale keniota, la denuncia non sarebbe stata presentata perché mancavano i nomi del presunto pedofilo e di altri testimoni. Quell’informazione di reato, avrebbe detto ancora l’alto ufficiale, sarebbe poi passata a un altro dipartimento, che si occupa di crimini sui minori. Da lì la pratica sarebbe andata a finire a Mombasa, la capitale. Da quel momento, avrebbe spiegato ancora il poliziotto, di quella denuncia non si sarebbe più saputo nulla. Iene.it ha contattato quell’ufficiale della polizia criminale di Malindi, ma l’uomo dopo averci detto che non è autorizzato a parlare ha riattaccato il telefono. Rispetto alle accuse di Tiziana Beltrami a Lilian Sora, sul fatto di aver in qualche modo cercato di insabbiare quella denuncia, Iene.it ha interpellato la stessa presidentessa di Africa Milele, che ci racconta invece la sua versione dei fatti: “A Chakama sono arrivati Silvia e gli altri due volontari. Nella casa dove ci siamo noi, ci sono altre camere. Di solito insieme a noi ci sono gli insegnanti della scuola secondaria che affittano altre due stanze. Quando i ragazzi sono arrivati, nella stanza numero 1 c’era un altro signore, che noi non conoscevamo, quello che chiamavano 'father'. I ragazzi si sono accorti di alcuni atteggiamenti di questa persona, e cioè hanno raccontato che faceva entrare nella sua camera, con la porta aperta, delle bambine attorno ai 10 anni. Ho chiesto subito a Silvia di confrontarsi con Joseph, il mio compagno di etnia Masai che è sul luogo, perché è il referente africano di Africa Milele. Joseph si è preoccupato e ha parlato subito con il padrone della guest house, un uomo che noi chiamiamo il boss. Lui ci ha spiegato che questo prete era un pastore anglicano. Lì in Kenya il fatto che sia un prete mette fine ad ogni discussione, soprattutto se si parla di pedofilia, una cosa che dunque è da escludere a priori. Il boss ci ha detto che il 'father' sarebbe andato via nel giro di un paio di giorni, e che era lì come commissario d’esame per la scuola primaria, perché era un prete ma anche un insegnante. Il boss ci ha detto che le bambine andavano in stanza da lui a fare catechismo, a pregare. Il giorno dopo i miei ragazzi hanno ripreso a dirmi che il prete aveva atteggiamenti non adeguati, e che loro avevano fatto in modo che le bimbe non entrassero. Il 'father' però usciva dalla stanza e stava con loro, sfiorandole. Era però difficile capire quanto i miei volontari si fossero lasciati prendere e quanto invece fosse vero. Non è facile andare a dire che c’è un pedofilo!” E sulla denuncia per pedofilia Sora spiega: “Io ero nel mezzo, tra i volontari italiani e le persone africane del villaggio. Per il mio compagno Joseph e per il padrone di casa, il boss, la situazione era chiarita: questa persona era un prete, una persona conosciuta, che aveva referenze e le bambine entravano da lui per pregare. Non c’era nella loro testa la malizia di dire che queste bambine potessero essere abusate: sono modi molto diversi di ragionare. Ho parlato subito di questa cosa con Tiziana Beltrami, che mi ha detto di conoscere una poliziotta del Children Department, una certa Mariam. Tiziana l’ha sentita e Mariam le ha detto di fare venire subito i miei tre volontari . Ho mandato un messaggio a Silvia e le ho detto se se la sentivano di andare in polizia a Malindi. Loro con grande entusiasmo mi hanno detto: ‘certo che sì’. Anche Tiziana è andata con loro dalla polizia di Malindi.” Lilian Sora aggiunge inoltre un dettaglio che se fosse vero getterebbe un’ombra sulle modalità d’indagine degli inquirenti kenioti. “I ragazzi sono usciti dalla centrale di polizia di Malindi con in mano un mandato di arresto per il ‘father’”, sostiene la presidentessa di Africa Milele. “I ragazzi avrebbero dovuto portare quel mandato il giorno dopo alla polizia di Langobaya, che è referente per il villaggio di Chakama. Insieme a loro sarebbe dovuta partire una poliziotta per andare a sentire le presunte vittime a Chakama. A Langobaya la polizia ha chiesto ai tre volontari 30 euro per pagare la benzina per le loro moto che dovevano andare a Chakama… Mi sono confrontata telefonicamente con i volontari e abbiamo detto: ‘ci pensiamo, ma anche no’. E allora il mandato d’arresto per il prete presunto pedofilo è rimasto in mano alla polizia di Langobaya”. E così la polizia, davanti a quel rifiuto, non sarebbe partita per andare a cercare il prete. Iene.it ha contattato Tiziana Beltrami che però ci ha detto di non voler rilasciare alcuna dichiarazione sulla vicenda, spiegando che ci sono autorità ufficiali deputate a questo. Su di lei, però, dobbiamo dirvi ancora una cosa: Tiziana Beltrami, in realtà, si chiama Mariangela. Non siamo a conoscenza del motivo preciso per cui in Kenya la donna si faccia chiamare con un altro nome di battesimo. Sappiamo però che in Italia il marito di Mariangela Beltrami, Roberto, con cui gestisce il Karen Blixen di Malindi, è coinvolto in un’indagine della Guardia di Finanza chiamata “Easy Gain”. Si tratta di un procedimento in cui si ipotizza la truffa aggravata ai danni di alcuni risparmiatori della zona di Latina. Attualmente a carico del marito di Mariangela Beltrami, che per le autorità italiane non sarebbe reperibile, ci sono diverse pendenze anche in sede civile. Non si hanno più notizie della volontaria italiana dal 20 novembre 2018, il giorno in cui è stata rapita nel villaggio di Chakama. Un villaggio povero e isolato. Verso le 19.30 di quel giorno si materializza un commando di una mezza dozzina di uomini armati, che si dirige a colpo sicuro verso la guest house dove alloggia Silvia Romano, che vedete sotto. In quel momento con lei avrebbe dovuto esserci anche un keniota di etnia masai, che generalmente è di guardia all’edificio gestito da Africa Milele: quel giorno però, secondo alcune testimonianze, l’uomo sarebbe arrivato dopo il sequestro. Gli uomini del commando armato non hanno esitazioni: cercano la “mzungu”, la ragazza europea, la bianca. I rapitori di Silvia, dopo averla caricata in spalla con la forza, sparano diversi colpi di kalashnikov nell’area del Chakama Trading Center, per aprirsi un varco tra la folla, e feriscono almeno cinque persone. Silvia viene portata via dal commando, e da allora scompare nel nulla. Nel corso di questi sei mesi sono emerse diverse piste investigative. La prima è quella del rapimento ad opera degli integralisti somali di Al Shabaab (il confine somalo dista 200 km da Chakama). L’ipotesi però è smentita dai principali esperti di terrorismo internazionale perché mancano rivendicazioni da parte del gruppo islamista. C’è anche quella, surreale e oltraggiosa, che vedrebbe nella volontaria italiana una trafficante d'avorio. I primi a ipotizzare l'ombra di un episodio di violenza di cui sarebbe stata testimone la volontaria nel periodo precedente al suo rapimento è stato Il Fatto Quotidiano. Ora noi di Iene.it abbiamo aggiunto nuovi elementi che confermerebbero questa pista, che porterebbe dunque a un collegamento tra il rapimento di Silvia Romano e ciò che avrebbe visto a Chakama: atti di pedofilia commessi da un prete keniano.
LE ONG - ONLUS.
Ex volontaria di Africa Milele: "Nessuna formazione o sicurezza, ero abbandonata a me stessa". La onlus: "Impossibile". Pubblicato venerdì, 22 maggio 2020 su La Repubblica.it da Raffaella Scuderi. Un'ex collaboratrice della onlus per cui lavorava Silvia Romano racconta la sua esperienza a Chakama, il villaggio kenyano dove è stata rapita la giovane milanese. Lilian Sora, la fondatrice dell'organizzazione marchigiana, respinge ogni accusa. "Sono andata via dopo quattro giorni. Non c'era organizzazione. Non c'era un progetto. Mi sono sentita inutile". Questi sono i ricordi di una giovane ragazza che quattro anni fa ha prestato volontariato a Chakama. Sceglie di non rivelare la sua identità e racconta a Repubblica i suoi quattro giorni da volontaria in quello stesso villaggio dove due anni dopo otto criminali armati avrebbero rapito Silvia Romano. Entrambe si trovavano nel piccolo villaggio rurale, a pochi chilometri da Malindi in Kenya, per fare un'esperienza di volontariato con la piccola onlus di Fano, Africa Milele. Chi si imbarca in un'esperienza di volontariato con la onlus marchigiana, racconta, non ha bisogno di firmare né sottoscrivere nulla. Non deve fare corsi di formazione e neanche dimostrare le proprie competenze.
"Sono stata da loro per pochi giorni e me ne sono andata via. La casa di Africa Milele a Chakama, quella che ospita i volontari, in quel periodo era sporca: letti spaccati, zanzariere rotte e buchi nei materassi. Non si hanno mai grandi aspettative sull'Africa in quanto a igiene, ma il minimo indispensabile per lavorare in sicurezza sì", ricorda la giovane, che in quel periodo si trovava già in Kenya. Facebook e il passaparola sono stati i canali attraverso cui aveva sentito parlare di Milele. Gliene avevano parlato bene. "Volevo conoscere meglio la realtà delle ong sul posto e fare più esperienze". Per avviare la collaborazione è stato sufficiente uno scambio di messaggi su Whatsapp, ricorda la volontaria. "Ho sentito Lilian (la fondatrice della onlus, ndr) al cellulare. Mi disse che chiunque poteva unirsi come volontario ad Africa Milele. E che se avessi avuto qualsiasi tipo di progetto, bastava che glielo dicessi". "Non è possibile che non sia stata selezionata e valutata prima di essere coinvolta in un nostro progetto", replica a La Repubblica ilian Sora, fondatrice della onlus. Arrivata a Chakama, ad accogliere la "volontaria" ci sarebbero stati "solo" un responsabile Masai e un ragazzo del posto che occasionalmente dava una mano, secondo quanto racconta la giovane: "Mi aspettavo che qualcuno mi illustrasse il progetto della onlus. Niente. Ero abbandonata a me stessa. Organizzavano raccolte fondi. Ma quello che ho visto io è stato solo un magazzino dove tenevano perline, medicine, t-shirt e gadget".
Si occupava dei bambini, giocava con loro al fiume e li accompagnava a casa. Ricorda che non ha mai avuto paura: "La gente era pacifica e amichevole". Tuttavia la giovane puntualizza che "non c'era nessun tipo di sicurezza, ad eccezione del masai che ogni tanto ci dava una mano". Nonostante ci fossero insieme a lei altri due volontari di Africa Milele, non c'era alcuna condivisione, perché, insiste, "non c'era un progetto. Nessuna organizzazione. Ognuno era lasciato a se stesso". Ed è per questa ragione che dopo soli quattro giorni ha deciso di andarsene via. Contattata da La Repubblica, Lilian Sora respinge categoricamente questa ricostruzione dei fatti: "Mai nessuno nella storia di Africa Milele se n'è andato prima di terminare il periodo di volontariato. È impossibile. È impossibile che le cose siano andate in questo modo".
Silvia Romano, i sospetti del cooperante: "Che puttanaio al villaggio di Chakama, che fine hanno fatto i soldi?" Libero Quotidiano il 21 maggio 2020. Potrebbe essere proprio a Chakama, il luogo dove lavorava Silvia Romano come cooperante e dove fu sequestrata nel novembre del 2018, una delle "chiavi" per capire alcuni di quegli aspetti ancora avvolti nel mistero sul sequestro. Gianfranco Ranieri, imprenditore e "veterano" del Kenya nonchè presidente della Karibuni Onlus che da anni opera nel Paese, in una intervista all'edizione on line del Giornale svela i molti lati oscuri legati alla zona.. "A Chakama sono stati spesi tanti soldi, ma non si capisce per cosa, visto che oggi nel villaggio è rimasta una piccola scuola costruita da italiani, ma presa in carico dal governo kenyota perché altrimenti sarebbe stata chiusa; poi ci sono alcuni bambini sostenuti da una signora italiana. Un po' un puttanaio, ma non mi riferisco alla gente di Chakama, ma a questa stranezza. Ci sono stati anni in cui tutti gli italiani andavano a Chakama ma non si capiva per fare cosa. Chakama è un villaggio come tanti". Ranieri critica anche l'operato di Africa Milele, la onlus per cui lavorava la Romano: "Loro facevano giocare i bambini, ma questo non è un progetto sociale di cooperazione. I bambini africani sono talmente abituati a non avere nulla che giocano tranquillamente da soli con quello che trovano. Poi sui costi, mandare a scuola un bambino per un anno costa un centinaio di euro; il pasto di un bambino costa sui 40 centesimi di euro. Sarebbe sufficiente andare a vedere i bilanci e chiedere con una certa somma cosa si è fatto, quanti bambini sono stati mandati a scuola, quanti bambini hanno mangiato. Con i numeri e i dati si vede cosa si è lasciato di concreto. Occupandomi del settore, mi dà fastidio che si parli della cooperazione italiana in quel modo lì (Africa Milele) quando ci sono fior di organizzazioni che lavorano in modo serio. Non è un'immagine piacevole per l’Italia e se ne sta tra l’altro parlando tanto su giornali e telegiornali".
Da liberoquotidiano.it il 15 maggio 2020. Blitz nella sede della Onlus Africa Milele, quelle per cui Silvia Romano si trovava in Africa al momento del rapimento. Secondo quanto si apprende, i carabinieri dei Ros la hanno passata al setaccio nell'ambito dell'inchiesta della Procura di Roma sul sequestro della ragazza. La notizia è stata anticipata dal Tg3 e poi confermata all'Agi fa fonti investigative. La sede della Onlus si trova a Fano, provincia di Pesaro, dove vive Lilian Sora, la responsabile dell'associazione che aveva organizzato di Silvia, che era stata rapita il 20 novembre 2018. Ad ora, l'inchiesta della procura di Roma è a carico di ignoti: i militari hanno acquisito documenti e materiale informatico contenuto in computer e telefoni. Al vaglio le condizioni di sicurezza in cui la cooperante milanese era stata mandata a lavorare.
Silvia Romano, "difesa con un machete". Scatta blitz del Ros nell'Ong. Libero Quotidiano il 15 maggio 2020. Sono in corso a Fano le perquisizioni dei carabinieri del Ros nella sede della onlus "Africa Milele", nell'ambito dell'inchiesta della procura di Roma sul sequestro di Silvia Romano. Gli investigatori indagano sulle attività della onlus e avrebbero copiato alcuni hard disk e il contenuto dei telefoni. La Procura, infatti, vuole verificare se al momento del rapimento, Silvia fosse stata messa in condizioni di svolgere le sue attività in sicurezza. L'associazione che si occupa di infanzia fondata da Lilian Sora, 42enne marchigiana è infatti accusata dalla famiglia Romano di aver mandato la ragazza "allo sbaraglio". Dopo il rapimento della 25enne, la fondatrice di "Africa Milele" per giustificarsi aveva spiegato alle autorità che, fino al momento del rapimento della ragazza, "non c'era ancora stato il tempo materiale per fare la polizza. La ragazza non fu mai lasciata sola e a pensare alla sua sicurezza c'erano due masai armati di machete, ma che uno di loro si trovava al fiume al momento del rapimento".
Francesco Borgonovo per la Verità il 18 maggio 2020. Venerdì i carabinieri del Ros sono entrati nella sede di Africa Milele, la Onlus di Fano per conto della quale Silvia Romano operò in Kenya, lavorando con i bambini di un orfanotrofio. I sospetti su questa organizzazione umanitaria sono tanti, e piuttosto brutti. Gli investigatori - come ha riportato ieri il Corriere della Sera - si chiedono se Silvia sia stata tradita o addirittura venduta da qualcuno che si trovava con lei nel villaggio di Chakama. Di sicuro che c' è che la ragazza italiana è stata lasciata sola. A occuparsi della sua sicurezza doveva essere Joseph, il marito masai di Lilian Sora, la responsabile della Onlus. Ma Joseph, a quanto pare, non si premurò nemmeno di indagare su due uomini misteriosi, che, qualche giorno prima del rapimento, si presentarono a Chakama in cerca di Silvia. Insomma, la protezione era per lo meno carente, tanto più che mancava la registrazione sul sito «Viaggiare informati» e forse anche le polizze assicurative di Africa Milele non erano del tutto a posto. Si indaga a Fano, dunque. Ma anche sul suolo del Kenya si allungano parecchie ombre. Il luogo in cui Silvia è stata «lasciata sola», come dicono i suoi genitori, è popolato da figure ambigue, che sollevano fin troppi interrogativi. E non da oggi. Già nel 2019, infatti, il sito delle Iene dedicò vari articoli ad Africa Milele e ai personaggi che in qualche modo le ruotavano intorno. Leggendo quell' inchiesta ci si trova catapultati in un' Africa conradiana, oscura e limacciosa. Tra le storie che più colpiscono c' è quella di Tiziana Beltrami, il cui nome ricorre spesso negli articoli pubblicati su siti e quotidiani online di italiani che vivono in Kenya o che comunque conoscono bene l' ambiente. La Beltrami, spiegavano Le Iene, è «una donna laziale che a Malindi gestisce insieme con il marito Roberto un notissimo ristorante e locale da ballo, il Karen Blixen, che è diventato un punto di ritrovo per la movida malindina e in particolare per gli italiani». Soprattutto, però, «Tiziana Beltrami è anche la referente logistica de facto di Africa Milele, nonostante da statuto non abbia alcun ruolo ufficiale. Il suo locale, il Karen Blixen, è stato infatti in questi anni il punto di arrivo dei materiali spediti per aiutare le popolazioni locali, nell' ambito di quello che viene definito "un ponte solidale Italia-Kenya". Gli aiuti mandati ad Africa Milele per mezzo del ristorante-pizzeria Karen Blixen sono vari: dai farmaci all' abbigliamento per bambini, fino al materiale ospedaliero». A confermare l' impegno della Beltrami erano volantini e post su Facebook che pubblicizzavano la sua militanza umanitaria. La diretta interessata, a un certo punto, li cancellò, ma gli inviati della trasmissione Mediaset riuscirono a entrarne in possesso. Tiziana Beltrami e Silvia si conoscevano: lo testimonia un' altra immagine, pubblicata sempre da Giulio Melis sul sito delle Iene. La ragazza è seduta a un tavolo del ristorante Karen Blixen assieme alla responsabile e ad altri volontari. Ma chi è davvero Tiziana Beltrami? Lo possiamo scoprire scavando un po' negli archivi dei quotidiani laziali. La signora compare nelle cronache di Latina come Mariangela Beltrami. Nel 2016 le fu «contestato il concorso in truffa aggravata per due episodi che ammontano ad una cifra di circa centomila euro. Il raggiro è stato commesso ai danni di alcuni risparmiatori pontini». E qui entra in scena un altro personaggio: Roberto Ciavolella, il marito della Beltrami. Costui è un ex promotore finanziario di Latina, accusato di aver evaso circa due milioni di euro e di aver truffato una trentina di risparmiatori per cifre milionarie. Anche lui era atteso al processo, nel 2017, ma è magicamente svanito dal suolo italiano per ricomparire appunto in Kenya. Nel frattempo il processo si è avviato ad ampie falcate verso la prescrizione. Anche nel Paese africano pare che ci siano procedimenti pendenti a suo carico, e nell' ambiente degli italiani che vivono a Malindi circolano parecchie storie sul suo conto. Ciavolella, oltre ai guai per i raggiri finanziari, si è guadagnato un' altra accusa per violazione degli obblighi di assistenza familiare e di bigamia. La sua prima moglie, come spiega Il Caffè di Latina, lo ha denunciato, dichiarando «di essere rimasta con due figli minori senza ricevere più il pagamento degli alimenti da parte dell' ex marito che, nonostante legalmente sia ancora coniugato con lei, a Malindi si sarebbe risposato con una donna sempre di Latina, che con lui gestisce un' attività ricettiva». La donna in questione è appunto Tiziana Beltrami. Aspettate, però, perché non è mica finita. Le Iene, ancora nel 2019, hanno puntato un faro su un altro lato oscuro della vicenda di Silvia Romano. Una faccenda confermata proprio dalla Beltrami oltre che da almeno un altro volontario. Silvia, 9 giorni prima di essere sequestrata, si diresse a Malindi per sporgere denuncia per pedofilia. A Chakama, spiegò un volontario ai giornalisti di Mediaset, «c' era questa struttura affittata da Africa Milele, erano alcune stanze, e noi dormivano lì». Nello stesso stabile viveva un prete (probabilmente un pastore anglicano), un kenyano che veniva indicato come «father». «La stanza di questo prete era a tre metri dalla nostra, nello stesso nostro complesso, la Guest House», disse ancora il volontario. A quanto risulta, questo prete (o pastore) aveva rapporti molto strani con le bambine del posto. Silvia e altri decisero di denunciarlo. Tiziana Beltrami spiegò di aver accompagnato personalmente la ragazza a sporgere denuncia, e insinuò che Lilian Sora, la responsabile di Africa Milele, avesse cercato di mettere tutto a tacere per non indispettire le autorità del villaggio. Lilian, dal canto suo, diede una versione diversa. Saranno, si spera, i pm a chiarire che cosa è davvero accaduto a Silvia in Kenya. A noi, per ora, resta una certezza: la ragazza è stata lasciata sola in un luogo pieno di ombre.
Silvia Romano, l'interrogazione parlamentare di FdI che mette in imbarazzo Luigi Di Maio. Libero Quotidiano il 15 maggio 2020. Fratelli d'Italia ha presentato al governo un'interrogazione sul caso Silvia Romano. La richiesta riguarda soprattutto Africa Milele, la ong per cui lavorava la cooperante milanese. Si punta e si chiedono lumi sulla sicurezza che le Ong come Africa Milele dovrebbero sempre garantire quando si tratta di predisporre, coordinare ed accompagnare azioni di volontariato nelle zone a rischio del mondo. Quello che FdI ha domandato al ministro degli Esteri Luigi Di Maio, è quello di effettuare più controlli su queste ong. Augusta Montaruli, che è l'autrice dell'interrograzione, ne ha parlato a IlGiornale.it. Viene sollevata la questione del villaggio kenyota in cui era stata inviata: Chamaka. Senza la vicinanza di centrali di polizia. La Montaruli segnala pure come "la ONG avrebbe sede nella casa della fondatrice di Africa Milele e sarebbe priva di dipendenti". E ancora Africa Milele si "avvallerebbe solo di volontari" e non sarebbe "sufficientemente strutturata per operare in zone a rischio", in quanto "priva di standard di sicurezza". Ma anche la presunta mancata segnalazione da parte di Africa Milele all'ambasciata della presenza della Romano in quel territorio.
Di Maio contro l'ong di Silvia: "Operava senza informarci". Il ministro punta il dito su Africa Milele. Secondo la Farnesina eludeva ''qualsiasi potere d'indirizzo e informazione". Federico Giuliani, Mercoledì 13/05/2020 su Il Giornale. Luigi Di Maio ha attaccato l'ong per la quale operava Silvia Romano. ''L'Associazione Africa Milele – ha dichiarato il ministro degli Esteri, rispondendo al Question time alla Camera - non rientra nell'elenco previsto dalla legge 125 e non era destinataria di alcun sostegno della cooperazione italiana".
L'attacco di Di Maio. Questa associazione, a detta di Di Maio, avrebbe operato ''in totale autonomia'' senza informare la Farnesina ed eludendo ''qualsiasi potere d'indirizzo e informazione dei propri associati o collaboratori sotto il profilo della sicurezza". Ricordiamo che la citata legge 125 prevede che il comitato congiunto della Cooperazione allo sviluppo del ministero degli Esteri stabilisca i criteri in base ai quali è sancita l'idoneità delle organizzazioni della società civile. ''In caso di progetti realizzati da organizzazioni della società civile con contributi della Cooperazione italiana – ha aggiunto il ministro - le organizzazioni vengono selezionate alla luce della loro idoneità a lavorare all'estero e i bandi prevedono espressamente che le attività possano essere svolte solo previa valutazione delle condizioni di sicurezza da parte delle ambasciate''. Il capo della Farnesina ha inoltre precisato che "l'attività nell'ambito della quale Silvia Romano operava'' non era destinatario di ''alcun sostegno della cooperazione italiana''. ''Per l'espatrio e lo svolgimento all'estero da parte di cittadini italiani di attività di volontariato, così come di ogni altra attività lecita, si prevedono le norme dell'articolo 16 della Costituzione. Ogni cittadino è libero di uscire dal territorio della Repubblica e di rientrarvi salvo gli obblighi di legge", ha concluso Di Maio.
La posizione dell'ong. Dal canto suo l'associazione ha salutato con felicità la liberazione della cooperante italiana con un eloquente post su Facebook: ''La gioia! Bentornata Silvia, tutti noi ti abbiamo aspettata, sempre". In un'intervista rilasciata a Repubblica nei giorni scorsi la fondatrice della onlus, Lilian Sora, aveva respinto le prime accuse ricevute: ''La sicurezza a Chakama c'era: Silvia non è stata mandata da sola. Ci hanno buttato addosso tanto fango ma la protagonista ora è Silvia e risponderà lei, sono sicura. Per tramite dei volontari mi sono arrivate parole carine, da parte di Silvia". "Davvero i familiari hanno preso le distanze dalla onlus? - ha proseguito Sora - Dovremo assolutamente parlare, in questo anno e mezzo anche io mi sono avvicinata all'Islam. Suo papà non l'ho mai conosciuto, sono separati e io parlavo con la mamma, che non sapeva neppure dove si trovasse esattamente sua figlia in Kenya. Non avevamo i numeri l'una dell'altra, evidentemente Silvia non lo riteneva necessario... strano no? Se stavo zitta per rispettare il loro dolore dicevano che me ne infischiavo, se parlavo di Silvia mi dicevano di rispettare il silenzio per le indagini". Al momento le autorità sono al lavoro per ricostruire la complessa vicenda. Certo, le prime dichiarazioni rilasciate da Silvia Romano sono emblematiche: ''Mi hanno mandata allo sbaraglio''.
Silvia Romano in Kenya con Africa Milele a insaputa della Farnesina: l’anticipazione di Di Maio. Carmine Gazzanni il 18/05/2020 su Notizie.it. Africa Milele, con cui Silvia Romano è partita per Chakama, non fa parte dell'elenco delle onlus idonee secondo il Ministero degli Esteri. C’era da aspettarselo: il caso Silvia Romano è approdato anche in Parlamento, con le opposizioni che, al di là delle varie dichiarazioni rese alla stampa, hanno presentato atti parlamentari che ora rischiano di minare la cooperazione tout-court. Ma è soprattutto dalle risposte fornite dal ministro degli Esteri Luigi Di Maio che si aprono ora nuovi interessanti scenari soprattutto sulla onlus “Africa Milele” per cui operava la Romano: si sarebbe mossa, infatti, in totale autonomia rispetto alla Farnesina. E, dunque, a sua insaputa.
Forza Italia e Lega all’assalto. Facciamo, però, un passo indietro. Diversi, come detto, sono gli atti parlamentari depositati negli ultimi giorni. A presentare un’interrogazione, ad esempio, sono stati alcuni deputati di Forza Italia che hanno chiesto tra le altre cose «a quanto ammonti il riscatto versato per la liberazione» e «se la Procura di Roma fosse stata informata in merito all’eventuale decisione di pagare un riscatto». E l’ha fatto soprattutto la Lega, con un’interrogazione parlamentare a prima firma Eugenio Zoffili ma cofirmata da tutti i deputati del Carroccio, che sicuramente creerà discussione dato che va a colpire il mondo della cooperazione internazionale. Nell’atto – che Notizie.it ha visionato – si ricostruisce l’intera vicenda della cooperante sequestra il 20 novembre 2018 nel villaggio di Chakama, in Kenya, «dove si trovava per realizzarvi un progetto umanitario per l’infanzia promosso dalla onlus Africa Milele». Ma Zoffili va oltre e ricorda che il sito viaggiaresicuri.it – servizio dell’unità di crisi del Ministero degli affari esteri e della cooperazione internazionale – definisce il Kenya un Paese nel quale «permane elevata la minaccia terroristica di matrice islamica», paventando il «persistente pericolo di atti ostili contro cittadini stranieri e raccomandando a coloro che vi si rechino di evitare gli spostamenti via terra e il soggiorno in alcune regioni di quello Stato». Ed ecco il punto: partendo da queste premesse la Lega ha chiesto al governo Conte, e nella fattispecie al ministro degli Esteri Luigi Di Maio, quali iniziative ritengano opportuno assumere «per scoraggiare in modo efficace gli interventi della cooperazione volontaria italiana nelle zone in cui sia concreto il pericolo del verificarsi di atti ostili nei confronti dei cittadini del nostro Paese». Insomma, per la Lega qualunque Ong che voglia andare in Paesi a rischio non dovrebbe farlo. E non caso il Carroccio, come emerge dal resoconto della discussione parlamentare del 13 maggio, ha già annunciato una proposta di legge «contro il rischio sequestri».
Il controllo della Farnesina. Ma c’è di più. Perché Di Maio ha già provveduto a fornire risposte ai quesiti leghisti, lasciando intendere che la onlus Africa Milele non si era mossa in collaborazione con la Farnesina. Il titolare degli Esteri, infatti, ha specificato che la Farnesina «opera costantemente mediante l’unità di crisi per tutelare i cittadini italiani all’estero in situazioni di emergenza, terrorismo, tensioni sociopolitiche, calamità naturali e pandemie». Nel caso di progetti realizzati da organizzazioni della società civile con contributi della cooperazione italiana, non a caso, «le organizzazioni vengono selezionate alla luce della loro idoneità ad operare all’estero e i bandi per la scelta dei progetti prevedono espressamente che le attività possano essere svolte solo previa valutazione delle condizioni di sicurezza da parte delle ambasciate». Esiste una legge d’altronde (la numero 125 del 2014) che prevede che un Comitato ad hoc stabilisca parametri e criteri in base ai quali «è sancita l’idoneità delle organizzazioni della società civile», mentre l’Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo «conduce gli aggiornamenti periodici dell’elenco delle organizzazioni idonee». Quell’elenco è fondamentale: solo chi è iscritto può infatti ricevere fondi e, soprattutto, «briefing di sicurezza che forniscono puntuali indicazioni sulla situazione del Paese, sul livello di rischio e sulle possibili misure da intraprendere per la sua mitigazione».
Il giallo della Onlus di Silvia Romano. Ed ecco il punto: per quanto detto da Di Maio, l’associazione “Africa Milele Onlus” non rientra tra le organizzazioni iscritte nell’elenco. In altre parole, «l’attività nell’ambito della quale Silvia Romano operava non è destinataria di alcun sostegno della cooperazione italiana” e, dunque, ha «operato in totale autonomia, senza informare la Farnesina, eludendo qualsiasi potere di indirizzo e di informazione dei propri associati o collaboratori sotto il profilo della sicurezza». Un dettaglio, quest’ultimo, che aggiunge un tassello in più rispetto anche alle indagini portate avanti a Fano dalla magistratura.
Francesco Battistini per il “Corriere della Sera” il 12 maggio 2020. «Mi hanno mandata allo sbaraglio». Il sorriso di Silvia Romano nasconde anche qualche dente aguzzo. E forse i 535 giorni di prigionia hanno cancellato un po' d' ingenuità: domenica pomeriggio, interrogata dai magistrati, la ragazza milanese ha detto chiaro e tondo d' essersi sentita in un avamposto solitario, il giorno in cui fu rapita. E che a Chakama, nella scuoletta della savana, forse non era il caso di trovarsi in quelle condizioni. L'unica bianca. Senza scorta, senza collaboratori. Abbandonata lì, con la sua straordinaria inesperienza. Il racconto di Silvia ha fatto infuriare i genitori: la famiglia Romano aveva già rotto i rapporti con l' onlus Africa Milele di Fano, e con la responsabile Lilian Sora che aveva ingaggiato la loro figlia, ma ora domanda che si faccia qualcosa di più. Non c' è ancora una delega formale ai Ros dei Carabinieri, ma la Procura di Roma intende riprendere in mano il dossier della Farnesina e i controlli che l' Unità di crisi aveva intrapreso dopo il rapimento su quell' attività di volontariato messa in piedi a decine di chilometri da Malindi. I contratti d'assicurazione, le registrazioni in ambasciata, le certificazioni delle autorità keniote: i Romano vogliono sapere se si sia fatto davvero tutto, per evitare che Silvia venisse sequestrata. Africa Milele significa Africa per sempre. Ma dal 20 novembre 2018, l'Africa della minuscola onlus è senza futuro. «Questa vicenda per noi ha voluto dire molto», spiega Lilian Sora, una marchigiana di buona volontà che nel 2009 era andata in Kenya in viaggio di nozze ed era rimasta colpita dalla povertà, decidendo di fondare la sua onlus: «I nostri beneficiari ne hanno risentito e, a gennaio, abbiamo dovuto lasciare a casa i bambini che sostenevano la scuola. I fondi non bastavano più». Il giorno della liberazione di Silvia, Lilian ha fatto capire quanto fosse scossa: «Alla vigilia del rapimento ero stata svegliata da un brutto sogno, quasi una premonizione. Sabato, il mio sogno è stato bellissimo». Le polemiche di questi mesi l' hanno travolta: s' è detto di tutto su di lei e sulla sua vita sentimentale, su quella strana scelta di piazzarsi a Chakama dove operava già un' altra onlus, sulle valigie piene di medicinali e di latte in polvere che affidava ai suoi volontari - anche a Silvia - perché portassero in Kenya aiuti low cost Tanti veleni, nella comunità italiana di Malindi che sapeva poco di Africa Milele, eppure sparlava molto della sua attività. Lilian non ha mai risposto e anzi, rivela, «nel tempo in cui Silvia è stata rapita, non ho mai smesso d'indagare». Una certezza: «Era controllata». La donna racconta un dettaglio già noto, ma che a suo parere riveste grande importanza: «Sospetto che alcuni componenti del commando abbiano dormito vicino alla nostra casa, prima del rapimento» (chi scrive, l' aveva già verificato sul posto: la Chakama Guest House è una baracca di lamiera a trenta passi dalla scuola dove viveva Silvia, le camere portano i nomi dei Paesi africani, e i sei banditi avevano alloggiato nella stanza «Togo»). «Silvia non è stata mandata da sola a Chakama - si difende Lilian -. È partita con due volontari e ad aspettarli c' era il mio compagno con un altro addetto alla sicurezza, entrambi masai». Gli uomini «dovevano rientrare a Malindi il 19 novembre e Silvia doveva andare con loro», ma ci fu un intoppo, la ragazza rimase sola a Chakama e il 20 fu sequestrata: «Qualcuno la spiava», è convinta Lilian, e sapeva quando entrare in azione. Dall' appartamento del Casoretto, Silvia non ha chiamato nessuno a Fano. «Aspetto di poterle dire quanto sono felice», manda un messaggio Lilian: è probabile che aspetti e speri per un bel po'.
“Silvia Romano non è una cooperante. Le "Ong" fai-da-te mandano giovani come lei allo sbaraglio”. TPI ha intervistato Daniela Gelso, Project manager di alcune delle principali Ong italiane e francesi, sul caso Silvia Romano: "Questo mestiere non si improvvisa, altrimenti si rischia la vita". Lorenzo Tosa il 13 Maggio 2020 su TPI.
“Silvia Romano non era una cooperante e, tecnicamente, neppure una volontaria, ma una ragazza neolaureata, inesperta, che è stata incautamente esposta a rischi enormi da chi l’ha mandata in un villaggio sperduto del Kenya senza la minima sicurezza, né il rispetto dei più elementari protocolli di cooperazione internazionale. Silvia è vittima due volte: dei rapitori e di chi non l’ha protetta”. Ogni parola è pesata, ogni virgola è frutto di anni di esperienza sul campo: dodici anni per l’esattezza – dal 2005 al 2017 – che Daniela Gelso, 43 anni, originaria di Saronno, ha trascorso in Africa occidentale e centrale, tra Guinea Bissau, Burundi e Costa d’Avorio, come Project manager per conto di alcune delle principali Ong italiane, francesi e portoghesi, prima di rientrare in Europa, in Francia, nel 2017, continuando a lavorare come manager in ambito sociale. E, di fronte al clamore mediatico suscitato dal caso di Silvia Romano, offre una chiave di lettura nuova, fino ad oggi rimasta in sottofondo, coperta dalle urla da stadio, i commenti degli hater e le posizioni ideologiche su una vicenda in realtà molto complessa. “Facciamo subito una premessa” chiarisce Daniela. “A fronte della liberazione di una venticinquenne che per 18 mesi è stata tenuta in ostaggio da un gruppo armato, non posso che provare un profondo sentimento di gioia. Senza se e senza ma. A prescindere dall’abito indossato e dalla religione adottata e indipendentemente dal valore del riscatto pagato, perché la vita di un essere umano non ha prezzo”.
Ma…
«Ma sono rimasta colpita dall’estrema superficialità con cui, in questa delicata vicenda, è stato trattato il mondo della solidarietà internazionale, già vittima di una vera e propria campagna di delegittimazione nel nostro Paese. Tutti i mezzi d’informazione, nessuno escluso, definiscono Silvia “una giovane cooperante, in Kenya per conto di una ONG marchigiana”».
Cosa c’è di sbagliato in questa definizione?
«Più o meno tutto. 1) Silvia Romano non è una cooperante. Anzi, per essere precisi, non è nemmeno una volontaria, nell’accezione oggi in vigore nel mondo della cooperazione. Per intenderci, un Volontario delle Nazioni Unite beneficia di un contratto remunerato ed opera all’interno di uno specifico programma di sviluppo. 2) Africa Milele, la onlus con cui collaborava, non è una Ong».
D’accordo, fermiamoci per un attimo al ruolo di Silvia Romano. Chi era allora e cosa faceva questa giovane ragazza milanese nel villaggio di Chakama, dove il 20 novembre 2018 è stata rapita.
«Se ci atteniamo ai fatti, Silvia è arrivata in Kenya a 23 anni, con un semplice visto turistico che non le consentiva di dedicarsi a nessuna attività di cooperazione internazionale. Neolaureata, inesperta, non aveva all’attivo nessuna esperienza professionale pertinente. Durante la sua permanenza a Chakama, il suo impegno umanitario consisteva semplicemente nel far giocare i bambini del villaggio».
Che differenza c’è esattamente con un cooperante internazionale?
«La differenza è abissale. I cooperanti sono professionisti retribuiti e altamente specializzati. Hanno un contratto di lavoro e sono coperti da un’assicurazione internazionale. I programmi di sviluppo in cui sono inseriti non consistono in opere di carità o assistenzialismo. Si tratta di strategie con obiettivi ben precisi».
Lei, ad esempio, che mansioni ha svolto nei suoi 12 anni in Africa?
«In qualità di capoprogetto, le mie competenze spaziavano dalla gestione di attività complesse alla scrittura progetti nell’ambito di bandi internazionali, dalla rendicontazione finanziaria alla gestione di partenariati strategici, dal team management al reporting ufficiale. Il mestiere di cooperante, insomma, non si improvvisa: sono richieste specifiche competenze, una formazione ad hoc, tra cui anche – come nel mio caso – un master di secondo livello in Cooperazione e sviluppo, oltre alle varie specializzazioni, e ovviamente tanta esperienza sul campo. Anche la mia esperienza è iniziata nell’ambito del volontariato internazionale, seppure con qualche anno in più rispetto a Silvia ed una prima, significativa esperienza professionale in Italia».
Quell’esperienza che a Silvia mancava…
«Vede, l’Africa è piena di villaggi come Chakama. Le associazioni fai-da-te che pretendono di salvare il mondo proliferano in tutta Europa. Ed ogni anno sono centinaia i ventenni che si affidano a sedicenti “Ong” per vivere un’esperienza di solidarietà in un Paese in via di sviluppo. Questo fenomeno in rapida crescita ha addirittura un nome: “volonturismo”».
In pratica, sta dicendo che Silvia Romano si è affidata a un’organizzazione improvvisata che l’ha mandata in Africa a suo rischio e pericolo?
«Purtroppo è esattamente ciò che è avvenuto. Africa Milele Onlus è un’associazione piccolissima, sconosciuta, non accreditata dall’AICS (Associazione Italiana per la Cooperazione e lo Sviluppo, ndr), non iscritta a nessuna delle federazioni che raggruppano la quasi totalità delle Ong italiane. L’organigramma consultabile sul sito dell’associazione fa pensare ad una struttura a gestione familiare. Ho notato che ricorrono gli stessi cognomi (un caso?) e che la persona indicata come referente dei progetti in Kenya è la stessa persona che, al momento del rapimento di Silvia, era stato indicato come il guardiano che avrebbe dovuto vegliare sulla guest house di Chakama».
Com’è stato possibile?
«L’anno di svolta, il “liberi tutti”, è arrivato nel 2014 con la riforma della legge sulla cooperazione internazionale che ha, di fatto, riunito Ong, Onlus, fondazioni, cooperative sociali e associazioni culturali sotto un’unica etichetta, quella di Enti del Terzo Settore. Col risultato che tutti, anche le associazioni di provincia sono abilitate ad operare nell’ambito della solidarietà internazionale, anche in continenti difficili e complessi come l’Africa, mettendo a rischio in primis le ragazze come Silvia che si avventurano con tanti sogni e nessuna esperienza».
Di quali numeri parliamo?
«I numeri sono impressionanti. Oggi in Italia esistono 336mila enti di terzo settore. Di questi solo 233 sono registrati presso l’AICS e, dunque, riconosciuti idonei ad operare nel settore ed a ricevere finanziamenti pubblici».
Di cosa si occupa precisamente Africa Milele?
«È difficile saperlo con certezza. Il sito dell’associazione menziona generiche azioni rivolte ai bambini, alludendo agli ambiti della salute, dell’istruzione, dell’igiene, dell’alimentazione. Nessun bilancio certificato che rendiconti la gestione dei fondi raccolti, nessun rapporto annuale delle attività, nessun indicatore quantitativo e qualitativo. Non conosco direttamente né l’associazione né i suoi operatori, ma l’assenza di un qualsiasi dato concreto inerente le attività realizzate ed i risultati raggiunti è un messaggio eloquente per chi lavora nel settore. La cosa più importante di cui si è occupata quest’associazione è il sostegno scolastico di qualche bambino e la costruzione di uno spazio giochi all’aperto costato poche centinaia di euro, anche se l’informazione non è più disponibile, perché dopo il rapimento di Silvia tutti i contenuti del sito sono stati rimossi».
Che misure di sicurezza sono state prese dalla onlus a Chakama per tutelare Silvia? C’è stata una valutazione dei rischi?
«La Presidente di Africa Milele Onlus, Lilian Sora, ha dichiarato a più riprese che Chakama non si trova in una zona a rischio e che il rapimento di Silvia non ha precedenti. Tanto basta per trarre un giudizio. Il fatto che il panorama della solidarietà internazionale sia in gran parte costituito da piccole realtà associative non esenta queste ultime dall’obbligo di garantire la sicurezza dei suoi operatori. Qualsiasi Ong seria assicura il suo personale in missione all’estero, ne segnala la presenza all’Ambasciata italiana, applica scrupolosamente un piano di gestione dei rischi, partecipa ai cluster nazionali (comitati tecnici che identificano priorità d’azione e linee di condotta), concorda i propri programmi di sviluppo con le autorità locali».
Cosa le ha dato più fastidio di tutta questa vicenda?
«Il modo in cui è stata trattata dai media. Ogni volta che la stampa evoca i cooperanti italiani rapiti negli ultimi anni, dovrebbe citare Rossella Urru, capoprogetto del CISP sequestrata in Algeria nel 2011. Oppure Francesco Azzarà, operatore di Emergency, rapito in Darfur nello stesso anno. Dovrebbe parlare di Giovanni Lo Porto, cooperante in Pakistan per conto di una Ong tedesca, che purtroppo non ce l’ha fatta e non ha mai fatto ritorno in patria. Colleghi competenti e preparati, consapevoli dei rischi a cui andavano incontro e – soprattutto – inseriti in organizzazioni in cui il rispetto di norme e procedure di sicurezza è primordiale. La vicenda di Silvia Romano si avvicina piuttosto a quella di Greta e Vanessa, le due ragazze sequestrate (e poi liberate) in Siria qualche anno fa, che tanto clamore ha suscitato».
Cosa possiamo imparare dalla vicenda di Silvia Romano?
«Lungi da me esprimere un giudizio di valore sulle motivazioni – certamente nobili – che hanno spinto questa ragazza a partire. Semplicemente, la convinzione erronea che dei ventenni privi di un’adeguata preparazione possano contribuire significativamente allo sviluppo locale sottende un atteggiamento paternalistico e perpetua gli stereotipi negativi legati al concetto di beneficenza. Idealizzare il loro impegno, anche se sincero, significa screditare il lavoro di chi opera sul campo con professionalità e abnegazione».
In conclusione, cosa si sente di dire alle tante (o ai tanti) Silvia che sognano di andare in Africa o in zone remote del pianeta ad aiutare il prossimo?
«Di unire sempre i propri sogni e il proprio sano altruismo a una buona dose di coscienza e competenza, fondamentale in situazioni del genere. Di appoggiarsi ad una struttura credibile, solida e ben organizzata, un punto sul quale hanno già insistito autorevoli esperti del settore. Facciamo in modo che la vicenda di Silvia Romano – conclusasi fortunatamente con un lieto fine – diventi spunto di riflessione costruttivo sull’argomento, affinché nessun giovane venga più mandato allo sbaraglio sotto il paravento del No Profit. Perché, se è vero che “si può fare del bene solo se lo si fa bene”, le buone intenzioni – ahimè – non bastano».
Federico Capurso per “la Stampa” il 14 maggio 2020. Quando si abbandona l'Occidente e si entra nelle periferie del mondo, si lascia alle spalle la propria vita, regolata dal diritto, per mettere piede dove il "non diritto" è quotidianità. Ai 22 mila cooperanti italiani all' estero, dunque, non si può più chiedere di essere animati solo da uno spirito di fratellanza, ma serve anche preparazione e professionalità. Lo ha reso evidente il caso di Silvia Romano, che ha acceso in questi giorni un riflettore sulla sicurezza di chi opera nelle zone a rischio. Così, dal fondo della pila di dossier che giace sul tavolo del ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, è tornata in superficie anche questa riflessione e con essa delle proposte, ancora in fase di studio, per provare ad illuminare alcune zone d'ombra del mondo della cooperazione allo sviluppo. Insomma, si sta studiando una stretta sul mondo del volontariato. Necessaria - ragionano Di Maio e il viceministro Emanuele Del Re, che ha la delega alla Cooperazione allo sviluppo - per mettere al primo posto la formazione dei volontari e la loro sicurezza, senza che però questo diventi un cappio al collo per chi vuole fare del bene. Il primo spartiacque per comprendere questa enorme e variegata realtà è quello che divide le organizzazioni iscritte a un apposito registro della Farnesina - obbligate per operare all' estero a seguire una serie di protocolli di sicurezza e costantemente monitorate - da quelle associazioni non iscritte, che non devono dare conto, né al ministero né all' ambasciata del Paese in cui operano, dei propri progetti di sviluppo e dei protocolli di sicurezza adottati per i loro cooperanti. La Africa Milele Onlus, all' interno della quale operava Silvia Romano, è tra queste ultime. «Non rientra tra le organizzazioni accreditate presso la Farnesina - sottolinea infatti Di Maio durante un' interrogazione alla Camera - e la sua attività, dunque, non è stata sostenuta dalla cooperazione italiana, ma ha operato in autonomia senza informare la Farnesina ed eludendo qualsiasi potere di indirizzo associato ai profili di sicurezza per l' onlus e per i propri collaboratori». Questo è il primo problema che si vuole risolvere. Sono 225 le organizzazioni iscritte al registro dell' Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo, ma altre 500, approssimativamente, ne restano fuori. Essere accreditati permette di presentare i propri progetti per essere finanziati dal ministero, ma impone anche degli obblighi. «Quando mandiamo un cooperante o un volontariato - spiega Silvia Stilli, portavoce dell' Aoi, Associazione delle Organizzazioni italiane di cooperazione e solidarietà internazionale che riunisce più di 100 associazioni - siamo monitorati e dobbiamo attenerci a mille procedure: ogni due anni dobbiamo presentare una corposa relazione delle nostre attività, dimostrare che non abbiamo pendenze con il fisco o cause giudiziarie aperte, dobbiamo poi pubblicare alcuni requisiti, avere protocolli di sicurezza e quando entrerà in vigore il registro unico del terzo settore saremo anche tenuti a esporre il nostro codice etico, il bilancio sociale, la relazione di missione». Da questo mare magnum di doveri navigano più o meno al largo le realtà di volontariato non iscritte al registro della Farnesina, come quella di Africa Milele. «Imporre l' iscrizione sarebbe però impossibile», ragionano al ministero. Per problemi organizzativi ed economici, tante realtà non potrebbero far fronte agli impegni burocratici previsti e scomparirebbe così un pezzo importante del volontariato italiano. Si sta quindi ipotizzando di arrivare a metà strada e rendere obbligatorio per tutti solo un protocollo di sicurezza da far sottoscrivere al volontario e un corso di formazione in cui lo si prepari a gestire situazioni di pericolo nelle aree a rischio. Sul tavolo ci sono attualmente varie possibilità: organizzare corsi online o seminari gestiti direttamente dalla Farnesina o, ancora, da parte del ministero, destinare una quota del proprio bilancio su progetti di formazione per la sicurezza presso altre strutture come l' istituto superiore Sant' Anna di Pisa, che già collabora con alcune realtà di volontariato più solide...La preparazione qui in Italia non basterebbe, però, ad attenuare sufficientemente alcuni rischi che si corrono sul posto. È per questo che Di Maio e Del Re vorrebbero risolvere la questione legata al monitoraggio dei cooperanti da parte delle ambasciate del Paese in cui si trovano, estendendo anche alle realtà non accreditate alcuni obblighi previsti da un accordo di collaborazione stilato con l'Unità di crisi della Farnesina nel 2015 al quale le altre 225 realtà associative hanno già aderito. Si dovrebbero quindi comunicare le generalità del cooperante, le date di arrivo e di partenza, gli spostamenti e le coordinate dei campi, sia al sito dovesiamonelmondo.it sia all'ambasciata di riferimento, oltre ad avere un referente di base per ogni comunicazione. Ultimo punto, quello che riguarda le assicurazioni per chi si reca nelle zone a rischio, che dal Pd vorrebbero estendere non solo alle onlus non iscritte al registro, ma anche a giornalisti free lance e agli studenti universitari, sulla scia del caso di Giulio Regeni. Il principio viene accolto con un «se ne può ragionare» dalla Farnesina, ma sul punto non ci sono ancora proposte sul tavolo. La direzione generale, però, sembra ormai tracciata: più sicurezza e più formazione. Con l' obiettivo di rendere i cooperanti «delle vere e proprie professionalità, senza - sottolineano dalla Farnesina - snaturare la vocazione che li anima».
Dagospia il 13 maggio 2020. Da “la Zanzara - Radio24”. “Anni fa una brava persona è morta per salvare una donna andata in Iraq per scrivere male dei soldati italiani in Iraq. Vorrei dire che gli operativi dell’Aise sono operativi sul serio e chiunque critichi queste cose, non deve criticare loro. I loro colleghi di altri servizi sono molto operativi nei film, ma in pratica non sono operativi. Il peggior aspetto di questo è la collaborazione con i servizi turchi, gli agenti di Erdogan e dell’islamismo. Gli italiani avrebbero dovuto sputargli in faccia, a questi del servizio turco. Questa è una cosa terribile”. Lo dice Edward Luttwak, politologo americano, a La Zanzara su Radio 24. “Queste persone italiane che si auto nominano Ong – dice Luttwak - e che vanno a mettersi nei guai, non hanno diritto di esigere questi grandi sforzi. Più dei soldi c’è il rischio per il personale, che non sono lì per fare le bambinaie di queste disgraziatissime persone che vanno proprio lì dove c’è il pericolo. Vi assicuro che quello che questa signora faceva in Kenya non aveva nessun impatto su nessuno. Io vi do una lista di quartieri a Napoli dove c’è un enorme bisogno di lei…invece lei va a fare un’avventura personale e poi si fa salvare dallo Stato italiano, e poi com’è successo quella volta con quelle due disgraziatissime Simone, il padre diceva che se vogliono poi tornare in Iran, non è che le blocco. Hanno il diritto di farlo. E così ogni volta lo Stato italiano va lì e paga milioni”. “Queste Ong – aggiunge Luttwak - sono ragazze e ragazzi che vanno in giro con Toyota Land Cruiser da 70.000 dollari, parlano a vanvera, non parlano la lingua, non sanno fare sono alcune ong importanti accreditate? La parola ong vuol dire non governativa. Vuol dire cioè che non è sorvegliata da nessuno. Questi sono giovanotti e giovanotte che non hanno una collocazione nella loro società, e sotto il nome di ong vanno a vanvera nel mondo. Ero in Bolivia e nell’Amazzonia boliviana, ho la mia fattoria di mucche. E vedo questi sbandati delle ong che vanno in giro a fare programmi cretini e poi scompaiono. Raccolgono soldi da qualche cretino e poi scompaiono. Sono una piaga”. Silvia Romano si vuol far chiamare Aisha: “Un po’ di rispetto, Aisha è la moglie di Mohammed. L’ha sposata quando Aisha aveva sei anni, ma nella biografia ufficiale spiegano che non ha consumato fino all’età di nove anni. Quindi è un glorioso nome Aisha. Un orrore? No, è una cosa bellissima. Adesso sento che questa vuole ritornare lì per farsi catturare di nuovo per essere liberata di nuovo. E magari c’è un genitore in giro, come ha fatto con le due disgraziatissime, che dice se mia figlia vuole ritornare io non è che la blocco. Se dovremmo impedire a queste persone di tornare lì? No, no, bisogna pubblicare una notizia oggi, in giro per il mondo, che se tu sei un cittadino italiano, che ti chiami ong o non ti chiami ong, Ciro o Giro, tu devi contattare il consolato italiano più vicino, e se il consolato ti avvisa che è pericoloso essere dove sei, se tu non ritorni a casa il consolato italiano non può più tutelarti”. Molti italiani sono rimasti infastiditi nel vedere la Romano vestita in maniera islamica? Tu sei un razzista del peggior tipo, sei un anti islamico. Lei si chiama Aisha che era la moglie di Mohammed. Che ha sposato a sei anni, consumato a nove. Questa è una parte importante. Io sto citando la biografia ufficiale del mondo religioso islamico. Lui ha detto guarda che non sono un pedofilo perché non ci ho fatto niente fino all’età di nove anni. Ma a me preoccupa solo un fatto, di aver collaborato coi puzzolenti turchi, i peggiori turchi del mondo, ci sono turchi belli e brutti. I più brutti sono quelli del servizio turco”.
Luttwak attacca: "Ong? Sbandati, non meritano questi grandi sforzi". Il politologo americano ricorda i casi delle due Simone e quello della giornalista Giuliana Sgrena, allargando il discorso ai riscatti ed ai rischi per gli agenti dei servizi segreti: "Queste persone italiane che si auto nominano Ong e che vanno a mettersi nei guai, non hanno diritto di esigere questi grandi sforzi". Federico Garau, Mercoledì 13/05/2020 su Il Giornale. Intervistato a "La Zanzara", trasmissione radiofonica in onda su Radio 24, il politologo statunitense Edward Luttwak commenta l'episodio della liberazione della collaborante milanese Silvia Romano. Nel fare ciò, si ricollega anche a simili episodi del recente passato avvenuti ad altri nostri connazionali e quindi allarga il discorso colpendo quanti, con lo "scudo" della denominazione Ong, si arrischiano in territori non di certo esenti da pericoli. "Anni fa", esordisce Luttwak, "una brava persona è morta per salvare una donna andata in Iraq per scrivere male dei soldati italiani in Iraq". Il riferimento è a Nicola Calipari, funzionario e agente dei servizi segreti, ucciso poco dopo aver concluso con successo l'operazione per liberare la giornalista del Manifesto Giuliana Sgrena, sequestrata dall'organizzazione del Jihad islamico mentre si trovava a Baghdad per girare un reportage. "Queste persone italiane che si auto nominano Ong e che vanno a mettersi nei guai, non hanno diritto di esigere questi grandi sforzi", aggiunge il politologo americano, come riportato da "Dagospia". "Più dei soldi c’è il rischio per il personale, che non sono lì per fare le bambinaie di queste disgraziatissime persone che vanno proprio lì dove c’è il pericolo. Vi assicuro che quello che questa signora faceva in Kenya non aveva nessun impatto su nessuno", attacca Luttwak. "Io vi do una lista di quartieri a Napoli dove c’è un enorme bisogno di lei. Invece lei va a fare un’avventura personale e poi si fa salvare dallo Stato italiano.", aggiunge ancora, prima di spostarsi sulla vicenda delle "due Simone", come le definisce lo stesso Luttwak. Si riferisce in questo caso a Simona Pari e Simona Torretta, rapite negli uffici di una Ong a Baghdad nel 2004 e liberate 20 giorni dopo dietro il pagamento di un riscatto, anche questo, come quello per salvare la giornalista Giuliana Sgrena, sempre negato dal governo. "E poi, com'è successo quella volta con quelle due disgraziatissime Simone, il padre diceva che se vogliono poi tornare in Iran, non è che le blocco. Hanno il diritto di farlo. E così ogni volta lo Stato italiano va lì e paga milioni". Sarebbe giusto impedir loro di tornare? Luttwak ha le idee chiare. "No, no, bisogna pubblicare una notizia oggi, in giro per il mondo, che se tu sei un cittadino italiano, che ti chiami ong o non ti chiami ong, Ciro o Giro, tu devi contattare il consolato italiano più vicino, e se il consolato ti avvisa che è pericoloso essere dove sei, se tu non ritorni a casa il consolato italiano non può più tutelarti", spiega il politologo. "Queste Ong sono ragazze e ragazzi che vanno in giro con Toyota Land Cruiser da 70mila dollari, parlano a vanvera, non parlano la lingua, non sanno fare nulla. La parola ong vuol dire non governativa. Vuol dire cioè che non è sorvegliata da nessuno", attacca ancora Luttwak. "Questi sono giovanotti e giovanotte che non hanno una collocazione nella loro società, e sotto il nome di ong vanno a vanvera nel mondo. Ero in Bolivia e nell’Amazzonia boliviana, ho la mia fattoria di mucche. E vedo questi sbandati delle ong che vanno in giro a fare programmi cretini e poi scompaiono. Raccolgono soldi da qualche cretino e poi scompaiono. Sono una piaga", accusa. E sul fatto che anche Silvia Romano (Aisha dopo la conversione) voglia tornare ancora in Africa? "Un po’ di rispetto, Aisha è la moglie di Mohammed. L’ha sposata quando Aisha aveva sei anni, ma nella biografia ufficiale spiegano che non ha consumato fino all’età di nove anni. Quindi è un glorioso nome Aisha. Un orrore? No, è una cosa bellissima. Adesso sento che questa vuole ritornare lì per farsi catturare di nuovo per essere liberata di nuovo", replica ancora Luttwak. "E magari c’è un genitore in giro, come ha fatto con le due disgraziatissime, che dice se mia figlia vuole ritornare io non è che la blocco", dice con amarezza. "Ma a me preoccupa solo un fatto, di aver collaborato coi puzzolenti turchi, i peggiori turchi del mondo, ci sono turchi belli e brutti. I più brutti sono quelli del servizio turco", affonda ancora il politologo statunitense. "Gli operativi dell’Aise sono operativi sul serio e chiunque critichi queste cose, non deve criticare loro. I loro colleghi di altri servizi sono molto operativi nei film, ma in pratica non sono operativi. Il peggior aspetto di questo è la collaborazione con i servizi turchi, gli agenti di Erdogan e dell’islamismo. Gli italiani avrebbero dovuto sputargli in faccia, a questi del servizio turco. Questa è una cosa terribile", conclude.
Da ilmessaggero.it il 16 maggio 2020. Con quale preparazione, garanzie e coperture assicurative è stata mandata Silvia Romano in Kenya dall'onlus Africa Milele a novembre del 2018? A questo interrogativo vuole dare una risposta la procura di Roma. Perciò ieri i carabinieri del Ros hanno perquisito per 9 ore la sede della Ong, a Fano, su mandato del pm Sergio Colaiocco. Lo stesso magistrato che è il titolare dell'inchiesta sul rapimento della cooperante. I militari hanno acquisito la documentazione relativa alle attività della onlus. Lilian Sora la presidente dell'associazione ha spiegato agli inquirenti che la giovane aveva sostenuto un colloquio e compilato un questionario seguendo un corso online. Tuttavia non era stata stipulata ancora l'assicurazione contro malattie e infortuni quando la 24enne è andata in Africa. La sicurezza della ragazza era garantita da due masai muniti di machete, ma in quel momento uno era al fiume e l'altro in giro per il villaggio. La presidente ha detto che fino a 20 minuti prima dell'assalto aveva parlato al telefono con Silvia e ha aggiunto di sapere chi avrebbe spiato e tradito la volontaria. Intanto ha generato un nuovo dibattito un post pubblicato dalla stessa 24enne per ringraziare i musulmani d'Italia per la solidarietà dimostrata per il suo ritorno a casa. «Assalamualaikum wa rahmatullahi a tutti voi che Allah vi benedica per tutto questo affetto che mi state dimostrando. Grazie a Dio, grazie, grazie! È bellissimo questo video, è un'emozione grande. Ciao fratelli! A presto in sha Aallah!». La cooperante ha scritto il messaggio sotto un video pubblicato sulla pagina Facebook La Luce News. Nel video, di oltre 5 minuti, sono tanti i volti che si alternano per darle il bentornato dopo la prigionia di 18 mesi in Somalia, per mano dei terroristi islamici di Al-Shabaab. Sull'argomento è intervenuto anche Abu Shwaima, il presidente del centro Islamico di Milano e Lombardia: «Se Silvia vuole venire in moschea è libera di farlo». Sulla scelta della ragazza di convertirsi alla fede musulmana, Shwaima sottolinea che «è personale». E sul polverone di polemiche sollevato nei giorni scorsi, osserva: «siamo in un Paese democratico, dove ognuno sceglie la religione che ritiene più adatta a sé». Chi invece si sofferma sulla scelta della Romano di abbracciare l'Islam è Giorgia Meloni presidente di Fratelli d'Italia: «non sono d'accordo che la conversione della ragazza sia stata libera, perchè le scelte libere le fanno persone libere non quelle che sono in catene. Mi è dispiaciuto che la comunità islamica in Italia, a partire dall'Ucoii, non sia riuscita a dire chiaramente che la conversione durante un rapimento non è una bella cosa». Infine la Meloni ha ricordato che «siamo di fronte ad un vittima del terrorismo fondamentalista».
Grazia Longo per ''la Stampa'' il 12 maggio 2020. Il sequestro di Silvia Romano si sarebbe potuto evitare? E ancora: qualcuno dovrà rispondere per i soldi spesi dallo Stato durante le indagini e le trattative? L' associazione onlus marchigiana Africa Milele, per conto della quale la venticinquenne milanese prestava volontariato nel villaggio di Chakama in Kenya, finisce nel mirino della Procura di Roma e del Ministero degli Esteri. Da un lato, il pool antiterrorismo guidato dal pm Sergio Colaiocco punta a verificare se alla cooperante erano state garantite condizioni di sicurezza dall' Africa Milele. Dall' altro, la Farnesina potrebbe chiedere all' Ong i danni economici in sede civile. Non certo per il riscatto, che il nostro governo nega di aver versato - mentre fonti dell' intelligence somala smentiscono e parlano di 1 milione e mezzo al rilascio più i pagamenti durante il passaggio di informazioni - quanto per le spese sostenute per i vari viaggi dei nostri 007 e degli inquirenti. Infatti, in base all' articolo 19 bis della legge 43 del 2015, a proposito «dell' incolumità dei cittadini italiani che intraprendono viaggi in Paesi stranieri, resta fermo che le conseguenze dei viaggi ricadono nell' esclusivo responsabilità individuale di chi assume le decisione di intraprendere o di organizzare i viaggi stessi». Ma il condizionale resta d' obbligo, innanzitutto per ragioni che afferiscono alla sfera politica e all' opportunità di creare un precedente nei casi di sequestri simili a quello di Silvia Romano. Inoltre la ragazza non era dipendente, ma una volontaria dell' onlus di Fano. E poi c' è l' indagine penale. La Procura di Roma, oggi diretta da Michele Prestipino, è quella che per la prima volta è riuscita a inchiodare alle proprie responsabilità i vertici della Bonatti spa di Parma, dopo il sequestro, nel 2015, di quattro tecnici (due dei quali persero la vita) in Libia. Al processo di primo grado sono stati condannati cinque persone tra cui i primi dirigenti della società. Il tribunale ha accolto la tesi del pm Colaiocco per il quale il rapimento dei quattro tecnici si sarebbe potuto evitare se l' impresa avesse adottato le misure di sicurezza necessarie. Certo, in quel caso si trattava di una società con lavoratori dipendenti, mentre nella circostanza di Silvia Romano siamo di fronte ad un' associazione di volontariato. Ma gli inquirenti vogliono comunque verificare se la ragazza operasse in condizioni di sicurezza o meno. La presidente dell' Africa Milele, assicura che non mancava la salvaguardia e la tutela della persona. «Ci tengo a precisare che Chakama non era zona rossa e che Silvia non è stata mai lasciata sola - esordisce -. È partita dall' Italia il 5 novembre con due volontari. Ad aspettarli inoltre c' era il mio compagno, che è il referente in Kenya dei progetti e della sicurezza, e un altro addetto alla sicurezza, entrambi Masai. I due volontari partiti con Silvia dovevano rientrare il 19 novembre e lei doveva andare con loro a Malindi per accogliere i nuovi che però hanno ritardato di due giorni perché avevano trovato un volo più economico. Così Silvia per caso è rimasta sola a Chakama. Il 20 è stata rapita». Per Silvia, tra l' altro, non era stata ancora stipulata l' assicurazione che l' Ong in genere attiva e che copre da infortuni e malattia «perché non c' era stato il tempo materiale». In questi mesi, precisano gli inquirenti, Lilian Sora è stata più volte ascoltata dai carabinieri del Ros, sia su sua richiesta sia su convocazione, ma ha fornito notizie «non di prima mano» e sulle quali si stanno ancora cercando riscontri. Sul fronte delle indagini il pm Sergio Colaiocco attende risposte dalle autorità somale dopo l' invio di una rogatoria internazionale. Da Mogadiscio fanno sapere che sulla vicenda è stata avviata una indagine e Sulaymaan Maxamed Maxmuud, giudice federale della Corte Suprema e procuratore generale della Repubblica federale della Somalia, ha chiesto ufficialmente «supporto all' Italia per le indagini e nello sviluppo della azione penale contro i sequestratori».
Silvia Romano, la fondatrice dalla Onlus: droga e violenza sui bimbi, la testimonianza sul villaggio in Kenya. Libero Quotidiano il Dopo il ritorno a casa di Silvia Romano, l’onlus Africa Milele avrà molto da spiegare: la procura di Roma indaga sull’associazione, che non avrebbe adottato alcun protocollo di sicurezza per proteggere la ragazza. La fondatrice Lilian Sora si è difesa in un’intervista rilasciata a Repubblica e ha anche sganciato una bomba a metà: “Certo che so chi ha tradito Silvia”, ha dichiarato senza però fare nomi o allusioni. “L’ho detto soltanto a familiari e inquirenti. Ho fatto le mie indagini, non per cercare di liberare Silvia ma per capire cosa fosse successo. E penso di averlo scoperto”. Una scoperta che però Lilian non ha voluto condividere pubblicamente, e quindi per ora non si può far altro che congetture: una riguarda i masai, che erano a guardia del villaggio di Chakama, dove Silvia è stata rapita. Le parole della fondatrice della onlus sembrano però escludere una complicità dei masai: “Il villaggio era tranquillo, non ci saremmo mai aspettati quello che è successo. Al massimo poteva passare qualcuno con troppo liquore di cocco in corpo, niente più, e ci pensava il masai”. Quest’ultimo era armato di machete e si occupava di istruire i volontari che arrivavano dall’Italia per vivere l’Africa “vera”, quella rurale: “Hanno una grande energia, è bello poterli accogliere ma uno si faceva i selfie nel campo di marijuana, l’altro lo scopri ‘affettuoso’ coi bambini, un altro ancora… lasciamo perdere, ci domandavamo se fosse meglio avere solo cooperanti”. Inoltre Lilian ha spiegato che ogni volontario prima di partire firmava un regolamento, ma l’ipotesi di rapimento o assalto violento non era contemplata: “Non ci abbiamo mai pensato. Se conoscete quel villaggio e la sua gente capireste”.
Silvia Romano tradita o venduta? I carabinieri setacciano l’Onlus. Pubblicato venerdì, 15 maggio 2020 su Corriere.it da Fiorenza Sarzanini. «Nostra figlia è stata lasciata da sola»: è stata questa accusa pesante e diretta lanciata dai genitori di Silvia Romano a portare i carabinieri del Ros negli uffici della Onlus «Africa Milele». Accusa confermata dalla stessa ragazza domenica pomeriggio quando nel suo interrogatorio davanti a magistrati e investigatori ha raccontato di essere rimasta in Kenya, nel villaggio di Chakama, senza alcuna misura di sicurezza. La perquisizione ordinata ieri dai magistrati serve dunque a controllare la documentazione relativa alla missione, ad accertare quali precauzioni siano state adottate per proteggere i volontari. Perché il vero interrogativo è fin troppo evidente: il sequestro poteva essere evitato? Non ci sono indagati al momento, ma se fosse stabilito che non sono stati seguiti i protocolli di sicurezza per questo tipo di missioni la fondatrice Lilian Sora e i responsabili dell’associazione rischiano l’accusa di favoreggiamento nei confronti dei rapitori. Anche Silvia dovrà essere nuovamente ascoltata dai magistrati, ma in questi giorni si sta cercando di farle ritrovare serenità con la sua famiglia. E dunque la convocazione è prevista nelle prossime settimane. La prima segnalazione di «anomalie e criticità» arriva dall’Unità di crisi della Farnesina e dal suo responsabile Stefano Verrecchia subito dopo il sequestro avvenuto nel novembre 2018. Il diplomatico si fa portavoce dello stato d’animo della famiglia che accusa «Africa Milele» di non aver dato a Silvia «alcun aiuto a gestire una situazione complicata come può essere quella di un villaggio africano». Si scopre così che sono state omesse anche le regole minime. Manca la registrazione al sito «Viaggiare informati» e presso l’ambasciata ci sono dubbi anche sulle polizze assicurative stipulate per chi accetta di andare in Kenya per accudire i bambini e insegnare loro a leggere e scrivere. Quando agli inizi del 2019 i carabinieri del Ros vanno a Malindi per ricostruire le fasi della cattura di Silvia scoprono che la sicurezza del villaggio era stata affidata a Joseph, un masai. In realtà si tratta del marito di Lilian Sora. La donna era arrivata in Kenya nel 2000 per una vacanza con il marito italiano ma aveva deciso di rimanere e aprire un orfanatrofio per accudire i piccoli orfani, ma anche altri bambini occupandosi della loro educazione, di consegnare alle famiglie cibo e medicine. E aveva sposato Joseph al quale aveva affidato l’organizzazione del villaggio. Su questo Silvia adesso ha fornito dettagli ritenuti fondamentali dal procuratore Michele Prestipino e dal pubblico ministero Sergio Colaiocco per decidere di verificare tutte le possibili omissioni. «Qualche giorno prima della mia cattura - ha spiegato la giovane - due uomini vennero a cercarmi nel villaggio. Io lo seppi dopo ma il masai che doveva essere con noi non fece nulla su questo episodio». Ecco allora che diventa fondamentale ricostruire che cosa accadde in quei giorni per scoprire se qualcuno, anche inconsapevolmente, possa aver tradito Silvia raccontando che al villaggio c’era una ragazza bianca. O se invece la volontaria sia stata «venduta» come ipotizzano sin dai primi momenti i poliziotti kenyoti. Del resto è noto che gli occidentali sono merce preziosa per i gruppi criminali e ancor più per i fondamentalisti. E dunque si deve stabilire se fossero state predisposte scorte e misure di sicurezza per evitare che Silvia cadesse preda dei rapitori. I carabinieri hanno sequestrato i computer per acquisire le mail, i protocolli, i contratti di assicurazione. Venerdì la giovane volontaria ha pubblicato un post di ringraziamento ai musulmani d’Italia che le hanno espresso solidarietà con un video dove si alternano le persone che le danno il bentornata. «As-Salamu Alaikum wa rahmatullahi a tutti voi che Allah vi benedica per tutto questo affetto che mi state dimostrando. Grazie a Dio, grazie grazie! È bellissimo questo video, è un’emozione grande. Ciao fratelli! A presto In sha’ Allah!».
Francesco Battistini per corriere.it il 12 maggio 2020. Si chiama Karen Blixen, ma ha poco dell’esotismo africano che incantò la scrittrice danese: è la pizzeria degli italiani a Malindi, il ritrovo d’expat e di pettegolezzi. Ventilatori sospesi, wi-fi a manetta, spaghetti all’aragosta. Per mesi è stato anche l’ultimo deposito dello zainetto di Silvia Romano. Poche cose lasciate lì, qualche sera prima di partire per Chakama e per il suo destino di rapita. Come le altre volontarie dell’onlus Africa Milele, la ragazza spesso passava dal Karen Blixen a vedere qualcuno. «Le chiamavamo le ragazze con la valigia», dice un assicuratore veneto in pensione: «Atterravano dall’Italia con queste borse piene di medicinali e di latte in polvere da portare a Chakama. Facevano un po’ da postine. Perché lavoravano per un’organizzazione piccola e, insomma, dovevano arrangiarsi…». Arrangiarsi, la parola giusta. Africa Milele e la sua fondatrice, Lilian Sora, 42 anni, fanese di Falcineto Castracane, così sono sempre state percepite nel mondo del volontariato. Ultime arrivate, poco conosciute, un filo improvvisate. Anche un po’ troppo sorde ai consigli di chi già lavorava da anni in Kenya e predicava prudenza, nell’adozione di misure di sicurezza e nella scelta dei collaboratori: «Io per esempio smisi nel 2013 d’accettare volontari, perché sono pericolosi», fu il commento a caldo di Popi Fabrizio, dopo il sequestro. Lui è un ex discografico che collaborava con Renato Zero e che a Chakama aveva aperto una fattoria solidale, prima d’avere discussioni proprio con Lilian Sora e d’andarsene. Esiste una responsabilità di chi manda questi ragazzi e una tendenza di molti volontari a mettersi nei guai, è sempre stato il pensiero di Fabrizio. Perché sono «pericolosi per la loro leggerezza, per la loro ingenuità, per la mancanza assoluta di rispetto delle regole del Paese che li ospita, per l’esagerato amore nei confronti dei bambini, solo perché sono scalzi, sporchi, affamati e fanno tanta tenerezza. Pensano a una bella vacanza, pensano alla novità, pensano alle foto, ai milioni di video che poi di sera postano sui social. Pensano di essere immuni da tutto e quasi ogni giorno, senza saperlo, rischiano grosso. Sono pericolosi e controproducenti, anche se apprezzo il loro grande impegno, che riconosco spontaneo e genuino». Spontanea e genuina, la figlia diciannovenne coinvolta, la bambina di tre anni e due cagnolini a trotterellarle intorno, Lilian in questi anni ha messo tutta se stessa nel progetto africano. «Devo dire che s’è data molto da fare», le riconosce un’elegante signora romana che da quindici anni frequenta Malindi e che per un po’ aveva collaborato con Africa Milele: «Anch’io ho portato queste famose valigie. Poi ho smesso. A un certo punto — ride —, qualcuno malignava che assieme agli aiuti servissero a trasportare anche qualche prosciutto…». Cattiverie della comunità italiana, probabilmente, che un po’ sospettosa soprannominava «la Sora Lella» quest’esuberante marchigiana piombata dal nulla in vacanza a fine anni Zero, ancora con l’ex marito italiano, e poi folgorata dal Kenya e dall’amore per un masai, Joseph, messo subito a capo della missione a Chakama. Il progetto d’un orfanotrofio, l’educazione dei piccoli, la raccolta di cibo, il sostegno a distanza, le bomboniere solidali. «Lilian ha aiutato decine di bambini — racconta l’ex volontaria romana —. Una volta ne ho incontrato uno in Italia, che aveva portato per curarsi: felice, ben accudito, amato…». Proprio quest’entusiasmo di Lilian aveva forse attratto Silvia, giunta via Facebook pochi mesi prima del sequestro e dopo un’esperienza con un’altra onlus, la Orphan’s Dream. Senza troppa attenzione ad alcune possibili leggerezze organizzative, come ipotizzano i Ros che in questi mesi hanno ascoltato più volte «la Sora Lella» e hanno riscontrato, per esempio, come Silvia fosse in Kenya senza nemmeno uno straccio d’assicurazione per le malattie e gli infortuni («non c’era stato ancora il tempo materiale di fare la polizza», la spiegazione). La mamma della volontaria milanese non vuole più sentir parlare di Lilian Sora, «da mo’», e la famiglia Romano ha chiesto alla Farnesina di fare qualcosa contro questa onlus che ha mandato «allo sbaraglio» la figlia, lasciandola sola nella savana la notte del sequestro. Lei, Lilian, ha tentato in mille modi e inutilmente di parlare con l’appartamento di via Casoretto: si difende, spiegando che Silvia era rimasta in compagnia di Joseph e d’un altro masai fino al giorno prima, che solo un contrattempo aveva creato quelle ore di buco organizzativo, d’abbandono solitario, in cui s’erano infilati rapidamente gli otto banditi. Ora Lilian dice d’avere fatto indagini sue sul sequestro, scoprendo dettagli come l’alloggio dei sequestratori a Chakama, peraltro ampiamente descritto sui giornali a suo tempo. Sostiene d’essere sicura su chi abbia «incastrato» Silvia, senza però fare nomi. Tempo fa, raccontò in tv d’un keniano che mandava richieste di riscatto e alludeva a un misterioso italiano — mai identificato — come organizzatore della truffa. L’ultimo compleanno della ragazza, a settembre, Lilian aveva fatto gli auguri da lontano e accennato alle difficoltà nate dal sequestro: «Nonostante l’amarezza, non abbiamo mai smesso di lavorare, in silenzio, con lo stesso impegno e la coerenza di sempre». Il giorno del rilascio, dopo tanto silenzio, è ricomparsa sul suo sito con due parole in maiuscolo: «LA GIOIA». Nessuno dalla famiglia ha condiviso con lei tanta contentezza. I suoi progetti si sono fermati, i donatori si sono eclissati, la scuoletta di Chakama è semichiusa. Il ricordo della sua Africa Milele, Africa per sempre, resterà per sempre legato a questa brutta storia.
Estratto dell’articolo di Paolo G. Brera per “la Repubblica” il 12 maggio 2020. «Certo che so chi ha tradito Silvia», sorride amaro Lilian Sora, fondatrice della Onlus Africa Milele con cui collaborava Silvia Romano: «Ma l' ho detto a familiari e inquirenti e basta. Ho fatto le mie indagini, non per cercare di liberare Silvia ma per capire cosa fosse successo. E penso di averlo scoperto». (…) La sicurezza, sostiene Lilian, a Chakama c' era: «Lo so, ci hanno buttato addosso tanto fango ma la protagonista ora è Silvia e risponderà lei, sono sicura». Ma ora Silvia è libera, e i familiari hanno preso le distanze dalla Onlus. «Davvero? Per tramite dei volontari mi sono arrivate parole carine, da parte di Silvia. (…) Dovremo assolutamente parlare, in questo anno e mezzo anche io mi sono avvicinata all' Islam. Suo papà non l'ho mai conosciuto, sono separati e io parlavo con la mamma, che non sapeva neppure dove si trovasse esattamente sua figlia in Kenya. (…) Non avevamo i numeri l' una dell' altra, evidentemente Silvia non lo riteneva necessario... strano no? Se stavo zitta per rispettare il loro dolore dicevano che me ne infischiavo, se parlavo di Silvia mi dicevano di rispettare il silenzio per le indagini». «il villaggio era tranquillo, non ci saremmo mai aspettati quello che è successo. Al massimo poteva passare qualcuno con troppo liquore di cocco in corpo, niente più, e ci pensava il masai ». «Possono avere solo il machete, la legge vieta le armi da fuoco». Mai una minaccia, dagli islamisti? «Nel villaggio sono quasi tutti anglicani, la prima moschea è nata un anno fa e ha successo solo perché dà da mangiare». (…)
Quarta Repubblica, Guido Bertolaso su Silvia Romano: "18 mesi di rapimento? Non può essere un caso". Libero Quotidiano il 12 maggio 2020. A Quarta Repubblica di Nicola Porro, in onda su Rete 4 lunedì 11 maggio, tiene banco il rapimento e il rilascio di Silvia Romano. A parlarne anche Guido Bertolaso, presente in collegamento, che punta il dito contro onlus e ong che mandano ragazzi allo sbaraglio in territori pericolosi, come l'Africa: "I cooperanti italiani devono andare con organizzazioni serie e strutturate, che mai manderebbero ragazzi allo sbaraglio. Facciamo un'analisi seria su quelle organizzazioni che mandano questi ragazzi in situazioni a rischio", premette l'ex capo della protezione civile, ora impegnato nella battaglia al coronavirus. Dunque, riferendosi ai terroristi islamici di Al Shabaab, aggiunge: "Non ci possono essere assoluzioni verso questi criminali, sono professionisti del terrorismo e non credo che sia stato casuale che abbiano tenuto questa povera ragazza per 18 mesi". Insomma, un tempo che potrebbe essere necessario e sufficiente per far tornare Silvia da convertita, col nome di Aisha.
Dritto e Rovescio, Pietro Senaldi su Silvia Romano: "Nessun grazie all'Italia, ci ha parlato dei carcerieri". Libero Quotidiano il 15 maggio 2020. La furia di Pietro Senaldi a Dritto e Rovescio sul caso di Silvia Romano. Nella puntata in onda su Rete 4 giovedì 14 maggio, il direttore di Libero parla della liberazione della ragazza, rimarcando come sia mancato un "grazie all'Italia" che la ha liberata. "Non c'è bisogno di essere islamofobi per amareggiarsi della vicenda di Silvia - premette il direttore -. Abbiamo pagato un sacco di soldi per questa ragazza, per averla qui con noi. E le sue prime parole sono servite a tranquillizzarci del fatto che i carcerieri la hanno trattata bene, anziché dire grazie Italia che hai pagato il riscatto", conclude Pietro Senaldi.
Pietro Senaldi, rissa con Karima Moual a Dritto e rovescio: "Silvia Romano ha ringraziato i carcerieri e non l'Italia". Libero Quotidiano il 15 maggio 2020. Durissimo scontro in diretta tra Pietro Senaldi e Karima Moual a Dritto e rovescio. "Non c'è bisogno di essere islamofobi per stupirsi e amareggiarsi per la vicenda di Silvia Romano - spiega il direttore di Libero in collegamento con Paolo Del Debbio -. Noi abbiamo pagato un sacco di soldi per questa ragazza. Le sue parole appena arrivata qui, forse perché scossa, ha detto che i carcerieri l'hanno trattata bene anziché dire grazie Italia, viva l'Italia". "Ma sarà libera di esternare quello che vuole, questa ragazza?", lo interrompe la giornalista italo-marocchina, esperta di Islam e questioni mediorientali. E Senaldi, impossibilitato a concludere il suo ragionamento, sbotta: "Mi scusi? Mi scusi? E va bene, ha ragione lei, hanno ragione i terroristi...".
Quarta Repubblica, Alessandro Sallusti contro Silvia Romano: "Nemmeno una parola di critica contro i carcerieri". Libero Quotidiano il 12 maggio 2020. Non fa sconti, non arretra di un millimetro, Alessandro Sallusti sul caso di Silvia Romano, una vicenda sulla quale continua ad usare toni molto critici e duri. Non arretra neppure a Quarta Repubblica, la trasmissione di Nicola Porro in onda su Rete 4, nella puntata di lunedì 11 maggio. Il direttore, infatti, attacca: "Qui ai terroristi non gliene frega niente di nessuno, per la cultura italiana una vita umana non ha prezzo, bisognerebbe fare una legge che impedisca a persone di andare in posti a rischio". Insomma, dito puntato contro onlus e ong e contro chi commette scelte imprudenti. Poi, però, un'accusa diretta alla giovane cooperante milanese, a quella Silvia che ora si fa chiamare Aisha: "Mi ha colpito che non ha avuto una parola di critica per i suoi sequestratori", ha aggiunto Sallusti. Certo, non si conoscono ancora le circostanze, l'accordo per il rilascio e soprattutto le condizioni psicologiche di Silvia. Ma quel silenzio, quelle parole mancate, per ora stanno lì, restano e si fanno notare.
C. Gu. per “il Messaggero” il 12 maggio 2020. Fissare le regole, non cadere nella trappola dei facili entusiasmi. «Ogni volta che un ragazzo vuole entrare nel nostro gruppo, prima di tutto gli diciamo: Se ne parla tra un mese, ripresentati con le tue motivazioni. Trascorso un mese, non tutti coloro che parevano così determinati a unirsi a noi ritornano». Ernesto Olivero ha ottant'anni e con la stessa forza di quando cominciò l'avventura guida il Sermig, il Servizio missionario giovani fondato a Torino nel 1964 con la moglie Maria. Oggi l'Arsenale della Pace è il cuore di una realtà di solidarietà presente in ogni angolo del mondo, 3.420 progetti di sviluppo in cinque continenti dal Libano al Brasile, dall'Iraq al Rwanda, dalla Georgia al Bangladesh. Oltre settanta le missioni di pace condotte nelle zone più calde, che sono valse a Olivero la candidatura al Nobel per la pace da parte di Madre Teresa di Calcutta.
L'esperienza internazionale in territori difficili non vi manca. Che errori ha commesso chi ha mandato Silvia Romano in Kenya?
«Cominciamo dai candidati. Chi torna da noi dopo un mese con motivazioni solide, viene accolto per una prova trimestrale. È essenziale che chi è in difficoltà si raffronti con persone equilibrate. Perciò dopo la prova lo rimandiamo a casa e gli diciamo Torna tra un mese. Ci vogliono sei, sette anni per entrare e far parte del gruppo e intraprendere missioni all'estero. Del resto, se si vuole diventare geometra quanti anni si studia? Per diventare volontario servono equilibrio e saggezza. Inoltre è un impegno che può durare tutta la vita, perciò chi vi si dedica deve trovare motivazioni nuove ogni giorno. E infatti i nostri volontari hanno periodici momenti di confronto e di approfondimento, è un lavoro che richiede dedizione e non consente mai cali di attenzione».
E soprattutto che non si improvvisa.
«Mai, questo bisogna tenerlo sempre ben presente. Quando ci hanno chiesto di andare in Giordania e in Brasile, la prima cosa che ho fatto è stata partire per conto mio. Sono andato a studiare il territorio, conoscere la gente, capire a fondo la realtà. Siamo andati dapprima in modo riservato, per approfondire le abitudini di questi Paesi e chiarirci le idee su cosa avremmo potuto fare. Quando l'abbiamo capito, abbiamo accettato l'incarico. Oggi a San Paolo accogliamo ogni giorno quasi 2.000 persone, in Giordania abbiamo una casa per decine di bambini disabili, sia cristiani che musulmani. Abbiamo sperimentato che l'umanità e la sofferenza dei piccoli sono il banco di prova per coltivare amore, rispetto, aiuto reciproco. Il mondo arabo è molto più complicato, all'inizio siamo stati rifiutati. Noi abbiamo portato ragazze giovani, per dimostrare che uomo e donna hanno le stesse possibilità di comandare. Ma prima hanno imparato l'arabo. Non vai in un Paese di cui non conosci la lingua».
Altre condizioni?
«Non mandiamo una persona da sola e dobbiamo avere un punto di riferimento sul posto. Anche noi ci siamo trovati in situazioni molto difficili, i nostri volontari però non erano mai soli. Ogni giorno si può sbagliare, serve sempre qualcuno accanto. Ancora, entusiasmo è una parola terribile, noi vogliamo la convinzione: è ciò che ti fa capire davvero che situazioni stai vivendo. Ai nostri volontari, per prima cosa, non facciamo incontrare le persone disagiate. Devono fare le pulizie, mettere in ordine le nostre case. Un passo alla volta».
Il pagamento del riscatto, nel rapimento dei volontari, è un tema che divide.
«Non mi permetto di giudicare. Dico solo che se si entra in un meccanismo che non si può dominare, serve saggezza. Se non sono in grado di gestire una situazione, sto bene attento a non infilarmici. Ci sono dolori, sofferenze di mezzo. Ora la polemica non serve a niente».
LA CONVERSIONE.
Silvia Aisha Romano: “Il velo è simbolo di libertà”. Il Dubbio il 6 luglio 2020. Silvia Romano, la volontaria milanese rapita in Kenya e liberata lo scorso maggio raccontata i mesi della prigionia e la sua conversione all’Islam: “Per me la libertà è non venire mercificata, non venire considerata un oggetto sessuale”. “Per me il mio velo è un simbolo di libertà, perché sento dentro che Dio mi chiede di indossare il velo per elevare la mia dignità e il mio onore, perché coprendo il mio corpo so che una persona potrà vedere la mia anima. Per me la libertà è non venire mercificata, non venire considerata un oggetto sessuale”. Con queste parole Silvia Aisha Romano, la volontaria milanese rapita in Kenya e liberata lo scorso maggio dopo un anno e mezzo di prigionia, ha raccontato per la prima volta in una intervista i mesi della prigionia e la sua conversione all’Islam al giornale online “La Luce”, di cui è direttore Davide Piccardo esponente della comunità islamica di Milano. “Quando vado in giro sento gli occhi della gente addosso; non so se mi riconoscono o se mi guardano semplicemente per il velo; in metro o in autobus credo colpisca il fatto che sono italiana e vestita così. Ma non mi dà particolarmente fastidio. Sento la mia anima libera e protetta da Dio”, ha spiegato Silvia Aisha Romano: “Ho sognato di trovarmi in Italia, passavo ai tornelli della metropolitana e sulla mia tessera dell’ATM c’era scritto Aisha e poi è un nome che significa viva”E sul rapimento: E sulla sua partenza come volontaria racconta: “Ho sentito il bisogno di andare e mettermi in gioco aiutando l’altro nel concreto. L’idea di continuare a studiare e rimanere qui non mi andava, volevo fare un’esperienza vera, per crescere e per aiutare gli altri”. L’idea che avevo dell’Islam era quella che in molti purtroppo hanno quando non ne sanno niente. Quando vedevo le donne col velo in Via Padova, avevo quel tipico pregiudizio che esiste nella nostra società, pensavo: poverine! Per me quelle donne erano oppresse, il velo rappresentava l’oppressione della donna da parte dell’uomo. All’epoca ero una persona ignorante, non conoscevo l’Islam e giudicavo senza mai essermi impegnata a conoscere”.
Il racconto del rapimento. “Nel momento in cui fui rapita, iniziando la camminata, iniziai a pensare: io sono venuta a fare volontariato, stavo facendo del bene, perché è successo questo a me? Qual è la mia colpa? È un caso che sia stata presa io e non un’altra ragazza? È un caso o qualcuno lo ha deciso?”, racconta Silvia Aisha Romano. E poi: “Queste prime domande credo mi abbiano già avvicinato a Dio, inconsciamente. Ho iniziato da lì un percorso di ricerca interiore fatto di domande esistenziali. Mentre camminavo, più mi chiedevo se fosse il caso o il mio destino, più soffrivo perché non avevo la risposta, ma avevo il bisogno di trovarla. Capivo che c’era qualcosa di potente ma non l’avevo ancora individuato, però capivo che si trattava di un disegno, qualcuno lassù lo aveva deciso”.
La conversione. “Il passaggio successivo – spiega Silvia – è avvenuto dopo quella lunga marcia, quando già ero nella mia prigione; lì ho iniziato a pensare: forse Dio mi ha punito. Forse Dio mi stava punendo per i miei peccati, perché non credevo in Lui, perché ero anni luce lontana da Lui. Un altro momento importante è stato a gennaio, ero in Somalia in una stanza di una prigione, da pochi giorni. Era notte e stavo dormendo quando sentii per la prima volta nella mia vita un bombardamento, in seguito al rumore di droni. In una situazione di terrore del genere e vicino alla morte iniziai a pregare Dio chiedendogli di salvarmi perché volevo rivedere la mia famiglia; Gli chiedevo un’altra possibilità perché avevo davvero paura di morire. Quella è stata la prima volta in cui mi sono rivolta a Lui. A un certo punto ho iniziato a pensare che Dio, attraverso questa esperienza, mi stesse mostrando una guida di vita, che ero libera di accettare o meno. Imparai un versetto prima ancora di diventare musulmana, il versetto 70 della surah al Anfal: “O Profeta, di’ ai prigionieri che sono nelle vostre mani: – Se Dio ravvisa un bene nei cuori vostri, vi darà più di quello che vi è stato preso e vi perdonerà -. Dio è perdonatore misericordioso.”
Silvia Romano: "Ecco come sono diventata Aisha. Il velo è per me simbolo di libertà". Pubblicato lunedì, 06 luglio 2020 su La Repubblica.it da Zita Dazzi. "Ero disperata perché, nonostante alcune distrazioni come studiare l'arabo, vivevo nella paura dell'incertezza del mio destino. Ma più il tempo passava e più sentivo nel cuore che solo Lui poteva aiutarmi e mi stava mostrando come...". Silvia Romano, la cooperante milanese rapita in Kenya nel novembre 2018 e rimasta prigioniera dei terroristi in Somalia per un anno e mezzo, parla per la prima volta a quasi due mesi dal rilascio. La ragazza, che ora si trova fuori Milano per un periodo di riposo, ha parlato con Davide Piccardo, direttore del giornale online "la Luce", già portavoce del coordinamento delle moschee di Milano e della Brianza, esponente di spicco della comunità islamica lombarda, a cui Silvia si è avvicinata dal giorno del suo ritorno a Milano. Silvia frequenta la moschea di Cascina Gobba e le associazioni ad essa legate. Al centro del colloquio con Piccardo soprattutto i temi spirituali e legati alla conversione all'Islam maturata durante la prigionia in Somalia. La cooperante spiega che prima della partenza e prima ancora del rapimento era "completamente indifferente a Dio, anzi potevo definirmi una persona non credente; spesso, quando leggevo o ascoltavo le notizie sulle innumerevoli tragedie che colpiscono il mondo, dicevo a mia madre: vedi, se Dio esistesse non potrebbe esistere tutto questo male ... quindi Dio non esiste, altrimenti eviterebbe tutto questo dolore. Mi ponevo queste domande rarissime volte, solo quando - appunto - mi confrontavo con i grandi mali del mondo. Nel resto della mia vita ero indifferente, vivevo inseguendo i miei desideri, i miei sogni e i miei piaceri".
Silvia Romano spiega anche la sua scelta di indossare il velo islamico: "Il concetto di libertà è soggettivo e per questo è relativo. Per molti la libertà per la donna è sinonimo di mostrare le forme che ha; nemmeno di vestirsi come vuole, ma come qualcuno desidera. Io pensavo di essere libera prima, ma subivo un'imposizione da parte della società e questo si è rivelato nel momento in cui sono apparsa vestita diversamente e sono stata fatta oggetto di attacchi ed offese molto pesanti. C'è qualcosa di molto sbagliato se l'unico ambito di libertà della donna sta nello scoprire il proprio corpo. Per me il mio velo è un simbolo di libertà, perché sento dentro che Dio mi chiede di indossare il velo per elevare la mia dignità e il mio onore, perché coprendo il mio corpo so che una persona potrà vedere la mia anima. Per me la libertà è non venire mercificata, non venire considerata un oggetto sessuale". Oggi Silvia che è stata oggetto di una violenta campagna di odio social per la sua conversione, spiega di sentirsi "gli occhi della gente addosso: non so se mi riconoscono o se mi guardano semplicemente per il velo; in metro o in autobus credo colpisca il fatto che sono italiana e vestita così. Ma non mi dà particolarmente fastidio. Sento la mia anima libera e protetta da Dio". La scelta del nome Aisha, come oggi Silvia si fa chiamare, deriva da qui: "Ho sognato di trovarmi in Italia, passavo ai tornelli della metropolitana e sulla mia tessera dell'Atm c'era scritto Aisha e poi è un nome che significa "viva". Dopo il rapimento nel piccolo villaggio di Chakama in Kenya dove si trovava per un periodo di volontariato per conto dell'associazione Miele, Silvia Romano racconta di aver cambiato idea sulla religione e di aver chiesto ai suoi carcerieri un Corano per poter leggere e ingannare il tempo. "Dopo aver letto il Corano non ci trovai contraddizioni e fin da subito sentii che era un libro che guidava al bene. Il Corano non è la parola di Al Shabaab!", dice, riferendosi al gruppo terroristico che l'ha tenuta prigioniera. "Ad un certo punto sentii che era un miracolo, per questo la mia ricerca spirituale continuava e acquisivo sempre più consapevolezza dell'esistenza di Dio", racconta la giovane.
Altri dettagli sul periodo passato in prigionia li racconta quando spiega da dove ha avuto origine la sua conversione: "Un altro momento importante è stato a gennaio, ero in Somalia in una stanza di una prigione, da pochi giorni. Era notte e stavo dormendo quando sentii per la prima volta nella mia vita un bombardamento, in seguito al rumore di droni. In una situazione di terrore del genere e vicino alla morte iniziai a pregare Dio chiedendogli di salvarmi perché volevo rivedere la mia famiglia; gli chiedevo un'altra possibilità perché avevo davvero paura di morire. Quella è stata la prima volta in cui mi sono rivolta a Lui". Silvia Romano, come già aveva fatto subito dopo la liberazione, ascoltata dai pm che indagano sul suo rapimento, conferma di non essere stata obbligata né plagiata dai suoi aguzzini, ma di esser diventata musulmana per libera scelta. Di qui la decisione di mostrarsi al suo rientro a Ciampino il 9 maggio scorso indossando la veste tradizionale delle donne musulmane, con un velo verde, il colore dell'Islam. Silvia spiega che la scelta di partire per l'Africa è maturata dopo il "terzo ed ultimo anno di università" e che facendo la tesi si interessò "moltissimo all'argomento che stavo trattando: la tratta di donne ai fini della prostituzione, da lì ho avuto uno scatto nei confronti delle ingiustizie. Sono sempre stata compassionevole, molto sensibile nei confronti dei bambini, delle donne maltrattate, ho sempre sentito molta empatia, ma il passo successivo, quello di agire davvero, di rendermi utile all'altro con l'azione l'ho fatto solo alla fine dell'università. Ho sentito il bisogno di andare e mettermi in gioco aiutando l'altro nel concreto. L'idea di continuare a studiare e rimanere qui non mi andava, volevo fare un'esperienza vera, per crescere e per aiutare gli altri". Silvia nata a cresciuta al Casoretto, parla anche della zona di via Padova a Milano, il quartiere multietnico dove in tanti l'hanno aspettata pregando e organizzando manifestazioni per chiedere la liberazione. E parla della sua famiglia che in queste settimane l'ha protetta dall'aggressione dei social: "Mio padre e mia madre sono sempre stati aperti mentalmente, tolleranti, non hanno mai discriminato e io ho sempre avuto amici di provenienze diverse. I miei genitori mi hanno sempre insegnato a considerare il diverso come un arricchimento, con mia mamma ho sempre viaggiato tantissimo. Ogni estate andavamo in un paese diverso, dal Marocco alla Repubblica Dominicana, all'Egitto, a Capo Verde".
Spiega che all'inizio era diffidente verso i musulmani: "L'idea che avevo dell'Islam era quella che in molti purtroppo hanno quando non ne sanno niente. Quando vedevo le donne col velo in via Padova, avevo quel tipico pregiudizio che esiste nella nostra società, pensavo: poverine! Per me quelle donne erano oppresse, il velo rappresentava l'oppressione della donna da parte dell'uomo". La conversione non era maturata in Kenya durante la sua missione da cooperante: "C'era una moschea, c'erano i musulmani, un mio grande amico era musulmano ma io non mi sono mai posta molte domande. Il venerdì lo vedevo con la tunica e sapevo che andava alla moschea, ma la cosa è rimasta lì. C'erano anche delle ragazzine che il venerdì vedevo con il velo ma non c'era proprio interesse da parte mia". Il primo campanello verso l'Islam è suonato, spiega Silvia Romano, "Nel momento in cui fui rapita, iniziando la camminata, iniziai a pensare: io sono venuta a fare volontariato, stavo facendo del bene, perché è successo questo a me? Qual è la mia colpa? È un caso che sia stata presa io e non un'altra ragazza? È un caso o qualcuno lo ha deciso? Queste prime domande credo mi abbiano già avvicinato a Dio, inconsciamente. Ho iniziato da lì un percorso di ricerca interiore fatto di domande esistenziali". Il passaggio successivo sarebbe avvenuto durante la lunga marcia verso la Somalia: "Quando già ero nella mia prigione; lì ho iniziato a pensare: forse Dio mi ha punito. Forse Dio mi stava punendo per i miei peccati, perché non credevo in Lui, perché ero anni luce lontana da Lui".
Silvia Romano, la confessione sul velo: "Pensavo poverine, invece è un simbolo di libertà". Libero Quotidiano il 06 luglio 2020. Silvia Romano ha rilasciato la prima intervista dal rapimento, dalla sua conversione all’Islam e dalla conseguente liberazione. E lo ha fatto al sito La Luce, in cui ha spiegato la scelta di andare volontaria in Africa, l’avvicinamento alla fede e soprattutto il modo in cui ha cambiato il suo pregiudizio sulle donne con il velo. “Per me è un simbolo di libertà - ha dichiarato la cooperante milanese - perché sento dentro che Dio mi chiede di indossare il velo per elevare la mia dignità e il mio onore, perché coprendo il mio corpo so che una persona potrà vedere la mia anima. Per me la libertà è non venire mercificata, non venire considerata un oggetto sessuale”. La Romano ha ammesso di sentire gli occhi della gente addosso quando esce di casa: “Non so se mi riconoscono o se mi guardano semplicemente per il velo. In metro o in autobus credo colpisca il fatto che sono italiana e vestita così. Ma non mi dà particolarmente fastidio, sento la mia anima libera e protetta da Dio”. Poi la riflessione sull’Islam, che ha scoperto diverso da quello che pensava: “Quando vedevo le donne col velo in via Padova avevo quel tipico pregiudizio che esiste nella nostra società. Pensavo poverine, per me quelle donne erano oppresse. All’epoca ero una persona ignorante, non conoscevo l’Islam e giudicavo senza mai essermi impegnata a conoscere”.
Ida Artiaco per fanpage.it il 6 luglio 2020. Sono passati quasi due mesi da quando Silvia Romano è stata liberata ed è tornata in Italia. Era il 9 maggio scorso quando il premier, Giuseppe Conte, rivelò che la cooperante milanese, rapita nel novembre del 2018 mentre si trovava in Kenya con l'associazione Africa Milele, e tenuta prigioniera per oltre un anno e mezzo in Somalia, stava bene e che poteva rientrare a casa e riabbracciare i suoi genitori. Oggi, Silvia, che intanto si è convertita all'Islam e si fa chiamare Aisha, ha raccontato per la prima volta i mesi della prigionia e la decisione di diventare musulmana. Lo ha fatto rilasciando una lunga intervista al giornale online La Luce, di cui è direttore Davide Piccardo esponente della comunità islamica di Milano.
La decisione di partire per il Kenya. "Prima di essere rapita – ha dichiarato la ragazza – ero completamente indifferente a Dio, anzi potevo definirmi una persona non credente; spesso, quando leggevo o ascoltavo le notizie sulle innumerevoli tragedie che colpiscono il mondo, dicevo a mia madre: vedi, se Dio esistesse non potrebbe esistere tutto questo male". E neppure il volontariato era tra le sue priorità: "Fino alla fine del mio terzo ed ultimo anno di università, non avevo un particolare interesse nel partire e andare a fare volontariato. Verso la fine della tesi mi interessai moltissimo all’argomento che stavo trattando: la tratta di donne ai fini della prostituzione, da lì ho avuto uno scatto nei confronti delle ingiustizie. Ho sentito il bisogno di andare e mettermi in gioco aiutando l’altro nel concreto. L’idea di continuare a studiare e rimanere qui non mi andava, volevo fare un’esperienza vera, per crescere e per aiutare gli altri". Così è nata l'idea di andare in Kenya. Un'esperienza che le ha letteralmente cambiato la vita. "Nel momento in cui fui rapita, iniziando la camminata, iniziai a pensare: io sono venuta a fare volontariato, stavo facendo del bene, perché è successo questo a me? Qual è la mia colpa? È un caso o qualcuno lo ha deciso? – ha continuato Silvia -. Queste prime domande credo mi abbiano già avvicinato a Dio, inconsciamente. Ho iniziato da lì un percorso di ricerca interiore fatto di domande esistenziali".
È così che ha cominciato un percorso di avvicinamento alla religione: "Il passaggio successivo è avvenuto dopo quella lunga marcia, quando già ero nella mia prigione; lì ho iniziato a pensare: forse Dio mi ha punito. Un altro momento importante è stato a gennaio, ero in Somalia in una stanza di una prigione, da pochi giorni. Era notte e stavo dormendo quando sentii per la prima volta nella mia vita un bombardamento, in seguito al rumore di droni. In una situazione di terrore del genere e vicino alla morte iniziai a pregare Dio chiedendogli di salvarmi perché volevo rivedere la mia famiglia. Gli chiedevo un’altra possibilità perché avevo davvero paura di morire. Quella è stata la prima volta in cui mi sono rivolta a Lui. Poi a un certo punto ho iniziato a pensare che Dio, attraverso questa esperienza, mi stesse mostrando una guida di vita, che ero libera di accettare o meno".
Il velo come simbolo di libertà: "Mi sento protetta da Dio". Infine, ha concluso la giovane milanese: "Sicuramente dopo aver accettato la fede islamica guardavo al mio destino con serenità nell’anima, certa che Dio mi amasse e avrebbe deciso il bene per me. Quando provavo paura per l’imminenza della morte o ansia per non avere notizie della mia famiglia e del mio futuro, trovavo consolazione nelle preghiere". Sulla questione velo, che ha indossato sin dal suo ritorno in Italia a maggio, ha detto: "Per me il velo è simbolo di libertà. Quando vado in giro sento gli occhi della gente addosso; non so se mi riconoscono o se mi guardano semplicemente per il velo; in metro o in autobus credo colpisca il fatto che sono italiana e vestita così. Ma non mi dà particolarmente fastidio. Sento la mia anima libera e protetta da Dio".
Davide Piccardo per laluce.news il 6 luglio 2020. Incontro Aisha Silvia Romano in zona Via Padova a Milano, non faccio in tempo a salutarla che una signora egiziana la riconosce: “sei Silvia?” le chiede. Per discrezione non mi avvicino e quindi non sento molto di ciò che si dicono in quei pochi secondi, vedo solo che dagli occhi della signora scendono due lacrime di commozione. Aisha Silvia sorride e si salutano. Inizia così la nostra intervista».
Prima della partenza e prima ancora del rapimento, che visione avevi della religione?
«Prima di essere rapita ero completamente indifferente a Dio, anzi potevo definirmi una persona non credente; spesso, quando leggevo o ascoltavo le notizie sulle innumerevoli tragedie che colpiscono il mondo, dicevo a mia madre: vedi, se Dio esistesse non potrebbe esistere tutto questo male … quindi Dio non esiste, altrimenti eviterebbe tutto questo dolore. Mi ponevo queste domande rarissime volte, solo quando – appunto – mi confrontavo con i grandi mali del mondo. Nel resto della mia vita ero indifferente, vivevo inseguendo i miei desideri, i miei sogni e i miei piaceri».
Però avevi già un’etica?
«Per me il giusto, prima, era semplicemente fare ciò che mi faceva sentire bene; non avevo un criterio diverso relativamente a ciò che fosse giusto e sbagliato; il bene per me corrispondeva a ciò che mi faceva sentire bene. In realtà ora capisco che mi illudevo mi facesse stare bene».
Hai sempre avuto uno slancio verso i più deboli, una spinta che ti faceva agire per rimediare all’ingiustizia o avevi più un moto di pietà? Cosa ti ha spinto a partire?
«Fino alla fine del mio terzo ed ultimo anno di università, poco prima della mia tesi di laurea, non avevo un particolare interesse nel partire e andare a fare volontariato. Verso la fine della tesi mi interessai moltissimo all’argomento che stavo trattando: la tratta di donne ai fini della prostituzione, da lì ho avuto uno scatto nei confronti delle ingiustizie».
Sei diventata più empatica in quel momento?
«Sono sempre stata compassionevole, molto sensibile nei confronti dei bambini, delle donne maltrattate, ho sempre sentito molta empatia, ma il passo successivo, quello di agire davvero, di rendermi utile all’altro con l’azione l’ho fatto solo alla fine dell’università. Ho sentito il bisogno di andare e mettermi in gioco aiutando l’altro nel concreto. L’idea di continuare a studiare e rimanere qui non mi andava, volevo fare un’esperienza vera, per crescere e per aiutare gli altri».
Sei cresciuta in un quartiere multietnico, come si poneva la tua famiglia di fronte a questa realtà?
«Sono cresciuta in un ambiente multietnico, il contesto del Parco Trotter dove sono andata a scuola e di Via Padova. Mio padre e mia madre sono sempre stati aperti mentalmente, tolleranti, non hanno mai discriminato e io ho sempre avuto amici di provenienze diverse. I miei genitori mi hanno sempre insegnato a considerare il diverso come un arricchimento, con mia mamma ho sempre viaggiato tantissimo. Ogni estate andavamo in un paese diverso, dal Marocco alla Repubblica Dominicana, all’Egitto, a Capo Verde».
Quindi i musulmani li avevi già conosciuti?
«Sì, ma l’idea che avevo dell’Islam era quella che in molti purtroppo hanno quando non ne sanno niente. Quando vedevo le donne col velo in Via Padova, avevo quel tipico pregiudizio che esiste nella nostra società, pensavo: poverine! Per me quelle donne erano oppresse, il velo rappresentava l’oppressione della donna da parte dell’uomo».
Quindi Silvia Romano avrebbe potuto essere una fra i tanti islamofobi?
«Io non avevo paura del diverso e nemmeno ostilità, ma quel pregiudizio negativo c’era. Sicuramente, pur pensando certe cose non le avrei mai dette per evitare di ferire gli altri, ma sì, il pregiudizio lo avevo; per quello posso capire chi oggi, non conoscendo l’Islam, pensa queste cose. All’epoca ero una persona ignorante, non conoscevo l’Islam e giudicavo senza mai essermi impegnata a conoscere. Vivi a contatto, ti fai un’idea ma non vai mai a porre una domanda direttamente alle persone, nonostante siano vicine a te.
A Chakama, il villaggio in Kenya dove facevi volontariato, c’erano dei musulmani?
«Sì, c’era una moschea, c’erano i musulmani, un mio grande amico era musulmano ma io non mi sono mai posta molte domande. Il venerdì lo vedevo con la tunica e sapevo che andava alla moschea, ma la cosa è rimasta lì». C’erano anche delle ragazzine che il venerdì vedevo con il velo ma non c’era proprio interesse da parte mia.
Quando è suonato il primo campanello rispetto a Dio? C’è stato un momento in cui hai sentito qualcosa? Un pensiero che ti ha aperto un varco nella coscienza, nel cuore?
«Nel momento in cui fui rapita, iniziando la camminata, iniziai a pensare: io sono venuta a fare volontariato, stavo facendo del bene, perché è successo questo a me? Qual è la mia colpa? È un caso che sia stata presa io e non un’altra ragazza? È un caso o qualcuno lo ha deciso? Queste prime domande credo mi abbiano già avvicinato a Dio, inconsciamente. Ho iniziato da lì un percorso di ricerca interiore fatto di domande esistenziali. Mentre camminavo, più mi chiedevo se fosse il caso o il mio destino, più soffrivo perché non avevo la risposta, ma avevo il bisogno di trovarla».
Farti questa domanda era un modo per sentirti meglio?
«No, più mi facevo domande e più piangevo e stavo male; mi arrabbiavo perché non trovavo la risposta e andavo in ansia. Non avevo la risposta ma sapevo che c’era e ci dovevo arrivare. Capivo che c’era qualcosa di potente ma non l’avevo ancora individuato, però capivo che si trattava di un disegno, qualcuno lassù lo aveva deciso. Il passaggio successivo è avvenuto dopo quella lunga marcia, quando già ero nella mia prigione; lì ho iniziato a pensare: forse Dio mi ha punito. Forse Dio mi stava punendo per i miei peccati, perché non credevo in Lui, perché ero anni luce lontana da Lui. Un altro momento importante è stato a gennaio, ero in Somalia in una stanza di una prigione, da pochi giorni. Era notte e stavo dormendo quando sentii per la prima volta nella mia vita un bombardamento, in seguito al rumore di droni. In una situazione di terrore del genere e vicino alla morte iniziai a pregare Dio chiedendogli di salvarmi perché volevo rivedere la mia famiglia; Gli chiedevo un’altra possibilità perché avevo davvero paura di morire. Quella è stata la prima volta in cui mi sono rivolta a Lui».
Le persone che ti tenevano prigioniera, per quanto possano essere state gentili con te, stavano commettendo un’ingiustizia nei tuoi confronti; la loro azione è illegittima quindi non è facile comprendere come si possa abbracciare la fede di quanti ti stanno facendo un simile torto.
«Dopo aver letto il Corano non ci trovai contraddizioni e fin da subito sentii che era un libro che guidava al bene. Il Corano non è la parola di Al Shabaab! Ad un certo punto sentii che era un miracolo, per questo la mia ricerca spirituale continuava e acquisivo sempre più consapevolezza dell’esistenza di Dio. A un certo punto ho iniziato a pensare che Dio, attraverso questa esperienza, mi stesse mostrando una guida di vita, che ero libera di accettare o meno.
Chiedevi forza per resistere in quella situazione?
Ero disperata perché, nonostante alcune distrazioni come studiare l’arabo, vivevo nella paura dell’incertezza del mio destino. Ma più il tempo passava e più sentivo nel cuore che solo Lui poteva aiutarmi e mi stava mostrando come…»
Qual è stato tuo rapporto con il Corano?
«La prima volta ci misi due mesi a leggere il Corano, mentre la seconda mi fermavo a riflettere più seriamente e sentivo sempre più il bisogno di leggerlo, fino a quando ho abbracciato l’Islam. Di fronte a molti versetti avevo la sensazione che Dio si rivolgesse a me, mi colpivano al cuore. Avevo anche letto alcuni versi della Bibbia e appreso i punti in comune del Cristianesimo e dell’Islam. In definitiva, il Corano mi era parso un testo sacro con dei principi chiari che guidavano verso il bene».
C’è qualche surah a cui sei particolarmente affezionata?
«Imparai un versetto prima ancora di diventare musulmana, il versetto 70 della surah al Anfal: “O Profeta, di’ ai prigionieri che sono nelle vostre mani: – Se Dio ravvisa un bene nei cuori vostri, vi darà più di quello che vi è stato preso e vi perdonerà -. Dio è perdonatore misericordioso.” Imparai anche la prima surah del Corano, al Fatihah, e iniziai a pregare pur non sapendo come pregare. Un altro versetto che mi colpì molto fu:“Come potete essere ingrati nei confronti di Dio, quando eravate morti ed Egli vi ha dato la vita? Poi vi farà morire e vi riporterà alla vita e poi a Lui sarete ricondotti.” Corano 2/28. E anche: “Se Dio vi sostiene, nessuno vi può sconfiggere. Se vi abbandona, chi vi potrà aiutare? Confidino in Dio i credenti.” Corano 3/160. Nella mia condizione leggevo questi versetti e li sentivo come rivolti direttamente a me».
Quando sei diventata musulmana ed hai iniziato a pregare, che atteggiamento avevi verso il tuo destino? Pensavi che sarebbe comunque andata bene? Eri pronta ad accettare qualsiasi cosa?
«La fede ha diversi gradi e la mia si è sviluppata con il tempo. Sicuramente dopo aver accettato la fede islamica guardavo al mio destino con serenità nell’anima, certa che Dio mi amasse e avrebbe deciso il bene per me. Quando provavo paura per l’imminenza della morte o ansia per non avere notizie della mia famiglia e del mio futuro, trovavo consolazione nelle preghiere. Più aumentava la mia fede e più – quando ero triste – chiedevo a Dio la pazienza e la forza, chiedevo a Dio che rafforzasse ulteriormente la mia fede».
Ti sei posta il problema di ritrovarti una persona diversa, di aver accettato qualcosa fino a prima estraneo a te e di aver fatto una scelta che avrebbe modificato radicalmente la tua vita?
«Prima di accettare l’Islam avevo avuto delle fasi in cui avevo intuito che l’Islam fosse la strada giusta. In un momento in particolare credevo di esser convinta di poter accettare la religione, ma mi fermò la paura delle reazioni degli altri. Ho pregato tantissime volte Dio affinché rafforzasse la mia fede per quello a cui sarei andata incontro, che rafforzasse la mia fede per affrontare tutte le offese che avrei ricevuto».
Quindi eri consapevole di questa ostilità?
«Sì, certo. Avevo sviluppato la consapevolezza attraverso lo studio della vita del Profeta Muhammad, la vita dei suoi Compagni e me n’ero già fatta un’idea».
I musulmani sin dall’inizio dell’Islam sono stati perseguitati. Perché, secondo te?
Perché l’Islam è la religione che va contro un sistema basato sulle ingiustizie, sul potere del dio denaro, la corruzione e la falsità, e questo spesso è scomodo. Molte delle reazioni negative nei tuoi confronti nascono fondamentalmente da questo pensiero: questa ragazza era libera di andare dove voleva di fare quello che voleva, stare con chi voleva vestirsi come voleva e va a scegliersi una condizione in cui è meno libera, è sottomessa, è considerata inferiore rispetto all’uomo … com’è possibile? Il concetto di libertà è soggettivo e per questo è relativo. Per molti la libertà per la donna è sinonimo di mostrare le forme che ha; nemmeno di vestirsi come vuole, ma come qualcuno desidera. Io pensavo di essere libera prima, ma subivo un’imposizione da parte della società e questo si è rivelato nel momento in cui sono apparsa vestita diversamente e sono stata fatta oggetto di attacchi ed offese molto pesanti».
C’è qualcosa di molto sbagliato se l’unico ambito di libertà della donna sta nello scoprire il proprio corpo.
«Per me il mio velo è un simbolo di libertà, perché sento dentro che Dio mi chiede di indossare il velo per elevare la mia dignità e il mio onore, perché coprendo il mio corpo so che una persona potrà vedere la mia anima. Per me la libertà è non venire mercificata, non venire considerata un oggetto sessuale».
Ora ti senti meno libera di fare le cose, di muoverti, di lavorare, di incontrare le persone, di girare?
«Quando vado in giro sento gli occhi della gente addosso; non so se mi riconoscono o se mi guardano semplicemente per il velo; in metro o in autobus credo colpisca il fatto che sono italiana e vestita così. Ma non mi dà particolarmente fastidio. Sento la mia anima libera e protetta da Dio».
La scelta del nome com’è avvenuta?
«Ho sognato di trovarmi in Italia, passavo ai tornelli della metropolitana e sulla mia tessera dell’ATM c’era scritto Aisha e poi è un nome che significa “viva”».
In cosa ti senti una persona migliore oggi?
«Oggi sono molto più paziente, sono molto più rispettosa nei confronti dei miei genitori, mentre talvolta, nel passato, non lo ero stata; mi sento più generosa e molto più compassionevole perché quando qualcuno mi fa un torto, quando qualcuno sbaglia nei miei confronti, anche di fronte ad offese e contrasti, sento il mio cuore completamente privo di rancore, di rabbia. Non mi viene da rispondere con le stesse offese ma cerco sempre il motivo per comprendere quella persona, penso che quella persona faccia così perché soffre e quindi io la posso e la devo aiutare».
Rispetto alla comunità islamica, invece, che aspettative avevi?
«Non vedevo l’ora di conoscere i musulmani, ma pensavo che sarebbe stato difficile. La mia idea era di andare in Via Padova, entrare in qualche negozio o in qualche macelleria islamica e dire: “Assalamu aleikum”. Non avevo ancora la consapevolezza di essere così tanto conosciuta; pensavo di dover passare la festa di Ramadan da sola. Invece ho ricevuto regali, moltissime lettere e il video pubblicato su La Luce dove c’erano tantissimi musulmani da tutta Italia mi sono sentita sconvolta dalla felicità».
Cosa ti ha colpito della comunità?
«Innanzitutto non mi aspettavo che ci fossero tutti questi italiani musulmani; mi immaginavo di entrare in contatto subito con egiziani, marocchini, africani musulmani… invece, prima degli arabi ho conosciuto gli italiani musulmani ed è stata una sorpresa enorme. Mi ha colpito la fratellanza nei miei confronti da parte di tutti i musulmani qua a Milano, e non solo a Milano; la solidarietà e l’affetto mi hanno fatto sentire parte di una seconda famiglia. Poi ho scoperto una realtà di cui non avevo minimamente idea, fattà di tantissime associazioni della comunità musulmana di Milano, e non solo, che ogni giorno si impegnano nell’aiutare i più deboli, i più vulnerabili, le vittime delle ingiustizie; in particolare mi è piaciuto molto il Progetto Aisha che si occupa di donne, tutte queste iniziative hanno accresciuto in me la voglia di partecipare».
Francesco Borgonovo per “la Verità” il 7 luglio 2020. La scelta delle parole dice tutto. Nella prima lunga intervista rilasciata da Silvia Romano (anzi Aisha, come si fa chiamare ora) dopo il sequestro in Kenya, non compare mai una volta il termine «terroristi». L'unico riferimento ai jihadisti sanguinari di Al Shabaab che l'hanno tenuta prigioniera è estremamente blando, e ha uno scopo preciso: dimostrare che l'islam non ha nulla a che fare con i guerriglieri. «Il Corano non è la parola di Al Shabaab!», dice la Romano, e le cosa finisce lì. Niente critiche all'islam radicale, niente riprovazione per i macellai. Non stupisce. Silvia Aisha ha deciso di confidarsi con La Luce, ovvero il giornale online creato da Davide Piccardo, uno dei pezzi grossi dell'islam milanese, già noto per essere il volto del Caim. Non appena la ex cooperante è rientrata in Italia, la galassia islamica più o meno direttamente legata alla Turchia l'ha subito trasformata in un simbolo. E, a quanto pare, Silvia si trova piuttosto bene nelle vesti di propagandista. Se da un lato è avara di parole sui suoi rapitori e sul volto violento dei fedeli di Allah, dall'altro appare ben contenta di dilungarsi sulle gioie che l'islam ha portato nella sua vita. L'illuminazione, racconta, si è verificata in prigione: «Lì ho iniziato a pensare: forse Dio mi ha punito. Forse Dio mi stava punendo per i miei peccati, perché non credevo in Lui, perché ero anni luce lontana da Lui». A un certo punto, durante la reclusione, è avvenuto il cambiamento: «Sentii che era un miracolo, per questo la mia ricerca spirituale continuava e acquisivo sempre più consapevolezza dell'esistenza di Dio. Ho iniziato a pensare che Dio, attraverso questa esperienza, mi stesse mostrando una guida di vita, che ero libera di accettare o meno». Ora, se Silvia si limitasse a dipingere le bellezze della sua nuova fede, poco male: libera la ragazza di convertirsi al credo che le pare, anzi è apprezzabile che qualcuno si dedichi alle questioni dello spirito in questi tempi aridi. Il problema è che la ritrovata Aisha - così compassionevole verso i terroristi che l'hanno sequestrata - non è altrettanto dolce nei confronti dell'Italia e degli italiani, che fino a prova contraria hanno speso soldi, tempo ed energie per salvarle la pelle. La fanciulla spiega quale fosse il suo atteggiamento verso i musulmani prima del sequestro. «L'idea che avevo dell'islam era quella che in molti purtroppo hanno quando non ne sanno niente», dice. «Quando vedevo le donne col velo in via Padova, avevo quel tipico pregiudizio che esiste nella nostra società, pensavo: poverine! Per me quelle donne erano oppresse, il velo rappresentava l'oppressione della donna da parte dell'uomo». Il messaggio è chiaro: gli italiani non sanno nulla dell'islam e sono pieni di pregiudizi. Non per nulla, l'intervistatore Davide Piccardo incalza: «Quindi Silvia Romano avrebbe potuto essere una fra i tanti islamofobi?». E lei lesta risponde: «Sicuramente, pur pensando certe cose non le avrei mai dette per evitare di ferire gli altri, ma sì, il pregiudizio lo avevo; per quello posso capire chi oggi, non conoscendo l'islam, pensa queste cose. All'epoca ero una persona ignorante, non conoscevo l'islam e giudicavo senza mai essermi impegnata a conoscere».
Ecco la prima lezione: in Italia esiste una islamofobia strisciante. Tanto che la Romano, al momento di abbracciare definitivamente la nuova fede, ha vacillato: «Mi fermò la paura delle reazioni degli altri. Ho pregato tantissime volte Dio affinché [...] rafforzasse la mia fede per affrontare tutte le offese che avrei ricevuto».
Di nuovo, Piccardo le domanda: «Quindi eri consapevole di questa ostilità?». Risposta: «Sì, certo. [...] I musulmani sin dall'inizio dell'islam sono stati perseguitati. Perché l'islam è la religione che va contro un sistema basato sulle ingiustizie, sul potere del dio denaro, la corruzione e la falsità, e questo spesso è scomodo». Beh, talvolta sono i musulmani a perseguitare gli altri, ma questo a Silvia non sembra interessare. Meglio dare un'altra lezioncina agli italiani, in particolare alle donne: «Per molti la libertà per la donna è sinonimo di mostrare le forme», spiega. «Io pensavo di essere libera prima, ma subivo un'imposizione da parte della società e questo si è rivelato nel momento in cui sono apparsa vestita diversamente e sono stata fatta oggetto di attacchi ed offese molto pesanti. C'è qualcosa di molto sbagliato se l'unico ambito di libertà della donna sta nello scoprire il proprio corpo. [...] Il mio velo è un simbolo di libertà, perché sento dentro che Dio mi chiede di indossare il velo per elevare la mia dignità e il mio onore, perché coprendo il mio corpo so che una persona potrà vedere la mia anima. Per me la libertà è non venire mercificata, non venire considerata un oggetto sessuale». Forse la Romano ignora l'esistenza di donne che non hanno bisogno di indossare una tunica per essere libere: possono scoprirsi il capo e il corpo senza risultare delle poco di buono. A quanto ci risulta, poi, la «mercificazione» non è un'esclusiva occidentale. È sgradevole da dire, ma la stessa Silvia è stata trattata come una merce: rapita e segregata per ottenere un riscatto. A farle questo non è stato qualche italiano islamofobo o qualche italiana di facili costumi. Sono stati dei signori che uccidono in nome di Allah e che con l'islam, piaccia o no, hanno molto a che fare.
L’intervista di Silvia “Aisha” Romano a Piccardo trasuda propaganda per l’Islam militante. Mirko Giordani il 6 luglio 2020 su Il Giornale. Lo dico sinceramente: a Silvia Romano non sembra una cima di intelligenza, tutt’altro, mi sembra non troppo sveglia e con il cervello ormai impinzato di stupidaggini molto probabilmente imparate sotto il periodo della prigionia. Oppure sotto ricatto dai suoi stessi rapitori, che forse la minacciano affinché continui con la propaganda stucchevole che ha iniziato non appena scesa da quell’aereo. In un passo di un’intervista che concede a Davide Piccardo, noto esponente dei Fratelli Musulmani (di cui fa parte anche Hamas, per farvi rendere conto di che soggetti sono questi qua). La Romano dice di “essere stata sempre compassionevole” nei confronti delle donne. E qui, la poca intelligenza della Romano, perché forse non se n’è mai accorta ma il velo è proprio una costrizione nei confronti della donna. Poi parla della sua vita in quartiere multietnico, dove Piccardo “sospetta” che Silvia Romano, senza il viaggio “salvifico” in Kenya, sarebbe potuta diventare come un qualsiasi islamofobo brutto e ignorante. Invece poi Silvia dice che l’idea dell’Islam che aveva era “quella che in molti hanno quando non ne sanno niente”. Invece lei giustamente per capire cosa fosse l’Islam e per innamorarsene follemente è dovuta andare in Kenya e finire rapite da, nientepocodimeno, Al Shabab, estremisti islamici sunniti proprio come Hamas, gli amichetti di Hamza Piccardo. E poi il climax, la frase che più mi ha fatto ridere e che disvela quanta propaganda stia facendo la Romano, o quanto poco sia intelligente. Durante la prigionia, ha detto la Romano a Piccardo, “più mi facevo domande e più piangevo e stavo male; mi arrabbiavo perché non trovavo la risposta e andavo in ansia…Forse Dio mi stava punendo per i miei peccati, perché non credevo in lui, perché ero anni luce lontana da lui.” E allora che fa la Romano: si converte alla religione dei suoi aguzzini, dicendo che “il Corano non è la parola di Al Shaabab”.
Silvia Romano non dia lezioni di libertà. Andrea Indini il 7 luglio 2020 su Il Giornale. Parla di “ingiustizie”, Silvia Romano. Parla anche di abusi e soprusi. Ma dimentica alcuni passaggi nel farlo. Se oggi può raccontare la sua verità, che spazia dalla conversione all’islam alla decisione di indossare il velo, può farlo perché vive in una società libera: l’Occidente. Altrove, per esempio in una delle tante teocrazie ispirate alla legge coranica, un’intervista in cui si difendono i valori dell’Occidente non sarebbe affatto possibile. Per questo appaiono ipocriti i moralismi contro le donne, che scoprono il proprio corpo, o i piagnistei sui musulmani perseguitati. Nessuno contesta le scelte della Romano, la cooperante rapita in Kenya e tornata, dopo mesi di prigionia, convertita a quella stessa religione in nome della quale i suoi carcerieri ammazzano anime innocenti. Tuttavia le dichiarazioni, raccolte da Davide Piccardo sul sito La Luce, lasciano parecchi dubbi sulla sua onestà intellettuale. Nella lunga intervista Silvia, che ora si fa chiamare Aisha, denuncia più volte le ingiustizie subite dall’islam e i preconcetti che l’Occidente ha nei confronti dei musulmani. Eppure lei, che è “cresciuta in un ambiente multietnico”, nella periferia di Milano, dovrebbe sapere come stanno le cose. Soprattutto quando parla delle donne e della loro libertà. Dovrebbe sapere, per esempio, che per molte ragazzine l’orizzonte è un matrimonio combinato e che, qualora dovessero rifiutarsi, rischierebbe di pagare la propria emancipazione con la vita. Dovrebbe, poi, sapere che le violenze sulle giovani che si atteggiano “all’occidentale” sono all’ordine del giorno e che per molte di loro lo studio e la vita sociale sono del tutto preclusi. In uno studio pubblicato ormai qualche anno fa già si denunciava la “re-islamizzazione della comunità migrante”. Si tratta di una sorta di “forma di difesa dell’identità in un contesto culturale estraneo” che costringe le musulmane alla segregazione in casa. La maggior parte di loro non esce per lavorare, non impara l’italiano e può guardare soltanto programmi nella lingua del marito. Dov’è la libertà di cui tanto parla la Romano? In quello studio già si intuiva come la segregazione non solo miri a sottrarre mogli e figlie dagli sguardi di altri uomini, ma anche a impedire che queste di frequentino donne occidentali e vengono quindi considerate “pericolose e corrotte”. Per la Romano “il concetto di libertà è soggettivo e relativo”. Per me non lo è. Secondo Silvia la scelta di indossare il velo islamico ha a che fare con la libertà. Ed è vero. E questa sua scelta va difesa. Ma lo deve fare con la consapevolezza che molte musulmane non hanno la stessa libertà di decidere di non portarlo. Ci sarà sempre un padre, un fratello, un marito che imporranno con la forza quel fazzoletto di stoffa che le copre il viso. Non solo. Deve anche capire che la sua libertà finisce dove inizia quella delle altre ragazze. “C’è qualcosa di molto sbagliato se l’unico ambito di libertà della donna sta nello scoprire il proprio corpo – sentenzia – per me il mio velo è un simbolo di libertà”. Poi conclude: “Per me la libertà è non mercificare, non venire considerata un oggetto sessuale”. E così cade inesorabilmente nell’ideologia radicale che acceca i musulmani. Un pensiero, poi, sulla conversione. Come ogni moto verso il divino, si entra in una sfera privata, che non può e non deve essere giudicata. Che in una situazione di difficoltà lei si sia avvicinata alla religione, non deve meravigliare. Chiunque lo avrebbe fatto. Che però abbia trovato nel Corano la giustificazione di quello che le stava accadendo, è quantomeno assurdo. “A un certo punto – racconta – ho iniziato a pensare che Dio, attraverso questa esperienza mi stesse mostrando una guida di vita, che ero libera di accettare o meno”. E a quel punto inizia ad aggrapparsi al versetto 70 della surah al Anfal: “O Profeta, di’ ai prigionieri che sono nelle vostre mani: – Se Dio ravvisa un bene nei cuori vostri, vi darà più di quello che vi è stato preso e vi perdonerà -. Dio è perdonatore misericordioso”. Va bene la misericordia. E pure il perdono. Ma è possibile che in tutta l’intervista non abbia trovato il coraggio di condannare i soprusi, le violenze, i sequestri e gli spargimenti di sangue compiuti dai musulmani proprio in nome di Allah? Infine, la sottomissione. L’islam è “sottomissione, abbandono, consegna totale (di sé a Dio)”. Da qui una domanda scomoda: la sottomissione totale dell’islam a Dio presuppone la libertà o è la sua negazione?
Silvia Romano, il commento di Renato Farina: ribalta la realtà, musulmani vittime e Occidente carnefice. Renato Farina su Libero Quotidiano il 07 luglio 2020. Silvia Aisha Romano, la ragazza milanese rapita in Kenia, dove cercava di far del bene come volontaria, trascinata in Somalia dai musulmani di Al Shaabab, quindi liberata per mano dei turchi, e giunta tra noi con l'uniforme di Al Shaabab, ha raccontato per la prima volta la sua conversione all'islam. Ci sono momenti in cui è impossibile non provare compassione per questa giovane donna in balia di un potere assoluto, ed allora supplica un Dio finora nascosto di rivelarsi, di dare un senso a quanto le sta capitando, di consolarla, di farle ritrovare i suoi cari. E tutto questo - accade. Si converte, trova la pace e il sorriso. Buon per lei, sul serio. C'è qualcosa però di angosciante, e che non è possibile tacere. Il rapimento infatti è trattato come un fatto provvidenziale per la sua conversione all'islam. C'è un giustificazionismo dell'orrore che arriva persino a farle sentire l'abominio da lei subito come un giusto castigo per la sua miscredenza. Il suo sequestro, l'annichilamento di lei come persona per un tempo infinito, è stata un'opera voluta da Allah per spingerla a ravvedersi. Nel momento decisivo Allah attraverso il Corano le avrebbe infatti rivelato che tramite gli Al Shaabab era prigioniera non di terroristi ma misticamente di Muhammad, il Profeta in persona. Racconta Silvia Aisha: «Imparai un versetto prima ancora di diventare musulmana, il versetto 70 della surah al Anfal: "O Profeta, di' ai prigionieri che sono nelle vostre mani: - Se Dio ravvisa un bene nei cuori vostri, vi darà più di quello che vi è stato preso e vi perdonerà -. Dio è perdonatore misericordioso"». Non è che lei perdona i rapitori, no, è lei ad essere perdonata, è lei che da, proprio in quanto prigioniera!, ottiene la misericordia si converte. Che razza di operazione di ribaltamento della realtà è questa? Il male è il male. L'unico qui che viene riconosciuto come tale dalla Romano consiste nella sua vita precedente in quanto tale, lei era incarnazione del peccato dell'Occidente. I cristiani? Mai nominati.
STRAGE DI CRISTIANI. La strage fatta dai suoi rapitori così gentili che hanno assassinato a sangue freddo 148 studenti universitari come lei, a Garissa, in Kenia, solo perché cristiani? Inesistenti. Ininfluenti. Accidenti che capitano agli infedeli? Invece dice: «I musulmani sin dall'inizio dell'islam sono stati perseguitati». Anche l'essere rapiti, l'essere privati della libertà in quanto "non musulmani", è parte di una giusta reazione alla persecuzione? Questo non è chiaro. Non è detto. Lei nomina una volta soltanto i terroristi, non per accusarli ma per dire: «Il Corano non è la parola di Al Shabaab!». Secondo me sottoscriverebbe anche Bin Laden. L'intervistatore Davide Piccardo non approva il rapimento, ci mancherebbe, neppure però - diciamo così - si strappa le vesti per il ratto di una ragazza sottoposta a una violenza atroce: parla delicatamente di «ingiustizia», «torto», «azione illegittima». Insomma, se volete leggerla tutta, l'intervista la trovate su internet, anche nella traduzione inglese, sotto la testata "La Luce - una voce che illumina". Noterete così che, con una simpatica incoerenza il sito ospita, proprio accanto alle parole durissime di Aisha Silvia contro i costumi occidentali che costringono le donne a mostrare «le loro forme», riducendole «a desiderio sessuale», una pubblicità di bikini a buon prezzo con modelle bene attrezzate allo scopo, e un'altra con il prezioso culetto di una ragazza reclamizzante «calze e collant a graduazione graduata», ma per fortuna nessuno è perfetto.
PICCARDO E I TURCHI. L'intervista-racconto è in realtà una clamorosa operazione di raffinata propaganda, perfettamente organizzata dall'autore, Davide Piccardo, spregiudicato e abile sostenitore dei Fratelli musulmani e "manus longa" degli interessi ideologici e strategici di Erdogan in Italia e nel mondo islamico, di cui il leader dei turchi vuole essere unico faro mondiale. Non ci stupisce a questo punto che siano stati i servizi di Ankara e di Doha - sostenitori dei Fratelli musulmani - a organizzare una liberazione molto serena. Piccardo è il direttore di laluce.news, punta mediatica del Caim (Coordinamento delle associazioni islamiche di Milano) che è molto ben accreditato a sinistra. Le posizioni espresse da Piccardo (le ritrovate anche su Huffington.post), non c'entrano nulla, per intenderci, con le posizioni islamiche cosiddette moderate, tipo quella cui ha dato credito il Papa, il quale ha stretto rapporti di dialogo e collaborazione con il Grande Imam dell'università al-Azhar del Cairo, Ahmed al Tayeeb. Queste distinzioni dicono poco a chi - e non gliene facciamo una colpa - non ha nessuna intenzione di informarsi sulle diverse appartenenze musulmane e sulle inimicizie tra le scuole sunnite.
TARIQ RAMADAN. È forse utile sapere che al-Azhar propose la pena di morte per crocifissione dei miliziani dell'Isis (questi sono i costumi coranici, ahimè), sostiene Al Sisi, e considera terroristi buoni per la galera i locali sostenitori dei Fratelli musulmani. Tutte cose viste come fumo negli occhi da Piccardo. Il quale è allievo prediletto in Italia di Tariq Ramadan, l'intellettuale svizzero di origine egiziana che predica per vie morbide e sinuose la progressiva islamizzazione dell'Occidente. La tecnica è quella del revisionismo storico. Gli ultimi due articoli di "La Luce" sono espressione proprio di questo metodo. 1. La narrazione da Fioretti di San Francesco del terrorismo islamico, dove il lupo di Gubbio è la sciagurata ragazza che grazie a questo incontro con gli Al Shaabab si è redenta al modico prezzo di uno sciampo dell'anima. 2. La vera storia della famosa strage degli ebrei a Medina: tra i 600 e i 900 tra ragazzi e adulti furono decapitati (non tutti da lui, non era Ercole) dallo stesso Maometto. Che però si sostiene fu comunque molto misericordioso. P.S. Mi ero ripromesso di non disturbare più Silvia Aisha. Ha diritto alla sua pacifica privatezza. Ma quando si accetta di diventare testimonial di una propaganda menzognera, al di là della buona fede della Romano che nessuno può giudicare, allora ciao.
Quel velo islamico non è simbolo di libertà. Silvia Romano spiega la sua conversione. Un'altra Aisha ruppe l'imposizione del velo. Ora stiamo tornando indietro. Giuseppe De Lorenzo, Lunedì 06/07/2020 su Il Giornale. L’immagine va ripescata nel portale storico della Presidenza della Repubblica. Venerdì 21 febbraio 1969. Al Quirinale ci sono Giuseppe Saragat e Sua Altezza Reale la Principessa del Marocco. Non servono i colori alle fotografie per notare un particolare che allora banale non era. La sovrana, neo ambasciatrice in Italia, non indossa alcun velo in testa. Né hijab, né burqa, né chador. Se ne era liberata pochi anni prima, nel 1947, quando aveva tenuto un discorso storico per il Marocco e per l’intero mondo femminile musulmano. Quando il padre Muhammad V andò a Tangeri a chiedere l’indipendenza dalla Francia, la figlia si presentò di fronte alla comunità musulmana conservatrice senza velo in testa e vestita come una moderna donna occidentale. Il suo discorso divenne iconico, ruppe gli schemi. Un messaggio di liberazione che il Time celebrò con la copertina sull’emancipazione delle donne musulmane. Quella principessa si chiamava Lalla Aisha. Raccontiamo questa storia perché, per chi crede nel destino, l’incrocio di nomi non può essere causale. Decine di anni dopo quel gesto rivoluzionario, infatti, un’altra Aisha ha riportato il dibattito pubblico ancora lì, sull’opportunità di indossare o meno la copertura islamica. Silvia Aisha Romano - così si è voluta chiamare dopo il rapimento in Kenya, la prigionia e la conversione - oggi è tornata a parlare della sua scelta religiosa. “Per me il mio velo è un simbolo di libertà, perché sento dentro che Dio mi chiede di indossarlo per elevare la mia dignità e il mio onore - ha detto - Perché coprendo il mio corpo so che una persona potrà vedere la mia anima”. In sostanza, visto che “il concetto di libertà è soggettivo” (siamo sicuri?) e “per questo è relativo” (ne siamo certi?), Silvia non vuole essere "considerata un oggetto sessuale” e quindi si copre. Scelta legittima, per carità. Ma da qui trasformare il velo in una icona di libertà ce ne passa.
"Cosa c'era sulla tessera Atm" Il sogno islamico della Romano. Se infatti nessuno potrà mai imporre a Silvia di togliere l'hijab, è purtroppo altrettanto vero che in Italia, in Europa e nel mondo esistono (troppi) esempi in cui quello stesso velo simboleggia oppressione. Pensate ai casi di cronaca di figlie uccise, picchiate o rasate a zero perché non vogliono coprirsi. Oppure sfogliate l’album delle immagini della guerra all’Isis, quando le donne siriane hanno gettato via il burqa loro imposto dai tagliagole. Un giorno un Tabligh Eddawa, gruppo radicale operante in Italia, mi disse che Dio chiede alla donna di coprirsi perché "è come una banana: se togli la buccia dopo due giorni diventa marcia”. Posto dunque che quella di Aisha Romano sia stata davvero una decisione “libera”, e non dettata dalla tremenda condizione in cui si trovava, si può definire "scelta autonoma" quella di una ragazza il cui un uomo (marito, padre o figlio che sia) la mette nelle condizioni di sentirti impura se non indossa un hijab? "Il velo per me, in quanto donna iraniana, è simbolo di oppressione, simbolo del male", ha detto Atussa Tabrizi, oggi residente in Italia e una volta arrestata dalla polizia morale in Iran perché vestita non adeguatamente. "Nei paesi musulmani le donne che decidono di mettere il velo sono la minoranza, se non proprio inesistenti. La maggioranza delle donne sono obbligate a metterlo, e non appena ne hanno l’occasione se lo tolgono". Ecco perché è sbagliato elevarlo tout court a monumento della libertà, come fatto dalla Romano. Nel 1994, durante la guerra civile algerina, Katia Bengana venne ammazzata da un islamista con tre colpi di fucile alla testa. Giovane ragazza delle scuole superiori, si era rifiutata di coprirsi nonostante le ripetute minacce. "Giurava che non avrebbe mai portato l'hijab, anche a costo di morire", raccontò la sorella. Pochi giorni dopo venne trucidata in strada. Allora occorre chiedersi: si può dimenticare il sacrificio Katia, e quello di molte altre, di fronte alle parole odierne della Romano? Certo Silvia ha pieno diritto di vestire come vuole. Ma riconoscere la libertà di indossare il velo non significa trasformare il velo nel simbolo della libertà. Altrimenti faremmo un torto a Katia e alla principessa Aisha.
"Cosa c'era sulla tessera Atm" Il sogno islamico della Romano. La 25enne parla della sua conversione e del sogno sul suo nuovo nome: "Passavo ai tornelli e sulla tessera Atm c'era scritto Aisha". Federico Garau, Lunedì 06/07/2020 su Il Giornale. Torna a parlare Silvia Romano, divenuta Aisha dopo la conversione religiosa all'Islam seguita al rapimento in Kenia avvenuto nel 2018, e lo fa in un'intervista concessa al portale "La Luce", il più adatto per poter parlare dei cambiamenti avvenuti nella sua vita. "Prima di essere rapita ero completamente indifferente a Dio, anzi potevo definirmi una persona non credente", racconta la 25enne, che parla anche della comunità musulmana presente nel villaggio di Chakama in Kenia, dove operava come volontaria. "C’era una moschea, c’erano i musulmani, un mio grande amico era musulmano ma io non mi sono mai posta molte domande. Il venerdì lo vedevo con la tunica e sapevo che andava alla moschea, ma la cosa è rimasta lì. C’erano anche delle ragazzine che il venerdì vedevo con il velo ma non c’era proprio interesse da parte mia". Tutto questo, almeno, fino all'avvenuta conversione. "Nel momento in cui fui rapita, iniziando la camminata, iniziai a pensare: io sono venuta a fare volontariato, stavo facendo del bene, perché è successo questo a me? Qual è la mia colpa? È un caso che sia stata presa io e non un’altra ragazza? È un caso o qualcuno lo ha deciso? Queste prime domande credo mi abbiano già avvicinato a Dio, inconsciamente". La prigione, poi la paura di morire, infine la lettura del Corano e la folgorazione religiosa. "Dopo aver letto il Corano non ci trovai contraddizioni e fin da subito sentii che era un libro che guidava al bene. Il Corano non è la parola di Al Shabaab!". Aver abbracciato l'Islam, rivela Silvia Romano/Aisha, avrebbe comportato per lei il passaggio attraverso offese e dileggiamenti, che si diceva certa di subire. "Avevo sviluppato la consapevolezza attraverso lo studio della vita del Profeta Muhammad, la vita dei suoi Compagni e me n’ero già fatta un’idea. I musulmani sin dall’inizio dell’Islam sono stati perseguitati", perchè "l’Islam è la religione che va contro un sistema basato sulle ingiustizie, sul potere del dio denaro, la corruzione e la falsità, e questo spesso è scomodo". L'attenzione si sposta poi sul concetto di libertà e sul velo nello specifico, due elementi assolutamente affini nella vita della 25enne, come da lei stesso riferito nell'intervista. "Per molti la libertà per la donna è sinonimo di mostrare le forme che ha; nemmeno di vestirsi come vuole, ma come qualcuno desidera. C’è qualcosa di molto sbagliato se l’unico ambito di libertà della donna sta nello scoprire il proprio corpo. Per me il mio velo è un simbolo di libertà, perché sento dentro che Dio mi chiede di indossare il velo per elevare la mia dignità e il mio onore, perché coprendo il mio corpo so che una persona potrà vedere la mia anima. Per me la libertà è non venire mercificata, non venire considerata un oggetto sessuale". Un passaggio singolare del racconto di Silvia Romano è proprio quello relativo alla scelta del nome dopo la conversione. "Ho sognato di trovarmi in Italia, passavo ai tornelli della metropolitana e sulla mia tessera dell’Atm c’era scritto Aisha e poi è un nome che significa viva".
Silvia Romano e il velo "della libertà", l'islamica Karima Moual: "Perché non c'è da stare sereni". Libero Quotidiano il 07 luglio 2020. Silvia Romano ha rotto il silenzio rilasciando un'intervista, dopo il rilascio che le ha concesso di tornare in patria, al sito islamico "La Luce". Qui la giovane milanese rapita e indottrinata dal gruppo terroristico somalo di Al Shabaab ha detto senza mezzi termini: "Per me il velo è un simbolo di libertà, perché sento dentro che Dio mi chiede di indossare il velo per elevare la mia dignità e il mio onore. Per me la libertà è non venire mercificata, non venire considerata un oggetto sessuale". Frase che non è andata giù a Karima Moual, giornalista italo-marocchina spesso ospite di Dritto e Rovescio, che su La Stampa verga una lezioncina alla Romano. "Quello che non può passare in sordina è il messaggio - tutt' altro che democratico - che le sue parole rivelano. Parla di libertà, onore e dignità nel suo velo, ma mette le altre donne nella gabbia di parole come “mercificazione del corpo”, “oggetto sessuale” e “femminilità delle forme”". È proprio questa in soldoni la morte della democrazia. Si tratta per lo più - prosegue la Moual che di immigrazione ne è esperta - "di sintomi di radicalizzazione". Se infatti "la sua conversione ha prodotto questa radicale divisione, tra donne velate e non velate, allora non c'è da stare sereni".
Silvia Romano, Rula Jebreal e lo sfregio all'Italia: "Ora vive esattamente come in Somalia", quando era prigioniera. Libero Quotidiano il 28 maggio 2020. Parole che pesano come macigni, quelle di Rula Jebreal, che sul caso di Silvia Romano è tornata a fare la morale un po’ a tutti. “Andava protetta, le autorità e le istituzioni avrebbero dovuto farlo - ha dichiarato la giornalista - purtroppo così non è stato. Sono state divulgate anche informazioni sensibili che, per motivi di sicurezza, non avrebbero mai dovuto essere di dominio pubblico”. La Jebreal è molto critica sulla gestione del rientro in Italia della cooperante milanese, rapita in Kenya e liberata dopo 18 lunghi mesi: “L’incitamento all’odio e alla violenza sono sintomi di una malattia grave che può prendere nomi diversi: sessismo, razzismo e islamofobia. Silvia rischia di essere oggetto di violenza, è stata minacciata e girerà sotto scorta. Esattamente come viveva in Somalia”. Quanto all’autenticità della conversione di Silvia Romano, la Jebreal non ha dubbi: “Non spetta a nessuno mettere in discussione le scelte personali di una giovane donna. Silvia ha il diritto di elaborare in serenità non solo i suoi trami ma anche le sue scelte”. Pesa, però, quel paragone terrificante della Jebreal, secondo la quale oggi Silvia Aisha Romano, in Italia, nell'Italia che la ha liberata, vive "esattamente come in Somalia".
Silvia Romano, sulla sua pagina Facebook "mi piace" a pagine che inneggiano alla "propaganda filo-turca e al suprematismo islamista". Libero Quotidiano il 28 maggio 2020. Studiando il profilo Facebook di Silvia Romano si scopre che su 27 "like" della cooperante, 18 sono riconducibili ad ambito islamico, secondo un'analisi effettuata tra il 24 e il 27 maggio. Lo rivela l'edizione on line del Giornale che segnala che questo interesse è nei confronti di un islamismo politico ben noto in Italia e anche per alcuni predicatori radicali e controversi. Per prima cosa è presente un "like" nei confronti della pagina "Siamo fieri di essere musulmani"; fin qui nulla di strano se non fosse per il fatto che in questa pagina il contenuto religioso è mescolato con pesante propaganda filo-turca e violenti attacchi verbali contro il presidente egiziano Abdelfattah al-Sisi, contro Israele, contro i reali sauditi e contro Bashar al-Assad. In altri like della Romano, compaiono Nouman Ali Khan, controverso predicatore accusato nel settembre del 2017 di molestie. Altra pagina che "piace" alla Romano è quella di Zakir Naik, apologeta del suprematismo islamista favorevole alle pene corporali nei confronti delle donne, ai rapporti sessuali con le “schiave” ed a cui è stato vietato l’ingresso in UK e Canada.
Silvia Romano, nuovo profilo Facebook con il nome musulmano: Aisha. Nella foto sorride con il velo. A breve termina la quarantena. Ilmessaggero.it Sabato 23 Maggio 2020. Silvia Romano, la cooperante italiana rapita dai miliziani di Al Shabaab e rimasta prigioniera per 18 mesi, ha aperto un nuovo profilo Facebook con il nome acquisito in seguito alla conversione all'Islam: Aisha S. Romano. A due settimane dal rientro in Italia, la giovane ha scelto come foto profilo un'immagine che la vede sorridente in un negozio di stoffe, con un telo a coprirle il capo. Sullo sfondo, una foto della Porta Blu della città marocchina di Fes. Sul vecchio profilo Facebook, bersagliato da commenti carichi d'odio, Aisha Silvia Romano aveva invitato i suoi amici a non arrabbiarsi per l'ondata d'odio che la sua conversione aveva generato. Nel frattempo, finita la quarantena, continuerà il servizio di vigilanza sulla ragazza. La sorveglianza andrà avanti con passaggi più frequenti delle pattuglie delle forze dell'ordine, davanti alla palazzina dove abita. A breve, la giovane potrà uscire di nuovo. Dopo la liberazione e l'arrivo in Italia all'aeroporto di Ciampino, è tornata a casa a Milano l'11 maggio, giorno in cui è cominciato l'isolamento di 14 giorni per via delle misure di sicurezza sanitarie obbligatorie. All'inizio, viste anche le minacce che ha ricevuto via social per la sua conversione all'Islam e su cui sta indagando la procura, si era pensato di disporre una sorveglianza più stretta, a fine quarantena.
Silvia Romano cita il Corano in un post su Facebook. Pubblicato lunedì, 18 maggio 2020 da Corriere.it. Silvia Romano, la cooperante milanese rapita in Kenya nel novembre 2018 e liberata sabato scorso dopo un anno e mezzo di prigionia, cita il Corano in un post su Facebook, sul suo profilo che non è pubblico ma è visibile soltanto agli amici. La giovane si è convertita all’Islam durante la prigionia e qualche giorno fa, in un commento a un video, aveva ringraziato i musulmani d’Italia per la solidarietà dimostrata per il suo ritorno a casa. Nell’ultimo post, pubblicato domenica sera, la 24enne ha scritto che «non sono certo uguali la cattiva (azione) e quella buona. Respingi quella con qualcosa che sia migliore: colui dal quale ti divideva l’inimicizia, diventerà un amico affettuoso. Ma ricevono questa (facoltà) solo coloro che pazientemente perseverano; ciò accade solo a chi già possiede un dono immenso». E infine: «Il Corano, capitolo “Esposti chiaramente”, verso 34-35». A tre giorni dal suo rientro a Milano, e dopo essere stata travolta da una vergognosa campagna di odio social (e politico), Silvia Romano aveva scritto un primo messaggio su Facebook, rivolto agli amici più stretti, per dire grazie per l’affetto ricevuto. Nel post un appello a chi le sta vicino: «Non arrabbiatevi per difendermi, il peggio per me è passato». Nel post su Facebook, Silvia Romano faceva riferimento anche al vestito tradizionale indossato il giorno del rientro in Italia. «Non vedevo l’ora di scendere da quell’aereo perché per me contava solo riabbracciare le persone più importanti della mia vita, sentire ancora il loro calore e dirgli quanto le amassi, nonostante il mio vestito». E ancora: «Sentivo che loro e voi avreste guardato il mio sorriso e avreste gioito insieme a me perché alla fine io sono viva e sono qui. Sono felice perché ho ritrovato i miei cari ancora in piedi, grazie a Dio, nonostante il loro grande dolore. Perché ho ritrovato voi tutti pronti ad abbracciarmi. Io ho sempre seguito il cuore e quello non tradirà mai. Vi chiedo di non arrabbiarvi per difendermi - è l’appello finale - il peggio per me è passato. Godiamoci questo momento insieme. Vi abbraccio tutti virtualmente forte e spero di farlo presto anche dal vivo. Vi voglio bene».
Silvia Romano e i suoi "like" a islamisti e predicatori radicali. Un'attenta analisi del profilo Facebook di Silvia Romano ha mostrato come ben 16 dei 21 "like" cliccati dall'utente sono di matrice islamica, tra cui una pagina con contenuti estremisti e ben tre predicatori radicali e controversi. Presente anche l'ambito dell'islamismo politico attivo in Italia. Giovanni Giacalone, Giovedì 28/05/2020 su Il Giornale. Emergono elementi interessanti sul profilo Facebook di Silvia Romano, in particolare per quanto riguarda i cosiddetti "mi piace" cliccati dall'utente, soltanto 27, di cui 18 riconducibili ad ambito islamico, secondo un'analisi effettuata tra il 24 e il 27 maggio. Un aspetto interessante, visto che gli elementi non mostrano soltanto un interesse per l'Islam in generale, ma in particolare nei confronti di un islamismo politico ben noto in Italia e anche per alcuni predicatori radicali e controversi. Ma è bene procedere con ordine. Per prima cosa è presente un "like" nei confronti della pagina "Siamo fieri di essere musulmani"; fin qui nulla di strano se non fosse per il fatto che in questa pagina il contenuto religioso è mescolato con pesante propaganda filo-turca e violenti attacchi verbali contro il presidente egiziano Abdelfattah al-Sisi, contro Israele, contro i reali sauditi e contro Bashar al-Assad; un contenuto accompagnato spesso da teorie sconclusionate di stampo complottista come l'appartenenza al Mossad dell'ex leader dell'Isis, al-Baghdadi o di Bin Laden alla Cia con i rispettivi nomi di Simon Elliot e Tim Osman. Di materiale raccolto ce n'è veramente tanto ed ecco alcuni esempi: un post del 23 aprile mostra il principe saudita Mohammad Bin Salaman al-Saud con sopra la scritta "Tu sei maledetto" e il commento "la famiglia maledetta saudita hanno aperto di tutto nella terra sacra dell'islam, locali notturni, club, pub, discoteche e cocktail bar concerti, festeggia Halloween e dicono che tutto halal.." In un post del 29 gennaio 2019 i gestori della pagina, infastiditi dal concerto di Marayah Carey in Arabia Saudita, scrivono: "Mariah Carey, in concerto in arabia saudita il concerto previsto giovedì prossimo a Gedda che si trova a circa 70 Km. di distanza dal-Masjid al-Haram Mecca.. Che Allah maledica e scateni la sua rabbia contro la famiglia sionista Saudita servi di satana". Chissà se la Romano lo avrà visto? In un post del 22 maggio 2020 il presidente egiziano Al-Sisi viene accusato di aver distrutto 35 moschee ad Alessandria d'Egitto, con tanto di commento: "Allah l'altissimo dice: Chi è più ingiusto di chi impedisce che nelle moschee di Allah si menzioni il Suo nome e che, anzi, cerca di distruggerle? Per loro ci sarà ignominia in questa vita e un castigo terribile nell'altra". Accuse anche contro il presidente indiano Modi, definito "terrorista" e ancora contro al-Sisi e i regnanti sauditi ed emiratini, definiti "servi di Satana", "maledetti" e "peggiori nemici dell'Islam". Contenuti inquietanti anche contro il presidente americano Donald Trump: "annuncia agli ipocriti un castigo doloroso". Immancabile poi il riferimento al voler cancellare Israele dalla mappa con tanto di commento "Palestine. No Israele" ed una serie di post inneggianti al presidente turco Erdogan e all'ex presidente islamista egiziano Mohamed Morsy, definito "martire". Tornando ai like della Romano, compaiono Nouman Ali Khan, controverso predicatore accusato nel settembre del 2017 di molestie, conversazioni inappropriate con donne e abusi spirituali al punto che anche un comitato formato da leader islamici del Nord America si espresse contro Khan. Altra pagina che "piace" alla Romano è quella di Zakir Naik, apologeta del suprematismo islamista favorevole alle pene corporali nei confronti delle donne, ai rapporti sessuali con le “schiave” ed a cui è stato vietato l’ingresso in UK e Canada. I suoi sermoni sono tra l'altro stati vietati in diversi Paesi tra cui India e Bangladesh. Zakir Naik appare tra l'altro anche nella già citata pagina Facebook "Siamo fieri di essere musulmani" con tanto di scritta "La loro guerra contro l'Islam è destinata a fallire. Se l'Islam non fosse la vera religione di Allah, sarebbe già estinta". Altro personaggio con tanto di "like" della Romano è Yusuf Estes, ex predicatore cristiano convertitosi all’Islam ed ora considerato un predicatore di odio vicino a Zakir Naik. Vi è poi il "like" alla pagina "Nquran", sito di dottrina islamista di stampo salafita totalmente in arabo. Lasciando i predicatori radicali e spostandosi verso gli altri "like", emergono subito una serie di preferenze della Romano per l'islamismo politico italiano, in primis l'Associazione Islamica di Milano, null'altro che la moschea di Cascina Gobba, definita da Maher Kabakebbji, suocero di Sumaya Abdel Qader, "la moschea più vicina a casa tua", durante un video-invito per recarsi in moschea fatto a Silvia pochi giorni dopo il suo rilascio. Sumaya Abdel Qader è consigliere comunale del PD milanese ed è già finita al centro di polemiche per un suo precedente ruolo nella Fioe, riconosciuta dal magistrato Guido Salvini come gruppo collegato ai Fratelli Musulmani. Il marito della Abdel Qader, Abdallah Kabakebbjji, si era invece distinto per un suo post su Facebook dove scriveva di voler applicare allo Stato di Israele la procedura "Ctrl+Alt+ Canc". Un'altra pagina che "piace" alla Romano è "Musulmani in Italia", dove compaiono immagini di diversi personaggi legati all'ambito Ucoii, come il presidente Yassine Lafram, l'ex esponente del Caim Yassine Baradei, Aboulkheir Breigheche (imam di Trento, comparso in foto in moschea assieme a un gruppo di fedeli tra cui due jihadisti balcanici poi arruolati nell'Isis da Bilal Bosnic e che recentemente aveva difeso l'offensiva turcaa in Siria), ma anche Roberto Hamza Piccardo, ben noto anche per la sua apologia nei confronti della poligamia. Tra gli altri "like" vi è poi quello alla pagina di Hind Lafram, stilista di moda islamica apprezzata dalla Boldrini nonché sorella del già citato presidente Ucoii Yassine Lafram ma anche due pagine di al-Jazeera, emittente televisiva del Qatar, considerata vicina alla Fratellanza Musulmana.
Giuliano Guzzo per “la Verità” il 19 maggio 2020. «Colui dal quale ti divideva l'inimicizia, diventerà un amico affettuoso». Sono le parole con cui ieri su Facebook Silvia Romano, la cooperante milanese di 25 anni rapita in Kenya nel novembre 2018 e rimpatriata il 10 maggio, ha scelto di rompere il suo silenzio. Più che di parole, per la verità, trattasi di versetti coranici, come la stessa Aisha - questo, come noto, il nome scelto dalla giovane dopo la sua conversione all' islam - ha tenuto a precisare: «Il Corano, capitolo "Esposti chiaramente", verso 34-35». Ora, non serve esser fini islamologi per sapere che i versetti cari ai musulmani vanno maneggiati con cura, se non altro perché contengono tutto e il loro contrario, inclusi inquietanti inviti alla violenza quali, ad esempio, il fin troppo esplicito: «Uccidete gli infedeli ovunque li incontriate. Questa è la ricompensa dei miscredenti» (Sura 2:191). Ciononostante, la citazione coranica di Romano è stata subito salutata da più fonti come lodevole invito alla distensione. D' altra parte, la canonizzazione mediatica della giovane procede a tappe forzate e il mondo islamico fa letteralmente a gara per contendersela. La vuole Maher Kabakebbji, presidente della moschea Mariam, l'associazione di Cascina gobba, alle porte di Milano, non distante dall' abitazione della giovane cooperante: «Aspetto Silvia Romano a braccia aperte, per farle conoscere la realtà della comunità islamica in Italia e farle da supporto spirituale». Di tenore analogo le parole di Ali Abu Shwaima della moschea di Segrate - «Se Silvia vuole venire in moschea, sarebbe la benvenuta» - e dell' imam di Milano Yahya Pallavicini: «Sarei disponibile e contento di accoglierla». Ma a battere tutti sul tempo è stata l' Ucoii, l' Unione delle comunità e organizzazioni islamiche cui fanno capo circa 80 moschee e 300 luoghi di culto, che già nelle ore successive all' atterraggio di Aisha in Italia ha diffuso una nota con cui, nel darle il benvenuto, stigmatizzava i «pesanti e vigliacchi attacchi a Silvia», descritti come segno di «un certo tipo di razzismo islamofobo». Ora, è evidente come la nostra connazionale sia reduce da un'esperienza tragica, come un rapimento inevitabilmente è, motivo per cui è opportuno abbassare i toni. Tuttavia, nel momento in cui, da una parte, la giovane diviene giorno dopo giorno sempre più la beniamina di certo mondo islamico, e dall' altra, è la stessa Romano a fare esternazioni appoggiandosi a passaggi coranici, qualche considerazione appare doverosa. Soprattutto in relazione a un dato di fatto centrale che in tanti sembrano aver già dimenticato, ossia l' identità dei sequestratori della cooperante. Infatti, anche volendo omettere ogni valutazione sull' effettiva spontaneità della conversione all' islam di Aisha - sulla quale ha espresso perplessità, tra gli altri, perfino qualche imam, come Mahmoud Asfa -, va ricordato come ad averla rapita siano stati i guerriglieri di Al Shabaab, gruppo jihadista tra i più sanguinari del mondo, autore di attentati di ferocia inaudita. Come quello dell' ottobre 2017 con cui, in Somalia, con l' esplosione di due automezzi carichi di esplosivo furono uccise in un solo giorno quasi 600 persone e oltre 300 rimasero ferite. Per non parlare dei cristiani, verso cui Al Shabaab ha sempre mostrato la massima crudeltà. Lo si rammenta, si badi, non per gusto del macabro, ma perché sono appunto i militanti di quella sigla ad aver convertito Romano. Il che dovrebbe consigliare a tutti maggior prudenza nel magnificare quanto dice o fa una giovane tornata dall' inferno, con tutte le immaginabili conseguenze del caso.
Virginia Piccolillo per il Corriere della Sera il 17 maggio 2020. Silvia Romano? «L'hanno trattata come una signora. Ma quali terroristi? I terroristi siete voi che buttate le bombe sopra i bambini insieme agli americani. Ma quale Al-Shabab?». Saranno i carabinieri ora a indagare sulle dichiarazioni-shock di un membro della comunità islamica della moschea di Torpignattara di Roma. Il deputato di Fratelli d' Italia, Giovanni Donzelli, ha presentato venerdì sera, alla caserma di Prato dove abita, un esposto nel quale chiede di «verificare se i fatti, la persona e i luoghi possono significare pericolo per la sicurezza e siano da considerare questi a termini di legge». Il servizio realizzato inizialmente per Il Giornale online, è stato rilanciato dalla trasmissione «Il diritto e il rovescio» di Paolo Del Debbio e ha suscitato indignazione nel partito di Giorgia Meloni per la teoria del sequestro a fini di «rieducazione» propugnata dall' intervistato che, secondo le informazioni raccolte dall' autrice, si farebbe chiamare Mohammed e sarebbe un membro molto influente della comunità islamica. Rivendica quel gesto di violenza che ha tenuto diciotto mesi Silvia nel terrore: «Quando le rapiamo noi - dice - non le violentiamo, non gli facciamo le porcherie, gli insegniamo». E infatti, dice orgoglioso: «Stando lì ha capito, ha preso l' educazione con la prigionia. E' educata, ha studiato». E aggiunge: «Hai visto come é arrivata? Felice». «Va arrestato per istigazione all' odio e al terrorismo», ha gridato in trasmissione, collegato da casa sua, Donzelli. E subito dopo, nella più vicina caserma, ha presentato la denuncia mentre un gruppo di colleghi del partito di Giorgia Meloni annunciavano un' interrogazione parlamentare alla Camera contro quelle «parole gravissime». «Vorrei che fosse arrestato e cacciato, ma il punto - spiega al Corriere - è se questa persona ha un ruolo. E se quella stupidaggine la dice anche alla comunità musulmana di quella zona. Se divulga quelle idee. Perché un conto è se una persona istiga alla violenza o al terrorismo. Un altro se in quella moschea si fa proselitismo di questo tipo». Intanto le polemiche sulla conversione islamica della ragazza non si placano. Spuntano imam che festeggiano la sua scelta. Maher Kabakebbji, presidente della moschea Mariam alle porte di Milano, la «aspetta a braccia aperte per supporto spirituale». E malgrado la stessa Silvia abbia chiesto «non arrabbiatevi per me», i toni sui social sono alti. Caterina Bini, responsabile Enti locali del Pd, esprime «vergogna» per un post, poi rimosso, nel quale il capogruppo FdI in Comune a Pistoia, Lorenzo Galligani, formulava il sogno che «i servizi scovassero nelle loro capanne sudici e puzzolenti, i rapitori collaboratori mediatori santoni e gli ideologi e li ammazzassero come cani rabbiosi possibilmente insieme ai loro familiari fino al sesto grado».
I vescovi: “Silvia Romano è una nostra figlia”. Ma Salvini: “Ora risposte sul riscatto”. Il Dubbio l'11 maggio 2020. Le parole del presidente della Cei, il cardinale Gualtiero Bassetti, smorzano le polemiche sulla conversione della giovane rapita. “Il ritorno di questa ragazza è il ritorno di una giovane che tutti in questo momento sentiamo la nostra figlia”. Così il presidente della Cei, il cardinale Gualtiero Bassetti, intervistato da Umbria24, commenta la liberazione di Silvia Romano. “Questa – ha detto il presidente dei vescovi italiani – è una ragazza che ha una grande grinta e questa forza interiore sicuramente l’ha salvata, una ragazza spinta da fortissimi motivi anche religiosi ma umanitari e questo l’ha aiutata a sopravvivere. Poi c’è la serietà della nostra politica estera perché i nostri servizi segreti, la politica nel senso più nobile ha fatto la sua parte. Il ritorno di questa ragazza è il ritorno di una giovane che tutti in questo momento sentiamo la nostra figlia. C’è stata un’accoglienza, una festa da parte di tutti perché è stata una nostra figlia che ha corso pericoli enormi, che ha avuto coraggio e l’abbiamo potuta abbracciare almeno col cuore perché ora non si può fare con le braccia e con le mani e io che sono un tipo affettuoso patisco tanto”.
La critica di Salvini. “Ieri era la Festa della Mamma e quindi della gioia per quella famiglia. Quando si libera una ragazza di 24 anni dopo 18 mesi è il momento della festa. Certo, qualche domanda deve avere una risposta”, commenta Salvini a Rtl 102.5. “Ho letto – ha aggiunto il leader della Lega – che si è convertita all’Islam. Ricordo che in Kenya l’Islam è fuorilegge ed è punito con la prigione (falso, perché in Kenya vige la libertà di culto e i musulmani sono una minoranza importante. Inoltre la conversione di Silvia Romano è avvenuta in Somalia, ndr), e i soldi del riscatto sarebbero stati incassati da questa organizzazione terroristica, Al-Shabaab, che coi suoi attentati ha ucciso centinaia di persone”.
«Cara Silvia, so bene che quegli abiti sono un guscio. Ignora le polemiche e prenditi cura di te». Rocco Vazzana su Il Dubbio il 12 maggio 2020. Susan Dabbous, giornalista e scrittrice italo- siriana, fu rapita in Siriai nsieme a tre colleghi della Rai. «Ora Silvia deve solo pensare a sé stessa, a normalizzare la nuova situazione, la discussione sulla sua conversione mi sembra insensata». Susan Dabbous, giornalista e scrittrice italo- siriana, liquida così le polemiche sulla conversione di Silvia Romano, come un elemento assolutamente secondario e personale, all’indomani della sua liberazione. Lei, del resto, sa perfettamente cosa significhi trascorrere del tempo nelle mani di gruppi islamisti. Nel 2013, furono 11 i suoi giorni di prigionia in Siria, sequestrata dai qaedisti di Jabhat al- Nusra, insieme a tre colleghi della Rai. Un’esperienza indelebile, raccontata nel libro Come vuoi morire? ( Castelvecchi).
Cosa ha pensato appena ha saputo della liberazione di Silvia Romano?
«Ogni volta che viene liberato un ostaggio mi commuovo, ancor di più se si tratta di una donna. Tornano a galla una serie di sentimenti difficili da definire e allo stesso tempo impossibili da rimuovere, non mi capita spesso di ripensare a quell’esperienza».
Cosa significa esser donna e finire nelle mani di gruppi islamisti?
«Non so dire se sia un’aggravante o addirittura un aiuto in certe circostanze. A volte può anche capitare che una certa lettura fondamentalista ti metta al riparo, ad esempio, da abusi sessuali. Ma è impossibile generalizzare, ogni caso è a sé. Non credo comunque che essere sequestrati da gruppi islamisti sia di per sé un fattore più traumatico per una donna rispetto a qualsiasi altro sequestro».
Come ha trascorso la sua prigionia?
«Il mio caso è molto particolare. Sono di origini siriane da parte di padre, dunque nata musulmana, ma figlia di una cattolica, un “dettaglio” per loro inaccettabile. E la mia provenienza è stata messa sul banco del giudizio, per questo sono stata io stessa a chiedere di poter pregare».
È religiosa?
«No. Praticavo la religione per andare incontro ai loro “gusti” e continuare a vivere, ma anche per poter essere separata dagli uomini e lavarmi, perché l’Islam prevede le abluzioni e in una prigione in cui c’era solo una latrina a disposizione era l’unico modo».
È possibile che un pensiero simile, almeno in un primo momento, sia scattato anche nella mente di Silvia Romano?
«Non credo. Io vengo da una famiglia musulmana e le ho viste fare le abluzioni, per me era una cosa familiare. Non mi azzardo a fare alcuna ipotesi sui percorsi degli altri. Per me dimostrare un avvicinamento all’Islam era parte di un bagaglio culturale, ognuno reagisce a suo modo. Magari Silvia si è messa a leggere il Corano perché nella lettura ha trovato conforto dalla solitudine e ha potuto tenere in esercizio il proprio intelletto, è fondamentale durante un sequestro».
Ha fatto scalpore vedere una persona scendere dall’aereo con un hijab in testa, nonostante la ragazza abbia parlato di una conversione volontaria.
«È davvero una polemica senza senso. Questo è il momento in cui Silvia deve solo prendersi cura di sé e normalizzare la nuova situazione, un processo che non avviene con uno schiocco di dita. È quello che ha detto a me uno psicologo all’indomani della liberazione. In ogni caso, gli abiti con cui è scesa dall’aereo sono i vestiti indossati durante la prigionia. Neanche io volevo levarmeli all’inizio, perché sono ciò che ti protegge dal mondo esterno, sono il tuo guscio in cui scomparire, lo strumento attraverso cui ti guadagni il rispetto degli altri, quelli che hanno in mano la tua vita. Sono cose che nella vita normale non si possono spiegare».
Che rapporto ha avuto con i suoi carcerieri?
«All’inizio ho trascorso la prigionia insieme agli altri colleghi, ma gli ultimi quattro giorni sono stata trasferita in un appartamento, sorvegliata da una donna. E con lei ho stretto un rapporto psicologico particolare. I suoi modi gentili, femminili, emotivamente mi hanno condizionata: era una jihadista ma aveva migliorato le mie condizioni di detenzione. Del resto, venivo da una prigione in cui si sentivano le urla di altri detenuti torturati.
Cosa si pensa in quei momenti, sentiva che sarebbe finita bene o temeva il peggio?
«Non ho mai avuto certezze. Alternavo momenti di positività, negatività e razionalità. Il pensiero si divideva in tre direzioni costantemente».
In Italia soprattutto i partiti di centrodestra si scagliano contro l’eventuale pagamento di un riscatto per liberare Silvia Romano. Sono preoccupazioni legittime?
«Non esiste una dottrina che metta d’accorda tutti nel dibattito internazionale. C’è chi dice che i riscatti possano innescare una spirale nuovi rapimenti e chi invece sostiene che davanti a una vita non bisogna andare troppo per il sottile. Sono tanti i Paesi, dal Nord Europa all’Asia, che con grande discrezione pagano i riscatti. C’è chi poi aggira l’ostacolo facendolo sborsare formalmente ad altri governi. Ma sono sicura che se chiedessimo a ogni singolo cittadino la sua disponibilità a pagare meno di un centesimo di euro, perché di questo parliamo, per la liberazione di una persona risponderebbero tutti sì».
Anche alla sua liberazione ci furono polemiche?
«La mia salvezza, tra virgolette, fu di essere stata sequestrata insieme a dei grandi professionisti uomini. Ero una donna ma in un team di maschi, non ero “quella partita all’avventura”, e questo mi ha messa al riparo da una serie di giudizi indecenti come non è accaduto a Silvia».
Cosa succede quando dicono: vi stiamo liberando?
«Uno dei momenti più brutti della prigionia, non capisci mai come andrà a finire. Sei bendato e pensi che ancora possa accadere di tutto, sono momenti interminabili».
Ora è tutto alle spalle?
«La mia vita è cambiata radicalmente da allora. Ho avuto due figli bellissimi che mi hanno consentito di andare avanti e non pensare più a quell’esperienza».
L'islamologo sulla conversione di Silvia Romano: "Potrebbe aver chiesto il Corano per capire meglio i suoi rapitori". Al suo ritorno, la cooperante milanese ha confermato la scelta di essersi convertita. L'islamologo Paolo Branca ha provato a spiegare i passaggi della vicenda: "È evidente che se i rapitori fossero stati di un'altra religione o atei, sarebbe stata meno probabile la richiesta di una copia del Corano, seguita addirittura da una conversione". Giovanna Pavesi, Lunedì 11/05/2020 su Il Giornale. È arrivata alle 14.10 di una domenica pomeriggio di maggio, a Ciampino, dopo 18 mesi di prigionia, divisa tra il Kenya e la Somalia. Silvia Romano, la cooperante milanese rapita nel villaggio di Chakama, a 80 chilometri da Malindi il 20 novembre 2018, e liberata due giorni fa vicino a Mogadiscio, ha potuto riabbracciare la sua famiglia. La prima immagine di lei che scende le scalette del volo che l'ha riportata a casa, è quella di una ragazza stretta in un lungo abito della tradizione somala, color smeraldo, e il velo sul capo, che non si è mail tolta. Alla psicologa dei servizi segreti che, per prima, in Somalia, ha ascoltato il suo racconto, Silvia Romano avrebbe confidato di essersi convertita all'islam. Senza, però, alcuna costrizione da parte dei suoi sequestratori. La giovane volontaria, infatti, sentita dal pubblico ministero della procura di Roma, Sergio Colaiocco, e dagli uffici antiterrorismo che, in questi mesi, hanno seguito il suo caso, avrebbe confermato la sua scelta. "È vero, mi sono convertita", avrebbe spiegato la 25enne durante la sua lunga audizione di ieri pomeriggio. Ai carabinieri del Ros avrebbe detto di aver pianto per tutto il primo mese di prigionia e di aver abbracciato la religione islamica a metà del suo sequestro, senza alcuna costrizione: "Ho chiesto di poter leggere il Corano e sono stata accontentata". Come riportato questa mattina dal Corriere della sera, la cooperante avrebbe anche scelto di cambiare il suo nome in Aisha. "Leggevo il Corano, pregavo. La mia riflessione è stata lunga e alla fine è diventata una decisione", avrebbe chiarito la giovane. Paolo Branca, islamologo e docente di Storia delle religioni all'Università cattolica di Milano, interpellato dal Giornale.it, ha spiegato come, in casi come questo, ci sia spesso un trauma all'origine del distacco dalla fede, magari, dei propri familiari e ha provato a interpretare i segni (visibili e nascosti) di quanto raccontato da Silvia nelle sue prime ore di libertà.
Professor Branca, la conversione di Silvia è oggetto di grande discussione in queste ore. Casi di questo genere sono frequenti nella storia dei rapimenti?
"Per esperienza personale, avendo conosciuto sia cristiani convertiti all'islam che musulmani divenuti cristiani, mi pare di poter dire, in generale, che un passo del genere non è mai banale. Non si cambia religione come bere un bicchiere d'acqua. Anche in condizioni normali, c'è spesso un trauma all'origine del distacco dalla fede dei propri genitori e non a caso molti si vedono poi impegnati più a denigrare la religione abbandonata che a magnificare la nuova".
Amanda Lindhout, la freelance canadese rapita nell'agosto del 2008 da una cellula islamica in Somalia, tornò libera nel 2009 dopo mesi di prigionia in cui venne seviziata e stuprata. Anche lei apparve velata e soltanto tempo dopo dichiarò di essersi convertita per sopravvivere. Fino a che punto un ostaggio può dirsi libero di scegliere e totalmente svincolato dalle pressioni dei suoi carcerieri, secondo lei?
"Impossibile dirlo. Anche per i messaggi video cui militari catturati sono stati costretti, le singole personalità emergono, dando vita a una serie infinita di casi distinti".
Perché, secondo lei, la cooperante ha chiesto il Corano e non la Bibbia, per esempio?
"Non credo che gliel'avavrebbero data. E comunque, conoscere il testo sacro dei suoi rapitori può averla aiutata a capirli meglio e a usare un linguaggio a loro noto. Dato il suo impegno parrocchiale, penso inoltre che la Bibbia la conoscesse già bene".
Ci spieghi il concetto di "capire meglio" i suoi rapitori. Silvia, per esempio, durante le sue ore di interrogatorio, avrebbe dichiarato di aver imparato anche un po' di arabo.
"Conoscere le lingue altrui è sempre un vantaggio, anche in chiave difensiva. Maometto, per esempio, diceva: 'Chi conosce la lingua di un popolo si mette al riparo dalle loro astuzie'".
Quindi, ritiene sia stato più un adattamento o una scelta?
"Posto che non è detto che i rapitori abbiano parlato arabo ma forse più un dialetto con qualche parola araba (come spiegato anche dalla giovane cooperante durante l'audizione, ndr), impadronirsi un po' la lingua del mio avversario mi aiuta a conoscerlo meglio, sicuramente. Imparare il linguaggio con cui interagisce, aiuta a comprendere".
Quale meccanismo psicologico può essersi avviato in lei nei 18 mesi di prigionia? Perché una conversione proprio a metà del sequestro? Possibile sia stata "vittima" di quella sindrome che lega gli ostaggi alla realtà dei suoi sequestratori?
"Non conoscendo la ragazza è impossibile dirlo. Ma è nota la cosiddetta sindrome di Stoccolma, il meccanismo per cui un prigioniero può addirittura innamorarsi del proprio carceriere".
Quindi, la conversione all'islam può essere stata influenzata dal fatto che i suoi sequestratori appartenessero molto probabilmente a un gruppo fondamentalista?
"Mi pare evidente che se i rapitori fossero stati di un'altra religione o atei, sarebbe stata meno probabile la richiesta di una copia del Corano, seguita addirittura da una conversione".
C'è il rischio di una forma di radicalizzazione, in casi come questo? È presto per dirlo?
"In generale, i neoconvertiti sono più scrupolosi dei credenti comuni, ma ci sono anche forme di avvicinamento spirituale che non comportano né risentimento verso la fede precedente, né atteggiamenti radicali".
Silvia Romano è atterrata a Ciampino con un lungo abito che, forse, più di ogni altro elemento ha destato l'attenzione di molti. In casi come questo, l'abbigliamento può essere considerato un simbolo? Che significato ha?
"Il velo, nelle sue varie forme, per esempio, è simbolo di modestia e castità, oltre che di sottomissione a Dio. Al di là di questo, però, credo che chi esce da una simile esperienza possa anche sentirsi protetto dal velo dai molti sguardi che si vedrà puntati addosso".
La giovane cooperante, durante la sua lunga audizione ieri, avrebbe riferito di aver sentito il canto del muezzin più volte al giorno, durante le fasi della sua prigionia. Crede che quell'appuntamento possa averla influenzata nell'abbracciare la fede islamica?
"In situazioni di grave privazione della libertà, qualsiasi suono, immagine e persino odore possono diventare ossessivi o consolatori. Molta letteratura araba moderna concentrazionaria lo testimonia ampiamente".
Il Corano potrebbe aver avuto una funzione "consolatoria" nel suo caso?
"Tutti i testi sacri di ogni religione hanno parole di conforto e speranza per gli esseri umani che vivono l'esperienza del limite, del dolore e della morte. Il Corano, in particolare, sottolinea l'abbandono fiducioso al volere divino anche nelle avversità, fino a un certo grado di fatalismo che, in situazioni estreme e senza uscita, può risultare consolatorio".
Alla psicologa che l'ha accolta in Somalia e che ha volato con lei nel viaggio di ritorno la volontaria milanese avrebbe confidato di aver cambiato il suo nome in Aisha. Che idea si è fatto di questa scelta?
"Aisha è il nome della più giovane e amata moglie del Profeta, che era dotata però anche di un carattere forte, vivace e persino un po' ribelle".
Professor Branca, c'è chi ha parlato di una vittoria propagandistica di al Shabaab, in queste ore, dovuta sia alla conversione (senza apparenti costrizioni) della ragazza, sia al comportamento "compassionevole" avuto con lei. In tanti, adesso, temono che il gruppo fondamentalista possa essere visto sotto un'altra luce. Lei che cosa ne pensa?
"Persino i nazisti chiesero a Freud, prima di lasciarlo partire da Vienna per la Gran Bretagna, una dichiarazione scritta di essere stato trattato bene. Da genio quale era, la vanificò aggiungendo al testo già scritto una frase di suo pugno: Posso sinceramente raccomandare le Ss a chiunque. In futuro, vedremo se Silvia aggiungerà particolari alla storia che, per ora, conosciamo poco, magari ribaltandone il senso apparente".
Silvia Romano, il pentito di al Shabaab: «Così gli islamisti fanno il lavaggio del cervello». Parla un ex miliziano dell'organizzazione che ha rapito la cooperante: «Metodi molto persuasivi che possono affascinare. Io ci sono caduto, poi ho capito che vogliono solo più potere». Antonella Napoli il 10 maggio 2020 su L'Espresso. Ottenere la liberazione di Silvia Romano non è stato facile, sono stati necessari 535 giorni di ricerche, contatti, trattative. L’operazione congiunta, che ha visto lavorare insieme tre diverse intelligence, italiana, somala e turca, è riuscita a portare in salvo la cooperante milanese 25enne, rapita in Kenya il 20 novembre del 2018, solo grazie a un serrato negoziato segreto con mediatori locali in contatto con il gruppo islamista. «Il passaggio di mano dai sequestratori che l’hanno prelevata a Chakama ai terroristi somali», racconta Omer Abdullah, giornalista keniota che ha seguito tutte le fasi del sequestro, «è avvenuto poco dopo il rapimento della Romano, quindi lei ha trascorso un tempo lunghissimo con i miliziani di al Shabaab. Inoltre è stata esposta a rischi continui. Gli estremisti islamici somali da mesi stanno mettendo in campo tutte le loro forze per espandere il loro potere con l'obiettivo di allargare il loro raggio di azione in Kenya e negli altri paesi confinanti. La Somalia è per loro il trampolino di lancio per il resto dell'Africa dell'est, anche grazie all'aiuto di forze esterne che in qualche modo interferiscono nelle questioni somale. Non a caso le armi continuano ad arrivare facilmente nelle loro mani». Le azioni di al Shabaab si abbattono su istallazioni e contingenti militari ma anche sui civili, obiettivi di attentati simbolici compiuti al fine di assumere un ruolo di maggiore rilevanza nel panorama dell’estremismo jihadista regionale. Come l’assalto a un hotel internazionale di Mogadiscio nell’ottobre del 2017, che ha provocato più di 500 vittime: il più micidiale attacco terroristico dall'11 settembre del 2001 negli Stati Uniti. A raccontarci dal di dentro al-Shabaab è un "pentito", Ahmed (utilizziamo uno pseudonimo per non esporre l’ex combattente al rischio di rappresaglie), 24 anni, nato in Kenya. Nel 2017, quando ha saputo che avrebbe dovuto attaccare il villaggio in cui era nato, Ahmed ha deciso di disertare. Ha preferito fuggire piuttosto che uccidere suoi familiari e amici. Si è allontanato di notte, percorrendo a piedi il tratto di foresta che dal confine somalo porta in Kenya. Ha camminato per chilometri fino a raggiungere, dopo cinque giorni, il primo centro abitato.
Da lì è arrivato a Malindi dove ha chiesto alle autorità il diritto di asilo.
«Mi è stata concessa l'amnistia per i crimini commessi e sono stato inserito nell'ambito di un programma del governo keniota per riabilitare i disertori di al-Shabaab che, come me, erano stati arruolati nelle moschee da reclutatori che si erano inseriti nelle comunità locali per fare proseliti da mandare sui campi di battaglia somali», ricorda l’ex terrorista, che oggi vive a Nairobi e si occupa di cooperazione.
«La mia era stata una scelta di fede, ho combattuto per questo, non per soldi. Ma il mio credo è stato insanguinato da troppe atrocità. Ora vivo nella paura che prima o poi mi trovino e mi uccidano, ma non tornerei indietro», spiega sicuro della sua scelta. La sua lealtà verso al-Shabaab comincia a vacillare nel giugno 2017, dopo uno degli attacchi più sanguinari di sempre, a cui partecipa, del gruppo terroristico. In un doppio assalto a Mogadiscio, a due ristoranti, vengono trucidate decine di civili, tra cui donne e bambini.
«Era il mese del Ramadan, un momento sacro per noi musulmani», racconta Ahmed. «Il giorno prima ci dissero che dovevamo essere pronti a tutto, anche a non tornare. Uno di noi si è fatto esplodere all’interno di un’automobile di fronte al ristorante Post Treats, attorno alle 20, l’ora più affollata dalle famiglie. Il commando di cui facevo parte ha invece assaltato un secondo locale, il Pizza House, a pochi metri di distanza, che di solito era frequentato da stranieri ma durante le sere del Ramadan, quando i fedeli dopo l’ultima preghiera si riuniscono per mangiare dopo una giornata di digiuno, ci andavano tanti musulmani».
Da quel momento qualcosa in lui si rompe. Tornato nel campo di addestramento di Chisimaio, dove aveva trascorso gli ultimi tre anni della sua vita, alla notizia che presto l’obiettivo da colpire sarebbe stato il suo villaggio di origine comincia a progettare la fuga.
«Quando sono stato riabilitato ho deciso che dovevo fare qualcosa per impedire ad altri ragazzi di entrare in questo vortice di violenze e terrore. Oggi vado nelle scuole per mettere in guardia i più giovani dal "lavaggio del cervello", il sistema di coercizione, che il gruppo terroristico usa per suscitare assoluta devozione tra i potenziali seguaci» conclude l’ex terrorista. Metodi talmente persuasivi che un’alta percentuale di nuove reclute, soprattutto le più giovani. quando viene chiesto loro se si sentono pronte a eventuali atti kamikaze si offre volontariamente. Un orrore nell’orrore.
“Conversione Silvia Romano non è scelta di libertà”, la lettera di Maryan Ismail. Redazione su Il Riformista l'11 Maggio 2020. Il ritorno in Italia di Silvia Romano sta creando non poche polemiche. Tra riscatto, conversione e passerelle dei politici il dibattito è aperto su più fronti. In questo contesto pubblichiamo la lettera che Maryan Ismail ha scritto a Silvia Romano sul proprio profilo Facebook. Ho scelto il silenzio per 24 ore prima di scrivere questo post. Quando si parla del jihadismo islamista somalo mi si riaprono ferite profonde che da sempre cerco di rendere una cicatrice positiva. L’aver perso mio fratello in un attentato e sapere quanto è stata crudele e disumana la sua agonia durata ore in mano agli Al Shabab mi rende ancora furiosa, ma allo stesso tempo calma e decisa. Perché? Perché noi somali ne conosciamo il modus operandi spietato e soprattutto la parte del cosidetto volto “perbene”. Gente capace di trattare, investire, fare lobbing, presentarsi e vincere qualsiasi tipo di elezione nei loro territori e ovunque nel mondo.
Insomma sappiamo di essere di fronte a avversari pericolosissimi e con mandanti ancor più pericolosi. Ora la giovane cooperante Silvia Romano, che è bene ricordare NON ha mai scelto di lavorare in Somalia, ma si è trovata suo malgrado in una situazione terribile, è tornata a casa. Non è un caso che per mesi ho tenuto la foto di Silvia Romano nel mio profilo fb. Sapevo a cosa stava andando incontro. Si riesce soltanto ad immaginare lo spavento, la paura , l’impotenza, la fragilità e il terrore in cui ci si viene a trovare? Certamente no, ma bastava leggere i racconti delle sorelle yazide, curde, afgane, somale, irachene, libiche , yemenite per capire il dolore in cui si sprofonda. Comprendo tutto di Silvia. Al suo posto mi sarei convertita a qualsiasi cosa pur di resistere, per non morire. Mi sarei immediatamente adeguata a qualsiasi cosa mi avessero proposto, pur di sopravvivere. E in un nano secondo. Attraversare la savana dal Kenya e fin quasi alle porte di Mogadiscio in quelle condizioni non è un safari da Club Mediterranee… Nossignore è un incubo infernale, che lascia disturbi post traumatici non indifferenti. Non mi piacciono per nulla le discussioni sul suo abito ( che per cortesia non ha nulla di SOMALO, bensì è una divisa islamista che ci hanno fatto ingoiare a forza), né la felicità per la sua conversione da parte di fazioni islamiche italiane o ideologizzati di varia natura. La sua non è una scelta di LIBERTA’, non può esserlo stata in quella situazione. Scegliere una fede è un percorso così intimo e bello, con una sua sacralità intangibile. E poi quale Islam ha conosciuto Silvia? Quello pseudo religioso che viene utilizzato per tagliarci la testa? Quello dell’attentato di Mogadiscio che ha provocato 600 morti innocenti? Quello che violenta le nostre donne e bambine? Che obbliga i giovani ad arruolarsi con i jihadisti? Quello che ha provocato a Garissa 148 morti di giovani studenti kenioti solo perché cristiani? Quello che provoca da anni esodi di un’intera generazione che preferisce morire nel deserto, nelle carceri libiche o nel Mediterraneo pur di sfuggire a quell’orrore? Quello che ha decimato politici, intellettuali, dirigenti, diplomatici e giornalisti? No non è Islam questa cosa. E’ NAZI FASCISMO, adorazione del MALE. E’ puro abominio. E’ bestemmia verso Allah e tutte le vittime. I simboli, sopratutto quelle sul corpo delle donne hanno un grande valore. E quella tenda verde NON ci rappresenta. Quando e se sarà possibile , se la giovane Silvia vorrà , mi piacerebbe raccontarle la cultura della mia Somalia. La nostra preziosa cultura matriarcale, fatta di colori, profumi, suoni, canti, cibo, fogge, monili e abiti. Le nostre vesti e gioielli si chiamano guntino, dirac, shash, garbasar, gareys, Kuul, faranti, dheego,macawis, kooffi. I nostri profumi si chiamano cuud, catar e persino barfuum (che deriva dall’italiano). Ho l’armadio pieno delle stoffe, collane e profumi della mia mamma. Alcuni di essi sono il mio corredo nuziale che lei volle portarsi dietro durante la nostra fuga dalla Somalia. Adoriamo i colori della terra e del cielo. Abbiamo una lingua madre pieni di suoni dolci , di poesie, di ninne nanne, di amore verso i bimbi, le madri, i nostri uomini e i nonni. Abbiamo anche parti terribili come l’infibulazione (che non è mai religiosa, ma tradizionale) , ma le racconterei come siamo state capaci di fermare un rito disumano. Come e perché abbiamo deciso di non toccare le nostre figlie, senza aiuti, fondi e campagne di sostegno. Ma soprattutto le racconterei di come siamo stati, prima della devastazione che abbiamo subito, mussulmani sufi e pacifici, mostrandole il Corano di mio padre scritto in arabo e tradotto in somalo...Di quanti Imam e Donne Sapienti ci hanno guidato. Della fierezza e gentilezza del popolo somalo. E infine ho trovato immorale e devastante l’esibizione dell’arrivo di Silvia data in pasto all’opinione pubblica senza alcun pudore o filtro. In Italia nessun politico al tempo del terrorismo avrebbe agito in tal modo nei confronti degli ostaggi liberati dalle Br o da altre sigle del terrore. Ti abbraccio fortissimo cara Silvia, il mio cuore e la mia cultura sono a tua disposizione...Soo dhowaw, gadadheyda macaan.
Silvia Romano, padre Albanese sulla conversione: “Non mi convince”. Jacopo Bongini l'11/05/2020 su Notizie.it. Parlando del difficile contesto somalo, il missionario comboniano padre Giulio Albanese non si dice convinto della conversione di Silvia Romano. Intervistato dal Corriere della Sera, il missionario comboniano padre Giulio Albanese esprime scetticismo in merito alla conversione all’islam di Silvia Romano, la volontaria milanese rientrata in Italia nella giornata del 10 maggio dopo 18 mesi trascorsi in Somalia come ostaggio delle milizie jihadiste di Al-Shabaab. Il sacerdote, giornalista e da anni impegnato nel continente africano, ha infatti spiegato che quello dell’estremismo islamico è un ambiente che può mettere a dura prova la salute mentale di qualunque vittima di rapimento.
Silvia Romano, il parere di padre Albanese. Sulle pagine del Corriere, il missionario cerca di inquadrare la vicenda di Silvia Romano nel difficile contesto dello jihadismo in Africa, dicendosi però non convinto della reale consapevolezza nella conversione della ragazza: “Bisogna capire che cos’è successo. L’Islam fanatico ti spinge a uno scambio: la tua conversione in cambio della tua vita. Ne ho conosciuti tanti, di ‘convertiti’. Ho scritto anche un libro sui bambini costretti a combattere, sul lavaggio del cervello che subiscono. Ho visto il sorriso di Silvia, all’aeroporto di Ciampino. Ma quel sorriso non mi dice nulla. Non mi convince. C’è sotto qualcosa di molto più complesso. Io una volta sono stato sequestrato solo pochi giorni, e mi sono bastati per capire come si esca con le ossa rotte, da quelle esperienze”. Nell’intervista, padre Giulio Albanese rammenta inoltre come molti di quelli che stanno commentando la storia di Silvia Romano in queste ore non sappiano nulla della storia della Somalia negli ultimi trent’anni; un paese che dopo la caduta del dittatore Siad Barré nel 1991 è precipitato in una guerra civile che dura ancora oggi: “Ci si dovrebbe rendere conto di che cosa significhi finire nelle mani di Al Shabaab. È l’equivalente di Boko Haram in Nigeria. Gente che te ne fa di cotte e di crude […] Non sappiamo quali siano le condizioni spirituali e mentali di una giovane che sopravvive a un anno e mezzo con gente che ti può far fuori. Non sappiamo quanto sia stata libera. Leggo che si parla di sindrome di Stoccolma. Ma è prematuro. Chi spara giudizi con tanta leggerezza, non sa che cosa sia vivere in Somalia. Un Paese che dal 1991 è in uno stato spaventoso”. In conclusione, il sacerdote esprime il suo parere in merito alle decine di ragazzi e ragazze che ogni anno partono per l’Africa in progetti di volontariato: “Preferiamo i giovani pieni d’alcol e di droga che si schiantano in macchina il sabato sera o questi ragazzi che fanno una scelta di volontariato? So anch’io che le Ong andrebbero meglio in una rete di network, che ci vuole senso di responsabilità, forse questa ragazza non doveva stare sola nella savana, che molto va rivisto… Ma serve moderazione”.
Silvia convertita all'islam, Bux: "Il vero cristiano non teme il martirio". La conversione di Silvia Romano all'islam fa discutere. Per Monsignor Nicola Bux il "vero cristiano non teme il martirio per Gesù Cristo". Francesco Boezi, Martedì 12/05/2020 su Il Giornale. Silvia Romano si è convertita all'islam. La questione suscita almeno una domanda. Mentre buona parte dei commentatori si interrogano sulla vicenda in sé, noi abbiamo chiesto un parere a Monsignor Nicola Bux, già collaboratore di Benedetto XVI. Bux è convinto che i cristiani non debbano temere la persecuzione. E che anche le conversioni possano avere delle attenuanti in caso di mancata consapevolezza del soggetto che intraprende un percorso di quel tipo. Ma per il monsignore l'Europa sta correndo dei rischi, che non dovremmo evitare di tenere a mente.
Mons. Bux, possibile che Silvia Romano sia stata convertita o magari sia stata manipolata dagli islamici?
«La giovane sostiene che la sua adesione all'islam sia stata una scelta spontanea...Il Concilio ricorda che la libertà religiosa riguarda l'immunità dalla coercizione nella società civile. Ma anche che ciò lascia intatta la dottrina cattolica sul dovere morale dei singoli e delle società verso la vera religione e l'unica chiesa di Cristo. Una persona cosciente del suo battesimo conosce tutto questo».
Le risulta normale che una persona finita nelle mani di estremisti islamici finisca per convertirsi?
«Dipende dal soggetto. Un cattolico dalla coscienza ben formata sa qual'è la vera religione e, di conseguenza, che il suo abbandono, cioè l'apostasia è uno dei peccati più gravi. Si badi che l'islam punisce l'apostasia con la morte. Pertanto, il vero cristiano non teme il martirio per Gesù Cristo. Se invece la coscienza non fosse ben formata o facesse ciò per ignoranza, esiste l'attenuante davanti a Dio».
Quale messaggio per l'identità europea arriva dalla storia di Silvia Romano?
«Ricordo un documentario prodotto dalla Rai dieci anni fa. L'indimenticabile Luca De Mata lo intitolò Dio: pace o dominio, perché dal reportage in giro per l'Europa aveva ricavato che l'islam stesse avanzando scaltramente, presentandosi come religione di pace, in realtà puntando al dominio del continente. Celebre l'avvertimento dell'allora vescovo di Izmir (Smirne, ndr) agli europei: i promotori islamici dell'immigrazione in Europa pensano: con le vostre leggi vi invaderemo, con la sharia vi sottometteremo. Che vi cooperino gli europei, è masochismo. La Rai dovrebbe riproporre quel documentario in cinque puntate».
Teme per i cattolici in giro per il mondo?
«Dalle statistiche è noto che il cristianesimo cattolico è la religione più perseguitata al globo. Ma i cristiani non temono la persecuzione, perché è la condizione ordinaria del cristianesimo. Gesù Cristo ha detto: "Hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi". Perciò il cristianesimo vince sempre quando è sconfitto. Papa, cardinali, vescovi, sacerdoti e fedeli lo dovrebbero sapere a memoria, non solo, ma anche che alla fine solo la croce di Cristo vince. Lo ricorda Giovanni Paolo II nell'enciclica missionaria Redemptoris missio».
Quindi?
«Quindi, i programmi di neo-umanesimo, di fratellanza universale, di dialogo interreligioso senza Cristo, sono destinati al fallimento. Meglio farebbero le chiese europee a spendere tutte le forze, anche finanziarie, anzi la loro vita, nell'unico compito che Cristo ha affidato loro: far conoscere il vangelo a tutte le genti e chiamarle a conversione. Solo l'estensione della fede cattolica può compattare il globo secondo i tempi di Dio. Questo passerà attraverso la persecuzione, la croce, la vera "teologia della liberazione"».
Esistono fenomeni di proselitismo studiati ad hoc? Magari adatti pure per gli europei che fanno cooperazione all'estero?
«Circa vent'anni fa, ho conosciuto ad Amman dei giovani sauditi che ogni tre mesi, muniti di visto, uscivano dall'Arabia per venire a catechizzarsi per diventare cristiani. Mi mostrarono il materiale propagandistico stampato in arabo, che dal loro paese veniva inviato fino a Londra, documentando il piano di dominio islamico in Europa. Per attuarlo è necessaria l'immigrazione ma anche il proselitismo tra gli europei, specialmente delle Ong, in cui l'identità cristiana o è inesistente o è annacquata. Oggi sappiamo che Londra è in gran parte musulmana, complice anche la pressoché totale sparizione degli anglicani. Ma c'è una pattuglia di cattolici che resiste e vincerà, a costo del martirio».
Silvia ha scelto di chiamarsi Aisha, come una delle mogli di Maometto...
«Chissà se prima di cambiar nome e credo, sapeva che santa Silvia è la madre di san Gregorio Magno. E chissà se conosce quanto conclude uno studioso di prima grandezza, dell'islam e della tradizione araba cristiana, della cui amicizia mi onoro, il gesuita egiziano Samir Khalil Samir - citando il Corano al versetto 228 della sura della Vacca e al 34 di quella delle Donne: "Mentre nella concezione cristiana l'uomo e la donna sono messi su un piano di sostanziale parità, in quella musulmana si stabilisce una differenza a livello ontologico, come affermano ancora oggi gli autori musulmani, che presentano il ruolo della donna nell'Islam spiegando che essa, essendo per sua natura più debole fisicamente, più fragile psichicamente e più emotiva che razionale, è inferiore all'uomo e deve sottostare a lui"».
Silvia Romano cambia nome dopo la conversione: “Ora mi chiamo Aisha”. Antonino Paviglianiti l'11/05/2020 su Notizie.it. Dopo la conversione, Silvia Romano annuncia di avere anche un nuovo nome: la cooperante italiana adesso si fa chiamare Aisha. Silvia Romano ora è Aisha. Nel lungo interrogatorio con i Pm di Roma, nella giornata di domenica 10 maggio ha annunciato di avere un nuovo nome. La giovane cooperante – rimasta prigioniera in Somalia per ben 18 mesi – ha raccontato di come è avvenuta la sua conversione alla religione islamica e, di conseguenza, quale sia adesso il suo nuovo nome. Silvia Romano agli inquirenti ha raccontato: “Mi hanno detto che non mi avrebbero fatto del male, che mi avrebbero trattata bene. Ho chiesto di avere un quaderno, sapevo che mi avrebbe aiutata. Non sono stata costretta a fare nulla. Mi davano da mangiare e quando entravano nella stanza i sequestratori avevano sempre il viso coperto. Parlavano in una lingua che non conosco, credo in dialetto. A uno di loro ho chiesto di leggere qualcosa, ho chiesto il Corano”. Ed è da qui che inizia il suo processo di conversione all’Islam. Durante la prigionia, infatti, Silvia Romano ha raccontato di aver letto attentamente le sacre scritture della religione islamica e di aver deciso, di sua spontanea volontà e senza alcuna violenza da parte dei suoi aguzzini: “Sono sempre stata chiusa nelle stanze. Leggevo e scrivevo. Ero certamente nei villaggi, più volte al giorno sentivo il muezzin che richiamava i fedeli per la preghiera”. E alla psicologa presente all’interrogatorio ha confidato: “Adesso il mio nuovo nome è Aisha“. Ma qual è il significato di questo nuovo nome di Silvia Romano? Questo nome islamico significa: “Madre dei credenti”. E secondo la tradizione della religione islamica, Aisha è stata la sposa di Maometto: i due, secondo i racconti religiosi, convolarono a nozze quando la ragazza aveva poco più di 6 anni.
Viviana Mazza per corriere.it l'11 maggio 2020. A’isha è un nome arabo, significa «viva»: lo ha scelto Silvia Romano. Si chiamava così la compagna più intima e amata di Maometto, dopo la morte della prima moglie Khadija, ed è per questo un nome popolarissimo tra i musulmani di tutto il mondo. A’isha bint Abi Bakr era la figlia di Abu Bakr, uno dei capi più influenti della prima comunità musulmana, che divenne uno dei compagni del Profeta e poi, dopo la sua morte, il primo califfo dell’Islam. L’età del fidanzamento e delle nozze è tuttora oggetto di dibattito tra gli studiosi: secondo alcuni fu promessa in sposa al Profeta a sei anni, secondo altri a nove anni, e non è chiaro se il rapporto sia stato consumato quando raggiunse la pubertà.
L’influenza di Aisha. A’isha era una donna estremamente influente: quasi un sesto di tutti gli hadith «attendibili» (non solo sulla vita privata di Maometto, ma anche su questioni che vanno dall’eredità al pellegrinaggio) possono essere ricondotti a lei. Fungeva da leader politica, accompagnava a dorso di cammello il marito, che andasse in battaglia o a negoziare un trattato. ‘A’isha, come attestano tutte le tradizioni, era l’unica persona che poteva permettersi di rispondere a tono a Maometto. È tra le sue braccia che il Profeta dell’Islam è morto.
Sunniti e sciiti. L’antagonismo tra le fazioni di A’isha e ‘Ali, cugino e genero del Profeta, segnerà poi le divisioni tra sunniti e sciiti e la renderà un personaggio odiato da questi ultimi, al punto che ai nostri giorni hanno preso il suo nome anche brigate anti-sciite che hanno rivendicato attacchi contro l’Hebzollah. Gli ultimi vent’anni della sua vita, fino alla morte a 62 anni, trascorsero a Medina, lontano dalla politica, e si riconciliò con Ali. Oggi A’isha viene spesso citata da fronti opposti: da chi si richiama a lei per difendere la pratica delle spose bambine, ma era anche per esempio diventata simbolo delle femministe saudite che rivendicavano il diritto a condurre l’auto ricordando che lei «guidava» il cammello.
Silvia Romano adesso si chiama "Aisha" Ecco cosa significa per l'islam. La scelta del nome "Aisha" ha un significato profondo nel mondo islamico. Chi era la "madre dei credenti". Ignazio Stagno, Lunedì 11/05/2020 su Il Giornale. Silvia Romano ora è un’islamica. Il suo percorso di conversione, come lei stessa ha raccontato, non è avvenuto sotto costrizione. A metà della sua prigionia ha chiesto un Corano e da lì avrebbe iniziato un percorso di fede che l’ha portata a credere in Allah e nel suo profeta, Maometto. Ma dalle pieghe del suo racconto emerge anche un altro aspetto. Dopo la conversione, la Romano avrebbe anche cambiato nome. Non è più Silvia, adesso si chiama “Aisha”. Sarebbe questo il nome islamico che la ragazza ha scelto durante la sua prigionia e che ha rivendicato una volta tornata a casa, nel suo Paese. Ma perché ha scelto proprio il nome Aisha? Cosa significa nell’islam? Il nome è un omaggio ad Aisha bint Abi Bakr, figlia di Abu Bakr, primo califfo dell’islam. Ma Aisha è stata anche la più importante delle spose di Maometto. Secondo quanto riportato dal testo islamico, Aisha sposò Maometto per superare il lutto della amata moglie Khadija nel 619. Aisha quando venne promessa in sposa a Maometto aveva solo sei anni e a quanto pare era la figlia di uno dei migliori amici del profeta. A far scattare il matrimonio sarebbe stata la visione dell’Arcangelo Gabriele che avrebbe dato l’ordine a Mamometto di sposare Aisha. Il matrimonio tra il profeta e Aisha sarebbe stato consumato quando la sposa aveva nove-dieci anni. Mamometto al momento delle nozze aveva 50 anni. Secondo alcuni studiosi dell’islam però l’età di Aisha al momento delle nozze si attesterebbe in una fascia che va dai 14 ai 24 anni e una parte degli studi colloca l’età di Aisha al momento delle nozze a 19 anni. Aisha divenne, secondo i testi dell’islam, la favorita di Maometto. Il legame tra Maometto e Aisha proseguì anche dopo la morte del profeta. Infatti secondo la tradizione, Maometto venne sepolto al momento della sua morte (a 62 anni) nella “camera di Aisha”, all’interno della sua stanza. Lì sarebbe stata tratta la Moschea del Profeta. Al momento della morte di Aisha venne posto un sacello vicino al marito. Ma a quanto pare era vuoto. Il corpo della donna, morta a 62 anni, sarebbe stato collocato nel cimitero medinese di Al Baqi al-Ghrarqad. In arabo il nome di Aisha significa “Madre dei credenti”. E dopo la morte di Maometto, la donna divenne un punto di riferimento importante per tutto il mondo islamico. Quanto appreso da Maometto lo confidò al nipote Urwa ibn al-Zubayr. Insomma la scelta di Silvia Romano di farsi chiamare Aisha ha di certo un significato profondo che di fatto spiega anche il percorso di conversione affrontato durante la prigionia in Somalia.
NOBILE: SILVIA ROMANO, CONVERSIONE (?) SU LAVAGNA VUOTA…Pubblicato da Marco Tosatti l'11 Maggio 2020. Marco Tosatti. Carissimi Stilumcuriali, a tamburo battente -questa notte – Agostino Nobile ci ha scritto un commento molto interessante, provocatorio e documentato sulla storia di Silvia Romano, la cooperante riscattata a suon di milioni dal governo italiano dopo molti mesi di prigionia presso un gruppo di terroristi islamici, Al Shabaab, responsabili di una lunga serie di crimini efferati in nome dell’islam. Buona lettura.
La conversione all’islam di Silvia Romano. Sindrome di Stoccolma o ignoranza? A Stoccolma, nell’agosto del 1973, due rapinatori tennero in ostaggio per 131 ore quattro impiegati nella camera di sicurezza della Sveriges Kreditbank. Una delle vittime sviluppò un forte legame sentimentale con uno dei rapitori, che durò anche dopo l’antefatto. Nonostante durante il sequestro la loro vita fosse stata continuamente in pericolo, al processo la ragazza e alcuni degli ostaggi testimoniarono in favore dei sequestratori. In seguito alla vicenda l’agente speciale dell’FBI Conrad Hassel, utilizzò per la prima volta il termine sindrome di Stoccolma. Ma, come sappiamo, fatti analoghi non mancano nella cronaca, nella letteratura e nella storia. Gran parte degli strizza cervelli sono convinti che questo atteggiamento non faccia parte di quello che possiamo definire ordinaria follia, ma di meccanismi mentali guidati dall’istinto di sopravvivenza. Ciò accade perché la vittima sente la propria vita nelle mani di un possibile carnefice. Così, cercando di evitare la morte e nella speranza che l’aguzzino possa impietosirsi, sviluppa un meccanismo psicologico di totale attaccamento verso di lui. È forse il caso di Silvia Romano, la cooperante rapita in Kenya nel novembre 2018 e rilasciata lo scorso 9 di maggio in Somalia? I quotidiani riportano un suo commento che, oggettivamente, lascia alquanto perplessi: «È vero, mi sono convertita all’Islam. Ma è stata una mia libera scelta, non c’è stata nessuna costrizione da parte dei rapitori, che mi hanno trattato sempre con umanità. Non è vero, invece, che sono stata costretta a sposarmi, non ho avuto costrizioni fisiche, né violenze.» Dando un’occhiata al sito Africa Milele, la Onlus per la quale lavora la giovane Romano, si legge: “Significa soprattutto rispettare e valorizzare le diversità insite in ogni tradizione ed in ogni essere umano, per conferire a qualsiasi forma di vita la dignità e la posizione che merita all’interno della propria esistenza. Per attuare tutto ciò il nostro operato seguirà sempre valori quali Rispetto, Libertà ed Uguaglianza, per avere, appunto, la Possibilità di vivere concretamente in un mondo moralmente accettabile.” Parole che non fanno dubitare sul radicale laicismo dell’Organizzazione Non Lucrativa di Utilità Sociale (solo gli ingenui credono che le Onlus siano non lucrative). A questo punto la conversione di Silvia non crea nessuna meraviglia. L’amico Piero Gheddo diceva che su una lavagna vuota chiunque può scriverci quello che vuole. Fosse anche un aguzzino, aggiungo. Infatti le coscienze di milioni di giovani rappresentano lavagne vuote, non solo per l’aspetto religioso. Dagli anni Sessanta la scuola, i media e la Chiesa sono diventate cose che appartengono alla santa Moda. Una lavagna nera. Tornando alla giovane Silvia, pare ovvio che della dottrina cristiana e islamica sa poco o niente. Se poi, come sembra aver affermato, lei stessa ha chiesto di leggere il Corano, ci chiediamo: era un testo in italiano o in inglese? Una traduzione addolcita per gli occidentali o quella originale? Forse le hanno detto che dev’essere interpretato? O forse le hanno raccontato le malefatte degli occidentali, nascondendo quelle musulmane protratte per mille e quattrocento anni. O forse è costretta a presentarsi come musulmana per salvare qualcuno che si trova ancora nelle mani degli islamisti? Al momento non lo sappiamo. Siamo tuttavia sicuri che la conversione di Silvia ha galvanizzato milioni di musulmani e stimolato molti giovani occidentali senza arte né parte a farci un pensierino. Non solo. Dato che i soldi per il riscatto vengono dalle tasche dei contribuenti, la ragazza ha dato simbolicamente un calcio in faccia ai cristiani, dimostrando fiducia ai rapitori musulmani (che hanno eseguito alla lettera il Corano) e non a chi gli ha salvato la vita. A questo punto permettetemi di riportare alcuni versetti del Corano relativi alla donna.
Sura LXXVIII: 31-34: Ma per gli osservanti [in paradiso] ci sarà il successo! Parchi e vigne, vergini dal seno turgido, coetanee, e calici ricolmi. [E per le donne? Boh!]
Sura IV:15: Se ci sono femmine vostre che si rendono colpevoli di scandalo, cercate fra voi quattro testimoni contro esse. Se in realtà la loro testimonianza è vera, tappatele in casa, nei recessi segreti, fino a che morte non sopravvenga, o che il Dio porga loro una via di uscita.
Maschietti misogini, non montatevi la testa, ce n’è anche per voi.
Sura IV:16: Se si tratta di due maschi, sotto con la tortura!
Sura LXVI: 5: S’egli vi darà il libello del ripudio [secondo la sharia il marito può ripudiare la moglie quando e come vuole privandola di tutti i diritti] è molto probabile che il Signore lo faccia innamorare di altre donne, certamente migliori di voi. Saranno musulmane, piene di fede, devote, col cuore pentito.
Sura IV:11: Riguardo ai vostri figli Iddio vi raccomanda di lasciare al maschio la parte di due femmine: se i figli sono solo femmine e più di due, loro spettano i due terzi dell’eredità.
Oltre a 15 spose, il Profeta ebbe a una ventina di concubine. Dopo la morte della prima moglie Khadigia, ricca commerciante con più anni di Maometto, sposò la piccola A’isha. Lo storico e devoto Salhi Muslim, nel Libro 8 numero 3310, a tal proposito scrive: “A’isha (che Allah sia compiaciuto di lei) ha riportato: l’Apostolo di Allah (che la pace sia su di lui) mi ha sposata quando avevo sei anni, e sono stata ammessa in casa sua quando ne avevo nove”.
Sahid Bukhari, Volume 7, Libro 62, Numero 88: “Narrato da ‘Ursa: Il Profeta scrisse (il contratto di matrimonio) con A’isha quando lei aveva sei anni e consumò il suo matrimonio con lei quando ne aveva nove e lei rimase con lui per nove anni (fino alla morte del Profeta)”.
Beh, dirà qualcuno, nell’AT troviamo fatti analoghi. Ma se in Israele non troviamo ombra (grazie anche ai cristiani) delle usanze tribali dei loro antenati, nei paesi musulmani le cose vanno diversamente. Per gli esegeti del Corano il testo sacro non può essere interpretato ma accolto alla lettera, e il Profeta rappresenta il modello di vita da seguire. Capita così che oggi, secondo l’Unicef, nel mondo musulmano le spose bambine sono oltre 60milioni. Ma di questo parleremo in un prossimo articolo. Agostino Nobile
I matrimoni della Sharia non sono validi per la legge britannica. Così hanno deciso i Tribunali del Regno Unito. Carlo Franza il 10 maggio 2020 su Il Giornale. La Corte d’Appello, il secondo tribunale più alto nel sistema giuridico di Inghilterra e Galles, dopo la Corte Suprema, ha stabilito che il contratto di matrimonio, noto come nikah in arabo, non è valido ai sensi della legge britannica, e quindi i matrimoni della Sharia non sono validi per la legge britannica. E’ una notizia storica, importantissima, per tutti i paesi d’Europa che possono guardare ora all’Inghilterra come un faro da seguire. E dunque questa storica sentenza ha implicazioni di vasta portata, perchè se da un lato, la decisione compromette i tentativi di sancire questo aspetto della legge della Sharia nel sistema giudiziario britannico, dall’altro lato, nega a migliaia di potenziali donne musulmane in Gran Bretagna la possibilità di ricorrere alle vie legali in caso di divorzio. Un esempio pratico da cui è partita l’attuazione si è avuta in occasione di quanto verrò narrando. Partiamo dal caso oggettivo di una coppia separata, tali Nasreen Akhter e Mohammed Shabaz Khan, entrambi di origini pakistane, che avevano contratto un nikah con una cerimonia officiata da un imam di fronte a 150 invitati, in un ristorante di Londra, nel dicembre del 1998. Nel novembre del 2016, la signora Nasreen Akhter avvocato 48enne, aveva chiesto il divorzio, presumibilmente perché Mohammed Shabaz Khan voleva prendere una seconda moglie.L’uomo un agente immobiliare di 48 anni, ha cercato di bloccare l’istanza di divorzio sostenendo che non erano legalmente sposati ai sensi della legge britannica. Khan ha dichiarato che erano marito e moglie solo “secondo la legge della Sharia” ed è ricorso in giudizio per impedire alla Akhter di pretendere da lui denaro o proprietà, come un coniuge legalmente sposato ha diritto di fare. La donna ha riferito che lei e Khan, che hanno quattro figli, intendevano far seguire alla cerimonia del nikah un’altra cerimonia civile che sarebbe stata conforme alla legge britannica, ma ciò non è mai avvenuto e c’è mai stata nessuna cerimonia civile perché, secondo l’ avvocatessa Akhter, il signor Khan si è rifiutato di procedere in tal senso.Il 31 luglio 2018, la Family Division dell’Alta Corte asseriva che il nikah rientrava nell’ambito del Matrimonial Causes Act 1973, che stabilisce tre categorie di matrimonio: valido, nullo e inesistente. I matrimoni validi possono essere sciolti con un decreto di divorzio; i matrimoni nulli con un decreto di nullità e quelli inesistenti non possono essere sciolti perché il matrimonio non è mai esistito a livello legale. Il giudice ha difatti stabilito che il matrimonio celebrato tra le parti doveva qualificarsi come “nullo”, in quanto “celebrato in violazione di alcuni requisiti riguardanti la formazione del matrimonio”; e che quindi la ricorrente aveva diritto a un “decreto di nullità del matrimonio”. Il procuratore generale, a nome del governo britannico, ha presentato appello sul presupposto che era sbagliato riconoscere il matrimonio come “nullo” anziché come “inesistente”. E veniamo alla storica sentenza, perché il 14 febbraio 2020, la Corte d’Appello con sede a Londra ha annullato la decisione dell’Alta Corte e ha stabilito che i nikah sono matrimoni “inesistenti” nell’ambito della legge britannica. Nella sua sentenza, l’Alta Corte così dichiarava :”La Corte d’Appello ritiene che la cerimonia di nikah celebrata nel dicembre del 1998 non ha creato un matrimonio nullo perché non era una cerimonia valida. Le parti non hanno contratto matrimonio, secondo le disposizioni della legge britannica (Parte II del Marriage Act 1949). La cerimonia non è stata officiata in una struttura abilitata. Peraltro, non è stata data alcuna comunicazione al sovrintendente ufficiale di stato civile, non sono stati rilasciati dei certificati e non era presente alla cerimonia nessun ufficiale di stato civile o persona autorizzata. Inoltre, le parti sapevano che la cerimonia non aveva alcun valore legale e che avrebbero dovuto celebrare un’altra cerimonia che fosse conforme ai pertinenti requisiti per essere validamente sposati. Secondo la Corte, la determinazione del fatto che un matrimonio sia nullo o meno dipende da futuri eventi, come l’intenzione di officiare un’altra cerimonia o se ci sono figli. Non è giustificato considerare la cerimonia civile, che le parti intendevano celebrare, come di fatto avvenuta, quando non è stato così. Questo può avere come conseguenza che una coppia risulti sposata anche se a un certo punto cambia idea durante il processo di formalizzazione del matrimonio. Ciò sarebbe in contraddizione con l’abolizione del diritto di proporre azioni per la violazione di una promessa di matrimonio come definito dalla section 1 del Law Reform (Miscellaneous Provisions) Act 1970. Le intenzioni delle parti non possono trasformare quella che altrimenti sarebbe una cerimonia non valida in una che rientra nell’ambito di applicazione del Marriage Act 1949“. Nel gennaio del 2019, il Consiglio d’Europa, la principale organizzazione di difesa dei diritti umani del continente, ha manifestato grande preoccupazione in merito al ruolo delle corti della Sharia nell’ambito del diritto familiare, ereditario e commerciale britannico. E così ha chiesto al governo di eliminare gli ostacoli che impediscono alle donne musulmane di accedere alla giustizia; eccone il testo: “Sebbene non siano considerati parte del sistema giuridico britannico, i consigli della Sharia cercano di fornire una forma alternativa di risoluzione delle dispute, per cui i membri della comunità musulmana, a volte volontariamente, spesso sotto una fortissima pressione sociale, accettano la loro giurisdizione religiosa principalmente in questioni coniugali e nelle procedure di divorzio islamiche, ma anche in questioni legate alle eredità e ai contratti commerciali islamici. L’Assemblea è preoccupata del fatto che le regole dei consigli della Sharia discriminino chiaramente le donne in materia di divorzio e di successione”. Il Consiglio d’Europa ha inoltre stabilito come termine il prossimo giugno 2020 affinché il Regno Unito riferisca all’Assemblea in merito alle misure atte a rivedere il Marriage Act, il che renderebbe obbligatorio per le coppie musulmane contrarre un matrimonio con rito civile come attualmente previsto per le nozze cristiane ed ebraiche. Infine un portavoce del ministero dell’Interno ha così risposto alla risoluzione del Consiglio d’Europa: “La legge della Sharia non è parte integrante della legge in Inghilterra e nel Galles. Indipendentemente dal credo religioso, siamo tutti uguali davanti alla legge. Laddove esistono i consigli della Sharia, devono conformarsi alla legge. Vigono leggi per tutelare i diritti delle donne e prevenire le discriminazioni, e lavoreremo con le autorità competenti per garantire che tali leggi vengano pienamente ed effettivamente applicate”. Al momento, né il governo britannico né il Parlamento britannico hanno introdotto una legislazione che imponga ai musulmani di contrarre matrimoni civili prima o durante la cerimonia del nikah. La sentenza della Corte d’Appello, tuttavia, pone un freno all’ulteriore sconfinamento della legge della Sharia nel sistema giuridico britannico. Pertanto la decisione della Corte d’Appello con sede a Londra ribadisce con efficacia il principio che gli immigrati che si stabiliscono nel Regno Unito devono conformarsi alla legge britannica, e non il contrario. Ritengo infine che tale decisione sia stata indice della grande civiltà e democrazia che hanno gli inglesi, specie oggi che hanno finalmente messo in piedi la Brexit. Carlo Franza
Guido Bertolaso: “Silvia Romano? 18 mesi di prigionia non casuali”. Antonino Paviglianiti il 12/05/2020 su Notizie.it. Sulla durata del rapimento di Silvia Romano si è espresso anche Guido Bertolaso, che reputa i 18 mesi di prigionia non casuali. Sulla durata del rapimento di Silvia Romano si è espresso anche Guido Bertolaso. L’attuale Commissario straordinario di Regione Lombardia per la lotta al Coronavirus è stato ospite, lunedì 11 maggio, di Quarta Repubblica. Nel salotto di Nicola Porro l’argomento del giorno è stato il ritorno di Silvia Romano, la cooperante milanese tenuta ostaggio per 18 mesi. Per Bertolaso i principali responsabili di questa storia sono le Ong che mandano allo sbaraglio i ragazzi, in realtà difficili come quelle del Kenya o della Somalia: “I cooperanti italiani devono andare con organizzazioni serie e strutturate, che mai manderebbero ragazzi allo sbaraglio. Facciamo un’analisi seria su quelle organizzazioni che mandano questi ragazzi in situazioni a rischio”.
Guido Bertolaso: il pensiero su Silvia Romano. Per Guido Bertolaso, ex capo della Protezione Civile, chi ha rapito Silvia Romano (Al Shabaab) non va assolutamente assolto. Anche perché il suo pensiero è molto chiaro anche in merito alla conversione: “Non ci possono essere assoluzioni verso questi criminali, sono professionisti del terrorismo e non credo che sia stato casuale che abbiano tenuto questa povera ragazza per 18 mesi”. Per Bertolaso, infatti, un anno e mezzo è il tempo corretto per poter convincere una persona a convertirsi alla religione islamica. Ed è per questo che il rapimento di Silvia Romano è durato ben 18 mesi. “L’hanno convinta anche a cambiare nome. È tornata dalla sua famiglia e si chiama Aisha, non più Silvia” conclude un amareggiato Guido Bertolaso.
Alessandro Sallusti e Vittorio Sgarbi. Tra gli ospiti di Nicola Porro a Quarta Repubblica si contano anche Alessandro Sallusti, direttore de Il Giornale, e Vittorio Sgarbi, deputato e critico d’arte. Il primo ha evidenziato come: “Qui ai terroristi non gliene frega niente di nessuno, per la cultura italiana una vita umana non ha prezzo, bisognerebbe fare una legge che impedisca a persone di andare in posti a rischio“. E sul cambio nome, da Silvia ad Aisha, Sallusti sottolinea: “Mi ha colpito che non ha avuto una parola di critica per i suoi sequestratori”.
"Quali terroristi? L'hanno solo rieducata", le frasi shock degli islamici su Silvia Romano. Nella kasbah romana di Tor Pignattara nessuno crede che la conversione di Silvia Romano sia stata forzata e c'è persino che dà ragione agli al Shabaab: "Quali terroristi? Quella è gente che prega, i terroristi siete voi che lanciate le bombe sui bambini". Elena Barlozzari e Alessandra Benignetti, Martedì 12/05/2020 su Il Giornale. Ci sono tanti aspetti della storia di Silvia Romano ancora da chiarire, ma uno di quelli che sembra aver suscitato maggior interesse nell'opinione pubblica è il segreto della sua conversione. La scelta di abbracciare la stessa religione dei suoi carcerieri, di quelli che hanno fatto irruzione nella sua vita strappandola alla libertà e agli affetti per 18 mesi, è una cosa che sfugge all'umana comprensione. Non esistono spiegazioni razionali che ci mettano al sicuro da ciò che non riusciamo a decifrare. E così ognuno ricorre alla sua suggestione. Chi prega Allah se ne compiace e lo prende come un segno della sua grandezza. È il caso dei tanti utenti che in queste ore stanno commentando la notizia sui social arabi tirando in ballo la divina provvidenza: "Grazie ad Allah che le ha indicato la retta via dell'Islam". Qualcun altro, come riferisce Askanews, esulta per "l’impresa dei giovani mujaheddin". "Le strade del Signore sono infinite", ci dice un giovane studioso del Corano che incrociamo davanti alla moschea di via della Marranella, nel quartiere romano di Tor Pignattara, dove la concentrazione di musulmani è altissima. Impossibile, secondo il ragazzo, che la sua conversione sia stata forzata. "È stata una sua decisione, nell'Islam la conversione forzata - spiega - non esiste". E poi, aggiunge: "Se fosse stata costretta, perché quando è tornata in Italia non si è tolta il velo?". È la stessa versione che ci dà Omar, un medico libico sulla trentina che frequenta la moschea di via Capua. "La prova è stata il suo rientro in Italia, era velata e sorridente, credo che Allah le abbia toccato il cuore", spiega. "Secondo me - aggiunge - ha trovato qualcosa che forse le mancava". Il giovane non crede alla versione del rapimento né che il governo italiano abbia pagato un riscatto ai terroristi. "Non sono convinto, per ora le informazioni sono poche e non ci sono certezze, per come la vedo io la ragazza non sembrava particolarmente provata". In ogni caso, ci tiene a precisare, "se si fosse trattato davvero di un sequestro è chiaro che lo condannerei". Ma non tutti qui la pensano così. Nella kasbah romana c'è anche chi legittima i jihadisti somali di al Shabaab e si surriscalda quando ci sente chiamarli "terroristi". "Quali terroristi? Quella è gente che prega, i terroristi siete voi che lanciate le bombe sui bambini assieme agli americani", ci risponde piccato un musulmano sulla settantina. "Lei è andata lì per seminare discordia e invece ha ricevuto un'educazione e si è arricchita spiritualmente, adesso è libera e felice", continua. Capito come? Secondo il nostro interlocutore ci sarebbe pure da ringraziarli questi tagliagole per aver "educato" Silvia all'Islam facendola uscire dal "buio". "Non è stata una conversione - insiste - ma un ritorno alle origini, il battesimo e la cresima quelli sì che sono atti terroristici perché tutti noi nasciamo musulmani". Nel momento in cui Silvia ha sposato la fede coranica, ci assicura, "è diventata come una sorella, ed i mujaheddin morirebbero per lei". L'anziano non ha dubbi: "È stata trattata da signora, noi le donne le rispettiamo". Affermazioni forti da cui Siddique Nure Alam, presidente dell'associazione Dhuumcatu e punto di riferimento della comunità islamica di Tor Pignattara, che lo conosce come Batchu, prende le distanze. "La questione della conversione di Silvia è stata esasperata, si sono create delle tifoserie da stadio, io - spiega - sono contento che sia stata liberata, il resto sono affari suoi". "Non credo - aggiunge - che l'abbiano trattata male, sennò non si spiegherebbe il suo atteggiamento disteso". Il fatto che la cooperante si sia uniformata ai costumi religiosi dei suoi carcerieri, per Batchu, potrebbe essere dovuto anche al vuoto di valori della società occidentale. "Secondo me - conclude - questa ragazza ha sentito una mancanza di spiritualità, ci sono tanti cattolici che si definiscono tali ma non praticano, credo che venendo in contatto con una religione più forte abbia finito per esserne ispirata".
Silvia Romano, l'Imam di Milano: "Conversione spontanea? Impossibile, i rapitori non rappresentano l'Islam". Libero Quotidiano il 12 maggio 2020. Da quando ha messo piedi in Italia dopo 18 mesi di prigionia, Silvia Romano è al centro del dibattito pubblico per la conversione all’Islam che, a suo dire, è avvenuta di sua spontanea volontà. Una spiegazione che non convince affatto Mahmoud Asfa, presidente del consiglio direttivo della casa della cultura islamica di Milano e Imam. In Italia da 35 anni, appartiene alla moschea dello stesso quartiere della 25enne cooperante. Ma che cos’è che lo lascia perplesso nella vicenda di Silvia? “Alcune questioni. Innanzitutto - ha spiegato in un’intervista a La Stampa - mi chiedo come sia possibile considerare libera l’adesione a una religione mentre sei da mesi nelle mani di sequestratori tanto violenti come quelli di Al Shabaab. Poi, il fatto che abbia scelto di diventare musulmana dopo aver letto il Corano in italiano. Ricordiamo che tante traduzioni sono imprecise, sbagliate”. Secondo Mahmoud è un libro molto complesso, anche per chi è madrelingua arabo, ma non è tutto: “Sappiamo che Al Shabaab è uno dei più violenti gruppi terroristici, affiliato ad Al Qaeda. Non so che tipo di Islam le hanno proposto, visto che non rappresentano questa religione. Ragionando - ha concluso - non riesco a comprendere come una persona che è stata rapita possa poi abbracciare la religione dei suoi rapitori”.
Ma presto Silvia capirà che l'islam annulla la dignità. Io, convertito al cristianesimo, grazie a Ratzinger so cosa significa il sodalizio tra fede e ragione. Magdi Cristiano Allam, Mercoledì 13/05/2020 su Il Giornale. La mia conversione dall'islam al cristianesimo si è concretizzata quando c'è stato il concorso di tre fatti: la forza della persuasione insita nel contenuto dei Vangeli, il testo sacro del cristianesimo che racconta la vita di Gesù; il fascino del carisma di autentici testimoni di fede cristiana che hanno saputo coniugare in modo armonioso la verità che affermano, i valori in cui credono, le opere buone che compiono; la constatazione della negatività e dell'incompatibilità sul piano della ragione e della morale naturale dei contenuti dell'islam, che corrispondono a ciò che Allah prescrive nel Corano e a ciò che ha detto e ha fatto Maometto. Sin da bambino mi piaceva scrivere e leggere, e nel contesto della mia crescita in collegi cristiani cattolici, pur essendo nato musulmano, da genitori musulmani e in un Egitto a maggioranza islamica, i Vangeli erano la mia lettura preferita. Amavo le parabole di Gesù che, anche al di là della fede, sono delle perle di saggezza umana. Nutrivo ammirazione per gli insegnanti religiosi e laici, che ispirandosi all'esempio di Gesù, si prodigavano per fare il bene di noi bambini a prescindere dal fatto che fossimo cristiani, musulmani o ebrei, italiani, egiziani o di altra nazionalità. Solo a 56 anni, dopo essere stato il musulmano che più di altri si era impegnato per affermare in Italia un «islam moderato», di fronte a delle condanne e minacce di morte da parte di altri musulmani che ottemperano letteralmente e integralmente al Corano e a Maometto, mi sono arreso prendendo atto che i musulmani come persone possono essere moderati, se sono sostanzialmente laici, ma che l'islam come religione non è moderato. Fu così che, dopo aver deciso di liberarmi dall'islam, nella notte della Veglia Pasquale il 22 marzo 2008 ebbi il dono immenso di ricevere il battesimo, la cresima e l'eucarestia dalle mani del Papa Benedetto XVI, il Papa che più di altri ha incarnato il sodalizio armonioso di fede e ragione, che da musulmano ammirai quando il 12 settembre 2006 a Ratisbona disse la verità in libertà sull'islam, denunciando la violenza perpetrata da Maometto e sostenendo che se una fede è in contrasto con la ragione non è una vera fede. Confrontando la mia esperienza a quella di Silvia Romano, assumendo i tre parametri a cui ha fatto riferimento la mia conversione, quella di Silvia alias Aisha mi lascia perplesso. Per quanto concerne il Corano, il testo sacro dell'islam, che lei dice di aver richiesto e letto in una traduzione in italiano, non è credibile che possa averle ispirato una «conversione spontanea». Oltre ad essere un testo difficile da comprendere perché scritto in modo involuto con dei contenuti che si susseguono senza un filo logico e si ripetono in modo insensato, è indubbio che nel Corano Allah, che è un dio pagano preesistente all'islam, ordina l'odio, la violenza e la morte nei confronti dei miscredenti, che sono tutti i non musulmani. Per quanto concerne i suoi carcerieri, che lei esalta sostenendo che l'hanno trattata bene e che assumerebbero il ruolo dei testimoni che attesterebbero la bontà dell'islam, si tratta di terroristi islamici somali di Al-Shabab, responsabili di stragi efferate di cristiani e di musulmani che non si sottomettono al loro potere sanguinario. Infine, per quanto concerne l'abbandono della precedente fede, non so se prima di convertirsi all'islam Silvia alias Aisha fosse atea, agnostica o se avesse il dono della fede in Dio, così come non so se fosse cristiana solo formalmente o se praticava il culto in modo consapevole e convinto. Ma è indubbio che il cristianesimo è del tutto compatibile con la morale naturale, si fonda sull'amore del prossimo, contempla il sodalizio di fede e ragione. Così come è difficile immaginare che una giovane tra i 23 e i 25 anni possa liberamente rinnegare una civiltà laica, che garantisce la pari dignità tra uomo e donna, per abbracciare una religione maschilista e misogina che concepisce la donna come un essere antropologicamente inferiore che vale la metà dell'uomo. Lo stesso nome islamico scelto, Aisha, è quello della moglie-bambina prediletta di Maometto, che lui sposò nel 630 quando aveva 50 anni e lei appena 6 anni. Per l'insieme di queste ragioni non credo affatto che la conversione all'islam di Silvia Romano possa essere stata spontanea e libera.
Magdi Cristiano Allam. Redazione de Il Giornale Off il 14/05/2020. Magdi Cristiano Allam è stato uno dei primi a denunciare l’Islam radicale. Il rientro in Italia di Silvia Romano, secondo quelle modalità, sta dando dei segnali pericolosi. La Turchia sostiene l’islamismo radicale in Iraq, in Siria e, in Somalia, al Shabaab, il gruppo terrorista che ha rapito la giovane cooperante milanese. Preoccupa la sua conversione, che lei sostiene essere stata spontanea. Quando gli estremisti islamici prendono il potere, per prima cosa impongono il velo alle donne: non è affatto vero che il velo sia una libera scelta. Gli estremisti islamici, che hanno le mani grondanti il sangue sia dei cristiani che dei musulmani, non possono in alcun modo essere additati come testimoni di una adesione libera all’Islam: la lettura del Corano mostra che Allah ordina in modo esplicito la guerra contro i miscredenti, cioè i non musulmani. Aisha, che è il nuovo nome di Silvia Romano, è il nome della seconda moglie di Maometto, che lui sposò a 50 anni quando lei ne aveva 6. L’Eurabia è già una realtà. Oriana Fallaci fu testimone della tragedia epocale del crollo delle Torri Gemelle: la radice del male è l’Islam stesso. Quando noi non diciamo la verità in libertà vuol dire che stiamo morendo interiormente, rinunciando alla nostra dignità e alla nostra libertà. La donna nell’Islam. Negli ultimi della sua vita, Maometto entrò in moschea dalla parte posteriore, dalla parte delle donne. E disse loro: ho visto in sogno l’inferno e in gran parte è popolato dalle donne, perché la donna è manchevole sul piano dell’intelletto e della ragione. I versetti coranici dicono esplicitamente che la donna vale la metà dell’uomo e che l’uomo può avere fino a 4 mogli e che può ripudiare e picchiare le sue mogli. La donna nell’Islam è antropologicamente inferiore. Il Paradiso è un bordello per soli uomini. O il musulmano è totalmente laico o la conseguenza è la violenza verso la donna. Dove sono le femministe? Il ritorno in Italia di Silvia Romano si è tradotto in uno straordinario successo dei terroristi somali di al Shabaab, sia sul piano mediatico che sul piano finanziario che sul piano propagandistico. Questo ci fa capire che l'islam è uno solo: non ce n’è uno moderato e uno per i terroristi. I musulmani possono assumere posizioni diverse solo se hanno percentuali diverse di ragione e di cuore: l’Islam come religione, in Italia, è fuori legge, perché totalmente incompatibile con le leggi di questo Paese.
La scelta di diventare cristiano da musulmano. Condannato a morte da Hamas, Magdi Cristiano Allam vive da anni sotto scorta. L’incontro con Benedetto XVI a San Pietro: la capacità di coniugare fede e ragione. La fede senza ragione non è vera fede. Bergoglio: il relativismo religioso di Bergoglio mette sullo stesso piano il Cristianesimo e l’Islam. Ma l’Islam non predica nè l’amore nè la pace. Storicamente ha sempre cercato di sottomettere l’Europa con la violenza. Senza la Reconquista e senza Lepanto anche l’Europa avrebbe fatto la fine della sponda del Mediterraneo. Ma il nemico è dentro casa nostra: l’Islam non ottempera l’articolo 8 della nostra Costituzione. Ma lo Stato italiano si comporta come se l’Islam fosse una religione riconosciuta. Ci stiamo comportando come se fossimo già sottomessi all’Islam. Le lacrime del Ministro Bellanova ricordano le lacrime della Fornero. Ci si commuove assumendo degli atti contro gli Italiani. Gli italiani in Italia sono discriminati rispetto agli stranieri. Come disse Ratzinger, l’Occidente odia se stesso: recuperiamo l’amor proprio attraverso la rinascita culturale. Dovrebbe essere un fatto ovvio dire che l’Italia è la casa degli italiani, invece è quasi un reato. Dobbiamo reimparare l’abc della nostra cultura e della nostra umanità: se non vogliamo bene a noi stessi non ne vorremo nemmeno per il nostro prossimo e ci sottometteremo a lui. Dobbiamo riscattarci dal nuovo ordine mondiale attraverso un processo politico culturale che ridia voce alla nostra dignità: andiamo avanti forti di libertà con il coraggio della verità: ce la faremo.
LA SINDROME DI STOCCOLMA.
Sindrome di Stoccolma: cos’è e perché si chiama così. Redazione su Il Riformista l'11 Maggio 2020. La sindrome di Stoccolma è un particolare tipo di stato di dipendenza psicologico-affettiva che si verifica dopo aver subito degli episodi di violenza fisica, verbale o psicologica come nel caso di un sequestro o di abusi sessuali. Quando accade un clamoroso evento in cui le vittime sono tenute prigioniere o in ostaggio per un lungo periodo, spesso questo termine ritorna alla ribalta soprattutto se le reazioni di chi ha subito questo trattamento danno dei campanelli d’allarme. Infatti, chi è affetto dalla sindrome di Stoccolma prova un paradossale sentimento positivo nei confronti del proprio aggressore che può spingersi fino all’amore e alla totale sottomissione volontaria, instaurando così una sorta di alleanza e solidarietà tra vittima e carnefice. La serie tv spagnola La casa di carta può essere riportata come uno degli esempi più lampanti per spiegare questa sindrome. Una banda di rapinatori si introduce per diversi giorni nella Zecca Reale di Spagna, a Madrid, prendendo in ostaggio numerosi collaboratori della banca. Molti di loro hanno reazioni confuse e di rigetto, ma altri invece hanno reazioni totalmente opposte. Tra cui una dipendente della Zecca che finisce per innamorarsi e sposarsi con uno dei rapinatori diventando una di loro. Per quanto sia solo la storia raccontata in un telefilm, la sindrome di Stoccolma è in realtà più comune di quanto possiamo pensare.
LA STORIA – L’espressione sindrome di Stoccolma è stata coniata dall’agente dell’FBI Conrad Hassel in seguito ad un episodio avvenuto in Svezia nel 1973, quando quattro impiegati, di una banca di Stoccolma, tre donne e un uomo, vennero presi in ostaggio da due rapinatori. Il sequestro durò sei giorni, oltre 130 ore al termine dei quali grazie a gas lacrimogeni lanciati dalla polizia i malviventi si arresero e gli ostaggi vennero rilasciati senza che fosse eseguita alcuna azione di forza e senza subire nessun tipo di violenza. Infatti, fu proprio la reazione di questi ultimi a stupire: una volta rilasciati, espressero sentimenti di solidarietà verso i loro sequestratori arrivando a testimoniare in loro favore, e anzi dimostrandosi ostile nei confronti di chi li aveva salvati. Questo fu il primo caso in cui si intervenne a livello psicologico sullo stato degli ostaggi, cercando di capire la loro reazione e le loro motivazioni. In seguito, quando ci sono stati casi simili, secondo l’FBI, nel circa il 30 % dei casi gli ostaggi hanno sviluppato la sindrome di Stoccolma. Anche se si parla anche di sindrome a doppio senso, ovvero che non sono solo gli ostaggi ad essere “vittime” della sindrome, ma i rapitori stessi possono sviluppare un legame con loro. Oggi la sindrome di Stoccolma viene associata alla sindrome da stress post-traumatico e può durare anche parecchi anni, senza però che sia nota una durata specifica. Come la sindrome da stress post-traumatico anche questa può essere trattata con farmaci e psicoterapia. Gli ostaggi con la sindrome possono presentare tra i sintomi più comuni disturbi del sonno, incubi, fobie, trasalimenti improvvisi, flashback e depressione. I CASI – Una volta superato il trauma iniziale, la vittima per sopportare quella situazione estrema cerca di sopperire attraverso un isolamento e una “sottomissione” al suo carnefice. Nella storia si sono verificati molti casi, tra cui anche in Italia. Un esempio sono le due cooperanti della Ong Un ponte Simona Pari e Simona Torretta, che vennero rapite a Baghdad il 28 agosto del 2004. Nel loro caso la prigionia durò un mese, ma una volta libere annunciarono di voler tornare presto dove erano state rapite e ringraziarono i loro sequestratori. Anche nel caso della cooperante milanese Silvia Romano liberata l’8 maggio 2020, le sue dichiarazioni sulla conversione all’Islam hanno fatto discutere. Infatti la volontaria ha dichiarato di essersi convertita liberamente all‘Islam, sebbene sia stata ostaggio del gruppo jihadista estremista islamico al-Shabaab in Somalia. Le fonti investigative hanno subito pensato che questo possa derivare da “una situazione psicologica legata al contesto in cui la ragazza ha vissuto in questi 18 mesi, non necessariamente destinata a durare nel tempo“. Ma uno dei casi più famosi al mondo è sicuramente quello di Natascha Kampusch, la quale ha vissuto segregata col suo rapitore dal marzo 1998 al 23 agosto 2006, giorno in cui è scappata. Ha testimoniato di avere avuto più volte la possibilità di scappare, ma ha preferito restare col rapitore. Il motivo della fuga, infatti, non è stato un desiderio di libertà, ma un litigio col rapitore stesso. Agli investigatori e agli psicologi che si erano presi cura di lei aveva confessato che non si sentiva privata di niente e che era dispiaciuta della morte del carnefice, il quale si era suicidato quando lei è scappata. La ragazza, però, ha sempre negato di aver sofferto della sindrome di Stoccolma.
Estratto dell’articolo di Tahar Ben Jelloun per “la Repubblica” - Traduzione di Fabio Galimberti il 12 maggio 2020. La conversione all' islam di Silvia Romano pone diversi interrogativi. […] quali rapporti intrattenevano con lei i jihadisti somali del gruppo al-Shabaab, che l'hanno rapita il 20 novembre 2018 […] Che cosa è successo nello spirito di questa giovane operatrice umanitaria durante i 536 giorni della sua prigionia? Perché […] aderire a questo islam che rapisce, terrorizza e ti priva della libertà […]? Silvia Romano è comparsa in tenuta islamista, vale a dire la tenuta di un islam rigorista, integralista e antioccidentale. Il velo, l'ibaya (una sorte di djellaba lunga) sono dei simboli recenti di un islam duro, un islam protestatario e identitario. […] […] Silvia/Aisha è diventata un personaggio che confonde le piste. Convertirsi a una religione dopo una riflessione matura, con cognizione di causa, […] è una cosa assolutamente […] ammessa. Ma convertirsi dopo aver passato così tanti mesi sotto la pressione di mercenari che utilizzano l' islam come copertura per estorcere denaro a uno Stato, è una scelta che apre un dibattito. L' isolamento, il terrore, la paura di essere uccisi sono ingredienti che a volte perturbano la ragione e la libertà di spirito. […]
Estratto dell’articolo di Monica Serra per “la Stampa” il 12 maggio 2020. Chi «la Silvia» la conosce come una figlia dice che «tutto non va bene per niente». Che non sembra più lei. Che «è stata strumentalizzata anche politicamente», in un momento in cui l' Italia sconvolta dal coronavirus […] Lo zio Alberto Fumagalli spiegava: «[…] Non sappiamo bene neanche cosa abbia passato Silvia in questi mesi. Lei, una persona candida, pulita, pura. Non sembra più lei, le hanno fatto il lavaggio del cervello». […] Nel frattempo Silvia sarà seguita da un team di psicologi che l' aiuteranno a provare a tornare a una vita normale, mentre la prefettura per il momento esclude di sottoporla a una vera forma di protezione. Di sicuro ci sarà attenzione nei suoi confronti, con poliziotti e carabinieri che hanno l' indicazione di passare più spesso sotto casa della ragazza.
Estratto dell’articolo di Chiara Baldi per “la Stampa” il 12 maggio 2020. «Onestamente non capisco». Mahmoud Asfa è presidente del Consiglio direttivo della Casa della Cultura Islamica di Milano e Imam. In Italia da 35 anni, appartiene alla moschea di Padova 144, lo stesso quartiere di Silvia Romano. La notizia della sua liberazione l' ha riempito di gioia ma non nasconde dubbi sulla sua conversione.
Cosa la lascia perplesso?
«Alcune questioni. Innanzitutto, mi chiedo come sia possibile considerare libera l'adesione a una religione mentre sei da mesi nelle mani di sequestratori tanto violenti come quelli di Al Shabaab. Poi, il fatto che abbia scelto di diventare musulmana dopo aver letto il Corano in italiano. Ricordiamo che tante traduzioni sono imprecise, sbagliate In più, io stesso, che sono madrelingua arabo, spesso faccio fatica a comprendere cosa c' è scritto nel Testo Sacro».
In che senso?
«È un libro complesso. Anche conoscendo perfettamente l' arabo serve il supporto di altri testi per interpretarlo». […] […] Sappiamo che Al Shabaab è uno dei più violenti gruppi terroristici, affiliato ad Al Qaeda. Non so che tipo di Islam le hanno proposto, visto che non rappresentano questa religione. Ragionando, non riesco a comprendere come una persona che è stata rapita possa poi abbracciare la religione dei suoi rapitori. […]».
Storia di Patricia Hearst, la miliardaria rapita che divenne gangster e guerrigliera. David Romoli su Il Garantista il 13 Maggio 2020. Cosa avrebbero fatto i fucilatori del web in servizio permanente effettivo e i politici che sul rancore s’ingrassano se al posto di una ragazza tornata da un anno e mezzo di prigionia sbandierando una legittima conversione all’Islam come Silvia Romano – e si saprà solo col tempo se frutto di Sindrome di Stoccolma o del Corano – si fossero trovati alle prese con quello che a tutt’oggi resta il caso di scuola per ogni interrogativo sul margine tra coercizione e libera scelta nei casi di sequestro: il rapimento di Patricia Campbell Hearst, ereditiera, prigioniera e poi militante del gruppo armato di estrema sinistra Symbionese Liberation Army, (SLA) terrorista latitante, imputata che rivendicava la propria innocenza in nome del cervello lavato dai simbionesi. Patty fu rapita il 4 febbraio 1974 dalla casa di Berkeley dove viveva con il boyfriend di allora. Aveva 19 anni ed era nipote del multimiliardario William Randolph Hearst, proprietario nel ‘900 della più estesa potenza mediatica del mondo, aspirante candidato su posizioni populiste “di sinistra” alla presidenza della Repubblica per il partito democratico contro Roosevelt, poi, dopo la rivoluzione Russa, paladino della caccia alle streghe rosse. Il modello del Citizen Kane di Orson Welles. I rapitori facevano parte di un gruppo armato fondato l’anno precedente da Donald DeFreeze un nero di 30 anni politicizzatosi nel penitenziario di Soledad, dove scontava una condanna per rapina e da dove era evaso nel ‘73. Il nome voleva evocare la “simbiosi”: tra bianchi e neri, uomini e donne, vecchi e giovani. De Freeze si era ribattezzato “maresciallo Cinque” in omaggio al capo degli schiavi neri ribellatisi sulla nave Amistad ai primi dell’ottocento. Era in realtà l’unico nero del gruppo della SLA. Tre mesi prima del sequestro Hearst i simbionesi avevano ucciso Marcus Foster, il primo preside nero di una scuola di Oakland, accusato di voler introdurre nella sua scuola strumenti per identificare gli studenti in funzione repressiva. Il rapimento di Patty Hearst doveva servire proprio a ottenere la liberazione dei due militanti arrestati per quell’omicidio. La trattativa non decollò neppure e i simbionesi ripiegarono sulla richiesta di distribuzione gratuita di cibo ai poveri della città. Il costo si aggirava, nella fase più esosa della trattativa, sui 400 mln di dollari. La famiglia accettò di distribuire cibo per 2 milioni, poi, in una seconda tranche, per altri 4 milioni. Patty non fu liberata. In compenso il 3 aprile arrivò una cassetta registrata in cui la sequestrata annunciava l’adesione al gruppo col nome di battaglia Tania. “Tania” fu ripresa dalle videocamere di sicurezza di una banca mentre, col mitra spianato, partecipava a una rapina. Qualche settimana dopo aprì il fuoco per proteggere altri due militanti del gruppo, i coniugi William e Emily Harris, che stavano per essere arrestati. I tre fuggirono e si rifugiarono in un motel. Il giorno seguente , guardando la Tv, assistettero alla diretta dell’assedio da parte della polizia alla base simbionese. Quel giorno il gruppo subì un colpo mortale. Furono uccisi sei militanti tra cui DeFreeze e il suo braccio destro Willie Wolfe. Entrambi avevano avuto relazioni e rapporti sessuali con l’ex miliardaria.
I simbionesi restarono attivi ancora un anno prima che Patty fosse arrestata, con gli Harris, il 18 settembre 1975. Si dichiarò prigioniera politica. Rifiutò per 42 volte di rispondere alle domande appellandosi al Quinto emendamento. Aveva perso decine di chili, era magrissima, il Quoziente di intelligenza, secondo i periti, era precipitato da 130 a 122, gli psichiatri la descrissero come “una zombie”. Al processo si difese impugnando il lavaggio del cervello. Disse di essere rimasta a lungo legata e con una benda sugli occhi, minacciata di morte, costretta a scegliere tra l’adesione alla SLA o l’uccisione, stuprata da vari militanti del gruppo. La difesa mostrò il video della rapina: si vedeva Emily Harris minacciarla con la pistola. Il caso, in America, tenne banco, divise l’opinione pubblica, occupò le prime pagine. A far pendere il piatto della bilancia dalla parte della condanna fu un ciondolo che l’ereditiera aveva conservato, regalo di Willie Wolfe. A segnalarne l’esistenza fu proprio la compagna detenuta Emily Harris, per dimostrare che non c’era stato stupro: chi conserverebbe gelosamente il regalo di uno stupratore? La giuria convenne. Patty Hearst fu condannata a 35 anni di carcere. A darle una mano, in un certo senso, fu il reverendo Jim Jones, quando convinse oltre 900 seguaci del suo Tempio del Polo, in Guyana, a suicidarsi con un’aranciata al veleno distribuita dallo stesso Jones, il 18 novembre 1978. L’opinione pubblica, che fino a quel momento era stata ostile alla Hearst, rovesciò la posizione. John Wayne in persona s’imbufalì con i duri: “Siete pronti ad accettare che una sola persona eserciti il lavaggio del cervello su 900 seguaci spingendoli a uccidersi e non ad accettare che possa succedere a una ragazzina rapita e tenuta prigioniera?”. Il presidente Carter concesse poco dopo la commutazione della pena. Patty Hearst uscì dopo 21 mesi di carcere, sia pure in condizioni di vigilanza ancora molto strette. Poi fu Reagan ad allentare la presa con l’indulto e infine Bill Clinton chiuse la vicenda con la grazia. Su Patricia Hearst sono stati scritti libri e fatti film ma una risposta certa su quanto la si possa considerare responsabile di quei quasi due anni di militanza armata ancora non c’è.
Azzurra Barbuto per “Libero quotidiano” il 13 maggio 2020. Durò 743 interminabili giorni, ossia oltre 2 anni, dal 18 gennaio 1988 al 30 gennaio del 1990, il sequestro di Cesare Casella, che costituisce uno dei più lunghi rapimenti a scopo di estorsione mai avvenuto in Italia, i cui mandanti non sono mai stati individuati. Cesare, allora diciottenne, mentre rincasava dopo una serata trascorsa con gli amici fu bloccato da un commando di uomini armati ed incappucciati, costretto a scendere dalla sua vettura e caricato su un' altra automobile, dove trascorse le due settimane seguenti chiuso in un box in compagnia di alcuni banditi. In seguito, fu trasferito a bordo di un camion negli impenetrabili boschi dell' Aspromonte, in cui passò il resto della sua prigionia sepolto, con caviglie e collo incatenati senza tregua, in un tana di 2-3 metri quadrati da cui intravedeva a stento le albe dorate, i tramonti rossi e le penombre turchine delle sere in montagna. In estate e in inverno. In un tempo dilatato all' infinito che è il tempo dei sequestrati. Per il rilascio di Casella fu pagato un riscatto di un miliardo di lire, tuttavia la banda lo cedette ad altri farabutti che rimisero in vendita il ragazzo come fosse nient' altro che una merce di scambio. Oggi Casella fa l' imprenditore e abita a Milano. Da poche settimane, con la nascita di Marcus, è diventato padre per la seconda volta. «Ho completato la famiglia. Ora la mia piccola Chloe, che ha compiuto 9 anni, ha un fratellino. Non potrei essere più felice», ci confida Cesare. I ricordi legati alla sua detenzione sono ormai lontani, da subito Casella ha voluto lasciarseli alle spalle per ricominciare a vivere una esistenza che gli è stata in parte rubata da perfetti sconosciuti. Tuttavia, i segni restano, poiché il sequestro di persona è «un atto bestiale, il reato più vile e più crudele che si possa commettere». Chi lo subisce è una sorta di reduce di guerra, un individuo che ha attraversato gli inferi, visto in faccia il male, tornando indietro ammaccato e salvo. Non si è più gli stessi dopo. Non si può più essere quelli di prima. «Sono contento per il rientro in Italia di Silvia Romano, ma sono estraneo alle polemiche sulla vicenda. Che si sia convertita sono fatti suoi. Del resto, quando ti confronti con la morte faccia a faccia, non puoi prevedere le tue reazioni. Silvia ha abbracciato la religione dei suoi sequestratori? Non possiamo giudicare la sua scelta, ci tocca soltanto comprenderla», osserva Cesare, il quale condanna la leggerezza con cui alcune associazioni inviano in teatri tanto rischiosi giovani senza esperienza, che probabilmente sottovalutano i pericoli a cui vanno incontro.
«SERVE TEMPO PER CAPIRE». A proposito della sindrome di Stoccolma, meccanismo dell' inconscio che induce i sequestrati a familiarizzare con i propri aguzzini nel tentativo di umanizzarli al fine di sedare panico e angoscia, Casella esclude di averla sviluppata, però ritiene che la mente di Silvia, mossa dall' istinto di sopravvivenza, abbia potuto ricalcare gli usi e sposare il credo dei suoi carcerieri per esorcizzare tutte quelle paure che braccano il rapito: paura di essere trucidato, di ammalarsi, di non rivedere mai più i suoi cari. «Tra un po' di tempo la fanciulla analizzerà la situazione che ha vissuto e valuterà la decisione della conversione. Solo in quella fase ella capirà se tale risoluzione è stata momentanea nonché dettata dal terrore di ciò che avrebbe potuto patire oppure autentica», spiega l' imprenditore, che aggiunge: «Certo, se non fosse stata sequestrata, sarebbe rientrata in patria con pantaloncini e rossetto. Però spetta a lei maturare la sua verità».
VITTIMA E CARNEFICE. Ha stupito un po' tutti il fatto che Silvia abbia narrato che i suoi rapitori, soggetti dalla elevata caratura criminale, l' abbiano «trattata con grande umanità». Domandiamo a Cesare quale tipo di rapporto si instauri tra detenuto e detentore, tra vittima e carnefice. Egli non appare affatto meravigliato dalla testimonianza di Romano. Insomma, pure per Casella un delinquente che ti tiene incatenato in una fossa scavata in maniera rudimentale nel terreno, tra topi e scarafaggi ed animali selvatici che nella notte fanno irruzione nel tuo lurido giaciglio, può essere capace di gesti di magnanimità. Ci sembra di capire che, allorché i sequestrati parlano di umanità a proposito dei loro rapitori, non intendano riferirsi a quel concetto dominante di umanitarismo che alberga nella testa della collettività. Per chi non ha riportato certi traumi, è umano chi perdona, chi aiuta il prossimo, chi fa la carità, chi si batte per gli ultimi, chi si dedica agli altri rinunciando a se stesso. Per il sequestrato, invece, il suo sequestratore è umano quando non lo uccide, quando gli garantisce da mangiare e da bere, quando non ne ignora i bisogni elementari. «I carcerieri con cui entravo in contatto, i quali non avevano ruolo di comando, mi dimostravano umanità nelle occasioni in cui, ad esempio, mi portavano il giornale, che per me valeva oro e rappresentava una specie di dono. Ogni cosa extra che mi veniva concessa si trasformava dal mio punto di vista in una dimostrazione di grande umanità», racconta Cesare. Ecco allora che può avvenire che oppressori ed oppresso giochino a carte insieme, ridano, discutano di calcio, proprio come è accaduto tra Casella ed i suoi rapitori. «Provavamo ad attutire l' assurdità di quella condizione con la normalità, se non addirittura la banalità, delle conversazioni», specifica l' imprenditore. «Avvertivo altresì un certo imbarazzo, una sorta di remora nel fare trapelare quella umanità, che restava in alcuni seppellita. Altri, invece, non ce l' avevano proprio. Rammento che qualcuno mi strappò le catenine d' oro, mi sentii deprivato di qualcosa di intimo che mi legava alla mia famiglia», continua Cesare. Ma come si supera una esperienza tanto drammatica? Il tempo lenisce ogni dolore, eppure non basta. Occorre il sostegno di familiari ed amici. «E soprattutto bisogna guardare avanti, sforzandosi di trarre qualcosa di positivo da quello che ci appare essere un furto di vita che nessuno potrà restituirci mai più. Adesso non ho più la sensazione che mi sia stato sottratto qualcosa. Mi considero arricchito da quello che ho vissuto, anzi persino privilegiato. Difronte a qualsiasi difficoltà, mi ripeto che non c' è ostacolo che non possa valicare. E cerco di trasmettere questa fiducia nelle proprie risorse anche a mia figlia», confessa Cesare. «A Silvia consiglio di scovare la maniera di volgere in bene ciò che di malvagio le è stato fatto. È il nostro modo di vincere. Sono ancora convinto che l' amore trionfi sul male. Ed è ciò che mi ha insegnato mia madre, che si recò in Calabria per sensibilizzare le altre donne sulla sorte di suo figlio di cui non aveva più notizie. Questa sua tenacia contribuì alla mia liberazione», conclude Casella.
Luca Fazzo per “il Giornale” il 12 maggio 2020. Non si sa quando, ma Silvia Romano tornerà tra noi. «Con questo non intendo dire che abiurerà la conversione all' Islam. Questa scelta, soprattutto se la ragazza inizierà a frequentare la comunità musulmana, potrà anche diventare permanente. Ad essere reversibile, fortunatamente, sarà l' atteggiamento mentale cui assistiamo in queste ore: la simpatia per i suoi sequestratori, per i suoi aguzzini. Questo è spiegabile solo come un frutto delle sofferenze mentali e fisiche cui è stata esposta, e, anche se a fatica, riuscirà a liberarsene». Guglielmo Gulotta, ordinario di psicologia forense, studia da sempre i meccanismi complessi che intercorrono tra vittima e colpevole, ancora di più tra sequestrato e carceriere. Fu tra i primi a leggere una lettera di Aldo Moro ostaggio delle Br. «La grafia era la sua, ma era chiaro che non era libero. La stessa cosa avviene oggi con Silvia. Non sta fingendo. Quando dice di essere stata trattata bene ne è davvero convinta. Ovviamente non è così, per mesi e mesi è stata in mano a uomini spietati che decidevano al posto suo quando poteva mangiare, riposarsi, andare in bagno. La sua percezione attuale di questa esperienza è figlia di una percezione alterata».
Parliamo della famosa sindrome di Stoccolma?
«Prima ancora dei fatti di Stoccolma, Anna Freud identificò con chiarezza i meccanismi di identificazione con l' aggressore. Un bambino in un corridoio buio che faceva gesti strani e rumori senza senso spiegava: io ho paura dei fantasmi, ma se sono un fantasma anch' io allora non devo più avere paura di loro. Silvia ha reagito allo stesso modo, mettendo in atto un meccanismo di regressione dell'io allo stato infantile, in cui i suoi sequestratori diventavano figure genitoriali. Sviluppare un sentimento affettivo verso queste figure è stato un meccanismo di difesa».
Nonostante le vessazioni di cui c'è prova, e che oggi lei nega?
«Sapeva che avrebbe potuto venire uccisa, ha dovuto convivere fin dall' inizio con questa consapevolezza E se invece non vieni ucciso il resto non ti importa, ti sembra di essere trattato bene, sviluppi addirittura una forma di gratitudine».
Possiamo ipotizzare che prima abbia simulato per sopravvivere, e che un po' per volta si sia autoconvinta?
«Non credo, semplicemente si è adattata progressivamente alle circostanze in cui si è venuta a trovare. L'essere umano ha capacità di adattamento straordinarie».
Adesso quanto può essere difficile per lei ritornare alla realtà?
«Molto. Patricia Hearst, l' ereditiera americana che si era schierata con i suoi rapitori, impiegò tempo per fare marcia indietro. La libertà può fare paura. Lo vediamo anche in questi giorni con la fase due delle misure anti-Covid: c' è gente che fa psicologicamente fatica a uscire di casa. Figuriamoci Silvia, che viene da una deprivazione della libertà ben più lunga e più totale».
Quindi oggi, a suo modo, questa ragazza è sincera quando descrive il suo inferno quasi come una vacanza.
«Credo proprio di sì. Ovviamente esiste, in teoria, un' altra possibilità: che oggi sia costretta a dire così, che stia recitando una parte perché in qualche modo obbligata a farlo. È una ipotesi che in questi casi chi interroga il soggetto è obbligato a tenere presente. Ma, per quanto ne sappiamo, non ci sono indizi in questo senso. E quindi sì, devo rispondere che Silvia Romano è sincera».
Francesca Paci per “la Stampa” il 12 maggio 2020. Ci vorranno settimane prima che la conversione all' islam di Silvia Romano scivoli via dai social network e resti a lei, soltanto a lei, lo specchio in cui cercarsi. Perché la fede è cosa intimissima, ma quella discesa scenografica dall' aereo che la riportava a casa, con l'abaya verde così ingombrante da far pensare sul principio a uno scafandro sanitario, ha confuso l' Italia, autorizzando molti a partecipare della scelta di Silvia come della sua liberazione. Perché sposare il credo dei rapitori? Come? A che prezzo? Per quanto tempo? «Senza entrare nel merito della sfera privata, è plausibile che si tratti di una conversione spontanea, ci sono donne che dopo aver divorziato dal marito musulmano manesco e violento hanno abbracciato il Corano» ragiona Stefano Allievi, lo studioso italiano più ferrato in tema di convertiti. E non è detto che sia una meteora: sono passati quasi due lustri da quando la giornalista inglese Yvonne Ridley raccontò di aver scoperto l' islam mentre era prigioniera dei talebani in Afghanistan e fino a due anni fa portava ancora il velo. Silvia Romano ha letto, in qualche modo, il Corano. Molte donne italiane, una buona parte dei circa 60 mila nostri connazionali convertiti all' islam, si sono avvicinate così. Soprattutto le più giovani. Fino a qualche anno fa i convertiti erano figli degli anni '70, musulmani compiutisi lungo un percorso politico, eredi dell' esoterismo destrorso di René Guénon o della sinistra extra-parlamentare alla riscossa sull' occidente capitalista. Poi c' era chi sposava uno straniero e, umile, indossava il niqab. Ora, continua Allievi, la spinta è più relazionale che razionale: «Aumentano le conversioni che maturano in classe, dove gli adolescenti si mescolano con curiosità e le seconde generazioni d' immigrati portano la loro esperienza valoriale». Da due giorni la storia di Silvia Aisha Romano è l' argomento più dibattuto durante la rottura dell' iftar, il digiuno di questo Ramadan offuscato dal coronavirus. I musulmani d' Italia hanno salutato il suo ritorno come una festa doppia, perché la conversione è definita «ritorno all' Islam». Ma si discute, eccome se si discute. La povera Silvia, con i suoi fantasmi, non c' entra, e per lei si sono spese voci autorevoli come lo scrittore Pietrangelo Buttafuoco, rinato alcuni anni fa con il nome di Giafar al Sikilli. Il tema, però, scotta. Molti, i più vicini alla dottrina saudita, non hanno apprezzato affatto il marchio anche religioso impresso da Erdogan, cui è dedicato uno dei due ospedali di Mogadiscio. Altri brindano. L' antropologa e sufi somala Maryam Ismail ha scritto alla ragazza una lettera aperta per dirle che la comprende, che al suo posto si sarebbe convertita «in un nano secondo a qualsiasi cosa pur di resistere», che si dissocia da chi ne contesta l' abaya così come da chi inneggia alla nuova conversione ma che esclude si tratti «di una scelta di libertà, non può esserlo stata in quella situazione». E' dunque sindrome di Stoccolma? Allievi pensa piuttosto che possa essere un misto di condizioni traumatiche e fascinazione culturale, una sorta di sindrome di Lawrence d' Arabia, il mistero magnetico dell' altro che assomiglia al mal d' Africa, il té nel deserto, l' ambiguità messa a nudo da Edward Said, un senso d' inconscia superiorità espiato perdendosi nello specchio, oltre il mito pre-moderno dell' autenticità. «Per me l' illuminazione fu una vacanza in Marocco, mi colpì la preghiera dei musulmani, interi mercati che si fermavano al richiamo del muezzin, l' autista che accostava il pullman e s' inginocchiava nel silenzio generale» racconta Amal Maria, impiegata lombarda di poco più grande di Silvia Romano. Hussein Morelli, 39 anni, ha abbracciato l' islam sciita appena maggiorenne in cerca di «un' alternativa alla società cristiana desacralizzata, areligiosa, troppo laica». Carlo Delnevo, il padre del giovane genovese morto in Siria combattendo con l' Isis, non è un ragazzo in cerca d' identità ma si è fatto musulmano nell' assenza del figlio. «Faccio gli auguri a Silvia, è la prova che la fantomatica sudditanza femminile serve solo alle polemiche sterili» chiosa Omar Camilletti, ex portavoce della Grande Moschea di Roma e classificato come "musulmano sovranista", vicino cioé a quella destra italiana che in gran parte, a eccezione di Francesco Storace sull' Huffington Post, ha puntato l' indice severo contro la ragazza. Lei, Aisha, ieri sera si è mostrata ancora, da casa, nascosta dietro il grande velo verde che copre tutto.
LO JILBAB.
Perché scandalizza tanto Silvia Romano - Aisha vestita così. L'Italia vede ancora l'Islam come qualcosa di esterno a sé, se non ostile. Mentre più della metà dei musulmani italiani sono nati nel nostro Paese. Quando capiremo che ormai siamo una società multireligiosa? Pegah Zohouri il 12 maggio 2020 su La Repubblica. (Pegah Zohouri è dottoranda presso l’Università di Oxford in cui si occupa di Islam in Europa). La conversione di Silvia Romano all’Islam, durante la sua prigionia, porta al centro del dibattito italiano un quesito fondamentale per la nostra società e, soprattutto, per ciò a cui aspiriamo: cosa vuole dire essere italiani? Ma soprattutto che ruolo ha oggi il rispetto della libertà di fede in questa identità? Certo, la libertà di fede coinvolge in primo luogo la libertà di Silvia di convertirsi senza alcun tipo di costrizione fisica né psicologica. Per quanto lei stessa abbia affermato di non essere stata costretta alla conversione, la condizione di prigionia in primis è problematica; i responsabili di tale prigionia vanno perseguiti; così come vanno affrontate le radici economiche, sociali e politiche alla base dell’emergere di tali gruppi, islamisti e non (inclusa la responsabilità storica dell’Italia che colonizzò e sfrutto per mezzo secolo la Somalia). Ma, la questione della libertà di fede si riflette anche nelle reazioni in Italia alla sua conversione. Tale decisione infatti viene vissuta da una parte della società italiana come un tradimento. L’abito di Silvia ci “umilia” poiché il jilbab che indossa al momento dell’arrivo in Italia viene letto come irriverenza verso le istituzioni italiane, una ingratitudine verso le forze che l’hanno liberata. Tale visione denota due aspetti. Non ha fatto in tempo a scendere dal volo militare dopo un anno e mezzo di prigionia, che una cospicua parte del Paese si è lasciata andare al suo peggio. Dall'affondo di Salvini («Nulla accade gratis») a Vittorio Sgarbi («o si pente o è complice») una raccolta da non credere. Della serie, siamo contenti ma...Primo, una prospettiva che oppone un monolitico Islam a un talvolta altrettanto monolitico “occidente/Italia;” echeggiando così l’idea di “scontro di civiltà” resa celebre da Samuel Huntington: un occidente liberale, pluralista in opposizione ad un Islam opprimente, che sottomette le donne. La pluralità di realtà esistente nell’Islam (che, cosi come altre religioni ed ideologie, include anche minoranze radicali) viene appiattita a conferma della tesi del “noi contro voi.” In questa prospettiva un abito usato negli ultimi decenni dalle donne somale musulmane (e quindi in uno specifico contesto politico culturale e geografico), viene trasposto ad emblema delle milizie Islamiche, e poi assurto a simbolo di tutto l’Islam: e Silvia che lo indossa – per usare le parole di Alessandro Sallusti – torna “come un prigioniero dai campi di concentramento orgogliosamente vestito da nazista” (e poco importa se i campi di concentramento in Somalia, come il lager di Danane, fossero stati creati proprio dal regime Italiano). Il senso di tradimento è indice anche di una percezione dell’Islam come esterno, se non addirittura ostile a noi, che non riflette la vera condizione della popolazione musulmana in Italia e in Europa. Nel 2016 secondo l’ISMU i musulmani residenti in Italia erano un milione e quattrocentomila. Ormai da anni gli studiosi parlano di Islam Europeo, di seconde, terze e quarte generazioni di musulmani nati e cresciuti in Europa (il 52% dei musulmani cittadini italiani sono nati qui), che non vedono alcun conflitto tra la loro identità italiana e la loro fede: la maggioranza silenziosa di questa demografica è ormai parte integrante della nostra società, si sente italiana, e contribuisce all’arricchimento economico e culturale del nostro paese. Questo è quanto emerge anche dal report Gallup Coexist Index del 2009. Eppure, tali reazioni rendono palese che, almeno per una parte della società italiana, l’Islam ancora è visto come un fenomeno esterno ed estraneo. Quasi ad affermare che non si possa essere Italiani e musulmani. Ma in questo nuovo contesto, un’idea inclusiva di italianità emerge sempre più come una presa d’atto di una realtà sociale e demografica già esistente. La conversione di Silvia Romano dunque ci pone davanti ad una sfida: l’accettazione della sua scelta costituisce parte integrante della trasformazione del pluralismo italiano da realtà sociale esistente ad un progetto politico, ovvero, la promozione del rispetto della diversità e delle scelte individuali, incluse quelle di fede.
"Sacco dell'immondizia..." Ecco l'odio femminista sulla Romano islamica. Il post lasciato su Facebook dalla nota attivista femminista Nadia Riva ha scatenato un'ondata di polemiche. Raggiunta telefonicamente si è giustificata: "Ho avuto un conato di tristezza e di dolore, vedendo questa giovane sorridente messa in un sacco come a volerla eliminare, cancellandone l’identità". Federico Garau, Mercoledì 13/05/2020 su Il Giornale. Nella forte ondata di polemiche seguite dopo la liberazione di Silvia Romano s'inserisce a sorpresa anche la nota femminista Nadia Riva, che ieri sera ha affidato ai social network un commento relativo ai vestiti indossati dalla giovane cooperante al momento del rientro nel nostro Paese. Quell'abito verde, che era stato immediatamente associato all'idea della conversione all'Islam annunciata dalla giovane dopo lo sbarco a Ciampino, aveva fin da subito attirato l'attenzione dei giornalisti e posto degli interrogativi circa un ipotetico significato dello stesso. "Si chiama jilbab", aveva riferito il direttore di malindikenya.net, sito dedicato agli italiani in Kenya, come riportato da TgCom24. "Non è un abito religioso, ma chiaramente è indossato da donne islamiche. È più un abito da passeggio. Lo usano molto le tribù al confine tra Kenya e Somalia come gli Orma e i Bravani". Una definizione che non aveva trovato tutti d'accordo. "Quel vestito non ha nulla di somalo", riferisce infatti Maryan Ismail, attivista musulmana per i diritti delle donne. "Non mi piacciono per nulla le discussioni sul suo abito (che non ha nulla di somalo, bensì è una divisa islamista che ci hanno fatto ingoiare a forza) né la felicità per la sua conversione da parte di fazioni islamiche italiane o ideologizzati di varia natura", aggiunge la donna, ricordando come le vesti somale siano invece caratterizzate da stoffe preziose e variopinte. L'opinione fornita invece da Nadia Riva, attivista femminista di lungo corso, tra le fondatrici del Circolo Cicip e Ciciap, ha un taglio decisamente diverso. Poco orientato alla ricerca delle origini dell'indumento, e più indirizzato al senso che trasmette relativamente al ruolo della donna nel mondo islamico. "La struggenza di una donna sorridente in un sacco verde della differenziata", attacca la femminista, elemento di spicco di uno dei gruppi più intransigenti nel contesto nazionale. Una frase che ha scatenato la reazione di numerosi internauti. "Struggente è avere paragonato un abito, che è indossato da donne di altra cultura e tradizione religiosa, associandolo alla "differenziata" e dunque dando un accezione offensiva e dispregiativa. Spesso il razzismo esce fuori anche quando lo si vuole celare dietro termini inadeguati quale ‘struggente’, però non ci riesce. Sei stata molto squallida e inopportuna, ma almeno ti sei svelata", attacca un'utente. "Io sono raggelata da questo post. Non ci trovo nulla di femminista, penso che chi lo ha scritto in questi termini percepisca esattamente come immondizia i corpi e le menti delle donne suo malgrado. Che orrore", replica un'altra donna. Una frattura, dunque, anche nell'ambito degli ambienti femministi più radicali. Contattata da Repubblica, la Riva si è giustificata. "Ho scritto quelle frasi come provocazione, non è certo contro quella ragazza, non so perché l’hanno letto come un attacco a Silvia Romano", dice l'attivista, come riportato da Tpi. "Io mi propongo il tema del corpo delle donne che da una vita gli uomini cercano di cancellare. Io ho avuto questo conato di tristezza e di dolore, vedendo questa giovane sorridente messa in un sacco come a volerla eliminare, cancellandone l’identità. Questo solo volevo dire, non attaccare lei, poi detto da me, evidentemente non mi conoscono come persona", conclude.
Silvia Romano, Maryan Ismail a Fuori dal coro: "Non è un vestito tradizionale, cosa identifica". Giordano: "Uno spot per il terrorismo". Libero Quotidiano il 13 maggio 2020. Quello indossato da Silvia Romano durante il suo ritorno in Italia "non è un abito tradizionale della Somalia, ma identifica un gruppo specifico, quello che ha coperto il gruppo terroristico di al Shabaab". A spiegarlo, ospite di Mario Giordano nello studio di Fuori dal coro, è Maryan Ismail, professoressa di origini somale trapiantata da anni in Italia. Insomma, la situazione è più complessa rispetto a una "normale" conversione all'islam. "Allora voi capite che uno si può chiedere se queste immagini non possano essere vendute nel mondo islamico come un grande spot per il terrorismo", si domanda sconcertato Giordano. Interrogativo che tutti dovrebbero porsi, al di là dei colori politici impropriamente indossati in una vicenda come quella della cooperante milanese liberata dopo 2 anni di sequestro in Africa.
Silvia Romano, parla l'attivista musulmana: "Quel vestito non era somalo, è una divisa islamista che ci hanno fatto ingoiare a forza". Libero Quotidiano il 13 maggio 2020. Silvia Romano e il suo ritorno in veste musulmana fa ancora discutere. Questa volta a voler fare chiarezza ci pensa Maryan Ismail, musulmana e attivista per i diritti delle donne. "Quel vestito non ha nulla di somalo", scrive la donna in una lettera indirizzata alla diretta interessata. "Non mi piacciono per nulla le discussioni sul suo abito (che non ha nulla di somalo, bensì è una divisa islamista che ci hanno fatto ingoiare a forza) né la felicità per la sua conversione da parte di fazioni islamiche italiane o ideologizzati di varia natura". La Ismail vuole precisare che la Somalia "tradizionale" erano drappi sgargianti, sete preziose e colorate che esaltavano le donne. Non solo, anche Layla Yusuf imprenditrice italo-somala vuole dire la sua verità all'attivista milanese rapita per 18 mesi dal gruppo terrorista di Al Shabaab: "Noi portiamo i capelli scoperti se vogliamo, scegliamo liberamente i vestiti. Facciamo qui quello che si faceva allora. Era una vita bella e felice, ora è drammatica". Il motivo è ben noto: Mogadiscio - come scrive Il Giornale - ora è ostaggio degli islamisti. "A casa mia comandava mia madre - prosegue Layla - mio padre lavorava fuori e gestiva tutto lei. Sono sempre state matriarche. Guidavano casa e famiglia. La nostra Africa non c'entra niente con gli arabi, nella nostra tradizione ci sono i vestiti colorati delle donne, come il guntino, elegante fatto e a mano, che si usava normalmente o anche nelle cerimonie, di seta". Poi è arrivata la guerra civile che ha portato con sè anche gli abiti che Silvia crede tradizionali. "Quelle che di noi - conferma l'imprenditrice - hanno continuato a vestirsi normalmente, hanno cominciato a essere stigmatizzate, denigrate come troppo occidentali". Insomma, della tunica lunga che ha indossato la Romano atterrata a Ciampino non c'è nulla di tradizionale.
Per Vittorio Sgarbi, invece, “Silvia Romano ha messo il costume della banda terroristica, quindi ha fatto propaganda ai terroristi. Antonino Paviglianiti il 12/05/2020 su Notizie.it. Vittorio Sgarbi ancora contro Silvia Romano. La cooperante sarebbe complice dei terroristi: il pensiero del parlamentare. Continua l’attacco di Vittorio Sgarbi nei riguardi di Silvia Romano. Per il deputato, infatti, la giovane cooperante – liberata dal Governo italiano con l’ausilio dell’intelligence dopo 18 mesi di prigionia – si deve assolutamente pentire sennò va arrestata. Un pensiero già espresso in un post social nella serata di domenica 10 maggio e ribadito, ancora una volta, ventiquattro ore dopo negli studi di Quarta Repubblica, ospite di Nicola Porro. Per Vittorio Sgarbi, infatti, Silvia Romano rischia di essere ‘complice’ dei propri aguzzini qualora non dovesse pentirsi. E a non andar giù al deputato è anche lo jilbab: “Silvia Romano ha messo il costume della banda terroristica, quindi ha fatto propaganda ai terroristi. Abbiamo abbracciato chi ha messo le insegne del nemico dello Stato”. Per Vittorio Sgarbi, dunque, la cooperante italiana è un soggetto da tenere sott’occhio. Per il critico d’arte il Governo italiano ha anche sbagliato a pagare il riscatto, considerata la conversione all’islam della cooperante milanese. “Silvia Romano va arrestata – ribadisce Sgarbi sui social network -. Se mafia e terrorismo sono analoghi e rappresentano la guerra allo Stato, e se Silvia Romano è radicalmente convertita all’Islam, va arrestata (in Italia è comunque agli arresti domiciliari) per concorso esterno in associazione terroristica. O si pente o è complice dei terroristi”. Il pensiero di Vittorio Sgarbi non è passato inosservato. Tant’è che c’è chi gli risponde a tono. Tra questi Andrea Scanzi: sono note le querelle tra i due. E proprio sulla questione Silvia Romano si è acceso lo scontro tra il parlamentare e il giornalista.
Silvia Romano, Alessandro Morelli rincara la dose: "Covertita all'Islam? Come se nel 1992, Farouk Kassam..." Libero Quotidiano il 12 maggio 2020. Alessandro Morelli ha ricevuto molte critiche per un post su Silvia Romano, liberata dopo 18 mesi passati sotto sequestro in Somalia. “La sua foto vestita in abitino blu e tacchi alti a fronte di quella da islamista, con lo jilbab? Non mi pento di nulla - ha dichiarato all’Adnkronos - lo sciacallaggio è quello di chi ne ha fatto una bandiera da mandare in mondovisione”. Il deputato leghista ha poi spiegato meglio il suo messaggio sulla 25enne milanese: “Per me prima del rapimento poteva andare in giro nuda o vestita da donna dell’Islam, ma il punto è che non è mica tornata dopo essere stata ospite di un emiro che le ha insegnato cosa sia l’Islam. È stata nelle mani di tagliagole assassini, non si è certo trattato di una semplice gita turistica. È finalmente ritornata, ma la donna che c’è dentro quel corpo è salva?”. Poi Morelli usa un’analogia con due vicende di sequestri che hanno segnato la storia italiana: “È come se Moro invece che finire ammazzato dalle Br fosse stato liberato e avesse iniziato a fare politica a favore della lotta armata”.”O se Farouk Kassam avesse chiamato Dio il carceriere che gli ha tagliato l’orecchio”, ha concluso Morelli, facendo riferimento al bambino rapito nel 1992 a Porto Cervo.
Silvia Romano libera: ecco che cos’è il “jilbab”, l’abito che indossava all’arrivo in Italia. Freddie del Curatolo, direttore di malindikenya.net, spiega che è un "abito da passeggio, non religioso. Ma chiaramente è indossato da donne islamiche". Il Fatto Quotidiano il 10 maggio 2020. Una copertura tradizionale che non ha un forte connotato religioso sebbene sia comune in ambienti dell’Africa orientale dove è diffusa la fede islamica. Si chiama jilbab ed è l’abito verde con cui Silvia Romano è scesa dall’aereo all’aeroporto militare di Ciampino dopo 18 mesi dal suo rapimento in Kenya. “Non è un abito religioso ma chiaramente è indossato da donne islamiche”, spiega Freddie del Curatolo, direttore di malindikenya.net. “È un abito più da passeggio. Lo usano molto le tribù al confine tra Kenya e Somalia come gli Orma e i Bravani“, ha aggiunto il giornalista da 15 anni nel Paese africano. Silvia Romano ha comunque dichiarato agli 007 di essersi liberamente convertita all’Islam. L’abito è verde, colore che solo in maniera controversa simboleggia l’Islam apparendo ad esempio sulle bandiere di Arabia Saudita, Algeria, Pakistan e della stessa Lega araba. Il colore del Profeta era infatti il nero, come mutuato da Daesh (l’Isis) e il verde è solo un fatto culturale che indica quello che gli arabi del deserto non avevano: la verzura (nel Corano si parla del Paradiso come, verde anzi verdissimo). “Probabilmente si è vestita come ha potuto”, ha ipotizzato Hamza Piccardo, esponente di spicco della comunità islamica italiana. “Vedremo se continuerà così o troverà abiti più consoni al fatto di essere sì musulmana ma anche italiana”, ha aggiunto l’imam e traduttore del Corano. Il termine jilbab (o jilbaab) si riferisce comunque a qualsiasi abito lungo a largo indossato da donne musulmane per rispettare il precetto coranico della modestia femminile. Il “velo” islamico comunemente si chiama hijab, parola derivante da una radice verbale che vuol dire fra l’altro “rendere invisibile” o “coprire”.
Silvia Romano, "la conversione all'Islam è la vittoria inattesa di Al Shabaab". Oltre il riscatto: il significato di quel velo. Libero Quotidiano il 11 maggio 2020. Quattro milioni di dollari di riscatto per liberare Silvia Romano e un guadagno "non calcolabile" in termini di ritorno d'immagine. I terroristi somali di Al Shabaab hanno fatto bingo e la loro vittoria più inattesa e significativa è proprio la conversione della giovane cooperante milanese, andata in Africa per aiutare i bambini in Kenya, rapita per un anno e mezzo e tornata in Italia domenica con tanto di tradizionale vestito islamico. Una vittoria anche politica, perché l'intelligence turca, decisiva nella trattativa, ha dovuto negoziare direttamente con "i tagliagole islamici" che terrorizzano la Somalia, come sottolinea anche Repubblica, conferendo loro "sia pure in quanto sequestratori, una legittimità sul territorio che ancora non avevano". Poi i soldi, che andranno nelle casse dei terroristi e aiuteranno le loro attività: attentati, armi, altri rapimenti tra Somalia, Kenya e Uganda. "Ma per gli Al Shabaab - spiega ancora Repubblica - il successo più inaspettato di tutta l'impresa è la conversione" della Romano, "avvenuta per di piùsenza costrizione, come lei stessa ha dichiarato. Il che, al mondo musulmano e non solo, li mostra per la prima volta sotto un'altra luce. Da assassini crudeli e implacabili quali erano considerati da tutti, salvo forse da qualche sceicco del Golfo, gli Al Shabaab possono apparire adesso come carcerieri compassionevoli, poiché sono perfino riusciti a spingere l'ostaggio ad abbracciare il loro Dio. E tornando in Italia a mostrarsi con il hijab verde, il colore dell'Islam". Non c'è che dire: un capolavoro.
IL RISCATTO.
Silvia Romano, il riscatto è stato pagato dal Qatar: spunta il dossier, intrigo internazionale senza precedenti. Libero Quotidiano il 23 maggio 2020. Il riscatto di Silvia Romano? Non è stato pagato dall’Italia, ma dal Qatar che in cambio si è preso l’uranio (destinato all’Iran) e ha versato poco meno di quattro milioni di dollari ai terroristi, che non compreranno armi (come il falso portavoce ha dichiarato a Repubblica) ma costruiranno grattacieli in Occidente. È la ricostruzione fatta dal sito specializzato Africa ExPress, che ha investigato in maniera molto approfondita il caso della 25enne milanese, ricostruendolo passo per passo fin dal principio. Silvia Romano non sarebbe altro che una pedina al centro di intrighi internazionali e affari riservati: a sganciare il denaro necessario a liberarla è stato il Qatar in quella che viene definita una triangolazione di dollari, armi, garanzie politiche e soprattutto uranio. “Alleata dei turchi e degli italiani in Libia - si legge su Africa ExPress - amica dell’Iran, con cui Roma intrattiene ottimi rapporti, Doha appare subito come ottimo strumento per cavare le castagne dal fuoco. E poi il Qatar ha appena ordinato a Leonardo materiale bellico per oltre 5 miliardi di euro e la Fincantieri deve consegnare battelli militari per circa 4 miliardi. Ma c’è anche un altro piccolo, ma non insignificante, dettaglio: il generale Luciano Carta, capo dei servizi segreti esterni, dal 20 maggio prenderà il posto di presidente di Leonardo”. Quindi la trattativa con gli Shebab sarebbe stata condotta dai qatarioti che “non ci mettono molto a coinvolgere i leader dei terroristi, i quali a loro volta convincono i loro amici a rilasciare la ragazza catturata, in cambio di un bel pacco di dollari, ma un po’ meno dei 4 milioni sbandierati un po’ da tutti in Italia”.
Silvia Romano, don Ermanno Caccia: "In piazza contro il riscatto. Occhio, qui scoppia la rivolta". Renato Farina su Libero Quotidiano il 14 maggio 2020. Al Nord tira aria di insorgenza? Un prete della Val Seriana, don Ermanno Caccia, dopo i due mesi passati in catene nella sua casa ad Almè, per un'ora esprime concetti duri ma pacati, da professore, e dice: «Uno Stato che non si prende cura dei lutti della sua Comunità è un baraccone senz'anima, un'istituzione anaffettiva senza identità dedita solo a compiti burocratici». Poi però esplode. Quasi che le gambe gli si fissassero come travi per terra, per non lasciar più passare la menzogna governativa dell'andrà-tutto-bene-state-buoni. Basta una piccola provocazione sui soldi che non arrivano alle piccole imprese, ma neppure consentono loro di aprire: «Basta così. Qui ci sarà la rivolta. Guardi, io non voglio essere profeta di sventura. Ma vedrà che quando si darà il via libera, e la gente andrà al bancomat e vedrà la scritta "carta non abilitata" perché non ci sono i soldi, scoppierà una guerra. È una cosa reale e concreta. La nostra gente qui sta barcollando in ipotesi che sono ancora più dannose del virus stesso. La battuta che si fa in questi giorni è concreta: chi non è morto di coronavirus, è destinato a morir di fame. Questo non è un agire da esseri pensanti. L'incapacità di una classe dirigente si nota anche e soprattutto in quelle bollette inviate alle famiglie per la cremazione dei propri cari». Si spieghi con chi non è del posto, per favore: «Non lo sanno dello scandalo? Alle persone che hanno avuto un lutto sta arrivando una bolletta di 700 e rotti euro per la cremazione. Questa è una vergogna! Specie se si guarda che lo Stato italiano ha speso 4 milioni per pagare il riscatto di quella ragazza, Silvia. Per l'amor di Dio, andava salvata e bisogna salvare tutti. Ma dov'è il rispetto? Per 2000 persone, hai mandato la bolletta di 700 e rotti euro per i funerali e la cremazione, e poi spendi 4 milioni per portare a casa questa cristiana o ex cristiana, non lo so? Queste sono le incongruenze che fanno arrabbiare le persone. E guardi che la gente è ar-rab-bia-ta! È ora di fi-nir-la! Queste cose gridano vendetta al cospetto di Dio». Al nord tira aria di insorgenza. Bisogna togliere il punto di domanda. Non è solo questione di un sacerdote, che si fa voce del popolo. Dài, che lo sappiamo tutti, anche se non lo diciamo per paura di alimentarla. Capaci che ci arrestano. Ad attizzarla però non sono i giudizi su quanto accade, ma i fatti che hanno smosso la mente e le budella della gente-gente. Merita risposte, decisioni, denari veri, invece di litigi sulla regolarizzazione dei migranti. C'è poco tempo per iniettare serenità. Ma non è questione di capacità comunicative, ma di sostanza, di decreti razionali, di palanche sui conti correnti. Al Sud, dicono le cronache, il vento ribelle era soffiato dopo poche settimane dal blocco. Il 28 marzo piccole folle si assembrarono furiose fuori da supermercati di Palermo. Quella rabbia - abbiamo scoperto dalle inchieste delle magistratura - è stata tenuta a bada grazie alla carità pelosa della mafia, che presenterà il conto. In Lombardia, Veneto, Emilia, Piemonte è una cosa tutta diversa, non è il lamento che assalta i banchi degli alimentari, invoca un Masaniello e attira il padrinaggio di Cosa Nostra. È il desiderio di tagliar corto con Roma, furenti per essere stati prima gettati in bocca al Covid e ora di essere impediti di lavorare da un'autorità romana estranea. Chi lo capisce meglio di tutti sono i preti. Non c' è nessuno che conosca l'«odore del proprio gregge» (Papa Francesco) come i prevosti e i curati bergamaschi. Tacciono per prudenza e per obbedienza. Ne sono morti tanti, senza qualificarsi da martiri, senza accusare nessuno. In Val Seriana alla peggior strage del mondo la popolazione ha dovuto assistere allo scherzo idiota di un ministro che mimava i colleghi lombardi con la mascherina, mentre fuori dalla finestra circolavano le bare e tu non sapevi quale fosse quella del proprio caro. Traiamo queste frasi dall'intervista condotta da Alberto Luppichini a don Caccia su valserinanews.it. E qui occorre una citazione al merito: ha piazzato le sue tende dove si è accampato il Corona. Lo dirige Gessica Costanzo. Ha anche la web tv. E con uno spirito magnifico informa, domanda, registra cose che sui Tg e sui quotidiani nazionali sono autocensurate. Il polso lo si misura lì, nella cronaca che la gente del posto vive, e se sbagli ti contesta. Mi sono collegato ogni dì. Dopo i battiti lenti e singhiozzanti del dolore e del lutto. Dopo la comunicazione serena di una suora di clausura. Lo sconcerto dei medici abbandonati. Adesso le vene pulsano forte. Dove si mescolano voglia di rinascita e di insorgenza. Testimone è don Caccia, un prete non proprio docile. Obbedisce, certo. Ha accettato di essere trasferito dalla diocesi emiliana di Carpi dov'era incardinato (non era gradito dall'amministrazione rossa) a quella veneta di Chioggia, dove farà il parroco. Si lascia condurre con santo guinzaglio de "li superiori", ma non è di quelli che meni il codino fingendo felicità se il lupo attacca il suo popolo. Di origine e di temperamento è del resto uno della valle, anche se non è lì in cura d' anime: era passato dalla casa dei familiari, ad Almè, alle porte della Valbrembana, e lì gli è toccato rimanere. Continua: «Io lo so che rompo le scatole a qualcuno, ma nessuno si è posto il problema della partita che si è svolta in quelle settimane a Milano tra Atalanta e Valencia. Da Bergamasco e atalantino mi è dispiaciuto non andare, ma vi dico una cosa: allo stadio c' era molta gente di Nembro e di Alzano. Fra l' altro il virus ha portato via mio cugino di Alzano, e lui partecipò a quella partita. Io sono abbonato all' Eco di Bergamo. Ho qui davanti le dichiarazioni del sindaco Gori di quei giorni, che invitava a mangiare cinese. C' è stata una superficialità imbarazzante all'inizio. Sono ancora incazzato!». E adesso, dice, accade il contrario. Si blocca il lavoro invece che spingerlo. «Ieri occorreva essere più previdenti, oggi bisogna rischiare, altrimenti si muore di fame. Invece la politica centrale si nasconde dietro il parere di virologi in lite. Parlando di Bergamo, l' unica cosa che ha continuato ad andare avanti è stata la fusione della Banca Popolare di Bergamo. Le banche non sono state toccate. Adesso che dovevano metterci la faccia, fanno menate ai commercianti. Prima chiedono di rientrare dal debito che si ha. Poi, forse, compilati cento e rotti moduli ti darò qualcosa. Scoppierà la rivolta, guardi che scoppia! Quando uno è alla fame, non guarda più in faccia a nessuno. Io rido per la disperazione. Quando la gente si vede accerchiata e non compresa, per sopravvivere cosa fa?». Non è il caso di aspettare la risposta in piazza. Tocca alle autorità muoversi.
Silvia Romano, non solo 4 milioni per il riscatto: la liberazione è costata 10 milioni di euro. Libero Quotidiano il 14 maggio 2020. Il riscatto di Silvia Romano è costato almeno 10 milioni e passa, spesi per riportarla a casa. Cifra insomma ben superiore dei 4 di cui si è parlato fino ad oggi. Lo scrive il Giornale. Diciotto mesi di paghe degli agenti dei servizi segreti a cui s'aggiungono "indennità di cravatta", diarie di missione e "bonus". Stimando compensi mensili di almeno 12mila euro per una media di tre/quattro persone sul campo il conto si aggira sugli 850mila euro. A questi si aggiungono gli alberghi (gli agenti non vivono in ambasciata), le spese aeree, il vitto e non da ultimo mazzette, mance e bustarelle indispensabili - in Africa - per ottenere informazioni, appoggi e autorizzazioni. Facendo un altro calcolo, potrebbero essere altre 500mila euro in 18 mesi. Poi nel caso del Falcon 50, il jet usato per il rientro di Silvia Romano, con un pacchetto di quattro voli (due andata e ritorno) lungo la tratta di 5396 chilometri Roma Nairobi, al costo di 9,60 euro per miglia, richiede circa 130mila euro. A questi vanno aggiunti voli di linea per un totale di altri 20mila euro. Più difficile calcolare l'incidenza dei voli da gennaio 2019 quando la cellula dell'Aise, avuta conferma del trasferimento di Silvia Romano in Somalia, trasferisce la base operativa a Mogadiscio. Tra partenze e rientri in Falcon, più banali voli di linea della Turkish Airlines o scomode trasvolate sui C130 il saldo non è inferiore agli 800mila euro. A questo si aggiunge il contante per oliare i contatti, garantirsi informazioni e provvedere alla cornice di sicurezza: per una cifra che si aggira sui 320mila euro. Solo così il totale supera i 2milioni e 600mila euro. Ma questi sono i soldi spesi sul campo. Poi c'è il coordinamento complessivo e almeno 800 mila euro vanno calcolati e i diciotto mesi di gestione diplomatica della vicenda con il coinvolgimento di ambasciate e personale del Ministero degli Esteri possono superare il milione di euro. Insomma a conti fatti ai 4 o 5 milioni del riscatto bisogna aggiungerne altri cinque. Per un totale finale che supera i dieci milioni. Ovvero più del doppio del riscatto.
Gian Micalessin per “il Giornale” il 14 maggio 2020. Quanto è costato il rapimento di Silvia Romano? Dimenticate il riscatto. Quello vale la metà dei 10 milioni e passa bruciati per riportarla a casa. Il registratore di cassa inizia a girare all' indomani del sequestro quando i vertici dei servizi spediscono in Kenya una cellula incaricata di coordinarsi con il capo centro locale. Da quel momento la cellula composta, a seconda dei momenti, da due o quattro agenti non smette più di operare. «Gli uomini dell' intelligence italiana che hanno compiuto l' operazione di liberazione - spiega una nota dell' Aise - sono gli stessi che nel novembre 2018 , 48 ore dopo il sequestro sono immediatamente stati inviati in territorio keniota dove in collaborazione con le forze locali hanno iniziato le operazioni di ricerca anche con l' ausilio di sofisticati droni». Dunque diciotto mesi di paghe a cui s' aggiungono «indennità di cravatta», diarie di missione e «bonus». Quanto fa? Stimando compensi mensili di almeno 12mila euro per una media di tre/quattro persone sul campo il conto si aggira sugli 850mila euro. A questi si aggiungono gli alberghi (gli agenti non vivono in ambasciata), le spese aeree, il vitto e non da ultimo mazzette, mance e bustarelle indispensabili - in Africa - per ottenere informazioni, appoggi e autorizzazioni. «Per la diaria calcola 200 euro al giorno a testa per due o tre persone per 18 mesi - racconta a Il Giornale un agente ma poi aggiungici la diaria di altre 2 o 3 persone chiamate a rinforzo in momenti particolari». Come dire 500mila euro in 18 mesi. Un' altra voce assai esosa riguarda i trasferimenti aerei. I vettori vanno dai costosissimi, ma spesso indispensabili Falcon 50, agli aerei di linea fino ai passaggi - esclusivi o condivisi - sui C130 utilizzati dai militari italiani di Eutm (European Training Mission) la missione europea per l' addestramento delle forze somale. Nel caso del Falcon 50, il jet usato per il rientro di Silvia Romano, un pacchetto di quattro voli (due andata e ritorno) lungo la tratta da 3353 miglia (5396 chilometri) Roma Nairobi, al costo di 9,60 euro per miglia, richiede circa 130mila euro. A questi vanno aggiunti voli di linea per un totale di altri 20mila euro. Più difficile calcolare l' incidenza dei voli da gennaio 2019 quando la cellula dell' Aise, avuta conferma del trasferimento di Silvia Romano in Somalia, trasferisce la base operativa a Mogadiscio. Tra partenze e rientri in Falcon, più banali voli di linea della Turkish Airlines o scomode trasvolate sui C130 il saldo non è inferiore agli 800mila euro. A questo si aggiunge il contante per oliare i contatti, garantirsi informazioni e provvedere alla cornice di sicurezza. «Il contante vola - spiega l' operativo contattato da Il Giornale - in un mese puoi bruciare 20mila euro». Quindi calcolando i 16 mesi da gennaio a maggio vanno aggiunti 320mila euro. Solo così il totale supera i 2milioni e 600mila euro. Ma questi sono i soldi spesi sul campo. Poi c' è il coordinamento complessivo. «Io durante un sequestro facevo solo quello spiega un ex dirigente del ex-Sismi - nell' arco di 18 mesi devi calcolare i salari di almeno tre dirigenti che si avvicendano in sala operativa e quello dei capicentro che tengono il contatto con la cellula sul campo e altri collegati». Pur non aggiungendo tutti questi stipendi al budget finale, almeno 800 mila euro vanno calcolati. L' operazione Silvia Romano ha però altri due quadranti. Il primo è quello della Turchia indispensabile per gli accordi operativi con il Mit, l' intelligence di Ankara. Il secondo è quel Qatar dove, si sarebbe svolta la fase finale del negoziato e forse la consegna del riscatto. Qui voli, trasferte di altro personale e compensi non documentabili si portano via almeno altri 900 mila euro. Ma alle operazioni riservate bisogna aggiungere quelle diplomatiche sviluppate su canali ufficiali o semi ufficiali. Questo richiede il lavoro dei funzionari di quell' Unità di Crisi della Farnesina dove intelligence e diplomazia s' incontrano e si coordinano. Anche qui il registratore di cassa gira all' impazzata. Diciotto mesi di gestione diplomatica della vicenda con il coinvolgimento di ambasciate e personale del Ministero degli Esteri possono superare il milione di euro. Insomma a conti fatti ai 4 o 5 milioni del riscatto bisogna aggiungerne altri cinque. Per un totale finale che supera i dieci milioni. Ovvero più del doppio del riscatto.
Silvia Romano, Luigi Di Maio a Fuori dal coro: "Non mi risulta nessun riscatto pagato altrimenti dovrei dirlo". Libero Quotidiano il 12 maggio 2020. "Non mi risultano riscatti per Silvia Romano". Luigi Di Maio, in collegamento con Mario Giordano a Fuori dal coro, si gioca il tutto per tutto: "Perché dobbiamo credere a un terrorista?", domanda al pubblico il ministro degli Esteri, smentendo così le voci dettagliate sui 4 milioni pagati dallo Stato all'organizzazione terroristica somala Al Shabaab per la liberazione della 24enne cooperante milanese. "Ovviamente non bisogna darsi le risposte come conviene. Nel senso che è legittimo farsi delle domande, ma la prima domanda che mi faccio io è perché se un terrorista che viene intervistato e dice una cosa, la sua parola vale più dello Stato italiano? A me non risultano riscatti, altrimenti dovrei dirlo". La logica scricchiola, visto che da che mondo è mondo esistono anche informazioni riservate da non divulgare in forma ufficiale. "A dicembre ho sentito il padre di Silvia, sapevo che lei era viva e non potevo dirlo al padre, perché lei sa bene che in questi casi se si danno informazioni e c'è una fuga di notizie poi si rischia che alla fine non riusciamo a riportarla a casa e di compromettere tutto", prosegue il capo della Farnesina. "Rispetto tutte le discussioni, tutte, però siamo un Paese che si dà spesso la zappa sui piedi perché io sono orgoglioso del fatto che la nostra Intelligence, le nostre Forze Speciali, il nostro Corpo Diplomatico, l'Unità di Crisi, hanno fatto squadra e ce l'hanno fatta. Credo che dobbiamo anche, soprattutto, rispettare questa ragazza perché nessuno di noi sa che cosa significa stare un anno e mezzo in mano a una cellula terroristica che arruola i bambini, di terroristi criminali".
Silvia Romano, l'esperto di Islam: "Il riscatto è stato pagato, ma il governo ha usato un escamotage per non doverlo dire". Libero Quotidiano il 14 maggio 2020. Carlo Panella è un giornalista e saggista ed è considerato uno dei maggiori esperti italiani di Medio Oriente. In una intervista al Giornale, spiega i chiaroscuri del caso di Silvia Romano: dal segreto di una conversione inattesa, alle inevitabili ricadute geopolitiche dell'operazione che ha portato alla sua liberazione. E sul pagamento del riscatto, non ha dubbi: "È certo che sia stato pagato". Sulla conversione: "Non sono pochi gli occidentali sequestrati da terroristi islamici che si sono convertiti, ricordo anche che uno di loro, dopo la conversione, è stato sgozzato davanti alle telecamere. Ma è indispensabile una precisazione. È sbagliato e assolutamente fuorviante che si dica che Silvia si è convertita all'Islam: non si è convertita all'Islam, si è convertita al salafismo. Uno scisma islamico che le è stato inculcato dai suoi carcerieri, unica sua fonte di informazione e formazione. L’eresia islamica che praticano gli al Shabaab è una maledetta teologia della morte su cui Silvia deve ora assolutamente riflettere, informandosi presso i veri musulmani. Centrale nell’eresia islamica degli Shabab è la definizione teologica dei cristiani ed ebrei come “apostati e politeisti”, e infatti gli al Shabab li hanno massacrati e sgozzati in molte stragi in Kenya e Somalia. Che Silvia si converta pure, ma all'Islam di fede." Il riscatto è stato pagato o no? "Ritengo certo che sia stato pagato e che, come è accaduto in altre occasioni, si sia ricorso ad un escamotage per cui il governo italiano può tranquillamente dire di non averlo mai fatto. Attraverso un'organizzazione caritatevole che si è fatta carico di anticipare il denaro, in questo caso portato materialmente ai rapitori con la mediazione dei servizi segreti turchi, per poi recuperare le somme con una serie di triangolazioni che fanno capo alle casse dello Stato italiano."
Pietro Del Re per “la Repubblica” il 12 maggio 2020.
Che cosa farete con quei soldi?
«In parte serviranno ad acquistare armi, di cui abbiamo sempre più bisogno per portare avanti la jihad, la nostra guerra santa. Il resto servirà a gestire il Paese: a pagare le scuole, a comprare il cibo e le medicine che distribuiamo al nostro popolo, a formare i poliziotti che mantengono l' ordine e fanno rispettare le leggi del Corano». (...)
Silvia Romano ha confessato di essersi convertita senza costrizioni.
«Perché ha sicuramente visto con i suoi occhi un mondo migliore di quello che conosceva in precedenza».
Dall' interno della cella dove la tenevate rinchiusa?
«Non mi risulta che sia sempre stata segregata».
E come giustifica il massacro dei 148 studenti nel campus di Garissa nel 2015 o quello degli oltre cinquecento civili in un mercato di Mogadiscio due anni dopo?
«Ognuno combatte la guerra con i mezzi di cui dispone. Gli Stati Uniti hanno i droni, noi i kamikaze».
(Adnkronos il 12 maggio 2020) - Il presunto pagamento di un riscatto da parte delle autorità italiane per liberare Silvia Romano, la giovane volontaria rapita in Kenya e liberata dopo essere stata tenuta prigioniera in Somalia per quasi due anni, potrebbe essere "un problema". Lo dice l'Alto Rappresentante dell'Ue per gli Affari Esteri Josep Borrell, rispondendo, in videoconferenza a Bruxelles, alla domanda se il pagamento di un riscatto costituisca un problema, visto che il portavoce di al Shabaab, Ali Dehere, ha dichiarato a Repubblica che una parte di quei soldi serviranno per comprare armi. "Sì, sicuramente deve essere un problema - ha risposto Borrell - ma francamente non abbiamo ulteriori informazioni da darvi. Sono spiacente".
Dagospia il 12 maggio 2020. Da “la Zanzara – Radio24”. “Il riscatto? Il problema va risolto a monte. Io ricordo che l’Anonima Sequestri fu sconfitta quando si bloccò il pagamento dei riscatti. Io sono contento che Silvia sia tornata a casa. In futuro per quello che mi riguarda, se tu mandi dei lavoratori o dei volontari in zone a rischio, te ne assumi civilmente, economicamente e penalmente le conseguenze”. Lo dice Matteo Salvini, leader della Lega, a La Zanzara su Radio 24. Se cioè vengo avvertito dal consolato che quella è una zona a rischio e ce li mandi lo stesso e poi vieni liberata coi soldi dello Stato, questi soldi devono essere restituiti?: “Assolutamente si. Per quello che mi riguarda da oggi in avanti, se uno va in terra di terrorismo islamico, perché ricordo che i signori terroristi somali hanno massacrato migliaia di persone, sono cioè quelli che uccisero 148 studenti cristiani entrando in una scuola e chiedendo tu sai il corano, no? Se vai in zone impestate da questi infami, ti esponi ad un rischio. E quindi per quello che mi riguarda da oggi in avanti, chiunque metta a rischio dei suoi volontari, dei suoi lavoratori, ne deve rispondere civilmente, penalmente ed economicamente. Il discorso ovviamente vale per il futuro. Da domani per quello che mi riguarda se vai in zone a rischio, te ne assumi tutte le conseguenze”. Ma Silvia Romano era in Kenya: “Andate a vedere se ti sconsigliano o meno la partenza. E comunque avessero rapito Briatore, e Dio non voglia perché è un amico, secondo voi il riscatto lo avrebbe pagato il governo italiano?” “Io sulla conversione della ragazza non dico niente, perché una ragazza di 24 anni che è stata rapita per 18 mesi, non oso immaginare cosa abbia passato ed in quali condizioni torni a casa. Ma credo che l’Islam sia una religione fanatica. Punto. Poi uno nella vita fa quello che vuole”. Lo dice Matteo Salvini, leader della Lega, a La Zanzara su Radio 24. “Il Kenya, dove Silvia è andata a fare volontariato – dice Salvini – a proposito dei sostenitori dei diritti umani, prevede la galera per gli omosessuali. E prevede la poligamia. Mi dite che è normale? A Silvia va solo la mia solidarietà. Ma posso ritenere che una regione islamica sia incompatibile con i valori e le libertà faticosamente conquistate nelle nostre civiltà?”. Ma ci sono tanti islamici che vivono tranquillamente in Italia: “Se rispettano le nostre leggi, per carità di Dio. Per fortuna lo fanno, perché se applicassero la legge islamica in casa nostra, saremmo messi male”.
Liberoquotidiano.it il 12 maggio 2020. I 4 milioni di dollari pagati dallo Stato italiano per il riscatto di Silvia Romano aiuteranno Al-Shabaab a finanziare le proprie attività terroristiche. Tutto come previsto, insomma. A chiarirlo è lo stesso portavoce dei tagliagole somali, Ali Dhere, in una clamorosa intervista concessa a Repubblica. Quei soldi, ha spiegato al telefono, "in parte serviranno ad acquistare armi, di cui abbiamo sempre più bisogno per portare avanti la jihad, la nostra guerra santa. Il resto servirà a gestire il Paese: a pagare le scuole, a comprare il cibo e le medicine che distribuiamo al nostro popolo, a formare i poliziotti che mantengono l'ordine e fanno rispettare le leggi del Corano". Ali Dhere ha parlato anche della conversione all'Islam di Silvia, che tornata in Italia ha spiegato di volersi far chiamare Aisha. "Da quanto mi risulta Silvia Romano ha scelto l'Islam perché ha capito il valore della nostra religione dopo aver letto il Corano e pregato". "Rispetto per le donne" - Al rapimento della cooperante italiana, ha detto ancora il portavoce, hanno partecipato "decine di persone", ma non è stato organizzato dai vertici del gruppo: "C'è una struttura in seno ad Al Shabaab che si occupa di trovare soldi per far funzionare l'organizzazione, la quale poi li ridistribuisce al popolo somalo. È questa struttura che gestisce le diverse fonti d'introiti". Tra cui, appunto, i rapimenti di occidentali. Il portavoce spiega poi perché Silvia non è stata maltrattata: "Silvia Romano rappresentava per noi una preziosa merce di scambio. E poi è una donna, e noi di Al Shabaab nutriamo un grande rispetto per le donne". "Abbiamo fatto di tutto per non farla soffrire, anche perché Silvia Romano era un ostaggio, non una prigioniera di guerra. I prigionieri di guerra li passiamo per le armi, esattamente come fa l'esercito somalo quando cattura un soldato di Al Shabaab. Prima di giustiziare i prigionieri, le truppe di Mogadiscio li torturano per farli parlare, per estorcere tutte le informazioni possibili sulle nostre postazioni strategiche o sulla struttura di comando del nostro gruppo. Ma i nostri soldati sono addestrati anche a soffrire, perciò molti muoiono sotto tortura senza rivelare nulla. Noi invece non dobbiamo torturare nessuno, perché sappiamo tutto, avendo a Mogadiscio infiltrato i nostri uomini in ogni istituzione, ministero, partito politico e perfino nell'esercito somalo".
(askanews l'11 maggio 2020) – E’ una vera e propria celebrazione quella oggi sui social arabi per la “conversione volontaria” all’Islam di Silvia Romano, la giovane cooperante italiana rientrata ieri in Italia dopo la liberazione avvenuta venerdì in Somalia, a quasi un anno e mezzo dal suo rapimento in Kenya.Su Twitter scorrono decine di post di utenti di Paesi arabi che esprimono “gioia” per la conversione all’Islam della giovane italiana. “Silvia è rientrata ieri nella sua patria dopo 18 mesi dal suo sequestro in Kenya. Grandissima la sorpresa di chi è andato ad accoglierla in aeroporto per il suo vestito somalo e l’Hijab (velo), ma a stordire tutti sono state le parole della ragazza che ha voluto subito annunciare la sua conversione volontaria alla nostra fede l’Islam. Che soddisfazione”, ha twittato @AbuJoriya. “Grazie ad Allah che le ha indicato la retta via dell’Islam”, scrive il saudita @Hamed_Alali, aggiungendo che Silvia “ha lasciato di sasso i responsabili del governo italiano con il velo che portava e le sue parole limpide: ‘Sì, ho abbracciato l’Islam di mia volontà e senza subire pressioni né costrizioni”. Ibrahim El ashhab, invece, dopo aver esultato per “l’impresa dei giovani Mujahidin”, riferendosi ai sequestratori del gruppo radicale islamico el Shabab, si dice compiaciuto per le parole di Silvia: “Mi hanno trattato con umanità e ho abbracciato l’islam nel pieno della mia volontà e facoltà mentali”. “Silvia ha abbracciato l’Islam”, scrive @elhashmy5 prima di aggiungere: “E’ stata una libera scelta che ha lasciato basiti quelli che sono andati ad accoglierla”.
Di Maio: “Silvia Romano è viva, adesso un po’ di rispetto”. Replica Salvini:” “il Governo doveva evitare spot gratuito ai terroristi”. Il Corriere del Giorno l'11 Maggio 2020. Fonti della Farnesina hanno smentito quanto riportato da alcuni organi di stampa, secondo cui l’annuncio della liberazione di Silvia Romano avrebbe sollevato uno scontro tra il ministero degli Affari Esteri e la Presidenza del Consiglio. Il ministro degli Esteri Luigi Di Maio cerca di nuovo visibilità sulla liberazione di Silvia Romano, dopo essere stato offuscato dal premier Conte e con un post su Facebook Commenta: “Silvia è una giovane ragazza che ha vissuto 18 mesi da prigioniera. Prima in Kenya. Poi in Somalia. A soli 23 anni. Grazie all’impegno di donne e uomini dello Stato oggi è nuovamente in Italia, tra le braccia della sua famiglia. E questa è l’unica cosa che conta. Quell’abbraccio intenso, infinito, vero, emozionante di Silvia con il padre, la madre e la sorella ha commosso tutti. Silvia è viva, sta bene. Adesso, per favore, un po’ di rispetto“. Di Maio, posta le foto di Silvia Romano che abbraccia i genitori mentre questa mattina fonti della Farnesina hanno smentito quanto riportato da alcuni organi di stampa, secondo cui l’annuncio della liberazione di Silvia Romano avrebbe sollevato uno scontro tra il ministero degli Affari Esteri e la Presidenza del Consiglio. “La nostra convinzione è che a prevalere sia sempre lo spirito di squadra”, chiosano le stesse fonti cercando di nascondere la verità. Matteo Salvini dissente, intervenendo sulla liberazione di Silvia Romano parlando a Rtl 102.5“Il giorno della festa è il giorno della festa e salvare una vita è fondamentale, ma se mi chiede come mi sarei comportato al Governo io, probabilmente, avrei tenuto un atteggiamento da parte delle istituzioni più sobrio, un profilo più basso. Perché mettetevi nei panni di quei terroristi islamici maledetti che hanno rapito questa splendida ragazza: l’hanno vista scendere col velo islamico, ha detto che è stata trattata bene, ha studiato l’arabo, letto il Corano, si è convertita, in più hanno preso dei soldi, io penso che un ritorno più riservato avrebbe evitato pubblicità gratuita a questi infami che nel nome della loro religione hanno ammazzato migliaia di persone“. “Certo qualche domanda deve avere una risposta. – aggiunge Salvini – In Kenia le donne valgono molto meno dell’uomo perché l’uomo può sposare quante donne vuole e la donna no, visto che c’è la poligamia per legge, e i soldi che sarebbero stati pagati per il riscatto sarebbero stati incassati da questa associazione terroristica Al-Shabaab che con attentati ed autobombe ha ucciso migliaia di persone“.
Fdi: va chiarito il ruolo della Turchia. Critiche sono arrivate anche da Fratelli d’Italia sul ruolo della Turchia nella mediazione per la liberazione della cooperante italiana. “Rimangono comunque molte zone d’ombra – commenta Carlo Fidanza responsabile Esteri e Capodelegazione Ue di Fratelli d’Italia, – a partire dal fatto che per responsabilità di chi ha mandato Silvia Romano ad operare in una zona senza la benché minima sicurezza l’Italia si è trovata a dover pagare un cospicuo riscatto alle milizie islamiste di Al Shabaab e ad affidarsi completamente alla mediazione della Turchia“. E aggiunge: “Il governo chiarisca: dove e come cambia il nostro rapporto con la Turchia dopo la liberazione di Silvia Romano?”.
Silvia Romano, altro che religione: ai terroristi piace il Dio Denaro. Deborah Bergamini su Il Riformista l'11 Maggio 2020. Non hanno rapito Silvia Romano per il Dio Allah. L’hanno rapita per il Dio Denaro. Tanto è vero che si sono ben guardati dal liberarla o tenerla con sé a seguito della sua conversione. Per denaro l’hanno presa, per denaro l’hanno venduta. I soldi sono la divinità dei terroristi di Al Shaabab. Gli stessi soldi che i terroristi fingono di schifare ma che in realtà bramano più di ogni altra cosa. A molti di noi non ha fatto piacere scoprire che Silvia aveva cambiato religione nel corso della sua prigionia. Ma noi, a differenza degli avidi terroristi, non l’abbiamo liberata per ciò in cui crede; l’abbiamo liberata per ciò che per la nostra civiltà rappresenta la libertà. Una libertà che a Silvia-Aisha è stata rubata e che l’Italia le ha restituito pienamente. La libertà non è mai gratis né scontata. Lo abbiamo imparato bene in questi tempi di pandemia. Proprio per questo sarà indispensabile fare tutto il necessario per mandare un segnale forte a chi pensa di arricchirsi andando a caccia di italiani. Per il resto lasciamo in pace Silvia, diamole il tempo e l’assistenza di cui ha e avrà bisogno. Non mi importa ciò in cui Silvia ha deciso di credere. Mi importa che sia davvero libera di farlo. I riscatti che questi “giovani” terroristi si sono fatti pagare non sono altro che la tangente riscossa per venire meno ai loro valori. Tutt’altra storia per quanto ci riguarda. Per noi che siamo figli di una democrazia libera e laica non dovrebbe contare ciò in cui crede Silvia, ma ciò in cui crediamo noi: a partire dalla libertà.
Silvia Romano, Souad Sbai a Quarta Repubblica: "Il riscatto? Dietro c'è qualcosa di più grosso. E se davvero si è radicalizzata..." Libero Quotidiano il 12 maggio 2020. Conversione all'islam e riscatto, Souad Sbai vede del marcio nel caso di Silvia Romano. Ospite di Nicola Porro a Quarta Repubblica per commentare la liberazione della giovane cooperante milanese dopo un anno e mezzo di sequestro in Somalia, l'ex deputata del Pdl attacca frontalmente sbriciolando tabù, segreti di Stato e convenzioni buoniste. Si parte dalla trattativa con al Shabaab, il gruppo jihadista somalo che ha rapito Silvia e che la liberata dietro il pagamento di un riscatto da 4 milioni di dollari. "Quattro milioni non sono niente per questi terroristi - è il drammatico sospetto -, lì c'è stato qualcosa di più grosso". Magari uno scambio di influenze, un riconoscimento di credibilità inimmaginabile per il gruppo terroristico, "incoronato" come padrone del corno d'Africa proprio grazie a questa negoziazione. C'è poi il tema della conversione, indotta forse proprio dai carcerieri anche se Silvia, che oggi vuole essere chiamata con il nome islamico di Aisha, sostiene essere stata assolutamente libera. La Sbai, marocchina di nascita da sempre impegnata contro l'Islam radicale e la violenza sulle donne, ammette il suo disagio: "Sto male perché penso che quel vestito massacra le donne, quel velo ha il significato che siamo sotto ricatto di qualcuno - sottolinea commentando le immagini della Romano atterrata a Ciampino con il velo islamico e l'abito tradizionale somalo, simboli della nuova fede in Allah -. Io sono stata la prima a manifestare per Silvia, se però è stata radicalizzata non c'è ritorno".
Silvia Romano, i soldi del riscatto portano in Qatar: ombre sul "regime che finanzia il terrorismo islamico". Libero Quotidiano il 12 maggio 2020. Emergono dettagli sulla liberazione di Silvia Romano. Sul riscatto, in particolare, né confermato né smentito dal governo. Un riscatto che pare essere stato pagato, è pacifico, per riavere la nostra connazionale 24enne e convertita all'Islam. Dettagli che viaggiano sul Corriere della Sera, dove si fa sapere che la mediazione decisiva è avvenuta in Qatar. Sarebbe infatti nello Stato della penisola araba, come avvenuto in molti altri sequestri, che tra la fine di aprile e i primi giorni di maggio i mediatori hanno consegnato l'ultima prova, decisiva, sul fatto che la Romano fosse in vita. Dunque, il via libera al pagamento del riscatto, che sarebbe avvenuto sempre in Qatar, paese che da anni è al centro di inchieste che tendono a mettere in luce le strette interconnessioni con il terrorismo islamico, tanto da essere definito da più parti "il regime che finanzia il terrorismo".
Silvia Romano, Al Shabaab: “Soldi riscatto per finanziare jihad”. Antonino Paviglianiti il 12/05/2020 su Notizie.it. Il riscatto di Silvia Romano servirà ai rapitori per finanziare la jihad. A dichiararlo è il portavoce di Al Shabaab, Ali Dehere. Il riscatto di Silvia Romano continua a infiammare il dibattito pubblico italiano. La cifra di quanto pagato per poter ottenere la libertà della cooperante rapita a novembre 2018 non è stata resa nota. Le polemiche sul pagamento del riscatto riguardano la possibilità di finanziare gli atti terroristici dei gruppi islamici. E a conferma di ciò arriva un’intervista di La Repubblica ad Ali Dehere, portavoce di Al Shabaab, l’organizzazione terroristica che ha sequestrato Silvia Romano. Sulla cifra realizzata glissa con un no comment, ma sull’uso di questi soldi non ha dubbi: “In parte serviranno ad acquistare armi, di cui abbiamo sempre più bisogno per combattere la jihad. Il resto servirà a gestire il Paese: a pagare le scuole, a comprare il cibo e le medicine che distribuiamo al nostro popolo, a formare i poliziotti che mantengono l’ordine e fanno rispettare le leggi del Corano”.
Silvia Romano riscatto: parla Al Shabaab. Sul rapimento di Silvia Romano Ali Dehere, portavoce di Al Shabaab, racconta: “Al rapimento e alla sua gestione hanno partecipato in tante persone. Non era organizzato: c’è una struttura in seno ad Al Shabaab che si occupa di trovare soldi per far funzionare l’organizzazione, la quale poi li ridistribuisce al popolo somalo. È questa struttura che gestisce le diverse fonti d’introiti”. Sulla durata del rapimento – 18 lunghi mesi di prigionia – il portavoce dei rapitori non si esprime ma evidenzia perché hanno effettuato continui spostamenti: “Siamo in guerra e i droni americani e l’artiglieria pesante keniana non bombardano soltanto le nostre postazioni militari ma anche i nostri i villaggi e le nostre città, provocando un gran numero di vittime civili. Ogni ostaggio è un bene prezioso, quindi appena c’era il minimo rischio che la zona dove tenevamo nascosta Silvia Romano era diventata un possibile bersaglio per i nostri nemici, sceglievamo un altro nascondiglio”. Anche perché lei non era un prigioniero di guerra che vengono trattati diversamente dagli ostaggi: “I prigionieri di guerra li passiamo per le armi, esattamente come fa l’esercito somalo quando cattura un soldato di Al Shabaab. – racconta Ali Dehere – Prima di giustiziare i prigionieri, le truppe di Mogadiscio li torturano per farli parlare, per estorcere tutte le informazioni possibili sulle nostre postazioni strategiche o sulla struttura di comando del nostro gruppo. Ma i nostri soldati sono addestrati anche a soffrire, perciò molti muoiono sotto tortura senza rivelare nulla. Noi invece non dobbiamo torturare nessuno, perché sappiamo tutto, avendo a Mogadiscio infiltrato i nostri uomini in ogni istituzione, ministero, partito politico e perfino nell’esercito somalo”.
DAGONEWS il 14 maggio 2020. Non ci si può fidare neanche dei jihadisti? Sentite cosa scrive Askanews a proposito dell'intervista-colpaccio che aveva pubblicato Repubblica: I jihadisti somali Shebab hanno smentito oggi che il proprio portavoce, Ali Dhere, abbia rilasciato un'intervista a La Repubblica sul sequestro di Silvia Romano, bollata come "fake news". "Non c'è stata nessuna intervista del portavoce con nessun media sul caso Romano", ha detto l'organizzazione al sito SomaliMemo, uno dei canali di comunicazione usati dagli Shebab. Nell'intervista pubblicata due giorni fa da Repubblica, Dhere ha confermato il pagamento del riscatto per la liberazione della cooperante italiana, affermando che i soldi verranno spesi per finanziare la jihad. Beh, siamo andati su questo SomaliMeMo e abbiamo trovato la notizia in apertura. Un bel risciacquo attraverso Google translate – che converte il somalo in inglese meglio di quanto faccia con l'italiano – e abbiamo scoperto altri dettagli. Innanzitutto, che il sito chiama la nostra Silvia Romano direttamente ''Caa'isha Romano'', il nome che ha adottato dopo la sua conversione all'Islam. E vabbè, ci può stare. L'altra cosa che abbiamo capito è che il membro di Al Shabaab che ha parlato con SomaliMeMo considera la ''falsa intervista'' di Repubblica come ''parte della campagna razzista in corso in Italia contro Aisha Romano, sottoposta a numerosi attacchi e minacce per il fatto di essersi convertita''. Insomma, quello che scriveva oggi sul Giornale Gian Micalessin: «La conversione e la tunica verde sono tutti messaggi interpretati come una vittoria dal mondo jihadista in rete. E serve anche ad attirare proseliti da una parte e scatenare gli anti islamici contro Silvia facendola apparire come una vittima». Il piano dei terroristi somali sta funzionando…Ps: il giornalista Fulvio Beltrami sono giorni (da quando è uscita l'intervista) che sottolinea la stranezza dell'intervista. Perché Ali Dhere sarebbe stato ucciso nel 2014. Quindi le cose sono due: o è stata concessa con una seduta spiritica oppure il cronista di Repubblica deve avvertire l'esercito americano, che aveva confermato la morte di Dhere. La Repubblica afferma di aver intervistato per telefono Ali Mohamud Raage nome di battaglia Ali Dhere che è stato ucciso tra il 2014 e il 2019 secondo quanto affermato da governo keniota e dal Pentagono. Se ci fosse registrazione della sua voce sarebbe interessante analizzarla. Sul terrorista Ali Mohamud Raage nome di battaglia Ali Dhere (che in teoria avrebbe rilasciato l’intervista a La Repubblica) c’è un mistero. L’esercito kenyota dichiarò la sua morte nel gennaio 2014. Al Shabaab la confermò nel marzo 2014.
Silvia Romano, Al-Shabaab smentisce Repubblica: "Intervista falsa". Esercito Usa: "Morto nel 2014". Libero Quotidiano il 15 maggio 2020. Una smentita clamorosa, quella a Repubblica. Si parla dell'intervista di due giorni fa ad Ali Dhere, portavoce di Al-Shabaab, in cui spiegava come sarebbero stati usati i soldi ricevuti per il riscatto di Silvia Romano. I jihadisti fanno sapere che non c'è stata "alcuna intervista", così l'organizzazione al sito SomaliMemo, uno dei canali di comunicazione usati dai terroristi. Dagospia ha poi spulciato l'intero intervento sul sito in querstione, dove la ragazza viene chiamata "Cas'isha Romano". Dunque l'intervista viene bollata come "parte della campagna razzista in corso in Italia contro Aisha Romano, sottoposta a numerosi attacchi e minacce per il fatto di essersi convertit". Ma non è tutto. Sempre Dago fa notare che il giornalista Fulvio Beltrami, da quando è uscita l'intervista, sottolinea che Ali Dhere sarebbe stato ucciso nel 2014, uccisione che era poi stata confermata dall'esercito degli Stati Uniti.
"Un morto non rilascia interviste", Al Shabaab sbugiarda Repubblica: "Mai parlato ai media del caso Romano". Silvia Romano, Al Shabaab smentisce l'intervista di Repubblica a Ali Dhere: il portavoce è morto nel 2014 Libero Quotidiano il 14 maggio 2020. L'intervista di Repubblica al portavoce del gruppo terroristico che ha rapito Silvia Romano sarebbe una fake news. A smentire quanto scritto dal quotidiano di Maurizio Molinari è l'agenzia askanews: "I jihadisti somali Shebab hanno smentito oggi che il proprio portavoce, Ali Dhere, abbia rilasciato un'intervista a La Repubblica sul sequestro di Silvia Romano, bollata come fake news. E ancora: "Non c'è stata nessuna intervista del portavoce con nessun media sul caso Romano", ha detto l'organizzazione al sito SomaliMemo, uno dei canali di comunicazione usati dagli Shebab. Nell'intervista pubblicata due giorni fa da Repubblica, Dhere ha confermato il pagamento del riscatto per la liberazione della cooperante italiana, affermando che i soldi verranno spesi per finanziare la jihad. Dello stesso parere anche il giornalista Fulvio Beltrami che su Twitter scrive: "Il 10 gennaio 2014 Ali Mohamud Raage nome di battaglia Ali Dhere viene ucciso dall'esercito keniota in Somalia. il 11 marzo 2014 Al Shabaab conferma. Un morto non rilascia interviste..."
Chi sono i rapitori di Silvia Romano? Ma chi sono i rapitori di Silvia Romano, ovvero l’organizzazione Al Shabaab? “Riduttivo definirci terroristi. Controlliamo gran parte del Paese, soprattutto nelle aeree rurali. Ma siamo presenti anche nelle periferie delle città. Eppure non siamo riconosciuti dalla comunità internazionale, forse perché vogliamo che la Sharia (letteralmente strada battuta, è l’insieme delle regole di vita e di comportamento dettate da Dio per indicare ai suoi fedeli la condotta morale, religiosa e giuridica, ndr) sia legge anche a Mogadiscio e perché chiediamo che le truppe dell’Amison, la missione Unione africana in Somalia, lascino il Paese“. E i nemici di questa organizzazione sono “anzitutto la classe politica corrotta che governa la capitale e che senza la massiccia presenza delle truppe straniere e senza i generosi aiuti degli Stati Uniti spazzeremmo via in due giorni. Ma diamo anche la caccia a tutti i traditori della jihad, che sono quei vigliacchi che per paura rinunciano a combattere”.
Ali Dehere, Repubblica conferma l'intervista al portavoce di Al Shabaab. Pubblicato sabato, 16 maggio 2020 su La Repubblica.it. In merito a quanto riportato oggi dal quotidiano Libero, che fa proprie e rilancia illazioni circolate nei giorni scorsi su Internet in merito all'intervista realizzata al portavoce dell'organizzazione terroristica Al Shabaab, la direzione di Repubblica osserva quanto segue.
1) Conferma che Pietro Del Re ha intervistato lunedì scorso Ali Dehere, portavoce dal 2016 del gruppo jihadista somalo Al Shabaab e appartenente alla tribù Hawiye Murusade. L'uomo è vivo, e non "morto da alcuni anni", come il quotidiano "Libero" vorrebbe. E ne fanno fede le dichiarazioni recenti rilasciate a organi di stampa internazionali che per comodità di consultazione si elencano e che riguardano: la rivendicazione dell'attentato del 30 dicembre scorso con un camion-bomba che ha provocato a Mogadiscio almeno 80 morti. Gli attacchi del 4 marzo contro alcune ong nel nord del Kenya come "invito" ai cooperanti "infedeli" a lasciare la regione. Le dichiarazioni alla BBC del 2 aprile scorso, in piena pandemia di coronavirus, per accusare "i crociati" stranieri di aver introdotto in Somalia il Covid-19.
2) La persona deceduta a cui il quotidiano "Libero" fa riferimento è Ali Mahmoud, l'imam fondamentalista chiamato anche sceicco Cali Dehere, fondatore nel 1996 delle Corti islamiche a Mogadiscio, e morto effettivamente nel 2014. Persona diversa da quella intervistata da Repubblica. Il quotidiano "Libero" incorre dunque in un errore di persona.
3) Pietro Del Re è stato ascoltato come testimone nei giorni scorsi dal Ros dei carabinieri in merito all'inchiesta della Procura di Roma sul sequestro a scopo di Terrorismo di Silvia Romano e in quella occasione ha dato pieno riscontro delle modalità e del contenuto dell'intervista Raccolta dal portavoce di Al Shabaab.
VITTORIO FELTRI per Libero Quotidiano il 16 maggio 2020. Noi di Libero non indossiamo i panni di maestrini e davanti agli errori o agli incidenti dei nostri colleghi non ci stracciamo le vesti. Giunge notizia in redazione che il capoccia del terrorismo islamico intervistato dalla Repubblica, portavoce di Al Shabaab, in realtà non esiste o, meglio sarebbe morto anni orsono. Non siamo in grado di giurare sulla veridicità di questo particolare, in realtà interessante. La suddetta intervista, pubblicata con evidenza sulla prima pagina del giornale diretto da Molinari, succeduto a Verdelli, viene giudicata falsa dai jihadisti e noi prendiamo atto con stupore della smentita resa pubblica ieri con insistenza da varie fonti di informazione. Il giornalista che l' ha diffusa, Pietro Del Re, al momento non ha commentato: non ha detto se il suo lavoro è stato corretto oppure viziato da un imbroglio da lui subito sia pure in buona fede. Tutto può essere successo. Sta di fatto che il suo colloquio circa il rapimento e il rilascio di Silvia Romano sarebbe stato una patacca presa per buona non solo dall' autore dell' articolo, ma anche dalla direzione del giornale. Non è la prima volta che accadono cose del genere, ricordo un caso analogo avvenuto al Corriere della sera al tempo in cui il direttore era Pietro Ostellino. La società è seminata di imbrogli e talvolta ne sono vittime anche cronisti non di primo pelo. La brutta figura in certe circostanze è garantita, ma aggiungiamo che l' insidia della presa in giro è sempre in agguato. Non vogliamo infierire contro i colleghi di Repubblica, ci limitiamo a dire che noi abbiamo intervistato migliaia di personaggi vivi ma uno morto non ci ha mai rilasciato dichiarazioni. Segnalo che il defunto in questione aveva affermato, tra l' altro, che Silvia Romano era un ostaggio, non una prigioniera di guerra, quindi merce preziosa da barattare in cambio di denaro utile a finanziare l' attività terroristica. Le nostre condoglianze a la Repubblica.
Scatta l'allarme: "I soldi per il riscatto di Silvia verranno usati per fare attentati". L'esperto Francesco Marone lancia un chiaro avvertimento: "Non è detto che compri solo armi da fuoco, perché deve pagare i suoi membri e sostenere le sue attività". Luca Sablone, Martedì 12/05/2020 su Il Giornale. La lettura del Corano le è stata suggerita o è nata da un suo intimo desiderio di conoscenza? La conversione è stata naturale o dettata dalle circostanze in cui si trovava? Qual è l'islam in cui crede? Perché è tornata in Italia con un vestito tipico della tradizione somala e coprendosi il volto con il velo? Ha subito violenze? I dubbi sul caso Silvia Romano sono molteplici e ancora privi di risposta: in questa conversione non tornano diversi punti. Ma per il momento c'è una sola certezza: i soldi usati per il riscatto saranno importanti per Al Shabaab, anche se non saranno decisivi. "Arrivano a una grande organizzazione che non è più quella dei tempi d'oro, parlo degli anni fra il 2011 e il 2015, ma che comunque ha ancora migliaia di combattenti". A parlare è Francesco Marone, ricercatore dell'Istituto per gli Studi di Politica internazionale, che ha voluto precisare come a oggi non vi sia alcuna conferma ufficiale, ma è molto probabile che la ragazza fosse nelle loro mani o di qualcuno vicino a loro: "Gli shabaab (in arabo 'i ragazzi') hanno migliaia di guerrieri. Oggi sono radicati solo nelle aree rurali del centro e del sud della Somalia". I denari consegnati per il riscatto della giovane cooperante probabilmente non consentiranno un salto in avanti ma saranno comunque utili. Tuttavia non è ancora noto il numero dei membri del gruppo. Si stima una forza di circa 3mila: "Nell'epoca di massima espansione e influenza erano 10mila".
L'attivismo di Al Shabaab. L'esperto di Africa, nell'intervista rilasciata a Il Giorno, ha sottolineato che la somma è un contributo a una grande entità che fa della violenza un suo punto distintivo: "Non è detto che compri solo armi da fuoco, perché deve pagare i suoi membri e sostenere le sue attività". Si tratta di una cifra notevole considerando gli standard del Paese, nel pianeta uno dei più vicini al concetto di stato fallito: "L'Onu nel 2011 calcolava che i ricavi di Al Shabaab raggiungessero in tutto dai 70 ai 100 milioni di dollari". Il sequestro è un'operazione complessa ma le doti che ha questa organizzazione non sono in discussione, visto che in passato ha messo a segno altri rapimento. Secondo Marone quella ai danni di Silvia Romano è stata un'operazione con fini prettamente economici, ossia di estorsione, e non sarebbe stata un'azione di propaganda: "Non c'erano intenzioni di ricatto politico. In questo caso infatti sarebbero stati diffusi alcuni video". Al Shabaab ha ormai 14 anni e il suo miglior periodo è stato quello compreso tra il 2011 e il 2015, quando arrivò a un passo dalla conquista di Mogadiscio: "In questa parabola discendente ha mostrato attivismo". Anche se non è riuscita a essere stabilmente presente nei grandi centri abitati, negli ultimi mesi è riuscita nell'intento di effettuare diversi attacchi, "nonostante la pressione dei militari somali, della forza armata dell'Unione Africana per il mantenimento della pace, l'Amisom, dei droni statunitensi". Non a caso Donald Trump ha ordinato "un'attività crescente dopo l'uccisione di un contractor e di un soldato americano".
I RISCATTI.
Silvia Romano "salvata dallo Stato, mio marito tradito e ucciso". La vedova di Failla accusa: cosa non torna nei due sequestri. Libero Quotidiano il 31 maggio 2020. Lo Stato italiano ha salvato Silvia Romano, pagando un riscatto, ma ha tradito Salvatore Failla, rapito anche lui in Africa e ucciso dai terroristi il 2 marzo del 2016. Non era un volontario di una Ong o di una Onlus, e forse questo mediaticamente ha pesato. Era uno dei operai della Bonatti sequestrati in Libia per motivi di estorsione. Lui e Fausto Piano sono stati ammazzati, gli altri due colleghi sono tornati a casa sani e salvi. Ma la moglie di Failla, Rosalba Castro, punta il dito contro il governo in carica all'ora, quello di Matteo Renzi. Lo Stato non ha fatto abbastanza, spiega a Repubblica la vedova, "oggi lo penso più che mai". Sotto accusa i "lunghissimi tempi del rapimento durante il quale chi, in Italia, doveva occuparsi della sua liberazione non ha fatto altro che temporeggiare. Eppure sapevano dove era tenuto prigioniero mio marito. Ci hanno imposto il silenzio assoluto anche dinanzi alle ripetute telefonate che ricevevo dai rapitori, senza darci alcuna informazione in merito. Eppure, loro dovevano essere coscienti che prolungare un rapimento significava aumentare le possibilità di un tragico epilogo, come difatti poi è accaduto. Ogni giorno mi tormento di dubbi: e se avessi disobbedito? Se avessi parlato? Magari Salvo ora sarebbe vivo". Non solo: "Durante il periodo del rapimento ci sono stati diversi bombardamenti contro alcuni gruppi di terroristi. Penso che lo Stato avrebbe dovuto attivarsi maggiormente nel creare un dialogo internazionale per evitare questi pericolosi attacchi nelle zone in cui sapevano essere nascosti come prigionieri dei cittadini italiani. Purtroppo non è stato fatto". Il governo e le autorità hanno taciuto anche sulla trattativa per il riscatto: "Il governo ci promise che saremmo stati convocati per avere spiegazioni, ma purtroppo non ci ha mai convocato nessuno. Io, però, non mi arrendo". Finora gli unici condannati dalla giustizia sono i vertici dell'azienda per le mancate misure di sicurezza dei propri dipendenti, ma è una giustizia monca. "Sapere cosa è successo in Libia, solo allora potremo dire che è stata fatta giustizia. Il nostro non è un dolore privato. La morte di Salvo è una faccenda di Stato".
Quanto vale la libertà? Andrea Indini il 13 maggio 2020 su Il Giornale. Quando nel 2011 viene rapita nella provincia meridionale algerina di Alidena, Mariasandra Mariani spiega ai suoi aguzzini, militanti salafiti di al Qaeda che ormai da anni seminano una scia di sangue tra Mali, Mauritania e Algeria, che difficilmente i suoi famigliari sarebbero riusciti a pagare il riscatto, la mettono subito a tacere: “Il tuo governo dice sempre che non paga. Quando torni a casa vogliamo che tu dica alla tua gente che il vostro governo paga. Paga sempre”. In un conflitto prettamente strategico come quello che l’Occidente combatte da decenni contro l’integralismo islamico, si è obbligati a ragionare guardando molto più in là. Un’azione compiuta oggi può avere ripercussioni negative anche dopo settimane, se non addirittura mesi. Per questo gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, da sempre, si rifiutano di pagare i riscatti ai jihadisti. Sanno bene che quei soldi, spesi per salvare una singola vita che è finita nelle loro mani, verranno reimpiegati per finanziare il terrore islamista e costeranno la vita a molte altre vittime. “Gli americani ci hanno detto un sacco di volte di non pagare riscatti. E noi abbiamo risposto che non li vogliamo pagare, ma non possiamo lasciar morire i nostri cittadini”, spiegava anni fa un ambasciatore europeo al New York Times. L’Italia è tra i Paesi che pagano sempre. Sempre. Lo ha fatto nel 2015 per riportare a casa Greta Ramelli e Vanessa Marzullo, le due cooperanti rapite l’anno prima nella Siria divorata dalla guerra civile contro Assad e dai tagliagole dell’Isis. E lo ha fatto nei giorni scorsi per strappare Silvia Romano dai jihadisti di al Shabaab. Quattro milioni di euro. Questa la cifra che Roma avrebbe versato nelle loro tasche. Per molti non c’è limite alla cifra che uno Stato deve spendere per salvare la pelle a un proprio connazionale. Per altri, invece, i soldi non sono la strada giusta. Gli Stati Uniti, per esempio, è vero che non pagano (almeno non ufficialmente), ma sono pronti a mettere a rischio la vita di un pugno di soldati mandandoli sul posto a liberare gli ostaggi. Il punto, infatti, non è la cifra che viene sborsata ma il fatto che, se si paga una volta e lo si sbandiera in giro, i jihadisti sanno che poi si pagherà sempre. Facendo il calcolo degli ultimi sequestri, per esempio, l’Italia avrebbe sborsato circa tra i 30 e gli 80 milioni di euro. Una cifra mai confermata ma che non si dovrebbe discostare poi tanto dalla realtà. Il pagamento del riscatto non solo espone il Paese che paga a nuovi rapimenti. C’è anche un altro dato che è bene tenere a mente. Ce lo ha ricordato il portavoce dei jihadisti somali, Ali Dhere, in una intervista a Repubblica: “In parte (quei soldi, ndr) serviranno ad acquistare armi, di cui abbiamo sempre più bisogno per portare avanti la jihad, la nostra guerra santa”. E la guerra santa di al Shabaab, come di tutte le sigle del terrore islamista, ha una lunga schiera di croci al camposanto. Per questo i volti sorridenti di Giuseppe Conte e Luigi Di Maio rivelano che il governo non ha ben presente che tipo di battaglia stiamo combattendo contro il terrorismo islamico. Perché, se anche in questo momento la jihad è silente, non significa che presto o tardi non tornerà a colpirci. Se, quindi, da una parte lo Stato deve preoccuparsi della sicurezza dei cittadini, dall’altra con il pagamento dei riscatti ai terroristi ne espone altre centinaia al rischio di essere colpiti: qual è, dunque, il prezzo della libertà?
Lettera di "Agente Segreto" a “la Verità” il 13 maggio 2020. Tutti i governi trattano per la liberazione dei loro cittadini presi in ostaggio in teatri esteri: offrono denaro, aiuti umanitari, liberazione di propri prigionieri, importanti fette dei loro interessi nazionali; ma lo fanno in silenzio, attraverso sotterfugi e percorrendo vie tortuose. Si avvalgono di società finanziarie (i cui rappresentanti ricordano fisicamente più ex appartenenti a corpi speciali delle Forze Armate che oscuri impiegati da scrivania), o di grandi enti di importanza strategica (che vengono poi ricompensati con trattamenti di favore non necessariamente in linea con le leggi del libero mercato); stringono patti scellerati con governi di Stati confinanti con quello di interesse (sorvolando sullo scarso rispetto dei diritti umani esercitato da tali governi); forniscono a Stati terzi materiale bellico, anche di armamento, in spregio ad eventuali embarghi che impedirebbero tali trasferimenti. E le trattative a volte non riguardano solo ostaggi ancora in vita, ma anche resti di persone decedute durante la detenzione: perché anche il recupero di una salma può apportare beneficio politico al governante di turno. L' Italia è comunemente additata come uno Stato che paga, solo perché non usa sotterfugi né persegue procedure che possono esporre a futuri ricatti il governo, ma utilizza i fondi riservati che sono destinati alle attività di intelligence. Ma è anche la nazione che per le negoziazioni seleziona attentamente i propri rappresentanti e gli interlocutori, per non rimanere vittima di raggiri: infatti, sinora, le trattative sono andate sempre a buon fine, e non risulta che somme di denaro siano state elargite senza avere in cambio quanto pattuito, né che abbiano raggiunto destinazioni diverse da quelle verso cui erano dirette. Non va poi sottovalutato come l' opzione militare (liberazione con la forza) sia sempre esclusa; nei sequestri operati in danno di petroliere dai pirati somali (argomento stranamente poco trattato dalla stampa), anche quando si sarebbe potuto intervenire con la forza si è sempre optato per la soluzione pacifica, nel solco di una tradizione ormai consolidata. Solo nel caso del sequestro di due operativi del Sismi in Afghanistan (settembre 2007) fu dato il consenso all' azione di forza dei reparti speciali britannici che avevano individuato il nascondiglio: in quel caso, evidentemente, la scelta politica si fondò sul fatto che si trattava di agenti governativi, e come tali «sacrificabili» a differenza dei civili. Nessuna polemica, allora, nessuna protesta: chi mette in gioco la propria vita per lo Stato mette in conto di poterla perdere. Nel discettare di rapimenti e liberazioni, la Rete svolge purtroppo un' opera nefasta, lanciando parole d' ordine di condanna ed esecrazione che prescindono solitamente dalla conoscenza di luoghi, situazioni, circostanze. I particolari di una negoziazione sono giustamente tenuti riservati, e pochissimi ne conoscono asperità ed umiliazioni; per cui ci si aspetterebbe che almeno i giornalisti, quali professionisti dell' informazione, moderassero i termini, anziché accendere micce di maldicenza che vanno poi ad innescare esplosivi la cui potenza distruttiva è ignota; e tutto ciò solo per solleticare la pancia della popolazione, quando non per servire le manovre dei loro referenti politici. Purtroppo, infatti, l' Italia è anche la nazione dove la liceità dell' azione di governo in casi delicati viene ciecamente avallata dalla maggioranza, ed altrettanto ciecamente contestata dall' opposizione, per cui il comportamento adottato da una compagine governativa in un determinato momento storico diventa illecito, criticabile, iniquo agli occhi delle stesse forze politiche che tale compagine rappresentavano ma che nel frattempo sono passate all' opposizione. La mancanza di equilibrio politico nel trattare questioni attinenti all' interesse nazionale sottopone gli operatori della sicurezza (agenti dei Servizi ed elementi della Polizia Giudiziaria) ad una continua altalena emotiva, che finisce per incidere sull' operatività degli stessi, ed inficia gravemente l' immagine del Paese nei contesti internazionali. Ogni cittadino italiano rapito all' estero ha lo stesso valore per lo Stato, che non distingue le circostanze in cui si è verificato l' evento; è singolare, però, come i motivi della presenza della vittima in un determinato luogo incidano poi sulle reazioni politiche che seguono alla sua liberazione: i cooperanti, come spesso anche i giornalisti, vengono additati come incoscienti avventurieri, mentre i turisti vengono inspiegabilmente assolti; per pietà cristiana, i religiosi vengono generalmente «perdonati». Sarebbe piuttosto opportuno che fosse fatto espresso divieto a cooperanti e turisti di recarsi in aree pericolose, prevedendo sanzioni per i trasgressori, anche se tale misura incontrerebbe certamente l' ostracismo dei liberali ad ogni costo. Mentre appare impraticabile la via della polizza assicurativa, dato che sarebbe difficile trovare una compagnia che si assumesse tale oneroso impegno, se non a fronte di premi proibitivi. Quanto infine alle passerelle mediatiche organizzate da rappresentati del governo in occasione dei rientri in patria degli ostaggi liberati, va sottolineato che raramente i politici riescono a sottrarsi al fascino della sovraesposizione; prova ne sia il teatrino approntato per salutare il rimpatrio di un terrorista da anni latitante all' estero, dimentichi dei ripetuti pronunciamenti della Corte Costituzionale in merito alla dignità del detenuto. E chi ieri sorrideva in favore di telecamera, oggi si erge a giudice di chi abbraccia la giovane liberata.
Maurizio Belpietro per “la Verità” il 13 maggio 2020. Caro 007, come da sua richiesta mantengo il riserbo sul suo nome. Di regola non pubblico lettere senza firma, ma in questo caso capisco i motivi per cui è meglio non rivelare la sua identità: un agente segreto per poter svolgere il proprio compito lavora nell' ombra, senza che nessuno possa risalire a lui, se no che agente segreto sarebbe? Detto ciò, condivido molte delle cose che lei scrive, ma non tutte. Comincio dalle prime, così sgombriamo il campo dagli equivoci. So benissimo che molti Paesi offrono denaro, aiuti umanitari o altro in cambio della liberazione dei propri prigionieri. Ma, come dice lei, lo fanno in silenzio, evitando di dare pubblicità alla cosa. Sono ipocriti, come lei fa intendere perché schermano le operazioni dietro società finanziarie o associazioni umanitarie? Può essere, ma quanto meno non fanno pubblicità alla faccenda, evitando di stimolare altri a rapire e chiedere un riscatto. Non pensa che lo spot governativo, cioè una ragazza vestita con lo jilbab, la tunica che sono costrette a indossare le donne islamiche, sia stata una bella propaganda per i terroristi islamici di Al Shabaab? La foto di Silvia Romano sorridente con accanto Giuseppe Conte e Luigi Di Maio ha fatto il giro del mondo, ma soprattutto ha fatto il giro dei Paesi islamici, divenendo la sintesi efficacissima del successo di una banda di tagliagole che inneggiano alla jihad. Quanti proseliti farà quello scatto? Quanti altri integralisti convincerà ad impugnare le armi e a rapire un occidentale minacciando di ucciderlo se non verrà versato un riscatto? Io non dico che si debba ricorrere a sotterfugi o, peggio, a opzioni militari, perché purtroppo l' intervento in zone sconosciute, dove i ribelli sono armati fino ai denti, può risolversi in una catastrofe, con la perdita degli ostaggi e a volte anche la morte dei soccorritori. Ricordo ancora quando un gruppo di teste di cuoio cercò di liberare i 52 diplomatici americani che l' Iran aveva sequestrato dopo aver invaso l' ambasciata a Teheran: otto militari morirono nello scontro fra uno degli elicotteri impiegati nell' operazione e un C130. Sì, in missioni così pericolose, c' è sempre qualche cosa che può andare storto e la vita di un agente governativo non può essere considerata sacrificabile. La morte di Nicola Calipari, il funzionario del Sismi che liberò la giornalista Giuliana Sgrena, dovrebbe far riflettere, soprattutto chi si avventura in zone a rischio senza pensare alle conseguenze. E qui vengo al tema che più mi vede in disaccordo con lei. È ovvio che ogni cittadino ha lo stesso valore per lo Stato italiano. Ci mancherebbe. Ma un conto è essere rapiti mentre si è impegnati in una missione e un conto è fare la missionaria e andarsi a cercare il pericolo. Conosco bene la storia di Gino Pollicardo, uno dei quattro tecnici che furono sequestrati in Libia anni fa. Gino non era in Africa per sentirsi più buono: lavorava in un campo petrolifero per mantenere la sua famiglia e la lontananza da moglie e figli gli costava. La sua non era una gita turistica, in mezzo ai bimbi e ai poveri: era un viaggio con qualche rischio, per questo doveva essere scortato e l' azienda per cui lavorava doveva prendere una serie di precauzioni per la sua sicurezza. Proprio per questo la società per cui lavorava è stata condannata, perché non rispettò le regole nei trasferimenti e questo è costato la vita a due dei quattro tecnici rapiti. Accostare chi va alla ventura convinta che il mondo sia un paradiso e poi quando si trova all' inferno chiede aiuto allo Stato con chi va a lavorare per portare a casa uno stipendio e far arrivare il gas in Italia non è solo sbagliato: è profondamente ingiusto. Lei però su un punto ha ragione ed è che non si possono accusare i cooperanti e assolvere i turisti. È vero, gli uni e gli altri vanno ugualmente condannati, perché i primi sono turisti in cerca di buone intenzioni e i secondi vanno invece a caccia solo di buoni scatti fotografici. Sì, caro il mio 007, gli uni e gli altri li tratterei allo stesso modo in cui si trattano in certi Paesi gli sciatori scellerati che fanno fuori pista. Vai alla ricerca di emozioni forti e poi, quando capita qualche cosa chiedi l' intervento del soccorso alpino? Beh, paga il conto dell' elicottero e della squadra di soccorritori. Mi faccia poi dire due ultime cose. La prima è che in Italia esiste una legge che impedisce di pagare il riscatto, consentendo alla magistratura anche il sequestro dei beni della famiglia del rapito. Ma se un cittadino italiano che paga i rapitori rischia l' arresto, perché un presidente del Consiglio che versa milioni ai sequestratori che useranno i soldi per armarsi e per fare altri sequestri merita l' applauso? Infine, mi spieghi un po', lei che è del mestiere: come mai gli 007 negli altri Paesi hanno licenza di uccidere e qui invece l' unica licenza di cui dispongono è quella di pagare delinquenti e terroristi?
Ps. Naturalmente queste ultime domande mi piacerebbe che il Copasir le rivolgesse anche a Giuseppe Conte. Visto che il premier si è tenuto la delega sui servizi segreti, perché non spiega al Parlamento l' operazione di cui a quanto pare va tanto fiero, al punto da precipitarsi all' aeroporto ad accogliere Silvia Romano quando non accorse nemmeno a Bergamo a salutare le bare dei morti di Covid che venivano portati via dai camion militari?
Gli 80 milioni (mai confermati) forse usati per pagare i riscatti. Indiscrezioni e rivelazioni dubbie. I misteri sui presunti riscatti pagati dall'Italia per il rilascio dei connazionali rapiti. Francesca Bernasconi, Martedì 12/05/2020 su Il Giornale. Ammonterebbe a circa 80 milioni di euro la cifra complessiva mai confermata usata per liberare gli ostaggi italiani che, dal 2004 ad oggi, sono stati rapiti in diversi Paesi del mondo, da Iraq e Siria, a Somalia e Libia. La somma dei riscatti non è mai stata ufficializzata, in nessun caso di rapimento, ma è il risultato di indiscrezioni stampa e rivelazioni raccolte da AdnKronos. Sembra che il governo italiano abbia pagato 4 milioni di euro per riportare a casa Simona Torretta e Simona Pari, sequestrate in Iraq a settembre del 2004 e rilasciate 20 giorni dopo. L'anno dopo, per liberare la giornalista Giuliana Sgrena, che venne rapita e rilasciata nel 2005, invece, sarebbero stati pagati 5 o 6 milioni di euro. Nel 2006 sorsero polemiche per il presunto riscatto per Gabriele Torsello, che rimase 23 giorni nelle mani dei suoi rapitori. Lo stesso Torsello smentì le notizie relative al pagamento del riscatto, ma il fondatore di Emergency confermò ai magistrati che vennero dati ai rapitori circa 2 milioni di dollari. AdnKronos ricorda anche che, successivamente, il pagamento venne confermato anche dall'ex capo dello Stato, Francesco Cossiga: in un'intervista dichiarò che i soldi "sono stati pagati", ma forse anche restituiti all'Italia dalla Gran Bretagna, visto che Torsello viveva "da lungo tempo in Gran Bretagna". Lo stesso anno venne rapito in Afghanistan il giornalista Daniele Mastrogiacomo: tre anni dopo, la Stampa parlò di un riscatto, senza che la notizia venne smentita dal governo. Nel 2008 fu la volta dei cooperanti Giuliano Paganini e Jolanda Occhipinti, rapiti vicino a Mogadiscio. Secondo fonti somale, per il rilascio dei due italiani vennero pagati 700mila dollari, mentre altre fonti parlarono di 100mila dollari. Entrambe le notizie vennero però smentite dalla Farnesina. Nel 2011 vennero sequestrati e poi rilasciati Francesco Azzarà e, successivamente, la petroliera "Savina Caylyn", che ospitava a bordo 5 membri dell'equipaggio. In entrambi i casi, la Farnesina dichiarò che non venne pagato alcuni riscatto, ma nel caso della petroliera, alcuni fonti somale avrebbero parlato di 11,5 milioni di euro. Nello stesso anno venne portato a termine anche il rilascio del mercantile italiano "Rosalia D'Amato", a bordo del quale c'erano sei italiani e 16 filippini, sequestrato al largo delle coste dell'Oman. Anche in quel caso venne negato il pagamento del riscatto. Quattro milioni dollari, invece, potrebbero essere stati dati ai rapitori dell'inviato della Stampa, Domenico Quirico, sequestrato in Siria nel 2013. A gettare dubbi sul pagamento di un riscatto sarebbe stato, in quel caso, il negoziatore che si occupò del rapimento: la rivista Foreign Policy riportò la testimonianza del membro della Coalizione nazionale siriana a Istanbul, che ammise di essere presente al momento della consegna del denaro. Un milione a testa potrebbe essere stata la somma pagata per il rilascio di Marco Vallisa e Gianluca Salviato, due tecnici scomparsi in Libia. Come aveva riferito anche il Giornale.it, invece, sarebbero stati 11 i milioni pagati per il rilascio di Greta Ramelli e Vanessa Marzullo, rapite in Siria nel luglio 2014 e liberate nel gennaio 2015. L'allora ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni, commentò: "Sul presunto riscatto pagato per il rilascio delle due cooperanti italiane, ho letto riferimenti ed indiscrezioni prive di reale fondamento". Secondo quanto ricostruisce AdnKronos, di presunto riscatto si è parlato anche per il rilascio di altri tre italiani rapiti. Si tratta dell'imprenditore Sergio Zanotti, scomparso durante un viaggio in Turchia e liberato nel 2019, dopo tre anni di prigionia. Sarebbe stata la stessa vittima a dichiarare: "Se non fosse stato pagato un riscatto non sarei qui". Sospetti anche su una presunta somma di denaro data ai rapitori di Alessandro Sandrini, il 34enne bresciano sequestrato nell'ottobre 2016 e rilasciato tre anni dopo. Gli ultimi due casi, i più recenti, si riferiscono al ritorno a casa del 31enne Luca Tacchetto, rapito nel 2018 in Burkina Faso insieme all'amica Edith Blais e, infine, a quello di Silvia Romano, la cooperante 24enne, liberata pochi giorni fa, dopo quasi due anni di prigionia. Si tratta, in tutti i casi, di somme di denaro sempre smentite con forza o mai confermate dal governo italiano, frutto soltanto di indiscrezioni e rivelazioni effettuate anche da fonti che si sono rivolte alla stampa.
Silvia Romano? Non solo, il conto per 20 anni di Ong: 30 milioni in riscatto. Libero Quotidiano il 13 maggio 2020. I servizi segreti avrebbero pagato nel corso degli anni e dei sequestri attorno ai 30 milioni di euro. Lo scrive il Giornale citando gli ex ostaggi italiani delle Ong finiti sotto sequestro all'estero in mano ai terroristi. Sono stati tredici per una media di oltre 2 milioni di euro a testa. Per fare tornare a casa Silvia Romano dalla Somalia il riscatto varia, a seconda delle fonti, da 1 milione e 200 mila euro a 4 milioni. Il rilascio delle due Simone (Pari e Torretta) rapite in Iraq nel 2004 sarebbe costato 4 o 5 milioni di dollari. Quattro anni dopo finiscono in ostaggio in Somalia altri due cooperanti, Giuliano Paganini e Jolanda Occhipinti. In questo caso sarebbero stati pagati solo 700mila dollari. Le richieste dei rapitori jihadisti dell'Africa orientale si alzano nel 2011 con il sequestro di Rossella Urru e due volontari spagnoli. Si è parlato di un riscatto di 10 milioni di dollari. Sempre lo stesso anno viene preso in ostaggio nel Sud Sudan il volontario di Emergency, Francesco Azzarà. Il pagamento di un riscatto è come sempre smentito, ma un quotidiano sudanese ha pubblicato la modesta richiesta dei rapitori di 180mila dollari. Un anno dopo finiscono nei guai Paolo Bosusco e Claudio Colangelo catturati in India da una banda armata maoista. Colangelo sostiene, al rientro in Italia: "Nessun riscatto pagato. La mia liberazione è stata un' iniziativa dei sequestratori", ma non aggiunge altro. Nel 2015 per Greta Ramelli e Vanessa Marzullo si parla di un riscatto record che varia da 6 a 12 milioni e mezzo di dollari.
Fausto Biloslavo per “il Giornale” il 13 maggio 2020. Non esistono ricevute o certezze, ma per volontarie allo sbaraglio, cooperanti più seri e umanitari di ogni genere i servizi segreti avrebbero pagato nel corso degli anni e dei sequestri attorno ai 30 milioni di euro. Gli ex ostaggi italiani delle Ong, più o meno strutturate, sono tredici per una media di oltre 2 milioni di euro a testa. Una bella fetta rispetto all' ottantina di milioni che sarebbero stati sborsati da Pantalone per tutti gli ostaggi italiani rapiti in giro per il mondo. Per fare tornare a casa Silvia Romano dalla Somalia il riscatto varia, a seconda delle fonti, da 1 milione e 200 mila euro a 4 milioni. L' unica certezza è che gli Al Shabaab lo utilizzeranno per comprare armi e attaccare i «crociati invasori» come bollano le truppe straniere, compreso un centinaio di soldati italiani a Mogadiscio.
Il rilascio delle due Simone rapite in Irak nel 2004 sarebbe costato 4 o 5 milioni di dollari. Simona Pari e Simona Torretta lavoravano per la Ong italiana «Un ponte per». La banda di sequestratori era composta da ex militari di Saddam Hussein convertiti alla guerra santa contro gli americani. Quattro anni dopo finiscono in ostaggio in Somalia altri due cooperanti, Giuliano Paganini e Jolanda Occhipinti. I connazionali erano impegnati con Cins, una Ong «indipendente riconosciuta dal Ministero degli Affari Esteri Italiano, dalle Nazioni Unite, dalla Commissione dell' Unione Europea e da Usaid». In questo caso sarebbero stati pagati «solo» 700mila dollari.
Le richieste dei rapitori jihadisti dell' Africa orientale si alzano nel 2011 con il sequestro di Rossella Urru e due volontari spagnoli. Si è parlato di un riscatto di 10 milioni di dollari. L'italiana era impegnata in un progetto per le donne del Comitato internazionale per lo sviluppo dei popoli finanziato dall' Unione europea. Sempre lo stesso anno viene preso in ostaggio nel Sud Sudan il volontario di Emergency, Francesco Azzarà. Il pagamento di un riscatto è come sempre smentito, ma un quotidiano sudanese ha pubblicato la modesta richiesta dei rapitori di 180mila dollari.
Un anno dopo finiscono nei guai Paolo Bosusco e Claudio Colangelo catturati in India da una banda armata maoista. Colangelo è un medico e operatore di volontariato, ma Bosusco si occupa di un' agenzia turistica. Gli ostaggi anomali vengono rilasciati in due tappe, dopo quasi un mese di prigionia. Colangelo sostiene, al rientro in Italia: «Nessun riscatto pagato. La mia liberazione è stata un' iniziativa dei sequestratori», ma non aggiunge altro.
Il boom arriva nel 2015 con il ritorno a casa delle due Vispe Terese umanitarie rapite in Siria l' anno prima da sequestratori jihadisti anti Assad. Per Greta Ramelli e Vanessa Marzullo si parla di un riscatto record che varia da 6 a 12 milioni e mezzo di dollari. Mesi dopo il tribunale di Qasimiya, nell' area controllata dai ribelli, condanna un comandante del gruppo integralista Ansar al Islam per essersi appropriato di 5 milioni di dollari del riscatto. Il resto del denaro sarebbe stato diviso dai capi banda locali. Greta e Vanessa sono andate in Siria con un' organizzazione fai da te, «Horryaty (Libertà) -Assistenza sanitaria in Siria». Più attiviste che cooperanti portavano anche kit di primo soccorso militare nelle zone jihadiste.
Il primo rapimento di cooperanti, dopo la caduta del muro di Berlino, avviene nel 1996 in Cecenia. Sandro Pocaterra, Augusto Lombardi e Giuseppe Valenti dell' Organizzazione non governativa «Intersos» sono presi in ostaggio nella repubblica islamica ribelle a Mosca. Grazie alla mediazione di Adriano Sofri e al sistema di potere locale tornano a casa nel giro di due mesi. Allora, però, il prezzo del riscatto per un ostaggio italiano non superava il mezzo milione di dollari.
LA MILIAZIA AL SHABAAB.
La rete di Al Shabaab in Europa. Giovanni Giacalone il 15 giugno 2020 su Inside Over. I quattro africani finiti a processo con l’accusa di aver finanziato il terrorismo jihadista di al Shabaab tramite il meccanismo della Hawala erano parte di una rete che agiva tra Lombardia, Piemonte, Germania e Somalia, come già emerso un anno fa quando i componenti del gruppo vennero arrestati tra Milano, Torino e Cinisello Balsamo su mandato della Procura di Bologna. Tra questi spicca la figura del somalo Rashiid Dubad, titolare di uno status di rifugiato e nato a Jijiga, in territorio etiope, a meno di 50km dal confine con la Somalia settentrionale. Secondo le ricostruzioni, gli inquirenti sono arrivati a Dubad tramite il contatto di un 23enne somalo attualmente in Germania che era arrivato in Italia, precisamente nel trapanese, nel 2016 assieme a un altro somalo, Mohsin Ibrahim Omar “Abu Khalil“, arrestato il 13 dicembre 2018 a Bari per i reati di associazione con finalità di terrorismo, istigazione e apologia del terrorismo, aggravate dall’utilizzo del mezzo informatico e telematico e condannato lo scorso 12 maggio ad 8 anni e 8 mesi di reclusione. I due gruppi ai quali i finanziamenti erano destinati risultano essere i jihadisti di al Shabaab e l’Ogaden National Liberation Front (ONLF), gruppo separatista somalo attivo in territorio etiope. Non è un caso che i quattro arrestati provenissero proprio da quell’area, così come non è insolita la tipologia di meccanismo utilizzato per la raccolta fondi.
La Somalia tra clan e nemici comuni. A primo impatto alcuni potrebbero chiedersi per quale motivo i finanziamenti venivano inviati sia agli al Shabaab, di chiara matrice jihadista e attivi prevalentemente nella parte centro-meridionale della Somalia e all’ONLF che agisce invece con fini separatisti-nazionalisti in un’area in territorio etiope ma abitata in prevalenza da somali di religione musulmana. Ricondurre la cosa alla semplice questione religiosa rischia di fornire un quadro fuorviante, anche perchè è bene ricordare che il salafismo imposto da al-Shabaab è un’ideologia “importata” e certamente non autoctona del contesto somalo e non a caso nelle regioni di Galguduud, Hiraan e Gedo è attivo Ahl al-Sunna waal-Jamaat, gruppo di stampo sufi e operante nel contrasto ad al-Shabaab. In primis è fondamentale tener presente che in Somalia ciò che conta veramente è la questione dei clan; sono le identità, le rivalità e gli interessi clanici a far muovere tutto mentre la religione viene in un secondo momento, per non parlare del concetto di “nazione”. Gli stessi somali, pur riconoscendo che la mentalità clanica è causa di frazionamento, violenza e destabilizzazione del Paese, continuano ad identificarsi in base al clan di appartenenza. Non a caso, ancor prima della Shahada, la testimonianza di fede islamica, fin da giovanissimi ai ragazzini somali viene fatta memorizzare e recitare tutta la genealogia clanica di appartenenza, come illustrato da Schaefer e Black della Jamestown Foundation. Non bisogna dunque stupirsi se clan legati all’ONLF e altri legati ad al Shabaab possano aver stretto alleanze i cui interessi vanno plausibilmente oltre l’aspetto religioso; alleanze che potrebbero tra l’altro facilmente crollare proprio in base a possibili mutamenti di interesse. I miliziani di al Shabaab sono interessati primariamente alle dispute tra clan e ai guadagni promessi dall’organizzazione in caso di arruolamento, dunque il fattore socio-economico svolge un ruolo predominante che scavalca l’ideologia del jihad. Un altro aspetto fondamentale è un vecchio principio ma sempre valido e cioè “il nemico del mio nemico è mio amico”, in questo caso l’Etiopia che intervenne militarmente in Somalia nel 2006 in sostegno del Governo Federale di Transizione, operazione appoggiata dagli Stati Uniti. Al-Shabab risultò allora essere il gruppo armato più competente e capace di far fronte ai militari di Addis Abeba e cercò dunque di sfruttare la situazione inserendosi non solo come organizzazione jihadista ma anche come paladina di un improbabile nazionalismo che si concretizzava invece in sentimento anti-etiope, nel tentativo di acquisire sostegno interclanico con l’obiettivo di combattere contro il nemico comune, l’invasore. In seguito al ritiro delle truppe etiopi nel 2009 però al Shabaab si è trovata ancora una volta a dover fare i conti con le questioni interclaniche, ma con litigi anche all’interno del direttivo jihadista, come quello tra Mokhtar Robow “Abu Mansur” e Abdi Godane “Abu Zubayr” in seguito a rapporti tra il clan di Robow e dirigenti governativi somali che non sarebbero stati digeriti da “Abu Zubayr”. Se da una parte dunque al Shabaab si trova a dover dimostrare alla leadership di al Qaeda (organizzazione di cui fa parte), un concreto impegno nel jihad globale, dall’altra è impantanata in questioni claniche e meccanismi socio-economici tribali di stampo locale che creano più problemi che vantaggi al gruppo.
La questione dei finanziamenti. Le operazioni volte a sradicare i principali canali di finanziamento, scattate con l’oramai nota guerra al jihadismo globale ha reso sempre più difficoltoso il reperimento di fondi da parte di al Shabaab. Come illustrato dagli analisti Ido Levy e Abdi Yusuf, l’organizzazione jihadista somala ha dovuto optare per una serie di attività che vanno dalla pirateria alle estorsioni, dai sequestri di persona all’importazione illegale di auto rubate da rivendere in Somalia, ma anche tramite i “money transfer” e la tradizionale “hawala“. Rispetto ad anni addietro, Al Shabaab fa sempre più fatica a raccogliere denaro tramite la diaspora di simpatizzanti in Europa e questo non soltanto perché nel Vecchio Continente non risultano reti estese e adeguatamente organizzate, seppur non si esclude la presenza di cellule operanti, ma anche perché la diaspora somala è prevalentemente composta da profughi in fuga proprio da quelle dinamiche. Non a caso le informazioni reperite sull’operazione che ha visto coinvolti gli indagati nel milanese indicano cifre che si aggirano intorno ai 10 mila euro ($6.900 più altri 2.777 euro e qualche altro centinaio di euro, da verificare), non una gran cifra. Al Shabaab ha optato prevalentemente per attività criminali in Somalia e nelle zone confinanti perché più facili da attuare e con minor rischio di essere individuati ed arrestati; il sequestro di Silvia Romano parla chiaro. E’ invece differente la situazione nei Paesi dell’Africa come Kenya, Tanzania, Malawi e Nigeria, dove al Shabaab è attiva sia con canali di finanziamento che con il reclutamento.
Al Shabaab è un rischio per l’Europa? È ben plausibile che al Shabaab disponga di simpatizzanti e cellule presenti in Europa con l’obiettivo di raccogliere fondi, del resto l’inchiesta della procura di Bologna lo dimostra chiaramente e sarebbe avventato credere il contrario. Del resto sostenitori di al Shabaab sono entrati in Italia in più occasioni infiltrandosi tra i profughi arrivati via mare, come dimostra anche il caso del già citato Mohsin Ibrahim Omar. Difficile invece dire con certezza se al Shabaab abbia l’intenzione e le capacità organizzative per colpire in Europa. Omar venne arrestato mentre era in fase di progettare attentati contro chiese, in particolare alla basilica di San Pietro, nel giorno di Natale. Il profilo di Omar indica però una radicalizzazione presso una scuola coranica estremista di Nairobi, alcuni passati contatti con al Shabaab e un’adesione all’Isis, non chiaro se in forma strutturale in Somalia o basata su semplice auto-proclamazione. Al Shabaab resta però una formazione di stampo qaedista, mettendo da parte alcune defezioni. Potrebbe dunque essere inopportuno attribuire il piano all’organizzazione jihadista somala. Finora al Shabaab è risultato ben più interessato alle dinamiche locali, allo sfruttamento delle risorse in territorio somalo, ai guadagni in loco e ad attentati perpetrati in Somalia e in Kenya. Vero è che nella galassia del jihad globale le cose cambiano in fretta ed è bene non escludere mai nulla a priori.
Testimonianze dal cuore della Somalia. Daniele Bellocchio il 22 maggio 2020 su Inside Over. A Mogadiscio, in queste ore, è in corso il ramadan; le strade della capitale, dove le donne vendono dolci e samosa da mangiare al tramonto dopo l’ultima preghiera, brulicano di gente. Ed è proprio qui, all’ombra dei minareti, nelle vie trafficate e tra i banchi del caotico mercato che, quando è stato data la notizia della liberazione di Silvia Romano, i cittadini somali hanno applaudito ed esultato. A raccontare com’è stata la reazione della gente di Mogadiscio, all’annuncio del rilascio della volontaria italiana, è Osman Lul, figlia della diaspora, 50enne, arrivata in Italia negli anni Novanta mentre nel Paese del Corno d’Africa infuriava la guerra dei warlords e oggi tornata nella capitale dove ha dato vita a un’associazione che si occupa di aiutare le donne somale. ”Qui a Mogadiscio il rilascio di Silvia e stato accolto molto bene anche perché, dopo un anno e mezzo, le speranze che fosse viva erano minime. Silvia ha 24 anni e ha passato quasi due anni in mano ad Al Shabaab e la gente non immagina cosa voglia dire e chi siano queste persone. Credo che debba sentirsi amata e non oso immaginare quanto abbia desiderato la liberazione e quanto abbia sognato questo ritorno a casa sana e salva”. Mentre nel telefono echeggia, in sottofondo, il salmodiato canto del muezzin, Osman Lul intanto, dalla sua casa di Mogadiscio, prosegue addentrandosi nel merito della conversione di Silvia: ”Ha deciso di convertirsi, non credo sia un problema e anzi va tutelata la sua libertà e la sua scelta. Mi dispiace che sia stata bersaglio di attacchi, insulti e offese persino in sede parlamentare. Silvia ha vissuto a diretto contatto con gente di cui io, donna somala, ho paura anche solo della loro ombra”. Approfondendo quindi cosa significhi vivere a Mogadiscio e sopratutto com’è la vita di una donna in Somalia oggi, Osman Lul spiega: ”Sebbene le donne somale siano la spina dorsale della Somalia essendo loro che hanno guidato l’economia di questo Paese negli ultimi 30 anni, essere donna, oggi, a Mogadiscio, è molto difficile e lavorare è ancor peggio. Si vive alla giornata perché non si sa se ci sarà un domani. Io, per esempio, esco il meno possibile, vivo in modo molto riservato e cerco di apparire molto poco in pubblico ma, nonostante le precauzioni, la paura incombe su tutte noi”. E a proposito di terrorismo, Lul ha poi concluso dicendo: “Il terrorismo lo possiamo sconfiggere soltanto noi perchè i giovani che appartengono a queste sette non sono venuti dal cielo, sono i nostri figli, i nostri nipoti, e escono dalle nostre case e se noi mamme, sorelle, li proteggiamo e li nascondiamo non ne verremo mai fuori. Nessuno ci può aiutare se non noi stessi”. Le parole di Osman Lul si riflettono in quelle di Burhan Dini Farah, direttore dell’emittente di Mogadiscio Radio Kulmiye. Nel 2015, quando ancora era vice direttore della radio che oggi dirige, raccontò a Inside Over, seduto alla scrivania del suo ufficio situato proprio difronte all’ex teatro nazionale della capitale somala, una vita votata all’informazione, alla non accettazione dello sconforto e a quella perseveranza che trasforma l’utopia in pragmatica ragione d’essere. All’epoca parlava così riguardo al suo lavoro e a quello dei suoi colleghi: “Noi seguiamo in modo capillare quanto avviene a Mogadiscio e anche nel resto del Paese, avendo collaboratori in diverse città, ma questo nostro lavoro di denuncia ci ha portato a subire diversi attacchi. I kamikaze dal 2012 ad oggi si sono fatti esplodere all’ingresso della radio, cinque i giornalisti sono morti e molti altri sono stati i feriti”. Oggi, in via telefonica, dalla sede della redazione dove campeggia uno striscione su cui sono impressi, a imperitura memoria, i volti dei cronisti assassinati dai guerriglieri islamisti, il direttore Burhan Dini Farah si è così espresso sull’attuale situazione della capitale somala: “A Mogadiscio, noi giornalisti siamo sempre a rischio. Io sono sopravvissuto a dieci attentati, ho perso l’avambraccio destro durante uno di questi, e non conto più nemmeno le minacce che ho ricevuto in questi anni. Noi giornalisti siamo tutti obiettivi sia di Al Shabaab ma anche del governo dal momento che la Somalia non si può certo definire un Paese democratico e aperto alla stampa. Uno dei motivi per cui Al Shabaab, ancor oggi, riesce a ottenere consensi e ad allargare le sue fila è proprio il fatto che nelle zone sotto suo controllo garantisce i servizi di base e combatte una delle piaghe endemiche della Somalia: la corruzione”. Infine, prima di congedarsi, il direttore di Radio Kulmiye ha concluso dicendo: “Noi giornalisti non abbiamo una vita a Mogadiscio, viviamo in un perenne lockdown tra la casa e la redazione, alcuni addirittura vivono in redazione e non escono mai. Non ho sogni utopici, desidererei solo che i nostri sforzi di raccontare la verità e la realtà del nostro paese, un giorno, venissero ricompensati dalla possibilità di poter passeggiare per le vie della nostra città con le nostre mogli e i nostri figli senza il timore di morire in un agguato”. Parole che riflettono l’ordinaria drammaticità del vivere laddove nessuno vuole che la verità trovi spazio. Abdalle Ahmed Mumin, segretario generale del Sindacato dei giornalisti somali (Somali Journalists Syndicate), ha confermato le parole del direttore di Radio Kulmiye e raccontando la sua storia personale ha ritratto nella maniera più esaustiva possibile la vita nella capitale somala, sospesa in un perenne limbo di sogni infranti e speranze mai vinte, violenza endemica e eroismo silenzioso. “Negli anni Novanta, quando nel mio Paese è scoppiata la guerra, ero un bambino. Non ho potuto nemmeno finire la scuola elementare perché sono dovuto fuggire e per anni ho vissuto in una tendopoli. È stato nel campo profughi in cui ero sfollato che ho avuto la possibilità di studiare, completare il mio percorso di formazione e lì, mentre la sofferenza era la sola costante e vedevo la distruzione del mio Paese, ho pensato che fare il giornalista, raccontare al mondo le ingiustizie che vivevamo io e il mio popolo, potesse essere un modo per aiutare la mia gente”. Abdalle Ahmed è riuscito negli anni a laurearsi, ad affermarsi come giornalista, fu l’unico cronista a raccontare nel 2014 l’omicidio del leader di Al Shabaab Ahmed Abdi Godane, è sopravvissuto a una sparatoria condotta dall’organizzazione affiliata ad Al Qaeda e oggi vive sapendo di essere nel mirino di jihadisti, criminali e anche uomini del governo: “In Somalia la verità non piace a nessuno. I giornalisti uccisi nel 2019 sono stati 18 e la regia degli omicidi spesso si trova nei palazzi di governo non solo nelle basi di Al Shabaab. La nostra vita è sospesa su un filo sottilissimo e siamo consapevoli che in qualsiasi momento potrebbe accadere un’imboscata o un attentato e tutto potrebbe finire, è questa la nostra quotidianità. Però non dobbiamo scordarci che c’è anche un’altra Somalia”. E a tal proposito Abdalle Ahmed Mumin ha concluso dicendo: ”È la Somalia dei giovani che studiano, che chiedono lavoro e che denunciano criminalità, jihadismo e corruzione è la Somalia che ha esultato e festeggiato alla notizia della liberazione di Silvia Romano”.
Al Shabab torna a colpire in Somalia, ucciso un governatore di Mudug. A una settimana esatta dalla liberazione di Silvia Romano, in seguito a un riscatto milionario pagato ad al Shabab, i jihadisti tornano a uccidere nel nord del Paese. Giovanni Giacalone, Domenica 17/05/2020 su Il Giornale. Il governatore della regione semiautonoma somala di Mudug è stato ucciso assieme a tre guardie del corpo nella zona nord della città di Galkayo. L'attentato è stato rivendicato dal gruppo qaedista "Al Shabab" attraverso una dichiarazione pubblicata su un sito jihadista: "Il governatore dell'amministrazione apostata della regione di Mudug è stato ucciso oggi a Galkayo grazie all'operazione di un martire." Secondo testimonianze locali, l'attentatore era a bordo di un taxi-scooter imbottito di esplosivo e si è schiantato contro l'auto del governatore Ahmed Muse Nur facendo così detonare l'ordigno. Vi sarebbero inoltre altre vittime tra i civili, ma il bilancio ufficiale non è ancora stato reso noto. Sul luogo dell'attentato sono sopraggiunti militari somali ed è in corso una caccia all'uomo per individuare gli organizzatori. Nur era governatore di Mudug dal maggio del 2019 e questo è il secondo attentato nei confronti di un rappresentante governativo in meno di un anno; lo scorso marzo infatti era stato ucciso Abdisalam Hassan Hersi governatore della limitrofa regione di Nagaal, con un attacco del tutto simile, perpetrato nei pressi di una stazione di polizia. Anche in quell'occasione l'attentato era stato rivendicato da "al Shabab". Giovedì scorso i qaedisti avevano inoltre provato ad attaccare la base militare di Balikhadar, situata tra Bosaso e Galgala, scatenando così una battaglia che aveva lasciato a terra tre jihadisti e un militare. L'esercito aveva inoltre rinvenuto diversi ordigni esplosivi a Bosaso, arrestando diversi individui sospettati di essere legati all'organizzazione terroristica. L'attentato di oggi a Mudug che ha causato la morte del governatore è stato perpetrato a una settimana esatta dalla liberazione di Silvia Romano, liberazione avvenuta in seguito a un riscatto milionario pagato ad al Shabab.
Al-Shabaab è il gruppo jihadista più feroce in Africa. Sono i rapitori di Silvia Romano. E’ l’Islam più oscurantista che abbiamo nel mondo. Carlo Franza il 13 maggio 2020 su Il Giornale. La rete del terrorismo islamico si presenta ai nostri giorni come un unico, grande network internazionale, con un’unica regia secondo un unico piano di conquista globale del pianeta. La conferma ci giunge, mattone su mattone, come in un grande puzzle, dalle analisi compiute dagli esperti. La notizia della liberazione di Silvia Romano, la cooperante sequestrata nel novembre 2018 nel villaggio di Chakama, in Kenya, da parte dei miliziani dell’organizzazione terroristica somala di ispirazione religiosa islamista “al Shabaab” ci porta a far luce e far conoscere ai nostri lettori una delle organizzazioni politiche di fede islamica più feroce e criminale in Africa, responsabile di una serie infinita di omicidi, violenze, e soprattutto legata organicamente alla “internazionale islamista” di Al Qaeda e dello Stato islamico dell’ISIS. Della crudeltà e della truculenza dei miliziani “al-Shabaab” notizie preziose ci vengono da un’indagine condotta dall’Africa Center for Strategic Studies (aprile 2018), secondo cui al-Shabaab si configura come il gruppo jihadista africano più cruento in assoluto: circa il 58% delle azioni terroristiche di matrice islamica (1,749 su 2,933) perpetrate in Africa nel 2017 sono riconducibili ai militanti di al-Shabaab – responsabili altresì del numero maggiore di vittime (4.834 su 10.535), corrispondente al 46% del totale. Dal 2016, la cellula qaedista somala ha sorpassato Boko Haram per numero di decessi provocati, affermandosi pertanto come il network jihadista più letale in Africa. Ecco chi sono, -ad iniziare dalla storia, dalle origini e dall’evoluzione- questi terroristi somali denominati al-Shabaab. La nascita di al-Shabaab (Harakat al-Shabaab al-Mujahiddin) si inquadra in un singolare contesto storico per la Somalia, contrassegnato proprio dall’esperienza dell’Unione delle Corti Islamiche – una rete di gruppi islamici che nel 2006 ha assunto il controllo di Mogadiscio. Si è cercato nell’autunno 2006 da parte delle truppe etiopi di intervenire in supporto del debole Governo transitorio somalo, determinando la sconfitta e la conseguente dissoluzione dell’Unione. Al-Shabaab, che in arabo vuol dire “gioventù”, iniziò a svilupparsi proprio in questo periodo, emergendo come la fazione islamica più giovane, disciplinata e radicale delle Corti. E con l’uscita di scena di queste ultime, al-Shabaab ha acquisito maggiore immagine, configurandosi ben presto come il gruppo jihadista somalo più strutturato e autorevole. Via via la cellula terroristica ha esteso la sua influenza su vari territori, imponendo alle popolazioni locali una versione molto dura della sharia – la legge coranica. Per quanto concerne l’aspetto ideologico, al-Shabaab ha lasciato leggere la sua duplice anima: una più radicale, influenzata dalla dottrina wahabita tipica dei Paesi del Golfo e un’altra più ‘autoctona’ e nazionalista, che mira alla costituzione di un Emirato nel Corno d’Africa. Nel tempo al-Shabaab ha tentato l’affiliazione con al-Qaeda per acquisire nuove risorse e denaro e per espandere ulteriormente il suo network; gli estremisti terroristi somali hanno dunque intrapreso una stretta collaborazione con il gruppo qaedista guidato da Osama Bin Laden, ma il leader di al-Qaeda preferì non ufficializzare i rapporti con al-Shabaab, sicchè il legame si concretizzò solamente nel 2012 -dopo la sua morte- con Al-Zawahiri al comando. Dopo la sua affiliazione con al-Qaeda, il gruppo somalo si è chiaramente rafforzato e le azioni offensive dei suoi militanti si sono estese anche nel vicino Kenya, paese dove è stata rapita Silvia Romano. Nel 2014, dopo la morte del suo storico leader Abdi aw-Mohamed Godane (ucciso da un raid areo statunitense), al-Shabaab ha vissuto una fase involutiva, di profonda instabilità e le faide interne hanno rischiato di minarne la solidità e la capacità organizzativa. L’ascesa al vertice di Abu Ubaidah ha invece riconsegnato una certa coesione e vitalità al gruppo jihadista. Attualmente, al-Shabaab esercita un forte controllo sull’entroterra somalo, dove dispone di numerose basi operative. E’ proprio da qui che vengono sistematicamente pianificati gli attacchi contro i suoi principali bersagli/obiettivi: le forze dell’Amisom (Missione dell’Unione Africana attiva in Somalia), le rappresentanze diplomatiche e i luoghi frequentati principalmente dagli stranieri. Ecco il teatro di guerra di al-Shabaab. La Somalia rappresenta innegabilmente il principale teatro operativo di al-Shabaab. Negli ultimi anni, i jihadisti hanno perpetrato un ingente numero di attacchi contro una serie di obiettivi specifici a Mogadiscio, tra cui alberghi che ospitano stranieri, posti di blocco militari ed aree adiacenti ai palazzi governativi. L’azione terroristica più cruenta è quella condotta, tramite un auto bomba, davanti ad un hotel non distante dal Ministero degli esteri a Mogadiscio (il 14 ottobre 2017). Il devastante attentato ha provocato la morte di oltre 320 persone (e centinaia di feriti) ed è stato definito il più grave atto terroristico nella storia della Somalia – da alcuni considerato “l’11 settembre somalo”. La capacità operativa/offensiva di al-Shabaab trascende i confini nazionali e trova la propria manifestazione anche in altri stati confinanti. Dopo l’affiliazione con al-Qaeda, il gruppo somalo ha iniziato ad estendere il suo raggio d’azione, compiendo attentati in Kenya. Nel settembre 2013, i fondamentalisti somali hanno rivendicato l’attacco armato al centro commerciale Westgate di Nairobi, che ha cagionato la morte di oltre 60 persone (tra cui diversi turisti stranieri). Un anno e mezzo dopo, nell’aprile 2015, un commando di terroristi di al-Shabaab ha fatto irruzione all’interno della North Eastern Garissa University, università kenyiota situata a soli 150 km dal confine con la Somalia. Il bilancio dell’offensiva è di 150 vittime, tutti cristiani. Un dramma immane, questo di chi ha perso la vita per la sua fede. Poi, esattamente il 15 gennaio 2019 , il Kenya ha vissuto l’ennesimo e ultimo attentato in ordine temporale: alcuni militanti della cellula jihadista hanno preso d’assalto l’hotel Dusit di Nairobi, provocando 15 morti. Tragedie immense perché al-Shabaab mira a destabilizzare l’attività economica kenyota, colpendo i luoghi turistici e le attività commerciali del Paese che costituiscono degli introiti essenziali per le casse statali. Tanti attacchi in Kenia, e l’ostilità degli estremisti somali verso questo paese sono da ricercare nel contributo che il Kenia fornisce (in termini di truppe) alla missione dell’Unione Africana Amisom. A ciò va ricondotto l’attacco perpetrato dai miliziani di al-Shabaab (nel gennaio 2016) contro una base militare dell’Amisom a conduzione kenyota nella località somala di El Adde – circa 150 soldati di Nairobi hanno perso la vita durante l’assalto e si tratta della sconfitta militare più pesante per le Kenyan Defence Forces (KDF). Oltre ai frequenti attacchi in Kenya, al-Shabaab ha rivendicato attentati altresì in Uganda, Etiopia e Gibuti. Negli ultimi anni al-Shabaab si è ritrovato in casa un insidioso concorrente, l’Isis. Nel 2015, uno dei leader spirituali del gruppo jihadista al-Shabaab somalo Abdul Qadir Mumin ( con il suo plotone di una ventina di seguaci) ha giurato fedeltà al Califatto di Abu Bakr al-Baghdadi, provocando una scissione interna al movimento di al-Shabaab. Dopo l’affiliazione a Daesh, Mumim si è rifiugiato nella zona montuosa del Galgala (nella regione del Puntland) e qui sono state allestite le prime basi operative della branca somala dell’Isis. La nuova cellula jihadista, seppur di dimensioni ridotte, è riuscita ad incorporare al suo interno alcuni clan locali esclusi dalle politiche nazionali di Mogadiscio. In più, fanno parte del network terroristico di Mumim anche ex miliziani di al-Shabaab e combattenti dell’Isis provenienti dalla Siria, Iraq e Libia. Lo sviluppo e il consolidamento dello Stato Islamico in Somalia ha destato non poche preoccupazioni tanto che gli Usa hanno intrapreso una serie di raid aerei (con droni partiti dall’Etiopia) contro i membri dell’Isis. Per quanto concerne i rapporti tra i due gruppi fondamentalisti, questi sono chiaramente conflittuali. La leadership di al-Shabaab ha annunciato una ferrea presa di posizione contro Mumim e suoi seguaci, minacciando di morte chi sceglieva di unirsi all’organizzazione rivale, minaccia poi messa in pratica, e facendo si che l’Isis rispondesse con ritorsioni e rappresaglie agli avversari. Ma nonostante queste divisioni interne, la presenza dello Stato islamico, la capacità militare di al-Shabaab non è stata alterata. Lo si vede dagli attentati, dai rapimenti – ultimo quello di Silvia Romano- le truculente violenze portate avanti negli ultimi anni, così estreme, così impressionanti, tali da attribuirgli il primato di essere il gruppo jihadista più letale in Africa. Ora tocca alle nazioni del mondo, ad iniziare dagli Stati Uniti, colpire a morte questo serpente velenosissimo. Carlo Franza
Silvia Romano, Renato Farina e la verità che molti fingono di dimenticare: chi sono i suoi sequestratori. Renato Farina su Libero Quotidiano il 13 maggio 2020. Silvia "Aisha" Romano ha comunicato la sua conversione all' islam. Viva la libertà, sono affari di coscienza. Eppure non si può ridurre quanto è accaduto sotto i nostri occhi a una questione di credo personale. La dottoressa partita per l' Africa non ha deciso di aderire alla sezione somala degli Are Khrisna, con un barracano verde invece che color zafferano. La sua nuova fede, per la natura propria di questa religione, ha la forma di chi gliel' ha comunicata: gli Al Shabaab. Sono spietati assassini. Ricordiamocelo. Questi efferati criminali non sono una gang isterica che questo lo salva, l' altro lo brucia vivo. Non sono predoni ululanti nella foresta. Costoro sono una potenza ideologica armata, hanno negli ultimi anni trasformato l' 80 per cento del territorio della Somalia in uno Stato Islamico sul modello del Califfato di Raqqa. Leggi, commerci, negozi, poste, polizia, scuole, addestramento tattico, lotta corpo a corpo: una specie di paradiso per musulmani radicali che galleggia sul sangue degli sgozzati.
Chiedete a Quirico - Ne è consapevole Silvia? Le testimonianze di chi è stato in mano a lungo a questa gentaglia assassina (vedi Domenico Quirico ostaggio per mesi di Al Qaida, ma si veda su Netflix la serie "Califfato") ha sperimentato la loro abilità nel plasmare le coscienze altrui come argilla. Non do pertanto alcun giudizio sull' intimo traumatizzato di questa giovane donna, sarebbe temerario. Evitiamo però di trattare questa storia come se ci trovassimo davanti ad Alice balzata fuori dal paese delle meraviglie, come ella cinguetta felice. La realtà è un' altra. Silvia è diventata una costola occidentale, una testimonial spaventosa del jihadismo più estremo, forse suo malgrado, ma forse con cognizione di causa. Ci sono tante domande. Alcune le diamo senza rispondere. 1) Se si è convertita liberamente, perché la si è dovuta liberare? Da che? 2) Non è che in fin dei conti siamo stati noi a sequestrarla alla sua "umma", portandola via dalla Casa dell' islam (come diceva il non rimpianto Al Baghdadi)? 3) Non è che è stata liberata contro il suo desiderio, consegnandola all' Occidente, con esiti per la propaganda islamista più potenti di una bomba? 4) Da quando in qua i musulmani fanno schiavi i convertiti alla loro religione? I giannizzeri, erano battezzati convertiti all' islam, ed erano i più fedeli, custodivano il corpo del Califfo... A una domanda siamo in grado di rispondere molto precisamente. Che cosa fanno gli Shabaab (che vuol dire "Giovani") ai cristiani, qualora non abbiano alle spalle la borsa di uno Stato ricco. Sarà bene che qualcuno lo racconti a Silvia, anche se crediamo che da neofita abbia assistito per obbligo di precetto a lapidazioni o sgozzamenti inflitti dal tribunale della Sharia, spettacoli in cui donne e bambini partecipano (anche coi sassi) a scopo pedagogico.
Macellai - Qualcuno per favore abbia la faccia tosta o il coraggio civile di mostrare una fotografia alla convertita, è importante farsi un' idea della statura umana e spirituale dei propri padri spirituali, cara Aisha. Eccellenti macellai, dal cuore indomito, non c' è dubbio. Fa un po' impressione, però. È un cortile coperto di cadaveri di ragazzi come lei, senza l' opportunità di discutere la tesi come fece l' allora Silvia. È un lavoretto che fecero gli Al Shebaab, il 2 aprile 2015, nel campus universitario di Garissa in Kenia, a duecento chilometri da dove la nostra connazionale tre anni dopo sarebbe stata portata via con modi tanto affabili. Ci sono 143 studenti cristiani, ragazzi e ragazze, assassinati perché non in grado di pronunciare qualche versetto del libro sacro che la incantò e che a lei fu donato da quella stessa masnada responsabile dell' eccidio. Aisha dice di costoro: «Mi hanno spiegato le loro ragioni e la loro cultura». Le hanno spiegato anche le ragioni e la cultura di questo massacro che più vile non si può? Ricordo che allora ci fu una forte indignazione degli atenei europei, nel documento - notò un professore universitario, Gian Enrico Rusconi, sulla Stampa - mancava un particolare: che i trucidati erano cristiani, e che proprio per questa colpa erano rei di morte, e che i carnefici erano islamici. Be', li ricordiamo noi ora questi particolari. Gli Al Shabaab hanno questo carattere permaloso. Ammazzano i cristiani. Salvo appartengano a Stati disponibili a chiudere un occhio, se a essere stuprate e schiavizzate sono poverecriste yazide o cristiane africane, ma pronti a ingaggiare 007 turchi e a caro prezzo se la poverina è una islamica italiana.
Cos’è Al Shaabab. Daniele Bellocchio su Inside Over l'11 maggio 2020. La milizia di Al Shabaab è uno dei più grandi gruppi terroristici che opera in Africa. La sua storia nasce da quell’anarchia che regna da decenni in Somalia. Ed è solo dalla storia recente del Corno d’Africa che si può comprendere come questa milizia, fra saccheggi, sangue e affiliazione ad Al Qaeda, sia riuscita a costituire un vero e proprio regno del terrore.
Il fallimento dello stato somalo. Per capire ciò che oggi avviene in Somalia occorre fare un passo indietro, andare a scovare nel passato recente e solo da lì si possono iniziare a tirare i fili dell’intricata ragnatela di problemi che sconvolgono il presente della nazione. Se il nome Al Shabaab è noto a livello planetario e se l’incubo del terrorismo è ormai una condizione sine qua non quando si parla di Somalia, per capire però da dove nasce e dove affonda le radici lo jihadismo nel Corno d’Africa ecco che bisogna ritornare agli anni ’90. L’ex colonia italiana dopo la morte di Siad Barre precipita in una feroce quanto impietosa guerra civile. Sul terreno non si scontrano degli eserciti regolari, ma milizie che i signori della guerra armano e orchestrano. Il Paese diviene lo scacchiere di Aidid, Alì Mahdi e altri warlords e la Somalia precipita in una crisi senza precedenti. Le immagini degli uomini ridotti a scheletri umani di Baidoa fanno il giro del mondo e le violenze fanno propendere l’ONU e gli USA per un intervento sul campo. Nel 1992 sbarcano quindi i primi marines sulle spiagge della capitale Mogadiscio, ma quella che nei programmi doveva essere una missione lampo, chiamata Restor Hope, in realtà si rivela una sconfitta senza precedenti per il contingente internazionale che, infatti, nel 1994 si ritira lasciando il Paese ulteriormente agonizzante. È dunque l’anarchia pura a dettare legge: miliziani armati, jeep con installate mitragliatrici che combattono di quartiere in quartiere, nessun governo centrale e accordi di pace che si sgretolano ancora prima di essere firmati. È in questo contesto che arrivano i finanziamenti dall’Arabia Saudita: nascono nuove madrasse e si moltiplicano le moschee, arrivano imam e, insieme a loro, denaro. I bambini vengono quindi mandati a studiare nelle scuole coraniche dove ricevono insegnamento e nutrimento e le famiglie, in un Paese ormai privo di strutture e in cui il cibo è una ricchezza che non tutti si possono permettere, accettano di buon occhio e senza porsi troppi interrogativi i nuovi predicatori radicali.
Da Al-Ittihad all'Unione delle Corti Islamiche: l'Islam politico in Somalia. Il credo islamista e la militanza fondamentalista prendono dunque piede e nasce il primo movimento islamico dotato di un’agenda politica, in netto contrasto con i signori della guerra. Il gruppo Al-Ittihad Al-Islami occupa e amministra per un breve periodo i porti di Chisimaio e di Merca, dove riesce a ottenere il consenso della popolazione per il rigore dell’amministrazione, in contrasto con i metodi predatori dei signori della guerra. Poi i fondamentalisti occupano Luuq e anche qui trovano il supporto dei cittadini, che vedono nei mujaheddin somali e nella sharia il ritorno di una parvenza di Stato. Al-Ittihad viene però definitivamente sconfitta da un’avanzata etiope nel ’96 ma il solco dell’islamismo in Somalia è ormai tracciato. Dopo Al-Itthiad nasce un nuovo gruppo fondamentalista: l’Unione delle Corti Islamiche che inizia a combattere e vincere contro l’Alliance for Restoration of Peace and Counterterrorism, un’alleanza di warlords supportata dagli Usa, creata in chiave anti islamica. I signori della guerra, tuttavia, nonostante l’aiuto di Washington, perdono terreno e l’UCI prende il controllo di Mogadiscio e, una volta nella capitale, intraprende una vera e propria rivoluzione. Vengono riaperti l’aeroporto e il porto, i check-point cittadini vengono rimossi e le milizie disarmate. Inoltre il diritto islamico esercitato dai giudici dà una parvenza di ordine pubblico e di giustizia in un Paese che da anni ne è orfano. L’Islam radicale ormai si è impossessato del cuore della Somalia e, nel mentre, sta nascendo una fazione di giovani combattenti guidata da Aden Hashi Ayro, che viene battezzata Al Shabaab, “la giovinezza”, appunto. L’Islam inizia a spaventare gli Stati Uniti, che decidono quindi di supportare il governo federale di transizione insieme all’Etiopia, e nel 2006 si arriva all’ennesima invasione della Somalia da parte dell’esercito di Addis Abeba. L’Unione delle Corti Islamiche occupa Chisimaio, che si trovava sotto il controllo della milizia legata a Barre Hiirale, ministro della difesa del governo federale. L’occupazione della città marittima è quindi il pretesto per l’intervento dell’Etiopia, che sconfigge le Corti Islamiche e molti esponenti delle UCI fuggono in Eritrea; ma, se sul campo è una vittoria apparente, quella condotta dagli etiopi insieme al governo federale in realtà è una sconfitta politica. La Somalia, che ha combattuto per oltre trent’anni per l’indipendenza dall’Etiopia, ora rivede la bandiera di Addis Abeba sul proprio suolo e così la popolazione, spinta da un sentimento di identità somala, si appella a Al Shabaab come forza armata di resistenza e opposizione da puntare al cuore del potente vicino.
Al Shaabab , quindici anni di terrore. Al Shabaab è un movimento trasversale, formato da diverse identità claniche alle quali si aggiungono in breve tempo anche forze transnazionali provenienti dalla jihad afghana, dal Pakistan, dall’Arabia Saudita e dal Sudan e saranno proprio queste ultime poi a introdurre le tecniche suicida nel gruppo. Durante il biennio di occupazione etiopica, Al Shabaab allarga le proprie fila, passando da 400 combattenti a diverse migliaia e presenta una struttura interna organizzata, formata da quattro organi di governo: la Shura, una sorta di parlamento composto da 50 membri, l’Al-Da’wa, un organo di predicazione e arruolamento di nuovi miliziani, Al-Hesbah, che è la polizia religiosa, e l’Al-Usra, cioè l’ala militare del gruppo. I successi arrivano. Gli jihadisti occupano Merca, Baidoa, Chisimaio, parte di Mogadiscio e alternano una strategia di guerriglia nelle zone dove comanda il governo somalo, a un controllo amministrativo nelle aree già in loro possesso. Nel 2007, per contrapporsi alla ”gioventù”, viene istituita una nuova missione internazionale a guida dell’Unione Africana: l’Amisom (African Union Mission in Somalia), che per i primi 5 anni si scontra con i terroristi alternando vittorie e sconfitte; poi, nel 2012, il Consiglio di Sicurezza amplia la Missione portando gli effettivi a 17mila uomini e iniziando un’offensiva senza precedenti che porta alla vittoria contro Al Shabaab. Ma la versatilità della jihad somala mostra allora tutte le sue capacità. I mujhaeddin infatti passano alla guerra del terrore con estrema rapidità e iniziano a colpire anche oltre confine. Nel 2012 inoltre stringono un’alleanza con Al Qaeda, affiliandosi alla sigla terroristica con una scelta discussa che provoca contrasti interni all’organizzazione ma che, in un momento critico, si rivela però in grado di garantire rifornimento di uomini, armi e mezzi. Al Shabaab commette errori che vanno da un’applicazione radicale della Sharia all’adottare una visione politica semplicistica che sfocia nel totalitarismo e intanto accusa perdite sul terreno. Sconfitta in campo aperto in Somalia, Al Shabaab allora mette in pratica azioni eclatanti e due su tutte servono a comprendere il grado di preparazione militare e strategica dei terroristi somali che nel settembre del 2013 compiono l’attacco contro il centro commerciale West Gate di Nairobi, dirottando l’attenzione del mondo su di loro e provocando 60 morti e 200 feriti. Alzano poi il tiro dell’efferatezza nell’aprile del 2015, quando assaltano il campus universitario di Garissa in Kenya, uccidendo 150 persone.
Gli Usa contro Al Shabaab. Dal 2017, Al Shabaab è entrata nel mirino degli Stati Uniti dal momento l’amministrazione Trump ha dichiarato guerra aperta ai miliziani somali, dando via a un’ escalation di raid e bombardamenti contro le postazioni degli jihadisti che, da un lato hanno portato alla morte di alcuni dei leader dell’organizzazione, come dimostra l’ultimo attacco sferrato l’8 marzo di quest’anno che ha provocato la morte di Bashir Mohamed Mahamoud sulla cui testa, dal 2008, pendeva una taglia di 5 milioni di dollari. Ma, parallelamente, questo acuirsi dei bombardamenti ha però causato anche un’ingente, e mai bene precisato, numero di vittime civili e questi ”effetti collaterali” altro non hanno fatto che spingere sempre più giovani tra le fila della formazione jihadista. Inoltre Al Shaabab ha adottato la strategia della risposta immediata a ogni raid americano, compiendo quindi sempre più attentati e scaricando le responsabilità delle vittime sulle ingerenze statunitensi nel Corno d’Africa. Negli ultimi 3 anni si sono registrate infatti alcune delle azioni più sanguinarie del gruppo come l’attentato a Mogadiscio del 14 ottobre 2017, in cui hanno perso la vita oltre 350 persone, oppure quello del 29 dicembre 2019, quando il bilancio dell’esplosione di un’autobomba nel centro di Mogadiscio è stato di 81 morti e centinaia di feriti. E non si può dimenticare l’azione condotta da un commando di Al Shabaab in Kenya, il 5 gennaio di quest’anno, durante la quale sono stati uccisi 3 soldati statunitensi. Il 13 febbraio 2020, in una dichiarazione dell’ambasciata americana a Mogadiscio, gli Stati Uniti hanno affermato di voler continuare a fornire assistenza militare all’ esercito somalo e il Country Report on Terrorism 2018 del governo degli Stati Uniti, ha inserito la Somalia tra i rifugi sicuri per il terrorismo in Africa insieme alla regione del Lago Ciad e alla zona trans-sahariana e , dopo il crollo del Califfato in Medio Oriente e l’apertura dei talebani in Afghanistan, queste tre regioni sembrano le aree del mondo deputate a divenire i nuovi territori di espansione dei gruppi integralisti islamici.
Il Coronavirus al servizio del jihad somalo. Negli ultimi mesi, inoltre la formazione Al Shabaab, oltre ad aver intensificato gli attacchi soprattutto contro le forze dell’Amisom, ha dato prova, ancora una volta, della sua incredibile versatilità strumentalizzando pure l’epidemia di Covid per allargare le proprie fila e fare proselitismo. I miliziani somali infatti hanno dichiarato che l’epidemia è diffusa “dalle forze dei crociati che hanno invaso il paese e dai paesi miscredenti che li supportano” e inoltre hanno definito l’infezione una punizione divina contro la Cina per il trattamento riservato alla minoranza musulmana uiguri e contro tutti coloro che perseguitano i musulmani nel mondo. Messaggi pericolosissimi, sopratutto in un Paese come la Somalia dove il tasso di analfabetismo è tra i più alti al mondo, che rischiano di vanificare gli sforzi delle autorità somale per controllare la diffusione del virus. Se l’epidemia dovesse dilagare, a causa anche della retorica estremista di Al-Shabaab, il timore è che gli jihadisti arrivino a impedire qualsiasi intervento umanitario e l’ex colonia italiana si troverebbe quindi in uno stato di disperazione assoluto, stretta tra virus e terrorismo islamico: uno scenario apocalittico senza vincitori ma con un solo grande sconfitto: il popolo somalo.
Guido Olimpio per il ''Corriere della Sera'' l'11 maggio 2020. Gli al Shebaab, gli estremisti che hanno tenuta prigioniera per 18 mesi Silvia Romano, sono uno dei movimenti storici del jihadismo somalo. Radicati sul territorio, capaci di resistere ai loro avversari, in grado di agire anche oltre confine. La fazione, rispetto ad altre componenti africane, ha aderito alla linea qaedista ed è stata tra le prime a far affluire nei suoi ranghi militanti occidentali, compresi giovani somali cresciuti negli Stati Uniti. Alcuni di loro si sono poi tramutati in attentatori suicidi, a conferma di una scelta.
Kamikaze ed estorsori. Traffici, contrabbando, taglieggiamenti rappresentano una buona fonte di finanziamento e quando possono vanno a caccia di ostaggi. I militanti hanno mantenuto un ruolo dominante anche dopo l’apparizione di nuclei filo-Stato Islamico. Il movimento si è affidato alla guerriglia, ha dimostrato di poter travolgere postazioni militari grazie ad una buona combinazione di tattiche. Ha usato i veicoli-bomba in una doppia chiave: per indebolire le difese esterne o per attacchi nelle zone urbane, come a Mogadiscio. In passato i suoi uomini hanno condotto ripetute prese d’ostaggio in Kenya – centro commerciale di Nairobi, una scuola, solo per citare un paio di casi – confermando una dimensione operativa a lungo raggio. Missioni che hanno richiesto un lavoro di ricognizione, appoggi, preparazione.
Le azioni più recenti. Uno degli ultimi episodi ha riguardato una base dell’intelligence Usa vicino a Lamu, sempre in Kenya: nel raid un commando di insorti ha distrutto o danneggiato alcuni velivoli e ucciso tre americani. Quanto ai numeri si parla di 9-10 mila uomini. Nel febbraio 2016, gli al Shebaab hanno alzato di nuovo il tiro cercando di distruggere un jet passeggeri della compagnia Daallo in partenza dalla capitale. La bomba era nascosta all’interno di un computer ed era stata portata a bordo da un kamikaze. Un uomo in carrozzella aiutato da due dipendenti dello scalo, complici dei terroristi. La tragedia è stata evitata perché l’ordigno è deflagrato a bassa quota permettendo al pilota di rientrare. Un segnale chiaro della loro determinazione.
ODIATORI E PARTIGIANI.
Nicolò Zuliani per termometropolitico.it il 13 maggio 2020. ll consigliere Simone Angelosante, riguardo alla liberazione di Silvia Romano, ha dichiarato che “Non ho mai sentito di ebrei che liberati da un campo di concentramento si siano convertiti al nazismo e siano tornati a casa in divisa sa SS”. Il capogruppo della lista civica “Verso il futuro” ha addirittura chiesto che Silvia Romano venisse impiccata. In questi giorni stiamo assistendo a un montare di rabbia verso Silvia che raggiunge vette incredibili, tra cui un commentatore che ha addirittura scritto “non ha scuse”. È straordinario: secondo la folla, Silvia Romano è stata sequestrata per colpa sua. È un fiorire di se l’è cercata, poteva pensarci prima, se fosse rimasta a casa e altre sentenze da veri duri a cui seguono occhiate schifate della popolazione civile.
Ma Silvia Romano non è diversa dalle altre donne rapite. Natasha Kampusch venne rapita nel 1998 quand’era una bambina di 10 anni, e riuscì a fuggire solo nel 2006. Da allora vive barricata in casa perché riceve insulti ogni giorno; è accusata di essere un’approfittatrice, una “gold digger”, di avere ingrandito gli eventi e – ovviamente – di essersela cercata. Stessa storia Elisabeth Fritzl, imprigionata in un bunker sotterraneo a 18 anni dal padre e riuscita a scappare solo a 42 anni. Riceve le stesse accuse, tanto che il suo terzo libro è dedicato proprio all’odio online. E in Italia possiamo ricordare Chloe Ayling, la modella drogata e rapita a Milano che passò la stessa cosa, anche da parte dei giornali. O quello che dissero delle due Simone e delle altre donne sequestrate e liberate. Provate a farvi venire in mente una donna sopravvissuta o scampata a una violenza che non abbia ricevuto accuse o molestie. Non ve ne verrà in mente una sola. Le accuse sono sempre le stesse: 1) Se l’è cercata/meritata 2) Ci stava/le piaceva 3) Non è vero/è tutto organizzato/gombloddo.
Perché la folla giudica come 200,000 anni fa. Chi è debole, chi sbaglia, chi viene sopraffatto, superato o sconfitto, ha torto. Quando le donne venivano aggredite per essere violentate fino a qualche anno fa si domandava se erano riuscite a difendere l’onore o meno. Era importante per la famiglia: meglio una figlia morta onorata che viva e disonorata. Il delitto d’onore permetteva al marito tradito di uccidere la moglie fedifraga e cavarsela con otto anni di galera. In alternativa, la stuprata doveva sposare lo stupratore. In genere le donne sono fisicamente più deboli, quindi già invise alla folla che le guarda con sospetto, perché venera e rispetta solo forza e prevaricazione, e condanna i prevaricatori solo se ha occasione di usare forza e prevaricazione su di loro. Nel caso di Silvia (o di una qualsiasi vittima donna sopravvissuta), per far sì che la folla provi empatia bisogna o fornire i cadaveri dei sequestratori/stupratori e tenere la vittima in ombra o far vedere gli abusi subiti. Solo allora viene accolta come la vergine salvata. Se non fornisci sangue, sperma o sudore la folla si scaglia sulla vittima come risarcimento per la propria attenzione sprecata. Se qualcuno passa alla ribalta deve per forza fornire carne macinata, o sesso, o gente che soffre. Silvia non ha fornito niente del genere, si è fatta vedere felice di essere tornata a casa. La folla non ha visto torture, quindi non ci sono mai state. Di conseguenza la regola è la stessa: se una donna muore, se l’è cercata. Se una donna sopravvive, le è piaciuto.
È disgustoso? Eccome. Cambierà? No. La folla non cambia, fa parte della natura umana ed è proprio questo che rende il rispetto, il silenzio, l’empatia e la compassione dei valori: sono rari e richiedono impegno, capacità d’analisi e d’astrazione dalla folla. I grandi eroi dei social sono quelli che scrivono un commento di pancia, si fermano e lo cancellano prima di pubblicarlo. Non li vedremo mai, non sapremo mai chi sono o quanti sono, eppure esistono.
Dal tripudio all'odio: contro Silvia Romano è il momento del branco. I social che gioivano per la liberazione della giovane italiana rapita in Kenia, dopo le immagini col velo e la notizia della conversione vomitano fango. Michela Marzano su La Repubblica l'11 maggio 2020. Dalla gioia all'odio, dalla commozione agli insulti: sui social, in poco meno di 48 ore, il ritorno in Italia di Silvia Romano è diventato oggetto di scherno, di volgarità, di tifoserie contrapposte, di fango e vomito. Fango e vomito, sì. Perché è sempre lecito discutere, avanzare argomenti di segno opposto, contrapporre sensibilità o visioni alternative del mondo o della vita, ma non è questo che accade oggi sui social, non è questo ciò cui stiamo assistendo. Basta percorrere velocemente i post, i commenti e i tweet, per rendersi conto che è fango e vomito ciò che sta circolando in queste ore. Quando non c'è più nemmeno uno straccio di ragionamento, si esce dall'universo delle opinioni e si entra in quello dell'hate speech, il "discorso dell'odio", quello che non dice, ma fa; quello non spiega, ma offende; quello che non solo incita alla violenza, ma che è già, in sé, una vera e propria forma di brutalità. Perché? Com'è che non si riesce nemmeno più a litigare in maniera civile, e ci sbrana? In Massa e potere, lo scrittore Elias Canetti, premio Nobel per la letteratura, parlava delle masse come di "branchi" in cui ognuno perde la propria specificità, e agisce in maniera irrazionale e incomprensibile. "La determinazione del branco è immutabile e spaventosa", scriveva Canetti. Subito prima di descrivere la logica del linciaggio, quelle esecuzioni sommarie, senza previa condanna giudiziaria, nei confronti di individui ritenuti a priori "colpevoli", frutto spesso di furore e di risentimento ingiustificati. Sui social, sempre più spesso, si assiste a dei veri e propri linciaggi simbolici: ci si accanisce e ci si scanna reciprocamente, ci si odia e ci si insulta. È come se il "branco", data la possibilità di esprimersi liberamente, coagulasse nel giro di poche ore tutta una serie di persone che, prese singolarmente, sono magari pure docili e tranquille. Ma, una volta sui social, la logica del branco le trasforma in aguzzini incapaci di dialogare, incapaci persino di renderci conto degli orrori che proferiscono, lapidando senza pietà chiunque si trovi sul proprio cammino.
Il rientro di Silvia Romano ha scatenato tutto l'odio che sembrava assopito dalla pandemia. Flavia Cappadocia l'11 maggio 2020 su it.mashable.com. Una manciata di ore. È il tempo che ha separato i commenti di gioia per l’annuncio della liberazione di Silvia Romano da quelli violenti e pieni d'odio. A scatenare le polemiche sui social sono state soprattutto le immagini del rientro in Italia della cooperante milanese di 24 anni, rapita 18 mesi fa in Kenya, nel villaggio di Chakama, 80 chilometri da Malindi, mentre seguiva un progetto della Onlus Africa Milele. È stata tenuta in ostaggio in Somalia dagli jihadisti di Al Shabaab, uno dei gruppi terroristici più efferati prima fedele ad Al Qaeda, poi all’Isis. Atterrata all’aeroporto militare di Ciampino, Silvia è apparsa per la prima volta davanti alle telecamere e ai fotografi con indosso l'jilbab, l'abito tradizionale indossato dalle donne musulmane. Un primo elemento che è bastato a dare il via a dispute e commenti, poi rafforzati dalle prime dichiarazioni che la ragazza ha fatto agli inquirenti: “Mi sono convertita all’Islam, il mio nuovo nome è Aisha”. E ancora: “ Ho chiesto dei libri e mi hanno portato il Corano, ho cominciato a leggere per curiosità e poi è stato normale. La mia è stata una conversione spontanea”. "Io mi sono commossa, ho completamente tralasciato quello che Silvia avesse indosso - spiega Giovanna Cosenza, docente di semiotica dei media digitali all’Università di Bologna - questo già ci dice quanto possa essere variabile l'elemento percettivo. In un primo momento ho interpretato quella veste come una protezione, la mia attenzione era su quell'abbraccio alla famiglia". Sui social le condivisioni dei flash mob organizzati a Milano, la città di Silvia, sono state rimpiazzate da una pioggia di hashtag: #Aisha, #sindromediStoccolma, #convertita, #Maometto #corano. Tutto quell’odio che sembrava in qualche modo assopito dallo scoppio dell’emergenza sanitaria del coronavirus è tornato in superficie in pochissimo tempo e a scatenarlo è stata (ancora una volta) una donna. "C'è sempre l'aggravante femminile - afferma Cosenza - siamo in una cultura sessista. Su una donna si va subito a sezionare il corpo: come appare, cosa indossa, quanto pesa". Avevamo assistito a un'ondata d'odio simile per Carola Rackete, la giovane comandante della Sea-Watch arrestata per aver forzato l'attracco della nave con a bordo decine di migranti al porto di Lampedusa, lo scorso giugno. Il concetto alla base è lo stesso: una donna è sempre meglio che resti a casa o che quantomeno non se ne vada in giro per il mondo in posti pericolosi a fare cose altrettanto rischiose, come salvare i migranti o assistere i bambini di un villaggio africano. E se fosse stato un prigioniero uomo ad essere liberato? "Come segno della sua prigionia avremmo visto una barba e poco di più - prosegue la professoressa - Ci sarebbe stata una minore evidenza simbolica. Ma se avesse dichiarato una conversione, su un uomo c'è una maggior assunzione di responsabilità. Un uomo sa quel che fa, per definizione. Ricordiamo che l'Italia si distingue per sessismo, siamo al 76esimo posto su 153 nella classifica del World Economic Forum che ogni anno censisce la parità di genere. Cosa ci tiene in basso? La disparità di trattamento economico. Ma tutto nasce dalla cultura, dal dibattito politico. Pensiamo a tutto il discorso della mancanza di donne nella task force che gestiscono la pandemia". Ad alimentare la polemica anche il tono delle prime pagine di alcuni quotidiani, che hanno preso una posizione netta a riguardo. Il sito di Libero ha persino chiesto agli utenti di votare in un sondaggio che chiedeva loro se fossero stati sconvolti o meno dalla notizia della conversione di Silvia Romano. "Ricordiamo alcune cose di base - spiega ancora la docente - L'aggressività online viene agita tramite uno schermo, questo la rende per forza più truce, più violenta. L'assenza della percezione dell'altro (ci sono tantissimi esperimenti) aggrava moltissimo i toni. L'hater, il peggior troll, messo di fronte alla sua vittima, si comporta in tutt'altro modo. La pandemia poi ci ha ingabbiati, ci ha compressi. Quindi probabilmente la reazione a tutta questa vicenda è stata ancora più violenta per questo motivo". L'immagine di Silvia Romano sembra aver messo in crisi un universo di valori, in cui l'appartenenza al proprio Paese è stata confusa con quella religiosa, che niente ha a che vedere con la cittadinanza. Ci sono, come spesso accade, tanti, troppi punti interrogativi in questa storia che è ancora tutta da scrivere. Eppure, nonostante la mancanza di dati oggettivi sulla liberazione, quei pochi elementi immortalati dalle videocamere sono stati sufficienti per un processo social sommario, ora rivolto contro Silvia Romano, ora contro il Governo, colpevole di aver pagato per il rilascio. Il tempo di attendere, di aspettare di capire, di sapere, non è di questo mondo. C'è stato un tempo invece, era solo pochi giorni fa, in cui siamo stati sospesi, in ascolto. Ma forse non era vero.
Silvia Romano, minacce e insulti social: Procura Milano apre inchiesta. Antonino Paviglianiti il 12/05/2020 su Notizie.it. Migliaia di insulti a Silvia Romano, la cooperante liberata dopo 18 mesi di prigionia. Aperta inchiesta. Gli insulti e le minacce social agli indirizzi di Silvia Romano non passeranno inosservati. È quanto fa sapere la Procura di Milano che, nella giornata di martedì 12 maggio, ha annunciato di aver avviato un’inchiesta in merito ai commenti offensivi che hanno coinvolto la cooperante milanese tornata in Patria dopo 18 mesi di prigionia. Il responsabile antiterrorismo Alberto Nobili, a capo dell’inchiesta, parla di accuse gravissime come “minacce aggravate”: è questo il reato a cui dovranno rispondere i migliaia che da giorni minacciano e insultano Silvia Romano sui social network. Sebbene in tantissimi abbiano accolto con favore il ritorno a casa di Silvia Romano, salutando la notizia con messaggi di giubilo, c’è stato anche chi ha mal digerito la liberazione della cooperante italiana. E continuano ancora i commenti offensivi nei confronti della giovane donna. La colpa di quest’ultima, secondo molti, sarebbe quella di essersi convertita alla religione islamica ed essere costata al Governo italiano soldi che sarebbero potuti essere destinati per altre occasioni. Purtroppo, commenti offensivi non solo sui social network. Nella giornata di lunedì 11 maggio, al Casoretto – quartiere meneghino dove Silvia Romano abita – è apparso un volantino contro la liberazione della cooperante rapita in Kenya nel novembre 2018. “Tanti di noi, stufi di dover pagare i riscatti, specie di questi tempi. Salvare una vita, meritevole, per metterne a rischio molte altre?”. Il volantino è stato strappato in mille pezzi dall’edicolante di zona che si è detto indignato.
Striscia la Notizia svela il terrificante scambio di persona: Silvia Romano, orrore e linciaggio dopo la liberazione. Libero Quotidiano l'11 maggio 2020. Un clamoroso, rovinoso, scambio di persona. Di cui dà conto Striscia la Notizia, il tg satirico di Canale 5, con un video pubblicato sul sito web della trasmissione ancor prima della messa in onda della puntata di lunedì 11 maggio. Uno scambio di persona che riguarda Silvia Romano, la cooperante di 24 anni liberata dopo 18 mesi di prigionia in Africa, tra Kenya e Somalia, in mano ad Al-Shabaab, banda di terroristi islamici. Il punto è che dopo la sua liberazione, su Twitter, in molti si sono spesi in vergognosi attacchi contro la ragazza, sia per la sua conversione all'islam, sia per il fatto che era stato pagato un riscatto. Una tempesta d'odio che è andata a colpire il profilo Twitter di Silvia Romano. Peccato però che fosse quella sbagliata. E lo spiega direttamente Anastasio, il cantante che ha anche partecipato all'ultimo Festival di Sanremo, che direttamente dalla quarantena, rivolgendosi ai suoi follower, spiega che la Silvia Romano che gli haters stavano insultando non è la milanese appena liberata, ma la sua collaboratrice, omonima.
«Quanto è costato il riscatto di Silvia Romano?»: la miseria umana dei sovranisti che si bevono le fregnacce di Salvini. Alessandro D'Amato il 10 Maggio 2020 su nextquotidiano.it. La liberazione di Silvia Romano, annunciata ieri dal governo dopo un rapimento che durava dal novembre 2018, ha risvegliato negli italiani quel sentimento di gioia e felicità che è tipico del popolo del Belpaese. Che, come un solo uomo, si è lanciato subito nella suo domanda preferita: “Quanto ci è costato il riscatto“? Subito dopo l’annuncio infatti i social network si sono riempiti di persone indignate che chiedevano i fondi per i commercianti e la cassa integrazione, ricordando che “basta fare volontariato in Italia per evitare rapimenti, già siamo in un periodo di magra, i riscatti non si pagano con le patatine”. Tra i più interessati al destino e alle sorti della ragazza c’è Marco, che si domanda “chissà quanti soldoni avete sborsato… sempre a calare le braghe davanti al terrorismo”, mentre Sergio chiede par condicio nei confronti degli italiani in difficoltà economica. La giornata è particolarmente dura per taluni, che si sentono evidentemente esclusi da quella fortunella di Silvia, che è stata salvata mentre loro “se la stanno vedendo brutta e sono in pericolo”. C’è poi Francesco che disegna interessanti traiettorie di analisi geopolitica dei fatti, segnalando che visto che non avevamo i soldi per pagare il riscatto l’hanno liberata. E infine Simone, che attende anche lui i soldi della cassa integrazione e il bonus partite IVA, perché evidentemente è insieme un lavoratore dipendente e un professionista. Anche su Twitter la domanda è sempre la stessa: quanto ci è costata la sua liberazione? E allora tanto vale raccontare com’è andata la liberazione di Silvia Romano. Il Corriere della Sera oggi spiega che alcuni informatori locali e gli stessi rapitori che l’avevano catturata nel villaggio di Chakama, a 80 chilometri da Malindi dove lavorava per la Onlus «Africa Milele», avevano raccontato di averla ceduta alla fazione fondamentalista somala dopo un viaggio nella foresta durato settimane_ L’esame del filmato di gennaio conferma la matrice jihadista. Diplomazia e intelligence coordinati dal direttore dell’Aise Luciano Carta capiscono così che il canale aperto per arrivare al gruppo fondamentalista di Al Shabab è buono. Dunque si procede, consapevoli che più passa il tempo più sale il prezzo del riscatto. I servizi segreti somali sono collaborativi, le «fonti» che hanno consentito di procedere sono diverse. Alcune sono state attivate dalla Turchia che ha un controllo forte su quell’area. […] Gli emissari del gruppo indicano come sede della prigione la zona di Bay, nel villaggio di Buulo Fulaay. Dicono che per un periodo è stata chiusa in un grotta con altri ostaggi. Fissano il prezzo finale, dopo i soldi versati per pagare i vari contatti. Non c’è una cifra precisa. […] Nei giorni scorsi un gruppo di 007 si trasferisce in Somalia e affianca chi ha seguito la vicenda sin dall’inizio. Bisogna organizzare l ’appuntamento, avere la certezza che la consegna dell’ostaggio avvenga senza rischi, sapendo bene che quello dello scambio è il momento più delicato. Si sceglie una zona a 30 chilometri da Mogadiscio, di sera. Ci sono esplosioni di mortaio, c’è soprattutto un’alluvione. Comunque si procede. L’incontro viene fissato per venerdì sera. È già notte quando Silvia arriva accompagnata dagli emissari dei sequestratori. È provata fisicamente e psicologicamente. Il viaggio verso la capitale presenta ancora alcuni ostacoli. Ma qualche ora dopo, in Somalia è ancora notte, arriva la notizia che Silvia è finalmente al sicuro in ambasciata. Il Giornale scrive in prima pagina che il costo totale del riscatto è stato di quattro milioni di euro. Repubblica ricorda che non c’è dubbio che quello di Silvia sia stato sin dal principio un sequestro a scopo di estorsione. Una volta che i nostri 007 hanno avuto la prova che fosse in vita, sono partite le trattative per stabilire il prezzo del rilascio. Il governo italiano ha negato almeno per il momento che sia stata versata una cifra per la liberazione, anche se funzionari vicini al ministro degli Esteri somalo Ahmed Isse Awad sostengono che l’Italia abbia pagato ai rapitori una cifra vicina ai 4 milioni di euro. Anche Repubblica conferma la questione del riscatto: Il tweet di Salvini su Silvia Romano e la risposta tipica del sovranista. E sembra certo, seppur non arriva alcuna conferma ufficiale, che per la sua liberazione sia stato pagato almeno un riscatto, visto che la ragazza è passata per non meno di tre covi e nelle mani di molti sequestratori. In una zona, dove sequestri con queste modalità, sono già avvenuti: negli anni scorsi per riavere una loro connazionale, gli inglesi pagarono più di un milione di euro ai terroristi somali. Insomma, sono 4 milioni, ovvero meno di 49. Eppure quelli non li cerca nessuno tra i sovranisti. Chissà perché.
Le incredibili prime pagine di Libero e Giornale su Silvia Romano “islamica”. Dipocheparole l'11 Maggio 2020 nextquotidiano.it. Il buongiorno si vede dal mattino. E il buongiorno che Libero e il Giornale dedicano a Silvia Romano è di quelli da ricordare: due prime pagine in cui non dicono (ma fanno pensare) che la cittadina italiana liberata ieri poteva essere lasciata lì dove stava visto che si è convertita all’Islam. Siccome bisogna guardare sempre le cose in positivo, in primo luogo registriamo l’impeto di sincerità di Vittorio Feltri, che in prima pagina su Libero spiega dov’è il problema con un linguaggio che sarebbe stato considerato retrogrado da un colonialista italiano in Abissinia: Silvia Romano, la giovane milanese rapita in Kenya, è stata liberata e finalmente toma a casa sua, dai genitori. Tutti festeggiano l’evento, anche noi che davanti a una esistenza salvata ci rallegriamo, ci mancherebbe altro. Tuttavia ci sono molti punti su cui vale la pena di ragionare. Chi glielo ha fatto fare alla fanciulla lombarda di recarsi in Africa pur consapevole dei rischi che gli europei affrontano nel continente nero, dominato da fanatici islamisti? Possiamo almeno affermare che ella è stata imprudente, ai limiti dell’incoscienza. Si dice che Silvia si decise a partire animata dal desiderio di compiere del bene in favore dei bambini di pelle scura. Sono persuaso della sua sincerità, eppure vorrei ricordarle che l’Italia è piena di gente bisognosa di soccorso, visto che campa nella miseria. Oltre 50 mila clochard trascorrono le notti all’addiaccio e spesso ci lasciano le penne. Per aiutare i miserabili non è il caso di trasferirsi nella Savana, basta guardarsi in giro pure nel capoluogo lombardo per ravvisare numerosi individui conciati male e meritevoli di assistenza. Si noti infatti che Feltri finalmente dice che il problema non è tanto aiutare i poveracci, ma aiutare quelli “di pelle scura”. E questo non può che costituire un impeto di sincerità per uno dei più autorevoli esponenti della destra italiana, il quale finalmente ammette che il problema non sono loro che sono razzisti, ma che sono quelli ad essere “di pelle scura” (se la prossima volta scrive “negri” è fatta). Sallusti invece riesce ancora a controllarsi e se la prende soltanto con il velo esibito da Silvia Romano al suo ritorno: È come se un internato in un campo di concentramento tedesco fosse tornato a casa, ricevuto con tutti gli onori dal suo presidente del Consiglio, indossando orgogliosamente la divisa dell’esercito nazista. E questo senza contare che oggi, con Silvia al sicuro, possiamo anche dircela tutta: ma che cosa ci faceva una ragazzina inesperta in uno dei posti più a rischio del pianeta? Chi ce l’ha mandata «a fin di bene» è stato un irresponsabile, che ha messo a rischio la vita della ragazza, di chi ha dovuto impegnarsi per liberarla e ora di tante altre persone innocenti, perché la banda di estremisti islamici che ha incassato i quattro milioni dal governo italiano non li spenderà certo in opere di bene, bensì in armi per rafforzare la sua opera di morte e terrore. «A fin di bene» in questa storia non c’è proprio nulla, e nel suo ultimissimo atto, all’aeroporto di Ciampino, sono mancati pure buon senso e rispetto. Abbiamo quattro milioni in meno e, scommettiamo, un’eroina della sinistra in più. Pur di vedere Silvia viva ci va bene pure questo scambio, ma per favore basta retorica. P. stendiamo noi un velo, in questo caso pietoso, non sulla faccia di Silvia, ma su tutta la questione.
Vanoni: "Silvia Romano? Stato ha regalato 4 milioni ai terroristi". La cantautrice commenta causticamente il ritorno in Italia della volontaria rapita in Kenya 18 mesi fa: "Se era così felice poteva restare là..." Alberto Giorgi, Lunedì 11/05/2020 su Il Giornale. Ornella Vanoni non si tira indietro dal commentare causticamente la liberazione e il ritorno in Italia di Silvia Romano, la volontaria milanese rapita il 20 novembre 2018 in un villaggio del Kenya e liberata nei giorni scorsi, dopo diciotto mesi di prigionia. Su Twitter, infatti, la cantautrice ha scritto un post che non è passato inosservato. Ed era infatti difficile che lo fosse per il contenuto, oltre che per l’autrice dello stesso. Questo il messaggio dell’artista musicale: "Se Silvia Romano era così felice, convertita, sposata per sua scelta, ma perché l'avete liberata? Restava là e lo Stato non avrebbe regalato quattro milioni ai terroristi". Vanoni, insomma, fa riferimento alle prime parole rilasciate dalla giovane cooperante, che ha riferito alle autorità italiane di essere stata trattata bene in questo anno e mezzo dai suoi carcerieri, estremisti somali, e alla sua conversione "spontanea" alla religione dell’Islam. Romano, infatti, ha dichiarato di essersi convertita spontaneamente al credo islamico in seguito alla lettura del testo sacro del Corano durante il rapimento. Come noto, Silvia Romano è atterrata all’aeroporto di Ciampino questo sabato indossando una larga e lunga tunica e qui, alla presenza del premier Conte e del ministro degli Esteri Di Maio (quella che secondo Toni Capuozzo è stata una penosa passerella delle istituzioni), ha potuto riabbracciare la famiglia. Nella giornata di oggi, peraltro, la ventiquattrenne ha fatto ritorno a Milano, nella sua casa nel quartiere di Casoretto. Nel post, inoltre, Vanoni si dice per certi versi scettica delle tempistiche della liberazione della volontaria della onlus Africa Milele, avvenuta praticamente in concomitanza con la Festa della Mamma, che cade il 10 maggio di ogni anno: "Altro non so dire, o soltanto: chissà se casuale il suo ritorno per la Festa della Mamma...", ha infatti scritto la cantante, che sembra credere poco alla coincidenza. Il post è stato commentato e condiviso da numerosi utenti Twitter e in molti si sono schierati al fianco della Vanoni, ma non sono mancati altrettanti commenti contrariati al contenuto del messaggio stesso, che invitano l’autrice dello stesso al silenzio. Se #SilviaRomano era così felice, convertita, sposata per sua scelta, ma perché l'avete liberata? Restava là e lo Stato non avrebbe regalato 4 milioni ai terroristi. Altro non so dire, o soltanto : chissà se casuale il suo ritorno per la Festa della Mamma. — Ornella Vanoni (@OrnellaVanoni) May 11, 2020
Enrico Mentana e Silvia Romano convertita: "Ricordate Auschwitz?". L'ambasciata polacca risponde: "Ingiusto, ingiustificato e sbagliato". Libero Quotidiano il 12 maggio 2020. La Polonia attacca Enrico Mentana. Non è Risiko né fantascienza, ma la verità. Il direttore del TgLa7, su Facebook, commentando il ritorno con connessione all'Islam annessa di Silvia Romano era andato giù duro, a modo suo: "A tutti quelli che in queste ore fanno orrendi e insensati paragoni con chi tornò da Auschwitz voglio solo sommessamente ricordare che il campo di Auschwitz sorgeva nella cattolicissima Polonia, e che lo stesso Hitler era cattolico battezzato e cresimato. Provata a riformulare il paragone ora...".
Da ilmessaggero.it il 12 maggio 2020. Ci risiamo. Dopo il caso esploso a inizio dello scorso mese di dicembre, con un post-choc contro il premier Giuseppe Conte sul Mes, il Meccanismo europeo di stabilità o Fondo salva Stati, («In altri tempi sarebbe stato fucilato alle spalle»), il consigliere regionale della Lega e sindaco di Ovindoli, (L’Aquila), il marsicano Simone Angelosante, ci è ricascato. Stavolta nel mirino è finita la liberazione di Silvia Romano, la cooperante milanese rapita in Kenya nel 2018 e tornata proprio ieri in Italia. Angelosante ha preso come spunto un post del Partito Democratico con una foto della ragazza e la scritta “finalmente libera“. A cui il consigliere regionale ha allegato una dichiarazione che ha fatto ben presto il giro d’Italia: “Avete mai sentito di qualche ebreo che liberato da un campo di concentramento si sia convertito al nazismo e sia tornato a casa in divisa delle SS?”. Il riferimento chiaro è agli abiti indossati dalla giovane e alla circostanza che si sarebbe convertita all’Islam, “liberamente”, come avrebbe ammesso. Il post è stato criticato pubblicamente anche dal giornalista Enrico Mentana: "L'autore di questo orrore è stato eletto due volte, a sindaco e a consigliere regionale".
Enrico Mentana su Facebook: A tutti quelli che in queste ore fanno orrendi e insensati paragoni con chi tornò da Auschwitz (come quel consigliere regionale leghista che ha scritto "avete sentito di qualche ebreo che liberato da un campo di concentramento si sia convertito al nazismo e sia tornato a casa in divisa delle SS?") voglio solo sommessamente ricordare che il campo di Auschwitz sorgeva nella cattolicissima Polonia, e che lo stesso Hitler era cattolico battezzato e cresimato. Provate a riformulare il paragone ora...
La risposta dell'Ambasciata polacca: A seguito delle parole del direttore Enrico Mentana riteniamo doveroso sottolineare che affrontando temi così complessi bisogna stare estremamente prudenti, evitare generalizzazioni ingiustificate e penalizzanti che sono sempre pericolose e impediscono un dibattito onesto. E vero che la Polonia ai tempi della Seconda guerra mondiale era molto cattolica. E necessario però, sempre e soprattutto, sottolineare che durante quel conflitto globale la Polonia ERA OCCUPATA DAI NAZISTI, quindi ogni affermazione che può suggerire o far presupporre che Auschiwtz era stato costruito in Polonia, perché essa era cattolicissima, mettendo quindi in relazioni questi due elementi, è PROFONDAMENTE SBAGLIATO, INGIUSTO e INGIUSTIFICATO. Il più grande campo di concentramento è stato localizzato in Polonia, ma certo non per questa ragione, ma piuttosto è in Polonia che viveva il maggior numero di ebrei in Europa e che la posizione era facilmente raggiungibile da trasporti da tutti i territori occupati dai nazisti.
Silvia Romano, affondo di Daniela Santanché: "Si liberi di quello stupido cencio medievale e torni libera". Libero Quotidiano l'11 maggio 2020. Senza peli sulla lingua, in grado di distinguere. Anche Daniela Santanchè commenta la liberazione di Silvia Romano, la cooperante tornata domenica 10 maggio in Italia dopo 18 mesi di prigionia in mano a terroristi islamici. E la pitonessa di Fratelli d'Italia non può fare a meno di prendere le distanze dall'abito tradizionale con cui la 24enne è scesa dall'aereo dei servizi segreti di Ciampino. "Sono contentissima per la liberazione di Silvia Romano - premette -. Ora spero che si sbarazzi di quello che Oriana Fallaci chiamava stupido cencio medievale, per tornare una donna libera a tutti gli effetti", rimarca riferendosi alla scelta dell'abito islamico. In un successivo cinguettio, la Santanchè prende la mira contro il governo: "C'è tanto da chiarire su Silvia Romano alias Aisha (il suo nome da convertita, ndr). È chiaro però che questo governo di dilettanti dicendo di aver pagato un riscatto (anche se ufficialmente il governo non lo ha confermato, ndr) ha messo una taglia sulla testa degli italiani all'estero e messo in pericolo gli 007. Tutto per uno spot, non se ne può più", ha concluso la Santanchè aggiungendo l'hashtag #Conte per rendere esplicito il suo riferimento al premier, Giuseppe Conte.
“Impiccatela”, il post su Silvia Romano di un consigliere venetista. Redazione su Il Riformista il 12 Maggio 2020. Non ci sono solo gli ignoti haters del web a scatenarsi contro Silvia Romano, la 24enne rapita nel novembre 2018 in Kenya e tornata libera venerdì. Gli insulti e le minacce che hanno spinto il pm Alberto Nobili, capo del pool Antiterrorismo della Procura di Milano, ad aprire un’inchiesta, sono arrivati anche dalla politica. Oltre ad alcune uscite ‘sopra le righe’ di alcuni esponenti della Lega, come il deputato Alessandro Morelli che ha pubblicato con la scritta “Liberata?” una foto di Silvia in abito corto accanto a quella della cooperante sbarcata a Ciampino col jilbab, c’è un caso che oggi sta divampando. Si tratta del consigliere comunale di Asolo (Treviso) Nico Basso, venetista, capogruppo della civica “Verso il futuro” ed ex assessore allo sport sempre ad Asolo in una giunta leghista. Basso ha infatti scritto e poi cancellato un post con la foto della 24enne con la scritta “impiccatela”, criticando quindi la decisione di pagare un riscatto per consentire la liberazione della ragazza. Resta invece chiaramente visibile un secondo post con la foto di Silvia e il commento laconico “Libera da chi? Pd di merda”. L’uscita del consigliere non è passata inosservata. Contro di lui si è espresso Mauro Migliorini, sindaco di Asolo, che ha ricordato come la città ha nel suo “dna libertà e accoglienza: esternazioni d’odio, offese alla dignità e alla vita non sono contemplabili né accettabili se vogliamo avere rispetto per noi come pubblici rappresentanti del Consiglio Comunale e come cittadini della nostra comunità”.
L’odio leghista contro Silvia: “Lei islamica? E’ come se Aldo Moro fosse diventato brigatista”. Il Dubbio il 12 maggio 2020. Ancora polemiche contro la giovane cooperante sequestrata e liberata. Troppi insulti social: chiuso il profilo facebook. «Sono felice che abbiano portato a a casa Silvia Romano ma ci sono dei luoghi nel mondo dove andarci è pericoloso. Quindi: si fa un’intesa chiara, che chi si spinge oltre un certo confine poi deve assumersi anche le responsabilità». Il valzer delle polemiche intorno alla liberazione di Silvia Romano, la cooperante italiana rapita in Kenya e liberata sabato scorso, stavolta lo apre il governatore leghista del Veneto Luca Zaia. Il quale aggiunge: «Molti si domandano chi si è assunto la responsabilità di mandare una cooperante in zone come quella? Perchè se poi paga sempre Pantalone…». Ancora più esplicito, se possibile, Alessandro Morelli, deputato leghista e presidente della Commissione Trasporti di Montecitorio. Il quale Morelli, nel criticare la conversione all’Islam della giovane Silvia Romano, tira in ballo niente meno che la tragica vicenda di Aldo Moro: «È come se Moro – spiega – invece che finire ammazzato dalle Br fosse stato liberato, e avesse iniziato a fare politica a favore della lotta armata». E ancora: «O se Farouk Kassam avesse chiamato Dio il carceriere che gli ha tagliato l’orecchi», conclude, riferendosi al bimbo rapito nel 1992 a Porto Cervo, a cui fu tagliato dai rapitori il lobo di un orecchio prima della liberazione, in seguito al pagamento di un riscatto. Nel frattempo, dalla famiglia Romano, chiedono silenzio e rispetto: «Come sta Silvia? Come vuole che stia? Provate a mandare un vostro parente due anni là e voglio vedere se non torna convertito». «Usate il cervello. Vogliamo stare in pace, abbiamo bisogno di pace».Ma i professionisti dell’odio social hanno indotto i familiari della giovane a chiudere profilo Facebook di Silvia a causa dei numerosi insulti ricevuti soprattutto a fronte della sua conversione religiosa. Il profilo della cooperante milanese, liberata lo scorso 9 maggio dopo 18 mesi di prigionia, non è più visibile.
Silvia Romano, la foto del leghista Morelli scatena l'inferno: "Liberata?", dalla minigonna all'abito tradizionale. Libero Quotidiano l'11 maggio 2020. Un post del leghista Alessandro Morelli su Silvia Romano scatena una violentissima polemica. L'esponente del Carroccio ha pubblicato due foto della ragazza: una prima del rapimento, che la ritrae in vestitino blu e tacco alto, l'altra di poche ore fa, in abito tradizionale somalo dopo la liberazione al termine del lungo rapimento. E a corredo delle foto, Morelli scrive una singola parola: "Liberata?". Poi l'hashtag #Aisha, ossia il suo nome da convertita. Chiaro il significato della domanda: il leghista si chiede se quella di Silvia Romano convertita all'Islam possa considerarsi una vera liberazione. Post crudo, durissimo, che ha scatenato una rappresaglia su Twitter. Critiche e insulti, qualcuno lo invitava ad andare a fare la terza media, poi chi scriveva: "Poteva andarle peggio, poteva risvegliarsi leghista". Il post, comunque, è stato condiviso anche dal profilosocial Lega-Salvini premier.
Se la minigonna rende liberi: il tweet del leghista su Silvia Romano che indigna il web. Antonio Lamorte su Il Riformista l'11 Maggio 2020. È una specie di gioco di parole quello di Alessandro Morelli. Il giornalista, deputato della Lega, ha postato sui social una foto di Silvia Romano, la 24enne cooperante milanese, sequestrata per 18 mesi dai terroristi islamici di Al Shabaab e tornata in Italia, dopo la liberazione, domenica 10 maggio. Un collage più che una foto: perché nel post di immagini ce ne sono due. Un vero e proprio confronto tra il prima e il dopo che ha scatenato da subito molte critiche. A sinistra, Silvia Romano con un abito corto blu. A destra, l’immagine della cooperante appena sbarcata all’aeroporto di Ciampino, a Roma, dopo essere stata liberata. E quindi con un largo jilbab, abito della tradizione somala e musulmana. “Liberata?”, scrive Morelli. Facendo riferimento all’operazione, condotta dai servizi italiani dell’Aise con i servizi turchi e somali, che ha messo fine a 535 di prigionia tra Kenya e Somalia. E quindi alla conversione di Silvia Romano alla religione musulmana, dichiarata dalla stessa 24enne all’intelligence e nell’interrogatorio, davanti al pubblico ministero Sergio Colaiocco e ai carabinieri del Ros, al suo ritorno in Italia. Una conversione avvenuta senza violenze e senza costrizioni, ha dichiarato Romano. Alla psicologa alla quale è stata affidata dopo la liberazione, riporta il Corriere della Sera, ha rivelato il suo nuovo nome dopo la conversione: Aisha. Dopo le prime speculazioni sul riscatto e sull’ammontare del presunto riscatto, dopo le prime pagine dei giornali che parlano di Romano come di un'”ingrata” e della conversione manco fosse un tradimento, l’attenzione torna quindi sul corpo. Il corpo della donna. In questo caso reduce da un’esperienza atroce e indescrivibile. In merito alla quale solo la protagonista potrà trovare, e forse non da subito, parole adeguate – anche se lei stessa ha detto, queste le sue prime dichiarazioni dopo l’atterraggio, di stare bene sia psicologicamente che mentalmente. Un corpo che dunque non è degno se coperto da una tunica islamica, un corpo che non va bene quando è vestito sempre uguale come nel caso di Giovanna Botteri, un corpo che non è giusto se ha qualche chilo in più o in meno come Adele, un corpo che incita allo stupro se coperto troppo poco. Ma certo non in questo caso: in questo caso la libertà starebbe nella minigonna. E non nella possibilità di scegliere cosa indossare.
«Se Silvia Romano si è convertita all’Islam poteva restare dov’era»: il buon cuore “italiano” dei leghisti. Nextquotidiano.itil 10 Maggio 2020. Matteo Salvini non ha fatto in tempo a dire da Lucia Annunziata che “nulla accade gratis ma non è il momento di chiedere chi ha pagato cosa” e già i fans della Lega sui social hanno trovato il modo comunque di mettere alla gogna la cooperante appena atterrata a Ciampino pubblicando la replica di Silvia in cui conferma la sua conversione volontaria all’Islam. Il partito di Salvini non ha avuto bisogno di esprimere biasimo per la scelta di Silvia. E’ stato sufficiente riportare un’agenzia di stampa. La Romano, subito dopo la liberazione ieri in Somalia, avrebbe fatto riferimento alla sua possibile conversione all’Islam ma senza voler dare ulteriori indicazioni: “Prima ne voglio parlare con la mia famiglia”. Poi oggi ha spiegato: “E’ vero, mi sono convertita all’Islam. Ma è stata una mia libera scelta, non c’è stata nessuna costrizione da parte dei rapitori che mi hanno trattato sempre con umanità. Non è vero invece che sono stata costretta a sposarmi, non ho avuto costrizioni fisiche né violenze”. La storia di Silvia Romano costretta al matrimonio islamico era stata raccontata da Luca Fazzo sul Giornale. Come i cani dell’esperimento di Pavlov però i leghisti in ascolto non hanno deluso le aspettative. Il presunto riscatto pagato per la liberazione di Silvia è stato sprecato visto che si è convertita. E visto che si è fatta una vacanza ed è tornata per salutare i parenti “tanto valeva che prendesse un aereo di linea”, mentre c’è chi fa notare che se è così ha finanziato i suoi rapitori. Naturalmente tutti hanno capito che la donna si è sposata nel paese in cui era detenuta, anche se questo per ora non sta scritto da nessuna parte: la Romano ha solo negato di essere stata costretta a sposarsi. In molti intendono la frase sul matrimonio come se Romano si fosse “sposata volontariamente” e ovviamente tirano fuori subito alti ideali: “Se stavi a casa tua ci risparmiavi un sacco di euro. Sicuramente tornerai là. Io ti avrei lasciato lì, nessuno ti ha obbligato ad andarci”. Infine c’è chi è seriamente preoccupato perché il ritorno di Silvia Romano potrebbe essere un punto del Piano Kalergi e scatenare un’invasione: “E perché sei voluta tornare visto che è stata una tua scelta perché magari ci porti qui la famiglia di tuo marito e per fare entrare più migranti di quanti già ce ne sono? Tanto poi paga nino tanto noi siamo i vostri schiavi vero? Questi fanno proprio i c… loro, che schifo”. E che le vuoi dire, a Giuseppina, se non “Ok, boomer!”?
Bufale, calunnie e richieste di arresto: il benvenuto sovranista a Silvia Romano. Non ha fatto in tempo a scendere dal volo militare dopo un anno e mezzo di prigionia, che una cospicua parte del Paese si è lasciata andare al suo peggio. Dall'affondo di Salvini («Nulla accade gratis») a Vittorio Sgarbi («o si pente o è complice») una raccolta da non credere. Della serie, siamo contenti ma...Wil Nonleggerlo l'11 maggio 2020 su L'Espresso. C’è chi propone di ammanettarla per “concorso esterno in associazione terroristica”, chi la definisce “ingrata” e chi “amica dei terroristi”. C’è chi sospetta sia diventata una fondamentalista, ignorando le parole della volontaria milanese su una conversione “avvenuta liberamente”. C’è chi sguazza su voci tutte da verificare e alimenta bufale conclamate - vedi matrimonio e gravidanza - subito smentite dalla 25enne. “Ora porti in grembo il figlio di un terrorista”, il post di un noto saggista ed ex deputato europeo, solo per darvi un indizio di fin dove ci si è spinti. Questo il trattamento riservato a Silvia Romano da una cospicua parte di Paese istituzional-sovranista: le sono bastati pochi minuti, il tempo di scendere da quel volo militare dopo 536 giorni di prigionia - 18 mesi, un anno e mezzo - per scoprire di essere sì nel cuore di milioni di italiani, ma anche in tante viscere.
Arrestatela! “Se mafia e terrorismo sono analoghi, e rappresentano la guerra allo Stato, e se Silvia Romano è radicalmente convertita all’Islam, va arrestata per concorso esterno in associazione terroristica. O si pente o è complice dei terroristi” (Vittorio Sgarbi, parlamentare del gruppo Misto, su Facebook - 10 maggio)
All’islamica. “Certo, vedere scendere Silvia Romano dal volo di Stato italiano vestita all’islamica... ehm... sentire poi che è sempre stata trattata bene e che durante la prigionia si è pure convertita all’Islam...” (Matteo Salvini durante la tradizionale live notturna su Instagram - 11 maggio)
L’ingrata. “Schiaffo all’Italia: islamica e felice, Silvia l’ingrata”. “Abbiamo pagato 4 milioni per salvarla, ma la volontaria è tornata con la divisa del nemico jihadista” (Il Giornale, prima pagina)
In abiti nazisti. “È come se un internato in un campo di concentramento tedesco fosse tornato a casa, ricevuto con tutti gli onori dal suo presidente del Consiglio, indossando orgogliosamente la divisa dell’esercito nazista” (Il direttore del Giornale Alessandro Sallusti, in prima pagina - 11 maggio)
“Abbiamo liberato un’islamica”. “La giovane tenera con i terroristi di Allah. Imam entusiasti: ‘Ti aspettiamo’. Felice pure il suo parroco” (Libero apre così in prima pagina - 11 maggio)
Convertita a Maometto. “Conte e Di Maio fanno uno spot e un dono ai terroristi islamici”. “Il rientro di Silvia-Aisha Romano, rapita e convertita a Maometto, diventa un autogol. Le immagini della donna liberata (a suon di milioni) e accolta con tutti gli onori fanno il giro del mondo. Proprio come voleva Al Shabaab” (La Verità, prima pagina - 11 maggio)
“Eroina” tra virgolette. “Stufi di pagare le avventure delle 'eroine' del pacifismo” “Chiunque è libero di rovinarsi la vita come meglio crede. Padronissima dunque Silvia Romano di andare a fare la crocerossina che aiuta i diseredati in un buco sperduto dell’Africa, ma (...)” (Maurizio Belpietro, direttore de La Verità, in prima pagina - 11 maggio)
Togliti quello stupido cencio sulla testa...“Sono contentissima per la liberazione, ora spero che si sbarazzi di quello che Oriana Fallaci chiamava “stupido cencio medievale” (jilbab, ndr), per tornare una donna libera a tutti gli effetti” (Daniela Santanchè, parlamentare Fdi, su Instagram - 10 maggio)
Caio Giulio Cesare Mussolini. “4 milioni e passa regalati ad Al Shabaab grazie alla follia di una ONG italiana. Adesso anche basta” (Il tweet del pronipote del Duce ed esponente di Fratelli d’Italia - 10 maggio)
Sconto-Islam. “Per Greta-Vanessa pagammo 11 milioni, per la Sgrena 5 milioni e la vita di Calipari (gli americani non amano chi paga i riscatti agli estortori islamisti, gli USA non pagano mai ma la fanno pagare), per Silvia sconto-Islam a 4 milioni. Più la Libia a Erdogan. Colpaccio di Di Maio” (Mario Adinolfi, presidente del Popolo della Famiglia, su Twitter - 10 maggio)
Feltri e gli amici terroristi. “Siamo tutti contenti della liberazione di Silvia Romano. Lo saremmo di più se ci dicessero quanto s’è dovuto pagare di riscatto”. “A me se una si converte all’Islam non mi importa niente ma non mi va neanche di applaudirla. Mi secca un poco se per riportarla in Italia lo Stato spende qualche milione degli italiani”; “Pagare il riscatto per Silvia significa finanziare i terroristi islamici. Che sono amici della ragazza diventata musulmana. Bella operazione” (Vittorio Feltri, direttore di Libero, su Twitter - 10 maggio)
“Non capirò mai”. “Silvia è tornata, bene, ma è stato come vedere tornare un prigioniero dei campi di concentramento orgogliosamente vestito da nazista. Non capisco, non capirò mai” (Alessandro Sallusti, “concetto” ripetuto anche su Twitter - 10 maggio)
Il lavaggio del cervello. “(...) Cari amici, non potremmo non gioire per il ritorno in Patria di una nostra connazionale (...) ma dovremmo gioire del fatto che Silvia Romano ha subito un lavaggio di cervello che l’ha persuasa a convertirsi all’islam, che sia stata costretta a sposare un terrorista islamico suo carceriere, che ora porti in grembo il figlio di un terrorista islamico? (...)” (Magdi Cristiano Allam, giornalista, saggista, ex eurodeputato, su Facebook - 10 maggio)
Scusi, lei è convertita? “Bentornata Silvia. Ma è tornata convertita da musulmana. Nulla in contrario. Ma quando è partita mi sembra che non lo fosse. Quindi convertita durante la prigionia. Vorremmo saperne qualcosa di più. Oltre a conoscere le modalità della liberazione e del suo costo. Mi sembra il minimo” (Paolo Romani, senatore di Forza Italia - 10 maggio)
Quella sua maglietta fina. “Fa effetto, anch’io ci sono rimasto a vederla scendere vestita così, Silvia Romano: la ricordavamo tutti in un altro modo, sorridente, i jeans, le camicette. Oggi la vediamo scendere coperta, ha rifiutato di cambiarsi, ha voluto mantenere questo abito, ed è scoppiata la polemica” (Massimo Giletti, conduttore di Non è l’Arena, La7 - 10 maggio)
Diccelo se sei fondamentalista. “Speriamo che Silvia segua la religione islamica della grande moschea di Roma, e non quella di viale Jenner a Milano, quella dei fondamentalisti. Perché se Silvia fosse una fondamentalista, la criticherei come tutti i fondamentalisti di ogni parte del mondo”; “Silvia Romano ci deve dire se ha scelto liberamente o no... ce lo dica! Perché forse ci è costata 4 milioni!” (Maurizio Gasparri, senatore di Forza Italia, a Non è l’Arena, su La7 - 10 maggio)
Gratis non esiste. “Greta e Vanessa, una volta liberate dissero subito: Noi torneremo là. Credo che fosse il caso di pensarci un po’. È chiaro che nulla accade gratis, ma non è il momento di chiedere chi ha pagato cosa” (Matteo Salvini, leader leghista, a Mezz’ora in Più, su Rai 3 - 10 maggio)
Il profilo ufficiale della Lega, su Facebook e Twitter, con una lunga serie di post e link, per ribadire il medesimo concetto…
AGI - Silvia Romano: conversione a Islam e matrimonio mia libera scelta, no costrizioni =
SILVIA ROMANO: “CONVERTITA ALL’ISLAM LIBERAMENTE, NESSUNO MI HA COSTRETTA” (Repubblica.it)
Silvia Romano e la conversione all'Islam: “Una mia libera scelta” (Quotidiano.net)
Silvia Romano conferma: “Mi sono convertita all'islam, senza costrizioni” (IlGiornale.it)
Silvia Romano in Italia con il velo, si è convertita all'Islam: “È stata una mia scelta” (IlMessaggero.it) (Lega - Salvini premier - 10 maggio)
Quest’Italia fa schifo. “Il ministro Pd De Micheli esulta per la liberazione della volontaria Silvia Romano. Ricordo che l'Italia e Giggino Di Maio non hanno fatto nessun lavoro di intelligence, ma hanno semplicemente piegato la testa e pagato 4 milioni di euro per il suo riscatto, soldi che andranno a finanziare il terrorismo islamico. Mi fa schifo uno Stato che cede al ricatto soprattutto quando paga milioni di euro per chi irresponsabilmente va a cacciarsi nei guai in paesi esteri ad alto rischio” (Il consigliere provinciale della Lega a Spezia Alessandro Rosson, su Facebook - 10 maggio)
Beppe, manco gli aperitivi. “Beppe Sala dice d’aver seguito la vicenda di Silvia Romano con la Farnesina: tutta Italia sa che il sindaco di Milano non sa controllare nemmeno gli aperitivi sui Navigli, figuriamoci che ruolo può aver avuto in una vicenda così delicata e che ha coinvolto i nostri 007. Festeggiamo tutti insieme una splendida notizia: caro Sala, non c’è bisogno di spararla grossa anche questa volta pur di finire sui giornali” (Alessandro Morelli, deputato e responsabile Editoria della Lega - 10 maggio)
Io sono contento, ma...“Vogliamo che lo Stato metta lo stesso impegno e le stesse risorse per tutti quei nostri connazionali che ad oggi risultano ancora bloccati all’estero per l’emergenza Covid, che sono bloccati in altri continenti, e stanno chiedendo di essere rimpatriati” (Nota del senatore della Lega Roberto Calderoli - 10 maggio)
“Giuseppi” si fa bello. “Silvia liberata. Giuseppi si fa bello prima di avvertire il padre. Operazione dei servizi: la ragazza prigioniera di un gruppo estremista in Africa da un anno e mezzo tornerà oggi in Italia. Il premier esulta, il papà della giovane punge: Se lo dice lui sarà vero, ma non siamo informati”. (La Verità, 10 maggio)
Il tam tam. “Silvia Romano, tam tam su internet, il dettaglio che non è passato inosservato: 'È incinta?'. Le rotondità sospette e quelle carezze sulla pancia” (Liberoquotidiano.it - 10 maggio)
“Liberata Silvia Romano. Quanto hanno pagato?” “L’ombra di un riscatto versato dagli 007 a un gruppo vicino ad Al Qaeda. Ma con i soldi pubblici non si finanzia la jihad...” “(...) tra qualche tempo, magari, Silvia avrà voglia di raccontare la sua storia e commentare le voci che a settembre l’hanno data per convertita e obbligata al matrimonio con rito islamico” (Libero, prima pagina - 10 maggio)
Sui social, migliaia di commenti indignati. Ne segnaliamo alcuni particolarmente esemplificativi. Pino, testuale: “Quanto anno pagato?”; Ernesto: “How much money?”; Ornella: “Se le piaceva il caldo perché non lasciarla lì?”; Predip: “Non è mai stata rapita: si è divertita per un po’, è rimasta incinta e ha voluto tornare in Italia per farsi mantenere spacciandosi da vittima”; Rosa: “A differenza di noi italiani non mi sembra così deperita...”; Max: “Io l’avrei lasciata in Africa”; Rocco: “Riportiamola indietro e facciamole pagare tutti i costi dell’operazione”. Eddo: “Mi sembra in forma come i clandestini scappati dalle prigioni libiche”.
Bentornata in Italia, Aisha.
La gioia bipartisan per la liberazione della 24enne milanese è durata poco. Riscatto per la liberazione di Silvia Romano, polemiche e hater. Antonio Lamorte su Il Riformista il 10 Maggio 2020. Sono bastati un paio di minuti. Solo qualche momento e sono partiti i primi commenti. “Chi è questa?”; “Quanto avranno pagato il riscatto?”; “Chi gliel’ha fatto fare?”. E via dicendo. Fino alle offese più dure. Caratterizzate da un sessismo nemmeno troppo velato. È che su Facebook ci sono dei gruppi senza misura e senza decenza. “Il Paese che odia”, come l’hanno più volte chiamato. Una realtà che non è solo virtuale: tocca ripeterlo ancora. E così, dopo gli annunci dei giornalisti emozionati in diretta, i canti ai balconi – che belli questa volta – di una Milano fiaccata dal coronavirus e la gioia bipartisan dei politici – nemmeno il Covid-19 li aveva uniti – ecco che è tornata a salire la bile del Paese. Silvia Romano nel primo pomeriggio atterrerà a Ciampino dopo 535 giorni di prigionia tra Kenya e Somalia. Solo lei potrà chiarire dettagli e misteri sul suo caso. Ieri la notizia della sua liberazione e del suo ritorno aveva unito ed emozionato un’Italia messa in ginocchio dalla pandemia. Quella magia sembra già finita. Ce lo aspettavamo, in fondo. A differenza di Enrico Mentana, decisamente più ottimista, che sui social si è stupito di come “malpancisti e odiatori di ogni ordine e grado invece sono spuntati fuori da ogni parte. Ve lo dico col cuore: fate schifo”. Evidentemente aveva dimenticato che oltre all’Italia che lavora che si dispera e che si innamora c’è anche un’Italia che odia. E che è capace di certe sparate come di chi della notizia è “contento ma lo sarei ancora di più se chi vuole andare in quei paesi a rischio girasse prima una liberatoria allo stato italiano che lo esonerasse dall’obbligo di salvataggio”; oppure di chi si lamenta di quei soldi, dei soldi del presunto riscatto, spesi “proprio adesso che avevamo bisogno” vista la crisi scatenata dal coronavirus; e di chi propone che tale somma sarebbe dovuta andare “ai pensionati italiani”. E poi, visto che si tratta di una ragazza, tutte le osservazioni e congetture di tipo sessuale. Roba da vomitare. Un evergreen, un film già visto. Che non merita attenzioni, ci ripetiamo in ogni caso e anche ieri. Salvo che poi simili argomentazioni finiscano in prima pagina. Con chi si chiede quanto sia costato il riscatto e chi anticipa la cifra di 4 milioni di euro. E quindi, dal commentatore anonimo chiuso nella sua stanzetta alla sola luce dello smart-phone fino alla colta penna dell’editorialista secondo il quale Romano avrebbe fatto meglio a saziare la sua fame di volontariato in qualche Caritas italiana, tutto si tiene. In qualche modo si giustifica, si legittima. Probabilmente ci sarà da dedicare più di una riflessione alle modalità di scelta delle destinazioni delle attività di volontariato. Ma che l'”aiutiamoli a casa loro” sia solo uno slogan retorico, anzi truffaldino, è fuor di discussione. Un altro velo toccherà stenderlo sulla retorica sardiniana – che gaffe, da parte di quelli che “non esistono”, nel montare il proprio simbolo, come il Partito Democratico, sulla notizia condivisa sui social – del bene che trionfa sul male. Silvia Romano non è (o almeno non è la sola) “parte migliore del paese”, non facciamone necessariamente un simbolo, un’eroina. Silvia Romano ha compiuto 24 anni in prigionia del gruppo terroristico jihadista Al Shaabab e oggi torna a casa. E questa è l’unica cosa che conta, senza retorica. Le sue prime parole dopo la liberazione: “Sono stata forte e ho resistito”. Sicuramente riuscirà quindi a resistere anche a certi commenti, a certi editoriali, a certe speculazioni. E sarà difficile non emozionarsi vedendola scendere le scalette dell’aero. Nel frattempo, la riposta del rapper Fankie Hi-nrg, a chi chiedeva del prezzo del riscatto, è diventata la più citata sui social: “Meno della tua istruzione ma certamente meglio spesi”. Poco altro da aggiungere.
Silvia Romano, le prime pagine di Libero e Il Giornale: è polemica. Antonino Paviglianiti l'11/05/2020 su Notizie.it. La liberazione di Silvia Romano fa discutere anche in virtù delle prime pagine di Libero Quotidiano e Il Giornale. È polemica per i titoli. Continua a far discutere la liberazione di Silvia Romano, la cooperante italiana liberata dopo 18 mesi di prigionia. Nella rassegna stampa di lunedì 11 maggio a risaltare all’occhio sono senza dubbio le prime pagine di Libero Quotidiano e Il Giornale, rispettivamente diretti da Vittorio Feltri e Alessandro Sallusti. I due quotidiani hanno aperto le proprie edizioni cartacee dando risalto alla notizia della liberazione di Silvia Romano, ma con un tono fortemente polemico. A far discutere infatti è il riscatto pagato dal Governo italiano per poter liberare la giovane cooperante. Inoltre, a Libero e Il Giornale pare non esser andata a genio la scelta di Silvia Romano di convertirsi alla religione islamica. E sia Sallusti che Feltri, con messaggi Twitter, avevano fatto capire il proprio dissenso già nel pomeriggio di domenica 10 maggio. La liberazione di Silvia Romano, dunque, ha posto per qualche ora in secondo piano la pandemia da Coronavirus. Ed è per questo che sia Libero che Il Giornale hanno scelto dei titoli provocatori e che stanno facendo ampiamente discutere sia i social network che i professionisti del settore mediatico. Ma quali sono questi titoli tanto chiacchierati? Il quotidiano diretto dalla coppia Feltri – Senaldi apre la propria edizione cartacea così: “Abbiamo liberato un’islamica”. Molto simile è anche il titolo de ‘Il Giornale’ di Sallusti: “Islamica e felice Silvia l’ingrata”. Insomma, le prime pagine dei quotidiani non fanno altro che ribadire la presa di posizione dei due direttori. Vittorio Feltri, infatti, su Twitter ha commentato così la liberazione di Silvia Romano: “Pagare il riscatto per Silvia significa finanziare i terroristi islamici. Che sono amici della ragazza diventata musulmana. Bella operazione” e “A me se una si converte all’Islam non mi importa niente ma non mi va neanche di applaudirla. Mi secca un poco se per riportarla in Italia lo Stato spende qualche milione degli italiani”. Alessandro Sallusti invece ha cinguettato: “Silvia è tornata, bene ma è stato come vedere tornare un prigioniero dei campi di concentramento orgogliosamente vestito da nazista. Non capisco, non capirò mai”. Vittorio Feltri, nella giornata di lunedì 11 maggio, ha ribadito nuovamente la propria posizione sulla liberazione di Silvia Romano e sul presunto riscatto pagato dal Governo per liberare la giovane italiana. “Siamo tutti contenti della liberazione di Silvia Romano. Lo saremmo di più se ci dicessero quanto si è dovuto pagare di riscatto”, scrive Feltri in un primo tweet. Il direttore di Libero, in un secondo momento, aggiunge: “Pagare per il riscatto per Silvia significa finanziare i terroristi islamici. Che sono amici della ragazza diventata musulmana. Bella operazione”. Infine, terzo e ultimo cinguettio: “A me se una si converte all’Islam non mi importa niente, ma non mi va neanche di applaudirla. Mi secca un poco se per riportarla in Italia lo Stato spende qualche milione degli italiani”.
Era davvero necessario rivelare i dettagli dell’interrogatorio a Silvia Romano? Natale Cassano l'11/05/2020 su Notizie.it. Il compito dei giornali è quello di riportare le notizie che vengono diffuse. Ma le fonti hanno valutato i rischi di divulgare i dettagli dell'interrogatorio a Silvia Romano? Ci sono eventi che inevitabilmente trasformano le piazze social in stadi dell’opinione pubblica, dove le rispettive tifoserie si urlano addosso la propria superiorità. Dopo mesi in cui il Coronavirus è stato protagonista assoluto ovunque, il ritorno di Silvia Romano ha rappresentato un evento di rottura rispetto alla monotematicità dei dibattiti delle ultime settimane. “Un fulmine a ciel sereno” si è soliti dire; anche se in questo caso penso sia più corretto parlare di un raggio di sole nel buio della notte, perché quando una figlia del Belpaese torna a casa, è sempre una notizia positiva. E, così, in poche ore in molti si sono trasformati da esperti virologi a esperti di cooperazione internazionale, e l’odio espresso sui social conferma come ancora una volta non siamo capaci di provare empatia per niente che non corrisponde all’idea che ci siamo creati in testa. Poco importa che Silvia abbia passato nell’anno e mezzo di prigionia, lontano dagli affetti, in una realtà estranea: è vestita di verde (il colore dell’Islam) e si è convertita alla religione dei suoi rapitori, quindi è automaticamente da associare al nemico. La colpa di questa narrazione del disagio non è solo di chi cerca uno spazio di sfogo dei suoi istinti primitivi, protetto dalla rassicurante barriera digitale di uno schermo. Ma anche di chi dà in pasto a un popolo affamato i particolari di una vicenda dai toni grotteschi. Basta aprire le pagine dei principali quotidiani italiani per accorgersene: l’interrogatorio di Silvia Romano davanti agli inquirenti, con i dettagli di quei 18 mesi in cui il suo mondo è stato stravolto, è riportato in decine di articoli, sviscerando ai minimi termini i pezzi che serviranno alla Procura a ricostruire quanto avvenuto durante la prigionia. Il compito di giornali e giornalisti è quello di procacciare le notizie e diffonderle, e qui si parla di un argomento di interesse nazionale. Quella su cui bisogna riflettere, invece, è la tempistica dell’azione, chiedendo alle “fonti” se davvero valesse la pena far fuoriuscire dalla stanza degli interrogatori le suggestioni di quell’anno e mezzo di dolore. Perché alla fine il dibattito su quei particolari è iniziato quando qualcuno ha violato il segreto d’ufficio e di certo non si tratta della stampa. È stato così permesso che divenissero pubblici dettagli che sarebbero dovuti rimanere, ancora di più in questo momento delicato, nei verbali degli inquirenti, per poi essere diffusi quando il clima d’odio attorno a Silvia si fosse rarefatto. Invece basta acquistare un quotidiano per dare fondo alla nostra volontà voyeuristica, per avere un report diretto di quanto sia stata trattata bene dai suoi carcerieri, persino di cosa aveva mangiato durante la prigionia, oltre al dettaglio del Corano ricevuto dopo la richiesta di un libro per passare il tempo, aspetto che sarebbe centrale, a suo dire, nel processo di conversione all’Islam. Se in qualche modo Silvia sia stata plagiata per abbracciare questo cambiamento radicale nella sua vita, saranno gli psicologi a dirlo. Quel che la vicenda Romano ci deve insegnare è però che le informazioni hanno un peso e possono diventare pericolose; chi ogni giorno con esse ci lavora lo sa bene. E il cortocircuito è proprio qui: quel filo (diretto o indiretto che sia) tra inquirenti e media che in qualche caso andrebbe spezzato. Almeno per salvaguardare la dignità di una ragazza, che tale rimane e che sicuramente non merita il vomito d’odio che ben prima del suo ritorno in Italia le abbiamo riservato. Persone che non riescono a guardare oltre il velo verde con cui è apparsa davanti al premier Conte. Se lo facessero, forse si accorgerebbero che dietro c’è una persona, con i suoi pregi e i suoi difetti, che potrebbe essere la figlia di tanti dei suoi haters. Facciamoci tutti un esame di coscienza: magistrati, giornalisti e commentatori; quali cicatrici lascerà questa vicenda in Silvia dipende anche un po’ da noi.
Il Coronavirus non ci ha resi migliori, l’odio per Silvia Romano lo dimostra. Giuseppe Gaetano l'11/05/2020 su Notizie.it. Mentre va in scena la rappresentazione mediatica della fraternità di un popolo che nei momenti difficili Covid ritrova la sua coesione, scorrono i titoli di coda di ogni senso dell'umanità. Ignoranza, disperazione, noia. Ma anche disprezzo per la vita umana e cattiveria pura. C’è un miscuglio micidiale dietro l’odio vomitato sui social contro Silvia Romano. La campagna di denigrazione gratuita è cominciata ancor prima ancora che la giovane cooperante milanese posasse piede a Ciampino, dopo un anno e mezzo nelle mani di terroristi senza scrupoli, con la richiesta della cifra sborsata per il suo riscatto, come se fosse stato tolto un euro dal loro conto. Gli stessi professionisti dell’odio, dell’insulto e del qualunquismo le hanno poi rimproverato che in fondo se la sia cercata, andando a spendere il proprio tempo nelle zone del pianeta dove risiedono gli ultimi del mondo. Infine hanno contestato anche la scelta di una conversione religiosa. Il tutto comodamente spaparanzati sul divano, con lo smartphone in mano, senza sapere nulla di come sia effettivamente trascorsa la sua prigionia, né conoscere la sua storia personale, la sua formazione, i suoi ideali, dove abbia tratto il conforto e il coraggio di guardare avanti, di continuare a vivere e a sperare in 18 interminabili mesi di sequestro. Una ragazza di 23 anni che anziché andarsi a fare lo spritz sui Navigli o passare le giornate a chattare con lo sguardo incollato sul cellulare ha deciso di dedicare ai più deboli, ai bambini orfani, la propria energia, la propria passione, la propria vita. Un gesto volontario, spontaneo, disinteressato, nobile da qualunque punto di vista politico, sociale o religioso lo si voglia inquadrare. E invece, mentre in questi giorni va in scena la rappresentazione mediatica della fraternità di un popolo che nei momenti difficili come l’emergenza Covid ritrova la sua coesione, mentre va in onda la sceneggiata dell’Italia unita che resiste, campione di solidarietà e altruismo; contemporaneamente, dall’altra parte, scorrono i titoli di coda di ogni senso dell’umanità, va in scena lo scempio di ogni vetta culturale toccata da un paese che tanti leoni da tastiera sostengono pure di amare, va online la disgregazione sociale, il rancore senza direzione, che ha bisogno sempre di nuovi obiettivi da attaccare, di nuove figure da divorare – che siano i cinesi mangia topi o le “risorse” della Boldrini – di nuove vittime sacrificali sull’altare dell’analfabetismo etico e morale. Utenti gonfi di quella presunzione che in Rete rende tutti economisti, virologi e ora anche 007, che discettano sull’entità dell’importo e sulla fine che faranno quei soldi eventualmente versati, mentre vivono nel paese leader nella corruzione e nell’evasione fiscale, dove si architettano truffe senza scrupoli pure sulle mascherine. Probabilmente non si rendono neanche conto del becero cinismo, dell’indifferenza verso il prossimo che trasudano i loro commenti, dell’abiura di ogni valore che avrebbe dovuto esser introiettato dall’educazione familiare e dall’istruzione scolastica. È scioccante l’assenza di ogni minima capacità empatica di immedesimazione nell’angoscia dei familiari di Silvia, sfoggiata con leggerezza e senza vergogna da parte di persone che sono a loro volta madri, padri, figli: gli stessi dello slogan “aiutiamoli a casa loro”, e che magari riparano l’orco che nutrono in petto dietro foto di gattini e cagnolini, camuffandolo sotto invocazioni a santi e preghiere a Dio. Prigionieri, loro sì, del loro cinismo e della loro meschinità accattona. Viene da chiedersi sul serio in che razza di paese abitiamo, in mezzo a chi muoviamo i nostri passi, chi è che ci circonda. Un’assolutezza di giudizio sull’altrui libertà di scelta e una lapidarietà nella condanna del diritto di ogni essere umano all’autorealizzazione, che non sono diversi da quelli degli assassini, dei boss mafiosi, dei nazisti. Nella scena finale di Schindler’s List il protagonista si dispera per essersi dimenticato di vendere agli aguzzini un ultimo anello rimastogli al dito: avrebbe significato un’altra vita umana salvata. Qualunque cifra sia stata pagata, la vita umana non ha prezzo. E chi salva un solo uomo, come recita un testo sacro citato in quel film, salva il mondo intero. L’unica cosa che deve interessarci è che Silvia stia bene, non abbia subito violenze e sia stata riconsegnata agli affetti da cui era stata strappata. Dobbiamo essere solo felici della capacità della nostra intelligence nel riportare a casa i nostri connazionali perché anche a noi, un giorno, potrebbe capitare la sventura ro di essere rapiti, magari in un luogo di villeggiatura in Africa, o di essere incarcerati ingiustamente all’estero.
Fu nel 2004, ai tempi della liberazione di Simona Torretta e Simona Parri in Iraq, che cominciò la moda di sputare veleno sui cooperanti comodamente da casa propria. Stavolta però si sono superati i limiti del disumano. Commenti ignobili, irripetibili anche per dovere di cronaca, con bieche e pesanti allusioni sessuali alla lunga detenzione e ai presunti matrimoni, messi nero su bianco anche da molte donne, nel giorno della festa della mamma, e che a nessuno con un minimo di dignità verrebbe in mente anche solo di pensare. Solo la consapevolezza della gioia ritrovata in quella casa, dopo 18 mesi in cui si era persa la speranza, dovrebbe illuminarci gli occhi. Cosa penserà questa ragazza e i genitori, gli amici, i parenti, mentre leggeranno i rigurgiti pseudo sovranisti di chi confonde un patologico concetto di amor patrio e bene nazionale con i suoi più bassi istinti e la rabbia verso chi è migliore di lui? Come si saranno spiegati tanto livore ingiustificato? Dovranno vivere nella paura di uscire di casa per scoprire scritte ingiuriose sui muri, o temere un agguato instrada da parte di qualche fanatico della propria follia? Liberata dai carcerieri in Somalia, Silvia si è ritrovata nella sua patria esposta come un bersaglio di post e meme sessisti, ridotta a un punching ball contro cui sfogare i torti che alcuni utenti credono di aver subito. Qual è, alla fine, il paese più civile?
Come sono diventati distanti i social network dall’uso originario per cui furono concepiti: uno spazio pubblico di condivisione adoperato come trogolo in cui riversare la propria bile, costringendo gli altri ad assistere all’osceno spettacolo e a vergognarsi al posto loro. Costoro non sono degni della libertà che non gli è mai stata tolta di comunicare, gestendola come un primitivo brandisce una clava. Per costoro ci vorrebbe il bando dalla vita civile oltre alla galera, come prevedrebbe la legge Mancino che punisce con il carcere fino a 4 anni il reato di istigazione all’odio via internet. Non sono diversi da certi comizianti, demagoghi, da certi “populisti” in mutande e canottiera, a caccia di facili casse di risonanza per il loro ego ipertrofico, che sazino la malata brama di protagonismo e attenzione. Non è possibile che la maggioranza dei cittadini debba scontare questa sciagura nazionale incarnata dagli strepiti criminali e omicidi di soggetti pericolosi per le istituzioni democratiche, miserabili caricature da varietà satirico. Che “alla fine saremo migliori”, come recita un altro dei molti slogan da copywriter confezionati in questi mesi, resta al momento una mera utopia.
Quaranten(n)a, Se Silvia libera tutti (hata vitunguu). Valerio Giacoia il 12 maggio 2020 su Il Quotidiano del Sud. Cercare, e poi assistere, prendersi cura. Non è andarsela a cercare, come troppi insolenti avevano sindacato, seguitando ancor oggi, col quel gusto perverso, cinico, somaro quando la protagonista di una barbarie è donna. Silvia se li è andati a cercare, sì, i bambini più poveri della Terra. Rivoluzionaria, non smaniosa d’altruismo. E la rivoluzione è andare al fronte per salvare fosse anche uno soltanto, perché il sangue pazzo adda uscì come si sussurrava nelle case antiche quando i rivoluzionari un ultimo bacio e sbattevano la porta senza sapere se avrebbero mai fatto ritorno. Pazzi, visionari, dissennati, ma per passione e sentimento. Altro che smanie che si sarebbero potute soddisfare in una mensa Caritas sotto casa, come imbrattano in prima pagina i bamboccioni sopravvalutati che ruotano attorno al marcio teatrino del giornalismo-star (giornalismo?) italiano, con tutta la sua smania, quella sì, di noiosissima provocazione. Anche Giulio Regeni se l’era andata a cercare? Peccato però che la verità sul suo assassinio non verrà fuori dai circensi di poltroncine e telecamere, né dalle zone grigie egiziane e delle ambasciate italiane dormienti, che resistono e tramano contro. Ma chissà, proprio in qualche misura grazie alla spinta emotiva che ha scatenato la liberazione di Silvia. E potrebbe essere anche vero che stavolta andrà tutto bene per Patrick George Zaki, come la street artist romana Laika ha fatto dire a Giulio nel murales (poi rimosso) accanto all’ambasciata d’Egitto a Roma nell’atto di abbracciare lo studente e attivista egiziano che a Bologna seguiva un master sugli studi di genere e arrestato il 7 febbraio scorso al suo arrivo al Cairo, dove era atterrato per una breve vacanza che si è tramutata in un incubo tra omissioni e torture. Un altro che se la cercava? No, giovani col cuore da combattenti appassionati, consapevoli, su un fronte invisibile e addirittura deriso dalle logiche perverse del mondo: la conoscenza, e quindi la cura. E’ vero che sta accanto a noi chi soffre, ma occorrerà pure che qualcuno si inzuppi le mani di sangue tra le ferite sanguinanti degli inferni del mondo. Silvia Romano non era, non è una sprovveduta ragazzina. Non una buonista e cialtrona, come una triviale propaganda ha cercato di far passare, come se bontà d’animo e slancio all’azione fossero poi macchie, non virtù. I bambini orfani del villaggio di Chakama, nel Kenya, a una ottantina di chilometri dalla Malindi, la Malindi dei pieghevoli d’agenzia per ricchi, dei compratori di sesso, o degli italiani invasori barbarici alla Briatore, al domani non pensano mai. Non sanno se ci sarà. Molti adulti non hanno indossato una sola volta un paio di scarpe, ma con garbo attraversano la poca vita su quei cammini polverosi di terra rossa. E’ un villaggio tra i più poveri al mondo, forse il più povero. Sta al di là del fiume Galana, e ci si arriva dopo aver attraversato la savana punteggiata di baobab col cuore in gola, sapendo bene a che cosa si va incontro. Silvia lo sapeva, non era andata alla fine degli inferi per filantropia da quattro soldi di cui pure sono pieni la Storia e il pianeta. E il grande guaio è che nessuno si è più occupato di questi piccoli da quel 20 novembre del 2018. Tutto a Chakama si è fermato, come nelle corti dei castelli di una fiaba spaventosa: pietrificati i bambini, gli aiuti, la notte, il giorno. Era un villaggio all’inferno, e all’inferno è stato rimandato. Silvia ci era arrivata per cercare, assistere, consolare. Si pensi a quali sacrifici abbia dovuto sopportare in 18 mesi di prigionia, con un tempo che dentro si dilata, è infinito, si pensi alla forza che ha avuto. Adesso, certo, è anche il tempo dei pruriti sulla conversione all’Islam. Come se fosse questo il nodo centrale del dramma e non quei suoi tanti lati oscuri, che forse tali resteranno; dai tempi, al “no” secco di Roma dopo la richiesta di riscatto ad appena venti giorni dal sequestro, al ruolo dell’intelligence italiana. E se pure fosse, non si riesce a riflettere per esempio sul fatto che una donna in mano a bande di sconosciuti armati possa aver dichiarato sì a Maometto per alleviare la sua condizione? E secondo, dove si poggia lo scandalo nella eventualità di una conversione volontaria e meditata (ovvio, non all’Islam dei jihadaisti somali di al-Shabab)? Chi scrive ha incontrato e diviso il pane in giro per il mondo con moltissimi veri musulmani, non secondi a nessuno in quanto a fede e spiritualità. Nella Grande Moschea degli Omayyadi, a Damasco, si prega in ginocchio davanti alla tomba di San Giovanni Battista, dove la tradizione vuole che sia conservata la testa che Erode gli fece mozzare su istigazione di Erodiade. Musulmani che venerano un santo cristiano, l’ultimo dei profeti dell’Antico Testamento. Per non dire dei due minareti più alti di quel tempio, dedicati uno a Gesù e l’altro Maria: non suoni come un sacrilegio, perché è verità. E la verità non sta nelle fonti ufficiali, né tra gli odiatori di professione spalleggiati da certa stampa da spazzatura indifferenziata. È come l’amore la verità, e chi ama, parte. Il suo amato se lo va a cercare. Silvia ha cercato quei bambini, i bambini più poveri della Terra, non se l’è andata a cercare facendo le acrobazie su una ruota impennando col motorino. Così ha il profumo della grazia la sua liberazione. Ci ha fatto bene. Avevamo bisogno di questo aroma come d’olio di nardo in mezzo alla tempesta costretta e introversa dei nostri condomini e delle nostre vite per strade semivuote, tra le file, a occhi bassi. Silvia, senza cognome, perché una di famiglia. Siamo stati tutti un poco madri, padri, sorelle, suoi fratelli in questi quasi due anni, e sebbene non se ne parlasse più (opportunamente) tutti abbiamo pensato al suo sorriso e sperato tacendo. Torna a casa di ciascuno, e libera ciascuno un po’ perché ci fa dono proprio adesso d’una improvvisa emozione che ci guarisce, anche immaginando le sue di sopportazioni rispetto ai due mesi di nostra piccola clausura. Silvia che è libera, forse libera tutti. Hata vitunguu. È swahili, la lingua che si parla nel Kenya e in Somalia. Idioti compresi, significa.
Dall’account facebook di Michela Murgia il 12 maggio 2020.
"Ci è costata troppo e quei soldi finanziano i terroristi." Nel 2018 - secondo i dati forniti dalla Camera dei Deputati - l'Italia ha venduto nel mondo armi per 4,6 miliardi di euro e molte delle aziende che le producono sono a partecipazione statale. Il primo acquirente delle armi italiane è il Qatar. In ordine di spesa seguono il Pakistan, la Turchia, gli Emirati Arabi, la Germania, gli USA, la Francia, la Spagna, il Regno Unito e l'Egitto. Cosa significa? Che metà dei paesi a cui vendiamo le armi non sono democrazie, hanno conflitti in corso e finanziano gruppi estremisti fondamentalisti. Un paese che guadagna 4,6 miliardi di euro in un anno vendendo armi a governi che armano e finanziano il terrorismo può senz'altro permettersi di pagarne 4 milioni per la vita di una cittadina italiana che per di più faceva la cooperante di pace, non la fuciliera o la mercenaria di qualche esercito privato a protezione degli interessi economici italiani negli stati a rischio. Se il problema per cui stanno insultando Silvia Romano è la conversione all'Islam, perché questa gente non se lo mette mai quando facciamo affari con le peggiori teocrazie islamiche del Golfo?
"Poteva aiutare i poveri qui, se aveva tanta voglia di fare volontariato!" Nel momento peggiore dell'emergenza covid sono arrivate in italia - specificamente in Lombardia - 600 persone tra medici, personale infermieristico e volontari esperti. Venivano da Cina, Russia, Usa, Polonia, Albania, Norvegia, Ucraina e Cuba. Non ho sentito alcun italiano dire "Ma questi non ce li hanno i malati a casa loro da curare?" Li abbiamo invece accolti con gioia e gratitudine, la stessa che ricevono i cooperatori italiani in giro per il mondo quando vanno a portare aiuto. Credo si chiami "Aiutiamoli a casa loro". Quando era ministro, Matteo Salvini in nome degli affari non è riuscito nemmeno a ottenere giustizia per un italiano morto, lo studente Giulio Regeni. Oggi si permette di giudicare un governo che ha riportato a casa un'italiana viva.
"E' venuta col velo in testa, segno di una cultura che sottomette la donna e non le permette di vestirsi come vuole". hanno scritto gli stessi giornali che criticarono Carola Rackete perché andò a deporre in questura in maglietta senza il reggiseno, gli stessi che se vai in giro con la minigonna e ti stuprano te la sei cercata, gli stessi che Giovanna Botteri "potrebbe anche cambiarsi d'abito per andare in video, ogni tanto". Per queste persone la libertà delle donne di vestirsi come pare a loro è sempre giudicabile, di solito a seconda della simpatia politica. L'unica misura della libertà di Aicha Romano è il suo sorriso, non il suo vestito, e l'unica preoccupazione che ieri avrebbe dovuto sfiorarci a suo riguardo è il fatto che per testimoniarci la sua liberazione si siano assembrati in 150 tra giornalisti, politici e poliziotti, rischiando - dopo una giornata di cattiverie e stupidaggini - di contagiarle pure il covid. Le manca solo quello.
I senzavergogna di Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano del 12 Maggio 2020: Era un bel po’ che non ci vergognavamo di essere italiani per colpa di nostri connazionali, a parte qualche politico senza vergogna che ci fa vergognare in permanenza da quando è nato. Ieri, a leggere dichiarazioni leghiste e deliri social di conigli da tastiera sulla liberazione di Silvia Romano, la vergogna è tornata. Perché c’è chi è riuscito a sporcare una notizia che tutti avrebbero dovuto salutare con gioia e anche con un pizzico di orgoglio nazionale. Se la nostra cooperante si è convertita all’Islam sono fatti suoi. Se l’ha fatto per costrizione, se non fisica, almeno psicologica, oppure per una scelta “autoprotettiva” come dice il primo referto psicologico, sono ancora fatti suoi. Se resterà per sempre Aisha o un giorno tornerà Silvia sono sempre fatti suoi. Nessuno ha il diritto di intrufolarsi nella sua psiche: per farlo bisognerebbe aver vissuto un anno a mezzo in mezzo alla foresta nelle grinfie di feroci terroristi. Chi non ha subìto quell'atroce esperienza, cioè tutti, dovrebbe solo tacere. Poi c’è la questione del riscatto, probabilmente pagato dai nostri servizi segreti con fondi riservati (che servono anche a questo) dietro autorizzazione del delegato del governo agli 007: il premier Conte. Su questo ogni opinione è legittima, anche se il dibattito si ripropone sempre uguale dai tempi dei sequestri anni 70 e 80 a opera dei terroristi rossi e delle Anonime calabrese e sarda e di nuovo dopo il 2001, quando ci imbarcammo con Usa e altri alleati nelle guerre in Afghanistan e in Iraq. Ai tempi del terrorismo, lo Stato decise quasi sempre di “pagare”, fuorché per Aldo Moro (ma, quando fu ucciso, il presidente Leone era pronto a liberare una brigatista malata e il Vaticano a versare una grossa somma). E proprio il contraccolpo del suo cadavere segnò l’inizio della fine delle Br. Nel caso delle Anonime Sequestri, erano i famigliari, spesso aiutati da servizi e faccendieri vari, a pagare i riscatti. Poi la legge sul sequestro dei beni e la linea dura di certe Procure, come quella di Palermo in Sardegna (dov’era coinvolto un pm, che poi si suicidò), resero improduttiva quell’attività criminale, che si esaurì. Poi iniziarono i sequestri di nostri contractor, giornalisti e cooperanti in Iraq e Afghanistan e anche allora i nostri governi (il Berlusconi-2 con FI-Lega-An-Udc e il sottosegretario Gianni Letta delegato ai servizi, e poi anche il Prodi-2) decisero di pagare sempre i riscatti. Ma non sempre riuscirono a salvare la vita agli italiani rapiti (il reporter Baldoni e il contractor Quattrocchi furono uccisi, altri come i giornalisti Sgrena e Mastrogiacomo tornarono illesi). La cosa creò furibonde frizioni con gli alleati americani e inglesi, che invece non pagavano riscatti e sacrificavano i propri ostaggi (ci andò di mezzo il dirigente del Sismi Nicola Calipari, ucciso dal fuoco “amico” made in Usa dopo il riscatto per la Sgrena). Quando a pagare i riscatti era il centrodestra, per non discutere la scelta incoerente e paradossale di B.&C. di entrare in guerra contro il terrorismo e poi di foraggiare i terroristi che si diceva di combattere mettendo vieppiù in pericolo i nostri uomini sul campo, i partiti e i giornali di destra riempivano di insulti gli ostaggi (a parte i contractor) perché “se l’erano cercata”, erano “vispe terese” (le due Simona) e “pirlacchioni in vacanza” (Baldoni). Ora il caso di Silvia Romano, come quelli degli altri ostaggi sequestrati in guerre per bande che non ci riguardano, è totalmente diverso sia da quelli dell’Iraq e dell’Afghanistan, sia da quelli del brigatismo e delle Anonime. Stavolta le ragioni umanitarie non confliggono con gli interessi nazionali. I terroristi islamisti somali di al-Shabaab, impegnati nell’eterna guerra civile del Corno d’Africa, sequestrano occidentali per legittimarsi e arricchirsi, ma non sono una minaccia diretta per l’Italia, come invece lo erano le Br che avevano dichiarato guerra allo Stato, le Anonime Sequestri che esistevano proprio grazie ai riscatti pagati e anche gli islamisti di al Qaeda e delle altre sigle mediorientali che avevano esportato in Occidente la loro folle guerra santa. Dunque pagare un riscatto, come peraltro sempre si è fatto anche nei confronti di nemici diretti e dichiarati, era doveroso. Ma su questo le opposizioni, se non avessero fatto lo stesso in circostanze molto diverse, sarebbero libere di polemizzare quanto vogliono. Anche di accusare Conte di non aver condannato a morte una ragazza di 20 anni. Purché non mentano. Le polemiche sul ruolo della Turchia, che ha aiutato nelle indagini l’Aise con i suoi servizi molto presenti in Somalia, fanno ridere, visto che è nostra alleata nella Nato. E quelle sulla “passerella” di Conte e Di Maio denotano un tragicomico crollo della memoria. Il 5 marzo 2005, quando a Ciampino atterrò la Sgrena, trovò ad attenderla una delegazione politica ben più pletorica del duo Conte-Di Maio domenica accanto a Silvia: c’erano Berlusconi, Letta, il presidente della Camera Casini, il sindaco Veltroni, il segretario del Quirinale Gifuni e il direttore del Sismi Pollari. Mancava solo Salvini, che si rifece con gl’interessi all’arrivo di Cesare Battisti. E ora chiede “sobrietà” agli altri. Ma va a ciapà i ratt.
"Il riscatto di Silvia: tocca arrestare Sgarbi e Sallusti". Daniele Luttazzi sul Fatto Quotidiano del 12 Maggio 2020. Silvia Romano è stata liberata, e da destra sono subito arrivate le “felicitazioni, ma”. Maria Giovanna Maglie è trasecolata per via dell’abito tradizionale somalo indossato da Silvia, come se Silvia fosse una corrispondente Rai all’estero che poteva fare shopping compulsivo gonfiando la nota spese. Vittorio Feltri l’ha buttata sui soldi del riscatto, perché in questo modo lo Stato ha finanziato i terroristi. Ma se oggi Aldo Moro è vivo, è perché lo Stato pagò il riscatto. Scusate, esempio sbagliato. Ha ragione Feltri: non finanziando i terroristi di destra, lo Stato impedì le stragi di piazza Fontana, piazza della Loggia, Italicus e stazione di Bologna. Scusate, altro esempio sbagliato. Insomma, quanti soldi sono? 53 milioni? Ah no, quelli sono i soldi pubblici presi da Libero dal 2003 al 2017. 49 milioni? Ah, no, quelli deve restituirceli la Lega. 21 milioni? Ah no, quelli sono i soldi buttati dalla Regione Lombardia per l’inutile ospedale alla Fiera. Insomma, quanti? 4 milioni. Siamo 60 milioni di italiani, quindi 0,06 euro a testa. Vittorio, stacce. Per dirottare l’attenzione su di sé (ne era in astinenza, dato che tutti stavano parlando di Silvia e non di lui), Sgarbi ha proposto che Silvia venga arrestata perché complice dei terroristi, visto che si è convertita all’Islam. Ma l’equazione Islam = al Qaeda è islamofobia; ed è grazie all’islamofobia che al Qaeda fa proseliti. Ovvero, Sgarbi sta facendo il gioco dei terroristi: arrestiamo anche lui? Lo stilista Sallusti, buttandola sul vestito come la Maglie (“È stato come vedere tornare un prigioniero dei campi di concentramento orgogliosamente vestito da nazista. Non capisco, non capirò mai”), non capisce neppure che sta facendo la stessa equazione di Sgarbi (Islam = al Qaeda), che fa il gioco dei terroristi. Arrestiamo pure Sallusti, Vittorio? Alessandro Meluzzi, psichiatra, sminuisce la conversione religiosa di Silvia parlando di “sindrome di Stoccolma”. Ma Meluzzi, che in gioventù ha militato nel Pci, poi nel Psi, poi è diventato parlamentare di Forza Italia, poi è entrato nell’Udr di Cossiga, poi in Rinnovamento Italiano, poi nei Verdi, poi ha fondato i Cristiano Democratici Europei aderendo all’Udeur di Mastella, infine è approdato a Fratelli d’Italia, ma ammira Putin, è stato massone e console onorario del Paraguay, s’è convertito al cristianesimo, è stato diacono cattolico di rito greco-melchita, poi presbitero della Chiesa ortodossa italiana autocefala, poi primate, metropolita e arcivescovo di tale Chiesa con il nome di Alessandro I, e quando va in tv tuona contro l’aborto, il matrimonio omosessuale e l’eutanasia, sostenendo pure che “certi pedofili non commettono reato e nemmeno peccato”, e che Bergoglio è promotore del piano Kalergi (sostituire gli europei con africani e asiatici); Meluzzi, dicevo, di che sindrome soffrirà?Tuttolibri. Titolo: “Cara sinistra, smetti di deprimerti: per il capitalismo c’è un’alternativa”. Incipit: “Tre anni fa, a 49 anni, si ammazzava Mark Fisher, critico culturale, insegnante, teorico, attivista”. Cronache dalla Fase 2. Mi sembra che la mia ragazza me lo succhi con più gusto, da quando le ho detto in quali culi famosi l’ho infilato.
Salvini sul riscatto per liberare Silvia Romano: “Nulla accade gratis”. Redazione su Il Riformista il 10 Maggio 2020. “In tutti questi casi nulla accade gratis ma ora non è il momento di chiedere chi ha fatto o ha pagato cosa“. Matteo Salvini è ospite della trasmissione Mezz’ora in più su RaiTre e, proprio mentre la 24enne cooperante milanese Silvia Romano, sequestrata per 18 mesi in Africa, tra Somalia e Kenya, rientra in Italia atterrando a Ciampino, il leader leghista dice la sua sul caso. Salvini ha fatto riferimento alle due cooperanti rapite in Siria nel 2014 e liberate nel 2015. “Greta e Vanessa, una volta liberate dissero subito: "noi torneremo là"…Credo che fosse il caso di pensarci un po’…”. E ancora: “Io ho visto come lavorano le nostre forze dell’ordine – ha continuato Salvini – e porto enorme rispetto verso chi corre rischi, penso all’agente Apicella. Prima di fare cose che mettono a rischio la vita di donne e uomini delle forze dell’ordine, in Italia e all’estero, pensarci cento volte“. Pasquale Apicella, agente di polizia di 37 anni, è morto lo scorso 27 aprile nel tentativo di fermare una rapina a Napoli. “Auguro una lunga e serena vita a questa ragazza ma ribadisco che per rispetto di coloro che rischiano la vita per salvare le altre vite, prima di dire la prima cosa che farò sarà tornare in un luogo a rischio, ci penserei due volte”, ha chiosato Salvini.
DAGONOTA il 10 maggio 2020. - La questione ''si tratta coi rapitori/terroristi?'' esiste dal Ratto delle Sabine e dunque abbastanza noiosa. Ogni situazione è diversa, ogni famiglia vuole che sia fatto di tutto per salvare i propri cari, ogni governo ha l'interesse ad apparire generoso e attento verso i propri cittadini. Oggi sui social si riproduce la solita frattura tra cattivisti e anime belle, ma qualche punto fermo si può trovare. L'Italia, a differenza di altri paesi del blocco Nato, è famosa nel mondo per essere un paese che paga riscatti. Lo ha fatto (o tentato) quasi sempre negli ultimi 30 anni, dunque non si può dire che il governo Conte abbia fatto meglio o peggio dei precedenti. Federico Fubini del Corriere della Sera solleva delle questioni importanti, che vanno oltre Silvia Romano e riguardano la gestione dei cooperanti italiani all'estero, in particolare in zone pericolose di Africa e Medioriente. Si tratta proprio di garantire la sicurezza di chi vive e lavora in quelle zone: ogni riscatto pagato è un'esca per futuri rapimenti.
Federico Fubini su Twitter: Siamo tutti felicissimi della liberazione di #SilviaRomano e le autorità italiane hanno saputo muoversi con grande efficacia. Ma a un certo punto dovremo anche porci delle domande sui risvolti e gli insegnamenti che questa vicenda porta con sé (breve thread)
#SilviaRomano era andata in Kenya, a 80 km da Malindi nella zona di Chakama, per una minuscola e sconosciuta NGO di Fano che dichiarava sul suo sito: "Chakama ancora non è inquinata, è Africa vera". Poi il rapimento e la vendita alla Shebab, fazione islamica violenta e fanatica.
Africa Milele Onlus, la NGO di Fano, aveva inviato una ragazza di 23 anni inesperta e sola in un'area pericolosa. Posso sbagliarmi ma non credo che questa NGO fosse fra quelle registrate con la Farnesina. Ma questo non le ha impedito di avere finanziamenti per questa "missione".
Forse è il caso avviare una riflessione rigorosa sul mondo della cooperazione in Italia e far sì che in futuro possano svolgere questa attività così importante solo strutture adeguate e certificate. Senza mettere in pericolo chi lavora o è volontario per loro.
Non possiamo dimenticare che la vicenda si è chiusa con il pagamento di un riscatto a Shebab, un'organizzazione fanatica e fondamentalista intenta a uccidere civili e rendere la vita impossibile in Somalia. La ragion di Stato a volte mette davanti a scelte difficili, scomodissime.
L'Italia non è l'unica ad aver pagato riscatti a bande di rapitori in Africa, a volte per salvare persone che si sono o sono state messe in pericolo irresponsabilmente. Il governo di Londra fece lo stesso in Somalia nel 2012. In certe circostanze negare l'intervento è difficile.
Ma sappiamo bene che gli altri governi, gli alleati dell'Italia in Europa e a Washington, vedono con irritazione e preoccupazione questi interventi con riscatto. Finanziano gruppi terroristici. Creano incentivi monetari perché le bande armate rapiscano altri occidentali in Africa.
Questo rischio di rapimento è particolarmente reale (e oggi maggiore) per gli italiani in Africa, se il governo ha la reputazione di essere pronto a pagare chiunque per liberare i propri cittadini. La vicenda #SilviaRomano non aiuta certo i nostri bravissimi cooperanti in Africa.
Credo che la scelta di salvare #SilviaRomano sia da difendere e altri paesi avrebbero fatto lo stesso. Averla salvata è un valore in sé. Tutti felicissimi che sia libera e torni dai suoi. Ma questo non può impedirci di pensare da subito a come evitare nuovi casi così in futuro.
Fabio Poletti per ''la Stampa'' il 10 maggio 2020. Gino Strada, fondatore di Emergency, hanno liberato Silvia Romano...
«Una bellissima notizia. Era passato davvero tanto tempo. Anche le notizie che filtravano erano diminuite, un' altra cosa che affievolisce le speranze. Immagino quello che ha passato questa ragazza e la sua famiglia. Non so la dinamica della sua liberazione ma mi sembra del tutto irrilevante».
In questo anno e sette mesi, per molti Silvia Romano è stata l' immagine dell' Italia migliore.
«È così. Chi sceglie di andare in posti pericolosi o dove ci sono grandi difficoltà, solo per portare aiuto, merita tutto il nostro sostegno. È un pezzo di Italia che mi piace molto. Mi spiace solo che arrivi a Milano quando ancora c' è questa situazione».
Ma c' è anche chi ha avuto da dire su Silvia Romano. «Una ragazza avventata», il giudizio più leggero. Come risponde a queste persone?
«Sono solo banalissimi luoghi comuni. Sintetizzabili in una frase sentita mille volte. "Se stava a casa sua non succedeva niente". Sono frasi solo frutto di leggerezza, ignoranza e indifferenza. Non è vero che se stava a casa sua non cambiava niente. La solidarietà cambia la vita alle persone, anche a quelle che non conosciamo di persona e stanno in luoghi lontani».
E' un po' la sua storia.
«Sono partito con Emergency alla fine degli Anni Ottanta. Sono scelte che si fanno e basta, non c' è bisogno di giustificarle. È meglio per tutti che ci sia questo tipo di solidarietà. Anche se non viene riconosciuta sempre, specialmente ora che regnano indifferenza ed egoismo».
Poi c' è chi anche questa volta tirerà in ballo che per liberarla lo Stato ha dovuto pagare.
«Non è vero che si sia sempre pagato. E poi io non mi scandalizzo se uno Stato paga per liberare un connazionale rapito in zone difficile. E a chi obietta che con quei soldi si poteva fare altro e meglio, ricordo che si sta parlando di questi tempi di commesse per sottomarini militari e per gli aerei F35. Quelli sì sono soldi inutili».
Con il coronavirus abbiamo visto mobilitarsi tanti volontari, medici, infermieri, gente comune. Non è che alla fine la generosità di Silvia Romano ha mille forme?
«La motivazione è la stessa. Non è una cosa che va giustificata. Se io vedo qualcuno per strada che sta male va aiutato o no? Aiutare mi sembra un atteggiamento più umano di continua la sua strada indifferente. Cosa per altro che sembra essere incoraggiata da alcuni pensieri politici e da comportamenti conseguenti. Stiamo vivendo un momento di odio sociale che non ho mai visto in tutta la mia vita e sono nato nel 1948. Forse è un qualcosa che hanno visto quelli nati venti anni prima di me. L' Europa è stata devastata dalla guerra. Si fa fatica a descrivere con le parole quello che è successo in quegli anni. In molta gente questa cosa non ha lasciato memoria. Colpa anche dei politici certo. Pensiamo, e qui torno al discorso sulla solidarietà verso chi non si conosce, a quello che è successo sui migranti. La questione dei migranti a messo a nudo quello che è davvero l' Europa, altro che la favola bella che continuano a raccontarci. L' Europa come frontiere è un' idea hitleriana». «Aiutiamoli a casa loro...».
Alla fine non è la cosa che stava facendo Silvia Romano o sta facendo lei da una vita?
«Io li aiuto a casa loro da 35 anni. Ma non c' è contrapposizione sulla solidarietà che si fa all' estero o che si può fare anche qui. Costruire un ospedale dove c' è bisogno è più utile che far venire qui i feriti. Chi dice "aiutiamoli a casa loro" non ha mai mosso un dito».
Ma oggi le Silvia Romano sono un' eccezione?
«Ce ne sono tanti che praticano volontariato in Italia o altrove. Sto trovando sempre più ragazzi che vengono da noi e si mettono a disposizione, lavorano gratis con coscienza e senza pensare al proprio tornaconto personale. Ritengono che sia un loro dovere. È davvero l' Italia migliore».
Ma a proposito di Italia, trovandosi in un suo ospedale in Afghanistan o chissà dove, non ha mai pensato che, voltandosi, dietro non c' era proprio niente? Non lo Stato almeno.
«Regolarmente. Dalla politica non ci si può aspettare un sostegno all' impegno umanitario. Al di là delle parole fumose e di circostanza. Se volete fare qualcosa tagliate le spese militari. Non lo fa nessuno, a destra ma nemmeno a sinistra. Per fortuna ci sono ragazze come Silvia Romano».
Giampiero Mughini per Dagospia il 10 maggio 2020. Caro Dago, non ne so nulla di nulla dell’operazione che ha restituito alla vita la nostra conterranea Silvia Romano. Leggo che sono stati pagati molti soldi, quattro milioni di euro sembrerebbe. Mi avessero chiesto, avrei detto di sì, pur di far arrivare in Italia quella brava e disinteressata ragazza che era andata in Africa a far bene ai dolenti. Lo so, lo so, che da domani potrebbero sequestrare piripicchio tal dei tali e chiedere una gran somma. Lo so, lo so, non è facile ragionare in questa materia. O forse impossibile. Io sono contento che la ragazza Romano torni in Italia viva e vegeta. Naturalmente non posso non pensare al caso per eccellenza della mia giovinezza, quando un pugno di abietti criminali chiese un prezzo per la vita di Aldo Moro. Dico quel pugno di nullità e di delinquenti cui era riuscita l’azione di via Fani, uccidere cinque italiani pur di rapirne un sesto, il presidente Aldo Moro. Delinquenti da quattro soldi cui era riuscito di annichilire una scorta disarmata e pur di acciuffare un uomo di cui Leonardo Sciascia scriverà che era il “meno implicato di tutti” nelle faccende di malaffare. Lo tennero 53 giorni uno sgabuzzino lungo quanto un letto e largo quanto il letto più un comodino. Lo interrogò a lungo un analfabeta che aveva studiato in un istituto tecnico e che adesso è libero, e io sono d’accordo che lo sia perché un criminale non è lo stesso uomo dopo 30 anni. I delinquenti avevano chiesto uno scambio alla maniera loro, dargli uno dei loro adepti che non stava neppure bene in salute e noi abbiamo detto di no, che una brigatista che non stava bene in salute non valeva la vita di Aldo Moro. No, non la valeva. E dunque i delinquenti portarono Moro giù nel garage e lo mitragliarono a morte. E uno di loro, che oggi è un mio amico, lo trasferì in auto sino ai bordi delle due sedi e del Pci e della Dc. Così è andata. Per fortuna che con la ragazza Romano è andata diversamente. Presidente Moro, ti chiediamo perdono e anche se non vale niente.
Alessandro Gonzato per “Libero quotidiano” l'11 maggio 2020. «Per lo Stato italiano Silvia Romano vale più di Aldo Moro, lo dicono i fatti: Moro è morto perché le istituzioni decisero di non trattare coi terroristi, mentre in questo caso il governo ha dato 4 milioni ai carcerieri islamici. Abbiamo finanziato chi combatte l' occidente: siamo diventati complici degli jihadisti». Vittorio Sgarbi prosegue la sua "fase 2" a Roma tra quadri, libri e musica. Mentre parliamo dal suo studio parte a tutto volume il "Cerchio della Vita", colonna sonora del Re Leone. Poi tocca a "Viva la mamma" di Edoardo Bennato. «Mi scusi se ho impiegato un po' a richiamarla, ma mi stanno scambiando per un avvocato, mi telefonano tutti per chiedermi se possono uscire di casa. Lei, se le interessa, rientra nella categoria "attività professionali tecnico-scientifiche" per cui può andare dove vuole. Se lo ricordi se la fermano: Ateco 74».
Qualcuno però la starà chiamando anche per chiederle cosa ne pensa della liberazione della giovane volontaria...
«È stata un' operazione mercantile, altro che diplomatica o politica!».
Cosa intende?
«Lo Stato ha accettato un ricatto e ha favorito il terrorismo. Ecco, adesso per colpa sua mi è venuto in mente il capo delle "sardine", come si chiama... Santori, che l' altro giorno ha scritto su Twitter che Moro è stato ucciso dalla mafia anziché dalle Brigate Rosse».
Lei non avrebbe pagato il riscatto della Romano?
«Si tratta di una vittoria umana, è chiaro, come si fa a non essere contenti della liberazione? Però, visto che il governo nega di aver pagato, ci dica in che modo l' hanno liberata. Abbiamo il diritto di saperlo. Io non voglio sapere quanto hanno pagato, ma chi ha trattato, come si chiama, a che categoria appartiene e come hanno fatto a ottenere il risultato per via diplomatica. Tutte domande alle quali Conte ovviamente non potrà mai rispondere».
Il premier ha detto che è stata un' operazione di «intelligence».
«Intelligence con Luigi Di Maio ministro degli Esteri? Impossibile».
Però prima non ha risposto: è stato giusto pagare il riscatto?
«Non dico che sia stato sbagliato, ma il fatto che lo Stato paghi i terroristi legittima qualsiasi trattativa, anche con la mafia. Se stabiliamo che la vita è più importante di tutto, allora non ha più senso parlare di trattative Stato-mafia, ma di "ragion di Stato", che dunque vale per ogni situazione in cui di mezzo c' è la vita di una persona. La liberazione di questa ragazza è una vittoria umana, lo ripeto, ma una sconfitta sotto tutti gli altri punti di vista. E non si può nemmeno tacere che abbiamo finanziato i terroristi mentre fino a pochi giorni fa fioccavano le multe contro chi correva da solo in spiaggia, una cosa di una demenzialità assoluta».
La ragazza è stata segretata per un anno e mezzo da un gruppo di fanatici musulmani e una volta liberata ha rivendicato con fierezza la sua conversione all' Islam.
«È una cosa che amareggia, ma in qualche modo posso comprenderla».
Si spieghi.
«Evidentemente ha maturato sul serio certe convinzioni, come quelle secondo cui l' occidente e il capitalismo sono il male. Sono concetti folli, è ovvio, ma probabilmente è stata colpita dalla sindrome per cui tu, rapito, col passare del tempo non ti senti più la vittima e cominci a pensare che sei stato imprigionato in quanto colpevole, perché sei l' incarnazione della parte sbagliata del mondo».
Appena liberata non ha detto «grazie» alle istituzioni o agli italiani, ma «sono stata forte».
«La capisco: la ragazza non può sapere in che modo è stata tolta dalle mani dei sequestratori, quindi si è limitata a dire "sono salva perché ho avuto le palle"».
Conte si è precipitato in aeroporto ad accoglierla col favore delle telecamere. L' ha anche abbracciata, contravvenendo alle regole che lui stesso ha imposto a 60 milioni di persone.
«In sostanza le ha detto "ti hanno liberato dalla prigionia dei terroristi ma ora sei finita sotto quella del nostro governo"».
Il premier ci ha dato un' altra buona notizia: pare che ci concederà di andare in vacanza.
«Non sarà lui a concedercelo, ma il virus, che non ci sarà più, o sarà comunque presente in forma molto ridotta. Nel frattempo hanno terrorizzato per due mesi la popolazione facendole credere che fuori dalla porta di casa c' era la peste, che se uscivi morivi di colpo. Qualsiasi persona abbia studiato medicina sa che fa molto meglio stare all' aria aperta che rinchiusi in quattro mura. Una cosa sono gli assembramenti, un' altra è correre in un parco. Quando vedi per strada una persona sola, senza nessuno attorno, che indossa la mascherina, capisci che è stata lobotomizzata».
Massimo Gramellini su Facebook l'11 maggio 2020: Sull’onda di una splendida notizia, la liberazione di Silvia Romano, sui social è rispuntato il Caffè che scrissi il giorno del suo rapimento. Nelle mie intenzioni quell’articolo voleva essere una risposta a chi critica l’impegno e il coraggio dei giovani come Silvia e una difesa di tutti coloro che sanno ancora sognare un mondo migliore. L’effetto che ottenni fu paradossalmente l’opposto di quello desiderato, soprattutto a causa dell’incipit infelice dell’articolo, dove davo l’impressione di criticare chi in realtà intendevo difendere. Fu un mio errore, sia chiaro. L’incomprensione di un testo è sempre responsabilità di chi lo scrive e non di chi lo legge. In un diario pubblico che esce quasi tutti i giorni, può succedere ogni tanto di sbagliare le parole, e me ne scuso. Mi piacerebbe solo che fosse riconosciuta la buona fede dell’estensore. Ho scritto articoli a favore del volontariato e dei cooperanti rapiti, fin dai tempi di Simona Parri e Simona Torretta. Ho partecipato alle loro iniziative e li ho intervistati in tv: sono onorato di avere avuto per due volte alle “Parole della Settimana” il formidabile Nicolò Govoni, fondatore della ONG che organizza scuole per i profughi e candidato al Nobel per la Pace. Chiedo ancora scusa per quel mio errore di comunicazione. Bentornata Silvia, e un caro saluto a tutti voi. Massimo
Massimo Gramellini per il ''Corriere della Sera'' del 22 novembre 2018, all'indomani del rapimento di Silvia Romano. Ha ragione chi pensa, dice o scrive che la giovane cooperante milanese rapita in Kenya da una banda di somali avrebbe potuto soddisfare le sue smanie d’altruismo in qualche mensa nostrana della Caritas, invece di andare a rischiare la pelle in un villaggio sperduto nel cuore della foresta. Ed è vero che la sua scelta avventata rischia di costare ai contribuenti italiani un corposo riscatto. Ci sono però una cosa che non riesco ad accettare e un’altra che non riesco a comprendere. Non riesco ad accettare gli attacchi feroci a qualcuno che si trova nelle grinfie dei banditi: se tuo figlio è in pericolo di vita, il primo pensiero è di riportarlo a casa, ci sarà tempo dopo per fargli la ramanzina. E non riesco a comprendere che tanta gente possa essersi così indurita da avere dimenticato i propri vent’anni. L’energia pura, ingenua e un po’ folle che a quell’età ti spinge ad abbracciare il mondo intero, a volerlo conoscere e, soprattutto, a illuderti ancora di poterlo cambiare. Le delusioni arrivano poi, quando si diventa adulti e si comincia a sbagliare da professionisti, come canta Paolo Conte. Silvia Romano non ruba, non picchia, non spaccia. Non appartiene alla tribù dei lamentosi e tantomeno a quella degli sdraiati. La sua unica colpa è di essere entusiasta e sognatrice. A suo modo, voleva aiutarli a casa loro. Chi in queste ore sul web la chiama «frustrata», «oca giuliva» e «disturbata mentale» non sta insultando lei, ma il fantasma della propria giovinezza.
Da adnkronos.com l'11 maggio 2020. "Se Silvia Romano era così felice, convertita, sposata per sua scelta, ma perché l'avete liberata? Restava là e lo Stato non avrebbe regalato 4 milioni ai terroristi. Altro non so dire, o soltanto: chissà se casuale il suo ritorno per la Festa della Mamma". Così Ornella Vanoni su Twitter esprime il suo pensiero sulla liberazione della giovane cooperante Silvia Romano, dopo un anno e mezzo di prigionia.
Alle sciacquine in vacanza in Africa lo stato non paghi la vacanza. Dagospia l'11 maggio 2020. Trascrizione del video di Silvana De Mari. “Sono andata in Etiopia, nella bellissima regione del Sidamo, nel 1986 e ci sono andata perché ero chirurgo e mancavano chirurghi. L’Africa manca di tecnici, in compenso è ricca di africani che sanno fare un mucchio di lavori, senza il minimo problema, sicuramente meglio dell’europeo perché loro conoscono il posto. Quindi se siete capaci di amputare un arto, se siete capaci di eseguire un parto, se siete capaci di scavare un pozzo, se siete medici, chirurghi, ostetriche, veterinari o ingegneri, infermieri professionali no perché ci sono già le loro, ma qualche infermiera possiamo anche mettercela. Allora, se andate nel Terzo mondo siete dei soccorritori. Se non sapete fare nessuna di queste cose siete sciacquine. Cioè individui a competenza zero che se ne vanno per il mondo convinti che il mondo sia il loro posto Erasmus, con il loro zainetto e il cellulare per farsi i selfie. Perché se non avete competenze, l’unico motivo per cui andate in terra d’Africa è il selfie con il bimbo africano. Negli anni ’80 fu fatta una legge terribile in Italia: era il periodo dell’Anonima sequestri, molte persone erano sequestrate, fu fatta una legge atroce: qualsiasi cosa succeda, tuo figlio lo fanno a pezzi e te ne mandano un pezzo alla volta, non puoi pagare il riscatto. Altrimenti ti imputiamo di concorso in sequestro di persona. Questo pose fine ai sequestri. Facciamo immediatamente questa legge: la sciacquina che se ne va in giro per il mondo cominci ad avere chiaro in mente che se le cose vanno male il popolo italiano non le pagherà la vacanza studio. Inoltre, questo fiume di denaro che è tolto al popolo italiano vuol dire bambini che moriranno di leucemia perché malcurati, persone che moriranno di ustioni perché mancano in molti posti del sud i centri antiustionati. Con la stessa cifra con cui è stato pagato il riscatto di una sola persona, avremmo potuto riscattare dalle miniere di oro del Burkina Faso 4mila bambini africani. Avremmo potuto pagare 40mila corsi di infermiera professionale. E invece abbiamo finanziato il terrorismo con il denaro di questi riscatti della sciacquina di turno che deve andare in Africa oppure in Iraq oppure in Siria a portare la sua clamorosa incompetenza. Abbiamo finanziato il terrorismo. Quante chiese con i cristiani dentro saranno fatte saltare grazie all’esplosivo comprato per queste persone. Facciamo una legge che d’ora in poi, chiunque se ne vada in giro a salvare il pianeta secondo le sue idee lo fa a proprio rischio e pericolo. Il popolo italiano non può più pagare questo perché non è sensato che lo stato italiano finanzi il terrorismo internazionale. Io ho salvato la mia, certo, grazie a quel denaro moriranno in Africa almeno 500mila africani, ma tanto a te cosa te ne importa, l’importante è che tu hai salvato la tua. Per cui, sciacquine, statevene a casa: non sapete amputare un arto, non sapete seguire un parto, non sapete scavare un pozzo, non siete inutili, siete dannose. State a casa”
Silvia Romano, scontro Vauro-Gasparri a Non è l'arena: "Sono tutte cagate", "No è l'estremismo islamico". Libero Quotidiano il 10 maggio 2020. Scontro in diretta su Silvia Romano tra Vauro Senesi e Maurizio Gasparri, entrambi ospiti di Massimo Giletti a Non è l'Arena su La7. I due si scontrano sulla sua scelta della giovane cooperante sequestrata in Kenya un anno e mezzo fa e liberata venerdì di convertirsi all'islam. "Sono cagate", sbotta il vignettista rispetto alle polemiche sulla conversione della giovane cooperante milanese. Gasparri aveva detto poco prima che "la conversione religiosa di Silvia Romano coincide con il periodo di prigionia e fa venire il dubbio che ci sia stata un costrizione. Sappiamo tutti che esiste la sindrome di Stoccolma" ma quelli che l'hanno sequestrata erano "terroristi" e bisogna stare attenti all'estremismo islamico.
Silvia Romano, l'affondo di Selvaggia Lucarelli: "Il riscatto pagato con le sanzioni dei cretini del lockdown". Libero Quotidiano il 10 maggio 2020. Come sempre in questi casi, un piccolo strascico polemico accompagna la liberazione di Silvia Romano. Nel mirino i soldi del riscatto, pagati per liberare la cooperante in mano a bande jihadiste da novembre 2018. Il punto è sempre quello: fermo restando che la priorità è salvare tutte le Silvia del mondo, ci si chiede poi che fine faranno quei denari, destinati a finanziare organizzazioni terroristiche. E ancora, c'è chi punta il dito per il fatto che, per forza di cose, per pagare il riscatto si usino soldi pubblici. E mentre il dibattito montava, soprattutto sui social, ecco l'intervento a gamba tesa di Selvaggia Lucarelli, che riferendosi al caso di Silvia Romano cinguetta: "Tranquilli, il riscatto l'abbiamo pagato con le sanzioni di tutti i cretini che non hanno rispettato il lockdown", conclude.
Luca Bottura per “la Repubblica” l'11 maggio 2020. Si è convertita all' Islam. E allora? Dice di averlo fatto senza costrizioni. E allora? Corre voce (indinniata!) che sia incinta. E allora? E allora siete sempre voi, cattivisti in servizio permanente effettivo, alla ricerca di una conferma ai vostri pregiudizi, su cui issare un nuovo giudizio definitivo che vi scarichi la coscienza dall' ignavia di chi chiede di aiutarli a casa loro e poi, quando altri italiani lo fanno, li deride. Siete voi che non reggereste dodici secondi, in un sequestro. Ma ora siete lì a concionare, davanti alla tastiera, su come una persona debba reagire a una torsione così violenta della propria esistenza. Siete voi che cercate conferme per poter insultare, denigrare, violentare con le parole. Istruiti, vellicati, raccolti in plotone dalle maratone del canale unico che amplifica i social. Siete voi che non avete tolto il sorriso a Silvia. E stavolta, giuro, non riuscirete a toglierlo a noi. Bentornata. E soprattutto: grazie.
Luca Bottura per ''la Repubblica'' l'11 maggio 2020. Bello del villaggio globale è che per leggere i giornali cattivisti su Silvia Romano non è stato necessario attendere stamattina. Bastava leggere i commenti dei loro lettori in coda al tweet con cui Giuseppe Conte ha annunciato la liberazione di Silvia Romano. I tempi delle "vispe Terese" (le due Simone), di un agente dei servizi che si spaccia per giornalista e dava del pirlacchione a Enzo Baldoni, anni di semina d' odio, hanno dato il loro esito. Tre i grandi filoni: gli insulti personali alla liberata, così impara a fare del bene in giro per il mondo. La giustapposizione con gli italiani, come se due mesi di quarantena per non ammalarsi valessero anni di prigionia reale, ma soprattutto la domanda ossessiva: quanto costa? Quanto ci è costato? Quanto abbiamo speso? Da contribuente inutilmente convinto, ci tengo a gettare il mio granello di sabbia della polvere dell' irrilevanza: avessi potuto scegliere tra pagare un eventuale riscatto o regalare le cure anche a chi le tasse non le paga, e dunque ha scippato tempo, soldi, e salute agli italiani perbene, beh, non avrei avuto un dubbio al mondo. Bentornata, Silvia.
Silvia Romano libera, Pippo Civati in trionfo: perché spopola "Grazie Pippo" su Twitter. Libero Quotidiano il 09 maggio 2020. Nel giorno della liberazione di Silvia Romano, la gioia è un po' anche di Pippo Civati. L'ex esponente del Pd e fondatore di Possibile, da tempo lontano dalla politica, da quel 20 novembre 2018, giorno del rapimento della giovane volontaria milanese in Kenya, non ha mai smesso di ricordarla ogni giorno con un tweet, tenendo vivo il tema delle ricerche e fornendo preziosi aggiornamenti sul caso. Per questo sabato pomeriggio, dopo che il premier Giuseppe Conte annuncia la svolta ormai quasi insperata, su Twitter esplode l'hashtag Grazie Pippo. I più distratti avranno pensato a Inzaghi, ma la realtà è un'altra: il Pippo è proprio lui, l'ex rivale di Matteo Renzi. Quella di Silvia, spiega Civati all'agenzia Adnkronos, è una notizia "commovente e liberatoria, crea una grande gioia, al di là di ogni aspettativa. Una notizia particolare che 'buca' lo schema di questi ultimi due mesi al quale purtroppo ci siamo dovuti abituare". La sua iniziativa per tenere vivo il caso Romano "si è trasformata in una vera e propria mobilitazione, che ha visto la partecipazione sentimentale di migliaia di persone che si sono via via sempre più affezionate a lei. Oggi possiamo affermare veramente che torna a casa un'amica, una vicina e diciamolo pure, nonostante l'ironia di questo periodo, una parente". Civati non nasconde "che ogni giorno che passava lo sgomento e la paura crescevano. 18 mesi sono un tempo infinito, le informazioni che arrivavano erano contraddittorie e parziali e diventava sempre più difficile immaginare un finale così bello. Ora Silvia è libera, l'importante è che stia bene e finalmente domani tutti potremmo rivederla al suo arrivo a Ciampino".
Silvia Romano, Giorgia Meloni a Che tempo che fa: "Bene la liberazione ma non vorrei che diventasse un buon affare". Libero Quotidiano il 10 maggio 2020. Giorgia Meloni, in collegamento con Fabio Fazio a Che tempo che fa, su Rai due, commenta così la vicenda di Silvia Romano, la giovane cooperante milanese rapita in Kenya un anno e mezzo fa e liberata dai nostri servizi in Sudan: "Una bella notizia. Spero che dopo aver riportato lei lo Stato si prodighi per andare a stanare i suoi carcerieri", esordisce la leader di Fratelli d'Italia. Che attacca: "Sarebbe un dramma se passasse l'idea che rapire gli italiani sia un buon affare". La Meloni aggiunge poi: "Anche sul tema della conversione: non posso non ragionare che sia un modus operandi di buona parte del terrorismo islamico".
Silvia Romano, Meloni: “Farei tutto per portare a casa un compatriota”. Jacopo Bongini il 13/05/2020 su Notizie.it. Intervistata sul caso di Silvia Romano, Giorgia Meloni ha affermato che se fosse stata ministro degli Esteri avrebbe fatto di tutto per farla tornare. Smarcandosi dal sentire comune dei politici di centrodestra sul ritorno in Italia di Silvia Romano, Giorgia Meloni decide di assumere toni più istituzionali sulla vicenda e ai microfoni del programma di La7 L’aria che tira afferma che se fosse stata ministro degli Esteri avrebbe fatto di tutto per riportare a casa un connazionale. Intervistata dalla presentatrice Myrta Merlino, la leader di Fratelli d’Italia si è dunque mostrata sulla stessa linea delle pronunciate negli scorsi giorni da Francesco Storace, per il quale è stato meglio che Silvia Romano sia tornata in Italia viva ma convertita che non all’interno di una bara. Soffermandosi sulla questione del presunto riscatto pagato dal governo per riavere Silvia Romano, Giorgia Meloni ha inoltre affermato che uno stato serio non avrebbe dovuto lanciare un segnale di questo tipo a potenziali rapitori: “È una cosa che non le dirò mai, che un politico normale non le direbbe mai ma posso dirle che, da patriota quale sono, farò e farei tutto quello che posso fare per riportare a casa un compatriota. Ma uno Stato serio dà il segnale che non è remunerativo rapire un italiano, indipendentemente da quello che ha fatto. Quindi adesso deve andare a stanare casa per casa i rapitori perché altrimenti sa quanti connazionali esponiamo al rischio?”. La leader di Fratelli d’Italia ha poi proseguito nel suo intervento aggiungendo come ora sia necessario fare in modo di scovare gli autori del rapimento della cooperante italiana: “Io aspetto di sapere tramite il Copasir che cosa il Governo italiano vuole fare per stanare i rapitori di questa ragazza, come farebbe qualunque governo serio. Sul tema dei riscatti le ricordo che c’è una legge in Italia che dal 1991 impedisce a chi ha un parente sequestrato di pagare dei riscatti, tanto che gli vengono sequestrati i beni per legge ed è una legge che ha dato risultati”.
Pietro Salvatori per huffingtonpost.it l'11 maggio 2020. “Buongiorno dottor Storace”. “Ma quale dottore, sono Francesco”. Ha i modi spicci e un po’ bruschi che sono stati cifra riconosciuta di una carriera politica fatta di successi e cadute Francesco Storace, colonnello di Gianfranco Fini, leader di quella Destra Sociale che lo ha portato fin sulla vetta della Pisana, alla guida della Regione Lazio, e a sedersi al tavolo del consiglio dei Ministri. Esponente di una destra pane e salame che tanto è piaciuta ed è stata odiata per decenni, che oggi lo vede nel partito di Giorgia Meloni alla direzione del destrissimo Secolo d’Italia. E’ tutto questo, Storace, ed è anche una delle poche voci che da quel mondo si sono levate in difesa di Silvia Romano: “Sono cattolicissimo, a livello personale mi è dispiaciuta la conversione. Ma ci manca solo che le chiediamo se è romanista o laziale. Preferivate che tornasse dentro una bara? Perché l’unica immagine da guardare non era quella del velo, ma del suo sorriso una volta tornata. Viva. Un sorriso che mi ha conquistato”.
La sua posizione è molto, diciamo così, originale nel mondo della destra.
«Guardi la fermo subito: ho voluto specificare che è solo una mia opinione. Ma ritengo questo dibattito assurdo. Ci manca solo che le chiediamo se è romanista e laziale. Ma anche a destra ho sentito voci ragionevoli, penso a Crosetto o a Buttafuoco».
Hanno criticato anche Buttafuoco per la sua nota conversione all’Islam.
«Io resto cattolicissimo. E se devo dirle, mi è dispiaciuta la conversione, ma a livello personale. Il problema che è molto più facile stare contro».
In che senso?
«Più facile perché il nostro mondo è all’opposizione, e quindi si fa presto a criticare. Ma non si deve mai dimenticare che Silvia Romano è stata rapita quando c’era un altro governo. Immagino dunque che sia iniziata una trattativa quando Salvini era al governo, saremmo fuori dal mondo a pensare il contrario».
Però le critiche si addensano anche, se non soprattutto, sulla sua conversione. Libero titola secco: “Abbiamo liberato un’islamica”.
«Perché la scelta di presentarsi con il velo è stata vista male. Io dico discutiamone. Perché un dibattito civile fa bene, voglio parteciparvi anche io. Ma ha senso aprire la discussione quando polvere si è depositata. Il giorno della festa si fa polemica? L’ho trovato estremamente fastidioso. Detto questo non solo la destra si è prestata. La foto della Romano postata dalla De Micheli con il simbolo del Pd è sciacallesca, una vergogna».
A proposito del velo, il direttore del Giornale Sallusti ha detto che è come veder tornare un internato in un lager con una divisa nazista.
«Non mi azzardo a dare giudizi sui colleghi. E’ un onore essere accostato a Sallusti. Ma vedo un’esasperazione nel dibattito che non condivido».
Salvini parla di “pubblicità mondiale agli infami” che l’hanno rapita.
«Quando l’ho vista ho pensato che era vestita così da lì, si figuri, la conversione nemmeno mi è passata per la testa. Sì, probabilmente si poteva ostentare di meno. Ma quel che non si capisce è che l’immagine su cui focalizzarci non è lei con il velo, ma lei che è viva. Ho discusso in privato con alcuni. Ho mostrato a chi contestava questa posizione la foto di una salma avvolta dal tricolore per dei funerali di stato. E gli ho chiesto: la volevate così? L’alternativa era tra che ritornasse viva o ritornasse morta. Poi certo, lo dubito, ma spero che si prendano i terroristi che l’hanno rapita».
Secondo lei è giusto che si sia pagato un riscatto?
«Il pagamento di riscatti è la costante della politica italiana. Poi diciamo anche che non è detto che devi fare l’eroe. Quattrocchi è stato un eroe. Ed è tornato in una bara dopo aver detto “adesso vi faccio vedere come muore un italiano”. La volevamo rivedere tornare in una bara? Con il suo sorriso mi ha conquistato. A sinistra c’è chi ha gioito per la morte di Quattrocchi. Mi rifiuto di pensare che a destra abbiamo smarrito l’umanità».
Maurizio Belpietro sostiene che ci è costata di più di un ospedale Covid.
«Senta, lasciamo perdere il coronavirus, che c’entra? Lo spreco sono i 40 milioni spesi da Zingaretti per le mascherine, che c’entra Silvia Romano con la pandemia?»
Vittorio Sgarbi fa un parallelo con Aldo Moro, dice che ci è costata più la Romano che il leader della Dc per cui non fu pagato un riscatto.
«Sgarbi ha passato gli ultimi mesi a immaginare che 30mila persone siano morte di freddo. Il suo è un ragionamento relativista, per cui tutto si deve paragonare a altro. Ma il valore della vita è sacro. La Romano ha meno anni di mia figlia, non era giusto in nessun caso farla morire. Ma si può sindacare sulla vita di una persona? L’Islam ha terroristi? Li prendi e li meni, cosa c’entra che una ragazza è diventata islamica? Certo, poi con calma e con modo mi piacerebbe chiederle se farebbe una battaglia per i diritti dei cattolici in quei paesi. Ma non si può ridurre tutto a un derby».
Belpietro chiede che, nel caso ripartisse, prima saldi il conto del riscatto e poi firmi una assunzione di responsabilità nel caso succedessero fatti simili.
«Questo vale pure per chi va in vacanza in quei posti? Per il suo ritorno provo la stessa gioia di Pippo Civati, che ogni giorno l’ha ricordata sui social».
Sul Giornale Sallusti sostiene che si sia regalata una nuova eroina alla sinistra.
«Se voleva dedicarsi alla politica a Milano sarebbe stato più agevole fare propaganda, ci sono tante sezioni del Pd. Mi riesce difficile accettare una simile argomentazione. Ci sto sulle critiche, alcune le capisco. Ma io parto da un’altra cosa: lei ha fatto una cosa che io non ho il coraggio di fare. Dicono “aiutiamoli a casa loro”, e la criticano perché lei lo ha fatto. Nel momento in cui una ha questo tipo di visione, di coraggio, anche contro la volontà dei genitori, non possiamo derubricarlo a un atto buonista, è un fatto altamente positivo. Si metterà a fare la Carola? La contesterò. Ma è un errore regalarla a uno schieramento che la userà un po’ come ha fatto la De Micheli. Al momento non mi risulta abbia speronato nessuno».
Intervista con Alfredo Mantovano: vi spiego cosa c’è dietro il sequestro e la liberazione di Silvia Romano. Mario Bozzi Sentieri mercoledì 20 maggio 2020 su Il Secolo d'Italia. La vicenda della cooperante milanese Silvia Romano, impone, per la sua gravità, una lettura più approfondita. Che vada oltre la stessa figura della cooperante. Il trionfalistico ritorno in Italia, alla presenza del Presidente del Consiglio Giuseppe Conte e del Ministro degli Esteri Luigi Di Maio, non ha del resto fatto venire meno i dubbi sulle modalità della liberazione della Romano. Da un certo punto di vista li ha perfino aggravati, scatenando polemiche di taglio politico e attacchi personali, che hanno “depistato” l’attenzione rispetto agli elementi sostanziali della vicenda. Per cercare di delimitare i confini reali della vicenda abbiamo intervistato Alfredo Mantovano, magistrato, direttore responsabile di L-Jus, la rivista semestrale on line del Centro studi Livatino, di cui è vicepresidente, con esperienze pregresse in tema di sicurezza in Parlamento e al Governo.
Da dove partire per cercare di ricostruire, senza facili strumentalizzazioni di parte, la recente liberazione di Silvia Romano ed il suo ritorno in Italia?
«Dalla natura terroristica della vicenda. Come più fonti mediatiche hanno riferito. E com’è presumibile in considerazione dei luoghi del rapimento e della prigionia, l’uno e l’altra sono stati gestiti da bande criminali e dall’organizzazione al-Shabab. Al-Shabab è un gruppo terroristico che ha nei sequestri di persona, ma anche di imbarcazioni nel mare di Somalia, una delle fonti di finanziamento. Per anni gli attacchi terroristici di matrice islamica sono stati al centro dell’attenzione. Soprattutto quando hanno interessato le strade e le piazze delle nostre città. Da quando lo Stato Islamico ha subito una serie di sconfitte nei territori nei quali si era radicato, fra Siria e Iraq settentrionale, l’audience sul tema è notevolmente calata. Ma questo segnala la superficialità delle reazioni mediatiche. Non già la scomparsa del fenomeno. Che peraltro ha continuato a far registrare attentati e omicidi in zone lontane dagli occhi, e quindi dal portafoglio e dal cuore. A chi interessano i conventi distrutti e i religiosi annientati in Siria? O le giovani cristiane rapite, stuprate e uccise da Boko Haram in Nigeria? O le chiese fatte esplodere in Sri Lanka o in Egitto?»
Come vanno giudicate le scelte della giovane durante i mesi di prigionia?
«Non dobbiamo giudicarle. È ragionevole pensare che una giovane che si trova in totale isolamento a migliaia di km da casa nelle mani di criminali sconosciuti non abbia né libertà fisica, né libertà morale. Trovo triste tuttavia che le polemiche e i contrasti siano ruotati attorno a lei, e non si sia affrontata in modo chiaro e diretto la questione vera, che è quella della persistente operatività di organizzazioni terroristiche islamiche».
Al centro della vicenda c’è il tema del riscatto e dei possibili beneficiari. È realistico pensare che sia stato veramente pagato?
«Il Presidente del Consiglio ha mantenuto il silenzio sul punto. Pur non avendo fatto mancare la sua presenza e la sua voce al rientro in Italia della giovane. Il ministro degli Esteri ha invece sostenuto che a lui non risulta alcun pagamento. Il che, con lo scarso coordinamento spesso mostrato fra i vari ministri, non significa negare che il pagamento sia avvenuto, ma solo che si tratta di particolare ignoto al titolare di uno dei dicasteri più importanti. Per il rilievo della vicenda, il Governo – e chi in esso ha la delega ai Servizi di informazione e sicurezza, quindi il Presidente del Consiglio – non può fare mancare una seria informativa al Parlamento. In particolare al Copasir, l’organismo parlamentare di verifica e di controllo dell’attività dei Servizi. Possiamo comprendere che finora le autorità abbiano pubblicamente omesso molti particolari, anche della liberazione. Divulgare tutto comprometterebbe eventuali informatori e collaboratori in territori difficili. Tuttavia la forma ristretta del Copasir e il riserbo che ne connota i lavori fornirebbero le adeguate garanzie di riservatezza. Qualche forza politica (in particolare, Fratelli d’Italia) ha chiesto l’audizione in quella sede del Capo del Governo. Mi auguro che segua a breve».
Veniamo ai beneficiari della somma. Chi sono i terroristi di al-Shabab?
«Al-Shabab appartiene al network di al-Queda, che controlla le aree nelle quali sono avvenuti sia il rapimento che la liberazione. I suoi aderenti sono – per ricordare una delle loro gesta più efferate – gli autori della strage di Garissa, nelle vicinanze di Nairobi, del 2 aprile 2015. Allorché i killer uccisero oltre 150 universitari. Uno per uno. E dopo la prova di recitazione del Corano: a chi non lo conosceva a memoria i terroristi hanno tagliato la testa».
Esistono margini d’intervento da parte del governo italiano per limitare l’operatività di al-Shabab?
«Poiché è certo che il denaro ricevuto per la liberazione di Silvia Romano servirà per acquistare più armi. Compiere più attentati. Organizzare nuovi sequestri di persona e di navi, in una zona marina di rilevante interesse economico, bisognerebbe sapere se il Governo italiano intende proporre una collaborazione ai Governi somalo e keniota per limitare l’operatività di questo gruppo criminale. Che sarà senza dubbio incrementata dalle risorse ricevute. Se il governo è disponibile a farlo e magari a sollecitare il coinvolgimento di quella Turchia – nostra alleata nella NATO – che, come anche i media hanno riferito ufficialmente, ha avuto un ruolo nell’esito positivo di questa vicenda. Grazie all’influenza che esercita in quell’area. Come ad esigere l’appoggio dell’Unione europea. Del resto, in un passato anche recente dall’Italia sono partite missioni militari all’estero, impegnate nel sostegno alle autorità di singoli Stati aggrediti dal terrorismo. Talune di esse sono ancora in corso, e l’area somala è al tempo stesso fra le più colpite. E fra quelle che per ragioni storiche giustificherebbe un intervento italiano. Sarebbe singolare se l’esecutivo italiano si ritenesse appagato della liberazione della giovane milanese. Che è importante che sia avvenuta, ma che non risolve la questione in prospettiva».
Sono ipotizzabili interventi legislativi in grado di bloccare richieste simili da parte di altre organizzazioni terroristiche internazionali?
«Esiste una antinomia con cui fare i conti. In Italia, dopo anni di sequestri di persona a scopo di estorsione – oltre 450 fra il 1970 e il 1990 –, consumati fra Calabria, Sardegna e Lombardia, la svolta e l’azzeramento del fenomeno vi furono quando una legge, la n. 82/1991, stabilì l’obbligo del sequestro del beni del sequestrato e dei suoi familiari. Il periodo seguente fu drammatico, ma è stata la carta vincente. È vero, un conto è l’ordinamento interno di uno Stato come l’Italia, che è in grado di controllare il proprio territorio. Un conto è muoversi all’estero, in aree ostili, avendo a che fare con autorità locali non sempre affidabili, comunque deboli. E tuttavia il sistema andrebbe riportato a coerenza. Esistono peraltro precisi obblighi europei: nel documento del Consiglio UE del 30 novembre 2005, cui ha concorso anche l’Italia, si legge del comune impegno di «smantellare l’attività terroristica e perseguire i terroristi oltre frontiera». Mentre più di recente la direttiva 2017/541 disegna in termini stringenti gli obblighi di prevenzione e di contrasto al terrorismo gravanti sui paesi membri. Esistono obblighi internazionali, a cominciare dalla Convenzione di Palermo dell’ONU in tema di contrasto al crimine organizzato e al terrorismo: non attribuire cogenza a essi mina la credibilità e la coerenza del nostro Paese nella lotta alla criminalità, soprattutto terroristica».
Esiste una responsabilità oggettiva da parte di una Onlus come quella a cui Silvia Romano apparteneva e per conto della quale operava in Africa?
«Non è solo una responsabilità oggettiva. Tant’è che è stata avviata una indagine penale sulla Onlus per la quale Silvia Romano era presente nella zona del rapimento (Africa Milele onlus): sul Corriere della sera del 12 scorso Gianfranco Cattai, presidente di Focsiv, federazione di 87 Onlus di cooperazione e volontariato internazionale, ha affermato che «nessuna delle nostre associazioni avrebbe fatto partire una ragazza sola e per giunta diretta in un Paese con tensioni interne come il Kenia». Un nodo da affrontare è proprio quello relativo allo statuto delle Ong. Si tratta di organizzazioni private che sono ammesse a fruire di finanziamenti pubblici, in buona parte provenienti dall’UE, allo scopo di realizzare progetti ricadenti, fra l’altro, nell’ambito della cooperazione internazionale e degli aiuti umanitari. L’estrema pericolosità delle condizioni di intervento dovrebbe indurre le organizzazioni che fanno questa scelta a seguire protocolli di sicurezza rigorosi. A partire dalle necessarie informative da rivolgere agli Stati di provenienza e a quelli dove si va ad operare, prima della partenza e durante la permanenza in un territorio a rischio. Ciò anche perché le missioni riguardano molto spesso zone nelle quali i cooperanti vengono considerati dalle parti in conflitto non per quello che fanno ma per quello che sono, cioè occidentali, dunque nemici. La vicenda di Silvia Romano dimostra quanto sia attuale la questione».
Francesco Storace: “Insulti a Silvia Romano non sono della mia destra”. Aldo Torchiaro de Il Riformista il 14 Maggio 2020. Francesco Storace dirige Il Secolo d’Italia, dopo una vita di passione politica a destra che lo ha portato dalle sezioni del Msi ai banchi di Camera e Senato, dopo essere stato Presidente della Regione Lazio e Ministro della Sanità con il governo Berlusconi. Di quegli anni ricorda le aperture di posti letto e presidi ospedalieri («Mi accusano di aver speso troppo per la sanità») ma non rimpiange di guardare la politica con un piede fuori, da libero osservatore. Rinchiuso in casa anche lui: «Soffro di asma e devo stare attento ai polmoni. Agli inizi di febbraio mi è successa una cosa strana, una polmonite brutta. Sono stato ricoverato qualche giorno. Ma non credo fosse coronavirus».
Su Silvia Romano ha colpito la sua posizione, poi sposata da alcuni di Fdi.
«Vedo una debolezza di cervelli anche a destra. Insulti, minacce. Io ce l’ho con i delinquenti somali che l’hanno rapita e sono felice di festeggiare che sia tornata viva. Convertita? Vedremo. Intanto è viva. Ma tutto questo dileggio sui social network mi deprime, non è di destra. Voglio sperare sia tutto legato all’incattivimento di questo lockdown. Ho preso a selezionare meglio i contenuti, a bloccare degli account».
Non c’è solo la Rete. Alla Camera il deputato leghista Pagano ha parlato di Silvia Romano definendola “terrorista islamica”…
«Sono trasalito. E ho fatto subito un tweet: meno male che non sto più in Parlamento».
Non esiste un vaccino per le sciocchezze.
«Purtroppo no. Invece spero arrivi presto quello per il Covid-19. Io sono sempre stato scettico sull’obbligo vaccinale, ma appena esce stavolta corro a farlo».
Come ha gestito questa crisi sanitaria il governo?
«Se si fosse saputo che c’era un documento segreto sull’emergenza sanitaria, quando ero io ministro, mi avrebbero impiccato. Invece questi fanno quello che vogliono, decreta tutto il Premier».
È singolare per un uomo di destra accusare il governo giallorosso di autoritarismo, no?
«No: la destra è per la politica autorevole, non autoritaria. E per essere autorevoli bisogna avere un’esperienza, che questi non hanno, e un consenso popolare. Di Conte non sappiamo da dove viene né chi lo ha voluto. Sappiamo solo che ci governa con questo piglio uno che non ha mai preso un solo voto nella vita».
Si trova a gestire una crisi inedita e inaudita.
«Io avevo gestito un’altra pandemia, l’aviaria. Un virus che aveva messo in ginocchio l’agroalimentare. Se oggi quella tragedia è sparita dalla mente dei cittadini, vuol dire che non abbiamo fatto danni. C’era concretezza e molta sobrietà. Si seguivano le indicazioni Oms e io curavo ogni giorno l’intesa con le Regioni. Qui siamo al caos, all’improvvisazione al potere».
Conte non le piace proprio.
«Conte è una nullità politica.
Venerdì arriva la mozione di sfiducia su Bonafede al Senato?
«Voglio capire come fanno a salvare uno come Bonafede. Io non sono né forcaiolo né garantista, ma il tema delle scarcerazioni è grave».
Lei cosa avrebbe fatto, li avrebbe fatti morire in carcere?
«All’ospedale Pertini c’è il reparto detenuti, che ho fatto fare io. C’è qualche meccanismo che non funziona, ma in testa. Bonafede è schiavo di un sistema-giustizia che non riesce a dominare».
Del caso Bonafede-Di Matteo cosa pensa?
«Sulla vicenda Bonafede-Di Matteo dice bene Sansonetti, è chiaro: uno dei due mente. O forse in parte mentono entrambi. Probabilmente è vero che a Di Matteo, star dei 5s, offrirono la direzione del Dap, ed è vero che qualcuno poi sconsigliò Bonafede dall’indicarlo per quel posto».
Non è credibile che Cosa nostra avrebbe fatto arrivare il suo veto alle orecchie del Ministro della Giustizia.
«Per sapere la verità c’è un solo metodo, mettere Bonafede davanti a un riflettore e interrogarlo. Se mi legge, voglio dargli un consiglio: prendi carta e penna e firma una lettera di dimissioni adesso, perché più passa il tempo e più la tua strada si farà in salita».
Di Matteo sembra tarantolato, Bonafede è in difficoltà. Lei un’idea se la sarà fatta.
«Qualcuno dice che è stata l’avvocatura a dare il niet e a chiedere di bloccare Di Matteo al Dap. Ma il silenzio elusivo di Bonafede lascia pensare ad altro. Ci costringe a pensare che dietro allo stop c’è Sergio Mattarella».
Lei col Colle gioca pesante.
«Con Napolitano ho vinto in tribunale, rinunciando alla prescrizione per andare a sentenza. Assolto».
Al Presidente Mattarella cosa rimprovera?
«Mattarella ha consentito troppe cose a questo governo. Non lo vede che il premier fa il gradasso? Lo deve richiamare all’ordine».
Il centrodestra si sente escluso?
«Non io, ma che per la prima volta non venga chiesta nemmeno una virgola all’opposizione, peraltro in una fase di emergenza come questa, è davvero singolare».
Parla anche delle nomine?
«Sulle nomine c’è una cosa che vorrei dire: inorridisco nel leggere l’ipotesi di Marco Mancini a capo dell’Aise, i servizi segreti esterni. Bisognerebbe guardare meglio certi curricula, forse».
A proposito di curricula, chi ha quello giusto per guidare il centrodestra?
«Io vedo bene Giorgia Meloni come leader, come guida di un governo di centrodestra. Meglio lei di Salvini, per intenderci. Oggi però contano molto i cerchi magici, e nessuno ne è esente».
Mattia Feltri per “la Stampa” il 14 maggio 2020. Sono già passati vent' anni dalla morte di Marzio Tremaglia. Aveva una testa meravigliosa, era cresciuto nel Msi e le sue idee erano profondamente diverse da quelle di Mirko, il padre, uno che a sedici anni era a Salò a combattere per il Duce. Marzio era colto, curioso, vivace, cercava le contaminazioni, il meticciato del pensiero, i recinti per scavalcarli. Era gentile. Adorava il padre e ne era adorato, per dire del disaccordo che non sposta l' amore di un millimetro. Marzio mi è tornato in mente ieri quando ho visto un' intervista a Guido Crosetto, un altro che non si fa indicare che dire e che fare. Nell' intervista era dolce e comprensivo con Silvia Romano, e il titolo cominciava così: Io, uomo di destra. Eccola la notizia: un uomo di destra senza clava e bava alla bocca. Come se non ne avessimo incontrati sempre, a decine, eleganti, sapienti, ironici, aperti. Potrei stilare l' elenco infinito, da Paolo Isotta a Stenio Solinas, da Pietrangelo Buttafuoco a Franco Cardini, ma niente, nell' immagine quotidiana l' uomo di destra è un cavernicolo, e se non lo è - gasp! - stupefazione somma. Quanto è sciatto e agevole ricacciarli nel ghetto e sicuramente ha ragione Flavia Perina (ex direttore del Secolo d' Italia, donna che provò a cambiare la destra e di destra non si sente più) quando spiega che, del resto, nel ghetto i più ci si ritrovano benissimo, rassicurati dai loro elettori, fan, follower. Pigramente a sinistra gli danno un ruolo e pigramente a destra se lo tengono, ognuno nel suo cantuccio, a coltivarsi il vicendevole pregiudizio e un' identità grossolana e primitiva. La nostra politica tribale viene tutta da lì.
Giuseppe Alberto Falci per huffingtonpost.it il 14 maggio 2020. Una cosa dice appena risponde al telefono: “Penso di poter parlare con tutta onestà della destra perché la conosco bene ma al tempo stesso ho rotto ogni connessione di tipo psicologico e politico con quel mondo”. Flavia Perina, nata nel mondo del Movimento sociale italiano, un passato da direttore del Secolo d’Italia, già parlamentare di Futuro e Libertà, da tempo tornata al giornalismo “senza aggettivi”. Ed eccola in una lunga conversazione con l’Huffington Post nei giorni in cui la destra italiana si divide su Silvia Romano.
Perina, se ha rotto ogni connessione vuole dire che non si definisce più una donna di destra?
«Da molto tempo non riesco a riconoscermi nella destra italiana».
Guido Crosetto, Fabio Rampelli, Francesco Storace difendono Silvia Romano e la sua conversione, e scoppia lo stupore generale. Come se ci fosse un pregiudizio nei confronti della destra. E’ così?
«Ci sorprendiamo giustamente per le posizioni di Guido Crosetto, Fabio Rampelli, Francesco Storace, sulla vicenda di Silvia Romano perché la destra ha sempre ostentato su questi fatti un’alta dose di cattivismo: è un sentimento che non corrisponde al suo dna, ma in genere gli attuali leader giudicano utile assecondare le pulsioni estremiste del loro “popolo”. Da tempo hanno rinunciato all’opera pedagogica che, in tempi passati, la destra considerava fra i suoi doveri anche nei confronti del suo elettorato. A tal proposito torna in mente la figura di Giano Accame, intellettuale di destra, anche lui direttore del Secolo d’Italia. Ecco, Accame pubblicò la foto di Fini con una bambina eritrea. Fu rivoluzionario. E’ un episodio molto citato. Era il 1988, si cominciava a parlare dell’emergenza immigrazione, cominciavano ad emergere istinti razzisti che nell’opinione pubblica facevano riferimento alla destra. Accame pensò bene di stroncarli, di dare un’indicazione precisa, con quella famosa prima pagina che tutti citano ma che forse bisogna raccontare bene».
Lo faccia lei.
«Non c’era solo una foto di Fini durante la visita a una casa famiglia, con una bambina eritrea in braccio, ma anche Il titolo “Solidarietà”. E un sommario che schierava il giornale “con gli esclusi della società opulenta”. L’editoriale di Giano Accame pubblicato a fianco era intitolato: “La compassione contro lo sfruttamento”. Lo stesso Giano Accame che teorizzava il “fascismo immenso e rosso”. E’ il titolo di un suo libro, ma forse la definizione politica più esatta del suo impegno, anche giornalistico, va cercata in un altro saggio e in un altro titolo: Socialismo tricolore».
Ritorniamo alla foto di Fini con la bambina eritrea.
«A quell’epoca, negli ultimi anni del Novecento l’obiettivo principale della destra era trovare occasioni per uscire dal ghetto, mostrare una natura spesso diversa dalla caricatura che ne facevano i suoi avversari».
E oggi ci vuole restare?
«Credo che la destra di oggi si trovi abbastanza bene nel ghetto, intesa come area di opposizione radicale, opposizione “di sistema”. Pensano che quel tipo di isolamento e di “alterità” porti consensi. E che quindi debba assecondare il tipo di elettorato che apprezza il rifiuto di ogni contaminazione e dialogo, sempre percepito come intelligenza col nemico».
Oltre a Giano Accame, la destra è stata anche Giuseppe Tucci, orientalista, storico delle religioni che fondò l’Istituto italiano per il Medio e l’Estremo oriente.
«Ma sì, il rapporto storico della destra anche con l’Oriente e anche con lslam è stato un rapporto di interesse e studio a tutti i livelli. Basta dire che uno degli intellettuali più ascoltati a destra è Pietrangelo Buttafuoco, l’autore de “il feroce saracino”. Ecco, nessuno del suo mondo si è mai sognato di contestargli la sua scelta religiosa. E tuttavia nel racconto pubblico ogni apertura al pluralismo, non solo religioso, sparisce, anzi spesso viene criminalizzata: basti pensare alla lunga battaglia contro le moschee».
La sua direzione del Secolo d’Italia, tuttavia, fu oggettivamente pluralista.
«Altri tempi. Il lavoro principale che affrontai insieme al condirettore Luciano Lanna fu quello di dare voce a segmenti della destra oscurati dalla cosiddetta “linea ufficiale” e aprire interlocuzioni col mondo esterno».
Quali segmenti?
«Esisteva una destra ecologista, aprimmo una rubrica su quei temi e la affidammo a Fiorello Cortiana, una firma che veniva da sinistra ma aveva una sensibilità molto simile alla nostra. C’era una destra amica del protagonismo e dei diritti femminili: ci inventammo “Thelma & Louise”, una rubrica dove si alternavano Isabella Rauti e Roberta Tatafiore, che veniva dall’esperienza più classica del femminismo. Parlammo di Islam con Noi Musulmani di Omar Cammileti, che raccontava storie eterogenee del mondo islamico, dai complessi rock alla moda. Fu il tentativo di sviluppare tanti interessi culturali e politici della destra, oltre le incombenze della “linea ufficiale”».
Una destra molto lontana dal bar sport...
«Sicuramente. Purtroppo il bar sport è diventato uno dei riferimenti principali non solo della destra ma di molti settori politici. Gran parte delle prese di posizione che leggiamo ogni giorno sono fatte immaginando come intercettare il consenso del bar sport. La destra si è adattata, soprattutto perché teme la concorrenza della Lega, abilissima nel gioco di quel tipo di propaganda. Negli ultimi tempi, tuttavia, ho notato un certo ritorno alla serietà, un po’ di smarcamento dal populismo più becero...»
Su Silvia Romano, Giorgia Meloni ha una posizione differente da quella di Crosetto, Storace e Rampelli.
«Vero. Mi ha sorpreso, tuttavia, che in una recente intervista proprio qui sull’Huffington abbia smentito l’esistenza di una pluralità di linea all’interno del suo partito. E’ sempre esistita una pluralità di voci all’interno della destra e non si capisce perché oggi debba essere sparita. Credo che sia una ricchezza, non un fatto da nascondere».
Beppe Niccolai, ad esempio, storico dirigente del Msi, movimentista dentro il partito, diceva di sè: “Io sono molto più a sinistra di Ingrao”.
«Sì, ma questa è paleontologia. A chiunque andasse a chiedere, oggi, chi fosse Beppe Niccolai dubito che saprebbero situarlo nel tempo e nello spazio, e soprattutto nella politica. La destra un po’ ha dimenticato, un po’ preferisce dimenticare».
Si spieghi meglio.
«Faccio un solo esempio, ma potrebbero essercene tanti. Tra le cose paradossali della destra in questa ultima fase c’è l’elogio dei muri che dividono l’Europa, a cominciare dal muro di Viktor Orban. Ma come, mezzo secolo a contestare il Muro di Berlino come una ferita assoluta, una intollerabile lacerazione, un orrore contro i popoli d’Europa, e ora i muri piacciono? C’era un muro anche a Gorizia: Roberto Menia e Gianfranco Fini armati di piccone andarono a tirarlo giù, ovviamente con un’azione dimostrativa. La destra di oggi forse lo ricostruirebbe... La trovo una surreale conversione rispetto alla propria storia. Ma succede perché quella storia non se la ricorda più nessuno».
Qual è il suo giudizio sulla vicenda Silvia Romano?
«L’operazione propagandistica messa su per accogliere all’aeroporto questa ragazza è stata indecente. La si è esposta, ben sapendo che sarebbe stata criticata, sperando di lucrare qualche consenso. E’ una scelta che, tra le altre cose, ci dice anche che il governo non ha compreso l’eccezionalità del momento, la necessità di sospendere ogni tipo di teatrino. Un recente sondaggio di Alessandra Ghisleri ci fotografa come un Paese dove il 96 per cento dei cittadini non si fida più della politica: andando avanti così finiremo al cento per cento».
Appunto, torniamo alla cooperante milanese.
«Io credo che nel linciaggio social di Silvia Romano abbiano agito molte cose, ma soprattutto un sessismo profondo. Quest’anno sono stati liberati quattro ostaggi italiani. Tre erano maschi, una era Silvia Romano. Dei maschi non ci ricordiamo neanche il nome, pure uno di loro si sarebbe convertito e nessuno ha ritenuto di dovere scrivere due righe sulla faccenda. Di Silvia sì, ci ricorderemo: perché forse è la sola vittima di sequestro che dopo la liberazione deve essere protetta dai suoi stessi concittadini. Così come è capitato a tutte le altre finite in ostaggio dei fondamentalisti. Penso alle due Simone, a Greta e a Vanessa. Su tutte si è trovato un motivo per indicarle al pubblico ludibrio».
A questo punto le chiedo: può esistere, nascere, una destra diversa?
«Adesso no. Adesso la destra è questa».
Perché?
«Ogni tentativo in questa direzione è fallito. Bisogna prenderne atto. Siamo un Paese anomalo, siamo un Paese dove hanno vinto le formule populiste. Una destra sul modello di quello tedesco o francese è inimmaginabile. Come è difficilissimo trovare lo spazio per un altro tipo di sinistra, o di centro. La chiave di questo Paese è la competizione populista».
Si sente sconfortata?
«No, per carità, osservo. La sola cosa sconfortante è che, inseguendo questa chiave populista, il Paese sta letteralmente andando a rotoli».
Attaccare Silvia Romano è da bulli: lei creda in quello che vuole, noi nella libertà. Deborah Bergamini su Il Riformista il 14 Maggio 2020. Prendersela con Silvia Romano, oltre che facile, è da bulli, non da forti. Per noi che apparteniamo ad una democrazia laica e liberale non dovrebbe contare ciò in cui crede Silvia, ma ciò in cui crediamo noi: a partire dalla libertà e dai diritti intangibili dell’individuo tanto faticosamente conquistati. A nessuno di noi ha fatto piacere apprendere che Silvia Romano, in quei lunghi mesi di prigionia in Somalia, si era trasformata in Aisha, che aveva cambiato religione. Quello che non capisco è che fine abbiano fatto l’umanità e l’empatia per una ragazza che fino ad una dozzina di giorni fa era prigioniera di sanguinari estremisti islamici. Certo, può non piacerci la veste verde che Silvia indossava al suo rientro, ma quella veste – oltre a rappresentare un grave errore di comunicazione del nostro governo e una vittoria di immagine per i terroristi che la tenevano in ostaggio – rappresenta soprattutto la differenza di fondo tra noi e loro. Da noi quella veste verde è una libera facoltà. Da loro quella veste verde è una vigliacca imposizione maschile sull’integrità femminile. Non si difende l’identità di una grande nazione democratica prendendosela con chi ha scelto una religione diversa da quella della maggioranza. Si difende l’identità di una nazione tutelando tutti i suoi cittadini a prescindere dal genere, dalla razza, dalla religione, dalle opinioni. Abbiamo riportato a casa una cittadina italiana, e questo è ciò che conta. Se Silvia deciderà di mantenere la sua nuova fede o meno sarà un fatto che riguarda lei, non noi. Se davvero abbiamo pagato quattro o più milioni di euro per liberarla, certo non li abbiamo pagati per costringere Silvia a credere a ciò in cui crediamo noi. Questo è quello che hanno fatto i terroristi: l’hanno rapita, indottrinata, convertita e poi venduta. Sì, venduta. Perché a loro non frega niente se credi o non credi in Allah. A loro frega solo dei soldi e del potere che tutto questo può dargli. Se alcuni elementi del centrodestra avessero voluto strumentalizzare la vicenda di Silvia Romano per guadagnare cinicamente un po’ di consenso nell’opinione pubblica, sarebbe bastato criticare l’errore di immagine commesso dal governo, mostrandosi però solidali con la giovane vittima di una lunga prigionia. Invece alcuni, dando il cattivo esempio, hanno deciso di puntare il dito contro Silvia, quando alla fine Silvia è stata solo ostaggio di dinamiche più grandi di quelle che una persona può portare su di sé. Lasciamo a lei e ai suoi familiari il tempo e il diritto di riprendersi in santa pace. Poi, quando sarà pronta, potremo confrontarci su tutti i temi che vorremo. Se “Prima gli italiani” non è solo uno slogan, allora dobbiamo avere rispetto per la vicenda umana di Silvia. Quello che non va fatto è far sentire Silvia prigioniera di un pensiero unico che più che accettarla per quella che è, vuole imporle un certo dover essere. Come se quei quattro milioni di euro ci dessero il diritto di disporre della sua anima. Questo imporre un credo, una fede, un modo di vivere, un’idea, questo voler disporre delle anime delle persone e farne cosa propria è quello che fanno i terroristi, non chi appartiene saldamente ad una destra democratica.
Silvia Romano, senatrice leghista pubblica foto che irride la ragazza. Jacopo Bongini il 15/05/2020 su Notizie.it. "Portatemi in Siria che poi dividiamo", è polemica per un tweet in cui la senatrice leghista Roberta Ferrero irride la volontaria Silvia Romano. Continua a non avere pace Silvia Romano, che dal giorno in cui ha messo piede in Italia è bersaglio di ogni genere di insulto e calunnia da parte di migliaia di cittadini italiani, probabilmente adirati dal fatto che una donna possa essere sopravvissuta con le proprie forze a una prigionia di 18 mesi n Somalia. L’ultimo attacco alla ragazza in ordine di tempo arriva direttamente dalle fila della Lega e più precisamente da parte della senatrice Roberta Ferrero, che sul proprio profilo Twitter ha condiviso una fotografia dove un uomo con un velo in testa irride la 25enne facendo riferimento ai soldi versati per il presunto riscatto. Nella fotografia condivisa dalla senatrice Ferrero, da lei stessa definita didascalicamente come “la protesta di un cittadino”, si può infatti vedere un uomo bardato con un pezzo di stoffa (a imitare rozzamente l’abito con cui Silvia Romano è arrivata all’aeroporto di Ciampino) mentre regge un cartello con sopra scritto a chiare lettere: “Portatemi in Siria che poi dividiamo”. Un diretto riferimento ai presunti 4 milioni di euro versati dal governo italiano per liberare la ragazza, ma che l’uomo della fotografia allude possano essere finiti nelle tasche della volontaria italiana. L’autore dell’immagine compie inoltre un grossolano errore di geografia, indicando nel cartello un fantomatico rapimento avvenuto in Siria quando in realtà Silvia Romano è stata rapita in Kenya e successivamente portata in Somalia. Ovviamente l’immagine non ha mancato di sollevare polemiche tra gli altri esponenti politici. Tra questi la deputata e sottosegretaria di Stato del Pd Alessia Morani, che commentando il tweet ha dichiarato: “Per essere così indecenti comincio a pensare che nella Lega di Salvini facciano accurate selezioni. Altrimenti non si spiega come siano tutti concentrati in quel partito”.
Francesco Merlo per “la Repubblica” il 14 maggio 2020. Mai il governo avrebbe dovuto esibire Silvia Romano sul red carpet degli squilibrati di questo nostro disgraziato Paese. Andava protetta subito come si proteggono le cose più preziose, con il silenzio e il pudore della sua bella e lucida famiglia, che ha saputo mostrarsi festosa ma non stordita. E Conte e Di Maio avrebbero dovuto risparmiare a Silvia gli stalker televisivi alla Mario Giordano e gli psicologi disturbati come questa Silvana De Mari che si bestemmia cattolica e si permette - vergogna - di chiamarla "sciacquina". E dunque gogna, linciaggio, i cocci di bottiglia contro la finestra, le minacce di morte : non è la prigione nella quale l' hanno chiusa i macellai somali, ma è una tonnara - daje, daje, pigghjala, acchiappala - l' Italia che le vuole strappare a morsi il velo. Certo, i criminali di Al-Shabaab hanno il rito degli sgozzamenti e noi, più modestamente, abbiamo l' avanspettacolo della ferocia mediatica, "la mossa" politica per lucrare consenso, il trucco e l' imbonimento dei vecchi capocomici per tirare l' applauso, e pure la folla di cronisti che, assembrata sotto un portone, aspetta non si sa quale altro colpo di teatro. Il risultato è che la giovane protagonista di una storia mille volte più pesante di lei è di nuovo ostaggio. Il ritorno a casa la sta infatti costringendo a vivere in fretta e fuori di sé, offerta come un "mostro" ai teppisti dell' ideologia che mostri lo sono davvero. C' è dunque un tribunale malato che sta processando Silvia perché è sopravvissuta. La insultano perché ce l' ha fatta, la odiano perché è scesa dall' aereo sorridente, la oltraggiano e la minacciano perché ha dichiarato di essere diventata mussulmana. E così Silvia "è andata in Kenya per farsi un selfie col bimbo africano", ed "è una neo terrorista" ha gridato alla Camera il deputato leghista Alessandro Pagano addirittura attribuendo questa castroneria a noi di Repubblica. Persino le femministe stanno litigando sul velo che indossava, con una disputa sul corpo della donna da anni pesanti, quelli dei primi film di Moretti, una chiacchiera politichese incartapecorita senza rispetto per Silvia e per la tortura che ha subito, per il ricatto dell' anima contro cui non c' è riscatto. Davvero dispiace che una militante come Nadia Riva abbia visto nel velo di Silvia "il sacco verde della raccolta differenziata" in questo modo spacciando la medesima allucinazione drogata della destra più scalcagnata che appunto ha fatto di una ragazza il mostro che ha tradito l' Occidente. Ma smettetela! Solo un Paese fradicio può trasfigurare un' esile ragazza, vittima di un terrorismo che bestemmia la vita nel nome di un dio macellaio, nella Sindone dello scontro di civiltà. Solo un femminismo e un giornalismo andati a male possono leggere nei suoi occhi la disputa tra il Corano e la Critica di Kant, tra "la parola increata di Allah" e l' illuminismo di Voltaire. Pura, bella e semplice figlia d' Italia, che la generosità dei vent' anni ha cacciato dentro un' enormità, Silvia ci piace anche con il velo perché la prima cosa che ha voluto è una fetta di pizza, e perché non ha avuto bisogno di armature religiose per andare in Africa. C' è andata perché in Africa il mondo riduce l' umanità al suo estremo, c' è andata perché lì c' è la sofferenza, c' è il pericolo, ci sono le ferite, i lutti, le gioie, tutti vorticosamente ruotanti attorno agli orfanotrofi dove ha operato e non alle prigioni del terrorismo dove poi ha penato. Silvia ci piace perché ha dato grazia persino ai brutti abiti che la sopravvivenza le ha prima suggerito e poi imposto. Altro che "sciroccata" come abbiamo letto ieri in un commento flaccido. E diciamo la verità: non ci scandalizzano i titoli come quello di Libero, "Abbiamo liberato un' islamica", ma la solidarietà di ghigno che con quel titolo ha esibito il femminismo perdendo l' occasione di intonare "scemi scemi" agli incappucciati che le urlano contumelie, agli sporcaccioni che le misurano la pancia sotto il jilbab, al giornalista Sallusti che ha scritto "è come se un internato di un campo di concentramento tedesco fosse tornato a casa indossando orgogliosamente la divisa dell' esercito nazista", al leghista Alessandro Morelli che in Silvia ha visto un Aldo Moro che inneggia alle Brigate rosse Ed è volgare e stupido insinuare che la festa alla viva seppellisca i morti e assolva i terroristi, quasi fossero in crisi di resipiscenza umanitaria o come se Silvia fosse il cavallo di Troia, un agente del nemico. Passeranno presto sia la festa sia il linciaggio. E certamente Silvia, generosa com' è, percepirà come un fardello il favore e il privilegio di essere viva. E quando tutta la confusione sarà davvero finita comincerà a pensare ai suoi sventurati fratelli, agli altri ostaggi che non sono stati trattati con rispetto e non hanno avuto in regalo abiti, sacre scritture, parole di conforto, e neppure la via di fuga della conversione che non è un umore giovanile ma una fatica degli uomini. Nella liberazione di Silvia solo questo abbiamo festeggiato: l' eccezione felice alla più feroce delle regole, quella del coltello.
Silvia Romano l'ultima ingrata. Un aggettivo utilizzato spesso dalla stampa e dalla politica. Per definire quelle donne che hanno la pretesa di agire con qualche margine di autonomia. Da Veronica Lario a Laura Boldrini, dalle "due Simone" ad Aisha. Susanna Turco il 14 maggio 2020 su L'Espresso. In pieno furore polemico per la liberazione di Silvia Romano dopo 536 giorni di prigionia tra Kenya e Somalia, la destra ha estratto dal mucchio delle solite allusioni un aggettivo da grandi occasioni. «Ingrata», ha vergato in prima pagina il quotidiano diretto da Sallusti. Un aggettivo dalla storia precisa. Utilizzato per indicare patrie e città, dieci anni fa ha fatto il suo salto di specie nel giornalismo: da luoghi a persone, via editoriale. Sempre dedicato a una donna, stessa testata: il titolo “Veronica velina ingrata” fu il segnale con il quale, il 30 aprile 2009. Silvio Berlusconi annunciò al mondo, per interposto Vittorio Feltri, che la signora Lario all’epoca ancora sua moglie non godeva più della relativa protezione. L’aggettivo, allora come adesso, è squisitamente gerarchico, il motivo lampante: c’è chi dispensa un beneficio e chi lo riceve, e chi lo dispensa non può che essere uomo. È ovvio. Inclinata così la direzione delle cose, si deduce che le donne sono divisibili in due tipi: grate o ingrate. Queste ultime hanno di solito la pretesa di agire con qualche margine di autonomia. Di qui la casistica completa delle asserite “ingrate”, dopo Veronica Lario: Mara Carfagna, perché forse voleva lasciare il partito del Cav, Stefania Craxi e Renata Polverini all’incirca per lo stesso motivo; Rosy Bindi per non aver difeso l’Andreotti accusato di mafia; Laura Boldrini perché disse non essere iscritta al partito di Nichi Vendola. E così fino alla penultima: Barbara Berlusconi, definita «altra velina ingrata» con un uso probabilmente genetico anche del sostantivo velina. Tutte ingrate, verso uomini, tutte private del cognome - pure roba da uomini. Abbiamo in effetti avuto, tra le volontarie rapite, anche le «le due Simone» (Simona Pari e Simona Torretta,) o «Greta e Vanessa», oggi dall’identità ulteriormente retrocessa (gli stessi quotidiani le chiamano «Le vispe Terese»). E così, alla faccia del «ne usciremo migliori», si arriva a Silvia Romano. L’ultima «ingrata», della quale nessun dettaglio è stato trascurato eccetto il nome col quale è tornata a casa. Anche quello un aggettivo. Non gerarchico: Aisha, significa «viva».
Rula Jebreal su Silvia Romano a Piazzapulita: "In Italia disinformazione sull'Islam, il pericolo sono gli estremisti di destra". Libero Quotidiano il 15 maggio 2020. Un monologo contro la Lega e la destra, Ecco cosa Rula Jebreak pensa del caso Silvia Romano. In collegamento con Corrado Formigli a Piazzapulita, la giornalista di origine palestinese non risparmia critiche a Giuseppe Conte e Luigi Di Maio per la gestione del ritorno in Italia della 24enne cooperante sequestrata per un anno e mezzo in Africa dai jihadisti di Al Shabaab. “Sono rimasta sbigottita quando ho visto media e autorità che hanno condiviso informazioni delicate sul suo rapimento. E poi non sappiamo i suoi traumi, dobbiamo darle tempo". Poi però il suo intervento si risolve in una lunga tirata contro chi ha criticato la ragazza per la conversione all'Islam durante la prigionia, ma soprattutto per l'esibizione ostentata di abito e velo islamico. "Questo era un momento di gioia e di felicità per aver riportato una propria connazionale a casa. Un momento di unità nazionale. Con questo dibattito sono riusciti a danneggiare l'immagine e gli interessi nazionali del paese agli occhi del mondo islamico", tuona la Jebreal. "Silvia stava facendo un lavoro straordinario. Le persone come lei mostrano il volto umano e liberale dell’Occidente, quello che gli islamici radicali vogliono nascondere. Anche per questo è stata rapita". Ma in Italia, assicura la giorrnalista, "c’è una campagna di disinformazione sull’islam. Gli estremisti di destra stanno danneggiando l’Italia dal punto di vista economico, di sicurezza e di dialogo con una parte enorme della popolazione nel mondo", oltre a "mettere a rischio della vita la stessa Silvia". Il suo velo "è diventato il simbolo di un insopportabile scontro di civiltà e il corpo di una donna è il terreno di quella battaglia".
Toni Capuozzo e Silvia Romano a Dritto e rovescio: "Odio disgustoso, non esiste destra o sinistra. Le foibe e Nassiriya?" Libero Quotidiano il 15 maggio 2020. "Non esiste un odio di destra e uno di sinistra, esiste un odio a turno". Toni Capuozzo, in studio da Paolo Del Debbio a Dritto e rovescio, affronta con la consueta lucidità il caso degli insulti a Silvia Romano, la 24enne cooperante milanese riportata in Italia dopo un sequestro di due anni in Africa e convertitasi all'Islam durante la prigionia. "Tutti predicano bene e razzolano male - sottolinea lo storico inviato di guerra di Mediaset -. Nei confronti di questa ragazzina ci sono stati degli odii disgustosi. Ma perché, il 25 aprile, o la Giornata del Ricordo? Ma perché, quando si negano le foibe? Cosa deve pensare un signore che ha avuto il nonno o i genitori infoibati? Quante volte abbiamo letto sui muri 10, 100, 1.000 Nassiriya?". Verità troppo scomode per qualcuno.
Da “la Verità” il 15 maggio 2020. La Lega presenta un' interrogazione parlamentare, un esposto all' Agcom e una querela contro Federica Sciarelli, conduttrice di Chi l'ha visto?, su Rai 3. Durante la puntata di mercoledì, la giornalista ha letto l'email di una spettatrice, che attribuiva a un militante del Carroccio l'invito a «impiccarsi», rivolto a Silvia Romano. Inoltre, lamenta il leghista Massimiliano Capitanio, della commissione di Vigilanza, la mail, «diffamatoria e piena di falsità», alludeva «al "genocidio sanitario" perpetrato dalla Regione Lombardia». È «squadrismo mediatico», attacca perciò l'onorevole.
Rissa su Silvia Romano, volevate tornasse in una bara? Fabrizio Cicchitto su Il Garantista il 12 Maggio 2020. La vicenda riguardante Silvia Romano va trattata senza ipocrisia e senza strumentalizzazioni propagandistiche. A mio avviso lo Stato deve garantire in tutti i modi la salvezza dei suoi cittadini, anche pagando un riscatto attraverso i servizi che su questo devono mantenere il segreto nei confronti di tutti perché questo è il loro lavoro. L’Italia ha sempre seguito questa linea tranne che in un’occasione, quella del rapimento di Aldo Moro: allora «l’autonoma iniziativa dello Stato» per dirla con Craxi o «la trattativa» per dirla col Vaticano appunto tentata dal Psi e da Paolo VI venne bloccata per ragioni ideologiche dal Pci, fu boicottata da Andreotti per salvare il suo governo, da tutto l’establishment terrorizzato dalle lettere del leader Dc, dai servizi russi e americani che non volevano a nessun costo qualunque tipo di incontro fra la Dc e il Pci. Sul terreno della scelta dell’uso o meno del riscatto esistono grandi differenze fra gli Stati. Germania, Israele e Francia hanno sempre avuto un comportamento pragmatico, nel senso che a seconda delle circostanze ricorrono o meno al riscatto. La Russia di Putin per non sbagliare ammazza tutti, rapitori e ostaggi. Gli Stati Uniti invece sono sempre stati contrari al pagamento di riscatti. Su questo nodo ci sono stati durissimi scontri proprio con l’Italia. Il caso più clamoroso fu quello di Sigonella, ma esistono forti dubbi che, quando fu liberata la giornalista Giuliana Sgrena de il Manifesto, l’uccisione di Calipari, comandante dei servizi che aveva guidato l’operazione, avvenne per uno spiacevole incidente o fu un duro ammonimento a smetterla. Allora, a mio avviso, giustamente il governo e conseguentemente i servizi si sono mossi per salvare la vita di Silvia Romano che si era recata in Kenya per svolgere un’azione umanitaria. Quando ci si misura con questo tipo di situazioni bisogna sempre sapere che ci si inoltra su un terreno assai scivoloso perché in qualche caso si ha a che fare solo con dei criminali, in qualche altro caso con dei terroristi che si muovono secondo logiche ideologiche, politiche e mediatiche. Silvia Romano, a quanto sembra, è stata catturata da criminali che poi l’hanno venduta a un nucleo di terroristi islamici i quali hanno giocato una partita sul terreno politico e mediatico con lei e con il nostro Paese. I terroristi islamici non hanno ucciso Silvia Romano per trarne vantaggi sul piano dell’immagine e sul piano materiale. Nel conto va messa la sua conversione che può essere anche stata indotta dai meccanismi tipici della sindrome di Stoccolma e l’eventuale riscatto. Ebbene ritengo che il salvataggio di una vita deve andare anche al di là di questi prezzi politici, mediatici e materiali. È facile fare il duro e l’eroe stando in Italia. Che cosa avrebbero fatto i nostri eroi qualora fossero stati prigionieri per 18 mesi di un nucleo di terroristi che possono anche aver avuto l’astuzia di sottoporre la loro vittima a un gioco di pressioni, di minacce, di promesse? È chiaro che i terroristi ci hanno riconsegnato una persona diversa da quella che era 18 mesi fa. Bene, in ogni caso meglio così che se da quell’aereo a Ciampino fosse stata calata una bara. Dobbiamo rispettare una persona sottoposta ad una pressione così dura, durata 18 mesi, essendo per di più una giovane donna, quindi anche con la possibilità di essere sottoposta a violenze sessuali. Dopodiché diamo tempo, respiro e spazio a Silvia Romano per riflettere su se stessa, sulla sua vita, sulle sue scelte di ogni tipo, anche quelle religiose. Se invece su questo salvataggio si scatena l’ennesima rissa politico-giornalistica cadiamo proprio nella trappola che ci hanno teso dei terroristi islamici che evidentemente non sono dei rozzi assassini, ma hanno una sofisticazione politico-mediatica con la quale bisogna misurarsi neutralizzandola non amplificandola. E poi quale avrebbe dovuto essere l’alternativa? Abbandonare Silvia Romano ai suoi rapitori sfidandoli ad ucciderla perché a noi della sua vita non interessava nulla, vista anche la sua eventuale imprudenza iniziale? Non credo che oggi l’Italia avrebbe aumentato il suo prestigio se, insieme alla tragedia in corso per il Coronavirus avessimo dovuto anche riportare a casa un cadavere. Su tutta questa vicenda chi ha detto cose del tutto condivisibili è in un’intervista a Skytg24 Domenico Quirico, il quale ha vissuto una drammatica vicenda di altro tipo ma con evidenti somiglianze e che ha concluso dicendo «lasciamo che dopo un anno e mezzo Silvia Romano ridiventi totalmente padrona di se stessa e torni a gestire autonomamente la sua vita e le sue scelte».
Se continuate così, Silvia Romano si sentirà sempre più vicina ai suoi carcerieri. Giampiero Casoni il 13/05/2020 su Notizie.it. I cocci fanno rumore, il rumore che fanno le cose sonore quando il vetro lanciato si gemella con il vetro messo a barriera di una vita, vita privata. E una cosa è certa, se esisteva un modo per avvicinare davvero Silvia Romano all’Islam e se dovesse emergere che davvero avevate lei, anzi, Aisha, nel mirino, voi lo avete trovato. Facendo di una bottiglia il proiettile proiettante le vostre piccinerie, le vostre acredini da strapaese, il vostro incalzare la preda designata dal pensiero mainstream. E trascurando un fatto semplice quanto ignoto al vostro pensiero: che se cioè la reazione di una società si concretizza nell’azione violenta di spregio di ciò che una persona si è deciso debba incarnare, allora quella persona deciderà che forse e tutto sommato, incarnare quel ruolo appiccicatole addosso come una buccia di fico è davvero l’unica via.
La scelta della conversione. Eppure questa regola fissa di vita l’avete incontrata tutti. Perfino da bambini, quando bullizzavate lo sfigato di turno al punto che lui, un po’ alla volta, si convinceva che essere vittima era la sola chiave di volta della sua esistenza, avviandosi inconsciamente a scegliere il balcone da cui buttarsi urlando arrivato a 30 anni. Perché che voi siate stati dei bulli ieri prima di esserlo oggi è un dato certo. Silvia Romano, lo hanno capito pure i sassi, è creatura che ha fatto una scelta a cui è mancata la serenità della ponderazione, o la ponderatezza della serenità. E ci mancherebbe, dato che pare molti ignorino che ha passato 18 mesi con i peggiori tagliagole del pianeta, non in sodalizio ma in prigionia e finiamola di sciorinare boiate. Una scelta che si è trascinata in maniera cinetica fin qui in Italia, paese in cui è tornata non immune dalle lusinghe di una fede diversa dalla nostra, anzi, incasellata formalmente in essa, con il formalismo spinto di chi magari ancora non ha deciso dentro e deve essere decisionista fuori. Scelta diversa, non migliore, non peggiore, semplicemente diversa ancorché professata nella sua versione più aberrante ed abominevole dai suoi carcerieri. È troppo suggerirvi di riflettere sul fatto empirico che questo non fa di lei una tagliagole, non più di quanto approdare al Cristianesimo renda automaticamente corresponsabili dell’Inquisizione? Ma il dato è che Silvia ha abbracciato l’Islam e ha il diritto di utilizzare la ritrovata serenità del nuovo contesto figlio del suo ritorno per affinare quella scelta o per ricusarla, arrivando magari alla consapevolezza che essa era stata il ripiego emergenziale di un animo che cercava sponde.
Non spingiamo Silvia Romano verso i suoi carcerieri. A noi non interessa dove Silvia andrà a parare con le sue faccende di fede, a noi però sarebbe dovuto interessare, a noi tutti ed a voi che lanciate vetro su vetro, che a spingere Silvia nelle braccia dell’Islam fosse una lunga chiacchierata con se stessa nel salotto di casa sua, non nel tukul dell’imam sparatutto che l’ha soggiogata per due anni e rotti. E soprattutto che quell’abbraccio non fosse preceduto da una spinta. La più becera delle spinte, la più inutile: quella che grazie ad un singolo fatto e ad un merletto social vergognoso ti porta ad identificare casa tua, la tua nazione, la tua città, il tuo quartiere, come il luogo del pericolo che corre chi è rifiutato. Perché vetro su vetro fa rumore, perché le schegge infrante non feriscono solo le mani a prenderle, ma anche l’anima a guardarle a terra, mentre ti dicono che in giro c’è chi ti odia perché la pancia del tuo paese sta marcendo. E allora tu scegli, e non scegli quello che desideri, ma quello che di certo non vuoi più.
Da corriere.it il 13 maggio 2020. Silvia Romano una «neo terrorista». Le parole pronunciate in Aula della Camera dal deputato della Lega, Alessandro Pagano, durante l’illustrazione degli ordini del giorno presentati sul decreto Covid, fanno scoppiare la durissima reazione del Pd, che insorge e attacca il parlamentare leghista. Arriva subito il biasimo della presidente di turno, Mara Carfagna, che ritiene «inaccettabile definire neo terrorista in quest’Aula Silvia Romano». Pagano si difende: «Stavo citando un quotidiano». Il deputato, illustrando il suo ordine del giorno relativo ai divieti di celebrare funzioni religiose durante la prima fase del lockdown, ha sostenuto l’esistenza nel governo di «una volontà antireligiosa fortissima... quando poi però è arrivata la neo terrorista...». Subito si sono levate dai banchi del Pd forti proteste, tanto che la presidente Carfagna ha dovuto richiamare tutti all’ordine, ricordando di aver subito stigmatizzato le parole del leghista, che torna a cercare di spiegare: «Volevo evidenziare la differenza dell’atteggiamento verso alcuni luoghi di culto, anche dell’Islam moderato...». Interviene Emanuele Fiano del Pd: «È inaccettabile calunniare una ragazza prigioniera di una banda di terroristi. In assenza di qualsiasi prova di fatto, Silvia Romano è stata interrogata e nulla è emerso e non è accettabile che venga tacciata di un reato secondo il codice penale italiano ed è inaccettabile che qualcuno pensi che in quest’Aula si spossa permettere di calunniare una persona che per 18 mesi è stata prigioniera dei terroristi».
Alessandro Pagano, chi è il deputato che ha chiamato “neo-terrorista” Silvia Romano. Redazione su Il Garantista il 13 Maggio 2020. È un siciliano doc che ha sposato la causa leghista Alessandro Pagano, il deputato del Carroccio finito nella bufera dopo aver definito nell’Aula della Camera Silvia Romano, la cooperante liberata dopo 18 mesi di prigionia tra Kenya e Somalia, una “neo-terrorista”. Ma chi è Pagano? Classe 1959 di San Cataldo, provincia di Caltanissetta, muove i suoi primi passi in politica tra le fila della Democrazia Cristiana e fa il suo esordio in una assemblea politica nel 1994, venendo eletto con Forza Italia alla Regione. Per due volte è assessore regionale, prima alla Sanità nella Giunta Provenzano di centrodestra (1996-98) e poi al Bilancio e ai Beni Culturali con Cuffaro. Nel 2008 il salto nazionale con l’elezione nell’allora Popolo della Libertà alla Camera dei Deputati, venendo rieletto anche nel 2013 sempre col Pdl. Passa quindi al Nuovo Centrodestra di Angelino Alfano, ma nel 2016 lascia il partito in dissenso sul ddl sulle Unioni Civili, aderendo il 18 ottobre di quell’anno a Noi con Salvini, il movimento politico associato alla Lega Nord per il Mezzogiorno. Nel 2018 arriva la terza elezione alla Camera dei deputati con la Lega di Salvini, con un importante nel suo feudo elettorale di San Cataldo dove il Carroccio incassò il 9%.
Alessandro Pagano, il siciliano leghista camaleonte che difendeva l'immigrazione. Oggi va alla Camera per definire Silvia Romano una terrorista, così da dimostrare fedeltà al Carroccio. Ma fino a quando era deputato di Angelino Alfano andava in visita ai Cie parlando di integrazione e accoglienza. Un campione di trasformismo più che di coerenza. Rosario Sardella il 13 maggio 2020 su La Repubblica. «Lo scandalo è per i nostri trentamila connazionali morti di Covid, con tubo in gola, senza un nome sui media… invece una sconosciuta che viene liberata con riscatto faraonico, che torna sposata e convertita, le fanno una festa degna della vittoria al campionato del mondo di calcio». Lo scriveva alle 11 e 12 minuti di lunedì mattina sul suo profilo Facebook il deputato della Lega Alessandro Pagano. E poi via via, post contro il governo Conte, santini, appelli per riaprire le chiese, e poi quelli che hanno come tematica l’immigrazione, meglio se, come dice il deputato, clandestina. Lo stile comunicativo è quello della Lega voluta e immaginata da Matteo Salvini, così in poco tempo e con un adattamento camaleontico Pagano si è completamente padanizzato. Poi martedì si è superato. Neanche Matteo aveva ancora osato tanto. Pagano ha definito Silvia Romano, tornata in Italia dopo 18 mesi di sequestro e in mano ai terroristi somali di Al Shabaab, una “neo terrorista”. Ma chi è Alessandro Pagano? Vecchia gloria della politica siciliana, originario di San Cataldo, in provincia di Caltanissetta, 61 anni, insegnate e commercialista, laureato in economia e commercio e scienze bancarie presso l’università di Messina. Esponente di Alleanza Cattolica, un’associazione che si propone lo studio e la diffusione della dottrina sociale della Chiesa, è cresciuto politicamente nel Fronte della Gioventù, organizzazione giovanile del Movimento sociale italiano. E' bagarre nell'aula della Camera. A scatenarla, le parole dell'onorevole della Lega Alessandro Pagano, che illustrando un ordine del giorno al decreto Covid e criticando il governo per le scelte in tema delle riaperture delle chiese, ha aggiunto: "Quando è tornata una neo-terrorista, perché questo è El Shabaab, sono andati ad accoglierla". Immediate le voci di protesta si sono levate dall'emiciclo, soprattutto dal Partito Democratico. La vicepresidente Carfagna ha a sua volta subito ripreso il deputato. "E' inaccettabile", è stata la risposta a gran voce dell'onorevole Pd Emanuele Fiano. Debutta all’assemblea regionale nel 1996, dopo aver aderito nel 1994 alla nascita di Forza Italia. È due volte assessore in Sicilia, prima alla Sanità e poi, sotto il governo Cuffaro, ai Beni Culturali. È un super fedelissimo di Silvio Berlusconi che nel 2008 gli offre il posto alla Camera dei deputati con il Popolo delle Libertà e così nel 2013. Nello stesso anno transita nel Nuovo Centro Destra di Angelino Alfano, ci sta tre anni, e poi in dissenso con il partito sul ddl sulle adozioni civili, lascia il NCD. Adesso è “innamorato” di Matteo Salvini. A proposito di Pagano, rais della Lega in Sicilia, esiste un video del luglio 2014, che lo ritrae all’interno del centro di accoglienza "Ipab" di San Cataldo, quasi nei panni di un prete francescano. Raccontava delle esperienze tragiche vissute dai migranti, parlava di integrazione dei popoli, e di come mescolare i nuovi arrivati con la comunità locale. A quei tempi a San Cataldo c’erano una settantina di migranti, ma nessuno gridava allo scandalo, al pericolo sicurezza. Anzi era un modo per dare lavoro, ai giovani e meno giovani. Perfino ad un parente del deputato, che lavorò dentro una cooperativa che si occupava di gestire il centro di accoglienza. Il Nuovo Centro Destra di Alfano aveva messo le mani sul Cara di Mineo, come poi svelerà anche l’inchiesta giudiziaria su Mafia Capitale. Preistoria politica: e così zitto zitto, Pagano si è camuffato come un camaleonte nella terra dei gattopardi. E il Pagano diventò il Padano.
Silvia Romano, l'orrore dell'assessore di Beppe Sala: sogna Matteo Salvini rapito dai jihadisti. Massimo Costa su Libero Quotidiano il 13 maggio 2020. La riflessione, scritta alle otto del mattino sul suo profilo Facebook, inizia con una appassionata difesa di Silvia Romano, la cooperante tenuta in ostaggio per 18 mesi dai jihadisti somali di al Shabaab e tornata lunedì a Milano. «Aisha è un bellissimo nome che ha ispirato una struggente canzone a Cheb Khaled. Significa "forza vitale" e si adatta benissimo al sorriso dirompente di questa meravigliosa ragazza». Paolo Limonta, maestro elementare nonché assessore comunale all'Edilizia scolastica, prosegue la sua arringa chiedendo di lasciare tranquilla la ragazza: «Direi che è una scelta di una persona che, adesso, ha solo bisogno di essere lasciata in pace». Poi, però, l'orazione prende tutt'altra piega e si trasforma in un atto di accusa pesantissimo nei confronti di chi ha osato sollevare dubbi sull'operazione che ha tolto Silvia dalle mani dei carnefici e l'ha riportata a casa. «Vivere diciannove mesi di paura assoluta e riprovare la stessa paura tornando nel tuo Paese dove si sta addirittura pensando di metterla sotto protezione per le minacce che ha ricevuto, è un' esperienza che non auguro davvero a nessuno. Anche se per un bel po' di razzisti, fascisti e sovranisti potrebbe essere un'esperienza formativa». Ma come: per un bel po' di razzisti, fascisti e sovranisti potrebbe essere una esperienza formativa? Il rapimento, le minacce, le torture psicologiche, l'angoscia di essere diventata proprietà dei terroristi: tutto questo potrebbe educare chi non la pensa come Limonta? «Buona vita Aisha. Ti aspettiamo al Trotter» conclude l'ex braccio destro di Pisapia, da tempo punto di riferimento della sinistra radicale milanese. Ma le parole d'odio verso il magma indefinito di fasciosovranisti - forse ce l'aveva con il leader dell'opposizione Matteo Salvini, oppure con i leghisti, oppure ancora con chi non è di sinistra? - pesano come un macigno sull'immagine di un politico che si propone come alfiere del dialogo, dell'integrazione, della solidarietà verso gli ultimi. Soprattutto, sono parole inaccettabili se pronunciate da uno dei responsabili dell'amministrazione di una città. Ci auguriamo che il sindaco Beppe Sala prenda provvedimenti, perché quelli sono toni incompatibili con la dialettica politica, pur aspra e urticante finché si vuole. Arrivare a dire che, tutto sommato, l'esperienza del rapimento gioverebbe a «formare» i nemici politici è più di un'espressione infelice. È una frase che, proprio all'insegna del rispetto degli avversari, dovrebbe convincere il sindaco in assenza di scuse a rimuovere dall'incarico il suo assessore a Palazzo Marino. Attenzione. Vanno sicuramente condannati senza se e senza ma gli insulti e le minacce nei confronti della ventitreenne, non ci devono essere tentennamenti. Diverso, però, è il caso di chi chiede chiarimenti sull'operazione portata a termine dal governo guidato da Giuseppe Conte. Anche perché i punti oscuri - che, ribadiamo, non giustificano in alcun modo violenze verbali verso Silvia Romano - sono tanti. È giusto o sbagliato pagare un riscatto ai terroristi? La domanda apre una riflessione profonda che ha attraversato la storia recente del nostro Paese, non è mica uno slogan da tifosi. Men che meno lo è sollevare dubbi sullo show mediatico del governo intorno allo sbarco a Ciampino della ragazza in abiti islamici. Oppure chiedere alle ong di non mandare allo sbaraglio i cooperanti in zone pericolose dell'Africa. Non è una bestemmia sottolineare le tante ombre dell'affaire Romano. Invece, secondo il tollerante Limonta, un po' di rieducazione nei campi di prigionia somali in fondo servirebbe a qualcuno come esperienza formativa. «Non lo auguro a nessuno, anche se...». Paolo Bassi, presidente leghista del Municipio 4, ha letto ieri quella frase dell'assessore su Facebook e come tanti è rimasto colpito: «Mi dispiace che un assessore in qualche maniera più o meno velata mi auguri di essere rapito da un commando estremista musulmano. Nella foga di polemizzare e agitare il sempreverde spettro del fantafascismo all'esponente della giunta è scappata una frase che avrebbe fatto bene a non dire. Personalmente io per commentare il caso di Silvia Romano ho usato le parole di Maryan Ismail e Fiamma Nirenstein, due donne che hanno espresso in maniera legittima e puntuale una serie di considerazioni».
Silvia Romano, Paolo Becchi: "Lo sa che per l'islam abbiamo pagato un riscatto di milioni?". Libero Quotidiano il 11 maggio 2020. Fa discutere, e riflettere, il caso di Silvia Romano. Liberata - dietro pagamento di lauto riscatto che il governo come sempre in questi casi non conferma - e tornata in Italia convertita all'islam in abiti tradizionali. Un caso particolare, anche un poco impressionante per la sua potenza iconica. E un commento su questa vicenda arriva su Twitter a firma di Paolo Becchi. E il filosofo si interroga, o meglio "interroga" la ragazza milanese: "Silvia Romano (come chiunque altro) è libera di convertirsi all'islam - premette -, ma lo sa che per la sua liberazione abbiamo dovuto pagare un riscatto di milioni a chi professa quella religione?", conclude Paolo Becchi.
Vittorio Sgarbi contro Silvia Romano: "Convertita all'Islam radicale? Perché è da arrestare". Libero Quotidiano il 11 maggio 2020. Il ritorno di Silvia Romano in Italia ha scatenato migliaia di commenti. E tra questi, quello di Vittorio Sgarbi è il più duro. Al di là della gioia per la sorte della giovane cooperante milanese, libera dopo un anno e mezzo di sequestro in Africa, tengono banco due temi: il riscatto pagato dallo Stato italiano per riaverla (indiscrezioni riferiscono anche la cifra: 4 milioni) e soprattutto la clamorosa conversione all'islam di Silvia, tornata in Italia vestita in abiti tradizionali islamici e che avrebbe confermato di aver scelto la religione di Allah in modo totalmente libero e senza condizionamenti da parte dei suoi carcerieri, i jihadisti di al Shabaab. E qui Sgarbi, via social, esplode: "Se mafia e terrorismo sono analoghi, e rappresentano la guerra allo Stato, e se Silvia Romano è radicalmente convertita all’Islam, va arrestata (in Italia è comunque agli arresti domiciliari) per concorso esterno in associazione terroristica. O si pente o è complice dei terroristi".
Silvia Romano, Vittorio Sgarbi: "Se i terroristi mettessero una bomba in Vaticano, lei li denuncerebbe?" Libero Quotidiano il 14 maggio 2020. Vittorio Sgarbi minaccia di denunciare Silvia Romano che però è indagato dai pm riguardo al suo post su Facebook. Sulla pagina del social aveva scritto: “Se mafia e terrorismo sono analoghi e rappresentano la guerra allo Stato, e se Silvia Romano è radicalmente convertita all'islam, va arrestata per concorso esterno in associazione terroristica. O si pente o è complice dei terroristi”. In una intervista a Libero, ha sottolineato che le accuse rivolte verso di lui sono una follia, in quanto non avrebbe minacciato o insultato nessuno. Avrebbe unicamente espresso i suoi dubbi e la sua opinione da parlamentare, tutelata dall'articolo 68 della Costituzione. "Se i terroristi islamici la chiamassero per dirle: vogliamo mettere una bomba in Vaticano, li denuncerebbe come farebbe un pentito o li aiuterebbe come un convertito? La differenza è tutta qui: se un mafioso è pentito lo ascolto, se è attivo lo arresto”. Sgarbi ha reso noto inoltre di aver scritto al presidente della Camera per ribadire che quanto esternato rientra nei suoi diritti di deputato. Secondo Sgarbi, la Romano non dovrebbe essere messa sotto scorta, in quanto quelli in pericolo siamo noi cittadini. "Lei è ventriloquo della Jihad" e non esclude che un giorno possa compiere un atto terroristico. Per questo ha detto di volersi recare dai carabinieri.
Silvia Romano, Vittorio Sgarbi a Libero: "L'hanno usata come cavallo di Troia, perché è pericolosa". Alessandro Gonzato su Libero Quotidiano il 14 maggio 2020. «Siamo alla follia: non ho insultato né minacciato nessuno. Quello che ho scritto non è perseguibile, è l'opinione di un parlamentare, tutelata dall'articolo 68 della Costituzione. Le dico di più: tra 5 minuti vado io dai carabinieri a chiedere che valutino le idee espresse da Silvia Romano, il gradiente di pericolosità della ragazza, contro la quale non ho nulla di personale. Ma cosa può fare: parla e basta o potrebbe mettersi nelle condizioni di favorire un attentato? Se i terroristi islamici la chiamassero per dirle «Vogliamo mettere una bomba in Vaticano» li denuncerebbe come farebbe un pentito o li aiuterebbe come un convertito? La differenza è tutta qui: se un mafioso è pentito lo ascolto, se è attivo lo arresto». Vittorio Sgarbi passa al contrattacco. Al vaglio dei pm di Milano, che indagano sugli insulti e le minacce rivolti via social alla giovane cooperante, ci sarebbe anche il suo post su Facebook, contro cui si è subito scagliata la sinistra. Lo riportiamo: «Se mafia e terrorismo sono analoghi e rappresentano la guerra allo Stato, e se Silvia Romano è radicalmente convertita all' islam, va arrestata (in Italia è comunque agli arresti domiciliari) per concorso esterno in associazione terroristica. O si pente o è complice dei terroristi».
Onorevole: ora però sembra che vogliano arrestare lei...
«È risibile. Peraltro ho già scritto al presidente della Camera per sottolineare che ciò che ho detto rientra nei miei diritti di deputato».
Sei consiglieri provinciali di sinistra, a Trento, chiedono che le venga tolta la presidenza del Mart di Rovereto.
«Sono dei dementi. Dovevano dissociarsi dal terrorismo, non da me. Secondo loro ho affermato che Aisha va arrestata in quanto convertita all'islam, avrei equiparato la fede religiosa a un comportamento criminale. Nulla di più falso: se è diventata musulmana fatti suoi! Il problema è stato l'esibizione delle insegne di un gruppo terroristico affiliato ad Al Qaeda del quale ha lodato la correttezza. Le chiedo una cosa...».
Prego.
«È lecito considerare corretto un atto estorsivo della mafia, o il comportamento di un gruppo terroristico di cui Aisha è contemporaneamente vittima e sostenitrice? Si tratta di una contraddizione pericolosa che la rende una complice, potenziale, di comportamenti criminali, e attuale di propaganda».
Il deputato leghista Pagano ha definito la ragazza «neo-terrorista».
«Giusto. Posso giustificare la giovane sul piano emotivo, ma ho anche il diritto di essere preoccupato. Dell'Utri ha preso 7 anni per concorso esterno in associazione mafiosa. Le ripeto: ora vado dal generale dei carabinieri e presento la mia denuncia. Se vengo a sapere che uno è amico della mafia lo segnalo. Non è un gesto contro la ragazza, ma dobbiamo dividere la commiserazione dalla dichiarazione precisa di una che ha incontrato i mafiosi e anziché dire "sono delle merde" ha detto che sono bravi».
Secondo lei la Romano è pericolosa?
«Probabilmente non è pericolosa la persona, ma di certo lo è ciò che le hanno fatto dire: ha fatto da ventriloquo ai terroristi, l'hanno usata come cavallo di Troia».
Favorevole alla scorta?
«Siamo noi che dobbiamo essere messi sotto scorta, non Aisha! Come si fa a escludere che un giorno compia un atto di complicità o di diretta espressione terroristica? Non è la prima volta che uno si fa esplodere in un supermercato. Io ho ricevuto tante di quelle minacce che avrei dovuto chiedere la scorta immediatamente. È l'ulteriore follia di un'azione giudiziaria rovesciata che invece di difendere i cittadini protegge una potenziale terrorista».
Di Maio ha detto che non gli risulta sia stato pagato il riscatto.
«A me sembra che il portavoce di Al Shabaab abbia detto che i soldi del riscatto verranno usati per la jihad. I comunisti una volta si dissociavano dalle Br. Oggi comunisti e grillini si associano ai terroristi. È una cosa inaudita: si chiama associazione esterna...».
Alessandro Sallusti per “il Giornale” l'11 maggio 2020. Silvia Romano, la giovane volontaria di Milano rapita un anno e mezzo fa in Kenya, è tornata a casa sana e salva. Siamo felici per lei, la sua famiglia, i suoi amici e complimenti ai nostri servizi segreti che hanno saputo dipanare con pazienza l' intricata matassa. Detto questo, vedere in diretta tv Silvia sbucare dal portellone dell' aereo di Stato che l' ha riportata in Italia velata e in perfetta divisa da donna islamica ci ha lasciato più che perplessi. Tra i simboli della cultura che l' ha rapita, segregata e venduta più volte come donna oggetto e oggetto di scambio e ricatto e la cultura che l' ha scovata e liberata dai suoi carcerieri e che ha pagato il riscatto (quattro milioni di euro), Silvia ha deciso di omaggiare la prima e di umiliare la seconda, che non solo l' ha ricevuta manco fosse un' eroina (non si capisce di cosa) ma ha fatto pure suonare a festa le campane della chiesa - ovviamente cattolica - del suo quartiere. Libera ovviamente la ragazza di fare ciò che crede, libera di avere abbracciato in questo periodo, come pare sia successo, la religione islamica e mettiamo pure in conto la prostrazione psicologica cui è stata sottoposta. Ma proprio per questo, quel velo esibito suona come un insulto alle libertà delle donne e dell' Occidente. È come se un internato in un campo di concentramento tedesco fosse tornato a casa, ricevuto con tutti gli onori dal suo presidente del Consiglio, indossando orgogliosamente la divisa dell' esercito nazista. E questo senza contare che oggi, con Silvia al sicuro, possiamo anche dircela tutta: ma che cosa ci faceva una ragazzina inesperta in uno dei posti più a rischio del pianeta? Chi ce l' ha mandata «a fin di bene» è stato un irresponsabile, che ha messo a rischio la vita della ragazza, di chi ha dovuto impegnarsi per liberarla e ora di tante altre persone innocenti, perché la banda di estremisti islamici che ha incassato i quattro milioni dal governo italiano non li spenderà certo in opere di bene, bensì in armi per rafforzare la sua opera di morte e terrore. «A fin di bene» in questa storia non c' è proprio nulla, e nel suo ultimissimo atto, all' aeroporto di Ciampino, sono mancati pure buon senso e rispetto. Abbiamo quattro milioni in meno e, scommettiamo, un' eroina della sinistra in più. Pur di vedere Silvia viva ci va bene pure questo scambio, ma per favore basta retorica. E stendiamo noi un velo, in questo caso pietoso, non sulla faccia di Silvia, ma su tutta la questione.
Vittorio Feltri per “Libero quotidiano” l'11 maggio 2020. Silvia Romano, la giovane milanese rapita in Kenya, è stata liberata e finalmente torna a casa sua, dai genitori. Tutti festeggiano l' evento, anche noi che davanti a una esistenza salvata ci rallegriamo, ci mancherebbe altro. Tuttavia ci sono molti punti su cui vale la pena di ragionare. Chi glielo ha fatto fare alla fanciulla lombarda di recarsi in Africa pur consapevole dei rischi che gli europei affrontano nel continente nero, dominato da fanatici islamisti? Possiamo almeno affermare che ella è stata imprudente, ai limiti dell' incoscienza. Si dice che Silvia si decise a partire animata dal desiderio di compiere del bene in favore dei bambini di pelle scura. Sono persuaso della sua sincerità, eppure vorrei ricordarle che l' Italia è piena di gente bisognosa di soccorso, visto che campa nella miseria. Oltre 50 mila clochard trascorrono le notti all' addiaccio e spesso ci lasciano le penne. Per aiutare i miserabili non è il caso di trasferirsi nella Savana, basta guardarsi in giro pure nel capoluogo lombardo per ravvisare numerosi individui conciati male e meritevoli di assistenza. La trasferta della Romano durata a lungo doveva essere evitata poiché probabilmente ispirata dalla moda terzomondista, che spinge tanti italiani, specialmente freschi, a ritenere che per salvare l' umanità sia indispensabile percorrere migliaia di chilometri e porgere una mano a dei poveracci fedeli di un Allah inesistente o esistente soltanto nelle teste calde dei bigotti musulmani in armi, sequestratori in cerca di denaro facile, uomini impuniti che poi si dedicano a trattative con i nostri servizi segreti. Su tutto questo bisogna riflettere e non liquidare il problema in quanto inteneriti dalla circostanza che la Romano sia riuscita a rimpatriare grazie a un riscatto, non quantificato, pagato con quattrini statali, cioè presi dalle nostre tasche. Il governo, specialista nell' arte di indebitarsi, non è in grado di fornire due soldi alle aziende italiane in crisi causa pandemia, poi sgancia milioni per consentire a una pulzella di riabbracciare i congiunti, incapaci a suo tempo di trattenerla in famiglia evitandole una disavventura atroce. Come giustamente spiega Vittorio Sgarbi, molti anni orsono le istituzioni si rifiutarono di trattare con le Brigate Rosse per scongiurare l' uccisione di Aldo Moro, e adesso invece barattano con le bande africane, sborsando milioni di euro, la "scarcerazione" della Romano. Non solo, per lustri e lustri si è demonizzato il mercanteggiamento tra Stato e mafia, sollevando un caso senza fine, e nessuno deplora analogo fenomeno riguardante il rilascio di Silvia in cambio di che? Di un sacchetto di caramelle o di un pacco di quattrini? È moralmente inaccettabile che succedano avvenimenti di questo tipo e si pretenda di inneggiare al lavoro, pur egregiamente eseguito, degli 007 mobilitati - presumo - da Gigino Di Maio e Giuseppe Conte. Urge aggiungere: non è la prima volta che alcune signorine emigrano, indotte da sentimenti incomprensibili, in terre infocate dall' islamismo e siano intrappolate come topolini smarriti. Rammento le due Simone, ribattezzate Vispe Terese, che furono rilasciate non certo gratis, le quali appena messo piede nel nostro Paese si affrettarono a comunicarci che sarebbero volate volentieri in Iraq. È assurdo inseguire, spendendo cifre folli, ragazze incantate dall' Islam. Ovvio, lo facciamo lo stesso perché abbiamo il cuore tenero benché il nostro portafogli sia vuoto, e una vita che ricomincia la salutiamo con gioia. Però gradiremmo non essere presi in giro da una che si è affrettata a dire: sì, adesso sono musulmana, mi sono convertita. Complimenti.
Vittorio Feltri e Silvia Romano: "Due o tre cose che non sappiamo su di lei. Mi auguro che smentisca altrimenti..." Libero Quotidiano il 12 maggio 2020. Quando muore un carabiniere o un poliziotto mentre compie il suo dovere in cambio di uno stipendio da fame, le istituzioni se la cavano con un telegramma alla famiglia. Ciò succede da sempre, non soltanto in questo periodo, per cui l' attuale governo non si può ritenere che sia molto peggiore dei precedenti. Tuttavia, la vicenda di Silvia Romano ha un contenuto particolarmente scandaloso, meritevole di una chiosa. La ragazza è partita per il Kenya desiderosa di aiutare i bimbi neri. Scelta generosa e da applaudire. Poi è stata rapita da una banda che l' ha rivenduta ad un' altra banda in un rimpallo disgustoso. È rimasta prigioniera per circa un anno e mezzo, arco temporale durante il quale le sue sorti sono state dimenticate dall' opinione pubblica e forse pure da chi avrebbe dovuto interessarsene. Ella è sparita e su di lei è caduta una coltre impenetrabile di silenzio. Finché non si è giunti a una sorprendente conclusione della misteriosa storia. All'improvviso è arrivata la notizia che la fanciulla è stata liberata per intercessione dei servizi segreti turchi e somali, i quali avrebbero pagato ai sequestratori 4 milioni e passa (c' è chi dichiara 40) a titolo di riscatto. Silvia, sempre stando alle ricostruzioni ufficiali, a questo punto finalmente scarcerata, è rientrata in Italia. Si festeggia, si esulta, benché non si comprenda cosa sia in realtà accaduto. La milanese, quando scende dall' aereo a Ciampino, è sorridente, contenta, ovvio. Indossa un vestito alla moda islamica, una palandrana di dubbio gusto, e questo è normale. Una che è stata reclusa 18 mesi nei covi segreti dei terroristi non era in grado di sfoggiare un abbigliamento migliore. Poi però la signorina afferma di avere soggiornato bene nelle celle musulmane, di aver trascorso in Africa giorni divini al punto di essersi convertita alla religione di Allah. Ha letto il Corano e ha capito che i musulmani hanno ragione. Niente di sconvolgente, avviene di innamorarsi dei carcerieri e dei loro costumi. Pare addirittura che Silvia si sia sposata felicemente con uno di essi. E a questo punto scatta la domanda: se tutto il presente racconto è veritiero, per quale motivo lo Stato si è mobilitato allo scopo di agevolare il rimpatrio di una tizia che era a suo agio in compagnia dei terroristi intenti a sfruttarla per incassare denaro nostro? Tutti noi eravamo sicuri che Romano fosse stata sollevata dall' incubo della reclusione e invece abbiamo scoperto che la sua detenzione era una specie di paradiso terrestre. Pertanto non c' era ragione di ricondurla in patria, a un prezzo salato, al solo fine di permetterle di riabbracciare i genitori per qualche settimana, coltivando nel cuore la brama di migrare di nuovo nel continente nero dove ha realizzato le sue aspirazioni spirituali. Mi appare assurdo e paradossale aver salvato una giovane donna che simpatizza per coloro che l' hanno imprigionata e trattenuta sotto le grinfie islamiche. Mi auguro che Silvia abbia parlato a vanvera e smentisca, ritrovando se stessa, ciò che in un attimo di follia ha dichiarato. Se non sarà così, Conte e la sua corte dei miracoli dovranno spiegarci che razza di operazione hanno finanziato coi nostri quattrini. Chi vivrà vedrà. In questa commedia qualcuno si è comportato da autentico deficiente. Scopriamolo. L' importante è che si faccia in fretta chiarezza e si identifichino le responsabilità. Quello che è stato narrato fino adesso con toni trionfalistici non basta a tranquillizzarci.
Filippo Facci per “Libero quotidiano” il 12 maggio 2020. C'è poco da aggiungere. Ma c'è molto da chiedersi. Lo Stato ha dato quattro milioni di euro a dei terroristi islamici (qualsiasi gruppo sia, sono jihadisti) per farci riavere una cittadina italiana di nome Silvia Romano, una lombarda un po' sciroccata che anni fa era partita per il Kenia ufficialmente per aiutare dei bambini di pelle scura ma che alla fine ha aiutato solo degli adulti di pelle scura cucinando per loro, e infine arricchendoli con il riscatto pagato, così da aiutarli virtualmente a farci la nostra pelle bianca. È partita magra e vestita all' occidentale e dopo diciotto mesi è tornata cicciona e vestita con un barracano islamico verderame da passeggio perché, ecco, intanto si è convertita «per libera scelta» (dice lei, e ripetono i cretini) mentre la verità è che altrimenti i carcerieri l' avrebbero ammazzata. Con calma, ma l' avrebbero fatto. Lei, di ritorno, poteva cambiarsi, rimettersi degli abiti decenti prima di scendere dall' aereo e procedere alla sfilata di liberazione: se non l' ha voluto fare è stato per esibire la rinnovata condizione che intanto continua, ieri spiegavano che il palandrone non se l' era ancora tolto, avrà i ragni sotto. Ma scritta così è becera. Allora citiamo un rispettato collega della Stampa, Domenico Quirico, che anni addietro si è ritrovato in condizioni analoghe, e ha spiegato come funziona. Un po' di legittimo terrore, di disorientamento, poi ti propongono cordialmente di cambiare il tuo nome e di assumerne uno musulmano. In pratica è un obbligo: ti lavorano l' anima con tiepidezza orientale mentre altri, più praticoni, si muovono per il riscatto ma senza fretta, perché il tempo fa crescere le azioni, permette di giocare al rialzo e al tempo stesso c' è da fare un lavoro complicato in cui loro bravissimi: salvare una miscredente dal peccato così da farle varcare lo stipato paradiso dei giusti. Per incassare c' è tempo, per ammazzarla pure.
Una nuova identità. Beh, succede che in genere accettano tutte. In genere subito. Una come Silvia Romano magari anche prima. Capiscono tutte che il loro vecchio nome non esiste più, mentre se accetti morbidamente una nuova e fluida identità (la cui ricerca è già spesso il fondamento della partenza e della fuga: la ricerca di un altrove che spinge tante novizie o novizi a partire alla cazzo) ecco che cessa di esistere anche ogni violenza, ogni malaria, ogni benda sugli occhi, ogni trasferimento terrorizzante. Ed è un sollevo immediato, per cominciare. La conversione, già. Mica l' hanno costretta. L' hanno scaraventata giù da un aereo e lei stava per fracassarsi al suolo, ma tirando una leva si sarebbe aperto un paracadute: è lei che ha tirato la leva, è stata una sua libera scelta, no? Poi che fanno? Poco. E lentamente. Ti dicono che devi pregare: e che problema c' è. Tu preghi. Lo fai. Obbedisci. Se in un angoletto della tua corteccia cerebrale conservi una porzione di insincerità, cioè preservi l' auto-racconto secondo il quale stai solo fingendo, beh, in fondo a loro sai che gliene frega. Sanno che si consumerà a poco a poco, talvolta in un niente. Il lavaggio dei cervelli brevi ha tempi molto brevi, soprattutto se metti l' ammorbidente. Accettare la tua nuova condizione è come poter chiudere gli occhi e assopirsi dopo una tortura fatta di luce freddamente vivida: chi eri tu? Chiunque sia ora, tu, questa tua nuova identità sta già meglio. Non è una conversione: è un annullamento.
Siamo nella dimensione Jihad: le donne non esistono. Se esistono devono fabbricare figli da mandare al massacro, finire schiave in qualche mercato, farsi carne da penetrazione, finire lapidate per il singolo adulterio di adùlteri seriali e culturali, magari farsi esplodere e ringraziare per il privilegio, oppure, ecco: andarsela a cercare e farsi rapire come una deficiente partendo da quell' occidente dove chiamano «Stato» delle entità disposte a pagare per riavere - che spasso - una misera una donna, una inesauribile incubatrice di martiri.
Una misera donna che ha dovuto cancellare ogni memoria per sostituirla con una soffice violenza, l' unica che ora gli resta. Se le chiedi di cancellarla, non le resta niente. Come chi, sperduto per anni in una foresta, dapprima ti racconterebbe che è diventata un' animale, che qualsiasi bestia ora è diventata sua amica. Diamole tempo. E biasimiamo chi le vuole bene e basta, senza tirar fuori cazzate sulla libertà religiosa, per favore. Non c' era nessuna libertà. E quella non era religione. Povera ragazza.
Quella palandrana le andava tolta Silvia Romano è uscita fiaccata e rincoglionita da una prigionia di un anno e mezzo e da pressioni che tutti i racconti del mondo non possono nemmeno farci immaginare, una che ora sorride perché sa di essere viva e salva (qui, in Italia) ma che andrebbe annoverata, almeno per ora, tra i soggetti incapaci di intendere e di volere. Non riesce a smettere di sorridere perché è viva, e da quella bocca, intanto, lasciatela dire ogni cazzata che vuole. Non conta. Chi le voleva bene è chiaro che continua a volergliene. Chi manco la conosceva e straparla di libertà religiosa è roba da sanatorio, non c' è neanche da discutere. Ma noi, lo Stato? Lo Stato fa lo Stato, anche questa è realpolitik, anche utilizzare i servizi segreti e buttare via soldi per una nostra cittadina, anche sporcarsi le mani e servirsi di un intermediatore scandaloso che intanto lasciava morire tre giornalisti in carcere come dei Bobby Sands: parliamo di Recep Tayyp Erdogan, uno che straparla di Europa e manda in giro la moglie col viso coperto. Le domande sono quelle di sempre: che dovremmo fare se rapissero una Silvia Romano alla settimana? Sovvenzionare a vita il Jihad, istituire dei costosi Erasmus esistenziali per chiunque abbia problemi col proprio io, salvo vedercelo restituire lobotomizzato? Solo per Aldo Moro, in Italia, non si tratta? Lo Stato faccia lo Stato. Quella palandrana gliela dovevano togliere prima che scendesse dall' aereo. Al diavolo le Ong, al diavolo i viaggi organizzati dell' incoscienza. Fatelo pagare a Silvia Romano, il riscatto, o a chi ce l' ha mandata. Fatele pagare, alle Ong, anche le perizie neurologiche che saranno sicuramente disposte. Si perdoni l' analogia alpinistica, ma un cretino che cerchi di scalare il Cervino, dal niente, poi i soccorsi dovrà pagarseli lui. A meno, ecco, che sia iscritto al Cai. Ma lo Stato non è il Cai. Lo Stato non è un' assicurazione sull' idiozia. Io le montagne le scalo, ma non mi sono mai iscritto al Cai, e proprio per questo: perché voglio sentirmi italiano ma non per questo irresponsabile. Chiusa la trascurabile analogia. A Silvia Romano, quella palandrana di merda, dovevano scagliarla giù dall' aereo. Altro che darle una scorta.
Maria Giovanna Maglie e Silvia Romano convertita all'Islam: "Riscatto di 4 milioni in cambio di una macchina da propaganda dei terroristi". Libero Quotidiano il 11 maggio 2020. Il riscatto per Silvia Romano serve ad aver in cambio una "macchina di propaganda" del terrorismo islamico? Maria Giovanna Maglie punta il dito sulla trattativa che ha portato alla liberazione, dopo un anno e mezzo di sequestro, della giovane cooperante milanese rapita in Kenya dai jihadisti somali di Al Shabaab. Per riportarla a casa il governo avrebbe acconsentito al pagamento di un riscatto di 4 milioni di dollari. Cifra che in rete ha destato scalpore e attirato le critiche di molti.
Guido Crosetto, da destra, si dissocia: "Scusate - scrive il fondatore di Fratelli d'Italia su Twitter -, ma se diciamo, convinti, che vanno aiutati a casa loro, vanno fatte crescere le loro economie, che l’emigrazione uccide l’Africa etc. etc. che senso ha insultare una ragazza che è andata ad aiutarli a casa loro? Certamente non pensava di essere rapita e venduta". Dopo aver visto le immagini di Silvia atterrata a Ciampino vestita con il tradizionale velo islamico, simbolo della sua conversione ad Allah, la Maglie risponde a stretto giro a Crosetto: "E convertita, e restituita a caro prezzo a miracol dell'Islam mostrare? Aiutarli a casa loro vuol dire pagargli €uro 4milioni per avere in cambio una macchina di propaganda loro?". Prima ancora, senza la certezza della conversione, la giornalista rifletteva: "Ogni persona sottratta ai banditi islamici è una vittoria anche se pagata a caro prezzo. Mi sarei aspettata un cambio d'abito urgente per la dignità dopo tanta umiliazione. Se il travestimento fa parte dell'accordo, questo ulteriore cedimento all'Islam fa orrore". La verità era per certi versi ancora più clamorosa.
Silvia Romano, Maria Giovanna Maglie: “Questo è aiutarli a casa loro?” Antonino Paviglianiti l'11/05/2020 su Notizie.it. Sulla liberazione di Silvia Romano è intervenuta anche la saggista Maria Giovanna Maglie che non digerisce la notizia del presunto riscatto. Sulla liberazione di Silvia Romano è intervenuta anche la saggista Maria Giovanna Maglie che non digerisce la notizia del presunto riscatto pari a 4 milioni di dollari. Secondo l’opinionista, infatti, il Governo Conte così agendo non fa altro che contribuire alla macchina propagandistica del fondamentalismo islamico. Ed è per questo che Maria Giovanna Maglie punta il dito sulla trattativa che ha portato alla liberazione, dopo 18 mesi di prigionia, di Silvia Romano, giovane cooperante milanese rapita in Kenya dai jihadisti somali di Al Shabaab. Per riportarla a casa il governo avrebbe acconsentito al pagamento di un riscatto di 4 milioni di dollari. Una somma che non è passata inosservata in rete e fonte di acceso dibattito. Sulla liberazione di Silvia Romano è stato scontro a suon di cinguettii su Twitter tra Guido Crosetto, fondatore di Fratelli di Italia, e appunto Maria Giovanna Maglie. Il primo ha fatto notare che dal centro-destra è sempre emerso il mantra del “aiutiamoli a casa loro”. E per questo Crosetto ha specificato: “Scusate, ma se diciamo, convinti, che vanno aiutati a casa loro, vanno fatte crescere le loro economie, che l’emigrazione uccide l’Africa etc. etc. che senso ha insultare una ragazza che è andata ad aiutarli a casa loro? Certamente non pensava di essere rapita e venduta”. Un’affermazione che non è piaciuta alla Maglie. La saggista, dopo aver visto come è rientrata in Italia Silvia Romano, ha risposto con un cinguettio a Crosetto: “E convertita, e restituita a caro prezzo a miracol dell’Islam mostrare? Aiutarli a casa loro vuol dire pagargli €uro 4milioni per avere in cambio una macchina di propaganda loro?”. Prima ancora, Maria Giovanna Maglie scriveva: “Ogni persona sottratta ai banditi islamici è una vittoria anche se pagata a caro prezzo. Mi sarei aspettata un cambio d’abito urgente per la dignità dopo tanta umiliazione. Se il travestimento fa parte dell’accordo, questo ulteriore cedimento all’Islam fa orrore”.
Maria Giovanna Maglie per Dagospia l'11 maggio 2020. Dopo uno spettacolo del genere, soldi e propaganda all'Islam nella capitale del mondo occidentale e cattolico apostolico, tanto vale mettere un bel cartello col prezzo al collo degli italiani che vanno a lavorare in Africa in zone di rischio, molte. Facciamo che vada bene tutto perché una vita è stata salvata, e magari tra qualche mese si riprende psicologicamente perché è una brava ragazza, spedita in Africa carica di ideali da una Ong gestita da incoscienti che mandano una persona da sola in un villaggio a correre inutilmente dei rischi. Facciamo che quell'orribile infame abito della conversione e della umiliazione della donna all'Islam lo bruci, e si rimetta i suoi shorts e la sua canottierina, i capelli al vento e l'aria allegra di chi non ha paura di niente. Facciamo che il volontariato lo svolgerà tra i nuovi poveri italiani post virus cinese. Facciamo che vadano bene anche 4 milioni, forse 4 e 800mila euro, necessariamente elargiti ai banditi spietati di Al Qaida, che in altri luoghi mandiamo i nostri soldati a contrastare, e che non facciamo l'operazione logica e malevola di pensare al numero di armi che saranno con quei soldi acquistate per usarle contro l'Occidente, ovvero che finanziamo quel che combattiamo. I riscatti li hanno sempre pagati tutti, anche le nazioni che a parole sostengono la fermezza. Anche Israele e Stati Uniti, e la Francia che provò qualche anno fa fare la dura ci rimise agenti del blitz e ostaggi. Non è che faccia differenza se invece che sborsare quattrini liberi criminali detenuti, che tornano a combattere o ad organizzare attentati terroristici e guerre sporche. Facciamo infine finta di dimenticare lo spettacolo delle sgomitate fra Giuseppi e Giggino, in corsa verso Ciampino fregandosi prima a botte di Tweet. Non glielo avevano detto al presidente del consiglio che la ragazza liberata aveva rifiutato gli abiti occidentali messi a disposizione nell'ambasciata italiana e che si sarebbe presentata come un modello vivente di propaganda di al Qaida," mi hanno trattato bene mi sono convertita spontaneamente"? Non hanno spiegato a Giuseppi e Giggino che quelle immagini faranno il giro del mondo arabo e rafforzeranno integralisti e terroristi? Anche in questo caso, tutti i politici fanno a gara per farsi vedere accanto a un ostaggio liberato, ma dipende dalla tua intelligenza capire se ne fai solo tu un uso interno di propaganda o se lo fanno anche i nostri nemici. Il teatrino delle foto accanto alla convertita legittima i terroristi islamici quanto i quattrini pagati, solo che i primi sono geloso obbligo per salvare una vita, il secondo una fiera delle vanità insopportabile. Parliamo però del riscatto, non confermato ma neppure smentito dall’intelligence italiana, lasciato molto sapientemente trapelare dai comunicatori del presidente del consiglio in nome della trasparenza . Ne parlano oggi molti quotidiani nelle loro ricostruzioni. Il Corriere della Sera, ad esempio, scrive che, dopo aver avuto la certezza che Silvia Romano fosse in vita, l’intelligence ha dato il "via libera all’ultima fase della trattativa" e all’autorizzazione del "pagamento del riscatto". E quando "diplomazia e intelligence, coordinati dal direttore dell’Aise Luciano Carta, capiscono che il canale aperto per arrivare al gruppo fondamentalista di Al Shabab è buono", spiega il Corriere, "si procede, consapevoli che più passa il tempo più sale il prezzo del riscatto". Il pagamento per la liberazione, dunque, viene dato per certo come dal corriere da tutti i giornali e le tv, quasi si trattasse di una cosa normale. E qui casca l'asino perché tutti i governi che pagano sostengono poi fino alla morte di non aver pagato, e non per caso. Eni e Leonardo nel giro di 2 ore hanno visto aumentare di 3 volte il premio assicurativo per i lavoratori in aree a rischio. Descalzi, Massolo, Profumo, amministratori delegati e ceo di imprese che lavorano in Africa, hanno chiamato la Farnesina per ululare che la storia del riscatto pagato e non smentito rappresenta un disastro e rischia di costringere le aziende italiane a ritirare parte dei lavoratori per manifesta insostenibilità dell’assicurazione di farli lavorare lì. Da oggi è come se ogni lavoratore italiano in zone a rischio portasse appeso un cartello col prezzo. La Farnesina nega di essere a conoscenza della somma, ma non smentite e velate conferme arrivano da Palazzo Chigi perché "bisogna essere trasparenti". Bisognerebbe allora essere trasparenti anche sul ruolo predominante svolto dai servizi segreti turchi. Silvia Romano appena liberata, fotografata su un pick-up, indossava un giubbotto antiproiettile dei servizi turchi. Erdogan non fa mai niente gratis, quella gente lì la finanzia, noi non contiamo più niente in aree come la Somalia e la Libia che erano un tempo le nostre aree di influenza.
PS Facciamo che non parliamo della Chiesa e del papa e dei vescovi, del loro silenzio o del tripudio di Avvenire che parla della ragazza liberata come ambasciatrice del Paese migliore. Più sottomissione di così… Si avviano a diventare un movimento di opinione.
Alessandra Meluzzi su Silvia Romano: "Gallinella italiana dalle uova d'oro. Cosa cambia, da oggi". Libero Quotidiano l'11 maggio 2020. Un commento infuocato. Poche, e durissime, righe. Contro il governo e di fatto contro Silvia Romano. Lo sfogo piove su Twitter nella mattinata di lunedì 11 maggio e a firmarlo è il professor Alessandro Meluzzi, che punta il dito contro il pagamento del riscatto e contro le conseguenze che questo atto potrebbe avere per altri nostri connazionali e nella lotta al terrorismo: "Da oggi tutti i fondamentalisti islamici dal Mali a Dacca passando per Mogadiscio sanno che gallinella italiana dalle uova d’oro vale almeno quattro milioni euro - premette -. Sconsigliati tour in zona salvo che per conversione a Sharia con annessa Sindrome di Stoccolma a spese contribuenti", conclude Meluzzi, ancor più tagliente e scatenato.
Flavia Perina per linkiesta.it l'11 maggio 2020. Sì, abbiamo pagato. Sì, lei si è convertita all’Islam. Il ritorno in Italia di Silvia Romano è accompagnato dalle consuete polemiche sul riscatto ma soprattutto dallo choc culturale di vedere la ragazza scendere dalla scaletta dell’aereo con un goffo tabarro e una gonna lunga fino ai piedi: insomma, vestita da perfetta musulmana. Quanto ci sia di autentico e quanto di circostanziale nella sua scelta religiosa lo capiremo in futuro. Quasi due anni in balia del peggior radicalismo islamico dovrebbero invitare alla cautela nel giudizio e nel commento. Ma al popolo del web non sono piaciute anche altre cose. Il sorriso di Silvia, ad esempio («Non sembra una che se l’è passata male»). E poi le dichiarazioni generose sul trattamento che ha subito («Se l’hanno trattata bene, se non ha da lamentarsi, poteva restarci»). Non è una novità. Le ragazze e signore italiane vittime di sequestro all’estero sono sempre state oggetto di uno specifico e occhiuto esame estetico-morale durante e dopo le loro drammatiche avventure: non ce n’è una che sia stata promossa. Simona Parri e Simona Torretta, per tutti “le due Simone”, rapite nel 2004 a Baghdad nella sede della Ong per cui lavoravano, rientrarono a Fiumicino dopo cinque mesi e mezzo nelle mani dei guerriglieri di El Zawahri. Erano vestite con lunghi caftani colorati, anche loro ridevano abbracciando i loro cari e le autorità. Ai giornalisti dichiararono l’intenzione di tornare a lavorare per la cooperazione. Apriti cielo. “Oche giulive”, titolò Il Giornale, dando voce a un sentimento collettivo di riprovazione e sdegno: l’idea generale era che due donne, dopo una pessima avventura di quel genere, dovessero rientrare a occhi bassi, modestamente vestite, contrite e pronte a giurare di non farlo mai più (in realtà entrambe hanno continuato a lavorare a progetti umanitari in Libano e Sudamerica). Peggio andò a Greta e Vanessa (i cognomi erano Ramelli e Marzullo, ma non venivano quasi mai citati). Loro, dopo sei mesi in mano alle milizie siriane e un drammatico video in cui supplicavano l’Italia di aiutarle, tornarono palesemente sotto choc, infagottate nelle giacche a vento, col cappuccio tirato sulla testa. E tuttavia si discusse moltissimo delle loro foto precedenti, quelle pubblicate su Fb ad Aleppo prima del sequestro che le mostravano allegre, con abiti un po’ hippy e fasce colorate tra i capelli: macché volontariato, si disse l’italiano medio, questo è un happy hour, una festa, un’avventura scombinata. Il sospetto fu che fossero d’accordo con i rapitori, per finanziare la loro causa attraverso il riscatto. Un sito di fake news rivelò: sono tutte e due incinte. Incauti parlamentari del centrodestra ritwittarono la notizia. Altre fonti le dichiararono ripetutamente abusate: quando loro smentirono, sostenendo di essere state trattate con umanità, scatto il solito coro: «Se stavate così bene, potevate rimanerci». Adesso la vicenda di Silvia allunga la casistica delle rapite inadeguate al ruolo che il comune sentire vorrebbe assegnargli, qualunque esso sia: Marie Maddalene pentite, testimonial della lotta al terrorismo o all’Islam, Sante Marie Goretti del sacrificio estremo. Non c’è niente da fare: l’uomo che si impegna in un’impresa pericolosa – che si arruoli nella Legione Straniera o coi curdi del Rojava – è un eroe; la donna che aderisce a una causa morale di qualunque tipo è una sventata, una scema, una poveretta inconsapevole e manipolata anche se, come le due Simone, ha trent’anni, è un’adulta e ha fatto una scelta di vita. Questo tipo di ragazze non ci piacciono, ci insospettiscono, forse mettono in difficoltà una cultura corrente dove il rischio non è più contemplato. Siamo il Paese di Anita Garibaldi, che cavalca e spara in mezzo a tre o quattro rivoluzioni, ma se vivesse oggi le diremmo: chi te l’ha fatto fare? Potevi restartene a casa, come tutte.
I cinque dubbi su Silvia Romano. Matteo Carnieletto su Inside Over l'11 maggio 2020. Coperta da un velo verde, Silvia Romano, la cooperante italiana rapita in Kenya a fine 2018, è finalmente tornata a casa dopo 18 mesi di prigionia. Un anno e mezzo segnato da un silenzio che pesava come un macigno e dove la speranza ha spesso ceduto il passo alla disperazione. Sparita, data in sposa a un jihadista e infine morta: sono queste le tante voci che sono circolate in questi mesi. Tutte smentite. O quasi. Ripercorrere i 18 mesi di prigionia di Silvia, infatti, non è per niente facile. Ancora più difficile è comprendere i motivi che l’hanno portata a convertirsi e, soprattutto, vale la pena interrogarsi su quale islam abbia incontrato la cooperante. Gli Al Shabaab non sono infatti un gruppo mistico o sufi dell’islam, ma un movimento jihadista affiliato ad Al Qaeda che ha compiuto stragi terribili, come ricorda anche Maryan Ismail, antropologa di origini somale a cui i jihadisti hanno strappato un fratello: “Quale islam ha conosciuto Silvia? Quello pseudo religioso che viene utilizzato per tagliarci la testa? Quello dell’attentato di Mogadiscio che ha provocato 600 morti innocenti? Quello che violenta le nostre donne e bambine? Che obbliga i giovani ad arruolarsi con i jihadisti? Quello che ha provocato a Garissa 148 morti di giovani studenti kenioti solo perché cristiani? Quello che provoca da anni esodi di un’intera generazione che preferisce morire nel deserto, nelle carceri libiche o nel Mediterraneo pur di sfuggire a quell’orrore? Quello che ha decimato politici, intellettuali, dirigenti, diplomatici e giornalisti?”. Già perché Silvia è innanzitutto un’autodidatta e non si capisce quale possa essere la sua idea di islam. Sono infatti cinque i punti che non tornano in questa conversione. Ad oggi, non sappiamo se la lettura del Corano le sia stata in qualche modo suggerita (“Ho chiesto dei libri e mi hanno portato il Corano. Ho cominciato a leggere per curiosità e poi è stato normale: la mia è stata una conversione spontanea”) o se sia nata da un suo intimo desiderio di conoscenza (“Ho chiesto dei libri e poi ho chiesto di avere anche il Corano”). La conversione di Silvia è davvero sincera oppure è stata causata dalla drammatica situazione in cui si è trovata suo malgrado? Afferma a tal proposito Paolo Branca, docente dell’università Cattolica intervistato da ilGiornale.it: “Mi pare evidente che se i rapitori fossero stati di un’altra religione o atei, sarebbe stata meno probabile la richiesta di una copia del Corano, seguita addirittura da una conversione”. La giovane, quindi, potrebbe aver inizialmente chiesto il libro sacro dell’islam per cercare un po’ di consolazione e si sarebbe infine convertita. Qual è l’islam in cui crede Silvia? Quello più tollerante oppure quello più severo e repressivo praticato per esempio in Arabia Saudita? Perché Silvia ha deciso di tornare in Italia indossando un ampio vestito verde tipico della tradizione somala e coprendosi il volto con il velo? Secondo Branca, la risposta non sarebbe solamente da cercare nell’islam ma anche nel fatto che chi “esce da una simile esperienza può anche sentirsi ‘protetto’ dal velo dai molti sguardi che si vedrà puntati addosso”. Infine, il quinto dubbio. Quello più drammatico: le violenze. Silvia ha detto di esser stata trattata bene dai suoi rapitori, ma questa versione è difficile da credere. Certamente, la giovane rappresentava un’ottima moneta di scambio per Al Shabaab e, quindi, il gruppo terroristico aveva tutto l’interesse a trattarla bene. Ma basta conoscere la storia di questo gruppo per sapere di quali crimini è capace. Questi cinque quesiti sono fondamentali per comprendere il percorso di Silvia, il cui volto pallido sembra nascondere un segreto che solo lei (e la Somalia) conoscono.
L’Italia fa un regalo (anzi due) ai jihadisti. Gianandrea Gaiani su analisidifesa.it l'11 maggio 2020. La liberazione di Silvia Romano dopo un anno e mezzo di prigionia nelle mani dei qaedisti somali di al-Shabab è una buona notizia ma il governo italiano l’ha gestita mediaticamente in modo gravemente dilettantesco. Le polemiche circa il riscatto pagato non ha molto senso. Poco importa che si siano pagati uno, quattro o più milioni di euro ai terroristi somali anche perché tutti gli Stati occidentali hanno pagato per liberare propri connazionali negando pubblicamente di averlo fatto. Hanno pagato anche quegli Stati che sostengono ad alta voce che “non si tratta coi terroristi”. Persino gli Stati Uniti, che con i britannici hanno spesso scelto la strada del blitz delle forze speciali per liberare i propri ostaggi, hanno pagato riscatti. Washington nel 2014 accettò di negoziare coi talebani e poi di liberarne 5 importanti esponenti detenuti a Guantanamo per farsi consegnare Bowe Bergdahl, militare catturato dai jihadisti in Afghanistan. Che il riscatto venga corrisposto in denaro o con la liberazione di prigionieri poco cambia: i terroristi liberati tornano a colpire così come il denaro dei riscatti viene impiegato per rafforzare le strutture e compiere altre azioni terroristiche e insurrezionali. Anche le polemiche circa la conversione di Silvia Romano all’Islam “per sua libera scelta” lasciano il tempo che trovano. Convivere 18 mesi da prigioniera dei jihadisti somali, specie per una giovane donna “infedele”, comporta necessità di adattamento all’ambiente difficilmente immaginabili da chi non ha vissuto esperienze così traumatiche. Per quanto ne sappiamo, non si può escludere che tali dichiarazioni facessero addirittura parte del riscatto, cioè fossero state imposte dai sequestratori nella trattativa lunga e difficile con i nostri servizi di sicurezza. Oppure che abbiano a che fare con l’aiuto fornito dai servizi segreti turchi per la liberazione della ragazza, considerato che Ankara ha oggi in Somalia (come in Libia) un’influenza decisamente superiore a quella italiana. Del resto, dall’immagine diffusa dall’agenzia di stampa turca Anadolu, che ritrae la giovane italiana dentro un veicolo con addosso un giubbotto antiproiettile turco, si potrebbe ipotizzare che siano stati i servizi di Ankara a prenderla in consegna dagli Shabab per poi consegnarla ai colleghi italiani dell’AISE. Ipotesi se ne possono fare molte e in ogni caso la scelta religiosa appartiene strettamente alla sfera personale. L’aspetto su cui è invece doveroso esprimere critiche, anche molto accese, riguarda la comunicazione del rimpatrio di Silvia Romano. Quelle immagini della giovane italiana che scende dall’aereo a Ciampino col capo islamicamente coperto, indossando un vestito somalo da donna musulmana, accompagnate dalle dichiarazioni circa la sua libera conversione all’Islam rappresentano un formidabile successo propagandistico per al-Shabab, per al-Qaeda e per tutta la galassia jihadista e dell’estremismo islamico. Non è difficile immaginare quanto a lungo queste immagini verranno utilizzate dalla propaganda jihadista per dimostrare alla loro opinione pubblica di riferimento, quella del mondo islamico, la loro superiorità ideologica e religiosa. Dal rapimento di Silvia Romano i terroristi islamici incassano quindi due grandi successi: quello finanziario con milioni di euro da investire nel jihad e quello mediatico incassato con la presentazione di una giovane “infedele” che, dopo essere stata rapita, afferma di essere stata trattata bene e di avere aderito spontaneamente all’Islam. Eppure gli aspetti che riguardano la propaganda non costituiscono certo una novità dopo 20 anni di guerra ai jihadisti. Basti pensare che i paesi anglosassoni da tempo non diffondono video del ritorno a casa degli ostaggi liberati e persino dei funerali dei propri caduti militari per non far circolare immagini preziose per la propaganda e le operazioni psicologiche del nemico. Alla fine del 2001 in una lettera che gli statunitensi sostengono di aver trovato in un covo di al-Qaeda in Afghanistan, scritta da Osama bin Laden al mullah Omar, il capo di al-Qaeda sosteneva che “la guerra dei media è uno dei metodi più forti per ottenere la vittoria finale …. Il 90 per cento della preparazione per le nostre battaglie deve essere affidato al bombardamento mediatico”. Le cerimonie funebri dei nostri caduti, con tutti i maggiori leader politici e istituzionali raccolti davanti ai feretri, sono state utilizzate in tutti i fronti della lotta al jihad come formidabile strumento di propaganda per dimostrare la vulnerabilità e la debolezza dell’Occidente. Dibattiamo da due decenni sull’efficacia della propaganda di al-Qaeda e dello Stato Islamico, a quanto pare inutilmente, almeno in Italia. Eventi come il ritorno a casa degli ostaggi in mano ai terroristi islamici hanno un valore strategico e come tali vanno gestiti, non come se si trattasse della serata finale di un reality show. Per questo il rientro di Silvia Romano, specie in quel contesto e con la simbologia che il suo abbigliamento rappresenta, doveva essere gestito senza immagini, in forma riservata e con i soli famigliari, oppure con la presenza del presidente del Consiglio e del ministro degli Esteri ma senza dichiarazioni ai media e riprese televisive. Anche perché con i jihadisti e pure con gli al-Shabab siamo in guerra al punto che in diverse occasioni i suoi miliziani hanno colpito i militari italiani della missione EUTM-Somalia (guidata dal generale italiano Antonello De Sio) che addestra l’esercito di Mogadiscio. L’ultima volta ci hanno provato con un’autobomba il 30 settembre 2019 e solo la protezione garantita dal veicolo Lince ha impedito che ci fossero vittime tra i nostri militari. La ricerca spasmodica di una photo-opportunity o di qualche minuto sui tg della sera può produrre danni gravissimi ed è per questo che la comunicazione strategica e di crisi dovrebbe venire affidata a professionisti di questo delicato settore, che peraltro non mancano nelle nostre istituzioni, specie quelle militari. La liberazione di Silvia Romano è stata gestita con grande professionalità ed efficacia da nostri servizi di sicurezza. Purtroppo non si può dire altrettanto della gestione politico-mediatica del suo ritorno a casa.
L’ITALIA DEGLI IPOCRITI.
Facebook. Tutto Travaglio il 15 maggio 2020. “Gheddafi in visita a Roma nel 2010. Chiede di poter fare due lezioni sul Corano. Chiede che gli vengano portate 700 ragazze. Possibilmente giovani, belle, in abiti audaci. Il Governo Italiano accontenta il Colonnello. Al termine, ogni ragazza riceve una somma di denaro e una copia del Corano. Alcune di loro, alla fine, dichiarano di essersi convertite all'Islam. Presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi. Ministro degli Interni, Roberto Maroni, Ministro della Difesa, Ignazio La Russa. Ministro della Gioventù, Giorgia Meloni. Altri Ministri vari: Calderoli, Zaia, Bossi”.
La visita di Gheddafi a Roma ad agosto 2010 con governo Berlusconi: 700 ragazze con Corano in Italia. Redazione Bufale.net il 15 Maggio 2020. La visita di Gheddafi a Roma ad agosto 2010 con governo Berlusconi: 700 ragazze con Corano in Italia. Questa mattina è stata rispolverata una vecchia storia riguardante la storia contemporanea del nostro Paese, in riferimento alla visita di Gheddafi a Roma nel mese di agosto 2010, quando era in carica il governo Berlusconi. Una sorta di risposta anti-sovranista da parte di alcuni personaggi che hanno seguito sui social, come nel caso di Andrea Scanzi, in risposta alla vicenda Silvia Romano. Considerando il fatto che parliamo di fatti avvenuto poco meno di dieci anni fa, occorre dunque contestualizzare il tutto.
Come andò la visita di Gheddafi a Roma ad agosto 2010 sotto il governo Berlusconi. Perché la visita di Gheddafi a Roma nel 2010 è tornata attuale oggi 15 maggio? Il fatto che il governo Berlusconi abbia dato il proprio consenso affinché 700 ragazze fossero lì ad attendere l’allora leader libico, a quanto pare andò oltre il semplice ruolo di una normale hostess. Che in verità a suo tempo vennero addirittura definite “amazzoni” dai media. A tal proposito, abbiamo ripescato un articolo pubblicato da Sky TG24 a margine dell’evento, con qualche dettaglio extra da non tralasciare. Ad esempio, durante la visita di Gheddafi a Roma nel 2010 il leader politico disse queste parole alle ragazze che erano lì per lavoro: “Convertitevi all’Islam, Maometto è l’ultimo dei profeti“. Successivamente, le invitò a convertirsi distribuendo copie del Corano ed in tre deciso di farlo velate. A quel punto, si tenne un rapido rito “benedetto” abbreviato attraverso il colonnello. Il tutto, dunque, va inserito secondo alcuni “influencer” in un contesto nel quale Silvia Romano è stata aspramente criticata per il fatto di essersi convertita all’Islam dopo la sua prigionia, tornando in Italia con abiti somali. Le riproposizioni di quest’oggi vanno proprio in quella direzione, con la ragazza milanese costretta a denunciare chi l’ha pesantemente offesa di recente (ne abbiamo parlato ieri). Tutto ciò, mentre la visite di Gheddafi a Roma nel 2010, con le ragazze italiane alle quali venne regalato il Corano venne ritenuta normale sotto il governo Berlusconi.
Silvia Romano e l’Italia degli ipocriti. Fulvio Scaglione il 13 Maggio 2020 su comedonchisciotte.org. In un Paese normale (giacché i Paesi evoluti sono ancora un’altra cosa) l’11 maggio, giorno in cui Silvia Aisha Romano è rientrata in Italia dopo essere rimasta per un anno e mezzo nelle mani dei sequestratori somali, dovrebbe essere dichiarato giorno di vergogna nazionale. Era già difficile immaginare che il rientro della ragazza avrebbe provocato reazioni tanto mediocri. Ma era proprio impossibile immaginare che sia la politica sia l’opinione pubblica avrebbero a tal punto confuso gli aspetti individuali e quelli collettivi di una vicenda importante, che avrebbe potuto farci utilmente riflettere sul posto del nostro Paese nel mondo e sul modo eventuale di occuparlo. Ma andiamo per ordine. Silvia Romano viene liberata e riportata in Italia. All’arrivo all’aeroporto di Ciampino annuncia di essersi convertita all’islam durante la lunga prigionia. E qui comincia la rissa. Una parte di questo Paese di mammoni, di gente pronta a mettersi in malattia con 37 di febbre, giudica la conversione come un cedimento ai terroristi, come una colpa. Il fatto privato di una scelta religiosa (avvenuta, peraltro, in circostanze che nessuno conosce) diventa lo spunto per una gogna pubblica, al punto che un deputato leghista arriverà a definire la ragazza “neo-terrorista” in Parlamento. Il tutto aggravato dalle voci su un riscatto milionario pagato ai rapitori per liberarla, denaro finito in pessime mani per un pessimo uso. E di nuovo: una schiera di madri e padri che fanno di tutto per coccolare i figli, lincia sui social una figlia altrui perché convertita e liberata grazie al pagamento di un riscatto. E se fosse toccato ai loro, di figli? Avrebbero voluto che lo Stato rifiutasse la trattativa con i rapitori? Avrebbero voluto che il loro figlio rapito tenesse duro, anche a rischio della vita? Un’ipocrisia assurda che, ovviamente, oscura i veri temi del dibattito. Per esempio: a quale genere di cooperazione con i Paesi in via di sviluppo stava partecipando Silvia? È giusto, è normale che dei ragazzi con poca o punta esperienza (Silvia aveva 23 anni e mezzo al momento del rapimento) vengano mandati (o si mandino da soli, come le ventenni bergamasche Greta e Vanessa, rapite in Siria nel 2014 e liberate sei mesi dopo) in Paesi comunque complicati, visto che le incursioni dei banditi somali in Kenya, anche nella zona prossima a Malindi, non erano certo una novità? Quanto e a che cosa serve tutto questo? A molto o a poco non importa, valeva la pena parlarne. E invece…Altro tema, che riguarda il sistema Paese: trattare o non trattare con i terroristi? L’Italia tratta, si sa. Altri Paesi non trattano mai. Molti, nel caso di Silvia (ma certo non in quello dei propri figli) invocano la linea dura. Dimenticano però di aggiungere ciò che una simile scelta porterebbe con sé. I Paesi che non trattano poi danno la caccia ai terroristi e li ammazzano appena possono. Di più: in nome di quella scelta, sono disposti a correre anche il rischio di essere attaccati e colpiti dai terroristi stessi. L’Italia è un Paese così? Ha una mentalità così? Noi italiani saremmo pronti a dire: sì, ne abbiamo fatti fuori cinque, siamo stati noi? Oppure: ci hanno messo una bomba nel metrò ma non abbiamo trattato, bene così? Per favore, ma chi ci crede…Terzo tema, allegramente trascurato: Silvia Aisha Romano doveva proprio tornare così, con quella specie di indegna parata all’aeroporto di Ciampino? Lei non ha colpa, è chiaro che il suo arrivo è stato sfruttato dal Governo, e in particolare dal premier Conte, per una botta di pubblicità. Di certo, però, i servizi segreti avevano informato chi di dovere della conversione della ragazza, del suo abito, del suo stato d’animo, delle sue possibili dichiarazioni. Insomma, qualcuno era pur consapevole che la parata in aeroporto poteva trasformarsi in uno spottone per gli Al-shaabab somali, movimento terroristico responsabile di migliaia di morti. Come ha già sottolineato Nicolo Gebbia in queste pagine, leader più saggi e sicuri di sé avrebbero gestito l’evento in ben altra maniera, facendo uscire la ragazza per una porta sul retro, affidandola nel modo più discreto possibile alla famiglia e concordando con lei un anonimato e un silenzio che avrebbe fatto del bene a tutti. Lo show di Ciampino, seguito da quello di Milano, ha invece portato acqua al mulino dei terroristi, esposto Silvia Romano a un indegno linciaggio mediatico e ridotto un’operazione riuscita (la liberazione di un ostaggio) al triste spettacolo di un circo di provincia. Disastri come questo, comunque, non avvengono per caso. Affondano le radici nell’ormai conclamata incapacità del nostro Paese di conciliare una posizione strategica importante ed esigente con la tentazione a lasciare ad altri, di volta in volta gli Usa, la Nato, la Ue, l’onere delle scelte decisive, anche se ci riguardano da vicino. Noi ci siamo sempre quando possiamo confonderci nel gruppo, e infatti non c’è coalizione che non ci veda presenti, dall’Afghanistan all’Iraq alla Siria. Gregari magari, ma preziosi e affidabili. Il discorso cambia quando dobbiamo decidere in proprio. E non è necessario andare lontano, fino alla Somalia. Basta restare nel Mediterraneo e pensare alla Libia, un Paese che ha sempre avuto notevoli ricadute strategiche sull’Italia. Nel 2008 (Governo Berlusconi), con il Trattato di Bengasi, Italia e Libia siglano una partnership strategica dal punto divista politico ed economico. Nel 2009 Eni e Lybian National Corporation prolungano e allargano gli accordi su gas e petrolio, il fondo sovrano libico acquista il 7% di Unicredit e nel biennio 2009-2010 Italia e Libia scambiano investimenti e progetti per 40 miliardi di euro. Nel 2011, quando scoppia la guerra civile in Libia, il Governo italiano prima si oppone ai progetti di condanna e intervento contro Gheddafi, poi si allinea e mette a disposizione delle forze che operano sotto mandato Onu le sue basi e i suoi aerei. La cosa si ripete più avanti, con una diversa situazione in Libia e un diverso Governo in Italia. Il Governo di Tripoli guidato da Al-Sarraj è l’unico riconosciuto dalle Nazioni Unite, ma l’accordo stretto dal Governo Gentiloni (con Minniti al ministero degli Interni) per sostenerlo viene crivellato di critiche. Lo spunto principale è la drammatica questione dei migranti, sfruttati come merce dai trafficanti e quindi condannati a rischiare la vita nel Mediterraneo o nei campi-lager in Libia. Ma nessuno riesce a spiegare come si possa efficacemente aiutarli senza sostenere il Governo libico legittimo e, soprattutto, senza dargli gli strumenti utili a difendersi dall’aggressione del generale Haftar, sostenuto dall’Egitto, dalla Russia ma anche dalla europeissima Francia. L’Onu non si muove, l’Italia men che meno, i migranti continuano a rischiare la vita, in mare o a terra. E Al-Sarraj si è rivolto alla Turchia per quell’aiuto che noi, lontani giusto un braccio di mare, non gli abbiamo voluto dare. La vicenda di Silvia Aisha Romano si inserisce in questo quadro. E purtroppo lo conferma. Fulvio Scaglione
GLI ALTRI RAPITI.
Giacomo Galeazzi per “la Stampa” l'11 maggio 2020. “Non basta una vita per liberarsi di un sequestro», afferma la giornalista Giuliana Sgrena, intrecciando mentalmente i fili del dramma personale vissuto 15 anni fa con le fresche immagini del ritorno in Italia di Silvia Romano dopo 18 mesi di prigionia. «Uscire da una situazione del genere comporta un nuovo trauma che richiede una complessa elaborazione», sottolinea l' inviata del Manifesto sequestrata nel 2005 a Baghdad. Il sequestro in Iraq, la liberazione e poi l' ulteriore trauma dell' uccisione dello 007 Nicola Calipari che stava portando a termine l' operazione. Alla luce della drammatica esperienza che vi accomuna, crede che Silvia Romano sia davvero serena coma appare? «Lo choc non passa così. Nei primi momenti, nei giorni immediatamente successivi al rilascio è impossibile valutare. Può essere solo una calma apparente. Non basta una vita per superare il trauma di un sequestro. La mia storia è un po' diversa da quella di Silvia, ma non riuscivo ad afferrare l' idea di essere libera. Quando Calipari mi ha preso e messa in macchina non mi rendevo conto di quello che mi accadeva. Poi quando stavo cominciando a realizzare che ero veramente libera, gli americani hanno sparato verso l' auto e hanno ucciso Calipari e per me è stato un dramma nel dramma».
Lei in Iraq, Silvia Romano in Kenya e Somalia, qual è il risvolto psicologico più pesante di un' esperienza così drammatica?
«C' è un aspetto che può capire solo chi ha vissuto in una condizione del genere. Ti trovi in un Paese profondamente diverso dal tuo, in un ambiente difficilissimo nel quale non puoi calcolare le reazioni dei rapitori. Una sofferenza in più è non riuscire a interpretare gli atteggiamenti. Io frequentavo quei luoghi come pure li conosceva Silvia, però è pesante calarti in una situazione indecifrabile. Anche questo richiede una profonda elaborazione».
Cosa complica il ritorno alla normalità?
«Il mio sequestro è durato un mese, il suo un anno e mezzo. Un tempo così lungo rende ancora più difficile uscire dall' isolamento. Ricordo un periodo in cui non sentivo più rumori e allora mi fissavo su qualunque piccolo suono. Si cerca di memorizzare tutto per provare a contestualizzarlo».
Cosa accade al momento della liberazione?
«Vieni ributtata in un altro mondo e questa uscita ti traumatizza di nuovo. Durante la prigionia hai convissuto con i tuoi carcerieri in una situazione completamente diversa. E in determinati ambienti fa molta differenza essere donna. Poi Silvia è passata da un gruppo di rapitori ad un altro. Se la prigionia avviene tra uomini diventano macigni le normali esigenze femminili. Anche il ciclo è un disagio grave».
Cosa resta dentro?
«Uno choc perdurante dal quale non ti liberi facilmente. Ricordo i sorrisi di altri sequestrati subito dopo la liberazione. Io non riuscivo a sorridere. C' è sempre una reazione interiore in chi torna a casa. Può essere una serenità di facciata perché nell' immediato sei travolta da avvenimenti, hai tante persone intorno. Impossibile avere subito piena consapevolezza».
Da Padre Dall’Oglio a Padre Maccalli, chi sono gli italiani ancora nelle mani dei rapitori. Redazione su Il Riformista il 10 Maggio 2020. Dopo il suo rapimento la vicenda di Silvia Romano era passata in silenzio, tranne poche lodevoli eccezioni che sottolineavano quotidianamente la necessità di fare qualsiasi sforzo per riportare in Italia la cooperante milanese rapita in Kenya. Ma Silvia non era la sola italiana rapita all’estero e scomparsa nel nulla. Dopo la sua liberazione il pensiero va obbligatoriamente a chi è ancora privato della sua libertà all’estero, come Padre Paolo Dall’Oglio e Padre Pier Luigi Maccalli. Il primo è scomparso nel nulla da quasi sette anni: Dall’Oglio, gesuita romano, fu sequestrato il 29 luglio del 2013 in Siria. Il religioso sarebbe stato rapito a Raqqa da un gruppo di estremisti islamici vicino ad al-Qaeda. La stessa Raqqa che successivamente diventerà ‘capitale’ dell’autoproclamato “califfato” di Abu Bakr al-Baghdadi e poi liberata nel 2017. Ma di Padre Dall’Oglio ad oggi non vi sono notizie: nel febbraio 2019 il ‘Times’ riportò che l’Isis in fuga dalla Siria aveva offerto alcuni ostaggi, tra cui Paolo Dall’Oglio, alle forze curdo-arabe sostenute dagli Stati Uniti in cambio di un passaggio libero per uscire dal paese. Padre Maccalli è stato invece catturato nella notte tra il 17 e il 18 settembre del 2018 in Niger, dove era attivo come missionario della Società delle Missioni Africane (Sma) nella diocesi di Niamey. Il religioso di Crema venne rapito nella missione di Bomoanga, a circa 150 km dalla capitale nigerina Niamey, ma nessuno ad oggi ha rivendicato il sequestro o avanzato richieste per il rilascio del missionario. L’ultima prova che Padre Maccalli sia vivo è un video arrivato al quotidiano Avvenire, un filmato di soli 24 secondi.
Da De André a Silvia Romano passando per Soffiantini: chi perdona è un traditore. Gioacchino Criaco su Il Riformista il 12 Maggio 2020. De André se ne tornò dalla prigionia con una canzone, Hotel Supramonte, e un odio a metà: restò duro verso gli organizzatori del suo sequestro e della moglie, e comprese le ragioni della manovalanza, dei pastori coinvolti, per il vivandiere, della banda che lo tenne alla catena quattro mesi, chiese la Grazia, ne firmò la richiesta. L’industriale bresciano Soffiantini perdonò tutti i suoi sequestratori, e molti sequestrati, fino ad alcuni decenni fa, erano soliti non cedere al rancore contro chi aveva fatto loro un male indicibile. Umanamente, solo chi ha subito un dolore è titolare del potere del perdono, ma pochi, in epoche passate, facevano colpa a chi perdonava, anzi: informazione e opinione pubblica tiravano un sospiro di sollievo nel ridimensionare il sentimento del dolore collettivo, aumentava l’empatia verso la vittima. Il perdono era un valore. Più era grande l’ingiustizia, più ci si sentiva ingiustamente fortunati rispetto alle vittime. Si stava con loro. Ora, e da un po’, non si sta più con le vittime, ci si è sostituiti alle vittime. I torti, alcuni non tutti, appartengono alla collettività, ma non come dolore collettivo, solo come rivalsa verso chi li commette. Meglio, lo sbaglio si ritiene commesso contro tutti, e tutti hanno diritto alla riparazione. Le vittime dirette sono strette in una scelta obbligata, perseguire senza tregua i colpevoli, non fermarsi: stare dietro alla condanna, alla espiazione. Implacabili. Chi sbaglia ha sbagliato per sempre. Le vittime dirette non possono spartirsi da una società che è vittima nella propria interezza: distaccarsi, comprendere, perdonare, non odiare, è un tradimento inammissibile. La vittima oltre al torto subisce la condanna all’odio. Chi non odia diventa complice dei cattivi. Una divisione netta: giusti e negletti. Una regola ferrea che lascia fuori pochi eletti, i padroni dell’etica, quelli che fanno le divisioni del bene del male in virtù della forza mediatica, economica, del potere che posseggono ed esercitano nel periodo storico. Non ci sarebbe stato nessun odio nei confronti di Silvia Romano se fosse tornata carica di odio, se già prima di sbarcare all’aeroporto di Ciampino avesse invocato la vendetta divina e terrena contro chi l’ha tenuta prigioniera per due anni. Molti di quelli che ora si scagliano contro la volontaria milanese si aspettavano da lei un odio che avrebbe nutrito l’odio collettivo, che avrebbe reso sequestrati e quindi vittime buona parte degli italiani. Il volto sorridente e la disposizione degli abiti della cooperante hanno rappresentato un tradimento prima che lei parlasse. E allora i giusti, per paura di essere defraudati di una legittima vendetta, hanno scaraventato Silvia fra i reprobi, prendendosi per intero il dolore di due anni di prigionia, e chiedendone direttamente la giusta e implacabile pena.
Storia del rapimento di Fabrizio De Andrè e Dori Ghezzi. Roberta Caiano su Il Riformista l'11 Gennaio 2020. Fabrizio De Andrè e Dori Ghezzi furono tra le coppie più amate degli anni ’70 e ’80. Il loro amore fu molto chiacchierato, ma tuttora viene ricordato con nostalgia e romanticismo. Originari rispettivamente di Genova e Lentate sul Seveso, Fabrizio e Dori nel 1976 decisero di trasferirsi in Sardegna a Gallura, nelle campagne di Tempio Pausania, acquistando 151 ettari di terra divisi in tre appezzamenti distinti: Donna Maria, L’Agnata e Tanca Manna. De Andrè scelse volutamente la terra sarda come luogo in cui vivere: “Questo luogo è una magia, dà tanta gioia per l’anima, anche quando torni a casa distrutto dalla stanchezza. Ti appaga e non lascia spazio alle inquietudini. Vivere questa dimensione è il modo più semplice ma anche il più profondo di vivere questa terra”. L’isola però fu anche luogo di una delle vicende più brutte capitate in quegli anni. La sera del 27 agosto 1979 infatti Fabrizio De André e Dori Ghezzi vennero rapiti. Furono prelevati dall’Anonima Sequestri dalla loro abitazione e tenuti prigionieri nelle pendici del Monte Lerno, a Pattada.
IL SEQUESTRO – L’estate del 1979 fu costellata da una raffica di rapimenti, otto in totale e dieci ostaggi in simultanea nelle mani dell’Anonima Sequestri. Quando arrivò la notizia del sequestro di Fabrizio De Andrè e Dori Ghezzi tutta l’opinione pubblica rimase con il fiato sospeso. Il 27 agosto 1979 casa De André era diventata uno dei luoghi più popolati e osservati. La preoccupazione era anche rivolta alla figlia della coppia, Luisa Vittoria, e al primogenito di De Andrè, Cristiano, ancora un bambino. Secondo i racconti degli artisti i rapitori erano sempre incappucciati, anche loro potevano restare raramente scoperti. “Fummo presi e fatti scendere al piano terra – raccontarono i due in seguito -, dopo averci fatto calzare scarpe chiuse e portato con noi alcune paia di calze. Ci fecero uscire dal retro della casa e fatti sedere sulla nostra macchina. Prima di chiudere la porta chiesero a Fabrizio dove fosse l’interruttore per spegnere le luci del giardino“. Dalle indagini emerse come le vittime avessero indirizzato una lettera al padre di Fabrizio, nella quale gli chiedevano di pagare un riscatto di 2 miliardi di lire per il rilascio dei due. La loro liberazione avvenne quattro mesi dopo anche se in due momenti differenti: lei il 21 dicembre alle undici di sera, mentre lui il 22 alle due di notte su versamento di un riscatto pari a circa 550 milioni di lire, in buona parte pagato dal padre di Fabrizio, Giuseppe. “Quando è iniziata la stagione fredda ci hanno dotato di una piccola tenda per ripararci dalle intemperie. Abbiamo sostato in quel luogo fino alla interruzione delle trattative condotte dai secondi emissari. Le informazioni che ci davano erano che il padre di Fabrizio non volesse pagare il riscatto. Ci proponevano di liberare Fabrizio per pagare il mio riscatto o, viceversa, di liberare me affinché Fabrizio convincesse il padre a pagare la mia liberazione. Alla supplica di Fabrizio di alleviarci dalla torture delle bende i banditi acconsentirono, legandoci però con delle catene perché non scappassimo” – così racconta Dori di quel lungo periodo di prigionia – “Uno dei banditi, che di tanto in tanto veniva per accertarsi delle nostre condizioni, raccomandando ai custodi di trattarci bene, comunicava in italiano corretto e forbito, si esprimeva in modo calmo e gentile, che Fabrizio chiamava “l’avvocato”. Dopo il 5 novembre siamo stati nuovamente spostati su un altro versante della montagna. In quel rifugio le tende erano due, una per noi e una per i custodi; ci dotarono anche di un fornello da campo e di una bombola di gas per preparare cibi caldi. Fino ad allora ci nutrivano con pane e formaggio, salsiccia e scatolame”. Infatti l’inizio di novembre fu il periodo in cui, dopo un lungo e preoccupante silenzio, ci fu un nuovo contatto fra sequestratori e i familiari. Gli emissari della famiglia incontrarono per due volte i rapitori anche con scarsa riuscita. Seguirono altri incontri, ma le linee divergenti all’interno della banda stessa non permisero di raggiungere un accordo per far cessare il sequestro. Solo nella terza fase riuscirono a portare a compimento le trattative e il pagamento di 550 milioni di lire portò alla liberazione degli ostaggi. Altri 50 milioni sarebbero dovuti essere consegnati dopo la liberazione, impegno che venne onorato da Fabrizio De André. Dopo 117 giorni di rapimento il 20 dicembre fu rilasciata Dori Ghezzi mentre De Andrè fu liberato la sera dopo, il 21 dicembre. Dori racconta: “Il 20 dicembre il mio guardiano mi disse che avevano deciso di liberarci. Verso le 15, dopo aver mangiato pane e formaggio, ci incamminammo a piedi percorrendo un tratto di terreno molto scosceso, col viso incappucciato. Mi accompagnano due banditi, di cui il mio guardiano e un altro che non avevamo mai sentito, né visto. Camminammo per almeno 3 ore. Passammo vicino ad una cascata d’acqua, poi attraversammo un fiume. Sentivo l’abbaiare di cani, presumo vicino ad un casolare o forse un ovile; lo intuisco da alcuni rumori. Aspettammo tante, tantissime ore vicino ad una strada nascosti tra i cespugli fino a notte inoltrata. Sono circa le 23 quando finalmente arriva una macchina, una Citroen Pallas, che ci carica a bordo. Io ero sempre con le mani legate e mascherata, sorvegliata dai due banditi. Dopo un po’ di strada, forse mezz’ora, mi fecero scendere lasciandomi sul ciglio della strada in attesa che gli emissari mi venissero a prendere“. L’avvenimento del sequestro cambiò per sempre la storia e la poetica del cantautore, tanto che scrisse un intero album dedicato al popolo sardo. La canzone Hotel Supramonte è dedicata a quella terribile esperienza, prendendo il nome proprio dal luogo in cui erano stati prigionieri. Il cantautore non serbò rancore verso nemmeno uno dei dieci sequestratori, anzi al processo confermò il perdono per i suoi carcerieri: “Capiamo i banditi e le ragioni per cui agiscono in quel modo, sebbene il reato di sequestro di persona sia tra i delitti più odiosi che si possano commettere”. In seguito aveva anche avallato la richiesta di grazia presentata da Salvatore Vargiu condannato a 25 anni di galera e considerato il vivandiere della banda. Nelle dichiarazioni che rilasciò dopo il rapimento, aveva sempre una parola buona nei loro confronti senza condannarli del tutto: “I rapitori erano gentilissimi, quasi materni. Sia io sia Dori avevamo un angelo custode a testa che ci curava, ci raccontava le barzellette. Ricordo che uno di loro una sera aveva bevuto un po’ di grappa di troppo e si lasciò andare fino a dirci che non godeva certo della nostra situazione. Anzi, arrivò a sostenere che gli dispiaceva soprattutto per Dori.” La stessa artista in seguito ha confermato la versione del compagno testimoniando a favore dei carcerieri come ci fosse “una sorta di rispetto reciproco” . “Tutto sommato le nostre condizioni non erano molto più dure. I nostri custodi non sono stati aguzzini. Tant’è che per tutta la prigionia sono sempre stata convinta che ci avrebbero rilasciato anche nel caso che il riscatto non venisse pagato”, ha raccontato Dori chiudendo una delle pagine più tristi della sua storia e di quella italiana.
· Il Volontariato: tra buoni e cattivi.
Il Codacons perde causa con la Regione, i giudici: "Si occupi dei cittadini". Pubblicato domenica, 26 luglio 2020 da Ottavia Giustetti su La Repubblica.it Le associazioni dei consumatori possono fare valere i diritti di persone fisiche al di fuori dell'attività professionale. Le associazioni di consumatori possono agire in giudizio solamente per far valere i diritti di persone fisiche che agiscono al di fuori dell'attività professionale. Non possono, invece, far valere in giudizio interessi di determinate categorie di lavoratori come il personale medico e le forze dell'ordine neppure nell'ipotesi che in futuro possano trasformarsi in utenti del servizio sanitario nazionale o che possano essere possibili strumenti di diffusione del contagio nei confronti della collettività. È questo, in estrema sintesi, il duro giudizio con cui il tribunale di Torino respinge per la seconda volta il ricorso che Codacons e Associazione Italiana per i diritti del malato e del Cittadino avevano rivolto ai giudici, in piena emergenza Covid, per chiedere che la Regione Piemonte venisse in qualche modo obbligata a prendere contromisure urgenti alla diffusione della malattia. Erano i giorni della scarsità di mascherine negli ospedali, quando anche con i sintomi della malattia evidenti con grandissima fatica si riusciva a ottenere il tampone. Secondo i legali delle associazioni dei cittadini era quantomai urgente intervenire e per questo avevano chiesto un provvedimento cautelare affinché il Tribunale adottasse "quali misure indifferibili e urgenti a tutela della collettività, tutti i provvedimenti necessari e idonei a far cessare immediatamente la condotta pregiudizievole a oggi attuata dalla Regione Piemonte - era oggetto del ricorso - e quindi, ordinare al Presidente della Regione Piemonte l'immediata distribuzione e reperimento delle quantità necessarie dei dispositivi di protezione più idonei all'emergenza sanitaria nonché l'esecuzione di tamponi faringei per tutto il personale sanitario che lavora in prima linea in ospedali, case di cura o presidi assimilabili in continuo contatto con persone affette dal virus e a rischio maggiore di essere contagiato". E poi, ancora, al personale del soccorso e delle forze dell'ordine. I giudici però hanno dato ragione alla Regione, assistita dal professor Vittorio Barosio e dai legali dell'avvocatura regionale. E hanno respinto per ben due volte il ricorso delle associazioni di consumatori, condannandole anche a rifondere le spese per oltre 7 mila euro sia in fase cautelare che di merito. "La sentenza è importante perché ridisegna con chiarezza le competenze del Codacons e della associazioni analoghe che possono agire in giudizio solamente quando è danneggiato un diritto del consumatore, e non, come in questo caso, a tutela di una categoria professionale" dice il professor Barosio.
Scontro Calenda-Codacons: «Chi lo finanzia? Quadro inquietante». La replica: risponderemo a tutto. Redazione Economia de Il Corriere della Sera il 7 luglio 2020. «Molte zone d’ombra, alle quali il Codacons dovrebbe rispondere pubblicamente se vuole essere fedele al principio di trasparenza, non solo che promette ma che minaccia di far rispettare». Scoppia (di nuovo) la guerra del Codacons. A scatenarla è Carlo Calenda, ex viceministro dello Sviluppo Economico nei governi guidati da Enrico Letta e Matteo Renzi e attuale leader di Azione. Calenda ha postato un video attraverso i canali social di Azione, il movimento politico che dirige, annunciando un’interrogazione parlamentare al ministro dello Sviluppo economico Patuanelli. A suo dire ci sarebbero molte «zone d’ombra» nell’attività dell’associazione dei consumatori fondata dall’avvocato salernitano Carlo Rienzi. E perciò Calenda pone una serie di domande tanto al ministro quanto allo stesso Codacons. Questioni che vanno dai finanziamenti ricevuti dall’associazione ai contributi pubblici «non dichiarati» fino ai bilanci non aggiornati ai rapporti con Mps o Autostrade per l’Italia. Emerge, a dire di Calenda, un quadro «inquietante», che merita risposte non solo dal Codacons, ma anche dal governo.
Lo scontro e le questioni aperte. «Come promesso - recita Calenda nel video - abbiamo fatto un’attenta analisi del Codacons. Come funziona, quanto è trasparente, come si finanzia, quali contributi pubblici prende, perché li prende nonostante dica il contrario, con quali imprese si relaziona e che obiettivi persegue». Un crescendo che arriva a toccare questioni decisamente più consistenti: «Perché, come ha scritto il Fatto Quotidiano, nel 2018 ha rinunciato alla costituzione di parte civile nel processo nel processo agli ex dirigenti del Monte dei Paschi di Siena?», chiede Calenda, evidenziando che nello stesso periodo la banca «ha firmato una transazione da 732 mila euro con lo stesso Codacons?». Ancora, il leader di Azione chiede quali siano «i rapporti tra Codacons e Autostrade per l’Italia», anche in considerazione «delle poche critiche nei confronti di Autostrade e anche nei confronti di eventi controversi come il crollo del Ponte Morandi».
La replica del Codacons: «Risponderemo a tutto». A stretto giro arriva anche la replica del Codacons. «Il Codacons accetta la sfida e domani risponderà punto per punto alle insinuazioni – più che domande – di Carlo Calenda che, totalmente ossessionato dal Codacons ai limiti dello stalking, ha pubblicato oggi un lungo video sull’associazione», spiega l’Associazione. «Non abbiamo alcun problema a rispondere ai quesiti posti dal leader di Azione, domande che purtroppo dimostrano l’ignoranza di Calenda e fanno capire perché molti lo definiscono il peggior ministro della Repubblica Italiana – affonda il Codacons – Tuttavia avvisiamo Calenda che anche noi, nel replicare, faremo qualche domanda all’ex Ministro, non solo sulla sua persona ma anche sul suo partito e sulle fonti di finanziamento dello stesso». «Apprezziamo lo sforzo del leader di Azione di aver preparato un testo per evitare l’ennesima denuncia, ma anche stavolta – come in tutto il suo mandato da Ministro dello sviluppo economico – ha fallito, e considerate la falsità delle affermazioni odierne, riceverà l’ennesima querela», conclude l’Associazione.
Calenda-Codacons, denunce e censure. Gli scontri tra Calenda e il Codacons sono all’ordine del giorno. Nel 2019, tra l’altro, l’associazione dei consumatori aveva denunciato Calenda in merito alle sue dichiarazione al televoto su Sanremo, mentre pochi mesi fa l’oggetto del contendere (e di nuova denuncia) furono i commenti dell’ex viceministro sul presunto conflitto d’interesse del virologo Roberto Burioni. E infatti, cisto il pregresso, Calenda premette nel video: «Siccome hanno la denuncia facile leggerò un testo. Sono emerse molte zone d’ombra, delle quali il Codacons dovrebbe rispondere pubblicamente se vuole essere fedele al principio di trasparenza non solo che promette ma che minaccia di far rispettare a tutte le Amministrazioni Pubbliche. Per questo abbiamo una serie di domande da porre al Codacons e al suo Presidente Rienzi. Ora, non le porremo solo a lui. Queste domande saranno oggetto di una lettera al Ministro dello Sviluppo Economico Patuanelli, che dovrebbe sorvegliare su queste associazioni, e di una interrogazione parlamentare».
Le domande di Calenda al Codacons e al ministro Patuanelli. Ecco quindi le questioni poste dal leader di Azione: «Perché i bilanci presenti nel sito del Codacons non sono aggiornati e contengono delle parti non accessibili al pubblico (quindi gli omissis), con pochissimi dati su iscritti, quote e risultato d’esercizio? A quanto ammontano le spese legali del Codacons? E come e tra chi sono stati ripartiti i soldi delle spese legali? Cioè, sono stati ripartiti tra i membri del Codacons stesso che hanno lavorato come avvocati e hanno preso delle parcelle? Sarebbe importante saperlo. Perché le pagine del sito sono ferme agli anni scorsi nonostante la regolamentazione imponga un sito aggiornato con adeguati contenuti informativi sia riguardo all’organizzazione che al funzionamento dell’associazione?».
La posizione «monocratica» di Rienzi. Calenda continua insistendo sulla figura del fondatore Carlo Rienzi: «È vero che lo Statuto dell’associazione consente al Consiglio di Presidenza di decidere sull’ammissione e sulla decadenza di singoli soci anche per motivi non disciplinari e con motivazione succinta cioè sommaria? È vero che il Consiglio di Presidenza ha concentrato su sé stesso i poteri in precedenza attribuiti a due organi, restringendo la platea dei soggetti con poteri decisionali? In poche parole, è diventata una struttura monocratica gestita da Rienzi? Un tempo il Codacons si definiva “associazione delle associazioni” ed aveva soci sia persone fisiche che associazioni. Successivamente queste ultime, le associazioni, sono state escluse e sono state ammesse solo persone fisiche. Da quando è stata introdotta questa modifica, è mai stato esercitato un controllo da parte del Ministro dello Sviluppo Economico sulle associazioni? Com’è attualmente composta l’Assemblea dei Delegati? Quanti sono i delegati e chi li ha eletti? Che principi di democrazia interna ci sono, visto che parlate sempre di trasparenza?».
Il caso Monte Paschi. Sui rapporti tra Codacons e banche, poi, Calenda non lesina domande. E preannuncia: «Qui arriviamo a delle cose un po’ più gravi. Perché, come ha scritto il Fatto Quotidiano, il Codacons nel 2018 ha rinunciato alla costituzione di parte civile nel processo agli ex dirigenti del Monte dei Paschi di Siena? E perché nello stesso periodo la banca ha firmato una transazione da 732 mila euro con lo stesso Codacons per finanziare i progetti promossi dall’associazione di consumatori come, cose importanti, la valorizzazione del latte d’asina a scopi pediatrici nella Provincia di Siena? E perché, sempre nella stessa transazione, la banca ha versato al Codacons 612 mila euro per spese legali e 291 mila euro direttamente al Presidente del Codacons Rienzi? Ora, se tutto questo fosse vero, lo scrive il Fatto Quotidiano, non sarebbe grave, sarebbe gravissimo. Altro che conflitti di interesse».
I rapporti con Autostrade. Altro capitolo è quello dei rapporti tra associazione e Autostrade per l’Italia: «Quali sono i rapporti tra Codacons e Autostrade per l’Italia, visto che lo stesso Codacons ha conferito nel 2016 il Premio Consumatore per il Rispetto della Legalità e delle Regole sulle Strade a Giovanni Castellucci, allora amministratore delegato di Autostrade per l’Italia e all’epoca già indagato per una questione riguardante il Bus di Avellino. Ma questo non rileva perché siamo garantisti, ma siccome il Codacons denuncia chiunque, anche quando non c’è un’ombra di sospetto. Perché il Codacons ha espresso così poche critiche nei confronti di Autostrade per l’Italia, neanche per eventi controversi come il crollo del Ponte Morandi? Il Codacons ha una relazione con Autostrade? Gli avvocati che fanno parte dell’ufficio legale del Codacons, hanno relazioni professionali con autostrade? Sarebbe importante capirlo», afferma ancora Calenda.
I finanziamenti pubblici. «Perché il Codacons afferma di non ricevere finanziamenti pubblici quando risulta che abbia ottenuto - dice ancora Calenda - centinaia di migliaia di euro in contributi dalle Pubbliche Amministrazioni? Perché il costo del servizio del Codacons per l’assistenza legale e psicologica per l’emergenza Coronavirus è di quasi 1 euro al minuto di chiamata? Come giustificare tale costo? Per di più, quali sono le competenze degli operatori che rispondono alle chiamate? Perché il costo della chiamata rimane lo stesso anche negli orari in cui gli operatori non sono disponibili? Far pagare il consumatore per ascoltare una registrazione è corretto? Usando il Covid? Perché, infine, il sito del Codacons chiedeva contributi privati alla propria associazione con annunci che li facevano passare come fondi per la battaglia contro il Coronavirus? E perché il Codacons ha ritirato gli annunci non appena Fedez ha denunciato quell’ambiguità? Vede Rienzi - conclude Calenda - o lei riesce a rispondere a queste domande, o il Ministero dello Sviluppo Economico riesce ad indagare sulle cose che abbiamo detto, o qualcuno si farà parte per capire perché tutte queste cose avvengono, oppure purtroppo la credibilità del Codacons è piuttosto bassa».
Caregiver familiari, oltre 7 milioni di persone «lavorano» gratis. Pubblicato lunedì, 10 febbraio 2020 su Corriere.it da Fausta Chiesa. Le prossime settimane saranno cruciali per circa 7,3 milioni di persone in Italia: si tratta di tutti coloro che assistono e si prendono cura quotidianamente di un parente, disabile grave o anziano non autosufficiente. In Commissione Lavoro al Senato arriva in questi giorni in discussione il testo di legge sui «caregiver familiari» (il numero 1.461), così chiamati dall’inglese «care» (cura) e «giver» (colui che dà). Il nostro Paese è uno dei pochi a non aver ancora dato diritti e tutele a questa figura: finora sono semplici volontari. Nel resto d’Europa molti Paesi si distinguono per essere particolarmente attenti. Il Regno Unito, la Francia, la Svezia e i Paesi Bassi, per esempio, che in base a quanto emerso dal rapporto «Informal care» della Commissione europea non soltanto hanno politiche nazionali e riconoscono diritti specifici, ma offrono formazione, reddito e benefit previdenziali. Da tempo i familiari lamentano il fatto di sentirsi lasciati soli in questo enorme carico. Solo per citare qualche numero, in base a dati Inps del dicembre 2019, nel nostro Paese le persone che hanno gravi limitazioni sono tre milioni pari al 5,2 per cento. Gli anziani ultrasettantacinquenni in condizione di disabilità sono un milione e mezzo. E 2,3 milioni di famiglie vivono con almeno una persona con limitazioni gravi. Non è difficile immaginare che i caregiver fatichino a conciliare la carriera lavorativa e l’attività di cura e che le condizioni economiche ne risentano: il 67 per cento delle famiglie in cui vive una persona con disabilità non può permettersi una settimana di vacanza all’anno, più di un quinto non può riscaldare sufficientemente l’abitazione o consumare un pasto adeguato almeno una volta ogni due giorni. E dietro ai numeri ci sono, come sempre, persone in carne e ossa. «Ero una libera professionista nel campo della musica - racconta Alessandra Corradi, di Verona - ora non posso più lavorare. Mi devo occupare a tempo pieno di mio figlio Jacopo Ermanno, che oggi ha 14 anni». Nel 2005 Alessandra è stata «catapultata» nel mondo parallelo della disabilità con la nascita del suo primogenito. E tre anni dopo ha avviato un progetto che poi sarebbe diventato la onlus «Genitori Tosti In Tutti I Posti», di cui è presidente. «Ma noi genitori - precisa - non siamo volontari, perché siamo costretti a fare i caregiver. Per questo lo Stato ci deve riconoscere come lavoratori e poi a darci il pre-pensionamento». Corradi cita lo studio del premio Nobel in Medicina Elizabeth Blackburn, secondo il quale i caregiver hanno una speranza di vita dai 9 ai 17 anni più bassa a causa dello stress. Il sostegno che i familiari ricevono dal pubblico dipende in gran parte dalla regione in cui abitano. «Qui in Veneto - dice Alessandra Corradi - io che assisto mio figlio (totalmente non autosufficiente) ricevo 120 euro al mese». Il vuoto di riconoscimento sta per essere colmato. Il testo della legge nazionale è pronto e si avvia verso la discussione e l’approvazione in Parlamento. «Il disegno di legge - spiega la prima firmatrice, la senatrice del M5S Simona Nocerino - è stato approvato da tutte le forze politiche ed è stato depositato in Commissione Lavoro e previdenza sociale al Senato. La legge prevede, tra l’altro, che i caregiver abbiano diritto al telelavoro e allo smart working, se l’attività lavorativa lo permette, e ricevano tre anni di contributi figurativi equiparati al lavoro domestico». Ma le associazioni chiedono alcune modifiche. Secondo il presidente del Coordinamento nazionale famiglie con disabilità Alessandro Chiarini la legge è insufficiente di fronte a questa emergenza sociale. «Non soltanto esistono sperequazioni tra le singole Regioni, ma le Regioni stesse cambiano il trattamento dei caregiver di anno in anno ed è uno stillicidio per le famiglie. È un problema di diritti e di risorse: una legge approvata a fine 2017 stabilisce un Fondo per il triennio 2018-2020, soldi non utilizzabili finché non c’è la legge e comunque una cifra inadeguata, che non tiene conto delle effettive necessità. Siamo in attesa di incontrare i membri della commissione del Senato». Le associazioni chiedono contributi figurativi non soltanto per tre anni e la possibilità di prepensionamento, un assegno per chi non ha un reddito sufficiente, lo snellimento delle procedure burocratiche e percorsi preferenziali nelle strutture sanitarie. «Sappiamo - conclude la senatrice Nocerino - che in fase emendativa bisognerà apportare migliorie e correggere il testo». Se tutto dovesse andare bene, la legge sarà approvata definitivamente prima dell’estate? «Spero di sì, ma non voglio creare false aspettative».
«Non siamo buoni, siamo giusti»: viaggio a Padova, capitale europea del volontariato. Sono tante le realtà attive che sostengono i disabili, integrano gli immigrati, lavorano nelle periferie. Ma con la stessa missione: superare l'assistenzialismo. Francesca Sironi il 06 febbraio 2020 su L'Espresso. Il volontariato «deve essere uno stimolo per costruire. Non un santo a cui affidare tutto». Patrizia corre fra attrezzi di cantiere e pareti ancora da stuccare. A giugno queste stanze saranno un bed&breakfast: a Padova ne aprono in continuazione, per ospitare turisti attratti da Giotto o pellegrini di Sant’Antonio. Questo però sarà unico: verrà gestito da giovani down. La corsa di Patrizia è un biglietto da visita ideale del modello di solidarietà che ha trasformato la città veneta nella Capitale europea del volontariato per il 2020. Dal 7 febbraio comincia l’anno dedicato a «Ricucire insieme l’Italia», ma il laboratorio civico che lo ha reso possibile è iniziato da tempo. Tante realtà attive e che sembrano condividere tutte, a prescindere dall’ideologia o dal settore, una stessa missione: superare l’assistenzialismo. Vogliono fondare esempi di solidarietà costruiti sull’autonomia dei più fragili, liberandoli dall’eterna dipendenza da un benefattore, da un patrono. O dallo Stato: le oltre 6mila associazioni della provincia di Padova hanno bilanci per 12 milioni di euro, mostra il rapporto annuale del Centro servizi per il volontariato (Csv). E solo il 22 per cento di questi fondi, nel 2019, erano contributi pubblici. Il no profit qui vuole farsi da sé. Patrizia Tolot cerca la chiave giusta in un mazzo che peserà un chilo, neanche San Pietro: «Scusa, è che avendo dodici sedi...». I molti indirizzi non sono un caso. Ma un metodo. Insieme a un gruppo di genitori di Padova, Patrizia è l’anima di “Down Dadi”, un’associazione - ora anche cooperativa e fondazione - che conta trecento iscritti. Fra loro ci sono novanta ragazzi che partecipano ogni giorno alle attività: un negozio dove vendono oggetti costruiti da loro; appartamenti condivisi dove abitano; sale dove vanno a ballare. L’obiettivo è uno solo: «L’autonomia. Quando ho affrontato la disabilità di mio figlio, l’unica risposta delle strutture sanitarie era: il centro diurno. Lo accompagni lì, lui fa i “lavoretti”, mangia, e poi lo riporti a casa. È vita questa? Per me no. Ho tre figli maschi. Per tutti e tre ho sempre cercato il meglio». Sfruttando ogni ora libera dal suo lavoro di insegnante, Patrizia ha avviato una rete che si impegna affinché le persone down possano lavorare, vivere da sole, prendere i mezzi, andare al bar con i colleghi, parlare di sessualità e di affetti. «Uno degli aspetti più difficili è convincere i genitori a credere nella possibilità che anche i figli disabili possano essere indipendenti; con un supporto esterno impegnativo, certo, ma indipendenti. L’altra sfida sono i conti: se volessimo ricevere finanziamenti pubblici dovremmo avere strutture solo con porte di tot centimetri, gestire i turni in modo rigido... Impossibile per i nostri progetti diffusi. Troviamo così fondi privati per pagare gli operatori». La spinta ad arrangiarsi, anche nelle risorse, è una forza. Che rischia di diventare una condanna: per rispondere a bisogni che dovrebbero essere coperti dalle istituzioni, c’è il pericolo che le amministrazioni se ne approfittino. Delegando ad altri la responsabilità di garantire strumenti e mezzi a chi sta ai margini. «Sono un volontario, non uno stupido», risponde a questo rischio Emanuele Alecci, presidente del Csv padovano e artefice della candidatura europea: «Solo nell’emergenza va bene operare per anticipare lo Stato. Ma il nostro compito è fare pressione alle istituzioni perché agiscano come e dove serve». I volontari non devono essere supplenti delle burocrazie ma un’avanguardia, spiega, flessibile e libera. E un pungolo: «Io insisto sempre: se non è politico non è volontariato». Una vita nel sociale («ma lavoro alle Poste, dedico semplicemente il mio tempo», sottolinea), per spiegare perché Padova sia diventata capitale del volontariato, Alecci ricorda le radici dell’esperienza di Monsignor Nervo, staffetta partigiana e fondatore, da qui, della Caritas; l’apertura di Banca Etica; la prima missione del Cuamm, medici con l’Africa, partita sempre qui nel 1950. Ma più che la storia è la spinta contemporanea a voler rinnovare una visione della pratica solidale, a cementare un anno di iniziative che vuole essere un manifesto: «dobbiamo riuscire a attrarre giovani e adulti con progetti concreti, e una proposta nuova». Per entrare nel sociale Doc del Nord Est bisogna andare in via Tiziano Aspetti 23, al confine del quartiere popolare di Arcella. Don Luca Favarin indossa una giacca di velluto blu a coste e beve vino biologico “Rosso Arcaico” insieme ad alcuni operatori della cooperativa “Percorso Vita” che ha fondato con Irene Pavanello. Anche questo bar, “VersiRibelli”, è un nodo della loro impresa sociale: vini bio, cicchetti veneti, luci calde, barman richiedenti asilo. «Non voglio che la gente venga qui “perché ghe xe i moreti”, per sentirsi buona. I giovani lo frequentano perché è bello, punto», inizia Favarin: «Io non sopporto il buonismo. Quello che cerchiamo di fare con la cooperativa è proprio superare l’atteggiamento buonista e assistenzialista tipico di un certo mondo cattolico». Da prete con queste idee e queste pratiche, Favarin è scomodo a tutti, dice: non piace «alle parrocchie che parlano di “micro-accoglienza”, uno profugo per chiesa. Un sistema che trovo sbagliatissimo, perché crea solitudine e dipendenza». Non va a genio a una certa sinistra «per la quale una cooperativa è bella solo se è in crisi. Mentre noi abbiamo un bar, un ristorante, un’azienda agricola, e fatturiamo». Ed è ovviamente odiato dalla destra «perché quante volte mi son preso gli sputi addosso, gli insulti, le gomme bucate, i picchetti organizzati sotto le case dove portavamo accoglienza. Poi però quando le cose funzionano, guarda un po’, i picchetti si sciolgono». Favarin è stato missionario in Africa. Quando è tornato, ha deciso che serviva una scossa. «Vengo dal volontariato e penso che sia sacro. Proprio per questo ha bisogno di un recinto però. Volontariato e lavoro sociale non sono sovrapponibili. Donare tempo è una missione evangelica, mentre la professionalità di un lavoro, anche nel sociale, va riconosciuta in quanto tale». Per questo ha fondato iniziative solidali che vogliono essere imprese che funzionano, non che vivacchiano su contributi pubblici. «Non facciamo questo mestiere perché siamo buoni ma perché siamo giusti. La bontà passa, la giustizia resta», continua: «Nelle nostre strutture rifiutiamo l’approccio infantilizzante che si ha normalmente con i richiedenti asilo. Dire “poverini” è esercitare una visione capitalistica, perché tende a rinnovare continuamente uno squilibrio di potere, dove loro sono condannati a essere deboli e “poverini”, gli altri bravi benefattori. Questa non è integrazione, è sudditanza. Noi cerchiamo di far sì che gli immigrati possano invece costruirsi la loro strada. Imparare un mestiere, lavorare, andare nel mondo a testa alta. Non devono essere costantemente segnati dalla condizione di partenza, di “poveri immigrati”». Mauro Rolle detto Pablo è comunista, dice, ma ha incontrato Don Luca e scelto di partecipare a questa «missione laica che vuole smontare il pietismo costruendo un nuovo discorso sociale». Anni di attivismo alle spalle, Pablo ha due lavori, tre figli, una moglie «che minaccia sempre di lasciarmi perché non ci sono mai: ma per me il tempo è una categoria fordista, è fondamentale metterlo a disposizione della comunità». Ha un’associazione che si chiama “Mille e una Arcella” per dare orgoglio al quartiere dove abita. E una professione da cuoco, che esercita soprattutto a “Strada facendo”, il ristorante di “Percorso vita” dove vengono formati richiedenti asilo. «Guarda: siamo diventati il primo ristorante di Padova su Tripadvisor. Nei commenti alcuni fanno riferimento al valore del progetto, all’inclusione, ma la maggior parte scrive solo del menù, del servizio e del prezzo. Vuol dire che sta funzionando. Quest’anno abbiamo chiuso i bilanci in pari e possiamo continuare a assumere». A parlare sono Carolina e Stefano Ferro, osti, formatori e volontari del ristorante. Un passato in Banca Generali, un presente da consigliere comunale - «non sono mai stato così a corto di soldi ma va bene così, fra non molto sarò in pensione» - Ferro è convinto «che il volontariato deve essere sprone perché il pubblico eserciti il suo ruolo». Non è facile: «Sono andato decine di volte al ministero dell’Interno, insistendo perché riconoscano un permesso a chi si integra e trova lavoro. Altrimenti che senso ha l’accoglienza? Avevamo un aiuto cuoco nigeriano, bravissimo. Gli hanno respinto ogni richiesta di protezione. È finito clandestino a Rosarno, nei campi. È riuscito dopo mesi a raggiungere Lisbona. Ora è assunto in un ristorante di successo. La legge ci fa perdere». L’altra convinzione di Stefano e Carolina è che l’integrazione «passa dal lavoro vero. Non da quella parvenza dei lavori socialmente utili, che servono solo a gratificare gente con la coscienza sporca, dando in pasto agli odiatori un’immagine ammaestrata». Entrambi sono appena tornati da Lesbo, dove sono stati grazie a una “carovana”, un’iniziativa di solidarietà, organizzata da Angela e Zeno. Angela, precaria, dopo un master in pasticceria è finita a fare tirocini da 16 ore al giorno sotto grandi chef. Ha detto basta dopo due anni di sfruttamento. Adesso produce e vende i suoi dolci ai mercati di “Genuino clandestino”. «Siamo andati a Lesbo a ottobre perché non ci bastava leggere dello stremo e delle condizioni indegne in cui l’Europa lascia lì in balia oltre 25mila persone. Dovevamo fare qualcosa», racconta: «Siamo tornati e abbiamo lanciato una raccolta fondi per portare kit igienici al campo. Ci sono cose impossibili da trovare sull’isola, come gli assorbenti. Abbiamo raccolto 15mila euro, che sono diventati materiali consegnati a dicembre ai profughi». Il 22 febbraio da Bolzano partirà un’altra carovana per aiutare i rifugiati bloccati lungo la rotta balcanica. Stesso obiettivo: rispondere a bisogni concreti, trasformando l’azione volontaria in mobilitazione sociale. «Alle nostre assemblee ci sono persone dai 22 ai 70 anni», raccontano Salvatore e Maria, rappresentanti della “Clac”, uno spazio appena sgomberato dall’ex mattatoio di Padova, dove da anni si riuniscono speleologi, artisti e volontari di “Cucine briganti”, che ogni venerdì raccolgono merce in scadenza ai mercati per offrire pranzi di comunità. Il 12 febbraio incontreranno il sindaco per capire il futuro dello spazio. La giunta di centrosinistra, eletta nel 2017 grazie a una coalizione allargata, che anticipava il modello di collaborazione fra liste civiche e partiti a cui ha fatto appello di recente anche Romano Prodi dopo la vittoria in Emilia-Romagna, promette ascolto. «Ma un ascolto che valorizzi le dinamiche collettive: l’ex sindaco leghista Massimo Bitonci organizzava sedute chiamate “il sindaco ascolta”, ma erano individuali, per pochi minuti. È un modello distorto», riflette Cristina Piva, assessore locale con delega al volontariato. «Tutto passa invece dalle dinamiche cooperative che riesci a creare», prosegue Arturo Lorenzoni, vicesindaco, professore di ingegneria ambientale che confessa di aver imparato in campagna elettorale a preferire il titolo di “ingegnere” a quello di professore. È più radicato nella realtà, dice. «Le associazioni sul territorio riescono a intercettare prima e meglio i nuovi bisogni», continua: «penso al problema della non-autosufficienza, o della solitudine. In questo lavoro di ascolto e risposta il partito è un mediatore distonico. Un gruppo di dottorandi padovani aveva avviato un servizio di sostegno gratuito, a domicilio, per gli anziani. Si riunivano a Casetta Berta, uno spazio sgomberato dall’agenzia regionale per le case popolari poco fa». La città di cui si era parlato in tutta Italia per il muro di via Anelli, che ghettizzava alcuni palazzi considerati problematici per via dello spaccio, sembra voler cambiare verso. «Ho sempre fatto l’imprenditore. Pensavo di conoscere la città, ma solo diventando sindaco ho scoperto la forza straordinaria delle associazioni», conclude Sergio Giordani, il sindaco, alzandosi per andare a un altro appuntamento («odio arrivare in ritardo»): «Quello che ho scoperto è soprattutto l’orgoglio di queste migliaia di volontari». L’orgoglio, gran motore. Renzo Frisio riparava macchine da scrivere e attrezzature d’ufficio. Oggi è uno dei quattro pensionati volontari che garantiscono l’apertura del battistero del Duomo di Padova, meraviglia dipinta nel Quattrocento da Giusto De Manabuoi: «Il Medioevo è la mia passione. Sapevi che Petrarca cambiò nome per dissociarsi dal padre, Petrocco, indagato per corruzione? Vieni, te lo indico. C’è tutto qui: c’è il bene, il male, la povertà, la disuguaglianza, la ricerca di giustizia». Renzo continua a spiegare, mentre una restauratrice cinese saluta, tornando sul trabattello con le sue colleghe, e la città fuori prepara i festoni per l’inaugurazione dell’anno del volontariato.
· Morire di Lavoro.
Morire di lavoro. Carlo Bonini, Sarah Martinenghi e Marco Patucchi - la Repubblica 9 ottobre 2020. L’Italia celebra l’11 ottobre la sua settantesima giornata nazionale per le vittime del lavoro. E mai come quest’anno nella ricorrenza, nei numeri di una strage silenziosa che non conosce contrazioni, sono le stimmate della cattiva coscienza del nostro Paese, della sua distratta e cinica classe dirigente. Da gennaio ad agosto di quest’anno, 830 donne e uomini hanno perso la vita uccisi dal lavoro. Uno ogni 8 ore. Dal lunedì alla domenica. In cantieri non a norma, nelle campagne, negli anfratti dell’economia in nero. Abbiamo dato un volto e dei nomi ad alcuni di quei caduti, provando a restituire il senso di una statistica rubricata nei database dell’Inail alla voce “denunce con esito mortale”. Un viaggio in una notte di cui non si vede la fine. Espunta dal nostro racconto quotidiano, perché considerata parte del paesaggio. Come l’alternanza del sole e della pioggia. Dove i morti vengono sepolti e dimenticati in fretta e i sopravvissuti convivono con il senso di colpa di avercela fatta e il tormento e il trauma di cui è impossibile cancellare il ricordo. Come Antonio Boccuzzi, operaio della Thyssen di Torino, unico superstite del rogo del 6 dicembre 2007. Simbolicamente, la madre di tutte le stragi sul lavoro. Non solo per le ragioni che la provocarono. Ma per la solitudine e il disinteresse in cui si è spenta la vicenda giudiziaria che pure, nella sua sentenza di primo grado, sembrava destinata a costituire le fondamenta di una nuova cultura della sicurezza e della prevenzione nei luoghi di lavoro.
“E’ un crimine di pace e sa perché non si riesce a frenarlo? Perché i morti non votano”. Il giudice Bruno Giordano si ferma un attimo percorrendo uno degli interminabili corridoi del “palazzaccio” e la sua voce buca il silenzio irreale del Palazzo di giustizia in piazza Cavour a Roma, il mastodontico transatlantico di travertino che ospita la Corte Suprema di Cassazione”. […] Già, i morti non votano. Non voteranno più Davide, 22 anni, e Francesco, 25, i due fratelli Gennero che qualche settimana fa hanno chiuso gli occhi per sempre a distanza di pochi giorni l’uno dall’altro. Una staffetta struggente iniziata nel silos per lo stoccaggio del mais dell’azienda agricola di famiglia a Madonna del Pilone di Cavallermaggiore, pianura cuneense, quando Davide si è accasciato soffocato dai gas di fermentazione e il fratello non ci ha pensato un attimo a calarsi giù per soccorrerlo, svenendo a sua volta. Davide è morto quel mattino stesso nel silos, Francesco qualche giorno dopo in ospedale.
Morti sul lavoro: dal caso Thyssen alla Pilot Tower di Genova rappresentante. Indagine sul più silenzioso dei massacri. Perché in Italia, ogni giorno, tre lavoratori perdono la vita nell'indifferenza di tutti. Carlo Bonini, Sarah Martinenghi e Marco Patucchi su La Repubblica. L'11 ottobre l'Italia celebra la sua settantesima giornata nazionale delle vittime del lavoro. E mai come quest'anno nella ricorrenza, nei numeri di un massacro silenzioso che non conosce contrazioni, sono gli stigmi della cattiva coscienza del nostro Paese, della sua classe dirigente distratta e cinica. Da gennaio ad agosto di quest'anno, 830 donne e uomini hanno perso la vita uccisi sul lavoro. Uno ogni 8 ore. Dal lunedì alla domenica. Nei cantieri non a norma, nelle campagne, negli anfratti dell'economia sommersa. Abbiamo dato volto e nomi ad alcuni caduti, cercando di ricondurre alla voce “reclami con esito fatale” il significato di una statistica registrata nelle banche dati INAIL. Un viaggio in una notte di cui non si vede la fine. Emerge dal nostro racconto quotidiano, perché considerato parte del paesaggio. Come l'alternanza di sole e pioggia. Dove i morti vengono rapidamente sepolti e dimenticati ei sopravvissuti vivono con la colpa di averlo fatto e il tormento di un trauma di cui è impossibile cancellare la memoria. Come Antonio Boccuzzi, operaio della Thyssen di Torino, unico sopravvissuto all'incendio del 6 dicembre 2007. Simbolicamente, la madre di tutte le stragi sul lavoro. Non solo per i motivi che l'hanno causato. Ma per la solitudine e il disinteresse per i quali si è conclusa la vicenda giudiziaria, che, a suo giudizio di primo grado, sembrava anche destinata a costituire le basi di una nuova cultura della sicurezza e della prevenzione sul lavoro. Dove i morti vengono rapidamente seppelliti e dimenticati ei sopravvissuti vivono con la colpa di averlo fatto e il tormento di un trauma di cui è impossibile cancellare la memoria. Come Antonio Boccuzzi, operaio della Thyssen di Torino, unico sopravvissuto all'incendio del 6 dicembre 2007. Simbolicamente, la madre di tutte le stragi sul lavoro. Non solo per i motivi che l'hanno causato. Ma per la solitudine e il disinteresse per i quali si è conclusa la vicenda giudiziaria, che, a suo giudizio di primo grado, sembrava anche destinata a costituire le basi di una nuova cultura della sicurezza e della prevenzione sul lavoro. Dove i morti vengono rapidamente seppelliti e dimenticati ei sopravvissuti vivono con la colpa di averlo fatto e il tormento di un trauma di cui è impossibile cancellare la memoria. Come Antonio Boccuzzi, operaio della Thyssen di Torino, unico sopravvissuto all'incendio del 6 dicembre 2007. Simbolicamente, la madre di tutte le stragi sul lavoro. Non solo per i motivi che l'hanno causato. Ma per la solitudine e il disinteresse per i quali si è conclusa la vicenda giudiziaria, che, a suo giudizio di primo grado, sembrava anche destinata a porre le basi di una nuova cultura della sicurezza e della prevenzione nei luoghi di lavoro. Non solo per i motivi che l'hanno causato. Ma per la solitudine e il disinteresse per i quali si è conclusa la vicenda giudiziaria, che, a suo giudizio in primo grado, sembrava destinata anche a costituire le basi di una nuova cultura della sicurezza e della prevenzione nei luoghi di lavoro. Non solo per i motivi che l'hanno causato. Ma per la solitudine e il disinteresse per i quali si è conclusa la vicenda giudiziaria, che, a suo giudizio di primo grado, sembrava destinata anche a costituire le basi di una nuova cultura della sicurezza e della prevenzione nei luoghi di lavoro.
"Un crimine di pace". "È un crimine di pace e sai perché non puoi fermarlo? Perché i morti non votano ". Il giudice Bruno Giordano si sofferma un attimo lungo uno degli interminabili corridoi del "palazzaccio" e la sua voce squarcia il silenzio irreale del Palazzo di Giustizia di piazza Cavour a Roma, il mastodontico travertino transatlantico che ospita la Corte Suprema di Cassazione. Sì, i morti non votano. Non voteranno più Davide, 22 anni, e Francesco, 25, i due fratelli Gennero che poche settimane fa hanno chiuso gli occhi per sempre a pochi giorni di distanza. Una struggente staffetta è partita nel silo per lo stoccaggio del mais dell'azienda agricola di famiglia a Madonna del Pilone di Cavallermaggiore, pianura cuneese, quando Davide è crollato soffocato dai gas di fermentazione e il fratello non ha pensato per un attimo di scendere a salvarlo, svenendo a sua volta. David morì quella mattina nel silo, Francesco pochi giorni dopo in ospedale. "Gabriele aveva 25 anni ed era pieno di sogni che non era riuscito a realizzare", racconta Massimo Di Guida, il padre di Gabriele, morto in una fabbrica il 10 aprile 2019 a Cavenago, in provincia di Monza e Brianza. Di Massimo Pisa, video di Edoardo Bianchi.
I morti non votano. Non voterà mai più il quarantenne magazziniere modenese che, la scorsa settimana, è stato schiacciato tra due camion nel piazzale antistante il magazzino di un'azienda tessile. Gabriele Di Guida, 25 anni, non voterà mai più, schiacciato da una macchina robotica in una fabbrica milanese, così come Giuseppe Tusa, una vita spezzata, a soli trent'anni, dal crollo della torre pilota del porto di Genova: 9 vittime in 2013. Salvatore Pellegrinello, invece, ha continuato a votare, ma ogni volta in urna, prima di segnare con una matita la sua scelta, tocca con le dita quella cicatrice che gli scende lungo il collo dal collo: una decina di anni fa è stato sospeso per oltre cento metri di altezza dopo che il cavo della gru che stava riparando gli aveva strappato carne, muscoli e tendini. Una settimana di coma e mancanza di respiro quando sembrava finita. E poi la via crucis giudiziaria, che ancora non vede l'ultima parola. Salvatore Pellegrino, installatore di gru, è stato vittima nel 2009 di un incidente che lo ha tenuto in coma per dieci giorni e lo ha impedito di continuare la sua professione. L'appaltatore era senza copertura assicurativa, quindi Salvatore non ha ricevuto alcun risarcimento. Di Marco Patucchi
I morti non votano. Le 830 persone cadute sul lavoro ("denunce con esito fatale", legge con freddezza burocratica la banca dati INAIL) da inizio anno a fine agosto non potranno più farlo: più di tre persone in media al giorno, una ogni otto ore, che escono di casa per andare a lavorare e non tornano più. Per andare a lavorare, non in guerra. "È un delitto di pace", ripete Giordano, che oggi è magistrato della Corte di cassazione e insegna diritto della sicurezza sul lavoro alla Statale di Milano, ma che per vent'anni, prima a Torino e poi a Milano, è stato pretore di processi simbolici come quello del 1995 per l'amianto, l'anno successivo a quello che condannò le compagnie petrolifere per inquinamento da benzene, i primi processi sui tumori professionali o sugli effetti dell'attività dei videoterminali. "Ho firmato quasi tutte le frasi di Raffaele Guariniello". I quattro operai che, esattamente nove anni fa (3 ottobre 2011), morirono sotto le macerie del maglificio di Barletta, in Puglia, dove lavoravano clandestinamente, non hanno mai più votato: un locale al piano terra sepolto dal crollo di un vicino edificio in costruzione. E non aveva mai nemmeno votato per la bambina di dieci anni che era andata a trovare sua madre in quel laboratorio. Proprio in questi giorni è previsto il deposito delle motivazioni della sentenza della Corte di Cassazione che ha confermato la condanna di sei degli otto imputati al processo in appello (all'inizio del primo grado, nel 2015, erano quattordici tra progettisti, muratori, polizia cittadina e funzionari del Comune di Barletta). Delle prime accuse penali (disastro colposo, omicidio colposo e lesioni colpose multiple, omissione di documenti ufficiali, violazione delle norme antinfortunistiche) resta ben poco. "Ma quel processo era comunque importante - dice Giordano - perché l'incidente, causato dal crollo di un cantiere adiacente oggetto di ripetute e inaudite segnalazioni da parte degli operai del mulino, ha portato allo sbarramento dei responsabili di atti amministrativi e non solo. i datori di lavoro, insomma, lo Stato che doveva prevenire e controllare ”.
Una morte ogni tre ore. Sono i numeri che ritmano come un metronomo l' infinito Spoon River di quelle che un tempo venivano chiamate "morti bianche", come se ci fossero diversi gradi di dolore e, soprattutto, responsabilità. Vediamo i funzionari più aggiornati, che continuano a pensare che ogni giorno che è passato e che passerà, la contabilità aggiungerà altri tre nomi di caduti al lavoro. E non si tratta di "soppesare" statisticamente la morte, perché ogni vita strappata è una tragedia incommensurabile e le stesse vittime sono le migliaia di genitori, mogli, figli e fratelli che hanno visto il loro futuro sconvolto da un momento all'altro. La stessa Inail avverte che i confronti e le analisi dell'andamento statistico sono da considerarsi "insignificanti", perché il lockdown per Covid tra il 9 marzo e parte di maggio ha portato ad una diminuzione complessiva dei sinistri. Mentre, d'altra parte, l'inclusione nel database delle segnalazioni di infezioni da coronavirus avvenute sul posto di lavoro o per l'attività professionale stessa, ha avuto un impatto significativo sull'aumento dei decessi. Eppure, nonostante queste eccezioni, Spoon River ha continuato il suo corso incessante e, di fatto, la pandemia di Covid, che per molti versi avrebbe potuto essere occasione di intervento strutturale in materia di sicurezza sul lavoro, si è dimostrata una Alibi paradossale per la politica e per le istituzioni che, con l'arrivo dell'emergenza, hanno ulteriormente rallentato i pochi impegni e programmi avviati. Almeno a parole. Vediamo, dicevamo, gli ultimi numeri. Da gennaio ad agosto il numero dei reclami all'Inail per infortuni è stato di 322.132 (284.131 sul lavoro, 38.001 "on the road", cioè avvenuti nel percorso di andata e ritorno tra casa e lavoro), in calo di circa 95.000 casi rispetto a 416.894 dei primi otto mesi del 2019 (-22,7%). "Questo calo - spiegano all'Inail - è influenzato dal calo sostenuto dei reclami tra marzo e agosto, con 91mila casi in meno rispetto a marzo-agosto 2019 (-29,3%) e questo soprattutto per lo stop forzato tra marzo e maggio ogni attività produttiva ritenuta non essenziale per il contenimento dell'epidemia e per le difficoltà incontrate dalle aziende nel riprendere a pieno regime la produzione nel periodo post-lockdown ”. I decessi sono stati 823, ovvero 138 in più rispetto allo stesso periodo dello scorso anno (+ 20,1%), dovuti a decessi "di protocollo" a seguito di infezione da Covid sul lavoro.
Il triste primato delle fabbriche. In termini assoluti, muoiono più persone nelle fabbriche (721 denunce) che in agricoltura (70) o che lavorano per lo Stato (32); più a Nordovest (298) che a Sud (165), a Nordest (161), al Centro (147). Milleottocento decessi sono stati tra i lavoratori italiani, 41 tra i lavoratori dell'UE e 82 tra i lavoratori non comunitari. Vita, storie, nazionalità, passioni, famiglie. Interi mondi cancellati da un giorno all'altro, sotto lo sguardo distratto di pochi passanti e la disperazione dei colleghi. Una bozza nei notiziari locali e le frasi politiche della politica. Le denunce di malattia professionale registrate dall'INAIL nei primi otto mesi di quest'anno sono state 27.671, 13.271 in meno rispetto allo stesso periodo del 2019 e, anche in questo caso, a riflesso del blocco in quanto l'onere sul declino è il calo dei reclami tra marzo e luglio. Ed è l'effetto Covid che emerge da altri dati: nel solo settore “Sanità e assistenza sociale” le denunce di infortuni sul lavoro sono balzate del 124% nei primi otto mesi del 2020 (da 18.000 a 40.000 casi), con punte superiori al + 500% a marzo e al + 450% ad aprile. E due reclami su tre riguardavano l'infezione da Covid.
La legge come la tela di Penelope. Insomma, la classe operaia continua ogni giorno ad andare in paradiso, e ai numeri ufficiali vanno aggiunti quelli ancora più inquietanti delle vittime del lavoro sommerso. La politica negli ultimi anni è stata oltraggiata, simpatizzata e annunciata, poi è rimasta ferma. “L'emergenza Covid ci ha insegnato che serve un sistema pubblico di prevenzione, ma temo che l'occasione non sia stata colta e che, quindi, piangeremo ancora lacrime di coccodrillo - ragiona Giordano -. Furono emanati decreti legge e, di notte, tutte le forze, compreso l'esercito e i prefetti, furono dispiegate sul campo. È il paradigma di tutto ciò che è stato fatto e, soprattutto, non è stato fatto in passato ". Dal 1978, anno in cui la Legge 833 istituì il Sistema Sanitario Nazionale assegnando alla ASL (allora denominata Usl) la competenza generale in materia di prevenzione e salute nei luoghi di lavoro. Una ripartizione territoriale dei ruoli che ha determinato negli anni l'inevitabile disarticolato movimento delle Regioni con un unico comune denominatore: la scarsità di risorse e la riduzione del personale degli ispettori che, oggi, sono scesi a un totale di 2.500. Dalla legge 833 in poi la sicurezza sul lavoro è rimbalzata da un intervento normativo all'altro: nel 1994 il decreto legislativo 626 ha tardivamente recepito quanto richiesto dalle direttive europee, cercando di regolamentare la sicurezza sui luoghi di lavoro. Nel 2001 un altro decreto ha introdotto nel nostro Paese la responsabilità amministrativa delle persone giuridiche: società, società e associazioni saranno responsabili dei reati commessi dal personale nell'interesse dell'azienda e, pochi anni dopo, la responsabilità sarà estesa agli infortuni sul lavoro. Con Legge Delegata 123 del 2007, il Governo si impegna a procedere alla riorganizzazione e riforma delle disposizioni in materia di salute e sicurezza dei lavoratori, ai sensi dell'articolo 117 della Costituzione, impegno poi incontrato l'anno successivo con il Testo Unico (noto anche con le sigle Tus o Tusl): un insieme di regole con l'ambizione di aggiornare e mettere in ordine l'intera questione. Un'ambizione, infatti, rimasta sulla carta e sciolta nuovamente nel 2015 dal Jobs Act del governo Renzi. "C'è uno scollamento tra regole formali e tutele sostanziali - sottolinea Maria Giovannone dell'Anmil (Associazione Nazionale Lavoratori Mutilati e Disabili), che ha curato la relazione annuale sulle vittime del lavoro - e la colpa è solo in parte della mancanza semplificazione e completamento della disciplina sulla prevenzione. A undici anni dall'entrata in vigore dell'Atto unico di sicurezza, restano ancora una ventina di misure da attuare ”. Una raccolta di interventi, per lo più "forzati" dalla stampa europea, senza mai risolvere un'emergenza che i numeri, di fatto, definiscono quotidianamente. Mentre il caos di competenze e ruoli, tra Stato, Regioni, Asl, ispettori del lavoro, Inail, Inps e chi ne ha di più, ha di fatto sventato ogni idea di riforma. Avevamo provato anche il Jobs Act che istituiva l'Ispettorato Nazionale del Lavoro, infatti la fusione degli ispettori Inps, Inail e ministero, ma la resistenza burocratica e sindacale ha miseramente rovinato il progetto che non ha raggiunto neppure l'obiettivo minimo del database unico. “Senza contare che l'Ispettorato nazionale avrebbe dovuto coordinarsi con l'Asl - spiega anche Giordano -. Sarebbe comunque un primo passo importante. Invece niente, di solito siamo caos. E mentre sono diventate autorità in ogni campo, l'unica agenzia per la sicurezza sul lavoro rimane nel libro dei sogni ".
Otto aziende su dieci fuori regola. Così oggi un'azienda continua a ricevere, magari entro poche settimane, la visita di almeno tre diversi ispettori. Incongruenza che si aggiunge alla carenza endemica di sostanze organiche. Secondo i dati Anmil, lo scorso anno l'intervento ispettivo ha coinvolto solo 142mila aziende e di queste oltre 99mila erano irregolari. Considerando solo il campo della salute e sicurezza sul lavoro, i numeri sono ancora più eclatanti, per la mancanza di controlli e l'incidenza delle irregolarità: 15.859 aziende fuori norma su 18.466 valutazioni definite, ovvero un tasso di irregolarità dell'86%. Carenze insostenibili se si considera che nel frattempo, tra piattaforme digitali, smart working, riders e altro, il mondo del lavoro sta cambiando completamente. “La sicurezza non è più un concetto di salute - afferma Giordano - ma di organizzazione. Non è più sufficiente che l'ispettore controlli se le scarpe del lavoratore sono in ordine. Qui in Italia siamo ancora fermi negli anni Settanta… ”. E le vite precarie se ne vanno quasi sempre, di chi non ha avuto il tempo di conoscere la dignità del lavoro. È successo in un giorno di luglio di due anni fa, quando più o meno in contemporanea in una cava delle Alpi Apuane un operaio di 37 anni con un contratto di lavoro della durata di soli sei giorni, morì schiacciato da una lastra di marmo ea Campodarsego, Padova, un ragazzo ha perso la vita il primo giorno di lavoro cadendo da una macchina che stava preparando per un'azienda. Perché è chiaro che la sicurezza è inversamente proporzionale a tutele, diritti, formazione. Nell'era dell'Industria 4.0, li chiamavamo "lavori veloci", come se un nome ammiccante mascherasse meglio la desolazione dei contratti a protezione zero. I fattorini, conosciuti come cavalieri, ne sanno qualcosa senza guadagnare un solo diritto extra.
Il libro delle promesse. Anche l'ultimo governo e l'attuale Parlamento non hanno mancato di unirsi alla lista delle grandi promesse accompagnate da delusioni. Il ministro del Lavoro, Nunzia Catalfo, un minuto dopo l'accordo ha annunciato che quello della sicurezza sul lavoro sarebbe stato il primo punto all'ordine del giorno del suo mandato, prefigurando "un'azione da attuare in vari interventi legali". Tutto si è però risolto nell'istituzione di tavoli con le parti sociali e nell'avvio di una consultazione pubblica, di cui si sono perse le tracce da mesi (qualcuno ha sollevato l'alibi grottesco dell'emergenza Covid, ovvero un caso che ha un impatto sulla sicurezza del lavoro). La stessa Catalfo ha stanziato 6 milioni di euro nell'ultima manovra finanziaria in tre anni al fondo di sostegno per le famiglie delle vittime di infortuni sul lavoro. Ma negli ultimi tre anni le risorse per la prevenzione sono state tagliate di mezzo miliardo, sono state ridotte le tariffe Inail e, secondo la Cassazione, sono stati ridotti anche i risarcimenti. È andata persa nelle sabbie mobili del Senato la proposta dell'economista Tommaso Nannicini (Pd) di istituire una commissione parlamentare d'inchiesta sulla sicurezza e lo sfruttamento sul lavoro, nonché vari progetti di legge in materia. E la Camera non ha dato seguito all'agenda, sempre firmata Pd, per l'estensione della copertura Inail ai Vigili del fuoco, perché, incredibile ma vero, in Italia quelli che il politico di turno esalta definendoli "eroi" e piangendo lacrime di coccodrillo, dopo ogni disgrazia che affligge il nostro Paese, deve pagare un'assicurazione privata contro infortuni e malattie professionali. "Ma è chiaro che oltre alla politica, anche la magistratura ha le sue colpe - dice Giordano con tono per metà autocritico -. Nell'ultimo decennio ci sono stati quasi 15.000 decessi sul lavoro, ma non ci sono stati più di duecento processi. Quindi, non è solo un problema dello Stato o delle Regioni che non investono in prevenzione e sicurezza, che non fanno assunzioni. Anche l'attività giudiziaria non va e, a mio avviso, per eccesso di prudenza, cioè per evitare di danneggiare l'attività produttiva del Paese ”. Prima dell'eclissi, il tavolo di discussione tra governo, parti sociali e istituzioni aveva prodotto una prima serie di idee. Una licenza a punti da assegnare alle aziende in base al grado di impegni e investimenti sul fronte della sicurezza: maggiore è il rating, maggiori sono le possibilità di accesso agli appalti pubblici. Il rafforzamento degli organi ispettivi, procedendo ad almeno una parte delle 1.400 assunzioni già decise ma mai attuate nell'Ispettorato Nazionale del Lavoro. Creazione del database fantasma unico tra Inl, Inps, Inail e Asl. Investimenti in formazione, magari utilizzando l'avanzo di bilancio della stessa Inail, che in precedenza aveva consentito di tagliare le tariffe assicurative per le imprese. Solo suggerimenti. Le riunioni al tavolo ministeriale si sono eclissate a gennaio e da allora ci sono state altre 1.000 vittime. Gli ultimi in ordine cronologico mentre scriviamo queste righe: tra i capannoni della zona industriale di Botriolo, in provincia di Arezzo, un operaio è stato schiacciato dalle ruote anteriori di una betoniera. Constantin Danut Macovei, operaio rumeno di 42 anni, è caduto a Forlì dal tetto di un edificio in ristrutturazione. Spoon River continua a scorrere senza sosta. Tragedie sconosciute e stragi epocali, come i 136 minatori italiani scomparsi nel 1956 in Belgio nel crollo di Marcinelle, le 7 vittime della Thyssen a Torino nel 2007, cadute con il ponte Morandi mentre si recavano al lavoro o stavano lavorando nell'agosto di due anni fa e, anche in quella maledetta estate, i 12 immigrati uccisi nello scontro frontale del 2018 tra un camion e il furgone che li portò a lavorare nelle campagne pugliesi. Anime perdute che un attimo prima di chiudere gli occhi possono aver pensato nel loro dialetto, nella loro lingua, quello che ha scritto Francesco De Gregori in una canzone:
Sono solo operaio a
Lungo la massicciata
Il mio sa pane di polvere
mia è acqua salata
E lavoro ruggine per
E Carbone e respira
Costruisco per niente
E Vedo non ne la fine "
Francesco De Gregori
Thyssen. La ferita non è mai rimarginata. Le voci di Antonio, Roberto, Angelo, Bruno, Rocco, Giuseppe e Rosario. I loro volti sorridenti. Mani che lavorano, passano oggetti, premono pulsanti. Risate per una battuta lanciata dall'interno della cabina di regia, il "pulpito", per sdrammatizzare la fatica di un turno durato troppe ore, che anche quella sera trafisse in una straordinaria forzatura nel cuore della notte. E poi la carta inceppata da rimuovere in continuo, un piccolo fuoco che si accende per la cascata di scintille dovute ad un attrito della lamiera sul nastro trasportatore, nel rumore incessante della lavorazione dell'acciaio, lungo la linea 5, quella di ricottura e decapaggio. Il pensiero, lo stesso di tante altre volte: "Adesso spegnilo". "Prendi l'estintore", "Questo è uno scarico: non basta", "Anche questo", "Apri l'acqua del tubo". "Lo faccio." In un istante, l'esplosione mortale: una nuvola di olio incandescente che nutre nell'aria lingue di fuoco, che inghiotte l'intera squadra, strappandosi alla vita, uno dopo l'altro sette operai. Tutti i lavoratori tranne uno, protetti da un muletto, si salvarono accovacciandosi per aprire il rubinetto dell'acqua: un gesto che in quel momento segnò per lui il crocevia tra la vita e la morte per ustioni, poco dopo la mezzanotte del 6 Dicembre 2007 alla Thyssenkrupp di Torino. Per tutti lui è "il sopravvissuto". Antonio Boccuzzi vive con lui da 13 anni con una definizione che lo accompagna ovunque vada e qualunque cosa faccia: il tempo trascorso da quell'incidente, diventato simbolo di tutti gli infortuni sul lavoro, non ha cancellato nessuno dei suoi ricordi. "Non posso e non voglio dimenticare quello che è successo", spiega con una serenità disarmante, che ha quasi il suono della saggezza nei racconti dei vecchi. “Ricordare è per me una necessità: sapevo che sarebbe stato impossibile scacciare il ricordo di quella sera, così ho deciso di non provarci nemmeno. Tutti mi chiedono dell'incendio, ma voglio anche ricordare quello che è successo prima: i volti dei miei amici sul pulpito, le loro voci, le cose che ci siamo detti. Perché un attimo prima di quel maledetto incendio sulla linea 5, c'era vita. C'erano tutti i nostri sogni, che avremmo potuto realizzare grazie allo stipendio di Thyssen: la macchina nuova, le scarpe da comprare, la famiglia da creare. Un sogno che stavamo difendendo, anche quella sera, con il nostro lavoro in una fabbrica che sapevamo non era più la stessa, con la linea 5 che presto sarebbe stata abbandonata per essere trasferita a Terni, ma che per noi continuava ad essere qualunque cosa. Quello che è successo a me è il simbolo di un sogno portato via, a tutti noi, che consideravamo la fabbrica una "madre". Una madre ma anche una matrigna crudele, un po 'come la natura per Leopardi, indifferente ai nostri sogni e capace anche di spezzare per sempre le nostre vite ".
L'ultima battuta. Per Boccuzzi la memoria indelebile è diventata trampolino di lancio per un percorso politico (fino al parlamento per il PD) e sociale che ancora oggi, ogni volta che è chiamato a parlare nelle scuole o ai convegni sulla sicurezza sul lavoro, ruota attorno a quanto accaduto. notte del 6 dicembre in Corso Regina Margherita a Torino. Un infortunio destinato a non rimarginarsi, in cui il destino per 13 anni sembra ancora continuare a divertirsi e mescolare beffe e continue illusioni. L'ultima è la più amara. Il senso di giustizia negata che è arrivato come uno schiaffo in faccia dalla Germania all'Italia, quando l'ex amministratore delegato Harald Espenhahn, considerato il principale colpevole e quindi condannato a 9 anni e 8 mesi di carcere, ha ottenuto un'altra pena. è ora di evitare la prigione. Un dribbling che è riuscito ancora una volta, nonostante tutte le rassicurazioni istituzionali che ciò non sarebbe più stato possibile. Sarebbe dovuto entrare in una prigione tedesca il 16 luglio. Ma lo stesso giorno gli è stata concessa una sospensione della pena in attesa che la Corte costituzionale tedesca valutasse l'adeguatezza della sua pena. “Una cosa incredibile. La dimostrazione di potere che sta al di sopra della giustizia. Dove chi ha la possibilità di pagare gli avvocati per trovare qualche scappatoia legale a cui aggrapparsi non può fare un giorno di carcere, mentre in Italia c'è chi, come il direttore dello stabilimento Raffaele Salerno e il responsabile della sicurezza Cosimo Cafueri, hanno già scontato la pena ”. Per le madri delle sette vittime, le loro mogli, i loro figli cresciuti e diventati bambini o adulti, è stato gettato sale su una ferita aperta da 13 anni. "Nessuna condanna avrebbe potuto essere considerata appropriata, ma l'alternanza di condanne e processi e vedere l'obiettivo del carcere scivolare sempre più lontano per i due manager tedeschi è per loro ancora più comprensibilmente inaccettabile". Le condanne per gli infortuni sul lavoro considerati tra i più gravi in Italia sono state e sono state travagliate ma pur sempre esemplari. Non così alto, in fondo, come chi per la prima volta nel 2011 ha visto Espenhahn condannato a 16 anni e sei mesi di carcere, trasformando quello che era stato un gravissimo infortunio sul lavoro, per la prima volta nella storia giudiziaria, in un omicidio. volontario con possibile intento. "Un delitto che avrebbe davvero segnato una svolta - spiega Boccuzzi - ma che poi non è stato in appello, riportando tutto a un salto nel tempo. Quella frase è ormai del tutto scomparsa nella memoria del Paese, ed è anche per questo che continuiamo a morire sul lavoro. Sapere che si possono davvero scontare tanti anni di carcere doveva essere un freno inibitorio per quegli imprenditori meno virtuosi che mettono al centro tutto il business e lo fanno sulla pelle dei lavoratori ”. Le indagini dell'allora sostituto procuratore Raffaele Guariniello e delle due del pomeriggio Francesca Traverso e Laura Longo erano state record. Sei mesi per chiudere il cerchio su sei dirigenti. Sorprendenti perquisizioni avevano portato prove inconfutabili e ricostruito con documenti e scambi di e-mail la situazione della fabbrica di corso Regina, fabbrica in agonia e abbandonata a se stessa dove la logica del risparmio aveva prevalso sulla sicurezza.
Flashfire. Boccuzzi lo ricorda ancora: “La linea 5 avrebbe dovuto essere trasferita a Terni. Sapevamo che non era più "nostro", che non c'erano più prospettive, ma eravamo aggrappati a quel lavoro che continuavamo a portare avanti con la consueta dedizione. Si è detto spesso che io e i miei compagni quella sera eravamo degli eroi. Il vero eroismo è stato avere questa consapevolezza di non far più parte di Thyssen ma di aver cercato di difendere quella linea fino in fondo ". I fuochi, spesso piccoli ma a volte importanti, erano ormai all'ordine del giorno. Un sistema di rilevamento doveva essere il primo investimento da effettuare ei manager sapevano quanto era necessario. Ma con l'idea di portare la linea 5 a Terni, il progetto prescritto dalla stessa compagnia di assicurazioni era stato accantonato, portando ad accettare, secondo la tesi dell'accusa, il rischio che potesse accadere qualcosa di grave ai lavoratori. "Abbiamo semplicemente notato che eravamo abituati a spegnere l'incendio, che è stato uno dei fattori chiave di quello che è successo. Per noi quell'incendio, la notte della tragedia, era una cosa fisiologica, non avevamo paura, non c'era più paura né la sensazione di rischiare la vita. Era qualcosa a cui eravamo abituati. Per questo quando vado a convegni o incontro lavoratori per parlare di sicurezza sul lavoro, suggerisco loro due cose: essere ben informati sui diritti che esistono e devono essere rispettati, e poi non cedere mai a quell'eccesso di fiducia che si fanno abitudini e abitudini. anche i tempi sbagliati ti portano ad avere. Noi quella notte, a torto, ci siamo sentiti in grado di fare tutto, pensavamo di essere scioccamente più potenti del fuoco. Forse la colpa sta anche nel fatto che la siderurgia è un settore in cui trasforma un materiale solido come l'acciaio in qualcosa che diventa completamente diverso, con la fusione. Ma il fatto è che invece eravamo impotenti e l'unica cosa che abbiamo pensato di fronte a incendi continui è stata "posso farlo di nuovo, come ho sempre fatto finora". Al processo davanti al Tribunale di Assisi è stato proiettato un video che ricostruisce quanto accaduto, poco dopo la mezzanotte del 6 dicembre 2007. Non è stato un incendio come gli altri perché si è rotto un tubo contenente olio idraulico alla pressione di 140 bar ( corrispondente a quello misurabile sott'acqua a una profondità di 1.400 metri) che è stato sparato in aria come uno spray spray per un'estensione di 12 metri. Il "Flashfire" ha travolto l'intera squadra. Il primo a morire è stato Antonio Schiavone, 36 anni e padre di tre figli. Il più giovane Michele aveva solo due mesi. “Oggi Michelino ha 13 anni - dice Boccuzzi - e quando lo vedo penso che rappresenti esattamente il tempo che è passato da quel giorno. Ha conosciuto suo padre solo attraverso i ricordi degli altri, ed è per questo che quando mi vede mi chiede sempre di parlargli di lui e di spiegargli cosa stava facendo e com'era ”. Poche ore dopo, il 7 dicembre, sono morti anche Roberto Scola, 32 anni, Angelo Laurino, 43 anni, Bruno Santino, 26 anni. Il 16 dicembre Rocco Marzo, 54 anni, il più anziano. Tre giorni dopo è stata la volta di Rosario Rodinò, 26 anni, e il 30 dicembre di Giuseppe Demasi, anche lui 26 anni.
La colpa di essere vivi. Non è facile per Boccuzzi scrollarsi di dosso il peso di essere sopravvissuto a quella notte. "Mi porto il senso di colpa, all'inizio era molto pesante, e ammetto di averlo ancora. Molti di loro erano più giovani di me, erano miei amici, erano "noi". E anche per questo il rapporto con le loro madri è stato inizialmente difficile e durissimo: nei loro occhi ho letto il dolore più grande, e quella domanda: "Perché lui c'è e mio figlio no?". Lo stesso che ho fatto io. Inoltre avevo una posizione sindacale che per alcuni veniva anche letta in modo distorto. Ma poi nel tempo sono diventato parte della loro famiglia. Eravamo gli unici in Cassazione a Roma, in attesa della sentenza. Non c'era nessuno della società civile o delle istituzioni. E anno dopo anno il legame si è rafforzato. Hanno capito che è anche per quel senso di colpa, di essere sopravvissuto che ho portato avanti la strada politica, come riscatto per tutti, la voglia di lottare anche per loro ”. Ci sono stati cinque casi penali affrontati. Dopo il primo grado, in cui oltre a 16 anni e 6 mesi, sono state inflitte condanne tra 10 anni e 10 mesi e 13 anni e 6 mesi, nel 2013, in appello, è stata segnalata la tragedia di Thyssen tra le fila dell'omicidio colposo. per tutti i manager Thyssen. Ad Espenhahn 10 anni, 9 a Daniele Moroni, 8 a Raffaele Salerno e Cosimo Cafueri, 7 a Gerald Priegnitz e Marco Pucci. L'anno successivo la Corte di Cassazione ha confermato il rinvio a giudizio ma ha stabilito che il processo debba tornare in secondo grado per ricalcolare le sentenze. Nel 2015 il ricorso ha leggermente ritoccato le sentenze, rese definitive dalla Cassazione nel 2016: 9 anni e 8 mesi all'ex annuncio, 7 anni e 6 mesi a Moroni, 7 anni e 2 mesi a Salerno, 6 anni e 8 mesi in Cafueri e 6 anni e 3 mesi in Pucci e Priegnitz. In Germania, tuttavia, la pena massima per un infortunio sul lavoro è di un massimo di 5 anni. E così i due leader tedeschi, tra un appello e l'altro, sono arrivati nel 2020 senza un'effettiva espiazione della sentenza. Poi, a luglio, Priegnitz ha iniziato il regime di libertà vigilata, con il permesso di lasciare la prigione per andare a lavorare. Mentre Espenhahn ha ottenuto la sospensione. "Ecco perché la tragedia di Thyssen continua ad essere non solo simbolica, ma assolutamente eccezionale. Con il fatto che gli italiani hanno effettivamente scontato solo un anno e mezzo di carcere prima di iniziare a ricevere i benefici, e che i due tedeschi tra libertà vigilata e sospensione non hanno davvero scontato le loro pene, 13 anni dopo quell'evento e 4 anni dopo La cassazione resta l'idea di una giustizia negata. Una cosa epocale si è ridotta a una frase banale, e nell'Italia del lavoro si continua a morire ”. I dati mostrano che la percentuale di incidenti è in crescita. "Il trend è preoccupante - conferma Boccuzzi - gli infortuni mortali sono oltre il 20 per cento in più rispetto a un anno fa nello stesso periodo". Thyssen sembrava essere stata la tragedia che poteva cambiare le cose: “In parte all'inizio è successo, ad esempio, ha portato alla nascita del decreto 81 sulla sicurezza sul lavoro. Ma ora è il momento di fare una vera analisi per capire cosa resta da fare ". Servono più controlli e più investimenti, non solo per i lavoratori, ma anche per chi è delegato a controlli e ispezioni: “Serve una vera riflessione, in questo momento di crisi, per far sì che quanto accaduto quella sera non si ripeta e nemmeno il giorno successivo, quando alla Thyssenkrupp furono emanate 108 norme di sicurezza. Il segno che davvero, in una fabbrica, non avresti mai dovuto arrivare a quel punto di insicurezza
Cuneo: tragedia del silos, salgono a due le vittime: morto anche il secondo fratello. Pubblicato domenica, 06 settembre 2020 da La Repubblica.it. Non ce l’ha fatta neanche Francesco. Per due giorni tutti a Cavallermaggiore hanno sperato che almeno lui potesse salvarsi, dopo l’incidente sul lavoro accaduto giovedì mattina, quando si è sentito male per le esalazioni del mais all’interno del silo che stava livellando nell’azienda agricola di famiglia. Suo fratello Davide Gennero, 22 anni, di tre anni più piccolo, aveva immediatamente provato a soccorrerlo: anche lui però aveva perso i sensi per i gas ed era morto tra le braccia del padre Claudio, davanti ai cui occhi si era consumata la terribile tragedia. L’uomo, insieme al fratello con cui dirige l’omonima azienda agricola e di allevamento bovini, aveva fatto il possibile per tirarli fuori dal silo e rianimarli intervenendo solo dopo aver avviato l’areazione del silo. I soccorsi, chiamati da uno dei figli più piccoli, erano dovuti arrivare fino in cima all’alto contenitore che come una torre di quasi 40 metri, domina i campi dorati circostanti che si estendono a perdita d’occhio. Per Davide non c’era stato niente da fare: era spirato tra le braccia del padre, mentre Francesco era stato portato in condizioni gravissime all’ospedale di Savigliano. Per 40 minuti, per via delle esalazioni, non era riuscito a respirare: un tempo eccessivamente lungo che aveva portato a poche speranze di ripresa dallo stato di coma in cui si trovava. La famiglia Gennero, molto conosciuta in paese, ha ricevuto in questi giorni l’affetto di tutto il paese che si è stretto intorno a loro con grande solidarietà: tutti conoscevano il profondo legame che univa la famiglia Gennero e i loro ragazzi, 5 fratelli, che si dedicavano all’azienda agricola di famiglia con grande passione. Il sindaco Davide Sannazzaro dichiarerà il lutto cittadino per i funerali.
Morto schiacciato da una ruspa: 25 anni prima era toccato al padre. Notizia.it il 26/07/2020. L'operaio ha perso il controllo della ruspa ed è morto schiacciato al suo interno, dopo un volo di 20 metri. Stessa sorte toccata al padre. Tragedia nella Marche, dove un operaio 54enne di Acquasanta è morta schiacciato all’interno della sua ruspa. L’uomo stava lavorando in una cava di travertino, quando la ruspa si è ribaltata, facendo un volo di 20 metri. Esattamente 25 anni prima, anche il padre dell’operaio era morto in un incidente sul lavoro, anche lui schiacciato da una ruspa. Nelle Marche un operaio è morto in incidente sul posto di lavoro, schiacciato dalla sua ruspa. Il 54enne originario di Acquasanta ma in loco a Ponte d’Arli, si trovava in una cava di travertino, quando la ruspa si è ribaltata, cadendo per oltre 20 metri. Purtroppo l’impatto con il terreno è stato fatale. Sul posto sono intervenuti i Vigili del Fuoco e il 118 che hanno ritrovato il corpo dell’operaio dilaniato dallo schianto. Per lui non c’è stato nulla da fare: l’uomo era morto sul colpo. Secondo quanto riporta il Resto del Carlino, Giovanni De Angelis (nome della vittima) era di turno nella cava con un camion e una ruspa, intento ad estrarre il travertino. L’uomo si trovava sulla ruspa ferma e in posizione sicura, quando ad un certo punto è arrivato sul ciglio della cava, facendo un volo di 20 metri a bordo del mezzo pesante. I carabinieri di Ascoli hanno analizzato la ruspa per verificare l’ipotesi della manovra sbagliata oppure di qualche guasto tecnico alla centralina del mezzo. In corso delle indagini per capire meglio la dinamica dell’incidente. Nella famiglia dell’operaio purtroppo anche il padre era morto per un incidente analogo. Il 26 luglio del 1995, infatti, suo padre era rimasto schiacciato da una ruspa sul posto di lavoro. Un tragico destino che ha funestato la vita della famiglia De Angelis, a distanza di decenni.
Domodossola, operaio precipita mentre è al lavoro e muore dopo 11 giorni di agonia. Pubblicato martedì, 14 luglio 2020 da La Repubblica.it. Non ce l'ha fatta Stefano Belotti, l'operaio che il 2 luglio è rimasto vittima di un incidente sul lavoro nella ditta Domo Graniti di Trontano, nel Verbano-Cusio-Ossola. Dopo 11 giorni di agonia, il cinquantaduenne è morto ieri nell'ospedale di San Biagio di Domodossola dove era stato trasferito in seguito a un primo ricovero a Novara, trasportato in elicottero per la gravità delle ferite. Sulla dinamica dell'incidente sono in corso gli accertamenti dei tecnici dello Spresal dell'Asl 4 di Domodossola: bisognerà fare luce sul perché sia precipitato da un'altezza di alcuni metri. La caduta gli ha causato un trauma cranico risultato poi fatale. Belotti, che lascia la moglie e una figlia, pare stesse lavorando su alcuni massi quando è avvenuto l'incidente. I funerali si celebreranno domani mattina nella sua cittadina, Villadossola.
Da leggo.it il 14 giugno 2020. Como, operaio di 47 anni cade da un'altezza di 8 metri, resta infilzato nell'inferriata e muore. Il tragico infortunio sul lavoro è avvenuto nella tarda mattinata di oggi a Fino Mornasco, nel Comasco: l'operaio 47enne è morto dopo essere precipitato da un'altezza di circa otto metri, rimanendo trafitto dalla recinzione che delimita un'azienda. La dinamica non è ancora stata ricostruita con esattezza. Il lavoratore era salito su una scala all'esterno di una ditta di carrozzeria quando, per cause non ancora accertate, è caduto finendo trafitto dalla recinzione. Subito apparso in gravissime condizioni, il ferito è stato liberato dai vigili del fuoco. Purtroppo non è stato possibile salvarlo.
Pianura, frana travolge 4 operai: due i morti. Pubblicato lunedì, 01 giugno 2020 da La Repubblica.it. Una frana ha travolto alcuni operai al lavoro per l'innalzamento di un muro di contenimento questa mattina nella zona di via Comunale Masseria Grande nel quartiere di Pianura a Napoli. Due cadaveri sono stati estratti dal terreno: si tratterebbe di un operaio immigrato e di un altro in corso di identificazione. Sul posto carabinieri, polizia, vigili urbani, vigili del fuoco con l'anti abusivismo e il magistrato di turno della Procura della Repubblica di Napoli. Secondo quanto ricostruito finora, in via Caianello 28, tra via Archimede e via Montagna Spaccata, gli operai stavano alzando il muro per contenere il costone sul retro di una palazzina che, stando ai primi accertamenti, sarebbe abusiva. All'improvviso la frana. Due dei quattro operai al lavoro sono rimasti uccisi, un terzo si sarebbe allontanato. I vigili del fuoco stanno scavando dove si è verificata la frana poiché si teme che possa esserci una quarta persona coinvolta nel crollo.
Crollo Pianura, Ciro dipendente Asia e operaio per arrotondare. I tre migranti reclutati per 25 euro. Ciro Cuozzo de Il Riformista l'1 Giugno 2020. Faceva l’operaio per arrotondare, per portare a casa più soldi e far vivere meglio la moglie Emilia, i tre figli e i nipotini. Ciro Perrucci era un dipendente di Asia, l’azienda napoletana che si occupa della raccolta dei rifiuti a Napoli. E’ morto insieme a un giovane migrante di origine africana, entrambi seppelliti da chili di terreno e detriti dopo il cedimento, dovuto probabilmente anche alla pioggia dei giorni scorsi, di un muro di contenimento che stavano alzando per reggere il terrapieno e delimitare i confini di una palazzina tirata su in tempi record in via Caianiello, nella zona della Masseria Grande a Pianura, periferia occidentale della città. Ciro e il giovane operaio, reclutato, così come gli altri due (che per fortuna si sono salvati) nei pressi delle due rotonde lungo via Montagna Spaccata per 25-30 euro giornalieri, sono rimasti sotto le macerie per circa tre ore. I vigili del fuoco, intervenuti sul posto con ben sei squadre, hanno scavato a mani nude per cercare di non fargli del male. Li hanno ritrovati abbracciati, probabilmente uno dei due ha provato a fare da scudo con il corpo per proteggere l’altro quando si è palesato lo smottamento. Il terreno in questione, un fondo agricolo di circa 40 metri, è stato sottoposto a sequestro da parte della Procura di Napoli che ha aperto un fascicolo per omicidio colposo. I lavori erano autorizzati? Gli operai presenti erano inquadrati? Stando a una prima ricostruzione, Ciro, così come gli altri tre lavoratori di origine africana, erano a nero. Venivano pagati alla giornata. Ma saranno le indagini dei carabinieri del Comando Provinciale di Napoli, coordinati dalla Procura, a cristallizzarlo. Oggi resta il profondo lutto in cui è piombato l’intero quartiere di Pianura. Ciro ‘o mericano era molto conosciuto e benvoluto. “Era un nostro dipendente” racconta Maria De Marco, presidente di Asia. “Questa mattina, quando si è verificata la tragedia, Ciro non era di turno. Era un gran lavoratore, impegnato nel distretto flegreo e quindi era impegnato a tenere pulite anche le strade del suo quartiere. Siamo vicini alla famiglia in questo momento di dolore e smarrimento”.
Identificata la seconda vittima. Crollo Pianura, il quartiere piange Ciro e Daniel: “Una spada ha trafitto il nostro cuore”. Redazione su Il Riformista il 2 Giugno 2020. Si chiamava Daniel Thomas, aveva 41 anni ed era nato in Liberia. E’ il secondo operaio, identificato dopo non poche ore, morto lunedì primo giugno a Pianura, periferia occidentale di Napoli, travolto da chili di terreno e detriti mentre stavano posizionando un muro di contenimento per delimitare i confini di un edificio abusivo. Daniel è stato ritrovato dopo circa tre ore insieme all’altra vittima, Ciro Perrucci, 61enne netturbino che faceva l’operaio per arrotondare e aiutare la sua famiglia. I vigili del fuoco, intervenuti sul posto con ben sei squadre, hanno scavato a mani nude insieme all’aiuto di alcuni volontari. Poco prima delle 15 il drammatico epilogo: i soccorritori hanno ritrovato Ciro e Daniele abbracciati, probabilmente uno dei due ha provato a fare da scudo con il corpo per proteggere l’altro quando si è palesato lo smottamento. Insieme alle due vittime, in quel cantiere abusivo c’erano altri due cittadini originari dell’Africa, fortunatamente rimasti illesi. Sulla disgrazia avvenuta in via Eduardo Caianiello, nella zona della Masseria Grande, sono in corso le indagini dei carabinieri del Comando Provinciale di Napoli, coordinate della Procura che ha aperto un fascicolo per omicidio colposo e abusi edilizi. Il proprietario del fondo agricolo dove è stato costruita la villetta, al momento sotto sequestro, è un noto assicuratore del quartiere. A ricordare Ciro ‘o mericano è don Victor Alozie, sacerdote di origine nigeriana della Parrocchia San Giuseppe e Sant’Ignazio: “Caro Ciro, la nostra parrocchia sentirà fortemente per sempre la tua mancanza. Non meritavi di morire così ed ora; eri molto buono a noi tutti ed a tutti che ti hanno conosciuto. Molto disponibile a rendere servizi alla nostra chiesa ed a tutti sempre con cuore, mai saranno dimenticate la tua disponibilità e generosità. Molto socievole e amato da tutti, (O’ mericano). Eri per me più che un amico; so quanto mi volevi bene e io per sempre ti vorrò bene. Con la tua scomparsa una spada ha trafitto il nostro cuore, noi tutti di Masseria Grande e solo Dio ci può consolare in questo stato di dolore e tristezza. La morte ha strappato in modo violento un pezzo della pelle di Masseria Grande. In tutto non possiamo che rassegnarci alla volontà del Signore, datore della vita e affidarci alla sua parola, come ci dice San Paolo: “Non vogliamo, fratelli, lasciarvi nell’ignoranza a proposito di quelli che sono morti, perché non siate tristi come gli altri che non hanno speranza. Se infatti crediamo che Gesù è morto e risorto, così anche Dio, per mezzo di Gesù, radunerà con lui coloro che sono morti.” (1 Tessalonicesi 4,13-14)”.
Il dramma di Pianura, Ciro e giovane migrante sepolti per ore: “Sono morti abbracciati”. Ciro Cuozzo su Il Riformista l'1 Giugno 2020. Li hanno ritrovati abbracciati sotto le macerie dopo quasi tre ore di scavi. Non ce l’hanno fatta Ciro Perrucci, 61 anni, e un giovane operaio di origine africana. Sono stati seppelliti da chili di terreno e detriti dopo il cedimento di un muro di contenimento che stavano alzando per reggere il terrapieno e delimitare i confini di una palazzina. Hanno provato a proteggersi abbracciandosi, a coprirsi dalla valanga di terreno, ma sono rimasti per troppo tempo sotto le macerie. La tragedia è avvenuta poco dopo mezzogiorno nel quartiere di Pianura, periferia occidentale di Napoli. La palazzina costruita in tempi record in un vecchio rudere di circa 40 metri quadri, sulla cui presunta natura abusiva sono in corso gli accertamenti della procura di Napoli, si trova in via Eduardo Caianiello, in zona Masseria Grande, una delle traverse di via Montagna Spaccata. Ciro, detto ‘o mericano, sposato e padre di tre figli, si trovava sul posto insieme ad altri tre operai, tutti di nazionalità straniera. Quando è avvenuto il cedimento lui e un giovane migrante sono stati travolti dal terreno che non gli ha lasciato scampo. Gli altri due lavoratori sono riusciti a salvarsi perché si trovavano in un posizione più defilata. Sono stati trasportati in ospedale per accertamenti. Sul posto sono intervenute ben sei squadre dei vigili del fuoco che hanno scavato anche a mani nude per ritrovare i due operai. L’area è stata delimitata dai carabinieri della Compagnia di Bagnoli coadiuvati dagli agenti della polizia municipale dell’Unità Operativa Soccavo guidati dal capitano Ciro Guadagnino, e dalla polizia di Stato. Presenti anche gli agenti del Nucleo Antiabusivismo della Polizia Municipale per la verifica dei titolo autorizzativi delle opere. Dolore e disperazione tra i familiari dell’unica vittima al momento identificata, Ciro, che abitava poco distante dalla zona interessata dal crollo.
Operai morti, sequestrato cantiere abusivo: carte false per sviare indagini su terreno già confiscato. Redazione su Il Riformista il 10 Settembre 2020. E’ stato disposto il sequestro preventivo del cantiere di Pianura, quartiere alla periferia occidentale di Napoli, dove lo scorso primo giugno persero la vita due operai: Ciro Perrucci, 61 anni, e Thomas Daniel, 41enne della Liberia residente a Castel Volturno (Caserta). Nell’ambito delle indagini, coordinate dalla procura partenopea, è emersa una inosservanza delle norme di sicurezza da rispettare sui luoghi di lavoro che sarebbe all’origine del disastro: i due lavoratori morirono dopo il crollo di un muro di contenimento che reggeva un terrapieno. Al momento risultano indagate tre persone. I reati ipotizzati sono omissione dolosa di cautele contro gli infortuni e lottizzazione abusiva su un terreno, peraltro, già confiscato. Nel corso degli accertamenti sono emersi anche dei tentativi di falsificazione di documenti per sviare le indagini relative a una palazzina abusiva in corso di costruzione in via Eduardo Caianiello, in zona Masseria Grande, una delle traverse di via Montagna Spaccata.
Salento, operaio 35enne muore schiacciato nel cantiere per il gasdotto di connessione a Tap. Pubblicato mercoledì, 27 maggio 2020 da Lucia Portolano su La Repubblica.it. Tragico incidente sul lavoro questa mattina nelle campagne di Pisignano, frazione di Vernole, dove è in corso il cantiere Tap per le opere di interconnessione tra il gasdotto e la rete Snam. Durante i lavori un operaio di una ditta appaltatrice ha perso la vita. L’uomo è rimasto schiacciato sotto i cingoli di un mezzo pesante. La vittima è Simone Martena, 35 anni di Squinzano, un saldatore della ditta Max Streicher. L’incidente gli ha provocato una grave ferita alle gambe, vani sono stati i soccorsi. Quando sono arrivati i sanitari del 118 l’operaio era già morto. L’incidente è avvenuto intorno alle 10,30 in contrada largo Cappelle di Pisignano, nell’area denominata “punto raccolta 6”. Si tratta dei lavori del lotto 1 Lecce, dove si stanno realizzando le opere di interconnessione tra il gasdotto Tap e la rete Snam. Sul posto è intervenuto il personale Spesal e il magistrato di turno. I carabinieri di Vernole hanno proceduto ai rilievi e stanno raccogliendo gli elementi per ricostruire l’esatta dinamica dell’incidente.
Romagna, travolto dal muro della ferrovia: muore operaio. Cattolica, il 55enne napoletano schiacciato dai detriti di un muro di contenimento al quale lavorava. La Repubblica il 14 maggio 2020. Un operaio di 55 anni, originario di Afragola nel Napoletano è morto schiacciato da tonnellate di detriti, mentre questa mattina lavorava al muro di contenimento in cemento armato delle Ferrovie dello Stato nel Comune di Cattolica. I vigili del fuoco hanno scavato per circa tre ore prima di arrivare al corpo, ma purtroppo non c'era più niente da fare, il recupero è avvenuto attorno alle 14.30. La linea ferroviaria è rimasta interrotta per permettere i soccorsi e i rilievi delle forze dell'ordine. L'allarme era scattato intorno alle 11.45 nel cantiere di via Mazzini. Secondo una prima ricostruzione fatta dai carabinieri di Cattolica intervenuti sul luogo dell'infortunio sul lavoro, la terra sottostante il muro di cemento armato è franata provocando un crollo di detriti che ha poi travolto l'operaio.
Brindisi, muore operaio travolto in un cantiere stradale. La tragedia in un tratto alle porte della città, sulla statale 613 per Lecce. La vittima è di Oria. Redazione di Brindisireport il 14 aprile 2020. Un operaio di 34 anni di Oria, D.C. è deceduto dopo essere stato investito da un mezzo pesante mentre eseguiva lavori di manutenzione del verde sullo spartitraffico della strada statale 613 che collega Brindisi a Lecce, per conto Anas. L’incidente si è verificato poco prima delle 8 di oggi, martedì 14 aprile, all’altezza dello svincolo per la zona industriale di Brindisi sulla corsia in direzione Lecce. Sul posto sono state inviati ambulanze del 118 e i vigili del fuoco ma nessuno ha potuto fare nulla per salvare l'uomo. Sul posto anche gli agenti della Polizia locale per la ricostruzione della dinamica. I poliziotti della Polstrada, invece, si sono occupati della gestione della viabilità. Da quanto ricostruito l'operaio è stato investito da un suo collega, poco dopo la chiusura di una corsia: stava attraversando a piedi la carreggiata mentre il camion stava eseguendo una manovra in retromarcia. Il conducente del camion è stato sottoposto, come da prassi, ad alcoltest risultato negativo. Anche la ditta che si sta occupando dei lavori di potatura del verde in subappalto per conto di Anas ha sede a Oria.
Modena, un morto sul lavoro: incastrato negli ingranaggi di un macello. La vittima aveva 41 anni e lavorava in un'azienda del settore carni di Carpi. Sindacati in sciopero: "Non è una fatalità". La Repubblica l'11 marzo 2020. MODENA - Un uomo di 41 anni, originario del Ghana, ha perso la vita ieri sera in un incidente sul lavoro avvenuto all'interno di un'azienda del settore carni di Carpi, in provincia di Modena, la Opas, Organizzazione di Produttori Allevatori di Suinil. Sul posto sono intervenuti i carabinieri, oltre ai mezzi di soccorso: dai primi accertamenti sembra che il 41enne, dipendente di una ditta di pulizie in appalto, la cooperativa mantovana Csa, stesse pulendo un macchinario quando è rimasto incastrato negli ingranaggi. Sciopero oggi dell’intera giornata di lavoro proclamato dai sindacati Filcams, Flai e Filt Cgil dei lavoratori dello stabilimento. Samuel Remel aveva moglie e due figli in Ghana. L’infortunio mortale, dalle prime ricostruzioni, sembra avvenuto per il trascinamento del lavoratore, durante le operazioni di pulizia, all’interno di una macchina di uno dei reparti di lavorazione. “Sono inammissibili i rischi che corrono i lavoratori sui nastri dello stabilimento – dichiarano Alessandro Santini (Filcams Cgil), Marco Bottura (Flai Cgil) e Adriano Montorsi (Filt Cgil) – Questo infortunio mortale non può essere attribuito alla fatalità. Solo pochi mesi fa, a luglio 2019, era accaduto un altro infortunio sui nastri, e un lavoratore era rimasto incastrato con la mano. Anche in passato si sono registrati altri infortuni per carenze formative del personale degli appalti”. “L’incidente – proseguono i sindacalisti di Filcams, Flai e Filt – è avvenuto in un appalto del comparto carni, dove il sistema degli appalti è molto diffuso e dove spesso prevalgono situazioni di precarietà. Appalti che sono sempre più spesso angoli grigi di un mondo del lavoro che vuole voltarsi dall’altra parte, atteggiamento che noi rifiutiamo e sul quale punteremo sempre a fare chiarezza. Perché l’emergenza virus passerà, ma quella dei morti sul lavoro sembra non arrestarsi ormai da tanto, troppo tempo” affermano i sindacalisti Cgil.
Andrea Pistore e Silvia Moranduzzo per corrieredelveneto.corriere.it il 23 gennaio 2020. La lettera di licenziamento lo ha spinto al gesto più estremo. Con il foglio che sanciva la perdita del posto di lavoro è salito sulla sua auto e si è diretto sull’argine destro del Gorzone a Sant’Urbano, al confine tra le province di Padova e Rovigo. Lì si è impiccato. Una tragedia ha sconvolto mercoledì pomeriggio il piccolo paese di Cinto Euganeo nella Bassa Padovana dove abitava Simone Sinigaglia, quarantenne dipendente della Ivg Colbachini Spa di Cervarese Santa Croce, azienda leader nella produzione di tubi flessibili in gomma con diverse sedi sparse nel mondo. L’operaio, celibe, doveva terminare il turno alle 22 e invece è stato mandato via dai dirigenti della Ivg Colbachini molto prima, alle 14: da tempo pendeva sulla sua testa una vertenza per abuso della legge 104, quella che consente di seguire un parente con problemi fisici per due ore al giorno oppure per tre giorni interi al mese. Sinigaglia accudiva l’anziana zia, la sorella della madre venuta a mancare. Qualche giorno fa aveva partecipato ad un’audizione con la direzione per riportare le sue ragioni e giustificarsi ma l’azienda le ha ritenute insufficienti. I dirigenti hanno deciso di mandarlo via. Con in mano la lettera di licenziamento, anziché tornare nella sua casa, ha vagato per poco più di un’ora lungo le strade e gli argini della Bassa, fermandosi a ridosso del fiume che attraversa Sant’Urbano. Ha poi legato una corda a un albero robusto e si è impiccato. A trovarlo ormai senza vita sono stati alcuni passanti che passeggiavano col cane.
I carabinieri di Este. I carabinieri della compagnia di Este hanno eseguito tutti i rilievi scoprendo che all’interno dell’abitacolo della sua automobile aveva lasciato un bigliettino scritto a mano rivolto ai familiari: «Vi chiedo scusa per quello che ho fatto». L’ultimo addio. La notizia ha lasciato basiti i tanti amici che lo conoscevano e i colleghi di lavoro. Grande appassionato di pesca, da tutti è stato descritto come una «persona molto solare e sempre allegra. Era appassionato di carpe, quando poteva andava lungo i corsi d’acqua o nei laghetti per pescarle». A meno di un’ora dal suo ritrovamento anche i vertici dell’azienda e i colleghi sono stati informati. Questi ultimi, senza alcuna indicazione da parte dei sindacati, hanno interrotto il turno di lavoro che sarebbe dovuto terminare alle 22, tale era lo sgomento per la morte di Sinigaglia. Alcuni, sono tornati a casa, sconvolti. «Da quello che abbiamo appreso in serata – ha detto Luca Rainato, segretario Filctem Cgil di Padova, accorso in azienda per parlare con gli operai rimasti – Sembra che le motivazioni del licenziamento fossero molto deboli. Si tratterebbe quindi di un provvedimento esagerato e troppo severo ma faremo le opportune verifiche e, nel caso, siamo pronti ad agire, con lo sciopero o per vie legali».
Il silenzio dell’azienda. Dall’azienda, solo il silenzio. Gli operai e i sindacalisti non hanno ricevuto comunicazioni di alcun genere, nemmeno di cordoglio. E tra i colleghi di Sinigaglia che erano in turno con lui serpeggia la rabbia per ciò che è accaduto. Alcuni sono rimasti in azienda per parlare con i delegati sindacali e raccontare la loro verità: quella di un uomo buono, che non ha fatto nulla di male. Un uomo che dopo la morte della madre si prendeva cura della zia molto anziana. Ricordiamo che in caso di necessità di supporto psicologico la Regione, in collaborazione con l’Usl 7 e il Dipartimento di Psicologia dell’Università di Padova, ha attivo tutti giorni, 24 ore su 24, il numero verde 800.334.343 al quale rispondono psicologi esperti che possono aiutare a superare i momenti di difficoltà.
Pescara, muore operaio 26enne precipitato da un capannone. La Repubblica il 24 gennaio 2020. E' precipitato da 12 metri mentre lavorava su un capannone e non c'è stato niente da fare. Un operaio di 26 anni è morto all'ospedale di Pescara per le ferite riportate precipitando mentre era al lavoro in un'area industriale in corso di smantellamento a Tocco da Casauria. Soccorso dai sanitari del 118 è stato rianimato sul posto dopo un arresto cardiaco, stabilizzato dai medici e infermieri e portato all'ospedale di Pescara dove è morto poco dopo. Sono in corso gli accertamenti e le indagini dei Carabinieri della Compagnia di Popoli (Pescara) per ricostruire l'accaduto. Sul posto anche gli ispettori della Asl.
Che succede se prima ti si chiede di parlare di una questione privata resa pubblica dalle vittime in cerca di giustizia, alimentando una discussione e creando una inchiesta giornalistica, e poi ti si chiede il diritto d’autore?
Braccio di ferro con l’INAIL per il riconoscimento ufficiale della malattia professionale. Intervista ad Antonia Traficante di Alberto Bortolotti su giornalistinews.it il 28/07/2014. Quando la morte prende e porta via la persona che ami sei messo alla prova. E se hai carattere, voglia di non far cadere inutilmente dei sani principii sui quali fai reggere la tua vita e sai d’avere in famiglia persone speciali, ti accorgi di possedere una riserva d’energia che credevi non facesse parte di te. Con la perdita del marito, Antonia Traficante, nata a Rionero di Vulture nel 1960, inizia un tragitto che la porta, soprattutto grazie alle figlie, a rimboccarsi le maniche, a credere sempre più ai propri valori di vita, ad un altruismo senza pari ed a lottare contro il cosiddetto “sistema”.
Antonia parlaci un po’ di te
«Partii nel 1979 per emigrare in Romagna, a Bellaria- Igea Marina, per avere una possibilità di indipendenza ed autonomia che fin da ragazzina volevo raggiungere. E' stata dura all'inizio inserirmi, mai ho trovato il modo: a 23 anni gestivo una paninoteca-enoteca-birreria assieme a una socia, poi il cambiamento. Per 23 anni la mia vita lavorativa è stata rivolta al servizio degli ultimi, i cosiddetti diversamente abili. E' stata un'esperienza bellissima, mi ha arricchito come non avrei mai creduto. Parallelamente ho messo su famiglia, mi sono sposata e ho avuto due splendide figlie. Vita ideale: il lavoro, la mia famiglia meravigliosa. Poi tutto si stravolse, arrivò la malattia di mio marito Angelo come un fulmine a ciel sereno».
Raccontami di tuo marito.
«Mio marito non era perfetto, ma era perfetto per me. Era un uomo simpatico, ironico, bello e, soprattutto, padre eccezionale. Conosceva tutto delle sue figlie, voleva essere sempre presente a qualsiasi loro progresso di crescita, giocava con loro. Quando li guardavo giocare era lui per primo ad essere un bambino. Sia io che lui lavoravamo su turni e dato che avevamo scelto d’essere solo noi a stare con le nostre figlie facevamo sempre turni opposti. Le vacanze assieme, vivevamo assieme, tutto era “assieme”».
Perché e quando è morto?
«Angelo lavorava come esattore al casello autostradale, tra quello di Rimini Nord e quello di Castel San Pietro (BO): fu proprio lui a fare il primo turno alla prima stazione tutta telematica d'Italia. Poi nell'estate del 2002 cominciò a dire che non si sentiva più in forze. Ai primi di settembre la situazione precipitò: dolori alla gambe e poi alle braccia. Partirono i primi esami, alla fine di settembre la malattia, ricovero in ospedale tutto il mese di ottobre, alla fine del mese la diagnosi infausta. Si comincia con la chemio. Lui seppe tutto dall’inizio, ma non volemmo credere (soprattutto io) che era già in fase terminale. Morì 24 Febbraio 2003».
Come è cambiata la tua vita dopo la sua malattia?
«Grazie alle mie figlie Francesca e Giorgia sono viva. Senza di loro non ce l'avrei fatta. A me non era morto solo un marito, ma un compagno, un amico, un fratello, un amante, un padre. Lui racchiudeva tutto il mio mondo come figura maschile».
Cosa è cambiato dentro di te?
«Ho vissuto come un automa facendo la vita di prima, senza nessun coinvolgimento emozionale e sentimentale. Persino con le mie figlie non riuscivo a sorridere, solo pianti e pianti. Tutto questo per molto tempo».
E nel rapporto con le tue figlie Francesca e Giorgia?
«Vivevo solo (apparentemente) per loro, ma sono state loro farmi guarire. Il loro amore mi ha fatto tornare alla vita: mi spingevano ad uscire a frequentare gente, a curarmi fisicamente. Hanno fatto loro la mamma per un bel po’».
A cosa ti sei aggrappata prima della sua morte?
«A niente. Ho sfidato Dio. Ho lottato con lui, volevo vincere io, non ho mai accettato la malattia. Noi eravamo troppo felici. Mio marito era pronto, io no».
E ora?
«Ho i ricordi belli, ho le mie figlie che me lo ricordano tutti i giorni, ho cominciato a sorridere di nuovo. Anche se ho sempre quel vestito di malinconia che ogni tanto indosso e che fa parte di me».
Con il caso di tuo marito l’Inail ha diagnosticato per la prima volta l’origine professionale di un tumore: è così?
«Sì, dopo la sua morte ho cominciato una battaglia per il riconoscimento della malattia professionale, che l'Inail di Roma ha attestato dopo un anno. Il caso è stato il primo, e tutt'ora è tale, in Italia ad essere certificato in quell’ambito lavorativo».
Come si è comportata nei vostri confronti l’azienda nella quale tuo marito lavorava?
«L'azienda autostradale, in tutti questi anni, ha cercato di celare questo riconoscimento. E’ diventato tabù. Appena qualcuno nomina il nome di mio marito tutti tacciono».
Il tuo è un pensiero di solidarietà, di salvaguardia della salute, di rispetto del lavoro: a parte tutte le dichiarazioni formali che un’azienda può e deve fare, per quel che ne sai, quali passi concreti sono stati fatti per la tutela della salute degli esattori autostradali?
«Sono undici anni che provo a sfondare una porticina, ma tutto procede come se niente fosse successo. Dico che non vogliono che crei un precedente perché farei scoppiare una bomba.... seppur previsti, per quel che so, non ci sono controlli sistematici per la salvaguardia della salute degli operatori ai caselli autostradali».
E l’azienda, in verità, cosa sta facendo?
«Omertà!»
Nella tua “lotta” c’è qualcuno che ti appoggia, ti sostiene, ti aiuta?
«Inizialmente il sindacato, poi mi sono trovata da sola. Perché anche li silenzi o divagazioni».
Quali risultati hai conseguito?
«Omertà, ma non intendo mollare. In questi giorni sono riuscita ad avere la documentazione che il sindacato aveva raccolto e prodotto: mi rivolgerò ad un avvocato».
Cosa ti aspetti avvenga?
«Il riconoscimento ufficiale della malattia professionale. Vorrei che la morte di mio marito non si rivelasse vana, vorrei che gli operatori ai caselli possano avere garanzie reali di sicurezza sul lavoro. Non si può lavorare per morire, ma per vivere».
Qualche volta parli con tuo marito?
«Si, spessissimo».
Cosa gli dici?
«Vedi Angelo come sono cresciute le nostre figlie? Sono sicura che sei orgoglioso di loro».
Ti senti tosta?
«Non sono tosta ma caparbia, tenace, ostinata. Sono per la giustizia ed un mondo migliore».
Antonia: “Voglio la verità sulla morte di mio marito”. Cinzia Ficco 28 maggio 2014 su magazine.tipitosti.it. Quando la morte prende e porta via la persona che ami, sei messo alla prova. E se hai carattere, voglia di non far cadere inutilmente dei sani principii sui quali fai reggere la tua vita e sai d’avere in famiglia persone speciali, ti accorgi di possedere una riserva d’energia che credevi non facesse parte di te. Con la perdita del marito, Antonia Traficante, nata a Rionero di Vulture nel 1960, inizia un tragitto che la porta, soprattutto grazie alle figlie, a rimboccarsi le maniche, a credere sempre più ai propri valori di vita, ad un altruismo senza pari ed a lottare. Contro cosa? Lo scopriremo in questa intervista».
Antonia, parlaci un po’ di te.
«Partii nel 1979 per emigrare in Romagna, a Bellaria- Igea Marina. Volevo essere indipendente sin da ragazzina. E’ stata dura all’inizio inserirmi. A 23 anni gestivo una paninoteca-enoteca-birreria con una socia, poi il cambiamento. Per 23 anni la mia vita lavorativa è stata rivolta al servizio degli ultimi, dei diversamente abili. E’ stata un’esperienza bellissima, mi ha arricchito come non avrei mai creduto. Intanto ho messo su famiglia, mi sono sposata e ho avuto due splendide figlie. Vita ideale: il lavoro, la mia famiglia meravigliosa. Poi».
Poi?
«Tutto si stravolse, arrivò la malattia di mio marito Angelo come un fulmine a ciel sereno. Mio marito era un uomo simpatico, ironico, bello e, soprattutto, un padre eccezionale. Sapeva tutto delle sue figlie, voleva essere sempre presente, giocava con loro. Con loro tornava bambino. Sia io che lui lavoravamo su turni e dato che avevamo scelto d’essere solo noi a stare con le nostre figlie, facevamo sempre turni opposti. Le vacanze insieme, vivevamo insieme, tutto era insieme».
Cosa è successo dopo?
«Angelo lavorava come esattore al casello autostradale, tra quello di Rimini Nord e quello di Castel San Pietro (BO). Fu proprio lui a fare il primo turno alla prima stazione tutta telematica d’Italia. Poi nell’estate del 2002 cominciò a dire che non si sentiva più in forze. I primi di settembre la situazione precipitò: dolori alla gambe e poi alle braccia. Partirono i primi esami, alla fine di settembre la malattia, il ricovero in ospedale, dove rimase tutto il mese di ottobre, poi la diagnosi infausta. Si cominciò con la chemioterapia. Lui seppe tutto dall’inizio, ma non volevamo credere, soprattutto io, che fosse in fase terminale. Morì il 24 Febbraio 2003».
Come è cambiata la tua vita dopo la sua malattia?
«Grazie alle mie figlie Francesca e Giorgia sono viva. Senza di loro non ce l’avrei fatta. A me non era morto solo un marito, ma un compagno, un amico, un fratello, un amante, un padre. Lui racchiudeva tutto il mio mondo. Ho vissuto come un automa, facendo la vita di prima, senza nessun coinvolgimento emozionale e sentimentale. Persino con le mie figlie non riuscivo a sorridere, solo pianti e pianti. Tutto questo per molto tempo. In apparenza vivevo solo per loro. Sono state loro a farmi guarire. Il loro amore mi ha fatto tornare alla vita: mi spingevano ad uscire, frequentare gente, curarmi fisicamente».
In tutto questo c’era posto per Dio?
«Ho sfidato Dio. Ho lottato con lui, volevo vincere io, non ho mai accettato la malattia. Noi eravamo troppo felici. Mio marito era pronto, io no».
E ora?
«Ho i ricordi belli, ho le mie figlie che me lo ricordano tutti i giorni, ho cominciato a sorridere di nuovo. Anche se ho sempre quel vestito di malinconia che ogni tanto indosso e che fa parte di me.
Con il caso di tuo marito l’Inail ha diagnosticato per la prima volta l’origine professionale di un tumore: è così?
«Sì, dopo la sua morte ho cominciato una battaglia per il riconoscimento della malattia professionale, che l’Inail di Roma ha attestato dopo un anno. Il caso è stato il primo, e tuttora è tale, in Italia, ad essere stato certificato in quell’ ambito lavorativo».
Come si è comportata nei vostri confronti l’azienda nella quale tuo marito lavorava?
«In tutti questi anni ha cercato di nascondere la verità. E’ diventato un tabù. Appena qualcuno nomina mio marito, tutti tacciono. Sono undici anni che provo a sfondare una porticina, ma tutto procede come se niente fosse successo. Non vogliono che crei un precedente perché farei scoppiare una bomba. Seppur previsti, per quel che so, non ci sono controlli sistematici per la salvaguardia della salute degli operatori ai caselli autostradali».
C’è qualcuno che ti appoggia?
«Inizialmente il sindacato, poi mi sono trovata da sola. Perché anche da parte loro silenzi o divagazioni. Ma non intendo mollare. In questi giorni sono riuscita ad avere la documentazione che il sindacato aveva raccolto e prodotto: mi rivolgerò ad un avvocato».
Cosa ti aspetti?
«Il riconoscimento ufficiale della malattia professionale. Vorrei che la morte di mio marito non si rivelasse vana. Desidero che gli operatori ai caselli possano avere garanzie reali di sicurezza sul lavoro. Non si può lavorare per morire, ma per vivere.
Qualche volta parli con tuo marito?
«Sì, spessissimo. Gli parlo delle nostre figlie».
Ti senti tosta?
«Sono caparbia, tenace, ostinata. Sono per la giustizia. Combatto per un mondo migliore. E non mi fermerò».
Da Facebook "Storie di famiglie vittime sul lavoro" il 19 novembre 2019. QUESTA È UNA STORIA DA BRIVIDI CHE FA ACCAPPONARE LA PELLE....È LA STORIA DI ANGELO BERNARDI.... È STATO IL PRIMO ESATTORE AUTOSTRADALE IN CUI L INAIL HA RICONOSCIUTO LA MALATTIA PROFESSIONALE DI UN TUMORE DOVE PER 21 ANNI HA RESPIRATO PIOMBO. LA MOGLIE OLTRE AD AVER AFFRONTATO LA BATTAGLIA PER IL RICONOSCIMENTO DELLA MALATTIA E POI IL DECESSO ,È RIMASTA SOLA CON DUE BAMBINE PICCOLE SENZA UN SOSTEGNO PSICOLOGICO E SENZA PIÙ UNO STIPENDIO ,LASCIATA SOLA AD AFFRONTARE IL DOLORE ,LA RABBIA E LA DISPERAZIONE DI UN INGIUSTIZIA COSÌ GRANDE CERCANDO DI RINVENTARSI UNA NUOVA VITA PER TUTELARE LE FIGLIE ALL EPOCA PICCOLE CHE FACEVANO 1000 DOMANDE . LA FAMIGLIA NONOSTANTE CI FOSSE IL REATO NN HA MAI OTTENUTO GIUSTIZIA NE PENALMENTE E NEANCHE I RISARCIMENTI CIVILI PERCHÉ IL SINDACATO CHE ALL' EPOCA LE DOVEVA TUTELARE ANCHE LEGALMENTE FECE SCADERE I TERMINI E L AVVOCATO SPARÌ NEL NULLA....OLTRE IL DANNO LA BEFFA DI CHI DOVREBBE STARE DALLA PARTE DEI LAVORATORI.
LA STORIA. Angelo lavorava come esattore al casello autostradale, tra quello di Rimini Nord e quello di Castel San Pietro (BO). Fu proprio lui a fare il primo turno alla prima stazione tutta telematica d’Italia. Poi nell’estate del 2002 cominciò a dire che non si sentiva più in forze. I primi di settembre la situazione precipitò: dolori alla gambe e poi alle braccia. Partirono i primi esami, alla fine di settembre la malattia, il ricovero in ospedale, dove rimase tutto il mese di ottobre, poi la diagnosi infausta. Si cominciò con la chemioterapia. Lui seppe tutto dall’inizio, ma non volevamo credere, soprattutto io, che fosse in fase terminale. Morì il 24 Febbraio 2003 all’età di 43 anni. In autostrada non si muore solo di incidenti stradali, i casellanti sono sottoposti ad alta concentrazione di polveri inquinanti.... idrocarburi aromatici benzene piombo polveri sottili ozono ossidi di carbonio di zolfo e di azoto sostanze di cui da molto tempo si conoscono gli effetti tossici cancerogeni e mutageni. ANGELO NN HA MAI AVUTO UN CONTROLLO SANITARIO PREVISTO DALLA LEGGE 626/94 D.LGS 81/08.NONOSTANTE CI FOSSE IL REATO NN ABBIAMO MAI OTTENUTO GIUSTIZIA NE PENALMENTE E NEANCHE I RISARCIMENTI CIVILI PERCHÉ IL SINDACATO CHE ALL' EPOCA CI DOVEVA TUTELARE ANCHE LEGALMENTE FECE SCADERE I TERMINI E L AVVOCATO SPARÌ NEL NULLA....La beffa prosegue anche quando una delle mie due figlie diventa grande e che per diritto gli doveva spettare il posto del PADRE ....ma il suo curriculum è da cinque anni sopra la scrivania del direttore che aspetta di essere almeno visto.
LA LETTERA. 29 settembre, 24 febbraio, 2 date! Ecco, queste sono le date in cui, la mia vita e la vita delle mie figlie, hanno cambiato il corso della nostra bella famiglia.....
29 settembre primo giorno di malattia di mio marito (inizio della fine..)
24 febbraio giorno della fine!. Decesso di mio marito. Il suo nome era Angelo.( che coincidenza...()
Da quel momento il buio color pece, dove nemmeno un filo di luce entra, ci avvolge! Il dolore, la sofferenza e la mancanza di lui ci "veste". È un "vestito" che diventa pesante ogni giorno di più! Io avevo perso mio marito, ma loro, le nostre bambine, 6 e 12 anni, avevano perso il loro papà!! Non avrebbero più pronunciato quella parola! Papà! Troppo presto per non dire più papà...il cuore mi si spezzava ogni volta che le guardavo, ma nello stesso momento, mi sentivo come un automa. Sembravo anestetizzata e paralizzata! Ero chiusa nel mio dolore. Non volevo affrontare questa nuova vita senza di lui. Ero incapace di capire cosa dovevo e potevo fare per alleviare, anche ,il dolore delle mie bambine. Il giorno del funerale, la mia primogenita di 12 anni mi disse:" mamma, ma io ora come mi chiamo? Papà non c'è più! Io porto il suo cognome!? " aveva avuta una crisi d'identità!!! Ho pianto disperatamente! Poi l'ho rassicurata dicendole che lei avrà sempre il cognome del papà, anzi di portarlo con orgoglio. Pensavo a come si fosse sentita, poi arriva la mia piccola 6 anni. Mamma mi disse:" ma io mi ricorderò di papà quando sarò grande??? Perchè sono piccola io? " altra coltellata al cuore!
La rassicuro dicendole : ma certo che ti ricorderà di papà! Mamma te ne parlerà sempre! Poi ricorderemo le cose che hai fatto assieme a lui!".. Questo, SOLO, Il primo giorno senza di lui. I giorni, proprio i giorni.....com'è era difficile affrontarli. mi alzavo la mattina e il mio primo pensiero era : "quando arriva stasera?.." difficilissimo andare avanti!....Mi ero inventata un modo per far passare "i giorni", la mattina mi dicevo: è andato al lavoro, poi torna...La sera, quando chiudevo la porta di casa, a chiave, ripetevo :" è andato a fare la notte, domani mattina torna..." Cosi passavano i giorni, poi le settimane, poi i mesi, ma il dolore cresceva ogni giorno di più...Poi decisi di scoprire se la sua morte, avesse a che fare con il lavoro. E dopo un anno dal suo decesso, ebbi la conferma che avevo ragione!!! Gli venne riconosciuta la malattia professionale! Soddisfatta e amareggiata, nello stesso tempo, dopo la notizia. Soddisfatta perché i miei dubbi erano fondati, amareggiata perché quel lavoro ,che tanto amava, lo aveva portato alla morte. NON SI PUO MORIRE PER LAVORARE!!!!! NO NON SI PUÒ!!invece succede! Succede sempre!!! Davanti a questa verità così terribile dobbiamo fare i conti noi famigliari che rimaniamo senza loro....inventarci un'altra vita, capire come vivere, saper accettare la perdita. Portarsi questo dolore e poi trasformarlo in nostalgia, affrontare la solitudine, rinunciare agli abbracci, le attenzioni, l'amore che ti dava la persona che non c'è più.... poi, e poi il nulla...in una parola sola il VUOTO! Il tempo, a volte, amico a volte crudele, riesce ad acquietare il dolore, ma non cancella... si trasforma...Sono passati più di 16 anni da quel giorno, ogni volta che c'è un momento speciale o una cerimonia, un compleanno, una festa, la nostalgia arriva ti prende sotto braccio e ti accompagna e ti ricorda cosa hai vissuto e cosa hai dovuto rinunciare e come ti sei inventata per non morire lentamente....Purtroppo la mia è una storia! Quante storie come la mia!??? Tante, troppe! Troppe storie vissute in solitudine e per niente sostenute e aiutate....Concludo dicendo IL LAVORO SERVE PER VIVERE, NON PER MORIRE...la moglie Antonia
Operaio colpito dall’elica di un silos: morto sul colpo. Debora Faravelli il 17/01/2020 su Notizie.it. Stava effettuando dei lavori di manutenzione ed è stato colpito dall'elica di un silos: così è morto un operaio di 52 anni. Ennesima tragedia consumatasi sul posto di lavoro, questa volta a Reggio Emilia. Un operaio è stato colpito dall’elica di un silos mentre stava lavorando alla cantina sociale di Massenzatico: inutile ogni tentativo di salvarlo.
Operaio colpito dall’elica di un silos. L’episodio si è verificato nel tardo pomeriggio di giovedì 16 gennaio 2020 presso l’impianto produttivo situato in via Beethoven specializzato nella produzione del vermentino. Sandro Santini, questo il nome della vittima, era impegnato a pulire una cisterna utilizzata per la fermentazione del lambrusco, in quel momento vuota e ferma. Ancora non è chiara l’esatta dinamica di ciò che è accaduto ma, secondo le prime ricostruzioni, sembrerebbe che mentre si trovava sul fondo una ventola l’avrebbe risucchiato all’interno. Qui una pala l’avrebbe colpito ed è probabilmente l’impatto violento ad essere stato fatale per lui. Essendosi accorto delle sue gravi condizioni, il nipote, collega di lavoro, ha immediatamente allertato i soccorsi. Giunti sul posto, non hanno però potuto fare nulla perché le lesioni riportate erano troppo gravi da aver causato il decesso di Sandro. Presenti sul luogo dell’incidente mortale anche i Carabinieri, i Vigili del fuoco e i medici del lavoro che ora dovranno ricostruire la dinamica dell’infortunio e stabilire eventuali responsabilità. La vicenda sarà anche oggetto di un’inchiesta di cui si occuperà il sostituto procuratore Iacopo Berardi.
Incidenti lavoro: Ancona, muore operaio colpito da pala bobcat. La Repubblica il 15 gennaio 2020. Un operaio è morto in un incidente sul lavoro nel cantiere del nuovo ospedale di Ancona Sud-Inrca, nel territorio di Camerano (Ancona). L'uomo, un 49enne di origini campane, è stato colpito alla testa dal braccio meccanico di un bobcat manovrato da un collega. Sono scattati i soccorsi, che però sono stati inutili: si era levata in volo anche l'eliambulanza, ma non c'è stato nulla da fare. La vittima si chiamava Pasquale Marigliano e viveva nella provincia di Napoli. Da quanto si è appreso, quella di stamattina sarebbe stata una tragica fatalità: l'operaio aveva il casco protettivo, che però non lo ha messo al riparo dall'improvviso e violento impatto con il braccio meccanico del bobcat, che lo ha colpito alla testa. Il manovratore della macchina, in evidente stato di choc, è stato ascoltato dai carabinieri, ai quali ha detto di non essersi accorto della presenza del collega: si tratta di un albanese di 29 anni, che al momento risulta l'unico indagato dal magistrato di turno. I militari, guidati dal maggiore Luigi Ciccarelli, hanno raccolto anche le testimonianze degli altri operai che, questa mattina, stavano lavorando all'interno del cantiere per il nuovo ospedale. I lavori all'interno del cantiere per la costruzione del nuovo Inrca sono stati interrotti in più occasioni per la burocrazia e per via del concordato preventivo presentato dall'azienda capofila che aveva vinto l'appalto.
Operaio morto nel tunnel del metrò: «Acqua di falda, poi il crollo». I sospetti sull’incidente M4 a Milano. Pubblicato mercoledì, 15 gennaio 2020 su Corriere.it da Cesare Giuzzi. Il sospetto è che il crollo del cunicolo che ha travolto l’operaio della M4 Raffaele Ielpo sia stato innescato da una infiltrazione d’acqua dalla falda acquifera. Nel punto, a meno diciotto metri, dove lunedì alle 18.35 si è verificato l’incidente, la falda si trova al di sopra del livello del tunnel della metropolitana. E proprio sul ruolo delle acque si sta concentrando l’attenzione degli investigatori, coordinati dal procuratore aggiunto Tiziana Siciliano, che indagano sull’infortunio mortale. Una infiltrazione sotterranea potrebbe spiegare il crollo improvviso - e senza segnali anticipatori - della porzione di soffitto di terra compatta che ha travolto l’operaio 42enne. Per averne la certezza però servirà l’esito della consulenza disposta dai pm e che verrà affidata a un ingegnere strutturista esperto di scavi e gallerie. Di certo, così hanno chiarito ai carabinieri della compagnia Porta Magenta i responsabili della azienda, non ci sono stati segnali preoccupanti nei giorni scorsi che avrebbero altrimenti fatto scattare misure di emergenza e la chiusura del cunicolo dove Ielpo stava effettuando alcune misurazioni «a piombo» delle pareti. Il 42enne indossava guanti, casco e scarpe antinfortunistiche. L’autopsia non è ancora stata eseguita ma è probabile che la morte sia dovuta ad una lesione interna. Ielpo si è liberato da solo dalle macerie e quando è stato soccorso dai colleghi era cosciente. Così come parlava e respirava all’arrivo del 118 e dei vigili del fuoco. Solo al momento del trasporto al San Carlo ha perso i sensi e il suo cuore, nonostante le manovre di rianimazione, non ha mai ripreso a battere. Ieri mattina i tecnici dell’Ats, esperti di infortuni sul lavoro, l’aggiunto Tiziana Siciliano e i carabinieri guidati dal maggiore Fabio Manzo e dal tenente Alfonso Sammaria, hanno effettuato un lungo sopralluogo nel cantiere. Il cunicolo (che sfocia in una locale sotterraneo di servizio) è stato sequestrato per consentire tutti gli accertamenti tecnici. Per realizzare questo tipo di tunnel, infatti, prima viene «iniettato» cemento, che poi viene scavato, e quindi scatta la fase del consolidamento: fase appena all’inizio. Con Ielpo in quel momento c’erano altri quattro colleghi che sono stati ascoltati dai carabinieri. Il filo a piombo usato dal 42enne era ancora appeso a una delle pareti. Al momento non ci sono indagati, ma non è esclusa nei prossimi giorni l’iscrizione dei responsabili tecnici e della sicurezza del «manufatto Tirana», quantomeno come atto dovuto in vista delle consulenze tecniche. «Non ci spieghiamo come si siano potuti staccare dei blocchi di queste dimensioni. Era uno cunicolo davvero breve tra lo scavo di piazza Tirana e la galleria. È veramente un tema che ci inquieta. Si è trattato di un evento chiaramente imprevedibile e imprevisto», le parole del presidente di M4 Fabio Terragni. «Apparentemente sembra una tragica fatalità. Quei massi cadono esattamente nel momento in cui c’era un tecnico a controllare, sembra incredibile però così è stato e Raffaele non c’è più», ha detto il sindaco Giuseppe Sala. «È devastante scoprire che si può morire anche lavorando per una committenza pubblica, a Milano, ad uno scavo per una nuova linea di metropolitana», la denuncia delle segreterie generali milanesi e della Lombardia di Fit Cgil, Fit Cisl e Uil Trasporti. Mentre oltre al Consiglio comunale di Milano, ha espresso cordoglio anche il Consiglio regionale della Basilicata. Perché Ielpo era originario di Lauria (Potenza). Il 42enne, dipendente di «Metro blu», era un operaio esperto caposquadra della «Tbm», la cosiddetta «talpa» che sta realizzando la M4. Ieri si sono fermati per lutto i cantieri dell’intera tratta della nuova metropolitana. Mentre nel pomeriggio gli operai hanno partecipato a una funzione religiosa in ricordo di Raffaele Ielpo al campo base di Buccinasco. Cgil, Cisl e Uil chiederanno a M4 e al Comune un «incontro urgente» e altre iniziative insieme ai lavoratori per «evitare che le dichiarazioni di queste ore restino parole al vento».
Operaio muore schiacciato nello stabilimento Sevel di Atessa. L'incidente durante la manutenzione degli impianti nella fabbrica a produzione ferma. Cristian Terilli, 29 anni da compiere, di Pignataro Interamna (Frosinone), è la prima vittima sul lavoro dell'anno. Lavorava per una ditta esterna. La rabbia dei sindacati, il cordoglio di Fca. La Repubblica il 03 gennaio 2020. Ennesima tragedia nel mondo del lavoro. Inizia male il 2020, così come si era chiuso il 2019, con un altro incidente mortale stavolta nella fabbrica abruzzese della Sevel in Val di Sangro. Un operaio di quasi 29 anni, Cristian Terilli, di Pignataro Interamna (Frosinone) è morto nella fabbrica di Atessa. Era dipendente di una ditta esterna dell'ex gruppo Fiat, impiegata per la manutenzione degli stabilimenti. L'uomo è stato schiacciato da un supporto di ferro dell'impianto robotico cadutogli addosso mentre stava sostituendo un tirante a un discensore. Inutili i soccorsi del 118 che ha inviato anche l'elisoccorso. L'incidente è avvenuto dopo mezzogiorno nel reparto lastratura della fabbrica abruzzese, la cui area è stata transennata e posta sotto sequestro dal pm Serena Rossi. Sul posto per le indagini i carabinieri di Atessa. In questi giorni la Sevel è chiusa per le ferie natalizie, ma erano in corso lavori di manutenzione alle linee di produzione. "Fca esprime profondo cordoglio e vicinanza alla famiglia per la tragica scomparsa. - si legge in una nota - L'azienda, per quanto di sua competenza, sta collaborando attivamente con le autorità competenti che stanno compiendo gli accertamenti sulle cause dell'incidente drammatico ed eccezionale". Cordoglio e indignazione dai sindacati. "Ancora un morto sul lavoro, un giovane lavoratore, che mentre la produzione è ferma era in fabbrica per la manutenzione degli impianti", fa sapere la Fiom esprimendo solidarietà alla famiglia del lavoratore. "Non è possibile continuare a contare giorno dopo giorno vittime sui luoghi di lavoro, i lavoratori e le lavoratrici non possono vivere con l'incubo di non ritornare a casa. Le aziende che non investono sulla sicurezza andrebbero penalizzate seriamente. Abbiamo chiesto subito un incontro urgente alla Direzione di Fca per capire come sia potuto accadere un incidente cosi drammatico. Resta però una piaga che dalle Alpi alla Sicilia sta investendo in modo trasversale tutti i settori, dal metalmeccanico a quello edile passando per i trasporti e la logistica", commenta il Coordinatore Fim Cisl del settore automotive, Raffaele Apetino. "Bisogna lavorare tutti nella stessa direzione ed è necessario un controllo capillare e preventivo sulla sicurezza nelle aziende. - conclude Apetino - Non servono slogan ad effetto ma interventi mirati alla vera prevenzione per non scrivere ogni giorno un nuovo necrologio". Stesso appello lanciato dalla Fiom: "Il nuovo anno comincia come si è chiuso: è inaccettabile che i lavoratori rischiano infortuni o addirittura perdano la vita. C'è una responsabilità di prevenzione e controllo delle imprese e delle istituzioni pubbliche. È necessario intervenire con urgenza".
Chieti, 29enne schiacciato da un blocco di ferro: primo morto sul lavoro del 2020. Pubblicato venerdì, 03 gennaio 2020 su Corriere.it da Antonio Mariozzi. Cristian Perilli Incidente mortale stamani (venerdì) alla Sevel di Atessa (Chieti) dove ha perso la vita Cristian Perilli, 29 anni, di Pignataro Interamna (Frosinone), operaio assunto da Sinergia addetto alla manutenzione degli impianti che è rimasto improvvisamente schiacciato da un supporto di ferro dell’impianto robotico cadutogli addosso. Si tratta della prima «morte bianca» del 2020. Inutili i soccorsi del 18 che ha inviato anche l’elisoccorso. L’incidente è avvenuto dopo mezzogiorno nel reparto «lastratura», la cui area è stata transennata e posta sotto sequestro dal pm Serena Rossi. Sul posto per le indagini i carabinieri di Atessa. Sinergia lavorava alla Sevel su commessa della società Comau, gruppo Fca, che si occupa impiantistica tecnologica e robotica. In questi giorni la Sevel è chiusa per le ferie natalizie ed erano in corso lavori di manutenzione alle linee di produzione. «Ancora un morto sul lavoro, un giovane lavoratore, che mentre la produzione è ferma era in fabbrica per la manutenzione degli impianti. La Fiom esprime solidarietà alla famiglia del lavoratore. La Fiom ha già chiesto un incontro con la presenza dei Rappresentanti dei Lavoratori per la Salute e la Sicurezza per ricevere tutte le informazioni’’, lo scrivono il segretario generale Fiom Chieti Alfredo Fegatelli e il segretario Fiom nazionale Michele De Palma. Per i metalmeccanici Cgil, «il nuovo anno comincia come si è chiuso: è inaccettabile che i lavoratori rischiano infortuni o addirittura perdano la vita. C’è una responsabilità di prevenzione e controllo delle imprese e delle istituzioni pubbliche. È necessario intervenire con urgenza! La Fiom seguirà a tutti i livelli quanto accaduto, per intervenire sulle cause e per impedire che i lavoratori rischino la propria incolumità». C’è anche una nota di FCA che esprime «profondo cordoglio e vicinanza alla famiglia per la tragica scomparsa di Christian Terilli, dipendente della ditta Sinergia, deceduto questa mattina nello stabilimento della Sevel di Atessa durante un intervento di manutenzione per conto della Comau, società del Gruppo FCA. L’azienda, per quanto di sua competenza, sta collaborando attivamente con le autorità competenti che stanno compiendo gli accertamenti sulle cause dell’incidente drammatico ed eccezionale». «Aveva appena 29 anni il giovane morto sul lavoro ad Atessa in Abruzzo. Tutta la nostra vicinanza alla sua famiglia. Orribile iniziare l’anno con nuove vittime sul lavoro. Una strage continua che dobbiamo tutti fermare. La sicurezza deve diventare la nostra priorità anche nel 2020». Lo scrive su twitter la segretaria generale della Cisl, Annamaria Furlan, dopo l’incidente mortale di questa mattina alla Sevel di Atessa (Chieti). «Come Uilm manifestiamo tutto il nostro dolore e la nostra rabbia per la morte di questo ragazzo, di questo lavoratore che oggi purtroppo non tornerà a casa». Lo dichiara in una nota Rocco Palombella, Segretario Generale Uilm: «Oltre al dolore che ci unisce alla famiglia - prosegue - la morte di questo lavoratore ci deve ricordare che la sicurezza sui luoghi di lavoro è un diritto irrinunciabile che ogni dipendente deve pretendere tutti i giorni e in ogni circostanza». «Noi della Uilm sosteniamo che la sicurezza sul lavoro sia una questione di cultura mentale dove il datore di lavoro in simbiosi con il lavoratore possono fare in modo che queste cose non possano più accadere», conclude ricordando come «con la formazione congiunta tra Rspp e Rls possiamo sensibilizzare tutti».
Morti sul lavoro, in undici mesi del 2019 quasi mille vittime. I dati dell'Inail segnalano un lieve calo rispetto al 2018 che però fu un anno tragico per gli incidenti plurimi. In aumento le patologie professionali. La Repubblica il 03 Gennaio 2020. L'incidente mortale verificatosi oggi alla Sevel di Atessa è solo l'ultimo di una serie, lunghissima, di decessi sul lavoro. Tra gennaio e novembre del 2019 le morti hanno sfiorato soglia 1.000: dietro il gelo dei numeri vuol dire drammaticamente che 997 persone sono morte mentre svolgevano il loro lavoro, mentre 590 mila sono state nello stesso periodo le denunce di infortunio presentate all'Inail. In entrambi i casi l'Istituto evidenzia un calo rispetto allo stesso periodo del 2018, dello 0,2% per gli infortuni, e del 4,7% per gli incidenti mortali. "E' una strage e dobbiamo tutti fermarla - afferma la segretaria generale della Cisl, Annamaria Furlan - . La sicurezza deve diventare la nostra priorità anche nel 2020". Anche perché, in controtendenza rispetto agli infortuni, ad aumentare sono le patologie di origine professionale denunciate, che sono state 56.556, il 2,7% in più rispetto ai primi undici mesi del 2018. Più in dettaglio, le denunce di infortunio presentate all'Inail entro il mese di novembre sono state 590.679, 1.299 in meno rispetto alle 591.978 dei primi 11 mesi del 2018 (-0,2%). I dati rilevati al 30 novembre di ciascun anno evidenziano a livello nazionale un incremento solo dei casi avvenuti "in itinere", nel tragitto di andata e ritorno tra l'abitazione e il luogo di lavoro, che sono passati da 90.409 a 92.225 (+2,0%), mentre quelli "in occasione di lavoro" sono scesi da 501.569 a 498.454 (-0,6%). Dall'analisi per classi di età emergono aumenti tra gli under 30 (+2,3%) e tra i 55 e 69 anni (+2,3%). In calo del 2,3%, invece, le denunce dei lavoratori della fascia 30-54 anni, nella quale rientra oltre la metà dei casi registrati. Le denunce di infortunio mortale sono state 997, ossia 49 in meno rispetto alle 1.046 dei primi 11 mesi del 2018. La flessione, sottolinea l'Inail, "non è da ritenere però rassicurante", in quanto legata soprattutto agli "incidenti plurimi", quelli che causano la morte di almeno due lavoratori e che per loro natura ed entità possono influenzare l'andamento del fenomeno: in questo contesto, il 2018 fu un anno davvero tragico perché tra gennaio e novembre, ricorda l'Istituto, gli incidenti plurimi erano stati 23 ed avevano causato 80 vittime - I casi più eclatanti furono i due incidenti stradali in Puglia, a Lesina e Foggia, in cui persero la vita 16 braccianti, e il crollo del ponte Morandi a Genova, con 15 casi mortali denunciati - quasi il doppio dei 44 lavoratori che hanno perso la vita nei 19 incidenti plurimi avvenuti nei primi 11 mesi del 2019. Le denunce di malattia professionale protocollate dall'Inail sempre negli 11 mesi del 2019 sono state 56.556, 1.504 in più rispetto allo stesso periodo del 2018 (+2,7%). Le patologie del sistema osteo-muscolare e del tessuto connettivo (34.971 casi), del sistema nervoso (6.095, con una prevalenza della sindrome del tunnel carpale) e dell'orecchio (3.942) continuano a rappresentare le prime tre malattie professionali denunciate, seguite da quelle del sistema respiratorio (2.559) e dai tumori (2.244).
· Morire di Povertà.
La tragedia di Karim, che cercava vestiti in strada: ucciso dalla povertà. Pubblicato giovedì, 21 maggio 2020 su Corriere.it da Pietro Tosca. È successo così anche martedì sera, nel parcheggio di via Monte Grappa, dove, tolte le ciabatte, Karim si è issato su una pigna di sacchetti di abiti per raggiungere la parte alta del cassonetto, dove poi è rimasto incastrato dal basculante. L’orario è ancora in corso di accertamento da parte dei carabinieri di Zingonia. Il bambino è stato trovato poco dopo le otto da una passante, quando già non reagiva più. La difficile situazione famigliare di Karim era nota. Secondo di cinque fratelli, il più grande ha 11 anni, il più piccolo 2, viveva in una casa comunale con la mamma italiana, mentre il papà della Costa d’Avorio va avanti e indietro dal Paese d’origine. Non si può dire che mancasse l’affetto in famiglia, ma con forti problemi. «Dal 2013 la famiglia è seguita dal Tribunale per i minorenni di Brescia — spiega l’assessore ai Servizi sociali Cinzia Begnardi — che non ha mai disposto l’allontanamento dei bambini ma sempre un sostegno alla genitorialità. In questa direzione si sono mossi tutti i nostri interventi». «È un momento terribile per la nostra comunità — aggiunge il sindaco Osvaldo Palazzini — ma mi sento di dover dire che è stato fatto quanto era possibile. Seguivamo le disposizioni del Tribunale. C’era un’udienza fissata a fine maggio e spostata poi a ottobre. Noi abbiamo dato la casa e tutte le agevolazioni e contributi di cui disponiamo. Spesso la polizia locale e gli assistenti sociali bussavano alla porta ma era difficile farsi aprire. Solo lo scorso ottobre siamo riusciti a incontrarli e avviare un dialogo». I vicini di casa raccontano però una situazione più complessa. La famiglia vive in un bilocale al pianterreno di un condominio alle spalle del municipio. L’entrata dell’appartamento è quasi ostruita da vecchi televisori sfondati, borse piene di chissà che cosa e tante biciclettine. Spunta anche una scarpa da bimbo spaiata. «Da anni segnalavamo i problemi — spiega un residente al primo piano —. L’amministratrice di condominio più volte ha presentato esposti, l’ultimo settimana scorsa». «Quei bambini erano sempre in giro da soli — aggiunge la moglie —. Temevamo che prima o poi succedesse qualcosa». «Non era tanto la situazione economica precaria – racconta il curato di Boltiere don Luca Conti – ma quella educativa. Karim veniva all’oratorio e d’estate i Servizi sociali lo avevano iscritto al Cre. Era un bambino allegro, talvolta risentiva della fatica della condizione famigliare, ma non era certo problematico. In un anno e mezzo non si è mai riusciti a incontrare i genitori. La parrocchia e il centro di primo ascolto della Caritas li aiutano ma non è facile per la loro chiusura». Nella scuola Karim trovava un’oasi di felicità. Ieri alla primaria Bruno Munari, dove frequentava la quinta A, è stato un momento difficile. Esprime cordoglio il dirigente Gaetano Marciano. «Per qualche giorno — dice — abbiamo sospeso la didattica on line. Cercheremo di stringerci intorno alla famiglia». Anche insegnanti e personale Asa hanno voluto ricordare Karim: «Lo abbiamo conosciuto come un bambino vivace, curioso, e capace di gesti di affetto. Affrontava le difficoltà di ogni giorno con i suoi grandi occhioni scuri e un sorriso disarmante». Nel primo pomeriggio la sua classe ha tenuto una videoconferenza con gli insegnanti. «Abbiamo cercato di capire che lezione ci ha lasciato — spiega l’insegnante Maria Luisa Faleschini —. Karim aveva voglia di giocare con tutti e soprattutto c’era il suo sorriso aperto e grato per le piccole cose che insegnava cosa era la felicità. Sorrideva perché riusciva a completare un esercizio o perché qualcuno gli faceva dono di una penna. Passava la giornata con le forbici e la colla in mano ritagliando fogli che diventavano anelli o braccialetti o semplici biglietti con scritto sopra “ti voglio bene” e poi ce li regalava». La salma di Karim è alla camera mortuaria del Papa Giovanni. Lunedì sarà effettuata l’autopsia. La mamma e i fratelli sono stati trasferiti in una comunità protetta mentre solo nel pomeriggio si è riusciti a contattare il padre, bloccato in Costa d’Avorio. Sull’accaduto il pm Emanuele Marchisio ha aperto un fascicolo contro ignoti. L’ipotesi di reato è di omicidio colposo. Il cassonetto della Caritas è sotto sequestro: sarà sottoposto a perizia.
· La Povertà e la presa per il culo del reddito di cittadinanza.
Oltre 4 milioni di italiani assistiti: ma i più poveri restano fuori dai radar. Marco Ruffolo su L'Espresso il 2 novembre 2020. Tra reddito di "cittadinanza" e di "emergenza" cresce il numero delle famiglie che ricevono sussidi ma, per paradosso, non riescono a intercettare le famiglie numerose e più in difficoltà. Settecentomila persone in più nel corso del 2020 possono contare sul Reddito di cittadinanza: ora sono 3,4 milioni, con un aumento dell'importo per i capifamiglia da 489 a 535 euro mensili. Altri 700 mila individui, che la crisi pandemica ha trascinato in una condizione di estremo bisogno, sono aiutati dai 558 euro al mese che lo Stato elargisce in media alle loro famiglie come Reddito di emergenza. Due stampelle sociali contro la povertà, che saranno anche poca cosa rispet...
Lavoro: 2,5 milioni di disoccupati, ma le aziende non trovano personale. Cosa non funziona? DATAROOM 6 dicembre 2020. Milena Gabanelli e Rita Querzè su Il Corriere della Sera. Dall’inizio della crisi l’Italia ha perso 420 mila posti di lavoro. Ma il difficile verrà a marzo, quando sarà tolto il blocco dei licenziamenti: si stima fra i 250/300 mila nuovi disoccupati che si aggiungeranno ai poco meno di 2,5 milioni di oggi. Tutto questo non farà che aumentare le persone che hanno diritto a sussidi. A giugno incassavano la disoccupazione (Naspi) 1,3 milioni di persone, altrettanti sono quelli in grado di lavorare che prendono il reddito di cittadinanza. A pagare sono i 23 milioni di occupati. Una platea troppo ristretta, pari soltanto al 58,2% della popolazione attiva. E questo perché oltre ai disoccupati ci sono anche 13,5 milioni di inattivi e scoraggiati, soprattutto giovani che non cercano un posto convinti di non trovarlo. Un quadro che rende l’Italia particolarmente vulnerabile poiché già prima della crisi la disoccupazione sfiorava il 10%. Nell’attesa che si intervenga a monte, con investimenti che creano nuovi posti, bisogna potenziare le politiche per il lavoro: l’Italia spende l’1,53% del Pil contro il 2,15 della Spagna e il 2,66 della Francia. Occorre cioè fare incontrare chi è disoccupato con il lavoro che c’è. Troppo spesso non succede. La Euroedile srl di Treviso vorrebbe assumere operai specializzati nella costruzione di ponteggi, da due anni ne cerca una ventina ma non li trova. Aerea, vicino a Como, anche adesso in piena pandemia sta cercando giovani ingegneri ma senza successo. Nella provincia di Reggio Emilia in questo momento mancano all’appello 166 operai richiesti dalle aziende meccaniche, ma anche 84 autisti, 62 muratori, 18 ingegneri. Unioncamere ha appena reso note le richieste di impiego dei prossimi tre mesi a partire da dicembre 2020: 729.000 unità (di cui 191 mila solo a dicembre), dai dirigenti ai tecnici, dagli impiegati fino agli addetti alle pulizie. Ebbene, il 33% (240 mila persone) non si trova.
Come funziona un portale efficiente. Il portale che doveva incrociare la domanda di lavoro con l’offerta doveva crearlo il presidente dell’Anpal Domenico Parisi, portando in Italia il miracoloso software del Mississipi, lo Stato Usa dove insegnava. Non è stato fatto nulla. Sullo stesso terreno sono falliti a partire dagli anni ’90 diversi progetti, dal Sil, il sistema informativo lavoro, alla Borsa lavoro. Non è un’ambizione velleitaria, altri Stati ce l’hanno. Se andiamo sul portale nazionale cliclavoro non ci sono offerte da consultare. Su quello francese (pole-emploi.fr) invece ieri ce n’erano 619.605. Basta mettere la propria qualifica (venditore, badante…), la provincia in cui si cerca un impiego. Per fare qualcosa di simile a casa nostra, oltre a riunire su un unico portale le offerte dei principali motori di ricerca privati, le Regioni dovrebbero smettere di tenere per sé le banche dati, ma condividerle, e poi collaborare seriamente con l’Agenzia nazionale per le politiche attive (Anpal).
La politica dei sussidi e incentivi. Fino a oggi le politiche del lavoro si sono fatte semplicemente dando soldi. Soldi ai disoccupati per arrivare a fine mese (si chiamano «politiche passive» e da sole fanno il 75% di tutta la spesa), oppure soldi alle imprese sotto forma di incentivi per assumere. Una strada che non risolve niente, perché non puoi erogarli per sempre, e togliere gli incentivi è come sospendere la tachipirina a chi ha l’influenza: poi la febbre ritorna. Per gli incentivi all’impiego in Italia sono Stati mobilitati 4,3 miliardi nel 2018 in Italia contro 0,8 in Germania, 0,7 in Francia e 1 in Spagna. In compenso spendiamo pochissimo in servizi per aiutare i disoccupati a trovare un altro posto di lavoro. Un passo avanti è stato fatto nel 2015 con l’introduzione del cosiddetto «assegno di ricollocazione»: una dote ai centri per l’impiego da 500 fino a 5000 euro per ogni disoccupato, a seconda della difficoltà di ciascuno a farsi assumere. Collocare chi perde il lavoro a 50 anni, per esempio, richiede più ricerca e impegno. Peccato che poi il governo Renzi non lo abbia finanziato. Ci ha pensato il governo gialloverde con 350 milioni di euro, ma ha circoscritto l’assegno ai soli percettori del reddito di cittadinanza in grado di lavorare: 1.369.779 persone. Questo sulla carta. Perché nella pratica il servizio è stato fornito solo a 429 persone. Uno dei motivi? I centri per l’impiego non sono dotati di personale sufficiente e adeguatamente formato.
Come si aiuta chi cerca lavoro. Per fare funzionare l’assegno di ricollocazione è necessario quindi riqualificarli: oggi nei centri per l’impiego pubblici si registrano solo le pratiche. Ad aiutare chi cerca lavoro a compilare un curriculum o a metterlo in contatto con le aziende non basta la scorciatoia dei navigator, assunti a termine da Anpal servizi, e che a fine aprile 2021 saranno essi stessi senza lavoro. Servono i concorsi delle Regioni, visto che la competenza è loro. Nel lavoro di assistenza ai disoccupati è necessario coinvolgere anche le agenzie private, studiando un sistema di compensazione proporzionato al reale lavoro svolto e favorendo il loro insediamento al Sud. Anpal dovrà coordinare la misura con le Regioni che già la hanno introdotta: Lombardia e Veneto. E applicare la legge dove dice che se le Regioni non garantiscono i servizi di ricollocazione ai cittadini subentra lo Stato, commissariando i centri per l’impiego inadempienti. Infine lo strumento della ricollocazione deve tornare ad includere la grande platea dei disoccupati, e sarebbe ragionevole garantire questi servizi su base volontaria anche a chi è in cassa integrazione straordinaria e alle donne che vogliono tornare al lavoro dopo avere curato i figli.
Smettere di fabbricare i disoccupati di domani. Quando a un disoccupato mancano le competenze che il mercato richiede, la formazione fa la differenza. Oggi in Italia per tutta la formazione professionale (giovani, senior, disoccupati e lavoratori) nel 2018 abbiamo speso, grazie anche ai fondi Ue, 1,9 miliardi, contro i 5,9 sia di Francia e Germania. Se consideriamo soltanto la formazione per i disoccupati, in Italia ne facciamo poca: sul piatto circa 300 milioni di euro. La competenza è delle Regioni che decidono quali corsi bandire e quali organizzazioni accreditare. La programmazione dei corsi non è legata ai reali bisogni delle imprese, ma nella maggior parte dei casi si tratta di generiche lezioni di informatica o di inglese, dalle quali si esce con un attestato di frequenza che non serve a niente. Per cambiare verso bisogna preparare ciò che il territorio chiede: addetti delle rsa, alla produzione di beni e servizi, o autisti. Personale specializzato, insomma. Con tanto di esame e certificazione delle competenze alla fine del corso. La programmazione sull’offerta formativa professionale è fatta dal Ministero dell’Università e dell’Istruzione insieme con le Regioni. Ma non viene costruita in considerazione della domanda di lavoro. E così molti ragazzi si diplomano in settori che «non tirano» o con conoscenze già superate. Sono i disoccupati di domani. Questo accade perché contano solo le specializzazioni che scuole e università sono in grado di offrire in questa o quella Regione. L’altra faccia della medaglia: gli Istituti tecnici superiori (Its) sfornano ogni anno meno di 4000 diplomati, mentre le imprese ne assorbirebbero almeno 20.000. Nei prossimi anni usciranno dalla scuola 85.300 giovani con qualifiche professionali contro i 155.700 richiesti. Chi si occupa di «demografia professionale» dieci anni fa sapeva che oggi non avremmo avuto medici e infermieri a sufficienza, ma non è stato ascoltato. E ora raccogliamo i risultati. Per investire nelle politiche per il lavoro oggi i soldi ci sono. Il governo nella legge di Bilancio ha stanziato 500 milioni di euro per le cosiddette politiche attive. Nelle intenzioni dell’esecutivo almeno altri tre miliardi in tre anni arriveranno dal Recovery Fund. Non si è ancora capito, però, come tutti questi soldi saranno spesi. Per cambiare direzione va messa in piedi una riforma dove lo Stato programma, e il territorio eroga i sussidi, sulla base di piani nazionali e regionali coordinati e mirati a trovare lavoro. Non si improvvisa, richiede due-tre anni per farla funzionare, significa avere una visione di Paese che non si fermi alla scadenza delle prossime elezioni.
Pane, pasta, pizza e polenta: le quattro P che mangiano la povertà. Eugenio Furia su Il Quotidiano del Sud il 25 ottobre 2020. UN POKER di sapori che ha permesso all’Italia di rialzarsi nel dopoguerra. Pane, pasta, pizza e polenta sono le 4 P che mangiano la quinta: la povertà. Nella Giornata mondiale della pasta, dedicata al piatto simbolo della Dieta Mediterranea, è giusto rendere un riconoscente tributo ai pilastri della nostra alimentazione. Un solo giorno di festa è davvero troppo poco se si pensa, da ultimo, alla primavera del nostro lockdown in cui ogni tinello si era trasformato in una micro-produzione a ciclo continuo di prodotti da forno: sugli scaffali della grande distribuzione, il lievito si è rivelato più introvabile dei Nutella Biscuits, fenomeno assoluto dell’anno prima. Perché i capisaldi della cucina povera o comunque casalinga sono, tanto più nei momenti critici come quello che abbiamo vissuto e stiamo purtroppo tornando a vivere, un “bene rifugio”: un porto in cui ripararsi.
Se stravolgiamo in via eccezionale l’ordine alfabetico, è solo per onorare la Giornata della pasta, appunto: le vendite nel settore sono aumentate del 25% dall’inizio dell’emergenza, cresce l’export ma anche in Italia i consumi segnano un +30%. Il comparto della pasta conta in Italia 112 aziende che impiegano 10.300 dipendenti. Accanto ai distretti di Gragnano e Puglia, negli anni si stanno consolidando i prodotti a marchio (la cosiddetta private label dei grandi gruppi della Gdo) spesso prodotti dalle stesse aziende leader, ma continua a resistere, parallelamente, la rete dei pastifici artigianali. Quello della pasta è un mondo caleidoscopico, fatto di vari formati (in lockdown colpì l’irreperibilità delle pennette e i consumatori si divisero tra filo-rigate e filo-lisce…). In principio fu la spaghettata di “Miseria e nobiltà”, poi passando dal “maccherone” di Alberto Sordi («io me te magno!») l’elemento principe della tavola italiana ha consolidato un posto primario nell’immaginario letterario e artistico: Francesco Merlo di recente ha ricordato una frase di Prezzolini, secondo cui “addentare gli spaghetti è meglio che leggere Dante”. Perché il formato che connota un Paese intero è proprio quello: pare che la parola spaghetti sia apparsa per la prima volta nel 1824, in una poesia di Antonio Viviani dal titolo “Li maccheroni di Napoli”. Dopo quasi due secoli e svariate rivisitazioni della pasta lunga – dalle linguine al pesto di Genova ai bucatini all’Amatriciana –, le tavole d’Italia, tra casa e ristorante, sono un tripudio di gusti identitari che uniscono un Paese grazie ai fornelli e ai sughi: dai canederli (gnocchi di pane) trentini alla Norma siciliana passando per i tortellini di Bologna e le varie versioni di lasagne, cannelloni e pasticci, senza dimenticare i livelli di qualità altissimi raggiunti negli ultimi anni dalle paste gluten-free, prodotte ormai anche dai grandi marchi con risultati invidiabili e numeri anch’essi in crescita esponenziale. La lingua italiana omaggia la pasta da ben prima che fosse istituita la Giornata a tema: «Come il cacio sui maccheroni» è la situazione ideale non solo in senso figurato. E poi c’è la cottura. Gli italiani si dividono tra i fautori della cottura al dente – pare più salutare, ma qui si va nello stesso campo minato del filetto più o meno al sangue – e chi la preferisce ai limiti dello scotto: l’importante è tenersi lontani dalle aberrazioni dei Paesi anglosassoni dove si racconta che la pasta si cala nell’acqua fredda, con esiti prevedibili (una pappa informe e lattiginosa). Una cottura sbagliata è per antonomasia una situazione da evitare, il timing sbagliato del fuori-tempo-massimo, diciamo il contrario del “cacio sui maccheroni”, ecco. “Quella partita fu come una cena con la pasta scotta e la carne dura, ma una magnifica, buonissima torta alla fine” per citare una definizione del compianto Gianni Mura, decano del giornalismo sportivo e gastronomico, su Italia-Germania 4-3. La frittata di pasta è un piatto cult che anticipa la scuola di pensiero del non-si-butta-via-niente, e persino il termine pastiera deriva dal campano «pasta di ieri»: prima di introdurre nella ricetta il grano, infatti, si usava la pasta del giorno prima.
E il pane? Visto che il cibo è letteratura e storia, basti dire che «il miglior modo per conoscere un territorio è introitarne il suo cibo o, ancor meglio, mangiare il territorio» (Italo Calvino, “Sotto il sole giaguaro”) e in particolare – ammoniva Karl Marx – «non si conosce un Paese se non si è mangiato il suo pane o bevuto il suo vino». Mario Soldati si spingeva ancora oltre: “Un popolo lo si conosce se si frequenta le sue cucine”. Proprio con il pane gli italiani hanno da sempre un rapporto di assoluto rispetto, ben lontano dalle moderne esagerazioni salutiste dei no-carb: «Carmina non dant panem», ammonivano i più prosastici dei latini anticipando di un paio di millenni il Tremonti del motto (poi rinnegato) “con la cultura non si mangia”. E il binomio panem et circenses continua a essere usato per demolire la demagogia: da un lato l’utile, dall’altro il dilettevole. Il pane è sacro. Betlemme in lingua ebraica significa “città dei pani”, e al di là del rito dell’ostia basti qui ricordare che Bergoglio – il primo papa a non avere un cuoco personale e a mangiare in mensa – oggi alterna riso e pasta in bianco ma a Buenos Aires amava mangiare empanadas: fagottini di pasta ripieni di carne. E rieccoci tornati alla pasta, non a caso il primo piatto… Il pane è la base rassicurante della Nutella morettiana, la fetta con la marmellata preparata e messa vicino al letto dei suoi bimbi da Sylvia Plath poco prima che si suicidasse mettendo la testa nel forno (nemesi), la “prosaica solidità” che (di nuovo Calvino) “può dare alla luce la creatività. La fantasia è come marmellata; deve essere spalmata su una solida fetta di pane. Altrimenti resta una cosa informe… della quale non ci si può fare nulla”. Se la pasta è il primo, il pane è proprio la vita, la salvezza durante i razionamenti della guerra, il bene di prima necessità: «Durante la Grande Depressione del ’29 in Central Park i piccioni portavano le briciole di pane ai passanti» (battuta di Groucho Marx).
Lo spazio di questo articolo sta finendo e sono rimaste ancora due P (è colpa del forno: sembrava di sentire gli odori). In linea con lo spirito di questa testata prim’ancora che con l’ordine alfabetico, rimaniamo in ambito gastro-letterario con Matilde Serao che chiamava la pizza «il pronto soccorso dello stomaco». Non tanto la pizza in sé, ma «l’arte dei pizzaioli napoletani» è da tre anni patrimonio immateriale Unesco. Il termine “pizza” compare per la prima volta in un manoscritto del 997 d.C. conservato nella cattedrale di Gaeta: mille anni dopo, in Italia ogni giorno vengono sfornate 8 milioni di pizze da 105mila pizzaioli, 200mila nei weekend (dati Cna 2018): con il lockdown, sono cifre di sicuro da rivedere, e adesso si attende un ulteriore crollo con la chiusura a mezzanotte. Un danno per la scrocchiarella romana, la napoletana (la leggenda sulla Regina Margherita è tanto nota che non serve neanche citarla), adorabile fritta, la pinsa, la pizza al taglio, in pala… A Brooklyn c’è persino un Museo della Pizza (MoPi).
Un bene da musealizzare sarebbe anche la polenta: il disco di farina di mais è una diade con gli osei (cacciagione) al nord, ma i non polentoni – appunto – non lo disdegnano abbinato a salsiccia, funghi, baccalà. Il trionfo dell’italico meltin’ pot, che infatti significa pentolone: dove tutto si mescola per moltiplicare il gusto, più che imbastardirlo.
"I poveri" di Vollmann un pugno nello stomaco. Inchiesta, autobiografia e storie da tutto il mondo in un libro feroce, che distrugge i luoghi comuni. Alessandro Gnocchi, Domenica 25/10/2020 il Giornale. Lo scrittore William Vollmann ha già cercato di salvare il mondo alcune volte, non solo a parole, con i fatti, che includono il farsi sparare addosso in Bosnia e arruolarsi con i mujaheddin per liberare l'Afghanistan dall'Armata rossa. Ossessionato dalla violenza, Vollmann l'ha ritratta con tutti gli strumenti che aveva a disposizione, dalla narrativa (Europe Central, Mondadori) al giornalismo, fino al capolavoro Come un'onda che sale e che scende (Mondadori) che è un trattato medievale sotto mentite spoglie, un bestiario, dove non c'è soluzione di continuità tra il racconto, autobiografico o meno, e il saggio. Non c'è perché non può esserci. Vollmann riconosce i limiti connaturati alla testimonianza o alla narrativa, non importa quanto realistica. Raccontare non basta. Bisogna anche sezionare l'argomento, spiegare, interrogarsi e interrogare il lettore. Fino a costringersi e costringere a riconsiderare tutto: anche così si salva il mondo, se non altro dalla banalità. I poveri (minimum fax, pagg. 384 più tavole fotografiche, euro 19; la prima edizione americana è del 2007) segue questa falsariga, quindi troverete, tra le sue pagine, narrativa (non fiction, però), saggistica e autobiografia. Vollmann si aggira per le periferie del mondo, partendo dalla Thailandia e arrivando al parcheggio sotto il suo ufficio, a Sacramento, negli Usa. Nel mezzo raccoglie le storie dei poveri. A Klong Toey, un distretto di Bangkok, incontra Sunee, alcolizzata, donna delle pulizie, convinta di essere condannata alla povertà dal karma: lei ha quello che ha donato nella vita precedente, cioè nulla. Il pescatore di tonni in Yemen, senza un quattrino, rifiuta l'etichetta di povero: è felice, anche se un occidentale definirebbe la sua vita come privazione. Natalia, barbona di San Pietroburgo, è convinta di essere una vittima delle circostanze, una malattia le ha tolto tutto. Si accumulano scoperte: la povertà è relativa e non assoluta; il marxismo spiega poco; il mercato è una ideologia come le altre, solo meno dannosa; il peso della religione è ancora enorme; quando si descrive la miseria, il paternalismo è sempre in agguato, anche nei volumi sinceri come Sia lode ora a uomini di fama di James Agee e Walker Evans; la falsa coscienza non risparmia nessuno, né il borghese in cerca di emozioni nei rioni lerci di Hanoi, né chi in quei rioni ci vive. Céline tagliava corto: i poveri «si odiano gli uni gli altri, tanto basta». I poveri è quanto di più celiniano leggerete quest'anno, scritto da un autore che, intelligentemente, neppure prova a imitare Louis-Ferdinand. Vollmann è un piccolo borghese, non un semi-straccione come Céline, quindi non può chiudere la discussione in poche parole: deve prima affrontare la sua (e la nostra) falsa coscienza, deve capire e confrontare, rischiando di farsi ammazzare dai rapinatori, se necessario. In mezzo alle storie, ci sono i documenti, le cifre e infine un album fotografico in cui l'autore ha raccolto le immagini dei poveri intervistati per il libro. Soprattutto ci sono le riflessioni di Vollmann, in un crescendo costante di domande sempre più feroci, sempre più destinate a restare senza risposte, la povertà sembrava un tema così semplice all'inizio e invece è un rompicapo, perché tutti siamo i poveri di qualcun altro, e se un povero, felice o infelice che sia, non si riconosce come tale, chi siamo noi per affermare che lo è? Certo, esistono definizioni ufficiali della povertà, tutte quante insieme troppo precise e troppo vacue. C'è l'Indice di sviluppo umano delle Nazioni unite; c'è la soglia dei quattro dollari al giorno, sotto i quali si è poveri; ci sono i più disparati algoritmi e criteri di valutazione. Una massa di numeri, che crolla come un castello di carte davanti all'osservazione diretta. Dal contesto non si può prescindere, definiremmo povero il pescatore di tonni, felice nella sua realtà, solo perché non ha mai neppure desiderato ciò che noi abbiamo? Henry David Thoreau, che si ritirò in una capanna a Walden Pond, riderebbe di noi. Se la passava bene, secondo i suoi criteri, con 14,36 dollari al giorno, il costo di un nostro pranzo. A chi esprimeva insoddisfazione verso la propria vita, consigliava di fare come lui, vivere in riva a un lago, mangiare fagioli e rinunciare ai lussi, tipo il caffè. Non lo seguì nessuno ma aveva per questo torto? Vollmann descrive una condizione sociale, eppure... In questo corpo a corpo con un fenomeno inafferrabile, che mette a nudo le contraddizioni di chi lo studia, e dunque dello scrittore e dei suoi lettori, Vollmann ricorre spesso a categorie che non definiscono in senso stretto la povertà ma la avvicinano alla sfera della «mancanza», materiale innanzi tutto ma anche morale o sentimentale. Le parole chiave, scelte come nomi dei capitoli, sono invisibilità, deformità, indesiderabilità, dipendenza, vulnerabilità, dolore, torpore e separazione. Tutte comunicano un vuoto, una assenza, una perdita che spesso inducono una particolare forma di terrore, quello di perdere tutto, anche se stessi. A chi non manca qualcosa? Chi può dire di sentirsi completo? Quando queste domande diventano esplicite, è troppo tardi per mettersi al riparo. Nelle splendide foto di poveri in fondo al volume è impossibile non riconoscersi, fa niente se sono ritratte cameriere thailandesi o senzatetto di Miami o donne delle terre bruciate in Madagascar. Quelli siamo noi. Vollmann ci ha fregati: ci siamo dentro fino al collo, anche se ci crediamo tranquilli nel nostro salotto. Forse non siamo poveri ma assomigliamo loro più di quanto saremmo stati disposti ad ammettere. Per questo la povertà ha il potere di angosciarci o commuoverci o spaventarci o farci orrore. Può sembrare un approccio riduttivo o addirittura «blasfemo»: la povertà è non aver da mangiare; sentire, ogni giorno, di avere un pugnale conficcato nel cuore è una questione ulteriore, da ricchi. Davvero? Lasciamo simili problemi di coscienza ai bigotti del marxismo e ai loro figli (indegni, il marxismo è una cosa seria) del politicamente corretto: questo non si può dire, quello non si può neppure pensare, questo offende, quello indigna. Vollmann è un avventuriero, nella vita e nelle idee, non è roba per chi si accontenta delle opinioni «giuste». Non gradiamo? Amen e amici come prima. Vollmann non è qui per conquistare il mercato ed essere simpatico a tutti. William Burroughs la metteva giù così: «Io sono uno scrittore? Non sono cosa sono. Una cosa è sicura. Io non sono qui per farvi divertire». Per fortuna vale anche per Vollmann. Infatti, mille prediche in favore della povertà non vi rimescoleranno l'anima come cinque pagine di questa autentica opera d'arte. Si entra nel libro pronti a una gita turistica nello zoo della povertà e non se ne esce più, chiusi a chiave in una gabbia, come tutti, a osservarsi allo specchio, come tutti, a sentirsi mutilati, come tutti. Così vanno le cose, così devono andare per sempre?
Da lastampa.it il 15 ottobre 2020. Nella provincia di Napoli risultano oltre 166.000 famiglie con il Reddito di cittadinanza (per quasi mezzo milione di persone coinvolte), un numero che supera quello complessivo di Lombardia (112.939 per quasi 241.000 persone coinvolte)) e Veneto (36.820 per quasi 76.000 persone coinvolte). I dati emergono dall'appendice statistica dell'Osservatorio Inps sul reddito di cittadinanza nella quale si legge che i nuclei con il Reddito o la pensione di cittadinanza sono in Campania 269.000 (oltre 741.000 persone coinvolte) a fronte di 1,32 milioni di famiglie che avevano il beneficio a settembre. In pratica in Campania risiedono il 20,3% dei nuclei beneficiari complessivi. I nuclei percettori di Reddito di cittadinanza - si legge nell'Osservatorio Inps - si concentrano nelle regioni del Sud e nelle Isole con il 61% del totale, mentre le regioni del Nord seguono con il 24% e quelle del Centro con il 15%. La regione con il maggior numero di nuclei percettori di Reddito e Pensione di Cittadinanza è la Campania (20,3% delle prestazioni erogate), seguita dalla Sicilia (18%), dalla Lombardia, dal Lazio e dalla Puglia (9%); in queste cinque regioni risiede il 65% dei nuclei beneficiari della misura. A fronte di 1,328 milioni di nuclei percettori sono state coinvolte 3,1 milioni di persone, di cui 2,049 milioni nelle regioni del Sud e nelle Isole, 650 mila nelle regioni del Nord e 433 mila in quelle del Centro. Quanto alla cittadinanza del richiedente la prestazione, nell'87% dei casi risulta erogata ad un italiano, nel 7% ad un cittadino extra-comunitario in possesso di un permesso di soggiorno, nel 5% ad un cittadino europeo ed infine nell'1% a familiari di tutti i casi precedenti. Dall'analisi della distribuzione regionale delle persone coinvolte nell'erogazione del Reddito e della Pensione di Cittadinanza risulta che le regioni con il tasso di inclusione più elevato sono al Sud e sono la Campania, la Sicilia e la Calabria (rispettivamente 128, 101 e 108 persone coinvolte ogni mille abitanti); quelle con il tasso di inclusione più basso fanno parte del Nord-Est e in particolare sono il Veneto e il Trentino Alto Adige (rispettivamente 15 e 10 per mille). Analizzando la distribuzione provinciale si evince che le province con il tasso di inclusione più elevato sono Palermo, Napoli e Crotone con più di 150 persone coinvolte ogni mille abitanti; quelle con il minor tasso di inclusione sono Bolzano e Belluno con meno di 10 persone coinvolte ogni mille abitanti.
Fabrizio Roncone per il “Corriere della Sera” il 26 novembre 2020. Avvertenza: se non vi piacciono le storie di fantascienza, passate oltre. Sentite qua. Fermi da almeno un anno ai bastioni di Orione (con uno stipendio di 1600 euro netti al mese, più i 600 di bonus previsti dalla crisi Covid), i "navigator" - figure mitologiche della galassia a 5 Stelle - sembra probabile che presto verranno inghiottiti per sempre da un buco nero sopra il cielo del ministero dell' Economia. Non è per provare a scherzare. È che potrebbe andare a finire proprio così. Una storia tremenda, finora costata un bel po' a tutti noi che paghiamo le tasse. Riassumerla non è facile, perché sul serio somiglia al plot perfetto per un romanzo di genere fantasy. Che comunque inizia di notte. Quella notte. Sul balcone di Palazzo Chigi. Quando Luigi Di Maio e i ministri grillini del governo giallo-verde, dopo aver urlato «Evviva! Abbiamo abolito la povertà! », rientrano nella stanza. Danilo Toninelli (all' epoca, già leggenda vivente) si avvicina a Di Maio, e gli chiede: «Giggino, scusa, mi sfugge un dettaglio: ma poi chi dovrebbe trovare lavoro a tutti quelli che percepiranno il reddito di cittadinanza?». La conoscete la faccia furbetta di Di Maio, no? Ecco, mette su quella lì. «Tranquillo, Danilo». Di Maio aveva già la soluzione: e qui entra in scena un personaggione amico suo che, per una volta, non sarebbe arrivato con il solito charter proveniente da Pomigliano d' Arco, ma avrebbe viaggiato in business class dalla Mississippi State University. Ecco Domenico Parisi detto "Mimmo" o "CowBoy", di anni 54, guru italoamericano del reinserimento nel mondo del lavoro. «Parlo maluccio italiano, ma penso bene in inglese oh yeah!». Per lui l' incarico è: guidare l' Anpal, l' Agenzia nazionale per le politiche attive del lavoro, e realizzare quindi la parte finale del visionario progetto pentastellato. Cioè trovare un posto di lavoro a chi intasca il reddito di cittadinanza utilizzando - qui la storia decolla nell' incredibile - i cosiddetti "navigator". Che sono tremila. Che nessuno ha mai visto fisicamente. E che non si capisce nemmeno bene come siano stati arruolati. Però esistono e stanno lì. Immobili. Perché se lo stipendio inizia subito ad arrivargli puntuale, non gli arriva invece la "app" che dovrebbero utilizzare. Passa un mese, e poi un altro, e un altro ancora: ancora adesso, di questa "app" non c' è traccia. Intervistato - era giugno - sull' argomento, Parisi con grande cortesia avanza persino un grandioso dubbio: «A me risulta che sui sistemi informativi di milioni ne siano stati impegnati addirittura 80, e perciò mi chiedo: che fine hanno fatto?». Se lo chiede lui, che è il capo. In un Paese appena normale, letta una dichiarazione così, una Procura avrebbe aperto subito un fascicolo. Invece a destare curiosità, puramente mediatica, sono le spese di questo Parisi. Per capirci: 71 mila euro per viaggi Roma-Mississippi in business class; 55 mila euro per noleggio auto con autista; 32 mila per l' affitto di un appartamento nel quartiere Parioli di Roma; 5 mila per spostamenti vari in Italia; 3 mila per pasti. «Che posso farci? Senza mia moglie, che è rimasta negli States, la sera preferisco cenare quasi sempre a casa». Notare la finezza del "quasi". Ma va bene. Anzi, no: va male. Perché Parisi nella casa ai Parioli, evidentemente, sta comodo. Due settimane fa, infatti, si presenta in audizione alla commissione Lavoro della Camera e snocciola una serie di numeri che, in apparenza, paiono abbastanza positivi, ma che poi, analizzati da sguardi esperti, dimostrano un fallimento totale. In sintesi: uno su quattro di coloro che hanno percepito il reddito di cittadinanza ha trovato lavoro. Però, a fine ottobre, circa metà di quel quarto il lavoro non lo aveva già più (erano contratti a termine). Non solo: Parisi non è in grado di spiegare, con precisione, quanti siano stati complessivamente i posti di lavoro trovati dai suoi "navigator". Insomma, un disastro. Che a Parisi sembra invece un trionfo. Al punto da chiedere una proroga per i contratti di questi esseri alieni e persino l' ampliamento della loro squadriglia. Sì, sul serio: sono cose che noi umani non avremmo mai immaginato di vedere (citazione, un po' rielaborata, dal film Blade Runner).
Lorenzo Salvia per il “Corriere della Sera” il 26 novembre 2020. Erano stati presentati come la soluzione a tutti i mali del complicato mondo del lavoro italiano. Era stata promessa loro la stabilizzazione, cioè il posto fisso. Ma, al di là degli annunci, le carte dicono che al momento per i navigator sembra profilarsi una fine triste, e anche un po' solitaria. Una beffa per i 2.700 mila tutor assunti per due anni con il compito di aiutare chi prende il reddito di cittadinanza a trovare un lavoro. Il loro contratto scade a fine aprile. Ma nel disegno di legge di Bilancio, che fissa spese ed entrate dello Stato nel prossimo anno, soldi non ce ne sono. L' articolo 55 prevede uno stanziamento di 10 milioni di euro per Anpal servizi, l' Agenzia per le politiche attive che li gestisce. Ma quei soldi servono per altre attività. E anche se fossero utilizzati per loro, basterebbero per prolungare il contratto fino a fine 2021 solo per 500 di loro. Uno su sei. Altro che posto fisso per tutti. Intervenire in corsa è sempre possibile, visto che sulla manovra il dibattito in Parlamento è appena iniziato. Il Movimento 5 Stelle sta preparando un emendamento che prevede la proroga di un anno. Coperture permettendo. Dal ministero del Lavoro dicono che una soluzione si troverà, magari con i soldi del Recovery Fund , e ricordano come Nunzia Catalfo li abbia definiti «parte integrante del sistema». Ma resta il fatto che nella manovra, appena depositata dal governo, i soldi non ci sono. E per i navigator sembra avvicinarsi il momento del fine corsa. Loro ne sono consapevoli e per questo hanno creato una sorta di sindacato, «Anna», sigla che sta per Associazione nazionale navigator. Certo, il Covid non ha aiutato nemmeno loro. Lo smart working ha complicato ancora di più un compito che in realtà appariva confuso fin dall' inizio e che infatti ha provocato non poche tensioni con le Regioni. Ma il vero problema è che nessuno può difenderli mettendo sul tavolo i risultati del loro lavoro. Perché, semplicemente, i risultati del loro lavoro non si conoscono. Solo due settimane fa proprio l' Anpal ha pubblicato gli ultimi dati sul reddito di cittadinanza. Dicono quelle tabelle che su poco più di 1,3 milioni di beneficiari del reddito inseribili al lavoro, cioè non tutti ma meno della metà, 352 mila hanno avuto un contratto. Attenzione però: nel conto entrano tutti quelli che hanno trovato un posto fin da quando è partito il reddito di cittadinanza, mentre a fine ottobre gli attivi erano scesi a 192 mila. E perché vengono considerati tutti i tipi di contratto, anche quelli brevissimi, mentre quelli stabili sono appena il 15,4%. Il vero problema è però un altro. Anpal non dice e non sa quanti di quei posti sono stati trovati grazie ai navigator oppure per altri canali. In un Paese dove, dice l' Istat, quattro giovani su dieci il posto lo trovano grazie alla segnalazione di parenti, amici o conoscenti. C' è anche chi sostiene che quel dato sarebbe prossimo allo zero, perché sono le stesse convenzioni con le Regioni a stabilire che il contatto con le aziende deve essere creato dai centri per l' impiego, i vecchi uffici collocamento, e che il navigator deve limitarsi al supporto. E questo a prescindere dalle qualità, dalle capacità e anche dalla volontà dei singoli. Ma non è detta l' ultima parola, visto che l' Italia resta pur sempre il Paese dei ricorsi. I navigator sono stati assunti con un contratto da cococo ma sono stati utilizzati come dipendenti. Lavoratori a termine con un finto contratto autonomo, accade spesso.
Quella scelta venne fatta perché andavano arruolati velocemente, anche perché erano una carta da giocare nella campagna elettorale per le Europee del 2018, allora dietro l' angolo. Un ricorso lo vincerebbero a mani basse. E il governo lo sa.
Dario Di Vico per il “Corriere della Sera” il 3 dicembre 2020. Forse la cosa più giusta a questo punto sarebbe cambiargli nome. Dopo che il papà del Reddito di cittadinanza, Luigi Di Maio, ha pubblicato sul Foglio una corposa autocritica sul provvedimento-bandiera del Movimento Cinque Stelle («credo che sia opportuno ripensare alcuni meccanismi») possiamo dire che il figliolo non esiste più. Perlomeno con i connotati descritti a suo tempo. E allora varrebbe la pena abbandonare anche quella pomposa citazione che rimanda alla Rivoluzione francese. E accettare che si chiami reddito minimo, come quasi tutti gli altri fratelli sparsi per il mondo. Al momento del suo concepimento le teste d'uovo grilline vollero che il Reddito avesse due obiettivi, la lotta all'indigenza e l'attivazione sul mercato del lavoro. Dietro c'era l'idea di riscrivere il welfare socialdemocratico spianando la strada dell'occupazione all'intero popolo della povertà relativa, all'incirca il 15% degli italiani. La mancanza di lavoro era infatti vista come la principale causa della povertà non cogliendo come la Grande Crisi del 2008-15 avesse cambiato le carte in tavola con l'avanzata della figura dei working poor, stipendiati che non riescono ad arrivare alla famosa quarta settimana. Per tentare l'operazione, lo stanziamento iniziale previsto dai 5 Stelle era di 16 miliardi, in parte erogati direttamente e in parte destinati a rafforzare i Centri per l'impiego. Chi già dalla prime battute criticò il doppio obiettivo della lotta alla povertà e alla disoccupazione venne coperto di improperi e dovette inghiottire lo snaturamento delle politiche attive previste per i disoccupati e la nascita dei navigator. Prendeva corpo così la rielaborazione grillina del welfare italiano firmata all'inizio da Nunzia Catalfo, attuale ministro del Lavoro e affidata per l'attuazione al giovane professore Pasquale Tridico e a un italo-americano di nome Mimmo Parisi. Un elemento di forza quell'iniziativa ce l'aveva: infilzava la pigrizia della sinistra e del sindacato, che pur avendo in Italia un radicamento e una tradizione invidiabili, avevano dimenticato gli ultimi (tranne ravvedersi in extremis su pressione dell'Alleanza contro la povertà). Tra il dire e il fare anche per i populisti però c'è distanza. E pur avendo il Movimento 5 Stelle vinto le elezioni, alla fine è nato un governo di coalizione e anche i leghisti avevano la necessità di tener fede alle promesse della campagna elettorale. Il risultato è stato che le risorse da distribuire sul sociale sono andate in parte al Reddito e in parte a finanziare il provvedimento di quota 100 e così i 16 miliardi che i grillini avevano sognato sono diventati 6 con l'aggiunta dei 2 miliardi del "piccolo" Rei, eredità del governo Gentiloni. Ma oltre a subire i leghisti i 5 Stelle hanno dovuto toccare con mano che il mito populista dell'avvicendamento al potere della Casta con gli Onesti non equivale a una bacchetta magica, chi va nella stanza dei bottoni si scontra con molti dei problemi che avevano angustiato i predecessori. In concreto se i Centri per l'impiego non avevano funzionato fino ad allora non bastava Di Maio al governo per farli diventare "tedeschi". E poi comunque le riforme hanno bisogno di tempo, la loro implementazione non può essere piegata ai calcoli politici solo perché c'è alle porte una campagna elettorale dove raccontare di aver abolito la povertà. Ma anche in questo caso a tradire i 5 Stelle è stato un deficit di conoscenza del Paese: per migliorare veramente i saldi occupazionali non basta cambiare l'offerta ma bisogna agire sulla cronica debolezza della domanda di lavoro, bisogna sporcarsi le mani e fare i conti con il mercato e le scelte delle imprese. Possibilmente non come lo stesso Di Maio ha voluto fare con la legge Dignità, un provvedimento orfano che nessuno più rivendica e che ha complicato i già difficili flussi di occupazione giovanile. Se non bastasse anche nel mezzo del cammino il Reddito ha incontrato altri ostacoli. Non si è costruita una rete di amici, potremmo dire. E ancora per una carenza di cultura politica dei 5 Stelle che non conoscevano la complessità dei livelli di governo nell'Italia del Titolo Quinto. Comuni e Regioni che, avrebbero dovuto essere associati alla straordinaria operazione di riscrivere il welfare dei Paesi occidentali, si sono messi di traverso o non hanno trovato i giusti link. E alla fine il bottino del doppio obiettivo che aveva mosso il Reddito è magro. Calcolando che ne hanno beneficiato 1,1 milioni di famiglie per complessivi 3,1 milioni di persone, hanno trovato un'occasione di lavoro - non si sa se autonomamente o tramite il collocamento, per quale durata e se siano ancora occupati - circa 200 mila italiani. Un risultato che gli stessi grillini hanno considerato poco spendibile sul mercato del consenso nella fase finale della legislatura. Da qui l'inattesa autocritica di Di Maio: i grillini hanno scoperto che la società non è come loro l'avevano pensata e che la cultura amministrativa e tecnica non è un trastullo per burocrati conservatori .
Chiara Giannini per “il Giornale” il 3 dicembre 2020. Usavano il reddito di cittadinanza per finanziare il terrorismo internazionale: si tratta di due tunisini di 50 e 33 anni che sono stati denunciati dalla Guardia di Finanza di Bologna in quanto, fino allo scorso aprile, avvalendosi di un money transfer in provincia di Ferrara, versavano soldi a un pericoloso foreign fighter islamico, ex combattente dell' Isis iscritto nelle liste dell' antiterrorismo del Belgio e localizzato in Tunisia. Da quanto risulta, il cinquantenne, che è cittadino italiano e sul territorio nazionale da metà anni Novanta, aveva lavorato stabilmente nel nostro Paese fino al 2015. L' anno successivo si era trasferito in Francia, dove tuttora ha un impiego, subaffittando una casa Ater al 33enne, arrivato una quindicina di anni fa. Entrambi percepivano illegalmente il reddito di cittadinanza, attestando il falso all' Inps. In particolare il secondo aveva dichiarato un nucleo familiare inesistente. La somma percepita si attesta intorno ai 12mila euro, che ora dovranno essere restituiti. Sulla vicenda si è aperto un ampio dibattito. «Nelle ore in cui la Camera lavora per smantellare i Decreti sicurezza - ha dichiarato il leader della Lega, Matteo Salvini - , umiliando l' Italia che attende risposte su emergenza sanitaria ed economica, due tunisini vengono accusati di usare il reddito di cittadinanza per finanziare il terrorismo internazionale. Questo governo mette in pericolo l' Italia e - come dimostra anche il caso del killer di Nizza - tutta Europa. Il Paese merita di più e di meglio». A fargli eco la senatrice del partito del Carroccio, Lucia Borgonzoni: «Ci aspettiamo un' immediata presa di posizione da parte del ministro Lamorgese mentre porgiamo i ringraziamenti alla Guardia di Finanza di Bologna». Per l'onorevole Fabio Rampelli (Fdi): «Dell' improduttivo reddito di cittadinanza, dopo essere stato erogato a pregiudicati e mafiosi scopriamo che hanno beneficiato anche i terroristi islamici. Caro premier Conte, lo aboliamo il Rdc oppure lo estendiamo anche ai nuovi clandestini che arriveranno in Italia grazie a questo Dl sicurezza che favorisce l' immigrazione irregolare?». Il senatore Maurizio Gasparri (Fi) non le manda a dire: «Oggi si è veramente raschiato il fondo del barile per uno dei peggiori provvedimenti della storia della Repubblica italiana, figlio della politica qualunquista e assistenzialista di un errore democratico del quale pagheremo il prezzo per molti anni ancora, i grillini». La presidente dei senatori di Forza Italia, Anna Maria Bernini, specifica: «Forza Italia ha denunciato più volte le gravi anomalie con cui è stato erogato il reddito di cittadinanza, chiedendo criteri più rigidi perché il sussidio arrivasse solo a chi ne ha effettivamente bisogno. Ringrazio la Guardia di Finanza di Bologna per l' operazione con cui ha smascherato questa truffa, ma mi chiedo cosa aspetti il governo a rivedere una misura che in troppi casi è stata oggetto di facili quanto incredibili abusi». Il deputato Francesco Lollobrigida, capogruppo di Fratelli d' Italia alla Camera spiega che «questa è l' ennesima dimostrazione di come il cavallo di battaglia dei Cinquestelle si sia trasformato in una vera e propria manna per delinquenti e potenziali terroristi». Persino Debora Serracchiani (Pd) tiene a dire: «Bene che si apra una discussione: così il Reddito di Cittadinanza non funziona perché una cosa è la lotta sacrosanta alla povertà e al disagio, altra cosa sono le politiche attive del lavoro».
Prendono il reddito di cittadinanza ma lavorano in nero: ecco come i furbetti del sussidio ingannano lo Stato. Antonio Crispino su Il Corriere della Sera il 16/10/2020. Mario, Umberto, Vito: tutti interpellati al telefono per un lavoro lo hanno rifiutato. «Qui fanno lo smart working a nero». Buongiorno, la chiamo dal Centro dell’impiego in quanto lei risulta percettore del reddito di cittadinanza. Attualmente ha trovato già un impiego? «No, come faccio a lavorare se percepisco il reddito di cittadinanza?» risponde in un italiano lento e premeditato Mario, nome di fantasia, dall’altro lato del telefono. Mario ha 63 anni, ufficialmente disoccupato e vive a Grumo Nevano, in provincia di Napoli. Da sei mesi percepisce l’aiuto (dello Stato) «per formare e trovare lavoro». Il suo accredito mensile è di 800 euro. Ecco perché, nel fingerci impiegati del centro dell’impiego di Napoli, gli offriamo un lavoro come operatore ecologico alle stesse cifre. Dopo di lui proviamo con altri percettori del reddito. Non persone a caso ma cittadini che ufficialmente risultano disoccupati e che in realtà lavorano in nero raggiungendo, a loro modo, l’obiettivo dichiarato dal Governo: «integrare il reddito della tua famiglia in un momento di difficoltà». Sarà per questo che tutti rifiutano la nostra proposta, con scuse a volte grottesche. «Ma le pare che io a 56 anni vado a fare lo spazzino? Ma stiamo scherzando? Richiamatemi quando avrete un’offerta migliore» - si inalbera Vito, gli anni li dichiara lui stesso, disoccupato di lungo corso. Anzi, disoccupati, visto che la moglie e i figli gli fanno compagnia a casa e vivono con i mille euro al mese che gli garantisce il reddito di cittadinanza. Peccato, però, che quando risponde al telefono i rumori ambientali siano quelli tipici di un cantiere edile, dove tra l’altro lo ritroveremo qualche giorno dopo. «Il posto di lavoro è troppo lontano da casa mia, non si può avere più vicino?» Poco importa se la sede proposta è ad appena 7 km. «800 euro al mese? - commenta sbalordito Umberto, che di euro del reddito di cittadinanza ne percepisce 643 al mese -. E con questo stipendio ce la faccio ad andare avanti al giorno d’oggi?». E ha ragione, perché 800 euro al mese sono pochi rispetto a quelli che guadagna lui. Infatti allo stipendio statale aggiunge quello come operaio in un opificio che fabbrica scarpe, questo sì sotto casa sua. Grumo Nevano, così come tutto l’hinterland napoletano, è pieno di opifici che non insistono in un’area industriale ma in appartamenti, sottoscala o sottotetti di «normali» condomini. Hanno il vantaggio di non dare nell’occhio, sono difficili da individuare e quello che succede lì dentro lo sa solo l’arma dei carabinieri ogni qual volta riesce ad accedere senza essere segnalata dalle vedette o dalle telecamere di sorveglianza. Dove andiamo noi ce ne sono quattro, installate negli angoli di quella che dall’esterno sembra una villetta a tre piani ma che invece ospita almeno una quindicina di operai. Si fabbricano scarpe per marchi importanti dell’alta moda. Andiamo lì perché i nostri Mario, Umberto, Vito… «integrano il loro reddito» lavorando tutti in quest’azienda. Quando entriamo seguendo un controllo dei carabinieri della Compagnia di Giugliano, troviamo il vuoto. Solo due operai a lavoro su quindici postazioni. Sono scappati tutti, è evidente dai macchinari ancora in funzione. Qualcuno ha lasciato cellulare, occhiali e pacchetto di sigarette davanti a una spazzola che gira, di quelle che lucidano le pelli. Un carabiniere lo sblocca, fa partire una chiamata sul cellulare e poi registra il numero su whatsapp che lo associa al voto di Vito. «Dov’è? E soprattutto da dove è uscito» chiede il maresciallo Michele Marotta del Nucleo ispettorato del lavoro dei carabinieri. Nessuno sa niente. Uno dei carabinieri, Luigi, è del posto, conosce bene usi e costumi. Non si fa ingannare dal piagnisteo dei proprietari che «giurano sui figli» di non avere operai in nero, tantomeno percettori del reddito di cittadinanza. Nota una porta che affaccia su un cavedio interno e una rampa di scale che conduce ai piani superiori. Intercetta in lontananza il calpestio rapido di qualcuno che sale, si sporge e nota qualcuno entrare in una porta. Seguirli significa trovare due operai nascosti in un armadio di una piccola stanza da letto e uno maldestramente camuffato sotto un piumone dietro la porta. Ed eccoli i nostri percettori del reddito di cittadinanza, uno dei quali lo avevamo contattato il giorno prima, quello che non poteva andare a lavorare perché non aveva i mezzi di trasporto. Gli altri li ritroviamo chi in un cantiere edile, chi in una fabbrica di confezioni, chi in caserma perché ha l’obbligo di firma per alcuni reati legati allo spaccio e, ammette limpidamente, «lavora da casa», perché da queste parti conoscono già da tempo lo smart working in nero. Non l’unico. Un altro suo collega risulta avere precedenti per spaccio di stupefacenti, esercizio abusivo del gioco d’azzardo e furto aggravato. Prende 600 euro al mese di reddito. «Il paradosso è che verranno tutti perseguiti per illeciti amministrativi. Il reato penale si configura solo nel caso in cui non comunichino variazioni del reddito oltre i trenta giorni» spiegano i carabinieri. Infatti, tutti, in fase di verbale, dichiarano di essere lì a lavorare solo da una settimana. Conoscono bene la normativa. Se la caveranno senza conseguenze. Anzi, per il loro datore di lavoro c’è l’obbligo di assunzione. Denunce penali per chi lavora in nero pur percependo il sussidio si contano sulle dita di una mano. E’ pressoché impossibile risalire alla vera data di inizio lavoro visto che sono lavoratori in nero. E i soldi percepiti fino a ora? «Il problema è che i controlli sono successivi e quando si scoprono i cosiddetti “furbetti” ormai è troppo tardi. Leggevo in un comunicato stampa della Guardia di Finanza: “Scoperti percettori del reddito di cittadinanza per un totale di 200mila euro” Ecco, credo che non si riusciranno a recuperare nemmeno 200 euro di quei soldi. Sono soldi persi». Lo dice Catello Maresca, magistrato che catturò il boss dei Casalesi Michele Zagaria e grande esperto di reati economici.
Droga pagata col reddito di cittadinanza. Ma il reddito aiuta a trovare lavoro? Le iene News il 09 ottobre 2020. Un sistema di consegna a domicilio delle dosi durante il lockdown. In assenza di soldi alcuni clienti si sarebbero impegnati a pagare usando il reddito di cittadinanza. Ma questo aiuto a chi non ha lavoro funziona davvero? Lo abbiamo chiesto a chi lo percepiva: Fabio e Pasquale, che abbiamo conosciuto nel servizio di Gaetano Pecoraro. Si sarebbero pagati la droga con il reddito di cittadinanza. È quanto emerge dall’operazione antidroga del comando provinciale di Avellino ribattezzata “Delivery”. 150 carabinieri hanno effettuato il blitz ieri mattina ad Avellino smantellando, secondo gli inquirenti, una rete di spacciatori che si sarebbe organizzata durante il lockdown consegnando dosi di cocaina, marijuana e hashish a domicilio. Sono state eseguite 19 misure cautelari per i reati di “detenzione, produzione e spaccio di sostanze stupefacenti” e estorsione. Quando i clienti non riuscivano a pagare, gli spacciatori sarebbero infatti ricorsi alle minacce. Dagli accertamenti è inoltre emerso che alcuni clienti, in mancanza di soldi, si sarebbero impegnati a pagare la dose non appena fosse arrivato il reddito di cittadinanza, che così sarebbe finito nelle tasche degli spacciatori. Non è la prima volta che il reddito di cittadinanza finisce al centro delle polemiche. Poche settimane fa, come vi abbiamo raccontato, è uscita la notizia che i padri dei quattro giovani arrestati per l’omicidio di Willy Monteiro Duarte, avrebbero percepito il reddito di cittadinanza. La notizia ha fatto scalpore dal momento che i figli sui social sfoggiavano auto di lusso e vacanze in resort da 250 euro a notte. Il reddito di cittadinanza era finito anche nella vicenda della banda degli “spaccaossa”, un sistema di truffe alle assicurazioni, che vi abbiamo raccontato con Ismale La Vardera. E le polemiche hanno coinvolto anche il “padre” del reddito di cittadinanza, Pasquale Tridico, presidente dell’Istituto nazionale di previdenza sociale, per lo stipendio lievitato fino a 150mila euro l’anno, come vi abbiamo raccontato qui. Insomma, che il reddito di cittadinanza faccia parlare di sé non è certo una novità. Ma una domanda rimane al centro: il reddito di cittadinanza serve veramente? Lo abbiamo chiesto a Fabio e Pasquale, che avete conosciuto nel servizio di Gaetano Pecoraro dell’ottobre 2019, che potete vedere qui sopra. Insieme a Francesca, questi giovani provenienti da parti diverse del nostro Paese, percepivano il reddito di cittadinanza, e ci avevano mostrato la loro voglia di trovare un lavoro. “Aspetto solo di essere messo alla prova”, ci aveva detto Fabio, 25enne diplomato in meccanica, che prendeva 500 euro al mese di reddito di cittadinanza. Mentre Pasquale, laureato in giurisprudenza, percepiva circa 800 euro. Abbiamo contattato i tre ragazzi per capire come sono andate le cose dopo un anno dal nostro servizio e fare loro una domanda: il reddito di cittadinanza li ha aiutati? Non siamo riusciti a metterci in contatto con Francesca, mentre Pasquale ci ha raccontato di stare ancora percependo il reddito. “Ho provato qualche esperienza lavorativa ma non si è consolidata in un contratto stabile. Ora sto mandando tantissimi curriculum ovunque, nei supermercati, nei call center”, con la sua laurea di giurisprudenza in tasca. “Ma per ora nulla. Il prossimo mese non percepirò il reddito perché è previsto un mese di sospensione e per me sarà difficile”. I centri per l’impiego lo hanno aiutato? “No, non mi hanno mai contattato. Il reddito mi è utile perché è un aiuto economico concreto, soprattutto di questi tempi”. E Fabio? “Io ho trovato lavoro una settimana fa nelle riparazioni di motori elettrici, che è il mio ambito”, ci racconta. Fabio non prende più il reddito, che per lui, ci dice, è stato un aiuto importante. “Quei 500 euro mi sono serviti perché con solo lo stipendio della mia fidanzata era difficile”. Un po’ meno sembra essere stato l’aiuto nel trovare lavoro. “Non ho trovato il mio attuale lavoro tramite i centri per l’impiego ma tramite dei miei amici”. Quando leggono notizie come quella del reddito usato per la droga, Fabio e Pasquale provano rabbia. “Quando è uscito il reddito sapevo che alcuni ne avrebbero approfittato. Dovrebbero esserci più controlli”, dice Pasquale. “Purtroppo non sono belle notizie”, conclude Fabio, “fa rabbia sapere che certe persone usano in questo modo i soldi che ricevono”.
Reddito di cittadinanza, escluso un milione di poveri del Nord. Federico Fubini su Il Corriere della Sera l'8 ottobre 2020. Se il reddito di cittadinanza offrisse al Nord la stessa copertura che garantisce al Sud, oggi oltre un milione di persone in più riceverebbe il sussidio. Invece questa misura, disegnata per contrastare le condizioni di bisogno, sta funzionando molto meglio al Mezzogiorno che al Settentrione: in ciascuna delle due grandi aree del Paese vivono oggi circa due milioni di persone in povertà assoluta (cioè non in grado, secondo l’istituto statistico Istat, di acquistare i beni più essenziali); eppure le famiglie raggiunte dal reddito di cittadinanza nelle regioni meridionali sono più di tre volte più numerose di quelle che vivono a Nord. Questo squilibrio è il risultato di regole di accesso al reddito di cittadinanza che di fatto sbarrano l’accesso a 1,2 milioni di residenti in Piemonte, Valle d’Aosta, Liguria, Lombardia, Veneto, Friuli Venezia-Giulia, Trentino-Alto Adige e Emilia-Romagna; poco importa che questi siano oggi in condizioni di bisogno tali che - se fossero al Sud - darebbero diritto al sussidio. Un esame dei dati e delle indagini a campione dell’Istat non lascia dubbi su ciò che sta accadendo dal 2019, quando è entrato in vigore il reddito di cittadinanza. Questa misura non riesce a riattivare i disoccupati, ma si è dimostrata efficace nel contrasto al disagio sociale più grave: l’anno scorso i poveri «assoluti» erano 447 mila in meno rispetto al 2018, ma la distribuzione del beneficio resta geograficamente molto squilibrata. Per due terzi il calo dell’indigenza è concentrato a Mezzogiorno, mentre a Nord-Est - l’area più dinamica del Paese - la quantità di persone in povertà assoluta l’anno scorso è persino aumentata. Il maggiore accesso nel Meridione al reddito di cittadinanza non è semplicemente il riflesso di condizioni sociali più degradate. Al Nord vive il 43% delle persone povere in Italia - ai dati Istat più recenti - ma questa parte del Paese intercetta solo il 20% della copertura del reddito di cittadinanza. Al Sud gli italiani oggi interessati dall’assegno (i beneficiari e le loro famiglie) sono 1,9 milioni, un numero quasi pari a quello di coloro che nel 2019 risultavano in povertà assoluta. Al Nord invece la quantità di popolazione coperta in qualche modo dal sussidio è meno di un terzo rispetto alla quantità di poveri assoluti. Per questo 1,2 milioni di persone bisognose in più sarebbe raggiunto dal sussidio se la copertura fosse, in proporzione al disagio sociale, pari a quella del Sud. In sostanza il reddito di cittadinanza di fatto discrimina ai danni della popolazione in difficoltà che oggi vive nelle zone più prospere e più costose del Paese. Ciò accade perché i requisiti di accesso al reddito non coincidono con quelli sui quali si calcolano le soglie di povertà. Queste ultime cambiano con il variare del costo della vita nelle diverse aree d’Italia. Invece i criteri per ottenere il sussidio sono uguali ovunque e così stringenti da tagliare fuori gran parte dei ceti più disagiati a Nord. Poco importa che, dato il costo più alto di beni e servizi, sia paradossalmente più facile trovarsi nell’indigenza a Settentrione. Per esempio una famiglia con due figli minori in un grande centro urbano del Mezzogiorno per l’Istat è povera se non raggiunge un reddito disponibile di 1351 euro al mese; in una città del Nord si è in povertà assoluta anche a 1720 euro al mese. Gli scarti nelle soglie di indigenza fra le due aree del Paese possono variare di un terzo o anche molto di più. Ma centinaia di famiglie del Nord, con redditi che non garantiscono una sopravvivenza dignitosa, hanno entrate troppo alte per accedere al principale programma del Paese di contrasto alla povertà.
Giuseppe Marino per “il Giornale” il 12 novembre 2020. Miracoli del reddito di cittadinanza. Secondo Mimmo Parisi, presidente dell' Anpal, l' agenzia del ministero del Lavoro che ha reclutato i navigator, ben 352mila percettori del sussidio hanno trovato impiego. Al 7 luglio erano solo 196mila. Dunque ci sarebbe stato un boom estivo da 150mila posti di lavoro, quasi la stessa cifra dell' intero primo anno di reddito. In realtà, di quei 196mila, al 7 luglio erano ancora attivi solo 100mila contratti. Dunque si tratta di occupazione piuttosto volatile. Per Parisi è «un lavoro eccellente» e chiede di prorogare il contratto «ampliare il ruolo» dei 2840 navigator. «Non mi permetto di mettere in dubbio la credibilità delle cifre - commenta Francesco Seghezzi, esperto di politiche del lavoro e presidente di Adapt - il punto vero è che non c' è alcuna evidenza che i posti di lavoro in questione siano stati trovati grazie ai navigator. Fa riflettere il fatto che in nessun report si forniscano elementi a supporto di questo rapporto causa-effetto». Perfino il ministero del Lavoro nei mesi scorsi ha negato di avere dati in proposito. Del resto, se anche il meccanismo del reddito fosse perfettamente oliato, dalla prima ondata del virus i centri per l' impiego sono chiusi al pubblico, l' integrazione dei navigator stenta, la fase di ricerca attiva di offerte di lavoro contattando le aziende è partita con fatica. E il software miracoloso, secondo l' allora ministro al Lavoro Luigi Di Maio, che doveva far incontrare domanda e offerta di impiego, non è mai partito, insabbiato nelle secche di un aspro scontro interno sulla gestione dell' Anpal. Parisi stesso è stato oggetto di contestazione per le maxi spese, oltre 160mila euro, legate alle sue trasferte avanti e indietro dalla sua casa nel Mississippi. Lo stesso Parisi ha ammesso i problemi di governance di Anpal: «C' è bisogno di un indirizzo politico preciso, quando arriva noi ci metteremo a lavoro». Singolare la risposta data in audizione alla Camera alla domanda del deputato Fdi Walter Rizzetto su come migliorare l' efficienza dell' Anpal: «Sinceramente non ho una risposta precisa». Alla richiesta di dimissioni di Parisi invocata da Rizzetto ieri ne sono seguite molte altre, anche da parte di esponenti della maggioranza. Come Matteo Renzi: «Ampliare il ruolo dei navigator? Meglio ridurre il ruolo di Parisi, farlo dimettere subito e restituirlo al suo amato Mississippi».
Francesco Bisozzi per “Il Messaggero” l'8 ottobre 2020. Doveva essere l' uomo della svolta e invece il padre dei navigator, Domenico Parisi, numero uno dell' Anpal, è diventato quello contro cui tutti ora puntano il dito, accusandolo del flop del reddito di cittadinanza sul fronte degli inserimenti lavorativi. Dopo che nei giorni scorsi Palazzo Chigi ha acceso un faro sulla misura dei pentastellati, chiedendo di correggere al più presto il tiro, la poltrona del presidente dell' Anpal ha iniziato a traballare. Il professore dell' Università del Mississippi era stato scelto da Luigi Di Maio per riformare i centri per l' impiego e trovare un' occupazione ai percettori del sussidio, ma oggi solo un beneficiario su dieci lavora. E ancora nessuna traccia dell' avanguardistica app da 25 milioni di euro con cui Parisi aveva promesso d' incrociare domanda e offerta di lavoro per mettere il turbo alle assunzioni dei sussidiati. Dopo il boom di domande verificatosi per effetto della crisi, il governo punta però a dare una spinta agli inserimenti nel mondo professionale dei percettori del reddito così da alleggerire la platea dei beneficiari prima che la spesa vada fuori controllo e si rendano necessari tagli alle ricariche. «Se qualcuno deve pagare per il flop del reddito allora che sia lui a farlo», si mormora tra i Cinquestelle, anche loro pronti ormai a scaricare il professore senza app. Parisi in questi mesi si è fatto terra bruciata intorno. Ai ferri corti con la ministra del Lavoro Nunzia Catalfo, che vuole avere il pieno controllo delle politiche attive per il lavoro. Si sente insidiato dalla ministra per l' Innovazione Paola Pisano, a cui il premier ha appena chiesto di realizzare una app alternativa a quella immaginata dal presidente dell' Anpal. Ma il professore deve guardarsi le spalle anche in casa propria: è in corso una guerra con il direttore generale dell' Anpal Paola Nicastro, una vita al ministero del Lavoro, dove tra il 2003 e il 2013 ha diretto le politiche attive, diventata strada facendo una delle sue peggiori nemiche. Parisi, alla guida dell' agenzia dal febbraio del 2019, dopo venti mesi di attività ha incassato circa 300 mila euro lordi e chiesto rimborsi spese per altri 160 mila euro per spostamenti, viaggi in aereo e alloggio a Roma. Spese extra che il dg Paola Nicastro non gli ha perdonato. Il professore oggi non si fida più di nessuno: quando si trova nella sede di via Fornovo, e non su un aereo diretto negli Usa, tende a passare la maggior parte del tempo barricato in ufficio. Non è chiaro a fare cosa, visto che anche il progetto dell' app Italy Works, 25 milioni di euro stanziati e poi mai spesi, è finito su un binario morto. «L' interfaccia grafica è pronta ma senza un' infrastruttura informatica dietro, capace di combinare le informazioni provenienti da aziende e centri per l' impiego, si tratta solo di una scatola vuota, per adesso stiamo ancora raccogliendo i dati per mappare le opportunità occupazionali», spiegano dall' agenzia. Non sorprende perciò che alla ministra Pisano sia stato chiesto di sviluppare in sei mesi un' altra piattaforma digitale che raccolga i dati provenienti dai cpi delle varie Regioni e poi li utilizzi per incrociare al meglio domanda e offerta di lavoro. In Mississippi il professore di Ostuni si vanta di aver portato la disoccupazione dal 6,5 al 4,8% grazie all' app Mississippi Works, ma da quando è a Roma i numeri hanno smesso di sorridergli: 196 mila beneficiari del reddito di cittadinanza hanno firmato un contratto di lavoro, di cui 100 mila risultavano attivi al 7 luglio scorso, mentre il resto era già giunto a termine. Sono 500 mila i percettori che invece devono ancora sottoscrivere i patti per il lavoro, su circa un milione di attivabili. Cifre ben lontane da quelle che si attendevano i Cinquestelle dopo diciotto mesi di vita della loro misura bandiera e che rischiano di costare caro a Mimmo Parisi, accusato di non essere riuscito a imprimere una svolta nonostante i tremila navigator che ha arruolato più di un anno fa. Complici le poche assunzioni, si teme che il sussidio possa venire a costare nel 2021 oltre 9 miliardi di euro e se non spunteranno fuori almeno due miliardi di risorse aggiuntive le ricariche l' anno prossimo verranno decurtato. A quel punto però il professore pugliese potrebbe già aver fatto ritorno nel suo Mississippi.
L’INCHIESTA. Reddito di cittadinanza, il flop dei sussidi che alimenta il lavoro nero. Goffredo Buccini e Federico Fubini su Il Corriere della Sera il 27 settembre 2020. Febbraio, Reggio Calabria. L’uomo che si presenta all’Istituto clinico De Blasi è elegante, professionale: cravatta e completo grigio, garbato nei modi. E con garbo chiede: «Lei ha bisogno di aiuto?». «Mi dica, in che senso?», risponde il direttore, Eduardo Lamberti.
«Sono disposto a fare qualunque cosa: piccola ragioneria, factotum, consegne alle Poste. Quanto può darmi?».
«Dovrebbe parlare con l’ufficio amministrativo».
«Sarò sincero: prendo il reddito di cittadinanza. Ma vorrei mantenerlo dando a lei la possibilità di usufruire dei miei servigi con un costo minimo e senza vincolo di lavoro».
«Cioè…».
«Ha capito, in nero».
«Spiacente, qui fatturiamo tutto».
Oggi nella provincia di Reggio Calabria un abitante su dieci vive in una famiglia che percepisce assegni da reddito di cittadinanza. Per alcuni, l’assegno è diventato un doppio atout. Non si prende il reddito perché si è senza lavoro, ma si cerca lavoro (nero) perché si prende il reddito: e dunque ci si può mettere sul mercato a metà prezzo. Con un ulteriore «vantaggio» per gli imprenditori disinvolti, come spiega Lamberti (che di offerte simili racconta di averne «rifiutate a decine»): «Per i disonesti è una manna, uno può mandare via quando vuole il dipendente privo di tutela normativa. Diventa un… investimento imprenditoriale il reddito di cittadinanza. Ma secondo me è una gigantesca istigazione a delinquere», conclude il settantenne medico calabrese, un tempo assessore alla polizia locale nella giunta di Italo Falcomatà, il sindaco-mito della «primavera di Reggio». Eppure, in Italia non manca chi sarebbe felice di lavorare con un bel contratto in regola. Dall’inizio del lockdown a fine luglio, Istat conta ufficialmente 585 mila posti in meno. Fra coloro che figurano ancora occupati, le ore di cassa integrazione sono decuplicate rispetto a un anno fa fino a raggiungere livelli quasi tre volte superiori ai record mai registrati in precedenza (nel 2010). Accanto al Covid-19 l’Italia sta vivendo una seconda epidemia, da mancanza di lavoro. Il tasso di occupazione resta il più basso dell’Unione europea dopo Portogallo e Bulgaria. Nei mesi del coronavirus la povertà non ha fatto che avanzare e le politiche pubbliche hanno risposto con i mezzi che avevano. Da gennaio il popolo dei «coinvolti» dal reddito di cittadinanza — così li chiama l’Inps, per descrivere le famiglie beneficiarie — si è allargato di seicentomila teste, a oltre tre milioni. Fra questi sono poco più di un milione gli adulti tenuti ad accettare un posto, al più tardi alla terza offerta. Ma l’Italia è anche il Paese dei paradossi. Così Alberto Maschio, presidente dell’Associazione albergatori di Jesolo, si è ritrovato un mattino di agosto bersaglio di una campagna di odio sui social. Improperi a centinaia: «Imparate ad assumere gli italiani anziché gli stranieri»; «la schiavitù cari padroni è finita da un pezzo»; «le condizioni di lavoro nei vostri alberghi sono peggiorate in modo esponenziale e date la colpa al reddito di cittadinanza?». Gliene hanno dette di tuti i colori, fino a fargli temere un’aggressione fisica. La sua colpa? Avere messo nero su bianco in un comunicato ciò che tanti suoi colleghi dicevano solo in privato. «C’è difficoltà a reperire personale. In tanti vengono a fare il colloquio e poi ci rispondono che preferiscono restarsene a casa, coperti da reddito di cittadinanza, bonus o altre forme di sostegno». Maschio quest’estate ha stimato una carenza del 30% delle figure professionali nel suo settore a Jesolo. «Il problema è imputabile in parte a una sorta di cultura dell’assistenzialismo che si sta creando — ha denunciato —. Stiamo pagando potenziali lavoratori per starsene a casa». Tutto il mondo dell’accoglienza in Italia ne soffre, persino in questo anno di vacche magre. LavoroTurismo è la maggiore piattaforma di manodopera nel settore e Oscar Galeazzi, il suo patron, ammette: «In questi mesi ho parlato con tantissimi potenziali addetti che hanno rifiutato per via del reddito di cittadinanza». Non che sia poi uno strumento di una generosità smodata. L’importo pro-capite medio mensile è oggi di 561 euro, al costo di 7,8 miliardi di euro l’anno (se si confermano i livelli di agosto). Varato dal primo governo Conte, il provvedimento è stato di nuovo risucchiato nella contesa politica di recente. Tito Boeri e Pasquale Tridico si sono scontrati quando l’ex presidente dell’Inps ha detto in tv che metà dei tre milioni di persone che percepiscono il sussidio potrebbero essere evasori e l’attuale presidente lo ha accusato di «fare chiacchiere da bar»; spiazzante poi la notizia che percepissero il sostegno di Stato le famiglie dei presunti assassini di Willy Monteiro Duarte, pur facendo sfoggio di assoluto benessere nelle immagini dei social. La verità è che resta un’ampia area grigia, attorno a questa bandiera dei Cinque Stelle. Non tanto sulla sua necessità nella lotta al disagio, più che reale, soprattutto in era Covid-19, quanto piuttosto sul suo nesso con il mondo del lavoro e le relative politiche attive, che pure ne sarebbero state all’origine parte costitutiva. Il fatto che la Guardia di Finanza abbia scovato 101 ‘ndranghetisti tra Gioia Tauro, Aspromonte e Reggino che percepivano il contributo non toglie niente al fatto che la stragrande maggioranza del milione e 300 mila famiglie beneficiarie ne abbiano veramente bisogno. Tanto che questo sussidio in poco tempo si è conquistato una sorta di egemonia culturale bipartisan. «Lavoro non ce n’è, il clientelismo è molto forte, la politica ha sempre soddisfatto i bisogni immediati, minimi delle persone. Così io credo che ormai non si possa più tornare indietro dal reddito di cittadinanza, qui succederebbe la rivoluzione», dice Daniela De Blasio, che alle ultime comunali di Reggio Calabria si è piazzata ottava nelle liste di Forza Italia con 722 voti: «Quando dai qualcosa, toglierla qui è molto difficile». Anche più drastico Aldo Cerqua, imprenditore delle mense in provincia di Caserta dove il 13% della popolazione beneficia del sostegno. «Lavoro da dare non ne ho — taglia corto Cerqua — meno male che c’è il reddito di cittadinanza, perché ha tolto la fame dalle case». Tuttavia, in diciotto mesi di vigenza, il programma mostra tutte le pecche legate al modo frettoloso e ingenuo in cui è stato costruito: è un’istigazione al lavoro nero, per prendere allo stesso tempo sussidio e paga sottobanco, ed è anche un’istigazione alle truffe. Il caso dei fratelli accusati dell’uccisione di Willy è troppo clamoroso per essere isolato. Eppure, l’assegno è stato revocato in tutt’Italia solo a 8.200 del milione e trecentomila famiglie beneficiarie. I controlli (spesso non draconiani) hanno svelato casi in cui la richiesta era stata fatta persino da detenuti, direttamente dal carcere (158 in Sardegna, con 548 mila euro revocati, 30 a San Severo nel Foggiano, per 200 mila euro). Così un progetto immaginato per abolire la povertà rischia di distruggere ricchezza e produrre rancore e ingiustizia, se non viene ripensato. Un’architetta posillipina che preferisce, comprensibilmente, l’anonimato, sostiene che a Napoli «i lavori nei cantieri si fanno quasi tutti in nero o con una fatturazione minima, dall’intonaco alla pittura. I lavoratori prendono il reddito di cittadinanza come una pensione, lo mettono da parte, per un futuro di cui hanno paura. E per gli imprenditori è difficilissimo trovare lavoratori diversamente: a 800 euro, quelli se ne stanno a casa». E non solo al Sud. A Milano, l’Agenzia per la formazione e l’orientamento al lavoro (Afol) ha lanciato un progetto rivolto a un piccolo gruppo di percettori del sussidio, per formazione da meccanico, banconista e addetto alla logistica, con una chance di inserirsi nelle aziende partner: tra ragioni familiari, depressioni e assenze dell’ultimo minuto, su un centinaio di selezionati ne è spuntata una metà scarsa ridotta poi a trenta volenterosi. A Mondragone, in Campania, è andata peggio a un piccolo imprenditore agricolo, Gennaro Bianchini, quando a primavera è venuto il momento di raccogliere gli ortaggi. Scomparsi causa Covid i braccianti dell’Europa dell’Est, Bianchini ha chiamato sette o otto compaesani. «Hanno rifiutato tutti per via del sussidio» dice, e poco importa che ora sia possibile lavorare nei campi 60 giorni senza perderne il diritto. È finita che gli sono rimasti a marcire nei campi fagiolini per 14 mila euro. Non proprio bazzecole: un quinto del fatturato annuo della sua azienda. Dice Bianchini: esattamente i soldi che mi servivano per fare investimenti».
Boeri: “Il reddito di cittadinanza arriva a 1,5 milioni di evasori e falsi poveri”. Il Dubbio il 21 settembre 2020. “Oltre a raggiungere molti falsi poveri – spiega Boeri – il reddito di cittadinanza non raggiunge molti veri poveri e questo è forse il problema più serio. In più disincentiva il lavoro. L’ex presidente dell’Inps Tito Boeri replica, sulle colonne de La Stampa, all’attuale numero uno dell’ente Pasquale Tridico che l’aveva accusato duramente sullo stesso giornale di dire “castronerie” e “chiacchiere da bar” per aver detto che “la metà dei percettori del Reddito di cittadinanza sono evasori”. “Io – dice oggi Boeri – mi sono limitato a riferire che ci sono stime attendibili svolte dall’Inps secondo cui la metà dei tre milioni di persone che percepiscono il sussidio sono evasori. Sono stime a mio giudizio plausibili. Quando ero presidente avevo suggerito di aspettare l’Isee precompilato e l’incrocio delle banche dati prima di varare il reddito di cittadinanza”. A Boeri viene chiesto delle indagini sui presunti assassini di Willy: le verifiche sui dati non sono efficaci? “Forse hanno cominciato a ricevere il sussidio quando i controlli preventivi sui patrimoni non venivano svolti. Queste cose vanno accertate prima di concedere il sostegno”. Poi gli viene fatto osservare che Tridico, secondo il suo ragionamento, dice che i poveri che incassano il reddito nasconderebbero ricchezze fino a 60 miliardi di euro, che è la metà del nero stimato in Italia: “Non ho detto che la metà degli evasori ottiene l’assegno – prosegue Boeri – ma che la metà dei percettori del reddito potrebbero esserlo. Si tratta, come dicevo, di circa il 15% degli evasori. Quindi semmai la cifra dovrebbe essere di 18 miliardi”. “Oltre a raggiungere molti falsi poveri – afferma ancora – il reddito di cittadinanza non raggiunge molti veri poveri e questo è forse il problema più serio. In più disincentiva il lavoro: se mi viene offerto un posto, ogni euro del salario è sottratto al sussidio”. Boeri però non pensa che il Rdc andrebbe abolito: “Ci vuole un reddito minimo contro la povertà. Va riformato analizzando accuratamente tutte le informazioni disponibili”.
Luca Monticelli per “la Stampa” il 21 settembre 2020. Tito Boeri replica a Pasquale Tridico dopo gli attacchi lanciati dal presidente dell' Inps su questo giornale. Il professore della Bocconi, al vertice della previdenza sociale fino a un anno e mezzo fa, è sorpreso dal tono e dalle invettive usate dal collega. Tridico l'ha accusato di dire «castronerie», di fare «chiacchiere da bar» per aver dichiarato in una trasmissione tv che «la metà dei percettori di reddito di cittadinanza sono evasori». Boeri precisa di essere favorevole a uno strumento che riduca la povertà e spiega: «Non capisco davvero la sua reazione scomposta. Io mi sono limitato a riferire che ci sono stime attendibili svolte dall' Inps secondo cui la metà dei tre milioni di persone che percepiscono il sussidio sono evasori. Accade spesso che i politici non capiscano i dati o neghino la realtà anche quando evidente, ma gli economisti dovrebbero misurarsi solo con le analisi scientifiche», sottolinea. Poi aggiunge: «Sono temi discussi all' Istituto a partire dall' incrocio fra i dati amministrativi e campionari e sulla base di modelli di microsimulazione in seminari cui forse Tridico avrebbe fatto bene a partecipare. Sono stime a mio giudizio plausibili».
Perché plausibili?
«Inps e Istat stimano che ci siano 3 milioni di evasori totali fra gli autonomi e altri 3 tra i dipendenti. Quando unici percettori di reddito, la loro evasione permette all' intero nucleo famigliare di prendere il sussidio. Quindi non siamo lontani dall' avere 10 milioni di potenziali interessati dal reddito di cittadinanza tra gli evasori e le loro famiglie. Se il 15 per cento di questi lo percepisce abbiamo che la metà dei suoi beneficiari è evasore».
Tridico sostiene che i controlli incrociati sulle famiglie vengono fatti sin dall' avvio, le risulta?
«I controlli patrimoniali allora venivano fatti solo ex post e a campione. Quando ero presidente dell' Inps avevo suggerito di aspettare l' Isee precompilato e l' incrocio delle banche dati prima di varare il reddito di cittadinanza, perché i dati incrociati sui patrimoni sono molto efficaci nell' identificare il sommerso».
Le indagini sull' assegno preso dal padre dei fratelli Bianchi, i ragazzi di Artena accusati di aver pestato a morte Willy, sono scattate grazie alle foto dei lussi esibite su Facebook, evidentemente le verifiche sui dati non sono efficaci?
«Forse hanno cominciato a ricevere il sussidio quando i controlli preventivi sui patrimoni non venivano svolti. Queste cose vanno accertate prima di concedere il sostegno. Un conto è bloccare un pagamento prima di erogarlo, un altro è recuperare dopo quanto versato, superando i ricorsi».
Il presidente dell' Inps dice che secondo il suo ragionamento i poveri che incassano il reddito nasconderebbero ricchezze fino a 60 miliardi di euro, che è la metà del nero stimato in Italia.
«Credo non abbia capito. Non ho detto che la metà degli evasori ottiene l' assegno, ma che la metà dei percettori del reddito potrebbero esserlo. Si tratta, come dicevo, di circa il 15 per cento degli evasori.
Quindi semmai la cifra dovrebbe essere di 18 miliardi. Inoltre, tra chi froda il fisco molti potrebbero avere redditi comunque bassi. I 120 miliardi di sommerso non sono distribuiti uniformemente fra la popolazione. Ci sono grandi e piccoli evasori.
Mi sorprende questa polemica perché una delle ragioni per le quali sono stati imposti dei criteri sui patrimoni molto stringenti nel reddito di cittadinanza è che si è consapevoli che in Italia c' è una realtà di nero molto elevata. Questo non significa che non si dovesse rafforzare la misura contro la povertà introdotta con il Rei, ma solo che questo passaggio andava preparato meglio, anche nel definire lo strumento in modo più efficace».
Professore a cosa si riferisce?
«Oltre a raggiungere molti falsi poveri, il reddito di cittadinanza non raggiunge molti veri poveri e questo è forse il problema più serio. Il sussidio è congegnato in modo tale da concedere poco alle famiglie numerose e troppo ai single, soprattutto al Sud dove la soglia di povertà è più bassa. In più disincentiva il lavoro: se mi viene offerto un posto, ogni euro del salario è sottratto al sussidio e questo è come una tassa del 100 per cento. Non ci guadagno nulla a lavorare».
Insomma, lei è contro la misura bandiera dei 5 stelle, pensa che andrebbe abolita?
«Per niente, ci vuole un reddito minimo contro la povertà. Il reddito di cittadinanza va riformato analizzando accuratamente tutte le informazioni disponibili. Perché non basta scrivere una legge per risolvere il problema. I dati forniti dall' Istat a giugno ci dicono che la povertà nel 2019, dopo l' introduzione della riforma, ha conosciuto solo una piccola flessione».
Paolo Bracalini per il Giornale il 18 settembre 2020. Non è il reddito di cittadinanza, è il reddito di criminalità. Il sussidio pubblico (costo 26 miliardi di euro in un triennio) voluto dal Movimento Cinque Stelle è stato un drammatico flop, la percentuale di beneficiari che ha trovato un nuovo lavoro è irrisoria mentre i navigator vengono pagati per non fare nulla. Ma fosse solo questo. Oltre a rivelarsi un clamoroso insuccesso e un salasso per le casse pubbliche il reddito grillino si è dimostrato anche un regalo per criminali, mafiosi, spacciatori, terroristi, delinquenti abituali, truffatori ed evasori fiscali. Tutta gente che ovviamente non dichiara i proventi delle attività illecite o il reddito da lavoro nero e quindi risulta nullatenente o disoccupato, proprio i requisiti per ottenere l'assegno statale (generoso, anche oltre mille euro al mese) pagato dalle tasse altrui. I casi, scoperti dalla Guardia di Finanza, si contano ormai a centinaia. Giusto l'altro giorno i militari hanno scoperto trenta detenuti per associazione mafiosa, nel foggiano, che percepivano il reddito di cittadinanza, direttamente dal carcere, ovviamente senza averne i requisiti. A Firenze, invece, dopo un controllo sui percettori di Rdc con condanne penali, hanno trovato 41 persone che avevano omesso di indicare nelle domande la condanna per gravi delitti (tra cui associazione mafiosa) per cui è inibito il sussidio, mentre altri si erano «dimenticati» di avvertire l'Inps di essere in galera o ai domiciliari. Per mafiosi, camorristi e 'ndranghetisti il fatto di avere il reddito di cittadinanza sembra diventata una prassi abituale. Tra maggio e giugno sempre la Gdf ha scoperto in Calabria quasi 150 tra boss e gregari delle maggiori cosche di 'ndrangheta tutti beneficiari del reddito di cittadinanza. A Salerno, invece, sgominata una banda specializzata in contrabbando di sigarette, finti indigenti con il reddito di cittadinanza. A Palermo, poi, si è scoperto che un mafioso del clan di Brancaccio si pagava gli arredi pacchiani (leoni, idromassaggio, fari cangianti) della megavilla a Ficarazzi con i 900 euro mensili del reddito di cittadinanza. Ma il sussidio copre tutti i rami della criminalità. Anche molti pusher di droga hanno fatto regolare domanda e ottenuto il bonus dall'iInps. Come lo spacciatore arrestato a Siracusa con 327 dosi di cocaina, dotato di Porsche e reddito di cittadinanza. Anche due terroristi anarco-insurrezionalisti arrestati a Bologna prendevano il reddito di cittadinanza. Del resto, si scoprì che il sussidio lo riceveva anche Piero Maso, condannato per aver ucciso a sprangate i genitori, reato compatibile, secondo la legge partorita da Di Maio e soci, con l'assegno statale. Come pure ex brigatisti dl calibro di Raimondo Etro, condannato a 20 anni e sei mesi per concorso nel sequestro Moro, beneficiario del Rdc (poi, dopo la polemica, gli è stato sospeso). Nelle cronache degli ultimi mesi, tra i casi di beneficiari di reddito di cittadinanza senza averne diritto, si trova di tutto: persone arrestate per detenzione di esplosivi, narcotrafficanti, evasori totali, parcheggiatori abusivi, svaligiatori di appartamenti, zingari dediti ai furti, rapinatori. Tutti con il bonifico mensile dell'Inps, ottenuto in quanto «indigenti». Tanto basta dichiarare un'Isee falso, una scherzo per gente abituata a commettere crimini. Senza contare poi le innumerevoli frodi scoperte della Fiamme Gialle, persone con lavori in nero, patrimoni o immobili intestati che si dichiara povero e ottiene il reddito grillino. Una misura costosa, che disincentiva il lavoro, utilissima per i delinquenti che così arrotondano. Peggio di così era difficile fare.
Fabrizio Caccia per il Corriere della Sera il 18 settembre 2020. «Il reddito di cittadinanza me l' hanno tolto a gennaio, per fortuna a maggio e giugno ho preso il reddito d' emergenza, ma davvero poca roba, 200 euro al mese e adesso me la passo davvero male, non pago l' affitto da un anno e ho lo sfratto esecutivo...», dice Raimondo Etro, 63 anni, brigatista rosso condannato in via definitiva nel '99 a 20 anni e 6 mesi di carcere per concorso nella strage di via Fani e nell' omicidio del giudice Palma. Per indebita percezione del reddito di cittadinanza, introdotto l' anno scorso, la Guardia di Finanza nel 2019 ha denunciato in Italia 709 persone. «Hanno denunciato anche me - dice Etro - per difformità nell' attestazione Isee. Sono indagato per frode per colpa di mio figlio che non ha presentato in tempo la documentazione. Così adesso dovrò stringere i denti per altri 4 anni fino alla pensione sociale. Tra i brigatisti percettori, ora, è rimasta solo Federica Saraceni (condannata, in via definitiva, a 21 anni e 6 mesi nel processo per l' omicidio di Massimo D' Antona, ndr ), non credo che a lei l' abbiano tolto, ma non voglio aggiungere altro perché suo padre Luigi mi ha già querelato una volta per diffamazione dopo un mio intervento al programma tv Non è l' Arena di Massimo Giletti su La7». Brigatisti a parte, le cronache arrivano fino ai giorni nostri. Non ci sono solo i deputati col bonus Covid. La Guardia di Finanza di Foggia, ad esempio, martedì scorso ha scoperto 30 soggetti legati alla Sacra Corona Unita che percepivano il reddito, per un totale di 200 mila euro già incassati. Tre di loro, addirittura, inoltrarono la domanda direttamente dal carcere. Altri 12, una volta arrestati, si son ben guardati dal comunicare all' amministrazione l' intervenuto impedimento. Boss per le Procure, indigenti per l' Inps: a maggio scorso, il gip di Padova, Massimo Vicinanza, ha sospeso il reddito a Bruna Hodorovic, 44 anni, ritenuta a capo di una banda di Sinti specializzata in furti. La signora percepiva 900 euro al mese, mentre nel frattempo andava a rubare assieme ai parenti. A giugno, 37 soggetti quasi tutti in odor di 'ndrangheta sono stati scovati dai carabinieri di Gioia Tauro fra i percettori senza diritto. Ma nella rete dei controlli incrociati è finita pure la cantante neomelodica di Catania, Agatina Arena, 27 anni, che ha percepito 709,99 euro al mese finché la polizia non ha scoperto il minimarket abusivo che lei gestiva con due familiari. Con i soldi del reddito, se non l' avessero pizzicata, avrebbe voluto incidere il primo album della sua vita. A luglio scorso, infine, il settimanale Oggi ha rivelato che anche Pietro Maso, condannato a 30 anni di carcere per aver ucciso i suoi genitori il 17 aprile del 1991 a Montecchia di Crosara, nel veronese, ha percepito il sussidio statale almeno fino alla fine del 2019, malgrado l' interdizione perpetua dai pubblici uffici che esclude per legge l' erogazione.
Claudia Luise per “la Stampa” il 29 agosto 2020. È passato un anno da quando sono entrati in servizio i navigator, le figure professionali volute dall’allora ministro dello Sviluppo economico Luigi Di Maio per traghettare coloro che hanno ottenuto il reddito di cittadinanza verso un nuovo lavoro. Un anno trascorso per la maggior parte del tempo a formare e inserire nei centri per l’impiego delle varie regioni le 2846 persone che sono state assunte in tutte Italia con questo compito. E proprio quando sembrava che il sistema stesse iniziando a rodarsi e a produrre qualche risultato, è arrivato il Covid a rallentare ulteriormente una missione quasi impossibile, resa complicatissima dalla scarsità di richieste gestite dai Centri per l’impiego e dalla difficoltà di far coincidere la domanda di occupazione, che nella maggior parte dei casi riguarda figure professionali specializzate, con una offerta che comprende soprattutto profili bassi, bisognosi di lunghi periodi di formazione prima di poter sperare di accedere al mercato del lavoro. I navigator, nonostante abbiano iniziato formalmente a operare a settembre del 2019, solo a dicembre hanno ultimato il periodo di affiancamento con il personale del Centri per l’impiego. Due mesi di lavoro pieno e poi sono arrivati lo stop e lo smart working.
I numeri. Secondo l’ultimo report dell’Inps, aggiornato a luglio, i nuclei familiari che percepiscono il reddito di cittadinanza sono 1,132 milioni. I dati parlano di 2,8 milioni di persone che hanno ottenuto il beneficio, per un importo medio mensile di 561 euro. Un impegno economico sostanzioso per l’Italia che solo nel 2019 ha sborsato 4 miliardi e che per il 2020 prevede un incremento della spesa di oltre due miliardi. È proprio a questa platea, in costante aumento, che i navigator avrebbero dovuto trovare un lavoro attivando l’ambita fase due del reddito di cittadinanza: prevede che navigator e dipendenti dei Centri per l’impiego riescano a formulare fino a un massimo di tre proposte di lavoro «congrue» per ciascun candidato che, se rifiutate, fanno decadere il diritto all’assegno statale.
Il primo passo è il «patto per il lavoro» che ciascun candidato deve firmare. Fino al 7 luglio, 800 mila beneficiari del reddito di cittadinanza hanno sottoscritto questo accordo. L’Inps stima che tra i quasi 3 milioni di beneficiari, gli occupabili sono circa 1, 5 milioni quindi finora sono ne sono stati contattati circa la metà. «È un numero importante – fa sapere l’Anpal Servizi, la società che opera sotto il controllo dell’Agenzia nazionale delle politiche attive del lavoro e che ha formalmente assunto i navigator – soprattutto se consideriamo i mesi di lockdown in cui è stato impossibile lavorare in presenza e i colloqui sono proseguiti solo telefonicamente». Ma poi quanti di questi patti per il lavoro si sono tramutati in vere e proprie offerte? Secondo Anpal Servizi a livello nazionale le persone che hanno avuto un contratto di lavoro dopo aver percepito il reddito di cittadinanza sono 196.046. I contratti ancora attivi al 7 luglio sono 100.779, gli altri erano a termine e già scaduti. Il 60% dei contratti stipulati, infatti, sono a tempo determinato. I contratti a tempo indeterminato (inclusi gli apprendisti) sono il 20% e altrettante sono le altre tipologie contrattuali come somministrazione e collaborazione. Praticamente i Centri per l’impiego, supportati dai navigator, hanno trovato lavoro a una persona su 8 di quelle che hanno firmato il patto per il lavoro ma in termini percentuali, se si considerano tutti i beneficiari del reddito di cittadinanza, il risultato è molto modesto: appena il 3,5%.
I paradossi. Più di un paradosso accompagna il lavoro dei navigator, che nei fatti possono svolgere solo compiti burocratici come controllare le schede anagrafiche dei beneficiari del reddito e contattarli per i primi appuntamenti. Questo perché non sono dipendenti diretti dei Centri per l’impiego, quindi non possono gestire le offerte di lavoro e avere contatti con aziende e associazioni categoria. Il loro contratto scade il prossimo luglio e per ora non sono previste proroghe. Inoltre sono stati selezionati sulla base di un test di cultura generale e dei titoli di studio e la maggior parte non ha mai avuto esperienza nel mondo del recruitment, quindi sono considerati consulenti pagati 1700 euro netti al mese che però affiancano personale che lavora da anni nel settore e che spesso ha anche uno stipendio inferiore e un contratto precario. L’anno scorso, infatti, su 1200 dipendenti di Anpal Servizi ben 700 avevano contratti a tempo determinato o di collaborazione. Una situazione che sarà sanata solo entro la fine del 2021 con la progressiva stabilizzazione di tutti i lavoratori.
Il flop dei navigator: su 1,5 milioni col reddito minimo solo 100mila ha trovato lavora. Numeri non incoraggianti per i navigator, il cui contratto scadrà il prossimo anno. L’Inps stima che di tutti i percettori gli occupabili sono circa 1,5 milioni. I contratti ancora attivi al 7 luglio sono 100.779. Gabriele Laganà, Sabato 29/08/2020 su Il Giornale. I numeri sono chiari. E impietosi. E raccontano del fallimento, clamoroso, della figura del navigator. A certificare il flop è l’Anpal Servizi, la società che opera sotto il controllo dell’Agenzia nazionale delle politiche attive del lavoro. È vero che l’emergenza sanitaria ha sconvolto un po’ tutti i piani ma ad oggi solo 100mila persone hanno un lavoro grazie ai navigator le figure professionali volute dall’allora ministro dello Sviluppo economico, Luigi Di Maio, per aiutare coloro che hanno ottenuto il reddito di cittadinanza a trovare un impiego. Il percorso dei navigator, 2846 assunti in tutta Italia, è stato costellato da imprevisti. Prima hanno dovuto assistere al braccio di ferro con le Regioni che non li volevano nei loro Centri per l'impiego. Solo a dicembre sono divenuti pienamente operativi. Poi, ecco il coronavirus: visto che per i percettori del Rdc l'obbligo di ricerca del lavoro è stato sospeso fino a luglio, i navigator sono rimasti a casa ma hanno continuato a percepire uno stipendio di 1700 euro. Ora, però, anche su di loro si allungano ombre. Ad aprile i loro contratti scadranno e, a meno di sorprese, non saranno rinnovati. Quindi saranno loro stessi a dover trovare una nuova occupazione. Come ricorda La Stampa, dal report dell’Inps aggiornato a luglio i nuclei familiari che percepiscono il reddito di cittadinanza sono 1,132 milioni mentre sono 2,8 milioni le persone che hanno ottenuto il benefit per un importo medio mensile di 561 euro. Un bel costo per la casse dello Stato. Il primo passo è il "patto per il lavoro" che ciascun candidato deve firmare. Fino al 7 luglio,sono stati 800mila i beneficiari del Rdc che hanno sottoscritto l’accordo. L’Inps stima che di tutti i percettori, gli occupabili sono circa 1,5 milioni. Quindi finora ne sono stati contattati circa la metà."È un numero importante soprattutto se consideriamo i mesi di lockdown in cui è stato impossibile lavorare in presenza e i colloqui sono proseguiti solo telefonicamente", ha sottolineato Anpal Servizi. Il problema, in realtà è un altro. Quanti di questi patti per il lavoro si sono tramutati in vere offerte di impiego? Sempre secondo Anpal Servizi, a livello nazionale le persone che hanno avuto un contratto di lavoro dopo aver percepito il reddito di cittadinanza sono 196.046. Questi, invece, non sono dati incoraggianti. Ma c’è di più. I contratti ancora attivi al 7 luglio sono 100.779: tutti gli altri erano a termine e già scaduti. I contratti a tempo indeterminato, (inclusi gli apprendisti, sono il 20% e altrettante sono le altre tipologie contrattuali come somministrazione e collaborazione. Per rendere più chiaro il tutto: solo una persona su 8 di quelle che hanno firmato il patto per il lavoro ha trovato una occupazione. Se si considerano tutti i beneficiari del reddito di cittadinanza è del 3,5%. Ma nella loro storia vi è un grande paradosso. I navigator sono stati selezionati sulla base di un test di cultura generale e dei titoli di studio e sono considerati consulenti, pagati ben 1700 euro netti al mese. Gli stessi affiancano personale che lavora da anni nel settore e che spesso ha anche uno stipendio inferiore e un contratto precario. L’anno scorso su 1200 dipendenti di Anpal Servizi ben 700 avevano contratti a tempo determinato o di collaborazione. La situazione per i navigator è destinata a peggiorare: il loro contratto scade il prossimo anno e, almeno per ora, non sono previste proroghe. Quindi presto potrebbero ritrovarsi dall’altro lato della barricata. E dovranno darsi da fare per trovare un’occupazione. Se prima già era complicato nel prossimo futuro potrebbe esserlo ancora di più per via della crisi economica.
Francesco Bisozzi per “il Messaggero” il 23 agosto 2020. Forse un giorno verranno ricordati come una meteora. Cercati, selezionati, assunti e rimandati a casa senza colpo ferire. È la triste parabola dei Navigator. Nati per trovare un lavoro ai percettori del Reddito di cittadinanza, rischiano di passare i prossimi mesi a cercare un'occupazione per loro stessi. Diciamolo, un po' sono anche stati sfortunati. Prima hanno dovuto assistere al braccio di ferro con le Regioni che non li volevano nei loro Centri per l'impiego. Poi, non appena formati, sono stati lasciati a casa (con lo stipendio), causa Covid, che ha sospeso per i percettori del Reddito l'obbligo di ricerca del lavoro fino a luglio inoltrato. Ora a settembre i Navigator dovranno rimboccarsi le maniche per trovare occasioni di impiego agli 800 mila beneficiari del Reddito idonei a firmare il patto per il lavoro. Ma ad aprile i loro contratti scadranno e non saranno rinnovati. Insomma, è probabile che il pensiero della loro di occupazione potrebbe diventare prevalente. I quasi tremila Navigator, a giudicare anche dall'aria che si respira sui social nei gruppi a loro dedicati, sono in allarme. La preoccupazione del futuro si fa sentire. Però hanno pronto un piano B: potranno partecipare ai concorsi banditi dalle Regioni per il potenziamento dei Centri per l'impiego, riciclandosi come esperti in servizi per il lavoro, tecnici informatici, esperti di comunicazione o assistenti in politiche attive. In palio 11.600 posizioni. Ma questa volta potrebbe non bastare il test a crocette della selezione per Navigator. Intanto i centri per l'impiego, congelati dal virus, tra meno di dieci giorni riprenderanno a essere operativi al 100 per cento. E già questo per i Navigator è un problema. Per i beneficiari del reddito di cittadinanza l'obbligo di recarsi nei Cpi è tornato in vigore ad agosto, ma complici le vacanze la macchina deve ancora ripartire. Risultato? Dopo mesi trascorsi sul divano a causa del coronavirus, durante i quali hanno continuato a percepire però i circa 1.700 euro di stipendio pattuiti, in taluni casi con sopra una spruzzatina di bonus anti-pandemia (quello per gli autonomi), per i tutor è giunto il momento di rimboccarsi le maniche. La sfida che li aspetta, va detto, è impari: loro che hanno contribuito a trovare lavoro prima della serrata a circa 70 mila percettori solamente, una goccia nel mare, si ritroveranno adesso a duellare con la crisi profonda in cui la malattia ha fatto piombare il mercato del lavoro. Pure per questo serpeggia lo scoramento tra le file di questo esercito di carta. In fondo i diretti interessati sanno bene che le probabilità che hanno di centrare anche solo uno dei due obbiettivi che li attendono al varco, trovare un lavoro agli altri e rimediarne uno per loro stessi, sono minime. Con i concorsi delle Regioni per il rafforzamento dei Cpi in molti tuttavia sperano di riuscire in qualche modo a riciclarsi, nonostante una media realizzativa (hanno aiutato a mettere sotto contratto circa 20 assistiti a testa) a dir poco scarsa.
I NUMERI. In gioco circa 300 assunzioni nel Lazio, oltre 600 in Campania, quasi 700 in Toscana. Nel frattempo però i navigator dovranno sbrigarsi a convocare i 500 mila percettori che ancora non sono stati presi in carico, seppure in condizione di lavorare. La situazione è più critica al nord, come già anticipato dal Messaggero, dove il 70 per cento degli attivabili non cerca lavoro: su 171 mila soggetti chiamati a siglare i famosi patti per il lavoro, senza i quali non è possibile accedere al percorso d'inserimento professionale, solo 58 mila sono stati arruolati dai navigator, un terzo. C'è insomma da sbrigarsi. Prima che i contratti scadano.
Navigator, spreco infinito. Pagati per non fare nulla ora saranno pure assunti. I loro contratti scadono nell'aprile del 2021. Già in vista i concorsi per i centri regionali. Antonella Aldrighetti, Lunedì 24/08/2020 su Il Giornale. Chissà se l'ideatore del reddito di cittadinanza, che altri non è se non il presidente dell'Inps Pasquale Tridico, avrà in mente di utilizzare di qui a breve qualche stratagemma lessicale per spiegare quanto sia stato inadeguato il suo piano per il contrasto alla povertà e l'attivazione dei navigator per l'accesso al mercato del lavoro. I fatti, ma soprattutto i numeri, dopo un anno di lavoro dei navigator parlano chiaro: un fallimento in piena regola tra risultati deludenti e costi ingenti. Come ha ricordato il Messaggero, da agosto scorso a oggi, coloro che sono stati ingaggiati a tempo determinato con tanto di concorsone per mettere in relazione domanda e offerta di lavoro, ci sono costati 7,5 milioni di euro al mese tra stipendio, benefit e tasse. Pari a 90 milioni complessivi. Da qui ad aprile 2021 ce ne costeranno altri 45. E con questo impiego di risorse sono stati in grado di trovare lavoro a circa 40 mila italiani su 800 mila percettori di Rdc. Tra giovani e meno giovani e senza inveire sulle percentuali. In pratica per ogni posto di lavoro trovato l'erario ha impegnato ben 2.250 euro. E che non si dia tutta la colpa all'emergenza Covid 19 perché a oggi, a lockdown concluso da mesi, i nuovi percettori del reddito di cittadinanza che avrebbero dovuto sottoscrivere la Did ossia la dichiarazione di immediata disponibilità al lavoro non riescono a mettersi in contatto né con i centri per l'impiego, né con l'Anpal (Agenzia per le politiche attive del lavoro) sia utilizzando il mezzo informatico, sia utilizzando il semplice telefono. Eppure sembra che per accedere ai Centri per l'impiego si debba necessariamente prendere un appuntamento in ragione delle regole anti-Covid 19. Ma quel che appare decisamente più grave in un periodo di intenso homeworking o smartworking che dir si voglia, è l'inadeguatezza dell'agenzia e dei centri locali per l'impiego perché non è stata messa a punto la metodologia per sottoscrivere la Did da remoto. Già, eppure quello che avrebbero dovuto fare i navigator e il programma dell'Anpal, stava proprio nell'aggregare su un'unica piattaforma virtuale i percettori del reddito di cittadinanza e le aziende che offrivano lavoro per farli incontrare. Macché. Ad aprile prossimo alle domande già in corso dei percettori di Rdc se ne assoceranno altre: quelle dei navigator stessi i cui contratti scadranno e non saranno rinnovati. Unica via di uscita sarà la partecipazione ai concorsi attraverso i quali saranno rinforzati i Centri per l'impiego regionali. Servirebbero al momento poco meno di 12mila posizioni lavorative tra esperti in servizi per il lavoro, tecnici informatici, esperti di comunicazione o assistenti in politiche attive. In pratica costoro dovranno fare, per le singole Regioni, quello che avrebbero già dovuto fare nell'anno e mezzo precedente. In questi ultimi sei mesi di lavoro però rimangono al palo almeno tra i 500 e i 600 mila beneficiari di reddito che non hanno avuto la possibilità di mettersi a disposizione per i lavori socialmente utili ma neppure quella di presentare il proprio curriculum e mettersi in gioco.
Che fine hanno fatto i navigator? «Non siamo sanguisughe: non prendetevela con noi». Maurizio Di Fazio su L'Espresso il 7 luglio 2020. Che fine hanno fatto i navigator? È tra le domande del momento. Cosa stanno facendo, di concreto, queste quasi 3 mila persone assunte dall’Anpal, l’agenzia nazionale per le politiche attive sul lavoro, con un contratto di collaborazione coordinata e continuativa da 1.700 euro netti al mese per accompagnare chi percepisce il reddito di cittadinanza nella ricerca di un lavoro, e supportare gli operatori dei Centri per l’impiego. A un anno dalla loro assunzione, il prossimo aprile gli scadrà il contratto, non è ancora noto se saranno stabilizzati o meno, mentre della tanto strombazzata app d’incrocio tra la domanda e l’offerta di lavoro, non v’è traccia. Di più: a inizio giugno anche la Corte dei Conti ha gettato ombre sul reddito di cittadinanza e sulla sua fase 2. «Risultano essere state accolte circa 1 milione di domande, delle quali, secondo elaborazioni di questo Istituto, soltanto il 2 per cento ha poi dato luogo a un rapporto di lavoro tramite i Centri per l’impiego». Sono pochi i navigator disposti a parlare. L’impressione è quella di un corpo impenetrabile, forse per paura. «Per contratto non possiamo parlare con i giornalisti, dobbiamo essere autorizzati, si rivolga al nostro portavoce», hanno commentato tanti tra quelli che abbiamo provato a contattare. I pochi che si sono detti disposti a rispondere alle nostre domande lo hanno fatto a condizione di mantenerne l’anonimato e usare nomi di fantasia.
Francesco ha 26 anni ed è un navigator marchigiano. «Purtroppo la nostra figura non è riuscita a decollare per problemi strutturali che riguardano innanzitutto il bacino di utenza, più bisognoso di servizi sociali che per l’impiego. So che dall’esterno tutto ciò è difficile da capire, ma è questa la madre di tutti gli errori. Se ci destinassero a tutti i disoccupati (non facendo distinzione fra RdC, NASPI, DissColl, ecc.) potremmo certo essere più utili. Nel frattempo abbiamo sopperito alle carenze amministrative dei Centri per l’impiego, che sono fortemente sotto organico e non riuscivano neppure materialmente a gestire la mole di persone “gettata” nei Cpi dalla nuova misura grillina. Non è colpa nostra, siamo tutte persone cooptate per titoli (il voto più alto della laurea magistrale) e una successiva selezione scritta, con una procedura unica nazionale estremamente trasparente». «Chiaramente non sono soddisfatto, anche perché sembra che si voglia imputare a noi il fallimento di queste politiche attive; e soprattutto mi rattrista profondamente questo passare da “sanguisughe” della società, parassiti che non hanno null’altro da fare che rubare lo stipendio. Lo trovo ingiusto, non tanto per una mera difesa di casta (che poi chiamare casta un gruppo di precari già farebbe ridere), ma perché ho avuto modo di conoscere colleghi davvero preparati e competenti che si trovano a dover giustificare un sistema che non funziona. Che ha sicuramente aiutato a far uscire dalla povertà molta gente, ma ha sbagliato nell’attuazione delle politiche attive. Non chiamateci navigator, ma qualcuno che prenda in mano le politiche per il lavoro sul territorio serve». «Quello che poi purtroppo sfugge è che la maggior parte delle persone che percepiscono il reddito di cittadinanza ha problemi che esulano dal lavoro. Ragazzi giovani, donne e uomini in stato di povertà per mere ragioni lavorative sono una minoranza. Sugli altri si può fare un’unica cosa: renderli quanto più “spendibili” almeno per affacciarsi al mercato del lavoro. Sono persone che hanno una miriade di problemi, che hanno difficoltà ad aprire una mail, che non hanno né sanno fare un curriculum, che non hanno neppure la più vaga idea di come si lavori. E questo te lo dico non certo per colpevolizzare loro, sia chiaro. L’Unione Europea ci indica da tempo di perseguire la via della formazione permanente e ci ha inondato di denari ad hoc. Dove sono andati a finire? Con uno sguardo integrato e d’insieme, non solo si può rendere il nostro lavoro utile per la collettività, ma si potrebbero davvero affrontare di petto le ragioni profonde della povertà».
Laura, una lunga esperienza nel mondo accademico, è una navigator romana. «Cosa ho fatto in questi mesi di quarantena? Ho lavorato da casa, in smart working, sia da sola, contattando i beneficiari della mia lista per la valutazione dei percorsi e l'orientamento, sia in squadra per altre mansioni di back-office e preparazione dati. Anche prima del lockdown si lavorava spesso da casa, la modalità mista è sempre stata prevista per noi. Soddisfatta del mio lavoro? Mi immaginavo una maggiore valorizzazione delle nostre competenze e meno paletti. Ma abbiamo imparato molte cose, e ce l'abbiamo messa tutta. Abbiamo avviato attività sperimentali, modalità nuove di interazione, conosciuto i nostri possibili beneficiari e le loro storie. Ci siamo beccati gli insulti, le falsità e le offese di politici, commentatori e giornalisti. Ora temo che il Covid influisca negativamente sull'occupazione a venire e sulla ricerca di un lavoro. Quindi non mi aspetto più i risultati che avevamo previsto. La nostra stabilizzazione dipenderà dalla volontà di seguire o meno l'Europa per una reale efficacia delle politiche attive. Di certo il radicamento e l’inquadramento di una figura professionale come la nostra garantirebbe più incisività».
Marco è un navigator di 45 anni di stanza in Emilia Romagna. «Per noi navigator lavorare da casa o in altri luoghi era già previsto, altrimenti parleremmo di un contratto subordinato. Noi non abbiamo diritto alle ferie o alla tredicesima per esempio, né a una postazione fissa/standard; siamo dei collaboratori. Durante i lockdown ci sono state un paio di settimane di smarrimento, poi ci siamo occupati di ricerche nel mercato del lavoro e altre attività come l’elaborazione delle tabelle dei trend occupazionali e dei lavori più ricercati. La mia giornata lavorativa-tipo? Le telefonate ai percettori del reddito le facevo in genere di mattina, mentre per quanto riguarda le ricerche oppure la formazione (la nostra è continua) posso gestirle e farle quando ritengo più opportuno (la sera, la notte, il weekend). Il nostro lavoro è cambiato e per qualche settimana sicuramente abbiamo lavorato un po' meno. Adesso anche i meeting possiamo farli attraverso le piattaforme online. Sì, lavoro ancora esclusivamente da casa. Francamente pensavo a un lavoro più dinamico. A quanta gente ho trovato, fin qui, lavoro? Il problema è che se una persona percepisce il reddito di cittadinanza e trova lavoro autonomamente o grazie al Cpi, ecco, questi dati non vengono scorporati. E nella mia regione non siamo ancora arrivati alla fase delle offerte congrue. Se sarà rinnovato il nostro contratto? Ci sono troppe resistenze, specie politiche. Penso di no».
Giuseppe Colombo per huffingtonpost.it l'1 agosto 2020. Alle cinque del pomeriggio si arriva a parlare di pere. Non dal fruttivendolo. Alla Camera dei deputati. Dice Mimmo Parisi, il presidente dell’Anpal chiamato dai 5 stelle a trasformare il popolo del reddito di cittadinanza in milioni di lavoratori: “Pensate a un albero di pere. Noi aspettiamo che la pera cada, ma dobbiamo cambiare l’approccio sull’incrocio tra domanda e offerta. Dobbiamo focalizzarci sulle pere che sono ancora sull’albero”. I deputati della commissione Lavoro non ne possono più. Renata Polverini, che presiede la seduta, sbotta: “Non si è capito niente di cosa sta succedendo. Ci auguriamo di avere delle risposte la prossima volta”. Fine dell’audizione. Con una non risposta tra le decine di altrettante non risposte che dice tutto: non è stato ancora speso un euro per l’app di Mimmo l’italo-americano, quella del miracolo nel Mississippi, quella per cui il Governo gialloverde aveva stanziato 25 milioni. L’app è bloccata, abbandonata in una terra di nessuno. Eppure un anno e mezzo fa Luigi Di Maio, ai tempi ministro del Lavoro, ne aveva fatto la chiave del successo per il secondo tempo del reddito di cittadinanza, quello che deve portare il cittadino dal sussidio sulla carta all’offerta di tre posti di lavoro. Proprio per questo aveva voluto Parisi, che negli Stati Uniti ha sviluppato il Mississippi works, un software per la ricerca di lavoro. Parisi ha sempre smentito di voler vendere la sua app, ma fin dall’inizio del suo mandato alla presidenza dell’Agenzia nazionale per le politiche attive del lavoro (il decreto di nomina è del 6 febbraio 2019) è stato chiamato a mettere in campo un software che incrocia domanda e offerta. Dopo il tentativo fallito di passare la patata bollente a Invitalia, l’app è rimbalzata, a detta di Parisi, alla ministra per l’Innovazione Paola Pisano. Poi, il 4 giugno, lo stesso presidente dell’Anpal ha detto che è “tutto pronto”. Ma dell’app non si sa più nulla. Quello che si sa, e lo dice oggi lui stesso, è che non è stato speso neppure un euro dei 25 milioni di soldi pubblici stanziati. E poi c’è una seconda app. Si chiama restoincampo 2.0 ed è dedicata all’agricoltura. Di questa si sa che arriva da un modello preso in prestito dalla Regione Lazio, ma non si quanto sia costata all’Anpal e quindi in definitiva allo Stato. I deputati lo chiedono più volte a Parisi, tirando in ballo i 180mila euro che pochi minuti prima la direttrice dell’Anpal, Paola Nicastro, ha indicato come il costo. “Di questi 180mila euro mi state informando voi, io sapevo che c’è stato un costo minimo intorno ai mille euro”. Eccola un’altra delle non risposte che il guru dei big data, come è stato definito da tanti grillini, mette in fila durante un’audizione surreale, in cui più volte i deputati sono costretti a riformulare le proprie domande perché il senso delle prime risposte sfugge a tutti o quasi. A un certo punto a Montecitorio si parla delle spese “pazze” di Parisi, quelle contenute in un’interrogazione del Pd e quantificate in oltre 160mila euro tra voli in business class andata e ritorno per il Mississipi, ma anche per l’autista personale e per l’affitto di un appartamento nel prestigioso quartiere romano dei Parioli. Il 16 aprile, sempre durante un’audizione in Parlamento, il numero uno dell’Anpal aveva detto che non c’era alcun problema a pubblicare le spese sul sito di Anpal servizi, la società in house di Anpal di cui Parisi è amministratore unico. Però quelle spese non compaiono sul sito. E quindi oggi di nuovo la promessa di pubblicarle, condita dalla difesa della legittimità di quelle spese. Solo che il Parlamento non ha ancora visto quei verbali degli organi di controllo e vigilanza a cui Parisi rimanda per attestare la veridicità delle sue affermazioni. E poi viene tirato in ballo un parere dell’Anac, quello che dice che non è tenuto a pubblicare le spese perché non prende un euro per il suo ruolo di amministratore unico di Anpal servizi. E questo è vero, però è altrettanto vero che il caos sulle spese si genera proprio dal doppio ruolo di Parisi, alla guida sia di Anpal che di Anpal servizi. Si mischia tutto, anche le spese. E il problema, a detta di Parisi, allora diventa “capire come queste spese sono state ripartite”. D’altronde, come ha riferito ad aprile, viaggiare in business class è una scelta imposta dal mal di schiena. Ogni volta che si tocca un argomento durante l’audizione, ecco che la discussione vira sui comportamenti di Parisi, sui contrasti con il direttore generale che qualche giorno fa l’ha invitato a non scaricargli addosso la responsabilità dell’accertamento sulle spese. E tutte le risposte sono accompagnate da un’espressione, ripetuta sei volte: “Strumentalizzazione politica”. Perché lui, dice, è invece impegnato a girare persino nei centri per l’impiego: “Dico: sono Mimmo Parisi, faccia finta che sia uno che chiede lavoro”. Perché in fondo non è un problema se il piano industriale di Anpal servizi passa con il suo voto decisivo, quello del presidente-amministratore unico di due società. E nemmeno se la stabilizzazione dei precari dell’Anpal per ora si è configurata come un prolungamento del contratto fino a dicembre e solo per un quarto dei lavoratori che non ha un contratto a tempo indeterminato. Però intanto si prendono collaboratori perché “sono un’altra cosa” rispetto alla stabilizzazione. Man mano che l’audizione va avanti, il tutto si trasforma in una difesa del lavoro che sta facendo Anpal. E allora Anpal ha salvato le Regioni dal caos della cassa integrazione in deroga e Anpal ha fatto sottoscrivere il Patto per il lavoro a oltre un milione di persone. Più di 700-800mila “sono state convocate, quindi riattivate”. Ma il Patto per il lavoro è un documento che dice che puoi iniziare il percorso che porta dal reddito al lavoro. Niente di più. Poi c’è anche chi ha iniziato un rapporto di lavoro: 196mila, ma solo 100mila continuano ad avere ancora quel rapporto. Il miracolo grillino in salsa italo-americana è tutto qui: 196mila persone sono passate dal reddito di cittadinanza ad avere un lavoro. Il reddito, però, lo prendono altri 2 milioni e 200mila persone. Senza aver visto ancora un’offerta di lavoro.
L'ultimo flop del sistema dei navigator: non trova un impiego nemmeno gratis. Richiesti dai Comuni solo 550 volontari tra gli 1,2 milioni di beneficiari. Giuseppe Marino, Giovedì 18/06/2020 su Il Giornale. Avrebbero dovuto essere in servizio da tre giorni i 60mila assistenti civici evocati dal ministro per la Coesione sociale. Invece, dopo lo show di Francesco Boccia che mostrava al Tg1 le pettorine già pronte per le «guardie anti movida», si sono perse le tracce dell'ordinanza della Protezione civile che doveva dare il via libera al reclutamento. Eppure, come spiegava il sindaco di Bari e presidente dell'Anci Antonio Decaro, i Comuni hanno bisogno di volontari perché, finito il lockdown e ripreso il lavoro, serve ancora una mano ma ci sono meno persone con tempo libero da offrire. In teoria ci sarebbe un enorme bacino a disposizione: i percettori del reddito di cittadinanza. E per loro prestare aiuto alle comunità, oltre che un obbligo morale, sarebbe una delle condizioni anti-divano che, nelle parole dei Cinque stelle, avrebbero garantito che il sussidio da loro fortemente voluto non diventasse un incentivo a sfuggire il lavoro, anziché uno strumento di ricollocazione. La normativa prevede un massimo di otto ore di lavoro socialmente utile a settimana. Nei primi mesi di erogazione del reddito si disse che per far partire questi impieghi utili era necessario fare dei patti con i Comuni. E gli accordi sono arrivati ben nove mesi dopo l'inizio dell'erogazione del reddito, una volta cambiato governo e ministro del Lavoro. Il 22 febbraio Nunzia Catalfo ha annunciato di aver siglato i patti con i Comuni per l'attuazione dei Progetti utili alla collettività, meglio noti come Puc, a riprova che se la produttività della Pubblica amministrazione si misurasse in base alla capacità di inventare sigle e acronimi faremmo morire d'invidia i tedeschi. Vista la fame di volontari che hanno i Comuni, testimoniata sia dalle parole del presidente dell'Anci che da quelle del ministro Boccia, ci sarebbe da credere che l'offerta potenziale di 1,2 milioni di percettori del reddito sia andata a ruba. E invece dal 22 febbraio a oggi, solo 78 Comuni su 8.000 hanno stipulato patti per avviare un Puc. E in molti casi la procedura per farli partire è ancora ferma alla stipula della polizza assicurativa richiesta dai progetti. Si dirà che c'è stato di mezzo il Covid. Eppure, secondo lo stesso Mimmo Parisi, presidente dell'Anpal, i navigator che costituiscono l'ossatura del sistema-reddito di cittadinanza hanno lavorato incessantemente in smartworking. Possibile che mentre i Comuni reclutavano volontari in ogni modo e il governo annunciava gli assistenti civici non si siano trovati sindaci interessati? È l'ennesima riprova che del flop del reddito. Non solo non riesce a trovare lavoro ai percettori del sussidio, ma non riesce a impiegarli nemmeno gratis. Nei Puc già firmati i Comuni hanno preferito reclutare una metà dei volontari scegliendoli al di fuori dei beneficiari del reddito. Il risultato dei 7 miliardi investiti dallo Stato: su 1,2 milioni di beneficiari richiesti soli 550 volontari.
Sergio Rizzo per “la Repubblica” il 28 giugno 2020. E la casa? L'appartamento in zona signorile, tipo Parioli, a un costo «di non oltre tremila euro» al mese? Beh, quello è anche per «la mia personale sicurezza sanitaria a fronte dell'emergenza Covid-19, che a mio parere sarebbe garantita solo dal soggiorno in appartamento». Dice Domenico Parisi, detto Mimmo, che in più si risparmia. Non soltanto rispetto a un «soggiorno in albergo a 4 stelle» previsto dal "Regolamento spese degli organi". Ma perfino sui costi indicati dal direttore generale. Proprio lei, Paola Nicastro, che non ha voluto bollinare le sue note spese: ma questo, Mimmo Parisi, presidente dell'Anpal, l'ente pubblico che dovrebbe essere l'ariete della rivoluzione grillina nel lavoro, non lo scrive nella lettera con cui il 18 giugno chiede un parere «sulla possibilità di utilizzare un appartamento invece di un albergo». E lo chiede al presidente del suo collegio sindacale, Stefano Castiglione. Non uno qualsiasi. Bensì un consigliere della Corte dei conti che è anche il capo di gabinetto, ossia il braccio destro, della sindaca di Roma Virginia Raggi: esponente non solo dello stesso partito, il Movimento 5 stelle, ma anche della stessa corrente, quella di Luigi Di Maio, che ha nominato Parisi. E che nel collegio sindacale dell'Anpal si ritrova accanto la presidente del comitato di vigilanza del Bioparco di Roma, per nomina del Campidoglio di Virginia Raggi. Volendo proprio evitare i sussurri dei maligni, si poteva fare di meglio. In quella lettera al braccio destro della sindaca del partito che l'ha nominato c'è decisamente qualcosa che non va. A cominciare dal fatto che il presidente dell'Anpal occupa l'appartamento da ben prima che l'emergenza Covid-19 scoppiasse. Viene così in mente che sia una mossa difensiva nella guerra che ormai è scoppiata da mesi. Almeno dal 4 marzo, come ha raccontato quel giorno per Repubblica Rosaria Amato dando conto di una interrogazione parlamentare che ha sollevato il caso. Su Parisi, nel Movimento 5 stelle, adesso volano gli stracci. Volano all'indirizzo del suo dante causa Di Maio. E come sempre quando ci sono di mezzo i grillini volano su fatti solo all'apparenza marginali. Con il campo di battaglia che ormai si è allargato a dismisura. Nel mirino, l'auto con autista da 55 mila euro l'anno e i viaggi in business class per 71 mila euro del presidente dell'Anpal in America, dove ancora ha un incarico all'università del Mississippi. Che poi il vero mistero è perché per mettere uno a capo dell'agenzia statale che dovrebbe studiare il modo di trovare il lavoro ai disoccupati si è dovuto andare a prendere un signore italiano nel Mississipi. O su Marte, sarebbe stato lo stesso. E con quali risultati, poi. Zero. Intervistato dal Corriere della sera , lui ha dichiarato: «Non mi fanno lavorare». Sarà. Ma il capo dell'Anpal, 400 persone, è lui. Ed è anche il capo del braccio operativo, l'Anpal servizi. Su per giù un altro migliaio di persone. Che comanda senza nemmeno condividere il minimo potere, essendo l'amministratore unico: che non deve rendere conto delle proprie azioni, nemmeno delle note spese, all'ente Anpal di cui il medesimo Parisi è presidente. Cioè a sé stesso. Lo certifica per lettera nientemeno che il presidente del collegio sindacale dell'Anpal Castiglione, in un'arrampicata del 22 aprile scorso. Ma chi, in tutta sincerità, si sentirebbe di questionare se almeno con quelle note spese si portasse a casa qualcosa? Il fatto è che non si è portato a casa nemmeno un fico secco. Di fronte a questo, è troppo anche la spesa di un caffè. Parisi sarebbe il direttore d'orchestra dei tremila "navigator" assunti da un annetto che dovrebbero accompagnare per mano nel mondo del lavoro i disoccupati beneficiati dal reddito di cittadinanza. Peccato che quei tremila non siano evidentemente riusciti a trovare un posto di lavoro neppure a sé stessi; in più nessuno gli ha ancora spiegato che cosa devono fare. Così, al costo per i contribuenti di oltre 70 milioni di euro l'anno, la maggior parte di loro si gira i pollici continuando a incassare lo stipendio. Certo, il momento è difficile, ma nessuno muove un dito. Non lo muove nemmeno un inesistente ministero del Lavoro, dove prima c'era Di Maio e ora è arrivata un'altra grillina: Nunzia Catalfo. Dovrebbe vigilare sull'Anpal, ma che fa? Peggio ancora, la riforma dei centri dell'impiego, che Di Maio aveva giurato essere il pilastro della grande rivoluzione grillina per il mondo del lavoro, è morta e sepolta. Nessuno se n'è mai occupato. Anzi, quella in atto è un'autentica controriforma: per dare il reddito di cittadinanza, "l'assegno del divano", si è smontato il meccanismo del cosiddetto "assegno di ricollocazione" che per una volta tanto avevamo copiato nel 2015 da un sistema che funziona, quello della Svezia. «Oggi inizia una rivoluzione nel mondo del lavoro», proclamava Di Maio un anno fa. Di quella rivoluzione restano ora penosamente soltanto le note spese contestate di un signore arrivato dal Mississippi. Triste davvero.
Fabrizio Roncone per corriere.it il 14 giugno 2020. Il personaggione di questa storia è un amico di Luigi Di Maio e stavolta non arriva a Roma con il solito charter che parte da Pomigliano d’Arco, ma viaggia in business class dalla Mississippi State University (non dimentichiamoci che Di Maio è anche ministro degli Esteri). Il personaggione un curriculum ce l’ha, sebbene pure lui inciampi sui congiuntivi («Io però ho la scusante di pensare in inglese», oh yeah).
Il personaggione: Domenico Parisi detto «Mimmo» o «Cowboy», 54 anni, guru italoamericano del reinserimento nel mondo del lavoro. L’incarico: guidare l’Anpal, l’Agenzia per le politiche attive del lavoro, e realizzare quindi la parte finale del visionario progetto pentastellato, trovare un posto a chi percepisce il reddito di cittadinanza utilizzando i famosi tremila «navigator».
Problemino: queste creature mitologiche sono da tre mesi ferme ai bastioni di Orione, anche se prendono un regolare stipendio (1.700 euro netti) e pure i famosi 600 euro di bonus previsti per la crisi Covid; la app che dovrebbero usare, infatti, non c’è, non esiste, sebbene valga 25 milioni di soldi pubblici. In un Paese normale qui la storia dovrebbe finire. Dimissioni in serie, e una procura che magari s’incuriosisce. «Anche perché — dice Mimmo Parisi — a me risulta che sui sistemi informativi di milioni ne sono stati impegnati 80, e mi chiedo: che fine hanno fatto?» (starete pensando: scusa, ma non sei tu il capo? Giusto. Però tra un po’ capirete perché questo professore originario di Ostuni, Brindisi, è davvero un personaggione). La storia non si chiude allora proprio per niente. Anzi: in pochi giorni, tre lettere partite da due dirigenti di Anpal e dalla Commissione Lavoro della Conferenza delle Regioni attaccano Parisi sulla mancata rendicontazione delle sue spese personali: oltre 160 mila euro.
Per capirci: 71 mila euro per viaggi Roma-Mississippi in business class; 55 mila euro per noleggio auto con autista; 32 mila per un appartamento ai Parioli; 5 mila per spostamenti in Italia; 3 mila per pasti.
Adesso: vi ricorderete di quando Beppe Grillo, con le vene di fuori, imprecava contro gli sprechi, e poi del grande Di Battista, che per sembrare sobrio arrivava ai comizi grillini tutto piacione con il casco del motorino, o della senatrice Taverna, che si alzava nell’emiciclo di Palazzo Madama e urlava verso i banchi di Forza Italia — dove i Rolex sono piuttosto diffusi: «A zozzoniiiii!». Poi però Luigi Di Maio, da ministro del Lavoro, alza il telefono e chiama in Mississippi.
(Presidente Parisi, lei spende molto.
«Io spendo quello che mi spetta!».
Di Maio predicava misura nelle spese.
«Luigi può dire ciò che vuole. Io mica posso andare al lavoro a piedi…».
L’autista costa 55 mila euro l’anno.
«E allora? Il mio predecessore spendeva la stessa cifra. In più, era scortato. Io pure avrei potuto pretendere la scorta, ma ho rinunciato».
Lei viaggia in business class: 71 mila euro, solo nel 2019.
«Mia moglie vive negli Usa, questo Di Maio lo sapeva. Mica posso separarmi. Comunque: per rotte sopra le 5 ore, la legge è chiara, ho diritto alla business class».
In un’audizione alla Camera, lei ha detto che è costretto a viaggiare in business per colpa del mal di schiena.
«Sono stato sciocco. Volevo giustificarmi: invece è un mio diritto viaggiare in business. Punto».
Quanto guadagna?
«Mhmm… circa 160 mila euro l’anno».
È vero che ha cercato di alzarsi il compenso a 240 mila?
«Certo! Con Di Maio erano questi i patti».
Può essere più preciso?
«Gli dissi: amico mio, io lascio la cattedra di una università prestigiosa, e non posso rimetterci. Me li date 240 mila euro? Mi rispose che non c’erano problemi. Invece poi lo stipendio è stato molto più basso. Però okay, dai, non fa niente» — il professore tende a dare del tu, come usano gli anglosassoni».
Professore, senta: e la app? Perché ancora non c’è?
«Bella domanda!».
Perché non c’è?
«E lo chiede a me?».
Lei non è il capo di Anpal?
«Altra bella domanda!».
Non la seguo.
«Certo che sono il capo, ma il direttore generale, Paola Nicastro, se ne infischia».
È lei che la blocca?
«Tutti mi bloccano. Il prototipo della App è pronto. Ma non mi fanno lavorare».
Sta dicendo una cosa grave.
«Sto dicendo la verità. Poi, certo: io lo capisco che lei è frustrato…».
No, guardi: io, francamente, non mi sento frustrato.
«Okay okay… scusi, è che penso in inglese. Non volevo dire frustrato, ma deluso»).
Scena politica: l’attuale ministro del Lavoro, la grillina Nunzia Catalfo, è a dir poco mortificata. Il Pd, con il vicesegretario Andrea Orlando, ha fatto capire che la situazione è insostenibile. La Lega ha chiesto le dimissioni di Parisi e della Catalfo.
Il personaggione: «Dimettermi? Io? Ma siete pazzi?».
Adelaide Pierucci per “il Messaggero – Cronaca di Roma” il 2 giugno 2020. Redditi di cittadinanza ottenuti a tutti costi. È piena di sfumature la truffa ai danni dello Stato per carpire sussidi non dovuti. Mancate segnalazioni di inizi lavori come dipendenti, proprietà immobiliari e redditi taciuti nelle apposite domande. A piazzale Clodio la procura ha aperto una inchiesta sui furbetti del reddito. Al vaglio decine di casi che ricadono nell' apposita violazione di legge per falso. Un articolo della normativa istitutiva del reddito di cittadinanza prevede, infatti, che, «salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque, al fine di ottenere indebitamente il beneficio renda o utilizzi dichiarazioni o documenti falsi o attestanti cose non vere, ovvero omette informazioni dovute, è punito con la reclusione da due a sei anni». Si lavora su due fronti: l' Inps stana le scorciatoie e la procura procede. Come nel caso di Davide N., 27tenne di Centocelle, che pur vivendo in casa con un percettore del reddito di cittadinanza ha appositamente omesso contesta la procura nell' atto di completamento delle indagini di comunicare all' istituto di previdenza sociale «l' inizio di una attività di lavoro dipendente comportante variazione di reddito». «Una informazione - riporta il capo di imputazione, firmato dal pm Carlo Villani - dovuta e rilevante ai fini della revoca o della riduzione del beneficio». Sarebbe stata una furbata analoga a spingere Agnese P., 40enne disoccupata di Portonaccio «a ottenere indebitamente la concessione del beneficio per 400 euro al mese omettendo informazioni dovute». Come quella di non indicare nella dichiarazione sostitutiva ai fini Isee che il marito avesse percepito l' anno precedente, tra le varie somme, anche 11.000 euro frutto di buste paga. Non una circostanza di poco conto. «Se segnalata - riporta l' atto di chiusura dell' indagine - sarebbe risultato un reddito incompatibile con la concessione del sussidio». Si moltiplicano le segnalazioni di acquisti inappropriati col sussidio. Tra i casi emblematici quello di un disoccupato di Tor Sapienza percettore del reddito arrestato all' interno del carcere di Rebibbia mentre tentava di consegnare dosi di hashish alla fidanzata detenuta. Lo stupefacente, per 22 dosi, era nascosto negli slip, pronto per essere consegnato al momento dei saluti. Con quali soldi avesse acquistato lo stupefacente l' arrestato lo aveva chiarito in aula su esplicita richiesta del giudice: «Vivo con le 300 euro della pensione di invalidità e da un mese anche coi 1000 del reddito di cittadinanza. Lo stupefacente l' ho comprato con quei soldi: una sorpresa alla fidanzata per il compleanno». Intanto a febbraio la Cassazione ha stabilito riguardo il reddito che costituiscono reato le false indicazioni o le omissioni, anche parziali, dei dati dichiarati, indipendentemente dalla effettiva sussistenza delle condizioni di reddito per l' ammissione al beneficio. Per la legge deve prevalere sempre il senso di lealtà.
Bruno Palermo per “il Messaggero” il 21 maggio 2020. Secondo i magistrati dei due distretti antimafia calabresi, la ndrangheta riesce a fatturare miliardi di euro all'anno, controllando anche il respiro. Ed evidentemente nel controllo di tutte le attività che muovono soldi è rientrato anche il reddito di cittadinanza. Per gli investigatori della Guardia di Finanza di Reggio Calabria, 101 ndranghetisti, organici alle maggiori cosche della provincia, con ruoli gerarchici diversificati al loro interno, hanno comunque richiesto ed ottenuto indebitamente il sussidio. Tra di loro, esponenti anche di spicco delle più note e importanti famiglie operanti nella piana di Gioia Tauro o delle potenti ndrine reggine dei Tegano e dei Serraino. Altri invece, sono capibastone delle maggiori cosche della Locride, tra le quali la ndrina Commisso-Rumbo-Figliomeni di Siderno, la ndrina Cordì di Locri, la ndrina Manno-Maiolo di Caulonia e la ndrina D'agostino di Canolo. Ma tra le 101 persone, tra boss e gregari, individuati come indebiti percettori di reddito di cittadinanza e denunciati dalla Guardia di Finanza di Reggio Calabria nell'ambito dell'operazione Mala Civitas, ci sono anche i figli di quello che è stato definito il Pablo Escobar italiano, Roberto Pannunzi, detto Bebè, unanimemente considerato dagli investigatori italiani e statunitensi come uno dei più grandi broker mondiali di cocaina. Pannunzi, legato alla ndrangheta calabrese, si faceva vanto di pesare i soldi anziché contarli. Uno dei suoi figli, Alessandro, il maggiore, oltre ad essere sposato con la figlia di uno dei maggiori produttori mondiali colombiani di cocaina, è stato anche condannato in via definitiva per l'importazione di svariati quintali di stupefacente in Italia. Nonostante questo, però, i figli di Pannuzzi avevano comunque chiesto ed ottenuto il sussidio del reddito di cittadinanza. Le indagini condotte dai finanzieri hanno inizialmente interessato una platea di oltre 500 soggetti gravati da pesanti condanne passate in giudicato, per reati riferibili ad associazione di stampo mafioso e si sono concluse con il deferimento all'Autorità Giudiziaria di Reggio Calabria, Locri, Palmi, Vibo Valentia e Verbania di 101 soggetti richiedenti la percezione delle pubbliche provvidenze e di ulteriori 15 sottoscrittori delle richieste irregolari. Tutte le persone coinvolte nell'operazione Mala Civitas, inoltre, sono state tutte segnalate all'Inps per l'avvio del procedimento di revoca dei benefici ottenuti, con il conseguente recupero delle somme già elargite che ammontano a 516mila euro. Dopo il provvedimento dell'Autorità Giudiziaria sarà interrotta l'erogazione del sussidio che avrebbe comportato, fino al termine del periodo di erogazione della misura, un'ulteriore esborso e perdita di risorse pubbliche di oltre 470mila di euro. Sull'operazione della Guardia di Finanza di Reggio Calabria non è mancato lo scontro politico. «Ndranghetisti pagati dallo Stato attraverso il reddito di cittadinanza. Vogliamo un'Italia e una Calabria pulite» ha detto il leader della Lega Matteo Salvini, al quale ha fatto eco la capogruppo di Forza Italia alla Camera, Mariastella Gelmini che attacca il Movimento 5 Stelle: «A 101 boss della ndrangheta reddito di cittadinanza, a imprese e lavoratori onesti zero aiuti. È la doppia morale a 5 Stelle». Di altro tono le dichiarazioni della parlamentare dei 5 Stelle Federica Dieni che ringrazia la Guardia di Finanza e aggiunge: «L'operazione dimostra che l'avidità dei clan non conosce limiti» Per i deputati di Cambiamo!, Stefano Benigni, Manuela Gagliardi, Claudio Pedrazzini, Alessandro Sorte e Giorgio Silli, «il reddito di cittadinanza è finito nelle tasche di ogni sorta di malfattori compresi dei boss della ndrangheta».
Scoperti 101 ‘ndranghetisti con il reddito di cittadinanza: sussidi per 516 mila euro. Pubblicato mercoledì, 20 maggio 2020 su Corriere.it da Carlo Macrì e Alessio Ribaudo. A Reggio Calabria, la guardia di finanza ha scovato 101 fra boss e gregari delle principali ‘ndrine che avevano richiesto e riscosso il reddito di cittadinanza. Nella rete delle fiamme gialle sono finiti elementi di spicco della ‘ndrangheta di tutta la regione: da quelli di Reggio Calabria, appartenenti alle famiglie dei Tegano e Serraino, ai capibastone della Locride dei Commisso-Rumbo-Figliomeni di Siderno passando ai Cordì di Locri o ai Manno-Maiolo di Caulonia e D’Agostino di Canolo sino alla potente ‘ndrina di Da di Gioia Tauro. Tutti sono stati segnalati all’Inps per l’avvio del procedimento di revoca dei benefici ottenuti e il recupero di somme già elargite per circa 516 mila euro. L’erogazione del sussidio avrebbe comportato fino al termine del periodo di concessione previsto un ulteriore esborso per 470 mila euro. Le indagini svolte dai finanzieri hanno inizialmente interessato una platea di oltre 500 persone con pesanti condanne alle spalle per associazione di stampo mafioso e hanno interessato le Procure di Reggio Calabria, Locri, Palmi, Vibo Valentia e Verbania. Per gli inquirenti «il risultato conseguito, caratterizzato in questo periodo da una diffusa richiesta di sussidi pubblici per sopperire alle difficoltà connesse alla pandemia da Covid19 in atto, testimonia l’approccio multidisciplinare e trasversale dell’azione sviluppata nelle attività di servizio dalla Guardia di Finanza, che opera costantemente allo scopo di assicurare che le misure di sussidio apprestate dallo Stato siano effettivamente destinate alle fasce più deboli e bisognose della popolazione e non siano invece preda di individui disonesti ed irrispettosi delle leggi». Fra di loro ci sono anche i figli di quello che è stato definito il «Pablo Escobar italiano», Roberto Pannunzi detto «Bebé» che è considerato dagli investigatori italiani «come uno dei più grandi broker mondiali di cocaina e, uno dei suoi figli, Alessandro, il maggiore, oltre ad essere sposato con la figlia di uno dei maggiori produttori mondiali colombiani di cocaina, è stato anche condannato in via definitiva per l’importazione di svariati quintali di stupefacente in Italia».
La famiglia sotto sfratto: «Siamo troppo poveri per una casa popolare». Pubblicato domenica, 16 febbraio 2020 su Corriere.it da Giampiero Rossi. Prima erano «troppo ricchi» per avere una casa popolare: perché il reddito familiare superava addirittura i settemila euro annui. E allora hanno dovuto fare acrobazie contabili per pagare, ogni benedetto mese, l’affitto del loro piccolo appartamento. Ora, con un Isee calcolato a zero euro, sono — di fatto — troppo poveri per entrare nelle graduatorie, perché le quote riservate agli indigenti sono già esaurite. Risultato: tra cinque settimane Abdennaaji El Taoumi, sua moglie Valeria Pianta e i figli Sofia e Adam saranno senza casa. «In realtà dovremmo essere già per strada — racconta la signora Pianta — ma finora siamo riusciti a guadagnare tempo con proroghe e rinvii». Ma la data del 25 marzo è, purtroppo, una scadenza vera. Quel giorno dovranno per forza liberare l’appartamento di 40 metri quadrati in cui vivono da sette anni, in cambio di 700 euro di affitto, «pagato con regolarità fino a quando ce l’abbiamo fatta. Poi...». Poi è arrivata una di quelle tempeste perfette tutt’altro che rare nel mutato clima del mondo del lavoro milanese: nell’autunno 2017 la cooperativa di facchinaggio che dava lavoro a Adennaaji perde un appalto e lascia a casa lui e altri colleghi. E in quelle stesse settimane anche Valeria si trova disoccupata. E questa volta l’economia e i mercati non c’entrano: «Ero rimasta incinta e allora al bar dove lavoravo non mi hanno rinnovato il contratto». Logico, no? A quel punto per la famiglia inizia una nuova vita: rallegrata, nel 2018, dalla nascita del secondogenito, ma appesantita dalle difficoltà economiche e dall’ansia di trovare lavori occasionali, perché di risparmi su cui fare conto ce sono ben pochi. «Per un certo periodo l’unica entrata è stata l’indennità per un incidente capitato a mio marito», confida Valeria. Ma soprattutto inizia la Via Crucis tra gli sportelli della pubblica amministrazione nel tentativo di ottenere un alloggio pubblico: «Sono andata all’Aler, al Comune, alla Regione, ai servizi sociali, e poi sono tornata in tutti questi posti — racconta Valeria Pianta con una compostezza sorprendente — perché non mi rassegnavo alle risposte assurde che avevo ricevuto». Quali risposte? «Da un primo bando per una casa Aler siamo rimasti esclusi perché avevamo un reddito più alto rispetto ai requisiti richiesti: settemila euro annui». Ma la beffa si completa con il bando del 2019: «Ci siamo presentati da indigenti, perché purtroppo il nostro Isee era pari a zero, l’unica entrata è stata il bonus bebè. Ma mi hanno già detto che la quota di alloggi riservata agli indigenti è già esaurita…». E il rimpallo si estende agli uffici comunali. «È una situazione vergognosa e inaccettabile — commenta Carmela Rozza, consigliera regionale del Pd alla quale la famiglia ha chiesto aiuto —. Un cittadino in difficoltà deve poter contare sulle risposte dalla pubblica amministrazione, senza rimbalzare da uno sportello all’altro. D’altra parte questo è uno degli effetti della nuova legge regionale, che ha fatto scomparire la regia unica sulle assegnazioni e ha creato un labirinto di bandi». Un problema drammatico, poi, è quello degli alloggi d’emergenza: il Comune, semplicemente, non ne ha. «E nello stesso tempo c’è il tetto del 20 per cento di case per gli indigenti — aggiunge la consigliera Rozza — ma questa vicenda dice anche chi sono gli indigenti di milanesi oggi: sono padri e madri di famiglia che hanno perso il lavoro». Esattamente come i genitori di Adam e Sofia (che venerdì scorso ha compiuto 3 anni). E il 25 marzo si avvicina pericolosamente.
Daniela Uva per “il Giornale” il 18 febbraio 2020. A Zumaglia, provincia di Biella, l' unico negozio di alimentari sopravvissuto alla crisi ha chiuso qualche mese fa. Poco prima era toccato alla panetteria e all' edicola. Nella più grande Follonica, in provincia di Grosseto, solo nel corso del 2019 sono stati 55 gli esercizi commerciali a dover abbassare la saracinesca. E poi c' è il caso di Trento, dove i locali un tempo occupati da negozi - vuoti e ormai degradati -, sono talmente tanti da aver spinto l' amministrazione comunale ad approvare una delibera che permetterà di trasformare le vetrine in luoghi da esposizione di quadri e opere d' arte. Per dare vita a un museo a cielo aperto, in attesa che tornino i fasti di un tempo. Da Nord a Sud, la moria dei punti vendita di vicinato continua senza sosta. I piccoli commercianti sono schiacciati dalla crisi, dalla burocrazia e dalla concorrenza. Quella dei grandi centri commerciali, che attirano clienti grazie ai prezzi imbattibili, e quella del web, dove le piattaforme dedicate al commercio (...) (...) online sono diventati colossi in grado di condizionare il mercato e di mettere in difficoltà perfino la grande distribuzione. Il risultato è che borghi e paesi, soprattutto i più piccoli, spesso già spopolati, rischiano la definitiva desertificazione. Un fenomeno che nelle grandi città tocca le periferie, mentre il centro pullula invece di multinazionali e monomarca di brand globalizzati. A salvarsi, in qualche caso, solo alcune botteghe storiche e attività di nicchia, che sono riuscite a evolversi e ad offrire ai clienti prodotti e servizi su misura. La conferma di quanto la situazione sia allarmante arriva da una ricerca condotta da Confesercenti. Dallo studio emerge che nel corso del 2019 sono spariti almeno 5mila punti vendita al dettaglio: il ritmo è di 14 chiusure al giorno. Negli ultimi nove anni l' ecatombe ha coinvolto almeno 35mila negozi di vicinato, mandando in fumo qualcosa come tre miliardi di euro. La prima causa, secondo l' associazione di categoria, è la contrazione dei consumi. Ogni famiglia spende in media 2.530 euro in meno all' anno rispetto al 2011. E questo non solo nelle aree più povere del Paese. Basti pensare che le famiglie lombarde hanno ridotto le loro uscite del 3,5 per cento, mentre quelle venete del 4,4 per cento. I settori più colpiti da questa «spending review» fatta in casa sono alimentari e bevande non alcoliche (-5,6%), vestiario e calzature (-3,3%), mobili ed elettrodomestici (-7,5%), libri (-19,3%), giornali (-40,1%). Ma non è solo la maggiore propensione al risparmio a mettere in ginocchio il piccolo commercio. Il dito è puntato anche contro burocrazia, grandi centri commerciali e e-commerce. «Uno dei settori più in sofferenza è l' abbigliamento conferma Mauro Bussoni, segretario di Confesercenti -. La concorrenza dell' online e degli outlet è troppo forte. Così come insostenibile è quella generata da iniziative di stampo americano, come il black friday. Ma questo non vuol dire che difendersi non sia possibile. Ci sono realtà di quartiere che ce l' hanno fatta, specializzandosi nella qualità, nella conoscenza dei prodotti e nei servizi per i clienti. E conquistando nicchie di mercato importanti». La maggior parte dei piccoli commercianti continua però a soffrire.Sempre secondo Confesercenti, lo scorso anno solo il 18 per cento dei dettaglianti ha chiuso con un bilancio positivo. Mentre la metà il 48 per cento ha paura del futuro. Un timore giustificato, visto che negli ultimi nove anni sono spariti 13.031 negozi di abbigliamento, 628 librerie, 3.083 edicole, 4.115 ferramenta, 1.034 giocattolai e 3.357 botteghe specializzate in calzature e articoli in pelle. A fronte di questa emorragia di affari la concorrenza delle multinazionali dello shopping virtuale cresce sempre di più: secondo l' Istat lo scorso anno le vendite dei piccoli negozi fisici sono diminuite dello 0,6 per cento, mentre quelle del commercio elettronico hanno fatto un balzo in avanti del 16 per cento, con una spesa complessiva di 31,6 miliardi di euro da parte dei clienti italiani. «Le botteghe artigiane vivono della spesa delle famiglie. Se i consumi calano, e le risorse vengono utilizzate quasi solo su internet o nei centri commerciali, il destino di queste realtà non può che essere la chiusura spiega Paolo Zabeo, coordinatore dell' Ufficio studi della Cgia di Mestre -. Se poi a questi problemi aggiungiamo il costante aumento delle tasse, soprattutto locali, la pressione della burocrazia e la crescita dei costi fissi è chiaro che la sopravvivenza diventa impossibile». Questo è vero soprattutto nei centri più piccoli e in montagna. «Ormai i borghi nei quali non esiste più un negozio non sono più una rarità, basta andare in alcune zone dell' Appennino per rendersene conto prosegue Zabeo -. Stiamo vivendo una progressiva desertificazione. Passeggiando si incontrano solo saracinesche abbassate e insegne spente. È un problema, non solo economico». Le botteghe di vicinato sono luoghi di socialità, presidi di sicurezza. La loro presenza, le loro luci, il via vai di clienti rappresenta una risorsa della quale le città non possono fare a meno. «Se chiudono i negozi aumenta il degrado, diminuisce la qualità della vita, le strade sono meno sicure si infervora Zabeo -. Ci sono centinaia di sindaci preoccupati. E molti hanno iniziato a prendere dei provvedimenti. A Padova, per esempio, il Comune ha stretto un accordo con i commercianti per riportare alla vita un' area dimenticata a ridosso della stazione ferroviaria. Chi vorrà potrà aprire senza licenza, in modo da risparmiare mediamente 30mila euro. A patto che accetti di lavorare fino a tarda sera, di mantenere accese le luci durante la notte e di occuparsi della pulizia del marciapiede». Su questa scia si stanno muovendo anche altre città, intenzionate a combattere desertificazione e spopolamento a suon di sconti sulle tasse. L' obiettivo è aiutare chi vuol mettersi in affari per aprire piccoli supermercati, ma anche librerie, negozi di musica e agenzie di viaggio. «Anche questi settori sono in enorme difficoltà precisa Sandro Castaldo, docente all' università Bocconi di Milano -. Sono in assoluto quelli sui quali la concorrenza dell' e-commerce pesa di più. Nel caso dei libri la penetrazione delle vendite online supera ormai il 15 per cento. Nel caso del food, invece, la crisi dei piccoli punti vendita privati è causata soprattutto dalla nascita di negozi di prossimità legati a grandi catene. Stanno nascendo un po' in tutta Italia, e servono a portare sotto casa i marchi tradizionalmente legati alla grande distribuzione». Nonostante le piccole dimensioni, queste realtà sono in grado di offrire prezzi estremamente concorrenziali, che pongono automaticamente fuori mercato le botteghe a conduzione familiare. Ecco perché oggi più che mai è necessario fare un salto di qualità, specializzarsi, distinguersi dagli altri. Puntando prima di tutto sulle eccellenze. Per sopravvivere bisogna scegliere posizionamenti molto specifici e coraggiosi prosegue Castaldo -. Alcuni puntano sulla conoscenza diretta dei clienti, che apprezzano il contatto personale. Altri su servizi come la consegna a domicilio gratuita con una semplice telefonata. Altri ancora sulla scelta di prodotti di nicchia, qualitativamente eccellenti e difficili da reperire altrove». L' imperativo è non rimanere nel limbo, affidandosi anche alla tecnologia. «Anche se l' online sta creando problemi, la tecnologia non va demonizzata conclude Bussoni di Confesercenti -. L' esempio estremo in qualche caso ha già avuto successo: c' è chi ha sviluppato app personalizzate per facilitare il rapporto con i clienti».
Diventare poveri, Daniele e la vetreria: «Dormo in fabbrica. Uno strazio non avere i soldi per i miei operai». Pubblicato domenica, 23 febbraio 2020 su Corriere.it da Giusi Fasano. Daniele Mazzuccato, 53 anni, apre il divano letto nella stanza che ha ricavato in azienda: vive e dorme nella fabbrica che aveva fondato nel ‘93 . L’Istat la chiama «linea di povertà» e basta nominarla perché prenda forma, come una riga disegnata su un foglio. Per sapere quanto sono poveri i poveri si indaga sulle spese delle famiglie: meno spendono rispetto alla nostra riga disegnata sul foglio, più è profondo il loro stato di indigenza. Gli ultimi dati disponibili si riferiscono all’anno 2018. Raccontano che in Italia abbiamo un milione e ottocentomila famiglie in povertà assoluta, cioè il 7% delle famiglie del nostro Paese, che equivalgono a cinque milioni di persone. Le famiglie in condizioni di povertà relativa, invece, sono poco più di tre milioni (l’11,8 per cento del totale), e cioè 9 milioni di individui. Parliamo di famiglie o singoli che non possono permettersi di riempire il «paniere di beni e servizi» necessari per avere una vita accettabile. Che magari si sono ritrovati poveri assoluti (o relativi) dopo una vita vissuta senza troppi affanni. Il lavoro che manca all’improvviso, una malattia, una situazione familiare difficile, un investimento sbagliato, un divorzio...e le loro vite tutto a un tratto finite alla deriva. È del loro diventare poveri che vi racconteremo in questa inchiesta.
Qual è stato l’anno del precipizio?
«Il 2008. Alla fine di quell’anno gli ordini cominciarono a calare, ricordo che arrivava una disdetta dietro l’altra e nessun pagamento. Avevo 35 dipendenti, tre milioni di fatturato. Lei ha idea di che cosa significhi pagare 35 stipendi, la previdenza, i fornitori, le spedizioni, le scadenze con le banche e con lo Stato? I costi rimasero invariati ma le entrate crollarono e nel giro di pochi mesi ho capito che le cose si mettevano male. E infatti nel 2009 si è dimezzato il fatturato».
Ma ha resistito. Anzi: lei è diventato un simbolo della resistenza alla crisi.
«E a cosa è servito? A guardarla ora dico con amarezza che forse lo sbaglio più grande che ho fatto è stato proprio resistere per tentare di non licenziare i miei operai. Ogni tot mesi ci dicevano: non mollate che entro fine anno usciremo dal tunnel. E invece siamo finiti in un buco: da luglio 2019 la mia produzione è zero. Sono sommerso da una montagna di debiti e oggi vivo senza sapere se domani avrò i soldi per comprarmi da mangiare».
E i suoi dipendenti?
«Mi sono rimasti due impiegati a orario ridotto e due operai in cassa integrazione. L’altro giorno per dare a loro qualche stipendio arretrato ho chiamato degli amici iraniani conosciuti nelle fiere. Gli ho detto: ho bisogno di soldi e ho qui dei lampadari da svendere. Ne volete? Ne hanno presi 30 a prezzo stracciato. Valgono dieci volte quel che li ho venduti. Qui siamo gente seria, quel che facciamo ha un suo valore. Non è la robaccia che si trova in giro».
Daniele Mazzuccato passa accanto alla fila degli scatoloni destinati all’Iran e li sfiora ad uno ad uno come se volesse salutarli. Classe 1967, lui è uno degli imprenditori più noti dell’isola di Murano (Venezia) che tutto il mondo conosce per la lavorazione del vetro. «Io faccio vetro da 38 anni, so fare solo quello», dice. Ma forse a questo punto sarebbe meglio parlare di ex imprenditore perché, appunto, da sette mesi l’azienda che porta il suo nome — e che fabbrica lampadari dal 1993 — ha chiuso la produzione. Dieci anni di lavoro a singhiozzo, prestiti su prestiti, cassa integrazione, sequestro della merce e alla fine la resa.
Nel suo capannone però ci sono ragazzi che lavorano davanti ai forni. Chi sono?
«Lui è Roberto», lo presenta. «Ha messo su una startup con altri giovani per creare oggetti di vetro e io gli ho affittato la struttura e gli strumenti. Quando è venuto a chiedermi dell’affitto gli ho detto: per me va bene ma sappi che non farai soldi e avrai tantissimi problemi. A me è rimasto soltanto questo forno (indica l’unico spento) e ci passerò davanti mille volte al giorno. Anche perché io abito qui dentro».
Come “qui dentro”?
«Qui. Nel capannone (dietro una porta compare un tavolo, un lavandino, dei pensili). Di sera apro il divano e dormo in cucina».
Non ha più una casa?
«Dovrei vivere da mia madre ma preferisco di no. Ho cominciato questa vita quando mi sono sostituito al fonditore, cioè l’uomo che di notte faceva il vetro che doveva essere lavorato il giorno dopo. Mi costava troppo e allora ho detto: lo faccio io. Per questo ho cominciato a dormire in azienda, e man mano mi ci sono abituato. Adesso ci vivo. Di giorno passa mia madre a portarmi la spesa, ogni tanto viene qualche amico. Io non ho figli e sto da 12 anni con una donna che vive a Roma e che vorrebbe convincermi a spostarmi lì. Ma sono cresciuto qui, nel posto più bello del mondo. Non me ne andrò mai».
A quanto ammontano i suoi debiti?
«Due milioni fra Stato, fornitori, banche e dipendenti. Lo confesso: in questi dieci anni di difficoltà ho cercato di pagare i lavoratori invece delle tasse e dei debiti con le banche. Quasi la metà di loro sono riuscito a portarla fino alla pensione, qualcuno ha trovato la sua strada, altri ho dovuto licenziarli perché non potevo più andare avanti. I miei operai non erano sconosciuti, erano amici, ci giocavo a calcio da ragazzo, conosco le loro famiglie. Lo vedevano da soli che i pacchi non partivano e che avevamo il magazzino pieno di merce invenduta. Loro sono la mia ferita più grande. Alcuni sono venuti a chiedermi i vecchi stipendi perché magari hanno figli piccoli e nemmeno un centesimo: non poterli aiutare per me è straziante».
Perché da un certo punto in poi le cose sono andate storte secondo lei?
«Perché la gente ha cominciato a non avere più soldi, è cambiata la spesa, sono cambiati anche i gusti nell’arredamento, credo. C’è anche una questione geografica, chiamiamola così, perché se lavori con Paesi come la Siria, l’Iran o la Russia devi fare i conti con la guerra o con l’embargo. Poi c’è l’euro che ha indebolito la classe media, c’è che per noi imprenditori le tasse, i costi e burocrazia sono diventati insostenibili. E, per dirne un’altra, si è moltiplicata la robaccia spacciata per autentica. Se vuoi un lampadario in vetro di Murano non puoi pagarlo cento euro. Se tutto il finto Murano fosse vero quest’isola dovrebbe essere grande quanto l’Italia intera».
Come si esce da tutto questo?
«Con degli sgravi fiscali veri, con la riduzione del prezzo del gas che serve per tenere accesi i forni, con l’accesso al credito che non sia proibitivo, per esempio. Ma come capisce chiunque, non sono rimedi che gli imprenditori possono adottare da soli».
Ha provato a ridurre i suoi debiti?
«Certo. Ho provato con la rottamazione delle cartelle esattoriali dopo che la ex Equitalia mi ha sequestrato la merce. La prima rata era di 103 mila euro e l’ho pagata, ma poi non sono più riuscito ad andare avanti. Anche perché ho aperto un contenzioso con due banche e all’improvviso tutte hanno chiuso i rubinetti dei crediti, quindi le possibilità di farcela sono scese a zero. Che poi anche lì, che storia...»
Quale storia?
«I soldi della prima rata sono arrivati dall’affitto del capannone. Ho chiamato la banca con la quale avevo dei debiti e ho detto: mi saranno accreditati dei soldi sul conto. Vi prego non prendeteli voi, mi servono per la rottamazione, voglio provare a risollevarmi. E sa cos’è successo?».
Cosa?
«Un anonimo mi ha avvisato: guarda che la banca ha deciso di fregarti. Pensi: per pagare lo Stato ho dovuto trovare il modo di aggirare la banca. Fortuna che mi hanno avvertito. Si capisce che ho seminato bene nella vita...».
Di cosa vive oggi?
«Dell’aiuto della donna che amo, del cibo che mi compra mia madre e della carità degli amici che mi danno qualche dieci euro e mi comprano le sigarette. È da più di dieci anni che non ho un vestito nuovo. Devo dire che mi vogliono bene in tanti, nessuno mi fa sentire un fallito. Ripeto: devo aver fatto del bene per riceverne così tanto. Io, come vede, non sono messo bene, certo. Ma guardi che c’è chi sta peggio di me. Ci sono famiglie con figli che non sanno più a che santo votarsi».
Lei ha mai pensato al suicidio?
«No, anche se posso capire chi si è ucciso e, come sapete, qui in Veneto lo hanno fatto tanti colleghi imprenditori. Posso immaginare lo sconforto, l’ansia per il futuro, la disperazione... Io non lo farei mai ma so qual è la strada per arrivarci».
Cosa c’è nel libro dei sogni di Daniele Mazzuccato?
«C’è un sogno impossibile e cioè che Murano torni a essere l’isola degli anni Novanta, quando c’era il lavoro per tutti e una comunità che produceva e prosperava. A quei tempi qui eravamo in seimila a lavorare il vetro, adesso saranno rimasti forse in duecento e non c’è una sola azienda che non sia in crisi».
Perché non considerare la soluzione di trasferirsi a Roma, come le chiede la sua compagna?
«Perché non saprei vivere lontano da questo silenzio, dai canali, da Venezia... sa cosa le dico? Che non saprei vivere nemmeno lontano dal mio capannone. E fa niente se il forno è spento. Magari prima o poi ce la faccio a pagare i debiti e rimetterlo in funzione».
Qualche istante di silenzio.
«Beh... Questo lo metta nella risposta di prima sui sogni».
Italia 2020, la povertà non è stata abolita: aumenta il divario tra i ricchi e i poveri. Giulio Cavalli il 22 Gennaio 2020 su Il Riformista. Si racconta che alla fine degli anni 30 del secolo scorso l’ambasciatore nazista in Francia Otto Abetz visitò Picasso nel suo appartamento parigino e notando sul tavolo una foto del suo celebre quadro Guernica gli chiese: «Avete fatto voi questo orrore, Maestro?». Picasso rispose: «No, è opera vostra». Le cronache non raccontano con che espressione l’ufficiale nazista accusò il contraccolpo ma sicuramente ha qualcosa in comune con la faccia che certa politica ha sfoderato di fronte ai numeri sconcertanti che Oxfam ha pubblicato alla vigilia del World Economic Forum di Davos, ribadendo ancora una volta, se ce ne fosse bisogno, che le disuguaglianze esistono, prosperano e promettono di aumentare a grandi falcate. Il mondo disegnato dai numeri di Oxfam non ha nulla a che vedere con la decantata società delle grandi opportunità e della meritocrazia che ci viene propinata in continuazione, il mondo disegnato dalle statistiche è una piramide con una base di 3,8 miliardi di poveri che posseggono l’1% della ricchezza spalmata in briciole mentre 2.153 miliardari detengono la stessa ricchezza di 4 miliardi e mezzo di persone. Venendo a noi in Italia l’1% più ricco detiene la stessa ricchezza del 70% della popolazione con una disuguaglianza cresciuta in 20 anni del 7,6%. Eccolo qui il primo punto, quello su cui la politica (anche la nostra politica) sembra continuare a balbettare: ci sta bene un Paese sbilanciato così? Perché la prima responsabile reazione a un quadro del genere (come per Guernica) sta nel riconoscere uno stato di cose che non lascia troppo spazio alle interpretazioni. Si può credere che tutto questo sia iniquo e immorale (e allora sarebbe il caso di smettere di balbettare quando si parla del “chi più ha, più paghi”) oppure bisogna avere la serietà di confessare che questo è esattamente la società che qualcuno vorrebbe. Se a qualcuno basta cullare il sogno di poter diventare membro del dorato club dell’1% ricchissimo allora bisognerebbe ricordargli che la mobilità sociale rimane un miraggio poiché i figli dei ricchi a parità di istruzione guadagnano il 17% in più di quelli dei poveri e i numeri ci dicono che i ricchi diventano sempre più ricchi (con un potere economico che continua a consolidarsi) mentre milioni di persone non vedono ricompensati i propri sforzi lavoratiti e non beneficiano mai della crescita. 1/3 dei figli di genitori più poveri, sotto il profilo patrimoniale, è destinato a rimanere fermo al piano più basso (quello in cui si colloca il 20% più povero della popolazione), mentre il 58% di quelli i cui genitori appartengono al 40% più ricco, manterrebbe una posizione apicale: in Italia per diventare ricchi la soluzione migliore è nascere figlio di un ricco. I numeri poi vanno letti e vanno interpretati: se non ci si fermasse ai tweet di qualche capopolo si potrebbe scoprire che il profondo senso di ingiustizia e di insicurezza che attanaglia il Paese (che lanciano con furore le proposte estremiste) sono il risultato di una disperanza sociale che inchioda milioni di italiani a un futuro ineluttabilmente sempre uguale a se stesso, senza occasioni, senza opportunità. Che i poveri usino così tante energie contro altri poveri per timore di diventare ancora più poveri senza nemmeno osare la speranza di migliorare la propria vita è un sentimento che sarebbe riduttivo rinchiudere nel razzismo o nel cattivismo: si scambia per conservatorismo uno stare fermi per la convinzione che possa andare solo peggio. C’è una politica che riesce a parlare di questo? No, per ora no. Ci si indigna, certo, molto. Ogni anno sui nuovi dati delle disuguaglianze tutti i partiti (tranne qualche spericolato che riesce addirittura a negare i numeri) si crucciano e si indignano. Ma l’hanno fatto loro, anche loro, tutto questo. O no? Poi, finalmente, c’è la questione delle donne. Una questione seria, densa, qualcosa di molto più profondo delle frasi sbagliate (e per carità giustamente condannabili) di un presentatore televisivo di una competizione nazionalpopolare: in Italia una donna guadagna il 23,7% di un uomo. Si badi bene: stesse mansioni, stesse competenze, stesso titolo di studio, stesso orario, tutto perfettamente identico. Con una differenza sostanziale: il 38,3% di una madre tra i 18 e 64 anni con figli under 15 è costretta a modificare i propri aspetti professionali per conciliare lavoro e famiglia. Fare il genitore è un lavoro solo per donne (altro che genitore 1, genitore 2 e famiglie canoniche e tradizionali) ed è un lavoro che oltre a non essere pagato costa anche la perdita del proprio lavoro. Mentre ci si impegna a declinare le desinenze al femminile forse si potrebbe cominciare anche a declinare la società, nel frattempo. E i giovani? Ah, i giovani, che tutti i nostri leader inseguono su tutti i social possibili e immaginabili: oltre il 30% degli occupati giovani guadagna oggi meno di 800 euro lordi al mese. Il 13% degli under 29 italiani versa in condizione di povertà lavorativa. Però fermiamoci un secondo: questi numeri ci indignano? Perfetto, ci hanno indignato anche l’anno scorso. Ne avete sentito parlare in questo ultimo anno? No, la disuguaglianza viene trattata come l’effimera recriminazione di chi non ce l’ha fatta perché non si è impegnato abbastanza o perché non ha abbastanza talento. L’aspetto più inquietante del rapporto Oxfam è che ogni anno è uguale a se stesso, anzi scivola sempre verso il peggio, e ogni anno sembra che la politica non abbia nemmeno più il vocabolario per riuscire a parlarne. I ricchi del mondo sono dei geni della comunicazione mentre stare dalla parte dei poveri suona anacronistico come un’esibizione sul palco di Sanremo. Forse davvero siamo ancora ai tempi della lotta di classe. E ancora la stanno vincendo i ricchi. Come sempre.
Povertà, in Italia 12 milioni a rischio: cresce ancora la diseguaglianza. Redazione de Il Riformista il 5 Dicembre 2019. Nel 2018 il 20,3% (valore stabile rispetto al 2017) delle persone residenti in Italia (circa 12 milioni e 230 mila individui), risulta a rischio di povertà, cioè hanno un reddito netto equivalente nell’anno precedente all’indagine, senza componenti figurative e in natura, inferiore a 10.106 euro (842 euro al mese). A rilevarlo è l’Istat in un rapporto dove si mette nero su bianco i dati su condizioni di vita, reddito e carico fiscale delle famiglie italiane.
IL REDDITO DELLE FAMIGLIE – In particolare l’istituto di statistica stima che nel 2017 le famiglie residenti in Italia abbiano percepito un reddito netto pari in media a 31.393 euro, 2.616 euro al mese. La crescita rispetto all’anno precedente accelera in termini nominali (+2,6% da +2,0%) ma rallenta in termini reali (+1,2% da +2,1%). L’andamento del reddito familiare nel corso del 2017 mostra una dinamica differenziata per tipo di fonte: mentre i redditi da lavoro autonomo e i redditi da pensioni e/o trasferimenti pubblici sono cresciuti rispettivamente del 3,1% e del 2,0%, i redditi da lavoro dipendente sono diminuiti dello 0,5% (prima contrazione dal 2013). Inoltre, i redditi da capitale sono aumentati del 4,4% grazie all’incremento degli affitti figurativi.
LE DISEGUAGLIANZE – La disuguaglianza non si riduce: il reddito totale delle famiglie più abbienti continua a essere più di sei volte quello delle famiglie più povere. Il Mezzogiorno rimane l’area con la percentuale più alta di individui a rischio di povertà o esclusione sociale (45,0%, seppure stabile rispetto all’anno precedente). Tuttavia, in tale ripartizione si osserva un incremento del rischio di povertà da 33,1% nel 2017 a 34,4% nel 2018. Anche nel 2018, l’incidenza del rischio di povertà o esclusione sociale è più elevata tra gli individui delle famiglie di coppie con tre o più figli (36,0%), nonostante un sensibile miglioramento rispetto allo scorso anno (41,1%) e in quelle monogenitore (35,4%; 38,8% nel 2017).
COSTO DEL LAVORO E PRELIEVO FISCALE – Nel 2017, l’aliquota media del prelievo fiscale a livello familiare rimane pressoché stabile al 19,5%, non discostandosi in modo significativo dai due anni precedenti. Il costo del lavoro, che è dato dalla somma delle retribuzioni lorde dei lavoratori e dei contributi sociali a carico dei datori di lavoro, nel 2017 presenta una riduzione rispetto all’anno precedente (-1,2%), dovuta alla flessione della contribuzione a carico del datore di lavoro (-1,8%) con conseguente riduzione del cuneo fiscale e contributivo (-1,4%).
Reddito cittadinanza a 2,5 milioni di persone, 90% italiane. Importo medio 493 euro. Pubblicato lunedì, 20 gennaio 2020 su Corriere.it da Claudia Voltattorni. Al Sud le richieste più numerose. Solo il 6% erogato a extracomunitari. Quasi 500mila richieste respinte. Oltre un milione di famiglie, la maggior parte italiane (il 90%) con 2,5 milioni di persone che beneficiano del reddito di cittadinanza. Quasi 500 euro (493 euro) l’importo medio erogato ogni mese attraverso la «card» gialla ricaricabile di Poste Italiane. Un po’ più alto (+7%) arriva alle regioni del Sud Italia, mentre al Nord l’importo scende del 14%. E in effetti è dal Sud che arrivano le richieste più numerose - oltre la metà, il 56%, per 911mila nuclei familiari -; dal Nord le richieste sono da 463mila famiglie (28%) e dal Centro 268mila (16%). La fotografia sulla misura cara al Movimento Cinque Stelle e in vigore ormai da quasi un anno la scatta l’Osservatorio Inps in base alle domande arrivate al 7 gennaio 2020. All’inizio dell’anno, le domande arrivate sono state inviate da 1,6 milioni di nuclei familiari, di cui accolte 1,1; 88mila sono in lavorazione, mentre 457mila sono state respinte o cancellate. Dall’aprile 2019, mese in cui è cominciata l’erogazione del reddito a sostegno di chi si trova al disotto della soglia di povertà, 56mila nuclei hanno perso il diritto al sussidio, nel 42% dei casi - spiega l’Inps - per variazione congiunta della composizione e della situazione economica del nucleo. La maggior parte di coloro che ricevono il sostegno è costituita da italiani: il 90% dei casi, ma solo 6% arriva ad extracomunitari e il 3% a cittadini europei. La regione con più beneficiari è la Campania (210.000 famiglie), seguita dalla Sicilia (189.921), dal Lazio e dalla Puglia (9%): nelle quattro regioni citate risiede il 55% dei nuclei beneficiari. Mentre Piemonte, Lombardia e Veneto insieme arrivano a 188.000 famiglie beneficiarie. L’Emilia si ferma a 39.170.
(ANSA il 21 gennaio 2020) "Sappiamo che purtroppo negli ultimi tempi sono stati trecentomila i giovani che hanno lasciato l'Italia per cercare un lavoro adatto alle loro aspirazioni, che in Italia non trovavano. Dobbiamo sapere che esistono oggi in Italia due milioni di ragazze e ragazzi che non studiano e non lavorano. Questo governo, invece di credere nel loro futuro e di offrire prospettive concrete, propone come unica soluzione il reddito di cittadinanza", una "paghetta offensiva di 493 euro in media". Lo afferma Silvio Berlusconi in un video postato sui suoi profili social. "Quindi - prosegue - bisogna trovare delle soluzioni diverse. Noi abbiamo approfondito il problema" e "proponiamo la detassazione, cioè una fiscalità di vantaggio, per le aziende che investono e assumono giovani e, in relazione ai giovani assunti, una detassazione e una decontribuzione dei contratti di lavoro: tre anni per il praticantato e i successivi tre anni per i contratti di primo impiego".
Francesco Bisozzi per “il Messaggero” il 21 gennaio 2020. Per il reddito di cittadinanza, a ormai quasi una anno dal varo della misura, è tempo di bilanci. Gli ultimi numeri diramati dall' Inps però non sorridono al bonus: se da un lato il sussidio ha imbarcato un milione di famiglie, per un totale di 2,4 milioni di persone coinvolte, che non sono poche ma che sono comunque di meno rispetto alle previsioni iniziali sulla platea dei beneficiari, visto che l' Ufficio parlamentare di bilancio aveva stimato un bacino di 1.177.000 di famiglie mentre l' Istat addirittura di 1,3 milioni di nuclei, dall' altro gli importi erogati su base mensile sono molto distanti da quelli promessi dai grillini, pari in media a 493,42 euro anziché a 780. I nuclei percettori si concentrano al Sud e nelle isole, con la Campania in testa, dove raggiungono il 61% del totale. Poi le regioni del Nord, dove abita il 24% delle famiglie toccate dal sostegno, e infine quelle del Centro, a quota 15%. La fase 2, quella dell' accompagnamento all' inserimento lavorativo dei circa 800 mila beneficiari, intanto non decolla. Ed è partita in ritardo anche la fase 3, quella dei patti per l'inclusione sociale, che obbliga i sussidiati che non sono in condizione di cercarsi un impiego remunerato con l' aiuto dei navigator di lavorare gratis per i Comuni. Altro cancro, i furbetti del reddito di cittadinanza: alla fine dello scorso anno la Guardia di finanza ha avviato controlli su 600 mila percettori. Finora hanno perso il diritto al beneficio in 56 mila. La maggior parte degli esclusi è stata tagliata fuori a seguito di una variazione della situazione reddituale. In circa 5 mila hanno chiesto invece di poter rinunciare al bonus, perché delusi dai bassi importi erogati: 210 mila famiglie ricevono meno di 200 euro al mese. A inizio gennaio il numero dei nuclei che avevano presentato domanda per il reddito ammontava a 1,6 milioni. Circa 1,1 milione (il 67%) sono state accolte, 88 mila risultano ancora in lavorazione e 457 mila sono state respinte. A fronte delle 56 mila famiglie che strada facendo hanno perso il diritto al bonus per motivi vari, oggi si contano 916 mila nuclei percettori del rdc, con 2,4 milioni di persone coinvolte, e 126 mila famiglie (per un totale di 143 mila persone coinvolte) che ricevono invece la pensione di cittadinanza. La Campania, con il 19% delle prestazioni erogate, risulta essere la regione che ospita il maggior numero dei beneficiari, seguita dalla Sicilia (17%), dal Lazio e dalla Puglia, a quota 9%. Nella sola Capitale sono in tutto 66.956 le famiglie che arrivano a fine mese grazie al reddito, a Palermo e Catania più di 100 mila, oltre 127 mila a Napoli. Capitolo stranieri: nel 90% dei casi la prestazione viene erogata a cittadini italiani, mentre nel 6% a extra-comunitari in possesso di un permesso di soggiorno e nel 3% dei casi a cittadini europei. Per quanto riguarda le somme versate sulle card, nel primo mese di erogazione del bonus sono state pagate 570 mila prestazioni per un importo medio di 498 euro, mentre nei mesi successivi tale cifra è diminuita progressivamente. Risultato, oggi 210 mila famiglie possono contare su meno di 200 euro al mese, 178 mila incassano dai 200 ai 400 euro, altre 307 mila prendono tra 400 e 600 euro, mentre sono circa 350 mila i nuclei con un plafond di spesa mensile compreso tra 600 e 1.200 euro.
Reddito di cittadinanza, il conto non torna solo il 3,6 per cento ha trovato un lavoro. Severino Nappi, Presidente Associazione Nord Sud, il 16 gennaio 2020 su Il Dubbio. Non è un assegno minimo riconosciuto a ciascun cittadino privo di lavoro ed erogato mentre viene accompagnato verso l’inserimento occupazionale, ma soltanto un sussidio. Se qualcuno inventasse il premio per l’ipocrisia, sarebbe francamente difficile non assegnarlo, almeno a partire dal 2018, allo storytelling sul reddito di cittadinanza e alla frase di Luigi Di Maio: «Abbiamo sconfitto la povertà». Del resto, la misura simbolo del Movimento Cinque Stelle, condivisa dai suoi alleati dopo che avevano trascorso un anno intero a criticarla, non è affatto quello che vorrebbe lasciare intendere il suo nome, né corrisponde certo allo strumento applicato in altri Paesi. Non è, cioè, un assegno minimo riconosciuto a ciascun cittadino privo di lavoro ed erogato mentre viene accompagnato verso l’inserimento occupazionale, ma soltanto un sussidio, peraltro di carattere temporaneo, perché finanziato dal governo ancora per un solo anno. Insomma – e questa è davvero la cosa più grave – il reddito di cittadinanza non è stato affatto immaginato, a dispetto di quanto si è detto e si continua a dire, come uno strumento per trovare nuovi posti di lavoro e dare una occupazione a chi oggi non la trova ( o non la cerca). Lo confermano, purtroppo, gli ultimi dati diffusi dall’Istat. Lo studio restituisce un quadro in bianco e nero, con qualche piccolo dato positivo, come l’aumento dei contratti a tempo indeterminato ( tra luglio 2018 e ottobre 2019 sono 56mila in più), ma ancora troppi lati bui, a partire dalla drammatica sofferenza dei lavoratori della fascia di età compresa tra i 35 e i 49 anni. Sono loro forse a rappresentare la generazione più sfortunata degli ultimi decenni, vittime di crisi industriali continue, penalizzati da un repentino cambio di organizzazione e degli strumenti di lavoro, colpiti ancora quest’anno da un calo dell’occupazione di 5mila unità sul mese e dunque di ben 128mila sull’anno. Ma veniamo ai numeri del reddito di cittadinanza. A partire dallo scorso mese di aprile, la misura è stata riconosciuta a più di 2,3 milioni di persone fisiche: uomini, donne, giovani o anziani ( qui stendiamo un velo pietoso sulla valanga di truffatori che ne hanno usufruito grazie ai bizantinismi voluti dalla burocrazia). Di questi percettori, l’Inps, che gestisce l’erogazione dell’assegno, stima che siano 791.351 quelli “occupabili”, cioè i soggetti che hanno capacità e caratteristiche tali da poter svolgere un lavoro. È per loro che lo Stato ha assunto – e questi sono gli unici contratti certi – i “navigator”, che avrebbero dovuto aiutarli ad incrociare la loro offerta di mano d’opera e capacità con la domanda delle imprese. Peccato che tutte le risorse disponibili siano state investite soltanto per questa misura, senza che si sia anche solo minimamente messo mano al sistema di incrocio domanda- offerta di lavoro ( formazione finalizzata all’assunzione, mappatura dei fabbisogni, strumenti di riqualificazione o inserimento professionale, ecc.). E questo per non parlare ancora dell’assordante silenzio del governo in materia di politiche industriali, che lascia da anni sole le nostre imprese, specie quelle più piccole. Il risultato è che sui quasi 800mila “occupabili” che percepiscono l’assegno mensile, al 10 dicembre 2019 ( più di sei mesi dopo la sua entrata in vigore) hanno trovato una qualsiasi occupazione solo 28.763 persone, insomma solo un misero 3,6%. Pochissimo meglio, nonostante le dichiarazioni roboanti e i cospicui finanziamenti destinati alla causa, di quanto era accaduto l’anno precedente: nel 2018 Banca d’Italia calcola che abbia trovato un’occupazione, passando per i Centri per l’impiego, unicamente il 2,1% degli ex disoccupati. È vero che i “navigator” sono operativi nei centri per l’impiego solo da settembre- ottobre in buona parte d’Italia e da pochissime settimane nella Campania, tragico simbolo dell’inefficienza delle politiche del lavoro. Ed è altrettanto vero che solo da due mesi è disponibile il modello Inps per consentire ai datori di lavoro di accedere a un incentivo fiscale se assumono i beneficiari del reddito di cittadinanza, ma, con questo, si esauriscono tutte le scuse che possono accampare dalle parti di Palazzo Chigi. Certo, si può pensare di aspettare che le risorse finiscano o sperare in un miracolo di crescita che rilanci il nostro mercato del lavoro, ma sarebbe più serio – e utile – cambiare in corsa il reddito di cittadinanza o trasformarlo man mano, prima che sia troppo tardi, in qualcosa che serva davvero ai lavoratori e che abbia possibilità di incidere sull’occupazione. Per farlo, però, è necessario che il governo cambi target, e che quelle ingenti risorse accantonate per il reddito di cittadinanza siano indirizzate anche verso chi crea lavoro e assume, a cominciare da un robusto taglio del costo del lavoro lordo italiano, che resta fra i più alti, a dispetto di salari netti che – ennesimo paradosso del nostro Paese – invece sono tra i più bassi.
Gli ingegneri-netturbini di Barletta si raccontano a France 2. Sono 9 i laureati tra i 13 assunti in azienda servizi ambientali BarSA. La Gazzetta del mezzogiorno il 18 Gennaio 2020. La storia dei due giovani ingegneri laureati che il 2 gennaio sono stati assunti come netturbini dalla BarSA Spa di Barletta sarà al centro di un servizio giornalistico di 'France2', secondo canale televisivo pubblico francese. Lo rende noto la stessa azienda pugliese di servizi ambientali, in un comunicato dove i due dipendenti si raccontano: «Prima di essere ingegneri regolarmente iscritti all’Albo, siamo persone e vogliamo mettere su famiglia con le nostre compagne». Michele Cianci, amministratore di BarSA, sottolinea la loro scelta di privilegiare la famiglia «invece di fuggire all’estero come molti sono costretti a fare: «Purtroppo - aggiunge - fa notizia sentire che due laureati con il massimo dei voti decidano di lavorare come operatori ecologici, in un Paese in cui invece ci ritroviamo alcuni ministri della Repubblica con un diploma a malapena». Uno di loro, Giuseppe Moreno Di Trani, 35 anni, riferisce che dopo la laurea al Politecnico di Bari nel 2012 (110 e lode) aveva cercato impieghi specializzati con scarsi risultati, ripiegando su «piccoli lavoretti precari, sempre sottopagati o addirittura gratis: dal cameriere al commesso, dalla raccolta delle olive al falegname, per portare a casa nel migliore dei casi 800 euro al mese. Quando ho saputo del concorso da operatore ecologico ho voluto provarci e mi sono aggiudicato questo posto di lavoro da 1.200 euro al mese». Al concorso hanno partecipato oltre 800 persone e al termine sono stati assunti in tutto 13 nuovi lavoratori, 9 dei quali laureati.
Catania, fratellini di 9 e 10 anni gestivano bar abusivo con sala giochi. Pubblicato sabato, 04 gennaio 2020 su Corriere.it da Salvo Fallica. La polizia ha sequestrato il locale. I due minorenni si occupavano anche della vendita di alcolici. Denunciati il padre e il fratello maggiore. Due bambini gestivano un bar illegale a Catania, nel viale Bummacaro del quartiere di Librino, all’interno di una struttura costruita abusivamente. Non è l’incipit di un romanzo giallo né la trama di una fiction televisiva, è la realtà che supera la fantasia. La scoperta di questa storia, triste e drammatica sul piano sociale, è stata fatta dalla polizia, in maniera specifica dagli agenti del locale commissariato. Colpisce molto l’età dei due fratellini, 9 e 10 anni. Da quanto emerge dalle indagini della polizia i due bambini gestivano non solo il bar ma anche una sala giochi annessa alla struttura. E come se non bastasse si occupavano anche di una rivendita di fuochi d’artificio vietati ai minori di 18 anni. La struttura commerciale abusiva era stata realizzata occupando suolo pubblico ed in parte un immobile del Comune di Catania. L’esercizio è stato sequestrato e nel contempo sono stati denunciati il padre ed il fratello maggiorenne dei due bambini. Da quanto trapela i due adulti erano impegnati in un’altra attività lavorativa. Uno dei due fratellini in reazione all’azione della polizia ha acceso dei fuochi d’artificio dentro il locale e in strada. I due bambini invece di essere a scuola e studiare come i loro coetanei erano impegnati anche nel servire bevande alcoliche, si occupavano della cassa, e lavorano in luoghi non salubri e non sicuri. Tutto questo accade non in una realtà del quarto mondo ma in una delle città metropolitane più importanti del Sud d’Italia. Ed è la dimostrazione palese delle contraddizioni del Mezzogiorno: a Catania convivono realtà all’avanguardia a livello nazionale ed internazionale nel mondo della tecnologia, della scienza, dell’imprenditoria ed aree degradate e piene di enormi problemi. Il quartiere di Librino, 80 mila abitanti, è una città nella città. Ed è uno dei simboli delle periferie disagiate delle metropoli italiane, con problemi di criminalità, alta disoccupazione, disagio minorile. Gli interventi repressivi dello Stato sono efficaci, interi clan e gruppi criminali sono stati sgominati dall’efficace azione della magistratura e delle forze dell’ordine. Ma vi è una grande questione sociale. Sono da citare l’impegno del volontariato, della chiesa, delle scuole e delle associazioni culturali. È nota l’innovativa azione cultural-sociale del mecenate Antonio Presti, che ha realizzato con i bimbi e le madri di Librino iniziative positive che hanno fatto il giro del mondo. E continua a valorizzare il quartiere e le persone con la dignità etica della cultura e dell’arte. Ma è evidente che le condizioni di grande disagio di Librino hanno bisogno di interventi straordinari sul piano istituzionale, dei governi a tutti i livelli. Altrimenti storie incredibili e paradossali come questa dei bambini che gestivano un’attività commerciale abusiva continueranno ad esservi ed a stupire l’opinione pubblica.
Se non ho alcun reddito, ma ho avuto in eredità dai genitori un locale commerciale sfitto, ma che supera di pochi euro la soglia concessa per gli immobili: non ho diritto al reddito di cittadinanza, perché, secondo il pensare comunista, i possidenti devono morire di fame.
Marco Ruffolo per “la Repubblica - Affari & Finanza” il 16 dicembre 2019. Se sono un single e vivo in una piccola città del Mezzogiorno con 570 euro al mese, e quindi non sono povero perché supero la soglia di povertà assoluta Istat, ho diritto lo stesso al reddito di cittadinanza (ammesso ovviamente che rispetti gli altri requisiti richiesti). Se invece vivo in una città metropolitana del Nord con poco meno di 835 euro al mese, e dunque sono povero perché non raggiungo la soglia Istat, potrei non averne diritto. Se abito con un coniuge e due figli minori in un piccolo centro del Sud, e guadagno 1.125 euro al mese (sopra la soglia di povertà), ho diritto a ricevere il reddito di cittadinanza. Se invece (a parità di componenti familiari) vivo in un grande Comune del Centro con uno stipendio appena sotto i 1.414 euro al mese (e dunque sono povero), quel sostegno da parte dello Stato non è più garantito. Benvenuti nei paradossi e nelle distorsioni di quello strumento politico che dovrebbe (e secondo il suo proponente Luigi Di Maio avrebbe già dovuto) abolire la povertà in Italia. E che invece è così rozzo da non tener conto neppure dei dislivelli di costo della vita tra un' area e l' altra del Paese, che rendono assai diversi i rispettivi tenori di vita. Grazie all' ultimo studio dell' Osservatorio Conti Pubblici Italiani di Carlo Cottarelli, riusciamo ora a spiegare il primo grande limite del reddito di cittadinanza (il secondo è di non saper trovare un lavoro ai suoi beneficiari): quel reddito ha escluso circa 2 milioni 200 mila poveri assoluti e ha invece incluso un milione di residenti che poveri non sono, almeno secondo i criteri dell' Istat.
Passo dopo passo, la ricerca ci fa capire perché su 5 milioni di poveri assoluti (ossia con consumi non in grado di garantire una vita "minimamente accettabile") solo 2,4 milioni (quasi tutti italiani) ricevono oggi il reddito o la pensione di cittadinanza. L'analisi parte dall'indagine della Banca d'Italia sui bilanci delle famiglie: l'unica che fornisce le informazioni su consumi, redditi, ricchezza e altri requisiti necessari per calcolare sia il reddito di cittadinanza sia il numero di poveri in base al criterio Istat. Lo studio dell'Osservatorio di Cottarelli spiega che innanzi tutto c' è una sovrastima del numero dei poveri rilevato dall' Istat: sulla base di dati più realistici su consumi, redditi e ricchezza, essi scenderebbero da 5 milioni a un livello tra 3,6 e 4,3 (di cui 2,5-3 milioni di italiani). Nel primo caso, verrebbero esclusi quindi 1,4 milioni di poveri: molti di loro sotto-dichiarano, nelle indagini Istat, i propri consumi, così come fanno probabilmente quando presentano la dichiarazione dei redditi. Quando invece si trovano a fare la domanda per il reddito di cittadinanza, "sanno di assumersi- dice la ricerca - il rischio di sanzioni pesanti (incluse quelle penali) in caso di controlli che ne attestino la reale condizione".
Secondo passo: ai 3,6 milioni di poveri che risultano con la nuova stima (nella prima delle due ipotesi) ne vanno tolti altri 2,2: esclusi per una ragione o per l' altra dal reddito di cittadinanza. Tra questi esclusi ci sono quasi tutti gli extracomunitari poveri (ben oltre un milione) che il governo giallo-verde ha deliberatamente estromesso.
Come? Prima restringendo la platea ai soli residenti da almeno dieci anni, poi imponendo loro di farsi dare dal proprio Stato di origine una certificazione, tradotta in italiano e legalizzata dall' autorità consolare, dove si indichi il possesso dei requisiti del reddito di cittadinanza: L' opinione C' è anche una sovrastima del fenomeno povertà da parte dell' Istat, dovuta alle sotto-dichiarazioni dei consumi e della ricchezza nelle indagini statistiche.
· La Disabilità oltre le barriere.
Stefano Montefiori per "corriere.it" il 28 febbraio 2020. La prima volta che Éléonore Laloux è apparsa sui giornali fu all’età di un anno, nel settembre 1986, quando doveva essere operata al cuore e si cercavano donatori di sangue: «Slancio di solidarietà al l’ospedale Louez-Dieu in favore della piccola Eléonore», era il titolo de La Voix du Nord. Seguirono altre due operazioni e molti altri articoli, perché dopo i primi passi difficili Éléonore Laloux ha piantato i piedi nell’esistenza e con l’aiuto via via meno indispensabile dei genitori è diventata una militante dei diritti delle persone affette da sindrome di Down (in Francia nota come trisomia 21). La nuova battaglia di Éléonore Laloux, che oggi ha 34 anni, è in politica: sarà la prima donna con la sindrome di Down a candidarsi in Francia alle elezioni municipali, che si terranno il 15 e il 21 marzo. Laloux si presenta ad Arras, la sua città, 160 chilometri a Nord di Parigi, nella lista centrista del sindaco uscente, Frédéric Leturque. «Il sindaco ha fiducia in me perché sa che sono una donna determinata, che ama la vita. So quello che voglio», dice la candidata, che lavora negli uffici amministrativi di una clinica privata di Arras e vive da sola in un appartamento del centro. Il sindaco Leturque sottolinea che la presenza di Éléonore Laloux nella lista non è affatto simbolica. «Potrebbe davvero essere eletta, e credo che sarebbe un arricchimento per tutti — dice il sindaco —. La conosco da vent’anni, ho visto come è riuscita a integrarsi a scuola e sul posto di lavoro. È una personalità conosciuta in città, che dice le cose in modo diretto, come le pensa, e fa osservazioni pertinenti, con concretezza e realismo. La sua energia potrebbe essere molto utile alla mia lista e ai cittadini». Nel 2014 Éléonore Laloux ha scritto il libro autobiografico «Triso et alors !» ed è portavoce dell’associazione «Les amis d’Éléonore» fondata dai genitori per difendere i diritti di chi è affetto da sindrome di Down. Negli anni il collettivo si è battuto perché vengano stanziati più fondi per la ricerca terapeutica, e perché si trovino i mezzi per accompagnare ogni persona secondo i suoi bisogni, che possono essere molto diversi a seconda dei casi. Gli stessi temi verranno difesi su scala locale ad Arras se Éléonore Laloux verrà eletta, ma il suo programma politico si rivolge a tutti i cittadini: l’ispirazione complessiva è ambientalista, e tra le priorità ci sono più piste ciclabili, più fondi per la pulizia della città, e una maggiore attenzione agli spazi riservati ai cani. La candidatura di Éléonore Laloux è importante, al di là della sua determinazione e della vicenda personale, perché dimostra che la qualità della vita e la realizzazione di chi è affetto da trisomia 21 dipende anche dai mezzi che possono essere messi a disposizione dalle famiglie e dallo Stato. Non esistono cifre esatte, ma si stima che il cromosoma in più riguardi quasi 50 mila persone in Francia e quasi 40 mila in Italia.
Storia di Ivan Cottini, il ballerino che danza sulla sedie a rotelle. Redazione de Il Riformista l'8 Febbraio 2020. Il ballerino Ivan Cottini affetto da sclerosi multipla, è diventato simbolo di chi non si arrende e continua a vivere con determinazione le proprie passioni anche di fronte a una malattia invalidante come quella che lo ha colpito. Di origini marchigiane, Ivan è nato nel 1984 e durante la sua carriera ha fatto il fotomodello e il ballerino. Cottini infatti ha partecipato al famoso programma di Maria De Filippi ‘Amici’, anche se è durato poco vista la precoce scoperta della malattia. Nonostante i primi momenti di depressione e di difficile accettazione della sua nuova vita, Ivan continua a portare avanti il suo attaccamento alla danza ballando in sedia a rotelle. La sua determinazione e la sua forza di volontà gli hanno permesso non solo di continuare a fare ciò che ha sempre amato, ma di essere d’esempio per chi convive con la sclerosi multipla. Cronica, imprevedibile e invalidante, la sclerosi multipla è una delle più gravi malattie del sistema nervoso centrale. In Italia sono 122 mila le persone colpite da sclerosi multipla, 3.400 nuovi casi ogni anno. Il 50% delle persone con la sclerosi multipla è giovane e non ha ancora 40 anni. La causa e la cura risolutiva per la malattia non sono ancora state trovate, ma grazie ai progressi compiuti dalla ricerca scientifica, esistono terapie e trattamenti in grado di rallentare il decorso della sclerosi multipla e di migliorare la qualità di vita delle persone. LA STORIA – Ora Ivan ha 35 anni e da quando ne aveva 27 lotta contro la sclerosi multipla. Il suo calvario ha avuto inizio all’improvviso, quando una mattina appena sveglio si accorge di non vedere più da un occhio e faticava a stare in piedi. Da quel momento la situazione è peggiorata rapidamente, fino al ricovero in ospedale e alla diagnosi che lo ha costretto su una sedia a rotelle. Inutile dire che la sua vita si è trasformata da un giorno all’altro, perdendo la fidanzata e il lavoro dei suoi sogni. La frustrazione di convivere con una malattia così imprevedibile, non rende facile l’accettazione. Ma il destino ha voluto sorprenderlo ancora una volta con l’ennesimo colpo di scena. È arrivato l’amore e con esso la voglia di tornare a vivere, con un motivo ben preciso per lottare. Con la compagna Valentina è diventato genitore della piccola Viola, che è diventata la sua forza e la gioia della sua vita. Così come anche la danza, che non ha mai abbandonato diventando il ballerino sulla sedia a rotelle più famoso del Paese. Infatti Ivan oggi continua a danzare in duo con la compagna di ballo Maria Bernardi, con cui si è esibito anche alla trasmissione di Milly Carlucci, Ballando con le stelle. La coppia di ballo nasce durante una serata di beneficenza nella quale si trovano entrambi a partecipare. Da lì la voglia di creare qualcosa di nuovo, di provare a ballare anche se seduto su una sedia a rotelle. Con Maria cominciano allenamenti, coreografie e nasce così la magia. Sebbene la malattia degeneri di giorno in giorno, Ivan ha promesso di esibirsi fino a quando il suo corpo glielo permetterà. Per questo Ivan si è attivato non solo per se stesso ma anche per le altre persone affette dalla sua stessa malattia. Il giovane aiuta ogni giorno tantissime persone e tanti giovani che di fronte alla malattia si erano arresi, ma che con l’esempio di Ivan hanno cominciato a reagire. AISM, Associazione Italiana Sclerosi Multipla, supporta Ivan in questa iniziativa attraverso l’organizzazione di molte serate a scopo benefico e incontri nelle scuole, per sensibilizzare e raccogliere fondi. Per il suo impegno personale e sociale, Ivan Cottini non soltanto è divenuto un simbolo ma è stato nominato Cavaliere della Repubblica dal Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella.
LA PARTECIPAZIONE A SANREMO – “Ritrarre noi disabili come supereroi in grado di sconfiggere tutto e tutti è sbagliatissimo. Così facendo aizzano sempre di più contro di noi le persone che nella vita si sentono impotenti e quel muro che ci separa diventa sempre più alto. La vittoria è renderci normali agli occhi di tutti”. E’ con questo spirito che Ivan Cottini si prepara ad affrontare un’altra sfida importante. Dopo averlo visto danzare a Ballando con le stelle, il conduttore e direttore artistico del Festival di Sanremo Amadeus lo ha invitato ad esibirsi all’Ariston. Il messaggio è quello di celebrare la bellezza, la vita e la normalità come un valore aggiunto per la società. Come ha dichiarato lo stesso Cottini: “sarà una grande fatica per me essere sul quel palco perché la malattia sta progredendo e non mi dà tregua ma voglio essere lì ed accettare l’invito e sarò a Sanremo a mostrare che tutto è possibile se lo si vuole e che la mente non conosce disabilità“. Per lui la danza è l’antidoto alla sua malattia, come ha dichiarato recentemente: “Quando ballo non mi sento malato ed è il mio modo di prendere la sclerosi multipla a calci. Io dopo che ho ballato sto bene di testa anche se fisicamente son dolorante. E se si sta bene di testa si vince su tutto, malattie comprese. È questo il mio grande segreto”.
Viva Paolo, canta la Sla a Sanremo. Maria Antonietta Farina Coscioni, Presidente Istituto Luca Coscioni e consigliere generale del Partito Radicale, il 6 febbraio 2020 su Il Dubbio. Paolo Palumbo è un ragazzo di 21 anni affetto da Sla. Si è esibito sul palco dell’Ariston, a fianco del rapper Cristian Pintus, con il brano “Io sono Paolo”. Non sono solo canzonette. Non è “solo” canzone, nel 1958 Domenico Modugno con il suo liberatorio “Nel blu, dipinto di blu” ( che emozione, quando a un congresso del Partito Radicale, già malato, la ricanta). C’è poi Giorgio Faletti, nel 1994, con il suo struggente “Signor Tenente”; e Simone Cristicchi, nel 2007, con la sua bellissima “Ti regalerò una rosa”… Sono solo tre esempi tra i molti che si possono fare: Sanremo, festival della canzone italiana, non è solo questo; spesso è anche “impegno”, nel senso più alto, più nobile, della parola. Un palcoscenico per comunicare, far sapere, rendere consapevoli. Spiace per chi, con sufficienza, vivrà i giorni del festival, avendo cura di evitarli. Spesso si perde qualcosa. Quest’anno la direzione di Amadeus, offrirà qualche sorpresa, in questo senso. SLA, sigla che sta per Sclerosi laterale amiotrofica. Malattia che non perdona, la scienza, la ricerca, ancora non hanno trovato un rimedio, una terapia. Chi è affetto da SLA è condannato a morte. É un medico francese, Jean- Martin Charcot, a individuarla, nel 1869; devono però passare settant’anni prima che l’opinione pubblica si “accorga” di questa malattia: quando viene colpito un grande giocatore di baseball del “New York Yankees”, Lou Gehrig. Anche in Italia, la SLA colpisce sportivi famosi: il centravanti Stefano Borgonovo; il libero Gianluca Signorini; e da ultimo, il centravanti Pietro Anastasi, per fare dei nomi; ma non solo loro, evidentemente. Non esistono dati precisi, ma secondo le stime in Italia ci sono circa seimila malati di SLA, e 450mila, nel mondo. Malattia inguaribile, a un certo punto del suo decorso, se si vuole continuare a vivere si rende indispensabile l’uso continuativo e invasivo di un respiratore; e per quel che riguarda l’alimentazione, occorre far uso di un sondino, per una nutrizione artificiale. È il caso di Paolo Palumbo: un ragazzo di 21 anni, che dopo una crisi respiratoria decide di sottoporsi a tracheostomia. Oggi Paolo, si nutre con la Peg; respira per mezzo di un respiratore artificiale; comunica attraverso un sofisticato sintetizzatore vocale. Così ha deciso, e la sua decisione è stata, com’è giusto sia, pienamente rispettata. Paolo aveva un sogno: diventare uno chef. Lo vedremo – ecco che si arriva a Sanremo – sul palco dell’Ariston, invitato da Amadeus: seconda sera, a fianco del rapper Cristian Pintus, con il brano ‘ Io sono Paolo’. Paolo potrà muovere note e parole con gli occhi, grazie a un puntatore oculare; sarà un modo per sensibilizzare il pubblico su di una malattia che prima di strapparti la vita, ti ruba l’altro bene più prezioso: la libertà. Ecco: Sanremo diventa un palcoscenico importante; una straordinaria occasione per continuare a portare avanti quanto già vent’anni fa con Luca Coscioni, e come militanti del Partito Radicale, si rivendicava riguardo una malattia che porta alla morte, quasi sempre per paralisi dei muscoli respiratori: libertà di ricerca, contro ogni forma di proibizionismo sulla scienza, ogni forma di esclusione di un malato o disabile, in ogni sede: quella politica, nell’organizzazione della vita sociale, nelle scelte individuali della quotidianità…Sia consentito un filo di commozione e di doverosa, necessaria memoria: se Paolo Palumbo, e tanti altri come lui, oggi possono “parlare” con gli occhi, lo si deve anche – se non soprattutto – alla battaglia politica e gli sforzi che insieme a Luca Coscioni abbiamo fatto: per garantire i dispositivi per la comunicazione a malati e disabili in condizioni cliniche e fisiche invalidanti che provocano la perdita della parola, e quindi la possibilità di comunicare con il mondo esterno. È una battaglia iniziata, ma che ancora si combatte: troppe volte questi malati e queste famiglie sono soli, privi della necessaria assistenza psicologica e concreta. Grazie Paolo, grazie Amadeus, grazie Sanremo che “illuminate” per qualche ora queste problematiche. Perché non siano solo canzonette…
La modella senza braccia di 24 anni e psicologa sogna di diventare Miss Messico. Pubblicato domenica, 26 gennaio 2020 su Corriere.it da Francesco Tortora. La modella messicana Ana Gabriela Molina per un difetto congenito è nata senza braccia, ma ciò non le ha impedito di raggiungere traguardi importanti. La 24enne è laureata in psicologia e recentemente ha vinto il concorso di bellezza della sua città d'origine, Nanchital. Ora Ana è pronta a sfidare i pregiudizi sulla bellezza fisica con un ambizioso programma: partecipare nel giugno 2020 a Miss Messico per diventare la prima modella senza arti a trionfare nel concorso di bellezza nazionale. Per riuscire nell'impresa Ana dovrà prima vincere Miss Veracruz, rassegna che si tiene nel marzo 2020 nello stato messicano. La modella che riesce a svolgere le attività quotidiane usando i piedi è fiduciosa e sa che avrà i riflettori puntati addosso. La rassegna può essere l'occasione per parlare di disabilità e diventare portavoce delle persone che quotidianamente combattono contro i pregiudizi: «Sono riuscita a superare tutto quello che mi è successo nella vita — ha dichiarato —. Non avere le braccia non mi ha impedito di mangiare, usare il telefono cellulare o scrivere». Ana è determinata e non teme la prossima sfida: «Affronterò gli stessi test di tutte le altre ragazze e li supererò — dichiara —. Mi sento come qualsiasi altra persona normale perché ho vissuto la mia vita allo stesso modo. Per me la disabilità non è affatto un limite». La ragazza che conta oltre 3 mila follower su Instagram tiene da anni conferenze motivazionali e occasionalmente lavora come modella per una linea di abbigliamento: «Voglio spianare la strada ai disabili e motivare le persone a fare ciò che veramente desiderano».
Brunella Bolloli per “Libero quotidiano” il 23 gennaio 2020. Il suo motto è: «Non posso fare tutto, ma voglio fare tutto ciò che posso», rivisitazione di quel "volere è potere" che a volte si scontra con la realtà, altre la sbriciola con la forza di un panzer nel corpo esile di una donna di 47 anni, prima paracadutista paraplegica al mondo. Lei si chiama Laura Rampini, è nata a Sigillo, meta privilegiata per gli appassionati del volo libero, sognava di volare da quando era piccina e con il naso all' insù vedeva passare gli alianti sopra la casa, ma per i suoi genitori era troppo pericoloso e quel sogno è rimasto nel cassetto a lungo. Il destino le ha regalato un' infanzia serena e spensierata, era paffuta e amante della natura («mi chiamavano Heidi», ricorda). Sposa a 19 anni, a 22 è diventata mamma del suo primo figlio, Luca, e si stava apprestando ad ampliare la sua attività di commerciante nel settore dell' abbigliamento, quando la sua vita è stata letteralmente travolta. Quel giorno, era il gennaio del '95, Laura era in macchina con la sorella 18enne con cui stava andando a comprare un registratore di cassa per il nuovo negozio. Viaggiavano a 40 all' ora quando un' auto che proveniva in direzione opposta è come impazzita e le ha prese in pieno. Dopo una settimana di coma, al risveglio il responso dei medici per Laura è stato una doccia gelata: lesione irreversibile al midollo. In una parola: paraplegia. Addio all' uso delle gambe. Addio all' esistenza da ventenne ricca di progetti, alle farfalle nello stomaco e al cielo azzurro anche se è nero e piove. «Fino a quel giorno vedevo la vita a colori, improvvisamente il sole si è spento», racconta.
MESI IN OSPEDALE. A 22 anni è entrata nel tunnel dei ricoveri ospedalieri, nel girone infernale delle unità spinali; si è fatta mesi di riabilitazione senza nemmeno riuscire ad alzarsi dal letto, ha avuto per compagni di reparto tanti malati, giovani e vecchi, poco alla volta ha dovuto imparare a convivere con un corpo che dal tronco in giù non rispondeva più ai suoi comandi, si era addormentato per sempre, mentre la sua mente lucida capiva che non poteva lasciarsi andare così. Il primo giorno che è riuscita a scendere dal letto, Laura ha realizzato di non poter mai più fare a meno della carrozzina. Ma non se n' è vergognata. «La mia si vede, ma chi non ha una carrozzina nel cuore?». la stessa frase che dice tuttora quando ogni santa mattina va a parlare negli ospedali di tutta Italia dove la chiamano per aiutare, con una parola e l' esempio, chi soffre e non ha la sua stessa determinazione per andare avanti. «Ognuno di noi vive una condizione di difficoltà. Il mio è un messaggio di speranza per tutti. Io cerco di vedere il bicchiere sempre mezzo pieno». Ad ogni interlocutore che ha davanti, questa atleta della volontà non nasconde che all' inizio è stata durissima. A causa dei prolungati ricoveri, quando tornava a casa, in Umbria, suo figlio non la riconosceva. Anzi, aveva quasi paura di lei e Laura soffriva come un cane. «Mi vedeva sulla carrozzina, così ingombrante e "strana", non potevo giocarci assieme, non potevo correre con lui, metterlo a dormire, non mi trovava al mattino a svegliarlo. Ho dovuto lasciarlo tanto tempo alla nonna e per lui era lei la mamma, mentre io ero un' estranea. Morivo dentro». Finché, una sera, davanti a una pizza comprata a domicilio, il muro è crollato: Luca ha allungato le braccine verso Laura e l' ha chiamata finalmente «mamma». «Quella sera nessuno di noi ha più mangiato dall' emozione». A quel punto, pur con un handicap grave, Laura Rampini ha deciso di riaprire quel cassetto rimasto chiuso per troppo tempo. Appena ha potuto, di nascosto dai familiari, per non farli preoccupare, ha preso lezioni di volo: agli inizi si lanciava in tandem con l' istruttore, ma poi quella condizione le andava stretta e quindi si è fatta insegnare le mosse giuste per farcela da sola. Per atterrare ha una carrucola che le consente di planare seduta senza farsi male e dovete vederle (in Rete ci sono) le immagini di questa tostissima morettina con la tuta da paracadutista che arriva con la sedie a rotelle fin dove è consentito e poi volteggia nell' aria felice come una bambina e coraggiosa come una leonessa. Dal primo volo ne sono seguiti altri cento, e poi 150, 164 e Laura con la sua grinta ha fatto sì che altri disabili provassero la stessa adrenalina. le barriere A Milano si è allenata nell' Aero Gravity, il simulatore di caduta libera più grande del mondo e sulla sua vita ha scritto il libro "Nessuna barriera tra me e il cielo", che è un inno alla tenacia e ai limiti che si possono superare, come il cortometraggio da lei ispirato "Normabili" «sulla normalità della disabilità». Se ne parlerà domani, ad Alessandria, nel corso della serata organizzata da Zonta Club per celebrare la sua socia più illustre: Amelia Earhart, aviatrice statunitense, la prima ad avere sorvolato l' Atlantico. Una donna avventurosa, la ragazza dei record. Anche Laura Rampini ha battuto tanti record: ha due figli, è pilota, la passione per la cucina, tanti amici e un' associazione con cui fa del bene. È in carrozzina, sì, ma non si sente in gabbia. È libera di volare.
Prof disabile licenziato: «Fatica a salire le scale». Pubblicato venerdì, 17 gennaio 2020 su Corriere.it da Marco Gasperetti. Il professore è stato licenziato in tronco. I motivi? È disabile e non è stato assunto a tempo indeterminato. Sembra impossibile, ma nella scuola italiana può accadere anche questo. Vittima dei regolamenti Marco Di Domenico, 33 anni, toscano di Prato, laurea in Architettura. Il docente, grazie alla buona posizione in graduatoria, aveva ottenuto un contratto di un anno alla scuola media «Ivana Marcocci» dell’Istituto omnicomprensivo «Primo Levi» di Prato. Una supplenza, come insegnante di sostegno, in una classe con due ragazzini disabili, iniziata a settembre che sarebbe dovuta durare sino a 30 giugno. Ma pochi giorni fa ecco arrivare la lettera di licenziamento per mancanza di idoneità. Il professore, su segnalazione della preside, si era sottoposto all’esame della Commissione medica di verifica, l’organismo che valuta l’idoneità all’impiego. «Dopo la visita sono stato dichiarato inidoneo al sostegno per motivi di sicurezza — spiega Di Domenico — anche se non all’insegnamento. La risposta della scuola è stata consegnarmi la lettera di rimozione dall’incarico». Ma la cosa più sconcertante della vicenda è che il professor Di Domenico, che ha una lieve miopatia (sale a fatica le scale come una persona di una certa età) e non percepisce alcun assegno di disabilità, non è stato penalizzato solo per la sua condizione fisica, ma anche perché precario. «Se fossi stato un docente a tempo indeterminato e non un precario non sarei stato licenziato ma impiegato in un altro compito e magari avrei insegnato Arte, la mia materia», spiega il docente che ha presentato ricorso. La preside della scuola, Francesca Zannoni, si è detta dispiaciuta di ciò che è accaduto. «Sono stata io a chiedere al professore di sottoporsi alla verifica della commissione — spiega — ma solo per garantire la sicurezza degli studenti e dell’insegnante stesso. Non immaginavo che la vicenda potesse concludersi così. Purtroppo, questi sono i regolamenti e noi dobbiamo rispettarli. Avrei sperato di poter affidare al collega un’altra mansione ma le disposizioni di legge non lo prevedono». Eppure il professor Di Domenico aveva svolto il suo compito in modo eccellente. Aveva avuto problemi con i due ragazzini? «Nessuno, il mio lavoro come mi hanno detto colleghi e preside è stato perfetto», risponde con amarezza l’insegnante.
Laura in lotta con la Sma: «La parola arrendersi? Io non la conosco». Pubblicato sabato, 18 gennaio 2020 su Corriere.it da Paola D’Amico. «Non cammino, non muovo neppure un dito. Ma scrivo, dipingo, e continuo a cercare progetti per il mio benessere». Perché c’è una parola che il vocabolario di Laura Boerci, 50 anni, condannata alla quasi immobilità dalla Sma (Atrofia muscolare spinale), non ha mai contemplato né contempla, ed è «resa». Da quasi un anno, dopo una polmonite, ha subito una tracheostomia e ora non parla quasi più. Ma scrive, dialoga con i suoi lettori e con gli amici via Facebook, attraverso il suo blog o via mail. Nonostante la Sma. «È una malattia congenita invalidante al cento per cento - racconta - ma io ho sempre considerato la mia vita una sorta di vacanza, perché ho sempre fatto cose piacevoli». Laura si è laureata in Scienze politiche, ha viaggiato tanto, ha scritto e diretto 23 commedie teatrali, ha pubblicato tre libri. È anche stata consigliere e poi assessore (nel 2013), eletta con una lista civica, del comune di Zibido San Giacomo, alle porte di Milano. In queste settimane la vediamo sorridere dai maxi tabelloni pubblicitari affissi nei mezzanini delle tre linee metropolitane del capoluogo lombardo e alle fermate dei tram. Perché è stata scelta tra i testimonial della campagna «Segnali d’Italia», promossa da IgpDecaux in collaborazione con il Corriere della Sera. La malattia che ha imprigionato il suo corpo è stata messa all’angolo dalla sua forza di volontà. Laura è uno spirito libero che nel tempo ha aperto un’agenzia di servizi alla famiglia, ha gestito con un gruppo di amici un circolo culturale. «Sono stata anche amministratrice unica - ricorda - di un locale (il mio sogno) dove il cibo e la musica la facevano da padroni». Laura dipinge. Laura decora. Agende, quaderni, bigiotteria. Ogni oggetto anonimo prende vita e si trasforma sotto i colpi di pennello che muove con maestria afferrandolo tra le labbra. Quasi una terapia per l’anima. «Quando sono stanca o mille pensieri si affollano nella mia mente. Allora preparo il banco da lavoro e lascio che le idee prendano forma sul foglio. In verità, poi ho scoperto anche il piacere di decorare vasi in vetro o oggetti in legno. Che dire? Mi diverte! La mia casa ormai è invasa da acquarelli, colori acrilici, colori ad olio, pennelli, scatole, fogli, tavolozze, libri per imparare le varie tecniche… Per non parlare dei quadri e degli oggetti!». Nonostante la Sma. «Sempre dopo la polmonite mi hanno fatto la Peg (Gastrostomia endoscopica percutanea, una tecnica che consente la nutrizione enterale, ndr.), quindi ora “mangio” direttamente dallo stomaco. La mia vita è molto cambiata, ma io non voglio arrendermi. Voglio trovare nuovi spazi per essere la Laura di sempre, grazie alla mia straordinaria famiglia e al mio meraviglioso compagno». Sono trascorsi più di vent’anni da quando ha scritto la prima commedia. Nel 1997 ha fondato la Compagnia Legamani con la quale l’ha messa in scena. E ha continuato a scrivere. Autrice e regista. E poi, dieci anni dopo, i libri: L’Aura di tutti i giorni, I colori del buio, Un sogno vero, illustrato a bocca, dal quale è stato anche tratto un cartone animato. «Non ho mai ballato, corso, abbracciato e me ne sono fatta una ragione». Ma ha dato vita a Mi-Rò, circolo culturale e ritrovo di musicisti blues e jazz lombardi. E, poi, l’agenzia «Si Può Fare», per mettere a disposizione di tutti la sua esperienza e l’entusiasmo per «una vita che riserva sempre sorprese. Basta saperle coglierle». Sorride. E sembra dire «Non ho fatto niente di speciale». Che è poi quello che ci scrive: «Da quando sono nata conosco i problemi, quelli veri, e ho sempre cercato un modo per risolverli».
Giovanni, Gian Bachisio ed Enrico: vite normali di persone speciali. Pubblicato martedì, 07 gennaio 2020 su Corriere.it da Elvira Serra. Persone che non si sono arrese e hanno invece alzato l’asticella. Nonostante la disabilità. Si chiamano Giovanni Guzzo, Gian Bachisio Pira ed Enrico Dell’Aquila. Uno è calabrese, uno è sardo, uno è campano. Hanno rispettivamente 41, 39 e 30 anni. Giovanni è non vedente, ma questo non gli ha impedito di trasferirsi, bambino, da San Giovanni in Fiore, nel Cosentino, a Napoli, per studiare all’Istituto Martuscelli. Napoli è diventata la sua città, qui si è laureato in Lingue e qui ha scelto di continuare a vivere dopo aver vinto il concorso in Consob a Roma. Fa il pendolare ogni giorno, suona il pianoforte «a orecchio», «guarda» i film e le partite di tennis. Gian Bachisio lavorava come terzo ufficiale di macchine in una grande nave di Costa Crociere, quando un incidente stradale gli ha tolto le gambe. Alex Zanardi lo aveva chiamato per incoraggiarlo, lui non credeva che sarebbe potuto tornare in piedi e invece ci è riuscito, è andato a lavorare a Milano, si è sposato. Adesso insegna nautica in un istituto professionale e porta in barca ragazzi con disabilità. Enrico Dell’Aquila prende più aerei che aspirine su una sedie a rotelle tecnologica. La difficoltà maggiore, in aeroporto, è far passare i sensori del suo trabiccolo. Fa la spola tra Tenerife e Napoli, grazie all’aiuto dei genitori, che si alternano con lui. Lui, Gian Basilio e Giovanni sono persone speciali. Con vite normali.
Anna, disabile dalla nascita fa la modella: “Basta pietà, possiamo fare tutto”. Rossella Grasso su Il Riformista il 4 Gennaio 2020. Ha lo spirito guerriero di chi non si arrende di fronte alle difficoltà. Anna Adamo, 23 anni di Scafati, disabile dalla nascita ne ha dovute affrontare tante. Ma non si è mai lasciata andare. E adesso non perde occasione per gridare al mondo che “la disabilità non è un limite, sta solo negli occhi di chi guarda. Smettetela di guardarci con pietà”. Anna è affetta da tetraparesi spastica, un tipo di disabilità che può colpire dal punto di vista motorio e/o cognitivo. Anna ne è stata colpita solo fisicamente, e dopo un’infanzia trascorsa tra cure, ospedali, operazioni e fisioterapie in parte è riuscita a risolvere alcuni dei problemi fisici che la patologia da cui è affetta comporta. “Ora sono autonoma al 100% – racconta Anna – non è stato per niente facile per me ma non mi sono mai arresa, ho fatto in modo che la mia disabilità diventasse il mio punto di forza e non la mia debolezza”. Le mancano solo 4 esami per laurearsi in giurisprudenza, facoltà che ha scelto perché vuole difendere chi ne ha più bisogno. “Ho sempre avuto in me un senso innato di giustizia”. Per questo motivo ha deciso di scendere in campo in prima persona in difesa dei disabili. Ha iniziato a farlo qualche anno fa con i giovani di Forza Italia diventando Responsabile Commissione Disabilità. Poi ha scritto un libro “La disabilità non è un limite”, in cui racconta la sua storia e tutte le sfide e il pregiudizio che ha dovuto affrontare. Non è una ragazza che le manda a dire e con la sua schiettezza ha gridato in faccia a tutti cosa significa veramente essere disabile. Lo ha fatto attraverso i social con le sue denunce e partecipando a programmi televisivi di vario tipo. Recentemente si è presentata anche alle selezioni provinciali per Miss Italia per sensibilizzare anche il mondo dello spettacolo al tema della disabilità. “Non ho partecipato per essere in gara perché avrei messo in difficoltà la giuria e mi avrebbero favorita e non è questo che voglio – spiega con orgoglio – Non voglio impietosire nessuno. Nemmeno voglio far parte del mondo dello spettacolo perché voglio diventare magistrato o entrare nel mondo istituzionale. Sono andata lì per chiedere che anche le ragazze in carrozzina o con disabilità possano essere ammesse al concorso. Sono tante le ragazze che hanno questo sogno e io non vedo per quale motivo non debbano avere la possibilità di realizzarlo. Magari qualcuna non si muove perfettamente ma magari è intelligente e parla benissimo, allora perché non può ambire a fare la conduttrice o la modella?”. Anna, da sempre appassionata a vestiti e trucchi raffinati, è riuscita anche a sfilare da modella professionista con un’agenzia di moda. “Non lavoro solo con modelle disabili, ma con tutte. Così si favorisce l’inclusione anche nel mondo della moda”. “Quando una persona cosiddetta normodotata vede una disabile pensa subito che questa non possa arrivare da nessuna parte – dice – Ma non sa la condizione che quella persona vive e non sa realmente dove può arrivare. Alla fine è solo la persona che ha la disabilità che sa dove può arrivare. Io credo che sia un tabù, un pregiudizio, che nessuno riesce a spezzare. Sono gli altri che credono che la disabilità sia un problema e non chi ce l’ha. Poi è vero anche che non tutti i disabili si accettano così come sono. E a loro dico di non vergognarsi perché devono farlo i delinquenti, chi fa del male agli altri non chi ha una disabilità che manco ha scelto di avere. È stato il destino a scegliere per noi. Non abbiamo potuto dire di no ma la vita è comunque bella, accettiamola così com’è”. E fa una denuncia alle istituzioni per la loro assenza nei confronti dei disabili e delle loro famiglie: “La situazione è critica – dice – Ricevono solo 280 euro al mese, ma in alcuni casi questi soldi bastano per un solo giorno di terapia. Solo un bambino su 3 può beneficiare di un insegnante di sostegno quando l’istruzione è un diritto di tutti”. Con la schiettezza che la contraddistingue dice: “Io le istituzioni le prenderei a schiaffi a quattro mani, due per prenderle a schiaffi, due per applaudirmi mentre lo faccio. La disabilità dovrebbe invece essere una priorità per chi ci governa. Anche perché non riguarda solo chi ci nasce, ma disabili si può anche diventare. I disabili non possono aspettare i tempi della politica perché mentre il medico studia il malato muore. Per esempio c’è la legge sul “dopo di noi” che impone ai disabili lunghissime attese e poi magari rimane solo senza sapere cosa fare”.
· I medici ignoranti danneggiano tutti noi.
I medici ignoranti danneggiano tutti noi. Metà dei dottori italiani non partecipa ai corsi di formazione, obbligatori. Mettendo a rischio la salute dei pazienti. Stefano Piazza il 17 dicembre 2019 su Panorama. La salute è un diritto e la sua tutela un obbligo di legge. Sembra un concetto banale, finanche lapalissiano, ma tale non è. O meglio, non lo è più. Già, perché in Italia sono ormai diventati troppi i medici che non si tengono aggiornati sulla propria professione: quasi la metà dell’intera categoria che, contravvenendo alla legge, espongono i pazienti a rischi potenzialmente molto gravi. Questo dato impressionante è il risultato di un’indagine condotta dal Co.Ge.A.P.S., il Consorzio gestione anagrafica patrimonio sanitario: stando all’ultimo rapporto relativo al triennio 2014/2016, solo il 54 per cento dei camici bianchi è in regola con i programmi di aggiornamento previsti dalla normativa, mentre oltre il 40 per cento rischia sanzioni disciplinari perché non segue i corsi. Tra le diverse professioni sanitarie, la quota dei professionisti aggiornati scende al 32,94 per cento per veterinari e infermieri, e addirittura al 28 per gli infermieri pediatrici. Assai più virtuose le donne medico, che risultano aggiornate nel 60 per cento dei casi a fronte del solo 40 per cento negli uomini. Anche se i dati della FNOMCeO, Federazione Nazionale degli Ordini dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri, divergono - stando alle loro rilevazioni, sarebbe «solo» il 20 per cento dei camici bianchi a non essersi mai aggiornato - si tratta in ogni caso di un numero inaccettabile. Il ministero della Salute (interrogato sul tema, non ha voluto in alcun modo commentare questi numeri), da oltre un decennio ha reso obbligatori per l’intera categoria gli aggiornamenti periodici attraverso la partecipazione a corsi propedeutici: i cosiddetti Ecm, acronimo di «Educazione continua in medicina», da svolgere nell’arco di un triennio in appositi centri o attraverso la Formazione a distanza (Fad); per il triennio 2017-2019, per esempio, prevedono 150 crediti formativi, salvo esoneri. Dal 2008 gli Ecm sono stati traferiti all’Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali (Agenas) per ottenere un controllo più capillare e migliorare le performance. Attraverso Agenas, la Commissione nazionale formazione continua accredita il 42 per cento degli eventi formativi ai «provider»: 1.130 enti nazionali e 600 regionali che organizzano i corsi generando contributi pari a 16 milioni annui, con un indotto superiore ai 100 mila dipendenti diretti e indiretti. Basta dare un’occhiata ai titoli di questi corsi, inoltre, per scoprire quanto possano essere utili: informano sulle terapie per il tumore al seno (per esempio la ricostruzione mammaria), sulle dipendenze da internet e il cyberbullismo, sulla «galassie delle vitamine», sulla sindrome metabolica, sull’importanza dei vaccini da zero a 18 anni, sulla cura del diabete... Ciò nonostante, a seguire davvero i corsi è un medico su due o poco più. Proprio quest’anno il ministero della Salute si è visto costretto a depennare più di 6.500 medici, sia pur competenti ma «non aggiornati». Il primo caso in assoluto di sanzione disciplinare ha riguardato un medico odontoiatra: nello specifico, un professionista di Aosta che, nel 2019, è stato sanzionato dall’Ordine provinciale per mancato aggiornamento (la pena si è tradotta in una sospensione di sei mesi, poi ridotta a tre). Un aspetto chiave di tutta la vicenda riguarda proprio l’architettura del sistema sanzionatorio. I provvedimenti per i medici che non si aggiornano sono regolate dalla Legge Lorenzin 3/2017 (in precedenza il decreto legislativo 138 del 2011 parlava di «illecito disciplinare»). E la legge stabilisce che a verificare per ogni medico il requisito formativo debbano essere gli Ordini dei Medici chirurghi e degli Odontoiatri provinciali. Se ciò non accade, la Commissione nazionale Ecm deve richiedere che ogni Ordine inadempiente si adoperi in tal senso. Ed è proprio qui che emerge in tutta la sua evidenza il conflitto d’interesse che sinora ha reso impossibile sanzionare chi non si è aggiornato: a decidere i provvedimenti sono gli stessi medici che dovrebbero essere «puniti». Basterebbe creare un organismo indipendente che avesse il potere di sanzionare chi non è in regola. Ma la sua creazione è ben lontana dal vedere la luce. Per risolvere la situazione, qualcuno al ministero ha addirittura ipotizzato soluzioni quali una grande sanatoria per i medici che non si sono aggiornati. Sono insorte però le associazioni a tutela dei pazienti e degli altri soggetti coinvolti, che hanno ritenuto una simile mossa un atto lesivo della garanzia del diritto alla salute. Da allora, nella categoria dei camici bianchi si è acceso un dibattito che, da una parte, vede professionisti virtuosi convinti dell’utilità dell’aggiornamento professionale; dall’altra, una serie di corporazioni che puntano a difendere lo status quo, allontanando lo spettro di inevitabili sanzioni. Con una lunga tradizione nella professione medica e un patrimonio di un milione e 200 mila camici bianchi - pari a 12,4 medici ogni 100 mila abitanti secondo l’Ocse, cifra record nel mondo - l’Italia è ai primi posti in classifica nella qualità delle cure sanitarie (non così per gli infermieri che sono 20,7 ogni 100 mila abitanti, meno della metà della media). Un primato, il nostro, che però anno dopo anno è sempre più a rischio. Sebbene il Sistema sanitario nazionale abbia oggettivamente conosciuto un impoverimento progressivo e un calo delle risorse quanto a personale e formazione, la responsabilità di questa situazione non può essere ricondotta solamente ai tagli lineari operati dai governi degli ultimi dieci anni. È vero che la categoria dei medici chirurghi ha dovuto affrontare continue emergenze e disfunzioni del servizio sanitario, ma chi lavora con la salute delle persone non può permettersi di non restare aggiornato sulle cure migliori per i pazienti, specie in una realtà in costante evoluzione sia in termini scientifici che tecnologici come la medicina. Secondo Luigi Gabriele, responsabile affari istituzionali di Adiconsum, l’Associazione difesa consumatori e ambiente, l’innovazione in ambito medico e biomedico sta crescendo in maniera esponenziale: «Oggi il medico deve necessariamente sapere cosa sta accadendo nella propria professione, visto che settori come la robotica in un futuro non troppo lontano andranno a sostituire quasi integralmente gli stessi medici chirurghi in alcune aree specialistiche. Noi siamo preoccupati non solo per il rapporto medico-paziente, che presto potrebbe venir meno, ma anche per la percezione immediata che il malato ha sulla competenza del medico che si trova di fronte». In tutto ciò, lo Stato brucia ogni anno 10 miliardi di euro per la cosiddetta «medicina difensiva»: ovvero la pratica attraverso cui il medico, moltiplicando per i pazienti test, esami e accertamenti spesso superflui o eccessivi, si tutela contro eventuali azioni di responsabilità medico-legali, che talvolta sono la diretta conseguenza di errori collegabili a un suo mancato aggiornamento. Una cifra talmente enorme che, se investita altrove, garantirebbe a operatori sanitari e pazienti servizi un Servizio Sanitario di vera eccellenza.
· I Medici pestati.
Coronavirus, parlate ora contro infermieri e medici. Coronavirus? Improvvisamente leggo post che osannano medici e infermieri, come eroi del momento...La Voce di Manduria - giovedì 27 febbraio 2020. Coronavirus? Improvvisamente leggo post che osannano medici e infermieri, come eroi del momento. Cari signori, siamo gli stessi che voi avete insultato, denunciato, bistrattato, offeso verbalmente e spesso fisicamente. Siamo quelli che avete guardato come nemici, quelli che pensate facciano troppe “pause caffè” che “chissà cosa combinano la notte”. Siamo le “mignotte” e gli “assassini”. Siamo quelli con gli stipendi più bassi d’Europa, per le nostre categorie. Siamo quelli che non possono non andare a lavoro, che sia Natale o Pasqua o che ci siano i virus, i vostri virus, ad aspettarci. Siamo quelli che hanno paura, come tutti, perché siamo esseri umanie non eroi. Noi “siamo”. Noi “ci siamo”. Oggi come ieri, come domani. Meritiamo rispetto... Sempre! Fortunata Barilaro, infermiera, Avetrana.
"La paziente è morta": i parenti aggrediscono un medico e 3 infermieri. Responsabili i parenti di una vittima deceduta nel reparto di medicina generale, che imputano la tragica fine del proprio congiunto all'inadeguatezza dell'assistenza sanitaria fornita dal personale della struttura. Federico Garau, Mercoledì 26/02/2020 su Il Giornale. Ancora un'aggressione ai danni del personale sanitario in servizio presso una struttura ospedaliera, in questo caso la notizia arriva da Gela, in provincia di Caltanissetta. Secondo quanto riferito dalla stampa locale e confermato anche da un comunicato diffuso dal presidente dell'ordine dei medici chirurghi e odontoiatri di Caltanissetta Giovanni D'Ippolito, i fatti si sono svolti durante la giornata di ieri, martedì 26 febbraio. A rendersi responsabili dell'aggressione sono stati alcuni parenti di un uomo di circa 50 anni di età rimasto vittima di una grave patologia, un tumore polmonare stando a quanto riportato dalla "Gazzetta del Sud". Completamente fuori controllo, dopo aver ricevuto la triste comunicazione del decesso del loro congiunto, questi ultimi si sono scagliati contro un medico e tre infermieri del reparto di medicina generale dell'ospedale civile "Vittorio Emanuele" di Gela, arrivando a ferirli in modo lieve. L'origine di tanta rabbia manifestata dai parenti della vittima sarebbe da ricercare nella imputata inadeguatezza dell'assistenza sanitaria fornita al loro caro da parte della stessa struttura ospedaliera. In breve in corsia si è scatenato il panico tra pazienti e ricoverati, una situazione particolarmente delicata risolta grazie all'intervento sul posto delle forze dell'ordine. I responsabili sono stati tutti identificati, e l'ospedale stesso si costituirà parte civile nel procedimento penale avviato nei loro confronti. "A nome personale e del consiglio direttivo esprimo vicinanza al medico e ai tre infermieri che sono stati aggrediti dai familiari di un paziente deceduto perchè affetto da grave patologia, ritenendoli responsabili della sua morte.", esordisce il presidente dell'ordine dei medici di Caltanissetta. "Non sono accettabili le violenze contro i medici e il personale sanitario, perchè la loro priorità è salvare le vite degli altri e non difendersi dagli aggressori che ne mettono a repentaglio l'incolumità", aggiunge ancora D'Ippolito, che lancia un allarme. "Occorre riavvicinare medici e pazienti, colmando la distanza che si è creata negli ultimi anni e ristabilendo la fiducia, che è uno dei più efficaci deterrenti contro i ripetuti atti di violenza. La violenza è un problema che condiziona ogni giorno l'impegno e il sacrificio dei medici, degli infermieri e degli operatori sanitari, impedendo di fatto al sistema di rispondere in modo efficiente ai bisogni di salute dei cittadini. Per questo chi aggredisce un medico danneggia tutta la comunità", ammonisce ancora una volta il presidente D'Ippolito.
Lucia Portolano per “la Repubblica” il 2 febbraio 2020. Prima aggrediscono il medico di turno, poi si dirigono verso la sala operatoria e interrompono un delicato intervento chirurgico perché vogliono parlare con il primario. I parenti di un paziente hanno aggredito un' intera equipe medica mentre operava su un altro malato colto da aneurisma. È accaduto nel reparto di Chirurgia vascolare dell' ospedale Perrino di Brindisi, dove giovedì sera si è verificato l' ennesimo episodio di violenza contro il personale sanitario. Nella stanza c' erano almeno una decina di parenti di un ricoverato per un problema ad uno stent cardiaco impiantato un anno fa a Campobasso, l' uomo si stava lamentando per i dolori. Sarebbe intervenuto prima il medico di guardia, altri tre erano impegnati in sala operatoria. I familiari hanno aggredito verbalmente il dottore, volevano parlare con il primario, e poi hanno fatto irruzione in sala operatoria mentre il dirigente medico operava. Gabriele Maritati ha immediatamente interrotto l'operazione ed uscito dalla stanza per cercare di tranquillizzare gli animi. In sala operatoria è rimasta una sola dottoressa. I parenti hanno continuato ad inveire contro i medici e si sono scagliati contro un' infermiera. In reparto si è scatenato il panico, sino a quando non sono arrivate le forze dell' ordine. Il primario ha sporto denuncia per aggressione e interruzione di pubblico servizio. Un comportamento grave che ha messo a rischio la vita di un altro paziente che in quel momento era sotto i ferri. «La misura è ormai colma - afferma Arturo Oliva, presidente dell' ordine dei Medici della provincia di Brindisi - questo è l' ennesimo atto di violenza contro gli operatori sanitari. Se la direzione non dovesse adottare tutte le misura di sicurezza per tutelare il personale potremmo decidere di astenerci dalle attività nei luoghi non sicuri». I medici dicono di essere esasperati da queste continue situazioni di intolleranza e prevaricazione e chiedono interventi urgenti, come il ripristino in ospedale di un punto di pronto intervento di Polizia attivo per 24 ore, oltre a porte blindate per le sale operatorie, videocitofoni e telecamere. Questo è il secondo episodio di aggressione in meno di una settimana nella provincia di Brindisi: il 26 gennaio due operatori del 118 sono stati inseguiti e minacciati da un uomo. Il prefetto di Brindisi Umberto Guidato ha convocato un incontro per il 6 febbraio per affrontare un problema che non può più essere rinviato. «Questi atti di violenza si stanno verificando in maniera sempre più frequente - spiega Giuseppe Pasqualone, direttore generale dell' Asl di Brindisi -. Si tratta di atteggiamenti incomprensibili, quest' ultimo di una gravità inaudita. Ora saremo costretti a presidiare gli accessi con personale dedicato e metteremo delle porte sorvegliate. Non posso certo pensare che debba far scortare gli operatori sanitari e i medici che fanno il loro dovere in ospedale».
Brindisi, parenti di un altro paziente aggrediscono l'equipe medica e bloccano intervento chirurgico. Il presidente dell'Ordine dei medici Oliva chiede alla Asl il ripristino del posto di polizia e sollecita un'azione della prefettura. La Repubblica il 31 gennaio 2020. Un altro episodio di violenza nei confronti di un'équipe sanitaria, nella notte fra giovedì 30 e venerdì 31 gennaio all'ospedale Perrino di Brindisi, dove un intervento chirurgico è stato interrotto dai familiari di un paziente che avevano prima strattonato il medico di guardia in reparto e poi preteso la presenza del primario che stava operando fino a raggiungere la sala operatoria e fermare l'intervento chirurgico in corso. Il presidente dell'Ordine dei medici, Arturo Oliva, ha espresso solidarietà e ribadito l'impegno dell'Ordine a sollevare e denunciare ogni episodio che toglie tranquillità ai sanitari. Per l'Ordine, "la direzione generale della Asl e la propria Area Tecnica sono chiamati a mettere in sicurezza gli operatori sanitari con interventi ed attività di cui si è in attesa da anni, come il ripristino del punto di pronto intervento di polizia nel nosocomio per tutte le 24 ore, le porte delle sale operatorie blindate e chiuse, videocitofoni, telecamere". Il presidente Oliva poi ha aggiunto: "Gli operatori sanitari del Perrino, esasperati dai troppi episodi di intolleranza e prevaricazione e dai cronici ritardi nell'attivazione di detti interventi tecnici, potrebbero arrivare a clamorose decisioni fino ad astenersi dalle attività sanitarie in quei posti dove non ricorrono le minime condizioni di sicurezza prima descritte. Si sollecitano anche le autorità competenti, in particolare la Prefettura, ad operare interventi risolutivi".
Non solo Sud. I media nordisti ce la menano con la violenza negli ospedali del Sud Italia. Ma anche al Nord non scherzano.
Fulvio Bufi per il “Corriere della Sera” il 4 gennaio 2020. È un bilancio in continuo aggiornamento: una dottoressa del 118 insultata e strattonata davanti al Pronto Soccorso dell' ospedale San Giovanni Bosco; un altro reparto di Pronto Soccorso, quello del Nuovo Pellegrini, messo sottosopra da un uomo che non voleva aspettare il suo turno per essere visitato. Diceva di stare male, ma ha avuto la forza di ribaltare lettighe e quasi sfondare una porta. A Napoli ciclicamente si intensificano gli episodi di violenza nei confronti ti di medici e infermieri impegnati in servizi di emergenza, e questo è un periodo particolarmente nero. Però a cercare di rasserenare gli animi sono gli stessi vertici della sanità cittadina, a cominciare dal direttore generale della Asl Napoli 1 Ciro Verdoliva che chiede cautela nel valutare i singoli episodi «perché altrimenti si rischia di alimentare anche allarmismi che certo non giovano a nessuno». Anche il dottor Giuseppe Galano, direttore del servizio 118 evita di esasperare gli animi: «Certi episodi non dovrebbero mai accadere, è ovvio, ma se l' assistenza sanitaria sul territorio fosse organizzata diversamente, i nostri interventi si limiterebbero solo ai casi di media e alta gravità e sarebbe certamente tutto più semplice. Bisognerebbe che tutti i codici bianchi e verdi venissero gestiti dai medici di base o dalla guardia medica. Il 118 fa circa tredicimila interventi all' anno che si risolvono sul posto, senza dover portare il paziente in ospedale. Potremmo essere sgravati da queste incombenze e ridurre i tempi di intervento nei casi che rappresentano davvero delle emergenze». Maggiore rapidità di arrivo delle ambulanze e minori affluenze nei reparti di pronto soccorso forse ridurrebbero anche i casi di persone che danno in escandescenze perché si sentono poco assistite. Anche se qualche volta chi aggredisce medici o infermieri semplicemente non ci sta con la testa. Come il paziente psichiatrico che l' altra sera ha strattonato e buttato a terra la dottoressa Alessandra Tedesco, già vittima di una aggressione quattro anni fa. Lei e i suoi colleghi erano intervenuti perché l' uomo si era lasciato andare ad atti di autolesionismo mentre si trovava all' interno di una stazione della metropolitana. Il medico lo aveva faticosamente convinto a farsi accompagnare in ospedale, ma mentre attendeva di essere visitato dallo psichiatra, il paziente ha deciso di alzarsi dalla barella e andarsene. La dottoressa Tedesco ha provato a fermarlo e quello ha reagito nel peggiore dei modi. Comunque lei ieri era di nuovo in servizio e si è anche ritrovata ad accompagnare un paziente proprio allo stesso ospedale teatro della brutta avventura del giorno prima. Ci sono poi casi in cui la violenza ha ancora altre motivazioni. Dietro l' incendio di una ambulanza di una società privata a Sassari potrebbe esserci infatti una questione di concorrenza di un' altra ditta, mentre l' operatore sanitario aggredito in un bar di Milano sarebbe rimasto vittima di un energumeno ubriaco che probabilmente aveva solo voglia di picchiare qualcuno.
Valeria Arnaldi per “il Messaggero” il 3 gennaio 2020. Un petardo lanciato contro l'ambulanza, a Napoli nel quartiere Barra, a Capodanno, ed esploso quando il medico ha aperto lo sportello. «Il rischio che l'ambulanza saltasse in aria era reale! Presenza di ossigeno gassoso a bordo e benzina», sottolinea l'associazione Nessuno tocchi Ippocrate che ha segnalato l'accaduto. Sempre a Napoli, poco dopo la mezzanotte del nuovo anno, presso l'ospedale San Giovanni Bosco, una dottoressa è stata aggredita da un paziente verbalmente e fisicamente con una bottigliata. «Fatti che non avvengono neppure nei territori di guerra in quanto i mezzi di soccorso e il personale sono protetti dalle convenzioni internazionali», dice il presidente provinciale della Croce Rossa, Paolo Monorchio. «La punta dell'iceberg di quella che è diventata una vera emergenza di sanità pubblica», per il presidente Fnomceo-Federazione nazionale degli Ordini dei Medici Chirurghi e Odontoiatri, Filippo Anelli. A misurare il fenomeno sono i numeri. Nel 2019 sono state 1.200 le aggressioni a personale medico, secondo l'Omceo: circa tre al giorno. Stando ai dati Anaao Assomed, quasi sette medici su dieci - il 66% - sono stati vittima di aggressione. La percentuale sale al 72% al Sud e nelle Isole. Il Dossier violenza Fimmg rileva che le vittime sono donne nel 66% dei casi e la fascia oraria più a rischio è la notte con il 65% degli episodi. Fin qui solo i dati noti. «I numeri sono molti di più afferma Massimo Tortorella, presidente Consulcesi, riferimento legale per medici e operatori sanitari che ha attivato da oltre un anno il telefono rosso, servizio gratuito di tutela legale e supporto psicologico - buona parte dei medici, come ci rivelano le oltre 200 segnalazioni del telefono rosso, non denuncia per vergogna, rassegnazione o timore di ulteriori soprusi». Per Anelli, le aggressioni reali sono «quasi tre volte più» di quelle denunciate, «una vera carneficina silenziosa». Il problema è evidente e in aumento. Dal sondaggio condotto da Anaao Assomed su 1.280 medici iscritti all'Associazione emerge che il 65% è stato vittima di aggressioni, tra questi il 33,81% fisicamente. Le percentuali salgono all'80,2% in Pronto Soccorso e 118, dove le aggressioni fisiche sono il 20,26% del dato totale. La percentuale sul totale di attacchi fisici arriva al 34,12% presso Psichiatria/Sert. Il 23,35% ha detto di essere a conoscenza di aggressioni che hanno portato a invalidità permanente o decesso. Il 70% è stato testimone di attacchi verso personale sanitario. L'ultimo sondaggio Fnomceo rivela che oltre il 38% dei professionisti sanitari si sente poco o per nulla al sicuro e più del 46% è preoccupato di subire aggressioni. Oltre il 56% di chi ha subito violenza ritiene potesse essere prevista. Il 48% di chi ha subito un attacco verbale considera l'evento «abituale», il 12% «inevitabile». Stando a recenti dati Fp Cgil, il 60% delle violenze è costituito da minacce, il 20% da percosse, il 10% da violenza a mano armata, il 10% da vandalismo. Il 49% è commesso dai pazienti, il 30% dai familiari, l'11% dai parenti, l'8% da utenti in generale. «Le aggressioni a chi ogni giorno si prende cura di noi sono semplicemente inaccettabili. Bisogna approvare al più presto la norma, già votata al Senato, contro la violenza ai camici bianchi. Non si può aspettare», ha scritto su twitter il ministro della Salute Roberto Speranza. La Federazione auspica che l'esame in Parlamento riprenda già questo mese e che il ministro riconvochi l'Osservatorio permanente per affrontare i «problemi di carattere organizzativo rimasti un po' fuori dal Disegno di Legge». Tra gli interventi che Fnomceo ritiene fondamentali, «ampliamento della procedibilità d'ufficio, ricollocazione degli ambulatori di guardia medica in ambiente protetto, istituzione, presso ciascun pronto soccorso, di un presidio fisso di polizia e quindi idoneo a garantire un'adeguata tutela di incolumità e sicurezza del personale, composto da almeno un ufficiale di polizia e da un numero di agenti proporzionato al bacino di utenza e al livello di rischio della struttura interessata». Da prevedere «videosorveglianza a circuito chiuso negli spazi comuni». La Fimmg da tempo chiede «il riconoscimento dello status di pubblico ufficiale» per i medici. Consulcesi, da undici mesi ha lanciato una petizione su Change.org per dire no all'odio tra medico e paziente e promuovere la creazione del Tribunale della Salute: oltre 21mila le firme raccolte.
Botte e insulti nei pronto soccorso: medici e infermieri a rischio. Negli ultimi 18 mesi sono stati 140 i casi di violenze negli ospedali di Sud Milano e Martesana. Alessandra Zanardi su Il Giorno. Vizzolo Predabissi (Milano), 1 ottobre 2019 - Insulti, minacce, in qualche caso botte. Le aggressioni al personale sanitario da parte di pazienti, o loro familiari, rappresentano un fenomeno in crescita, anche a livello locale. Nel colosso sanitario del Sud-Est Milanese, l’Asst di Melegnano e della Martesana, negli ultimi 18 mesi si sono registrati 140 episodi di violenze, verbali e in alcuni casi fisiche, ai danni di operatori dell’azienda. I numeri sono stati resi noti ieri, durante il convegno «Violenze e aggressioni al personale: quali strumenti giuridici per tutelarsi?», organizzato dalla stessa Asst nell’aula magna del Predabissi. L’incontro aveva l’obiettivo di fare il punto su un tema attuale e spinoso, ma anche di ribadire che «l’azienda ha intenzione di rivestire un ruolo attivo in difesa dei propri dipendenti, anche affiancandoli nello sporgere denuncia e nell’addebitare eventuali danni a chi li provoca», ha precisato il direttore sanitario Stefano Schieppati. L'escalation della violenza può andare dalla parolaccia al contatto fisico. La maggior parte delle aggressioni si registra al pronto soccorso e nei centri di salute mentale, ma nessun reparto è esente dal potenziale rischio che una discussione possa degenerare. A volte sono i pazienti ad assumere atteggiamenti litigiosi, sull’onda di uno stato d’animo alterato; altre volte sono i parenti ad alzare la voce, oppure le mani. Nel mirino medici e infermieri, ma anche addetti al front-office. Si tratta di situazioni che «possono avere contraccolpi psicologici importanti su chi li subisce e creare un clima di paura», come ha ricordato Chiara Patelli, risk manager dell’Asst. Alcuni episodi restano indenunciati per timore di ritorsioni. Al contrario, il maresciallo dei carabinieri Domenico Faugiana, intervenuto al convegno, ha rimarcato l’importanza, anzi l’obbligo della denuncia, un passaggio indispensabile per poter avviare le indagini e ricostruire i fatti. «L’azienda può procedere d’ufficio, anche senza l’autorizzazione della vittima, nel segnalare l’accaduto - ha precisato l’esperto -. In questo modo l’aggredito è al riparo da eventuali ritorsioni». Durante il convegno il convegno si è ricordato l’impegno dell’Asst per cercare di prevenire le situazioni-limite, a partire dai corsi di formazione che dal 2013 vengono proposti ai dipendenti sul tema della de-escalation. Inoltre, nei reparti sono presenti dei pulsanti per allertare la sicurezza, in caso di necessità. «Anche gli arredi - aggiunge la risk manager - sono posizionati in modo che l’operatore non abbia le spalle al muro, ma possa ritagliarsi una via di fuga». Infine, manifesti e locandine cercano di sensibilizzare gli utenti ad adottare sempre atteggiamenti civili e di buon senso. Il convegno dell’Asst arriva pochi giorni dopo l’approvazione, da parte del Senato, di un disegno di legge contro le aggressioni agli operatori sanitari, con un inasprimento delle pene per i colpevoli.
AGGRESSIONI IN OSPEDALE. È un bollettino di guerra. Pubblicato il 28.06.19 da Sara Di Santo Aggiornato il 18.07.19 su nurse24.it. Psicologica, verbale o fisica. Da nord a sud, uomini o donne, giovani o meno giovani. In ogni caso negli ospedali italiani – ancor di più con l’avanzare della stagione estiva - non si scappa. Dalle aggressioni per infermieri, medici e altri operatori della sanità pare non esserci scampo. È un quadro sempre più allarmante quello che si delinea in particolar modo nei Pronto soccorso, ma anche in tutte le degenze o sul territorio, dove si verificano episodi forse meno eclatanti, ma comunque reiterati e logoranti. Quello che mi interessa è che gli operatori sanitari, i medici e gli infermieri vengano tutelati e non siano vittime del lavoro come oggi succede, ha dichiarato non molti giorni fa il ministro della Salute Giulia Grillo. Il ddl Antiviolenza, intanto, è fermo da un anno.
Gli infermieri non possono accettare che la violenza sia parte del lavoro. Estate, sempre la stessa storia: chiusura o accorpamenti di reparti e servizi, si lavora in numero ridotto, sotto pressione, stanchi. Stanchi anche di entrare in turno sapendo che quasi sicuramente si subirà un'aggressione. Psicologica, verbale o fisica; che si lavori al nord, al centro o al sud Italia, non c’è scampo: schiaffi, sputi, graffi, spintoni, morsi, lancio di oggetti, minacce di morte. E in estate le aggressioni agli infermieri e agli altri operatori della Sanità aumentano vertiginosamente. L'89,6% degli operatori sanitari è stato coinvolto, nel corso della sua attività, in episodi di violenza fisica, verbale o psicologica (G. Pucciarelli - Università Tor Vergata). In area critica, i lunghi tempi di attesa (79,7%), il sovraffollamento (76,0%) e la sensazione di mancanza di cura (56,1%) sono state le cause principali riferite come innescanti i comportamenti violenti dei pazienti e delle persone che li accompagnano. Il Triage è stata definita l'attività infermieristica più rischiosa per la violenza (86,3%) (Indagine Nazionale 2016 sulla Violenza verso gli infermieri di Pronto Soccorso - N. Ramacciati, S. Bambi, A. Mezzetti, E. Lumini, A. Gili e L. Rasero). A riprova dei numeri che emergono dalle ricerche specifiche sul tema (ancora troppo poche), basta dare un’occhiata agli episodi rilanciati quasi quotidianamente da mass media e social network nelle ultime settimane: notizie di cronaca inerenti gesti, anche gravi, di violenza verso gli operatori sanitari che restituiscono l’istantanea di un fenomeno dalla rilevanza (ancora e sempre più) inquietante.
Violenza in ospedale, bollettino di guerra in continuo aggiornamento
Foggia, 1 giugno 2019. Un infermiere del Pronto soccorso dell'ospedale Tatarella (Cerignola) viene schiaffeggiato dal familiare di un paziente in attesa di essere visitato. Nel frattempo, un giovane medico di Continuità Assistenziale, inviato dalla Centrale Operativa del 118 presso il domicilio di una paziente per un codice di minore gravità, viene preso a pugni dal padre della paziente, che avrebbe voluto veder arrivare un'ambulanza. Cinque giorni di prognosi per l'infermiere, dieci per il medico.
Latina, 7 giugno 2019. Un ubriaco in attesa di essere visitato aggredisce un medico e un'infermiera del Pronto soccorso del Santa Maria Goretti, danneggiando parte della strumentazione sanitaria e rivolgendo frasi minacciose anche ai Carabinieri intervenuti a riportare la calma. 15 giugno 2019: al Pronto soccorso del San Giovanni di Dio di Fondi un paziente aggredisce verbalmente gli infermieri e scarica poi la sua rabbia sul medico, reo di aver tentato di calmarlo, e lo prende a cinghiate.
Palermo, 13 giugno. Al Pronto soccorso del Cimino di Termini Imerese un paziente dopo il triage si scaglia verbalmente contro la dottoressa in servizio, lanciando poi la barella contro un muro. Nella notte, al Pronto soccorso del Civico di Palermo due medici e un infermiere vengono aggrediti dai parenti di una donna in attesa. Anche in questo caso è intervenuta la polizia.
Perugia, 15 giugno 2019. Al Pronto Soccorso del Santa Maria della Misericordia un infermiere viene colpito in pieno volto da un pugno sferrato dal parente di un paziente in attesa di essere ricoverato.
Milano, 16 giugno 2019. Due cittadini, padre e figlio, esasperati dalla lunga attesa prendono a pugni e sputi un infermiere del Pronto soccorso del Fatebenefratelli minacciandolo di morte. Nella colluttazione coinvolta anche una guardia giurata, che guadagna una contusione alla spalla.
Rimini, 20 giugno 2019. Un infermiere di Pronto soccorso viene preso a pugni in faccia dal paziente al quale sta effettuando un prelievo di sangue. Setto nasale rotto e contusione alla mandibola per il sanitario.
Firenze, 20 giugno 2019. Al Pronto soccorso del Careggi un 47enne, pretendendo di saltare la fila, sferra un pugno in volto ad un'infermiera e tenta di colpirne un altro, illeso per un soffio.
Napoli, 23 giugno 2019. Al Pronto soccorso del Loreto Mare due infermieri addetti al triage vengono insultati e aggrediti fisicamente dal figlio di una paziente che lamentava diarrea da 20 giorni. I due infermieri - una donna di 58 anni ed un uomo di 57 - sono stati medicati dai colleghi per lesioni giudicate guaribili in 5 e 10 giorni.
Aggressioni agli infermieri: non può essere cosa quotidiana, non deve. Le singole aziende sanitarie e gli Ordini professionali stanno mettendo in atto diverse iniziative con l’obiettivo di arginare il fenomeno delle aggressioni al personale sanitario.
Implementazione di postazioni di vigilanza, apertura di tavoli di confronto, campagne social di sensibilizzazione. Il ministro della Salute Giulia Grillo – che continua con l’idea di inserire presidi delle Forze dell'ordine negli ospedali - sta spingendo affinché si acceleri quanto più possibile l’iter legislativo del ddl Antiviolenza. Nella nostra proposta – ha precisato la Grillo - oltre alla violenza fisica rientrano anche le minacce. Capiamo lo stress dei pazienti quando arrivano in una struttura sanitaria ma per una questione di rispetto non sono tollerabili fenomeni di violenza fisica e/o verbale e minacce come accade troppo spesso.
E allora che il Parlamento faccia davvero presto. Perché infermieri, medici e operatori della salute non possono, non devono rassegnarsi al fatto che la violenza sia parte del loro lavoro.
Ragazza di 19 anni morta per un malore, la denuncia: «Ambulanza arrivata dopo un'ora». Il Messaggero Domenica 5 Gennaio 2020. Un'attesa di «circa un'ora» prima che arrivi l'ambulanza del 118, chiamata dai familiari di una ragazza di San Giorgio a Cremano (Napoli) di 19 anni colpita da arresto cardiaco improvviso che ne ha determinato la morte. A denunciare l'accaduto è lo stesso presidente nazionale della Società Italiana Sistema 118 (Sis 118) Mario Balzanelli, sottolineando come «proprio la carenza di mezzi sul territorio sia la causa di questo episodio», segno dell'urgenza «ormai improcrastinabile» di una riforma del Sistema del 118 in Italia. L'ambulanza, spiega Balzanelli, «è arrivata dopo circa un'ora, come affermato dai familiari, intorno alle 11.30 del 4 gennaio, invece che nell'arco di pochi minuti, non certo a causa di una direzione inadeguata del sistema o di un disimpegno da parte degli operatori, che danno costantemente il meglio, ma a causa della carenza di mezzi operativi sul territorio. Infatti, in questo caso, l'ambulanza giunta a San Giorgio a Cremano è partita dall'area di Nola proprio perchè gli altri mezzi di soccorso nell'area erano impegnati. Il punto è che il numero di ambulanze è inadeguato rispetto alle necessità di quest'area territoriale». Ma «al di là delle tempistiche riferite dai parenti, con un tempo di arrivo dell'ambulanza del 118 di 1 ora dalla prima chiamata alla Centrale Operativa, e delle doverose verifiche che ad essa seguiranno nelle sedi opportune - sottolinea Balzanelli - ed al di là delle possibilità concrete di sopravvivenza rispetto alla natura e all'entità dell'evento, rimane che in caso di codice rosso l'arrivo presso il paziente di un mezzo di soccorso del 118 con a bordo personale sanitario in grado di fare diagnosi e terapia di emergenza potenzialmente salvavita deve essere immediato, entro pochi minuti, definiti peraltro molto chiaramente dal legislatore: 8 minuti dalla chiamata in Centrale Operativa, in area urbana, e 20 minuti dalla chiamata in area extraurbana». Ma tali parametri temporali sarebbero stati, afferma, «più che ampiamente disattesi». Da qui «l'invocata riforma legislativa del 118, perché si evitino i morti evitabili. Ma ancora una volta - denuncia il presidente Sis - pare che il Sistema di Emergenza Territoriale non sia riuscito in tale obiettivo perché oggettivamente non in grado». Un problema, quello della carenza di mezzi di soccorso, che riguarda molte Regioni dal nord al sud: «Il decreto ministeriale 70 del 2015 - precisa Balzanelli - prevede la presenza di un'ambulanza ogni 60mila abitanti, con equipaggio medico e infermieristico a bordo, ma questo parametro è largamente disatteso dalla maggioranza delle Regioni». Dunque, afferma, «sollecitiamo una riforma che assicuri l'organico medico e infermieristico per il 118, mentre oggi spesso l'ambulanza giunge solo con a bordo gli autisti soccorritori anche per i codici rossi. Altre richieste sono che il numero totale di mezzi sia calcolato sulla base dei tempi di percorrenza, che il 118 sia riorganizzato sulla base di dipartimenti sanitari provinciali e regionali e che l'introduzione del numero unico di emergenza 112 non impedisca agli italiani di chiamare direttamente il 118. Ciò proprio per evitare perdite di tempo in casi di urgenza». «Faccia riflettere, questo ennesimo episodio, il governo ed il ministro della Salute - conclude il presidente del SIS 118 - sulla necessità assoluta ed improcrastinabile della riforma e sui suoi contenuti».
Non pestate quel Dottore. Ogni anno 10mila infermieri e 1200 medici sono vittime di aggressioni, soprattutto al Pronto Soccorso. Giorgio Sturlese Tosi il 18 dicembre 2019 su Panorama. Il drenaggio post operatorio doveva essere rimosso. L’operazione era andata bene e il decorso era regolare. Il ragazzo in attesa però si agitava. Erano le 16 di lunedì 11 novembre, e nel reparto di pneumologia dell’Ospedale Monaldi di Napoli c’era il solito via vai di medici, infermieri e malati. All’improvviso il giovane paziente ha cominciato ad alzare la voce, è saltato in piedi e si è scagliato contro il dottore prendendolo a calci e pugni finché non l’hanno bloccato. Alla fine, in traumatologia, c’è finito proprio il medico, che ha riportato lesioni al ginocchio. È l’ultima aggressione, in ordine di tempo, al personale sanitario all’interno di un nosocomio. Ogni anno circa 10 mila infermieri sono oggetto di violenza fisica e altrettanti di violenza verbale. Sono stati invece 1.200 i medici vittime di episodi di violenza nel 2018. Un esercito di professionisti della salute che sempre più spesso finisce in barella. Solo a Napoli, dall’inizio dell’anno, sono già state denunciate 96 aggressioni. E l’emergenza interessa tutto il Paese. A Merano, il 16 ottobre, un infermiere è stato ferito a calci e pugni, con contusioni e frattura di una costola, dal marito e dal figlio di una donna dell’Est Europa che si era presentata al pronto soccorso per un malore. La sua colpa? Aver chiesto i dati anagrafici della paziente prima di avviarla in reparto. Le risse sono all’ordine del giorno anche negli interventi di strada. Il 2 novembre, in pieno centro a Napoli, gli operatori del 118 hanno soccorso un ubriaco che ha distrutto l’ambulanza con tutto quello che c’era sopra. Trasportato in ospedale, al San Giovanni Bosco, ha continuato a dare in escandescenze, sputando e inveendo contro medici e infermieri. Ma questi sono solo alcuni episodi di un fenomeno dilagante. Secondo un’indagine dell’Università di Tor Vergata di Roma, svolta nella primavera 2019, l’89,6 per cento degli infermieri è stato vittima di violenza fisica o verbale sul lavoro. Sputi (nel 43,1 per cento dei casi), lancio di oggetti, schiaffi, pugni, calci. Persino morsi. Oltre alle lesioni fisiche, le ripercussioni psicologiche su chi subisce questi atti di violenza gratuita sono rabbia, senso di impotenza, ansia sul lavoro, paura. «Le aggressioni continuano in modo indisturbato, apparentemente senza rimedio» conferma Paolo Ficco, presidente di Saues, il Sindacato autonomo urgenza e emergenza sanitaria. «Il rafforzamento dell’impiego di personale di vigilanza non basta. Abbiamo osservato che le aggressioni avvengono soprattutto per i ritardi nell’erogazione dei servizi al pubblico. Ritardi dovuti alla carenza di personale. Occorre approvare subito una legge perché i medici convenzionati del 118, che vantano grande esperienza nel trattare le urgenze, possano transitare nei pronto soccorso degli ospedali». Intanto però il personale fugge a gambe levate da questi presidi di primo intervento. Il governatore della Campania Vincenzo De Luca, il 12 novembre scorso, annunciando il collegamento delle telecamere di sorveglianza dell’Ospedale Santobono di Napoli con la questura, ha affermato che gli ultimi concorsi per medici di pronto soccorso sono andati deserti: «Non si presentano, non partecipano più». Nessun medico, neppure per i cinque posti offerti dall’Asst Lariana per gli ospedali Sant’Anna e Sant’Antonio Abate di Cantù. Andato deserto anche il concorso per 33 posti nei Pronto soccorso della provincia di Agrigento. Difficoltà nel reclutamento di medici e infermieri in Trentino, in Veneto, nelle Marche e al Cardarelli di Napoli. «Queste aggressioni mettono a durissima prova il personale sanitario» ammette Barbara Mangiacavalli, presidente della Federazione nazionale degli Ordini delle professioni infermieristiche (Fnopi). «Un infermiere su due ha subìto una qualche forma di violenza, ma le denunce rappresentano la punta dell’iceberg, gli episodi sono molti di più. Occorre intervenire sui modelli organizzativi per permettere agli operatori di lavorare in maniera appropriata. La rete territoriale deve essere rinforzata, registriamo troppi accessi inutili al pronto soccorso». Per la presidente degli infermieri i corsi di autodifesa, proposti in varie strutture, non servono: «Non risolvono il problema, dobbiamo intervenire con un altro tipo di formazione: come riconoscere la predisposizione alla violenza di un paziente». Anche dai medici arriva un grido d’allarme. La Federazione nazionale degli ordini dei medici chirurghi e degli odontoiatri (Fnomceo) ha tappezzato alcuni ospedali con manifesti in cui un medico con l’occhio nero chiede: «E poi la vita chi te la salva? Chi aggredisce un medico ferisce tutti noi». Roberto Monaco, il segretario nazionale, denuncia: «Il definanziamento del Servizio sanitario nazionale è allarmante. Rispetto al 2017 abbiamo 2,5 miliardi in meno, mancano 8 mila medici e 2 mila dirigenti sanitari. Nel 2018 abbiamo regalato allo Stato un miliardo di straordinari non pagati. E i pronto soccorso sono sempre più intasati. Per non parlare delle guardie mediche: ci sono sempre più medici donne che si fanno accompagnare nelle visite a domicilio dal padre o dal fidanzato». Anche per Monaco occorre valorizzare il territorio («il paziente ormai non chiama nemmeno più il medico di famiglia, ma si reca direttamente al pronto soccorso»), inasprire le pene e prevedere la procedibilità d’ufficio per chi commette violenze, anche verbali, nei confronti del personale. E investire sulla formazione. Ma occorre farlo al più presto. A Pordenone il personale della guardia medica è stato dotato di un telecomando che invia una richiesta di soccorso geolocalizzata alle forze dell’ordine. Gli alpini che volontariamente da tempo scortavano i medici nelle loro visite a domicilio non bastavano più.
· La Cattiva Sanità.
La morte di Lisa, il papà: «Vi racconto la sua agonia, dal trapianto agli errori». un memoriale di dolore e accuse. Maurizio Federico su Il Corriere della Sera l'8/11/2020. La lunga ricostruzione del padre di Lisa, 17 anni, malata di leucemia, morta al Bambino Gesù. La ricostruzione lucida e a tratti incredula del padre di Lisa, 17 anni, malata di leucemia, morta al Bambino Gesù. La mamma è la Soprintendente Margherita Eichberg. «Sangue del donatore sbagliato, le hanno infuso un litro di veleno», «Ha urlato per 12 ore», «Piccola, non meritiamo il tuo perdono». Ha affidato il suo racconto-denuncia sulla straziante morte della figlia diciassettenne Lisa (il 2 novembre all’ospedale di Roma Bambino Gesù) al suo profilo Facebook, suscitando un’ondata di commozione e solidarietà che da ieri corre in Rete. Maurizio Federico, biologo, responsabile del Centro per la salute globale presso l’Istituto Superiore di Sanità, marito di Margherita Eichberg, Soprintendente all’Archeologia e Belle arti per l’area metropolitana di Roma, Viterbo e l’Etruria meridionale, ha ricostruito la tragedia familiare senza tralasciare nulla: dolore, speranze, sconcerto per gli errori medici, amore sconfinato per la figlia, adottata in Ucraina assieme al fratello Bodgan 12 anni fa, passione civile perché “non accada ad altri”. Un dolore immenso raccontato in modo asciutto, carico di dignità e privo di qualsiasi impeto di rabbia o desiderio di vendetta. Non promette azioni legali, il papà di Lisa. Vuole condividere la sua esperienza e dare voce un’ultima volta alla figlia. Tutto cominciò in questo “disgraziato” 2020, spiega, quando la ragazza «tornò a casa con un livido enorme, pensai l’avesse picchiata il fidanzatino». Poi il calvario della diagnosi (una forma di leucemia acuta), l’attesa del trapianto di midollo osseo al Bambino Gesù, l’utilizzo di sangue non idoneo, lo sgomento davanti alle ammissioni dei medici in lacrime («Non siamo stati capaci di curarla»), l’impegno a non far passare la sua fine «sotto silenzio» e l’addio, che è anche un atto di accusa: «Ciao Lisa, non meritiamo il tuo perdono». A seguire il lungo racconto-verità, una quindicina di cartelle divise in capitoli, di Maurizio Federico. (fabrizio peronaci)
Maurizio Federico. Sono Maurizio Federico, attuale responsabile del Centro per la Salute Globale presso l’Istituto Superiore di Sanità di Roma. Biologo come formazione di base, ho sviluppato nel tempo esperienze e conoscenze in virologia, microbiologia, oncologia e nanotecnologie. Nella vita mi è capitato di pubblicare su riviste “peer-reviewed” più di cento tra articoli, libri e monografie. Tutte a loro modo hanno avuto una loro utilità. Ora mi accingo a scrivere il più inutile ma più importante articolo della mia vita, cosciente che al meglio mi potrà portare guai e ritorsioni. La storia degli ultimi giorni della mia adorata figlia Elisabetta, Lisa. E’ ovvio che per un padre che perde una figlia nel fiore dell’età descrivere a caldo la successione degli eventi, oltre a rappresentare uno sfogo emotivo, sicuramente porta a distorsioni, esagerazioni ed imprecisioni, soprattutto in assenza dei dati certificati dalla cartella clinica. Non potrò scendere nei dettagli clinico/medici che ho conosciuto o percepito (ne risulterebbe un indigeribile testo di decine di pagine), e molto di quello che racconterò è frutto di colloqui a quattr’occhi con personaggi che, in mancanza di testimoni, potranno facilmente smentire le mie versioni dei fatti. Io, noi della famiglia ora non abbiamo alcuna intenzione di rivolgerci alla spesso inaffidabile giustizia italiana, anche se avremmo forze e mezzi per sostenere qualsiasi battaglia legale. Cionondimeno non abbiamo nemmeno alcuna intenzione di far passare sotto silenzio la storia di Lisa, per quanto possa essere considerata aneddotica.
I PROTAGONISTI PRINCIPALI. Lisa, al secolo Elisabetta Federico, avrebbe compiuto 18 anni il prossimo marzo. Nata in Ucraina, abbandonata insieme al fratello in un orfanotrofio in Ucraina. I due fratellini vengono adottati da me e mia moglie Margherita nel 2009.
Ospedale Pediatrico Bambino Gesù di Roma, al quale affidiamo nostra figlia per le cure. Margherita Eichberg, mia moglie, attuale soprintendente per l’area metropolitana di Roma, Viterbo e l’Etruria meridionale.
COSA E’ SUCCESSO PRIMA. Era dall’inizio di questo disgraziato 2020 che Lisa tornava a casa la sera mostrando sulle braccia un numero insolito di lividi. Sensibile ai frequenti episodi di prepotenze e sopraffazioni contro le donne, le chiedevo, in tono faceto, se quei lividi fossero il frutto delle discussioni con il suo fidanzatino. Finché una sera si presenta a casa con uno smisurato livido su una coscia come frutto di una caduta da un monopattino elettrico apparentemente non così catastrofica, come suggerito dall’assenza di graffi. Mia moglie ha il merito (anche) di allarmarsi e spedire Lisa a farsi un emocromo, dal quale risulteranno livelli troppo bassi di piastrine, 10.000 -15.000 per microlitro, quando le persone sane ne hanno al minimo 100-150.000. Era metà giugno 2020. Portata di corsa all’ospedale Bambino Gesù, viene ovviamente ricoverata e subito falliscono gli immediati interventi terapeutici mediante infusione di gammaglobuline volti a contrastare una possibile porpora trombocitopenica idiopatica. Inizia così un lungo e noioso cammino volto a stabilire una diagnosi che, dopo due prelievi di midollo dalla cresta iliaca intervallati dai canonici 15 giorni di intervallo tra i due prelievi, e dagli altrettanto sindacali 15 per completare le analisi citologiche (tutti trascorsi da Lisa in ospedale nonostante le sue condizioni generali più che buone), sentenzia lo sviluppo di una citopenia refrattaria dell’infanzia-adolescenza (RCC: refractory cytopenia of childhood). Il sospiro di sollievo riguardava tutto e solo il fatto che non sembrava esserci traccia di neoplasia. Cionondimeno, la patologia di per sé era seria e andava trattata. Esistono trattamenti di prima linea, poco invasivi e che non avrebbero compromesso successivi approcci terapeutici più avanzati, anche se con possibilità di riuscita limitata, sotto il 50% (ad es., trattamento con siero anti-linfocitario e ciclosporina) ai quali i medici decidono però di rinunciare per motivi mai chiariti. Bisognava esclusivamente puntare sul trapianto di midollo osseo. Nel frattempo Lisa rimaneva parcheggiata su un letto del Bambino Gesù in apparente buono stato di salute (necessitava solamente di trasfusioni di piastrine con cadenza settimanale e pochissime volte di globuli rossi) e in pessimo stato di umore. Questo fino all’inizio di agosto quando, invece del preannunciato intervento per l’applicazione del catetere venoso centrale (CVC, considerato da noi come un annuncio dell’avvio delle procedure per il trapianto di midollo osseo), le vengono somministrate dosi di G-CSF, il fattore di crescita per i granulociti. Tra questi, i neutrofili nei circa due mesi di ospedalizzazione e trattamenti continui con antibiotici, antifungini e aciclovir, erano scesi, a partire dai 1.500 per microlitro al momento del ricovero, sotto la soglia considerata neutropenia grave dei 500 per microlitro, fino ad arrivare a soli 50 per microlitro. Il fattore di crescita fa miracoli, ed i neutrofili arrivano dapprima a 1.500 fino, in seguito, a raggiungere addirittura a superare i 5.000 per microlitro. Sulla base di questa evidenza, che si sarebbe potuta tranquillamente ottenere settimane prima, a Lisa vengono concessi quella sorta di «arresti domiciliari» rappresentati dal regime di Day Hospital, che comunque vengono accolti da Lisa con gioia smisurata. Siamo alla prima settimana di agosto.
COSA E’ SUCCESSO DOPO. Come detto, la patologia andava trattata, e prova ne sia il fatto che le finestre temporali tra una trasfusione e l’altra andava riducendosi con il passare delle settimane. Finalmente ci viene annunciato il programma organizzato per procedere al trapianto di midollo osseo. E’ stata identificata una donatrice tedesca di 45 anni praticamente identica a Lisa riguardo gli antigeni di istocompatibilità: 10 su 10. SI poteva dare il via al MUD, trapianto di midollo osseo con un “Matched Unrelated Donor”. Siamo a pochi giorni prima della metà di ottobre. Una volta richiamata in ospedale, la cosiddetta fase di condizionamento trascorre come atteso, e Lisa soffre al più di nausea, mai di vomito, smettendo però di mangiare. Ma pure questa non è una sorpresa. Arriviamo quindi al «gran giorno», 16 ottobre 2010. Anzi no, il giorno prima una dottoressa mi informa che Lisa verrà sottoposta a plasmaferesi. La donazione è, scoprirò il giorno dopo, di pessima qualità. Il numero di bianchi totali (cellule CD45 positive) è scarso ed inevitabilmente i precursori ematopoietici (cellule CD34 positive) vengono valutati essere nei laboratori del Bambino Gesù circa un terzo della quantità minima richiesta. Di norma, le donazioni di midollo osseo vengono ripulite dai globuli rossi prima della reinfusione nel ricevente. Va da sé che a questo trattamento consegue una riduzione anche delle cellule CD34 positive, e quindi nel nostro caso avrebbe comportato l’ulteriore riduzione delle cellule utili per Lisa. Quindi una dottoressa dello staff del reparto che si occupa dei trapianti di cellule ematopoietiche mi annuncia che Lisa subirà una procedura di plasmaferesi il giorno prima dell’infusione delle cellule ematopoietiche visto che il gruppo sanguigno della donatrice è AB e Lisa, gruppo 0, aveva sviluppato anticorpi anti- A e anti-B probabilmente a seguito delle numerose trasfusioni di piastrine, che normalmente vengono presentate al ricevente come prodotto di pool di donatori. Io mi mostro sorpreso e anche irritato alla dottoressa per questa inaspettata novità, e lei mi liquida con una frase tipo «Non capisco questo processo alle intenzioni» quando io, non avendo ancora ben chiaro il quadro complessivo (molto peggiore di quello che immaginavo) chiedevo sommessamente ed un po’ ingenuamente la ragione per cui il donatore non fosse stato scelto anche in base al gruppo sanguigno. Inciso per i non addentro alla materia: la trasfusione in un soggetto che ha sviluppato anticorpi contro i globuli rossi che riceve genera una reazione immunitaria nell’ospite che porta all’emolisi, il più delle volte associata, bene che vada, a tremendi dolori e infiammazione sistemica. I dottori trionfanti mi annunciano che la plasmaferesi ha abbattuto di almeno dieci volte il titolo di anticorpi anti-A e anti-B. Peccato che non dicano (non voglio immaginare che non sappiano) che la quantità residua di anticorpi nel plasma della povera Lisa restano ancora più che sufficienti a scatenare l’inferno dell’emolisi massiva. Arriva il gran giorno dell’infusione, venerdì 16 ottobre, e per l’occasione mi viene concesso di accedere alla camera di Lisa, privilegio fino ad allora e per quasi tutti i giorni seguenti concesso ad una sola persona, ovviamente nel nostro caso mia moglie, sostituita per qualche giorno dalla generosa sorella Agnese. Il materiale da infondere si presenta come una sacca di sangue rosso scuro, molto grande, più di un litro di materiale. Nonostante l’aspetto sinistro per essere un infuso di precursori ematopoietici, il nostro sguardo verso la sacca al momento era quello che si riserva a chi ci può salvare da un incubo. Neanche immaginavamo che l’incubo sarebbe cominciato proprio da quella sacca. Il racconto qui si interrompe per porre una questione per me fondamentale, ed alla quale nessun medico, a posteriori, è stato in grado di rispondere in maniera minimamente plausibile. In base alla organizzazione internazionale che gestisce la rete di donatori di midollo osseo, il controllo di qualità della donazione non avviene al centro trasfusionale dove avviene la donazione, ma esclusivamente nel centro dove si pratica l’infusione nel ricevente. Visto che a condizionamento (chemioterapia) avvenuto il paziente non può rimanere senza l’infusione per troppo tempo, l’ordine delle cose porta semplicemente alla necessaria infusione del materiale del donatore, a prescindere dalla sua qualità. La domanda mia è stata: NON ESISTE UN PIANO B per situazioni del genere? Risposte dei medici: «No, non è previsto dai protocolli internazionali, non accade mai di averne bisogno... al più si può richiedere un “boosting” inteso come una seconda donazione dallo stesso soggetto» (che ovviamente non può avvenire in tempi stretti), e così via. Per banalizzare con un esempio, sappiamo tutti che i moderni areoplani commerciali vengono costruiti in modo che se uno dei due motori va in panne, è sufficiente l’azione del secondo motore per salvare le vite. Il piano B è rappresentato dalla spinta del secondo motore di per sé sufficiente a far volare l’aereo. Quante volte si rompe un motore di un aereo? Per fortuna pochissime volte, ma non per questo non si è pensato, per salvare vite umane, di progettare gli aerei in modo che possano volare con un solo motore. Allo stesso modo: quante volte la donazione del midollo osseo risulta essere praticamente inutilizzabile? Pochissime volte, mi dicono, non per questo non bisognerebbe pensare ad un piano B per salvare vite umane. Nel nostro caso, ed in tutti quelli riferibili a trapianti di midollo osseo, il piano B potrebbe semplicemente consistere nell’allertare un donatore alternativo, magari anche con qualche “mismatch” negli HLA (il rischio a lungo termine di non avere un “matching” 10/10 è ovviamente sopportabile in casi del genere), al quale chiedere un pronto aiuto in caso di fallimento della prima donazione. «E’ inutile...» mi è stato detto… chissà cosa ne penserebbe Lisa…Ritornando alla cronaca, l’infusione, che era stata presentata della durata di 3-4 ore massimo, è terminata dopo più di 12 ore. Questo è nulla. L’emolisi ha provocato dolori lancinanti e sempre crescenti, al punto che ad un tratto l’infusione è stata interrotta. Lisa ha urlato di dolore per 12 e più ore, urla potentissime, con voce alterata, continue. La dose di morfina utilizzata mi è stato detto la sera non essere neanche stata praticata al massimo possibile, e visto come è andata qualcuno mi dovrà spiegarne la ragione. Si forma un versamento pleurico di circa 500 mL che verrà aspirato solo poche ore dalla fine della povera Lisa. La giornata di venerdì 16 ottobre si conclude per me all’una di notte del 17, quando il mio permesso di stare insieme a Lisa e Margherita scade e devo andare via. I dolori atroci di Lisa continueranno fino alla sua morte, ed io Lisa praticamente non la rivedrò più. I giorni immediatamente successivi dal punto di vista clinico sembrano essere incoraggianti. A fronte della fastidiosissima quanto inevitabile mucosite che si affaccia, la tremenda infiammazione generalizzata tende a regredire, come suggerito dai valori in diminuzione del marker di infiammazione PCR (Proteina C reattiva). L’urina passa da color coca-cola a giallo/arancione, quasi normale. Come atteso non c’è ancora traccia di attecchimento. Comunque sia per aiutarlo sabato 26 ottobre viene somministrato per la prima volta il fattore di crescita G-CSF, ma viene deciso per il momento, nonostante il suggerimento di un componente lo staff, di soprassedere alla richiesta del “boosting”. La verità è che a partire da questo giorno si inizia a profilare, trascurata, la minaccia che ucciderà Lisa, tanto mortale quanto prevedibile: l’infezione batterica. Secondo inciso per le persone non del campo: il nostro corpo alberga naturalmente un gran numero di batteri, virus, funghi e miceti che possono risultare letali solo in particolari condizioni, quali l’immunosoppressione totale che si genera dopo chemioterapie come quella che ha dovuto sopportare Lisa. Tra i batteri, ne esiste un genere particolare (Pseudomonas aeruginosa) che alberga ovunque, dentro e fuori il nostro corpo, che in condizioni di immunosoppressione totale accompagnata da mucosite può facilmente traslocare e svilupparsi in tessuti diversi. Quando si trova nel sangue, attraverso analisi molecolare di amplificazione genica o emoculture, è segno che ha già allignato nei tessuti ed ha già indotto danni irreversibili mediati in gran parte dal rilascio da parte dei macrofagi dell’ospite di una citochina definita “Tumor-necrosis factor alpha”, a sua volta indotta dalla loro interazione con componenti della parete batterica. Il problema fondamentale di questo genere di batteri, prìncipi delle infezioni ospedaliere, è che si sono selezionati ceppi resistenti praticamente a tutti gli antibiotici in uso (fenomeno della “multi-drug resistance”, che miete migliaia di vittime all’anno solo in Italia). Mi si riferisce che esistono solo due preparati antibiotici che, seppure di tossicità generale elevata, possono bloccare questo terribile nemico. Lisa li riceverà, ma troppo tardi. Né mia moglie che assisteva Lisa, né tantomeno io che stavo a casa abbiamo avuto accesso ai dati delle analisi di Lisa, così come era invece successo sempre fino al secondo ricovero. Ciononostante riuscivamo ad apprendere da notizie date a mezza bocca dai medici che, dopo una discesa, la PCR ritornava a salire in modo molto significativo, con valori sopra i 25 mg/dL (valore normale < 0.5). Nella mia mente di padre e di non clinico mi illudevo che fosse solamente conseguenza della recrudescenza dello stato infiammatorio scatenato dalla tremenda emolisi. A posteriori, era invece il killer invisibile che avanzava. Invisibile alle analisi obiettive, alle TAC, alle radiografie, alle ecografie, alle emoculture, ma così solito a colpire. Facilmente immaginabile per chi ha esperienza, avvedutezza, prudenza, attenzione. Ancora venerdì 30 ottobre sia le emoculture che le analisi di amplificazione genica sul sangue risultavano negative. Ad una ripetizione nel giorno successivo, arriva il primo risultato positivo all’analisi molecolare per Pseudomonas (diranno a mia moglie: “non si preoccupi, questa analisi dà spesso falsi positivi”…), ancora niente alle emoculture, che ovviamente richiedono più tempo. Figuriamoci i relativi antibiogrammi. Lisa morirà alle 0.15 di martedì 3 novembre. La settimana a partire da lunedì 26 è stata per Lisa un’escalation di dolore e di sofferenze. La temperatura tendeva a salire, il mal di testa era una tortura, la PCR restava alta, la respirazione sempre difficoltosa, e di attecchimento del midollo neanche a parlarne… Perché, visto questo quadro in chiaro peggioramento, anche in assenza di una evidenza analitica ma ben sapendo quanto possa essere micidiale l’attacco di Pseudomonas, non si è utilizzata la carta dei pochi antibiotici super-specifici, limitandosi invece a continuare a sostituire un antibiotico “convenzionale” con un altro altrettanto inefficace contro Pseudomonas? Perché, visto il pericolo anche solo possibilmente incombente non si è pensato da subito, vista la perdurante aplasia, di provare adesso, subito, e non ad un giorno dalla morte come si è fatto, la trasfusione di granulociti compatibili, tentativo terapeutico che ha in verità una solida base biologica? Siamo a giovedì 29 e venerdì 30... Lisa respira sempre peggio, ora anche il suo cuore inizia a dare segni di sofferenza severa..l’infezione in corso e la ridotta capacità polmonare lo sottopone ad un super-lavoro, e iniziano ad affacciarsi le temute fibrillazioni atriali. Lisa ha bisogno di ossigeno, prima attraverso i cosiddetti “occhialini”, e poi con il casco. I polmoni via via si riempiono di essudati, muco, batteri, e perdono sempre più le zone capaci di scambiare aria. Nella notte tra sabato 30 ottobre e domenica primo novembre l’immagine radiografica dei suoi polmoni si deteriora drammaticamente. Lisa nonostante tubi, maschere o caschi per l’ossigeno, respira sempre peggio e viene trasportata in terapia intensiva. Una immagine qui sotto riportata riassume lo stato di Lisa subito prima del trasferimento in terapia intensiva. Dall’alto, il tracciato del cuore impazzito, i livelli di saturazione dell’ossigeno irregolari nonostante il casco, ed in basso il tracciato della respirazione che si commenta da solo. In terapia intensiva per poche ore Lisa sembra stabilizzarsi, ma è un’illusione. Il killer aveva già messo a segno i suoi colpi mortali, e in pratica non c’era già più nulla da fare. Domenica primo novembre si decide di avviare la raccolta di granulociti per “l’estrema infusione”, come ora la definirei. La risposta degli amici e dei parenti è commovente, e dal centro trasfusionale si indispongono per l’eccessivo numero di donatori. Intanto Lisa subisce altri interventi per stabilizzare il cuore, e viene intubata. Non vedrà più la luce, povera Lisa. Il pomeriggio di lunedì 2 novembre si procede alla prima (e ultima) infusione di granulociti, ma intanto Lisa perde sangue dai polmoni ed è passata dalla terapia intensiva alla rianimazione, in una struttura definita “Zona Rossa”, denominazione che rappresenta un sicuro incoraggiamento per le residue speranze di genitori disperati. Ora Lisa, oltre al cronico deficit di piastrine, ha il sangue che non coagula più…anche il fegato è andato... è la fine. Curiosamente esce dalla zona rossa il medico ematologo responsabile della procedura trapiantologica. Molto cortesemente ingaggia con me e mia moglie un colloquio di più di un’ora in cui ci mostra le ultime analisi di Lisa (100.000 piastrine, granulociti neutrofili rilevabili!!). Sembrano buone notizie, ma poi ci mostra la fotografia del midollo di Lisa quale appare in quel momento: un desolato camposanto di cellule morte nel quale si aggira uno sperduto macrofago che cerca di fare pulizia. Il trapianto è fallito, e si ragiona sui successivi passi. Noto però con sgomento che due transaminasi epatiche sono schizzate a 4-5.000 (valori normali 20-40). L’ematologo non vuole dargli molto peso, ma io capisco che è finita. Infatti, il successivo colloquio con i medici della rianimazione delinea un quadro che era ben a conoscenza dell’ematologo, che io temevo, e che ora ci si presentava in tutti i suoi dettagli. «Cosa vi ha detto l’ematologo?» esordisce. E io inizio a discettare di problemi ematologici sofisticati, di infusioni di granulociti, e così via. Lui mi ribatte: «Il sangue di Lisa non coagula più, il fegato è fuori uso, ha già avuto un arresto cardiaco, tutti gli organi sono in acidosi, in un quadro quindi di deficit multiorgano». Il killer ora vede i frutti del suo lavoro svolto durante la settimana passata, e se la ride di super-antibiotici, granulociti o altre cose date a babbo morto. Torniamo a casa rassegnati. Margherita è sempre stata il riferimento per il Bambino Gesù. Non so come mai, ma per comunicarci che Lisa ci ha abbandonato hanno chiamato me. Domande senza risposta: Perché non sono stati tentati approcci terapeutici di prima linea di per sé non invasivi? Perché per salvare vite non si prevede un piano B in caso di donazione di midollo non adeguata? Perché non si è proceduto in via preventiva a contrastare l’azione del batterio killer Pseudomonas con il trattamento con adeguati antibiotici ed infusioni di granulociti?
VOLTI E NOMI. Ho parlato dei fatti fornendo poche interpretazioni. Ora vorrei parlare dei personaggi principali che hanno popolato questa storia.
Prof. Franco Locatelli. È direttore del dipartimento di onco-ematologia e terapia cellulare e genica all’ospedale pediatrico Bambino Gesù e occupa la cattedra di professore ordinario di pediatria presso l’Università La Sapienza di Roma. Ha sviluppato nuove tecniche per il trapianto di cellule ematopoietiche, contribuendo alle cure per la leucemia. Il 1º aprile 2005 riceve la medaglia d’oro al merito della sanità pubblica. Attuale presidente del Comitato Tecnico-Scientifico che sta guidando l’Italia attraverso la pandemia, presidente del Consiglio Superiore di Sanità, Presidente dell’“European working group on childhood myelodysplastic syndromes”, una serie di sindromi in cui ricade la RCC che ha colpito Lisa. Ditemi chi, avendo a pochi passi da casa un ospedale il cui responsabile è il prof. Locatelli non avrebbe affidato la persona più preziosa, una figlia, colpita da una malattia del sangue, all’ospedale di cui è responsabile il prof. Locatelli? E’ ovvio che la enorme somma di incarichi e responsabilità fa sì che la immaginata ed auspicata funzione di coordinatore attivo dei suoi gruppi al Bambino Gesù debba essere limitatissima nel tempo. Eppure almeno due volte Lisa ha avuto il privilegio di essere visitata personalmente dal prof. Locatelli, sempre di sabato (forse uno dei pochi giorni che residuano al professore dai suoi impegni extra-ospedalieri), precisamente sabato 17 e sabato 24 ottobre. La seconda volta, mi ha raccontato Lisa con orgoglio, ha anche ricevuto un bacio sulla sua testolina dal professore. Quanta fiducia aveva Lisa in noi genitori, in tutto il personale dell’ospedale, nel suo responsabile. Nessuno di noi è stato all’altezza.
Dott. Luciani. E’ stato l’ematologo di riferimento, almeno fino a quando Lisa non è entrata in ospedale per il trapianto. Persona riservata, di poche parole, umanamente molto apprezzabile. Aveva instaurato con Lisa un rapporto speciale, con annessi abbracci e baci, come una sorta di secondo papà. Lisa aveva una fiducia illimitata nel dott. Luciani. Non sono a conoscenza dei rapporti che intercorrono tra i vari medici ematologi del Bambino Gesù. E quindi non so se per trascuratezza, mancanza di informazioni, o altro, il dott. Luciani si è fatto promotore dell’iniziativa volta a trasfondere granulociti in una Lisa ormai moribonda. Avrebbe avuto senso farlo una settimana prima, una volta accertata la risalita della PCR. Considero questo una grave mancanza, ma almeno il dott. Luciani, facendo visita a Lisa ormai deceduta, ha avuto il coraggio di ammettere fra le lacrime. «Non sono stato capace di curarla». E in questi pochi attimi, in ciascuna di queste parole ha dimostrato tutte le sue qualità umane.
Dott. Palumbo. E’ stato uno dei due ematologi, insieme al dott. Luciani, che ha preso in carico Lisa ai primi tempi del ricovero. Dopodiché non se ne è più occupato, senza peraltro provocare in noi sensazioni di abbandono. Dicono eccellente professionista (ma dalla letteratura non sembra elevarsi particolarmente sopra la media), dotato di spiccato complesso di superiorità, le sue due frasi che mi sono restate impresse sono: «Io non mi appassiono mai dei problemi e delle esigenze dei genitori» e «Io sono il Day Hospital del Bambino Gesù». Qualsiasi commento è superfluo.
Dott. Merli. Ha condotto insieme ai colleghi di reparto il trapianto. Giovane medico che sa darsi una credibilità, sicuramente cortese e disponibile a condividere informazioni, anche se solo fino ad un certo punto. Tutto sommato, lui e tutta la squadra che opera nel suo reparto vanno considerati gli attori decisivi del fallimento che ci ha portato via Lisa. E’ plausibile che, stante l’organizzazione delle cose, non potesse esimersi dall’infondere il litro di veleno (al posto delle cellule ematopoietiche) nel corpo di Lisa. A posteriori fa quasi tenerezza quando annuncia trionfalmente che la plasmaferesi aveva abbattuto di non so quante volte il titolo degli anticorpi anti-A e anti-B. Peccato che quel che residuava è bastato a trasformare l’infusione in una sorta di tortura medioevale. Fatto salvo il dichiarare, alle dieci della sera del giorno del trapianto, che sì, la morfina potrà tranquillamente essere aumentata. Ignoro i livelli decisionali operativi nel reparto dove lavora il dott. Merli. Con lui operano altri medici anche meno giovani di lui. Ad ogni modo, la successione delle valutazioni e delle decisioni nella settimana decisiva sono apparse a cose fatte, e anche senza avere il conforto dei dati della cartella clinica, al minimo sciatte, se non mortali. Nella drammatica notte tra sabato 31 ottobre e domenica primo novembre un suo collaboratore, mostrandomi le enormi opacità nelle radiografie dei polmoni di Lisa, mi volle far credere che potessero anche essere conseguenza positiva del richiamo nella zona infetta dei globuli bianchi generati dal nuovo midollo. Tante piccole e grandi bugie forse devono essere raccontate per gestire al meglio la psicologia dei pazienti e dei genitori, e noi abbiamo seguito coscienti e rassegnati questo destino, ma uno sfondone del genere, detto in buona fede o no, supera l’immaginabile. Il midollo nuovo di Lisa non ha mai dato segni di attività. Sorprendenti infine il tono e le argomentazioni che il dott. Merli ha messo in campo nella riunione che abbiamo avuto la sera di lunedì 2, quando anche lui già sapeva che il fegato di Lisa aveva ceduto e che era tutto finito. Come detto, la immediatamente successiva chiacchierata con i medici della rianimazione ci ha chiarito il drammatico quadro.
L’OSPEDALE BAMBINO GESU’. L’ospedale Bambino Gesù La struttura nel suo complesso così come i servizi vanno considerati di prim’ordine. Il personale infermieristico nel suo complesso (con le inevitabili eccezioni) molto competente e cortese. Lisa ha sempre avuto un ottimo rapporto con tutti, anche al Day Hospital dove in effetti il sovraccarico di pazienti fa diminuire drasticamente la qualità dei servizi offerti. Salendo nella scala delle responsabilità, ci è apparsa lampante la mancanza di una figura intermedia tra il prof. Locatelli e i suoi collaboratori che fosse di grande esperienza ed avesse la funzione di coordinamento fra i diversi responsabili di specialità. Per spiegarmi meglio, un dr. House della situazione, anche senza necessariamente possedere le sue enormi virtù e le sue estreme debolezze. Il dubbio che mi martella è che se un microbiologo medico avesse esaminato per tempo la situazione di Lisa, forse i super-antibiotici contro lo Pseudomonas sarebbero stati usati al tempo giusto.
MARGHERITA. Il suo ruolo è stato semplicemente eroico, come si addice a una mamma. Il suo grado di esasperazione nel momento critico la ha portata ad avere addirittura paura a rientrare in una stanza dove tutti gli strumenti attaccati a Lisa suonavano, e Lisa stessa non riusciva a respirare nonostante avesse in testa un casco montato più o meno a regola d’arte. Una forza inimmaginabile.
LISA. Sempre fiduciosa, mai abbattuta nemmeno nei momenti più drammatici, sempre gentile con medici e infermieri, con i quali è riuscita ad avere anche ottimi rapporti. Era l’ultima delle persone da tradire, ma siamo riusciti anche in questa impresa. Ciao Lisa, non credo che meritiamo il tuo perdono.
Ambulanza della morte, un nuovo testimone: “Anche cuscini per uccidere i pazienti”. Le Iene News News il 05 novembre 2020. Dopo la nostra inchiesta del 2017, Roberta Rei raccoglie un’altra testimonianza sul caso dell’ambulanza della morte. Chi parla, assieme al fratello, ha denunciato due persone, ora a processo per omicidio ed estorsione di tipo mafioso. Le vittime potrebbero essere molte. Roberta Rei torna a parlarci dell’agghiacciante vicenda dell’ambulanza della morte di Biancavilla, in provincia di Catania. Secondo quanto ricostruito nelle indagini e ora in fase di processo, su quell’ambulanza sarebbero successe cose agghiaccianti al limite dell’incredibile. “Se c’era uno in agonia, a volte non moriva per mano di Dio. Siccome era in agonia, moriva così chi lo trasportava guadagnava 300 euro anziché 50, 30 o 20”. A sostenerlo sono Marco e Antonio: “Quando loro trasportavano i malati facevano delle iniezioni d’aria nelle vene”. I due fratelli erano titolari di un’agenzia di pompe funebri, oggi sono testimoni di giustizia che avrebbero scoperchiato omicidi fatti in collaborazione con le mafie locali. “Avevano il totale controllo dei funerali e del trasporto dei morti dall’ospedale a casa. Velocizzavano la morte dei pazienti per guadagnare di più”, sostengono i due fratelli. Il giro del “pizzo” sarebbe addirittura di 146mila euro in 6 anni. In base al loro racconto le cosche si sarebbero impossessate anche della ambulanza. A bordo avrebbero piazzato due persone, ribattezzate come “ambulanzieri della morte”, finiti a processo: Agatino Scalisi e Davide Garofalo. “Dietro di loro ci sono due gruppi criminali che hanno fatto la storia criminale di quel comprensorio. C’è stata una guerra di mafia, morti ammazzati nelle strade, bambini uccisi”, sostiene Antonio. Si è convinto a parlare dopo la nostra intervista del 2017 al fratello Marco (qui il servizio). “Mi mancava l’aria in quel sistema, quando ho denunciato sono tornato a respirare”, dice. Antonio ci racconta ulteriori dettagli sconvolgenti su quelle iniezioni d’aria. “Partivano dall’ospedale perché loro scendevano sempre dall’ascensore del pronto soccorso. Iniziavano da lì”, sostiene Antonio che racconta un altro particolare terribile. “Quando non riusciva con l’iniezione, lo faceva con il cuscino, quando me l’ha detto non ci ho creduto”. E infatti alcuni parenti delle vittime dell’ambulanza della morte dicono di aver trovato i loro cari con la bocca spalancata. Oggi i due “ambulanzieri” sono accusati di omicidio ed estorsione di tipo mafioso. Per entrambi il processo è in corso e viene contestata la morte di quattro persone. “Ho fatto 50 morti l’anno dal 2013”, dice Antonio. “Non vuol dire che tutti siano stati fatti con siringa, come non vuol dire che sono tutte morti naturali”.
Se a Pantelleria è vietato nascere. Notizie.it il 14/09/2020. Da otto anni un decreto perseguita Pantelleria: venire alla luce nel punto nascita della propria isola è un lusso, un capriccio o un diritto? Pantelleria è molto diversa da Lampedusa: è tutta scogli, e di difficile approdo. I migranti arrivano, ma meno, e solo dalla rotta tunisina. Non c’è una spiaggia, e dunque neanche lo spettacolo delle uova deposte dalle tartarughe, la schiusa e la corsa disordinata e felice dei neonati verso l’acqua. Il guaio è che sull’isola rischiano di non nascere neppure gli umani. È per questo – anche per questo- che un gruppo di donne picchetta da giorni, sotto soli e piogge di fine estate l’ospedale davanti al porto. Non ce l’hanno con l’ospedale, e tanto meno con la dozzina di medici – metà dei quali stanziali, gli altri in trasferta – né con gli infermieri, che fanno del loro meglio. Ce l’hanno con un decreto che da otto anni perseguita l’isola, 7500 abitanti, più vicina alla Tunisia (70 chilometri di mare) che alla Sicilia (110 chilometri, 6/7 ore di traghetto). Il decreto prevede che là dove in un ospedale nascano meno di 500 bambini l’anno, il punto nascita debba essere chiuso. Poiché lo stesso decreto stabilisce anche che il punto nascita alternativo debba essere entro i 100 chilometri, cosa qui impossibile. Così per anni e fino allo scorso gennaio si è andati avanti per deroghe: l’ultimo parto isolano è del 25 gennaio 2020. Poi viaggi per nave o per aereo delle partorienti, di mariti, di nonne: 9 parti lontano da casa, e in tempi di Covid, uno spettro che finora ha risparmiato l’isola. Il punto nascita può già contare su un ginecologo, quattro ostetriche, un pediatra, un’infermiera, tre isole neonatali con ventilatore, due culle a caldo, un’incubatrice da trasporto, un respiratore neonatale, due ecografi. Cosa manca? Quello che manca deve rispondere a una domanda: con 34 e passa miliardi che dal Recovery Fund verranno indirizzati agli ospedali (per non parlare del Mes, più a portata di mano e più specifico) non vale la pena fare uno strappo alle logiche aziendalistiche e consentire che i panteschi nascano sull’isola anche se non saranno mai 500 parti in un anno? È un lusso, un capriccio o un diritto? E ovviamente è una domanda che non chiede risposte solo tecniche, o anagrafiche o antropologiche, al tempo della pandemia. Come le gestanti sono costretti a viaggiare anche i malati oncologici, con il loro bagaglio di disagi e di rischi. La lista di richieste, qui, è più lunga: la presenza di un oncologo e di uno psichiatra, la possibilità di effettuare sull’isola la colonscopia, la gastroscopia, la mammografia, l’esame del colon retto, dell’utero, l’angioscopia, la morfologica, l’ecografia delle anche, l’ultra screening, la tac. L’attivazione di un’ambulanza medicalizzata e la creazione di qualche posto letto per malati terminali. Abbiamo tutti vissuto lo strazio delle morti solitarie nelle terapie intensive, la scorsa primavera. Dovrebbe bastarci a capire che morire, quando tocca, nella propria isola è un piccolo diritto, come quello di nascervi.
Da lastampa.it il 13 settembre 2020. E' fissata per martedì, davanti al gip di Roma, l'udienza preliminare del procedimento che vede imputati 8 medici dell'ospedale Bambino Gesù della capitale, accusati di omicidio colposo per la morte di un bimbo di due anni a cui sarebbe stato impiantato un pacemaker al contrario. Della vicenda scrive oggi il quotidiano la Repubblica. Il piccolo, nato con una patologia cardiaca, viene sottoposto nel 2016 ad una operazione in Sicilia, a Taormina, presso il centro cardiologico pediatrico Mediterraneo dell'ospedale Bambino Gesù. Secondo l'accusa i tre medici che lo operano gli impiantano il pacemaker al contrario, rivolto verso il basso. Un errore che gli provoca una sorta di cappio all'arteria che, nella crescita, causa una insufficienza cardiocircolatoria. Nel 2018 il bimbo arriva a Roma, sempre al Bambino Gesù, ma i cardiologi che lo visitano, sempre secondo l'accusa, non capiscono la gravità della situazione e ritardano una serie di esami. A settembre di due anni fa il cardiologo riscontra qualche problema, ma fissa la tac solo due mesi dopo, secondo la ricostruzione dei pm. Si arriva al 31 dicembre, le condizioni del bambino sono molto gravi. Viene sottoposto ad un nuovo intervento chirurgico ma i medici, a detta dei magistrati, sbagliano la procedura e due giorni dopo il bimbo muore. Nell'udienza preliminare il giudice potrebbe affidare una perizia per accertare cosa sia successo e cosa, eventualmente, ha causata una catena così lunga di errori.
Alessia Strinati per "leggo.it" il 19 settembre 2020. I medici dicevano che era solo gelosia ma Miriam è morta a 5 anni. La piccola Miriam Laezza è stata stroncata da un infarto mentre era a lezione di danza, a Cardito (Napoli). Secondo l'autopsia si è trattato di morte naturale ma i genitori chiedono che venga fatta chiarezza. Tre volte la bimba nei mesi precedenti al suo decesso, avvenuto ad ottobre del 2019, era stata portata in ospedale. Tre volte aveva perso i sensi, a febbraio, a marzo e ad aprile, ma tutte le volte i dottori avevano detto alla famiglia che stava bene e che probabilmente sveniva per attirare l'attenzione su di sé a causa della gelosia provata verso il fratellino nato da poco. La mamma ha raccontato a FanPage di essere stata rassicurata più volte dai medici, poi quando ha visto Miriam il giorno in cui è morta era già cianotica: «Voglio sapere se qualcuno ha sbagliato nei soccorsi o se ci sono stati errori in precedenza, quando l'abbiamo portata in ospedale. Se aveva una malattia non diagnosticata, se si sarebbe potuta salvare. Vogliamo capire chi o cosa ci ha portato via la nostra bambina», ha precisato Antonella Palladino che insieme al marito Giovanni Laezza cerca giustizia. La donna spiega che la figlia aveva avuto tre accessi in ospedale nei mesi precedenti: «l'hanno dimessa con diagnosi di sincope vasovagale, dicendo che la bambina era gelosa del fratellino. Mia figlia è svenuta 3 volte: il 28 febbraio, il 24 marzo e il 21 aprile. Per 12/13 minuti non si riprendeva». Antonella aveva spiegato che la figlia restava priva di conoscenza per diversi minuti, ma per loro non c'era nessun problema e la soluzione che le hanno suggerito era quella di metterla con le gambe in aria.
Roma, muore a due anni. "Pacemaker al contrario". Guerra di perizie tra la famiglia e l’ospedale. Pubblicato lunedì, 14 settembre 2020 su La Repubblica.it da Maria Elena Vincenzi. Un bimbo di 27 mesi che muore. Una famiglia che denuncia una serie di errori medici. E uno dei migliori ospedali pediatrici di Europa che nega qualsiasi responsabilità. La procura di Roma indaga sulla morte del piccolo Giacomo Saccomanno - che proprio oggi avrebbe compiuto quattro anni - e ha iscritto nel registro degli indagati otto sanitari dell'ospedale Bambino Gesù con l'accusa di omicidio colposo. Nella guerra di perizie che è nata dall'inchiesta, domani il giudice affiderà una nuova consulenza per stabilire le cause della morte del bimbo, avvenuta il 3 gennaio del 2019. Il pm Daniela Cento contesta ai vari medici che nei due anni di odissea sanitaria si sono occupati del piccolo, di aver agito con "negligenza, imprudenza e imperizia" ed aver tutti "concorso a cagionare la morte del bimbo". Letta attraverso gli atti giudiziari e i capi di imputazione, l'intera vita del piccolo Giacomo appare oggi una triste sequela di errori e sviste sanitarie. Tutto è iniziato con un intervento chirurgico poche ore dopo la nascita, per mettere un pacemaker al cuore. L'operazione viene eseguita al San Vincenzo di Taormina dove c'è un presidio cardiologico del Bambino Gesù. Secondo l'accusa, però l'apparecchio viene montato "al contrario", con gli elettrodi rivolti verso il basso invece che verso l'alto. "Nel suturare i due elettrodi sulla parete libera del ventricolo destro in maniera erronea verso il basso ", scrive il pm, i medici "cagionavano la formazione di un cappio", il che ha provocato "un progressivo strozzamento dell'arteria polmonare " e quindi "un'insufficienza acuta cardiocircolatoria". Ma l'accusa del pm va ben oltre gli errori eventualmente commessi nell'installazione del dispositivo e si estende al comportamento dei professionisti del Bambino Gesù nel corso dei due anni successivi. A mano a mano che il piccolo cresceva - e che dunque il cappio si stringeva attorno all'aorta - le sue condizioni di salute peggioravano vistosamente, ciononostante, nelle pur molte visite sostenute presso la struttura romana, nessun medico si è accorto della situazione. E' accaduto ad aprile e a settembre del 2018, ed è accaduto anche nei giorni a ridosso del Natale di quello stesso anno: il 21 dicembre, il piccolo sta male, ma dopo una visita sommaria viene rimandato a casa. Il 31 dicembre, appena dieci giorni dopo, è gravissimo. Viene trasportato su un aereo militare nella capitale. Ma verrà operato solo il giorno dopo. I due medici che eseguono l'intervento, sempre secondo l'accusa, non solo lo fanno "in macroscopico ritardo", ma sbagliano anche la procedura. È il 1º gennaio 2019, due giorni dopo il piccolo smette di respirare. Le accuse della procura sono state smentite con forza dalla direzione del Bambino Gesù: "L'ipotesi che il pacemaker fosse messo al contrario è falsa e tutelerò l'onorabilità dei miei assistiti - ha dichiarato l'avvocato dei sanitari Gaetano Scalise - . C'è stata una complicanza nota e risolvibile chirurgicamente e, purtroppo, il bambino in attesa dell'intervento già programmato, ha contratto un virus e poi una polmonite che gli è risultata fatale". Come sempre in casi come questo, la partita si deciderà sulla base delle perizie. A quella iniziale, disposta dal pm, che scagionava i medici, ha fatto seguito quella della famiglia che è stata perentoria nel dire che ci sono stati errori, tanto che la famiglia, difesa dall'avvocato Domenico Naccari, ha denunciato per falsa perizia i consulenti del pm. Proprio per questo, per fare chiarezza in questa diatriba, il gip ha nominato nuovi esperti per capire cosa sia successo davvero e poi decidere cosa fare.
Batterio killer, la mamma di Nina: “L’ospedale ha nascosto e insabbiato”. Notizie.it La mamma di Nina, morta a causa del batterio killer all'ospedale Verona, ha accusato la struttura di aver insabbiato e nascosto la realtà. Francesca Frezza, la mamma di Nina, una dei quattro neonati morti a causa del batterio killer all’ospedale di Verona, ha ritenuto doverosa la sospensione di tre medici disposta dalla Dirigenza dell’Azienda Ospedaliera. Ha poi raccontato cosa succedeva all’interno del nosocomio. “Avrebbero dovuto avere almeno la dignità di auto sospendersi da soli, mi hanno costretta ad andare ogni giorno in ospedale per ottenere questo“, ha esordito la donna, che da quando sono stati resi pubblici i risultati dell’inchiesta relativa alla presenza del batterio ha protestato quotidianamente davanti alla struttura. Manifestazioni, le sue, non dettate da voglia di giustizialismo o arrabbiatura, ma per una questione di verità. Ha infatti parlato di lacune, errori e omertà davanti al rispetto umano e morale di donne che hanno perso i loro figli. “Penso che pagheranno un prezzo più caro di quanto avessero immaginato, perché un caso del genere a livello mondiale non è mai accaduto“, ha continuato. Francesca ha quindi ripercorso la vicenda in un colloquio con il commissario dell’Azienda ospedaliera di Verona, accusando l’ospedale di aver nascosto la realtà tenendola all’oscuro della Regione che solo a distanza di due anni è venuta a conoscenza di quanto successo. Intanto gli ispettori ministeriali hanno interrogato i medici responsabili della struttura ospedaliera e dei reparti, due dei quali poi oggetto dei provvedimenti cautelari. Sul fronte penale vi sono due indagini preliminari aperte. Una a Firenze, dove è morta la figlia di Francesca, e l’altra a Verona, dove altri tre neonati sono deceduti e nove hanno subito gravi danni cerebrali per il batterio. Il reato contestato è quello di responsabilità colposa per morte o lesioni personali in ambito sanitario.
«BATTERIO KILLER A VERONA, L’OSPEDALE SAPEVA MA NON AVVISÒ LA REGIONE PER MESI». Secondo gli ispettori, il focolaio che uccise quattro neonati era in un lavandino usato dal personale di Terapia intensiva. Giuseppe Pietrobelli il 2 settembre 2020 su Il Quotidiano del Sud. Il batterio-killer che in due anni ha ucciso quattro piccoli ricoverati nella Terapia intensiva neonatale ospedale di Verona, era annidato in un rubinetto. Una prima verità emerge nel caso delle infezioni al Borgo Trento, in una struttura considerata d’eccellenza nella sanità del Veneto che ogni anno impiega più di 10 miliardi di euro.
LA DENUNCIA. La notizia, anticipata da un giornale locale, ha subito suscitato forti reazioni. A cominciare dalla mamma di una delle bambine infettate, Francesca Frezza. Che ha dichiarato: «È stata una strage di neonati che si sarebbe dovuta evitare, perché le infezioni sono cominciate nel 2018 e i reparti sono stati chiusi solo a metà giugno, dopo che io avevo manifestato davanti agli ingressi. Se li avessero chiusi prima, la mia Nina sarebbe viva». La signora Frezza si è poi recata con il fratello, l’avvocato Matteo, ancora una volta davanti al nosocomio scaligero, chiedendo che vengano rimossi dai loro posti i responsabili dei reparti dove si verificarono i contagi e anche i vertici della direzione sanitaria. «Non è possibile che i reparti riaprano con gli stessi medici al loro posto», hanno dichiarato.
IL FOCOLAIO. Il focolaio di Citrobacter si trovava in un lavandino utilizzato dal personale della Terapia intensiva neonatale per prendere l’acqua da dare ai neonati. In due anni ha causato quattro vittime: Leonardo a fine 2018, Nina nel novembre 2019, Tommaso a marzo di quest’anno e Alice il 16 agosto scorso. Ma l’elenco è drammaticamente completato da 9 cerebrolesi e da 96 piccoli colpiti dal batterio.
LA RELAZIONE DELLA COMMISSIONE. La relazione è stata consegnata in Regione Veneto dal professor Vincenzo Baldo, ordinario di Igiene e Sanità pubblica all’università di Padova e coordinatore della commissione di verifica nominata il 17 giugno dal direttore generale della Sanità del Veneto, Domenico Mantoan. Il giorno precedente erano stati chiusi i reparti di Ostetricia, di terapia intensiva pediatrica e terapia intensiva neonatale. L’organo ispettivo è composto dai professori Elio Castagnola, primario degli Infettivi dell’ospedale pediatrico Gaslini di Genova, Gian Maria Rossolini, docente di Microbiologia dell’ateneo di Firenze, e Pierlugi Viale, ordinario di Malattie infettive a Bologna, dal direttore di Pediatria e Neonatologia dell’usl Berica, Massimo Bellettato, e dai dirigenti di Azienda Zero Mario Saia ed Elena Narne. La relazione parla di una “colonia” di batteri nel lavandino e sarà inviata anche alla Procura della Repubblica di Verona che ha aperto un’inchiesta, al momento senza indagati. Il Citrobacter sarebbe arrivato dall’esterno, forse a causa del mancato o parziale rispetto delle misure d’igiene imposte al personale nei reparti ad alto rischio. Ovvero: lavaggio frequente delle mani, cambio dei guanti, utilizzo di sovrascarpe, sovracamici, calzari e mascherina. La conclusione è frutto del controllo sulle cartelle cliniche e procedure seguite, sui protocolli, sugli ambienti e impianti. Ma anche delle audizioni di medici, infermieri, operatori sociosanitari. Nella relazione si afferma anche che l’ospedale di Verona non avrebbe informato le strutture regionali sanitarie e nemmeno quelle ministeriali delle infezioni da Citrobacter, se non a giugno. L’epidemia inoltre, sarebbe stata sottovalutata e sottostimata. Nonostante i numeri drammatici, l’unità di crisi si sarebbe attivata con ritardo.
LA BATTAGLIA DEI FAMILIARI. La mamma di Nina non si era mai arresa. Mentre la piccola era in vita aveva ottenuto di trasferirla a Genova, perché in quell’ospedale le sarebbero state garantite e cure palliative, visto che soffriva terribilmente. La sua denuncia è anche un atto d’accusa- al di là dell’infezione – contro l’atteggiamento che alcuni medici avrebbero tenuto nei suoi confronti. «Sono arrivati al punto di dirmi che avrei potuta dare la mia piccola in adozione!». Il 12 giugno scorso il direttore generale Francesco Cobello aveva il Punto nascite (il più grande del Veneto), la Terapia intensiva neonatale e la Terapia intensiva pediatrica. Il giorno dopo aveva nominato una commissione di esperti. La Regione ne ha aggiunta un’altra di esterni. Nel frattempo durante l’estate è stata avviata la bonifica complessiva dei locali, con particolare attenzione all’aria, alle condutture d’acqua e alla situazione ambientale. Bonificati i filtri dell’aria, gli impianti di condizionamento e sanificazione. Poi è stata effettuata l’iperclorazione della rete idrica, controllando la carica batterica e quella del cloro nell’acqua. I locali sono stati sanificati con il perossido di idrogeno. E’ per questo che è stato riaperto ieri il Punto nascite per i parti dalla 34ª settimana, cioè non a rischio. Entro un mese è prevista anche la riapertura degli altri due reparti.
LA FORZA DI “MAMMA CORAGGIO”. Davanti all’ingresso dell’ospedale di Verona, mentre chiedeva le dimissioni dei responsabili dei reparti, Francesca Frezza, “mamma coraggio” ha ribadito: «Questo è un massacro, una strage di innocenti che si sarebbe dovuto evitare. Ciò che è accaduto è gravissimo. L’ospedale di Verona andava chiuso subito, per sanificarlo e trovare l’origine del Citrobacter. Le infezioni ci sono in tutti gli ospedali, ma si devono prendere provvedimenti, quando avvengono. Invece non si è fatto niente. Dal 2018 si è aspettato fino al 12 giugno scorso prima di chiudere i reparti». Le stesse parole sono state messe a verbale qualche giorno fa, durante un interrogatorio in Procura. «Alla fine la decisione è stata presa perché io ho chiesto la chiusura. Sono andata davanti alle porte dicendo che non mi sarei mossa finché non prendevano provvedimenti».
C’è un’inchiesta, in che cosa spera? «Ho fiducia nella magistratura, che riusciranno ad accertare cosa è accaduto e quali sono le responsabilità. Dopo il secondo caso avrebbero dovuto chiudere tutto. Chiedo: perché non l’hanno fatto? Intanto mia figlia ha sofferto in modo indicibile. I medici l’hanno intubata, volevano operarla, non hanno mai usato cure compassionevoli, nessuna terapia del dolore. La piccola era al limite delle forze quando, finalmente, sono riuscita a portarla via, al Gaslini di Genova. Ha passato i suoi ultimi giorni in un hospice, serena. Almeno se n’è andata senza urlare di dolore».
Alessandro Fulloni per il “Corriere della Sera” il 30 agosto 2020. Lorenza Famularo aveva 22 anni e non si sa per quale motivo sia morta all' ospedale di Lipari la notte del 23 agosto. Nei giorni precedenti era stata visitata quattro volte dalla Guardia medica e in ospedale perché aveva avvertito delle fitte, prima al collo e poi all' addome. «Qualcuno aveva parlato di cervicale, altri di una contrattura muscolare» racconta con un filo di voce il suo compagno, Antonio Marino, imprenditore trentenne. Fatto sta che la sera del 22, «uscendo da casa mia a piedi poco prima della mezzanotte per raggiungere la sua abitazione, ha avuto un mancamento. Ma ha fatto in tempo a inviarmi un sms, "vieni ad aiutarmi". Sono corso, era a terra, a neanche cinquanta metri. Ho chiamato l' ambulanza da cui poi, una volta al pronto soccorso, è uscita urlando per i forti dolori all' addome. Dopo non l' ho più sentita e un paio d' ore più tardi i medici ci hanno detto, anche alla mamma intanto sopraggiunta, che era gravissima e che hanno fatto di tutto per rianimarla...». Ciò che è capitato a Lorenza - impiegata in un hotel, entusiasta attrice in una piccola compagnia teatrale - ha scatenato la rabbia della gente di Lipari. Venerdì circa duemila persone, su circa 13 mila residenti, si sono radunate al porto di Sottomonastero bloccando la partenza degli aliscafi. Sul molo un agguerrito presidio: ci resterà sino all' arrivo, forse domani, dell' assessore alla Salute Ruggero Razza inviato dal governatore Musumeci che parla di «grido d' allarme dei cittadini da ascoltare». Chissà se basterà. Con «tagli e servizi ridotti» tutti sull' isola lamentano una sanità al collasso, soprattutto d' estate, quando Lipari è presa d' assalto dai turisti «toccando punte di 100 mila persone» spiega il compagno di Lorenza che guida la protesta. Si mobilita anche il sindaco Marco Giorgianni: «È chiaro che qui non si manifesta solo per la morte di una ragazza su cui dovrà fare luce la magistratura, ma anche per le condizioni della sanità alle Eolie». Già aperte tre inchieste: oltre alla Procura di Barcellona Pozzo di Gotto, indagano il ministero della Salute e la Asl di Messina che ha sospeso l' infermiera che alle 23 del 14 agosto aveva «indirizzato la paziente presso la Guardia medica, senza attenersi alle procedure sanitarie previste». Neanche mezzora dopo la morte di Lorenza, il suo fidanzato ha accompagnato la madre - Angela Giardina, 51 anni - dai carabinieri per la denuncia. Sua figlia le aveva raccontato che il 14 - dopo aver accusato al lavoro un primo malore «al collo e alla spalla» - la Guardia medica le aveva fatto una puntura di antidolorifico «ma non visitandola a dovere». Il giorno dopo, senza miglioramenti, le avevano fatto un' iniezione di «Muscoril» parlando di «stato ansioso». Arriviamo al 18 e un medico in ospedale diagnostica «un' infiammazione muscolare» dovuta alla postura sul lavoro, magari favorita «da un colpo di fresco dell' aria condizionata». Al che Lorenza ribatte che nel «suo ufficio non c' era aria condizionata». Prima di congedarla, il dottore le prescrive una compressa per favorire la decontrattura muscolare e poi alla madre - che chiede una radiografia - replica che «non è il caso di sottoporre la ragazza a dei raggi nocivi» con i quali «non si sarebbero visti problemi a livello muscolare». Dato che all' ospedale di Lipari il cardiologo in questi giorni non c' è, Lorenza si rivolge - siamo al 22 - a uno specialista casualmente cliente dell' albergo dove lavora: il dottore esclude problemi al cuore e se non altro consiglia una radiografia all' addome. Ma poche ore dopo la situazione precipita. A chiarire le cause della morte sarà l' autopsia eseguita il 25. Due giorni dopo a Lipari è esplosa la protesta. Prima è stato occupato l' ospedale, quindi il blocco all' imbarco degli aliscafi. In prima fila il fidanzato ma non c' era mamma Angela distrutta dal dolore: «Lorenza aveva tanti sogni ed era troppo giovane per morire».
Lipari, i messaggi audio di Lorenza prima di morire: "Più tempo passa peggio è". Pubblicato mercoledì, 02 settembre 2020 da La Repubblica.it. È un filo di voce quello che Lorenza registrava in una nota Whatsapp, pochi giorni prima della morte: «Più tempo passa peggio è». Gli ultimi messaggi audio della ragazza deceduta a Lipari il 23 agosto non sembrano quelli di una ventiduenne: è affannata, i dolori la tormentano da giorni. «Respiro male», diceva. È durato undici giorni il calvario di Lorenza Famularo, receptionist di un hotel della più grande isola delle Eolie. Una settimana e mezzo in cui la giovane si è recata per due volte alla guardia medica e per altre due volte in ospedale, venendo visitata da quattro dottori. «Ho preso una pillola, mi sto coricando di schiena che ieri non potevo farlo. Ho dolore sulla spalla, come se avessi degli aghi», diceva in un altro audio inviato ai parenti. C’è chi le aveva diagnosticato un problema muscolare legato alla postura, chi aveva individuato nello stress la causa dei dolori. Le avevano prescritto antibiotici, antifiammatori e lavaggi nasali. Stando ai racconti dei familiari, formalizzati in una denuncia ai carabinieri, soltanto l’ultimo medico che l’ha visitata il 22 agosto, un cardiologo, le ha consigliato una radiografia. Ma non c’è stato tempo, è morta poche ore dopo. Ora, l’autopsia dice che quell’esame, se effettuato in tempo, le avrebbe salvato la vita: i medici legali dicono che la giovane sarebbe stata stroncata da un’embolia polmonare. Sul calvario di Lorenza indagano la procura di Barcellona Pozzo di Gotto, gli ispettori della Regione e quelli del ministero della Salute. La morte della ragazza ha infiammato Lipari. Sit-in, ospedale occupato, aliscafi bloccati per un pomeriggio. «Vogliamo una sanità decente. Abbiamo la metà dei medici e degli infermieri necessari», urlano i cittadini che ieri hanno contestato l’assessore regionale alla Salute Ruggero Razza, arrivato nell’isola per ascoltare i parenti della vittima e il sindaco Marco Giorgianni. «Sono qui per migliorare la situazione all’ospedale di Lipari», assicura il componente della giunta Musumeci. Ma il clima nell’Isola resta teso: il movimento nato dopo la morte della ragazza, capeggiato dal fidanzato di Lorenza, ha indetto uno sciopero generale per oggi.
L'autopsia su Lorenza Famularo smentisce le diagnosi del pronto soccorso di Lipari. Pubblicato martedì, 01 settembre 2020 da Fabrizio Bertè su La Repubblica.it L'assessore Razza a Lipari dopo la morte di Lorenza: "Potenziare l'ospedale". La morte di Lorenza Famularo, la ventiduenne deceduta lo scorso 23 agosto all'ospedale di Lipari dopo che da nove giorni accusava dolori a schiena e torace, potrebbe essere stata causata da una embolia polmonare massiva. E' una delle ipotesi emerse dai primi accertamenti medico legali disposti dalla Procura di Barcellona Pozzo di Gotto come anticipato domenica da Repubblica che dovrà essere riscontrata da successive analisi istologiche, che richiedono ancora del tempo. Se confermata sarebbe una patologia diversa da quella diagnosticata nelle due visite nel pronto soccorso dell'ospedale di Lipari alla giovane che aveva forti dolori all'addome e alla spalla. I medici le hanno prescritto degli antidolorifici ritenendo che la sofferenza fosse di natura muscolare o scheletrica, ma la 22enne si è aggravata ed è deceduta. E dopo la denuncia ai carabinieri da parte dei genitori Giovanni Famularo e Angela Giardina è partita un'inchiesta da parte della procura di Barcellona Pozzo di Gotto. A confermalo è stato il procuratore capo Emanuele Crescenti, che ha delegato Rita Barbieri, sostituto procuratore, a occuparsi dell'indagine. Anche l'ASP di Messina ha avviato un'indagine con una commissione interna, sospendendo un infermiere dell'ospedale di Lipari, e il servizio “ispezioni e vigilanza” dell'assessorato regionale alla salute ha aperto un fascicolo ispettivo, chiedendo entro 10 giorni una relazione sull'assistenza prestata alla giovane dal personale sanitario. L'assessore regionale alla sanità Ruggero Razza è atteso a Lipari entro le prossime 24 ore. Attesa domani anche la commissione d'inchiesta ministeriale inviata a Lipari dal ministro della salute Roberto Speranza. Gli isolani chiedono a gran voce di salvare e potenziare l'ospedale di Lipari. Ruggero Razza è atteso a Lipari entro le prossime 24 ore. In un primo momento il suo arrivo era previsto mercoledì pomeriggio, ma a sorpresa l'assessore regionale alla sanità potrebbe “sbarcare” alle Isole Eolie già nella giornata di oggi, dopo che i cittadini eoliani avevano chiesto a gran voce la sua presenza in seguito alla morte di Lorenza Famularo, la ventiduenne tragicamente scomparsa la notte tra domenica e lunedì della scorsa settimana. Le motivazioni sono ormai note: gli isolani chiedono a gran voce di salvare e potenziare l'ospedale di Lipari. Attesa mercoledì anche la commissione d'inchiesta ministeriale inviata a Lipari dal ministro della salute Roberto Speranza. “Mercoledì verrà a Lipari la commissione d'inchiesta ministeriale, e proprio ieri sera ho ricevuto l'invito da parte della commissione ai servizi sanitari dell'ARS, formalmente convocata all'ospedale di Lipari sempre mercoledì”. Ad annunciarlo è il sindaco di Lipari, Marco Giorgianni: “Ci saranno anche i vertici dell'ASP, con il direttore generale Paolo La Paglia, e forse l'assessore regionale alla sanità Ruggero Razza. All'incontro parteciperanno, oltre al sottoscritto, anche i 3 sindaci di Salina e una delegazione (5 persone, ndc) del comitato che ha organizzato la manifestazione di protesta. Il nostro obiettivo è ormai chiaro e vogliamo risposte concrete. Vogliamo che l'ospedale di Lipari venga riempito delle professionalità necessarie affinché funzioni adeguatamente. La posizione dell'amministrazione comunale, pur con un ruolo diverso, è la stessa del comitato che ha redatto il “contratto d'onore con il popolo eoliano”, e anche i 3 sindaci di Salina sono sulla nostra stessa lunghezza d'onda. Siamo obbligati a rappresentare questo enorme disagio e ci schieriamo al fianco degli isolani che hanno manifestato con grande correttezza e civiltà. La commissione non si terrà al comune, bensì all'ospedale, e lo trovo più giusto e più significativo dopo la pacifica protesta messa in atto dai cittadini”. Intanto il comitato “#IoSonoLorenza”, affiancato dai comitati “Salviamo l'ospedale di Lipari”, “L'ospedale di Lipari non si tocca” e “Voglio nascere a Lipari”, ha convocato proprio questo pomeriggio, alle ore 17, i 4 sindaci delle Isole Eolie per sottoporli al “contratto d'onore con il popolo eoliano”, redatto proprio dagli isolani e dai vari comitati per chiedere alle istituzioni, rappresentate dal sindaco di Lipari Marco Giorgianni, dall'assessore regionale alla sanità Ruggero Razza, dal direttore generale dell'ASP 5 Paolo La Paglia e dal presidente della regione siciliana Nello Musumeci, di rispettare la pianta organica dell'ospedale di Lipari, integrando le attuali carenze di organico e integrando esclusivamente per il periodo estivo una seconda unità del 118, chiedendo di potenziare adeguatamente la struttura ospedaliera di Lipari. “Sollecitiamo sia la Regione che lo Stato - affermano i cittadini eoliani - la politica questa volta è stata scavalcata dal popolo ed è stata la dimostrazione che quando gli isolani vogliono sanno essere coesi e affiatati. Vogliamo una struttura ospedaliera degna di questo nome, per la salute sia degli isolani che dei turisti. Anche “Federalberghi Isole Eolie”, con in testa il presidente Christian Del Bono, è al nostro fianco. E ringraziamo di cuore tutti coloro che si sono affiancati al comitato “#IoSonoLorenza”, bisogna vincere questa battaglia. Attendiamo adesso risposte dalle istituzioni, altrimenti tutte e 7 le Isole Eolie si mobiliteranno”. “La famiglia Famularo non ha voluto cercare un colpevole, ma chiede semplicemente che non accada mai più ciò che è accaduto a Lorenza e che l'ospedale di Lipari funzioni. Già lo scorso novembre si era auspicato un accorpamento dei reparti che sarebbe stata una pietra tombale per il nostro ospedale, con turni impensabili da parte del personale medico”. A parlare è Paolo Arena, membro del comitato “L'ospedale di Lipari non si tocca” e presidente del “Magazzino di Mutuo Soccorso Eoliano”, il primo circolo ARCI nato alle Isole Eolie, in prima linea in questa protesta assieme ad Anna Spinella. “È risaputo che l'ospedale di Lipari ha molte carenze - è ciò che ci dice il dottor Salvatore De Gregorio, liparoto di nascita, ostetrico per oltre 40 anni all'ospedale di Lipari e vice presidente nazionale dell'associazione sanitaria piccole isole, nata nel 2002 - Da anni il personale è ridotto all'osso. Abbiamo una camera iperbarica nuovissima e strumentazioni di ultima generazione, c'è l'emodialisi perfettamente funzionante, la radiologia, una tac, una risonanza magnetica parziale, anche se abbiamo richiesto già da anni la risonanza magnetica total body, e un laboratorio di analisi funzionante. Noi chiediamo a gran voce che la pianta organica venga intanto rispettata, e poi rimodulata, poiché anche al completo sarebbe comunque inadeguata. Ormai da anni sono stati chiusi persino i punti di nascita e i reparti di ostetrica, non si può fare neanche una morfologica, e nessuna donna può partorire qui se non con un minimo di 7 centimetri di dilatazione. Alcune donne coraggiose, pur di partorire nella loro terra, hanno persino atteso i 7 centimetri di dilatazione, evitando così di salire in elicottero. Ed è accaduto ciò proprio una settimana fa qui a Lipari. Al pronto soccorso sono previsti 7 medici, e di fatto solo in 3 sono in servizio, in medicina e cardiologia sono previsti 4 medici e 2 cardiologi, ma sono ufficialmente in servizio 3 medici e un cardiologo, che tra l'altro svolge servizio dalle 8 alle 14, festivi esclusi. In anestesia sono previsti 5 rianimatori, attualmente ce ne sono 3 e uno andrà via a breve in quanto vincitore di concorso. E per ovvi motivi non riescono a garantire il servizio H24. Sono previsti 65 infermieri, ma risultano in servizio solamente in 34, e al ticket sarebbero necessarie 3 persone e solo una è in servizio. Inoltre, esiste soltanto una postazione del 118”. “Non siamo qui per incriminare nessuno, non vogliamo accusare nessuno, e non vogliamo farci giustizia - afferma Daniele Corrieri, amico della famiglia Famularo e membro del comitato “#IoSonoLorenza” - A questo ci penserà la magistratura. Vogliamo solo che l'ospedale di Lipari funzioni. Chiediamo a tutti gli isolani di starci vicino, da Panarea a Stromboli, passando per Salina, Vulcano, Alicudi e Filicudi. Deve essere una battaglia comune, perché l'ospedale di Lipari è l'ospedale delle Isole Eolie e di tutti i turisti che vengono qui”.
Torino, aspetta una visita per 226 giorni ma poi il medico non c'è: "Torni l'anno prossimo". Pubblicato sabato, 25 luglio 2020 da Diego Longhin su La Repubblica.it La grottesca vicenda di una donna che attendeva un controllo oculistico. Quando arriva in ambulatorio due dottoresse si offrono di sostituire il collega, ma un coordinatore si oppone: "Non si può, se vuole faccia reclamo". Ha aspettato 226 giorni una visita oculistica per poi essere rispedita a casa dopo aver aspettato il dottore per più di due ore. E, oltre a non essere riuscita a vedere il medico, l'Asl Città di Torino, ambulatorio di via San Secondo, non è riuscita a fissarle nemmeno un nuovo appuntamento. "Per l'oculistica non c'è un posto libero almeno fino al prossimo anno", le hanno spiegato gli impiegati e un coordinatore dell'Asl nemmeno senza troppi imbarazzi. Però non l'hanno lasciata andare a casa senza nulla: le hanno messo nelle mani un bel foglio con cui fare reclamo. Rispettando così forse il buon mansionario dell'impiegato pubblico che, quasi come in un film di Fantozzi, quando non sa cosa fare consiglia il reclamo o indica lo sportello dei ricorsi. Peccato che questa sia realtà e non una tragicommedia. Teresa Condoleo esiste, è una persona in carne ed ossa, che ha 69 anni, ha subito un intervento agli occhi, ha difficoltà a muoversi e ha aspettato 226 giorni una visita oculistica. "Abbiamo anche telefonato in ambulatorio - racconta il marito Antonio Mesiano, che di anni ne ha 71 - per avere informazioni sulla visita visto i problemi legati al Covid: tutto confermato, nessun rinvio. Mia moglie ha subito un intervento al ginocchio, per cui si muove male, non volevo che uscisse inutilmente vista la difficoltà a camminare". L'appuntamento è fissato per il 22 luglio alle 15.45. Mercoledì scorso. La coppia si presenta in via San Secondo 29, misurata la febbre e compilata la modulistica anti-Covid, si accomodano in sala d'attesa. "Tutto a posto, vi chiamerà il medico", dicono gli addetti. Passa un'ora e non succede nulla. Passa un'ora e mezza e nessuno si presenta. "Arriva una persona che si presenta come un coordinatore e ci dice che il medico non c'è", racconta Mesiano. "Io mi arrabbio - dice - sottolineo che non è possibile. Ci deve essere un'alternativa". In un'altra stanza ci sono due dottoresse, probabilmente oculiste, tanto che una delle due si offre di visitare la signora. Insiste. Nulla da fare, "quello che si è presentato come coordinatore si oppone - racconta Mesiano - mi dice che devo prendere un nuovo appuntamento, non può funzionare così". Meglio forse rispettare il mansionario che risolvere il problema di una paziente malferma e di una certa età. "Nemmeno in Argentina mi è mai successa una cosa del genere, i servizi funzionano meglio", è il commento amaro di Mesiano. La voce nasconde un lieve accento spagnolo. La coppia è italiana, ma emigrata per molti anni in Argentina, dove Mesiano ha aperto una ditta di impiantistica. Poi tra crisi e instabilità, agli inizi degli anni 2000 la coppia è tornata in Italia per dare un futuro ai figli nel Paese d'origine. "Non sono riusciti a darci nessun appuntamento - racconta Antonio - È incredibile. Mi hanno dato solo un foglio con cui fare reclamo. Non è possibile". I due il giorno dopo si rivolgono agli uffici della Federconsumatori per capire cosa fare. "Ero troppo arrabbiato - spiega Mesiano - Non è giusto, non solo per noi, ma per chiunque. Aspetti 226 giorni una visita e poi non hai il servizio". Anche secondo la Federconsumatori la storia ha dell'incredibile. "Abbiamo presentato reclamo, abbiamo provato anche a sentire l'Urp dell'Asl Città di Torino, ma non si sono ancora fatti vivi", dice il presidente di Federconsumatori Piemonte, Giovanni Prezioso. "È incredibile che l'Asl non abbia garantito il servizio nonostante la presenza di medici che si sono offerti di visitare la signora - dice Prezioso - Le regole prevedono che se la visita non viene garantita in tempi congrui, l'Asl debba fornire una visita di tipo privatistico intramoenia facendo pagare al paziente solo il ticket. Chiederemo che la signora venga visitata al più presto. E chiederemo anche i danni all'Asl rispetto al disservizio".
Sorpresa: 6 italiani su 10 contenti del servizio sanitario. Il Dubbio il 16 giugno 2020. Il nostro Servizio Sanitario Nazionale si caratterizza, rispetto ai sistemi degli altri paesi industrializzati si basa su tre principi fondamentali: universalità, uguaglianza ed equità. In base ad un’indagine INAPP il Servizio Sanitario Nazionale è giudicato più che positivamente da 6 italiani su 10, ma per metterlo in sicurezza, dopo l’esplosione del Covid-19, bisogna rilanciare i servizi territoriali, vero anello debole di questi mesi e perno delle cure primarie. Per far questo sia con il Cura Italia che con il decreto Rilancio il governo ha messo in campo risorse che puntano anche al riequilibrio tra l’offerta ospedaliera (1.4 miliardi di euro) e i servizi territoriali (1.2 miliardi di euro) nei diversi sistemi locali della sanità italiana. È quanto emerge dallo studio “Il sistema sanitario di fronte all’emergenza: risorse, opinioni e livelli essenziali” dell’INAPP, l’Istituto Nazionale per l’Analisi delle Politiche Pubbliche. In particolare nello studio si mette in evidenza come il nostro Servizio Sanitario Nazionale si caratterizza, rispetto ai sistemi degli altri paesi industrializzati, per due aspetti: i tre principi fondamentali su cui si basa (universalità, uguaglianza ed equità); l’organizzazione (in particolare la governance multilivello e l’integrazione fra l’assistenza sanitaria e quella sociale). Dai dati INAPP-Plus emerge che 6 cittadini su 10 giudicano positivamente la sanità di base e quella di emergenza. Tuttavia questo è il valore medio; rimangono profonde le differenze tra i territori: in Trentino alto Adige e Emilia-Romagna la valutazione positiva è di oltre 8 persone su 10, mentre in Calabria e Molise si scende a 3 persone su 10. L’epidemia del virus Covid-19 ha fatto emergere le differenti capacità dei modelli regionali in termini d’infrastrutture territoriali e di personale qualificato disponibile. In ciò hanno giocato soprattutto il mancato inserimento negli anni del personale infermieristico e il sottodimensionamento nell’offerta di posti letto, drasticamente diminuita a partire dal 2004. Si arriva, nel complesso ad una riduzione netta del 20% di posti letto ordinari, con particolare concentrazione nel Centro Italia (-30%) e nel Meridione (-24%). Emerge inoltre come tra il 2011 e il 2017 la quota di lavoratori negli Enti Sanitari Locali con contratti di collaborazione o altre forme atipiche sia cresciuta del 78% e il lavoro temporaneo del 23,7%. Inoltre, in generale, la riduzione di risorse umane ha riportato il numero complessivo di dipendenti del SSN in servizio nel 2017 (658.700 unità) ad un livello inferiore a quello del 1997 (675.800 unità). Le riduzioni degli ultimi anni hanno riguardato, e questo è molto significativo, soprattutto i medici (-6% tra il 2010 e il 2017) e il personale infermieristico, che già risulta notevolmente inferiore alla media dell’UE (5,8 infermieri per 1.000 abitanti contro gli 8,5 dell’UE) e che in media a livello italiano è diminuito del 4% nello stesso periodo. Tutto questo è accaduto mentre è aumentata la spesa diretta delle famiglie: nel 2017 le risorse pubbliche hanno coperto il 74% della spesa complessiva (152,8 miliardi), mentre la spesa diretta delle famiglie il restante 26% (circa 39 miliardi, di cui 35,9 direttamente pagati dalle famiglie e 3,7 attraverso assicurazioni private). Rapidamente e congiunturalmente il decreto Cura Italia e più compiutamente il decreto Rilancio hanno previsto misure specifiche dedicate al settore sanitario.
La figlia muore, ma la Asl chiede 30 euro di ticket: "Una pugnalata al cuore". La rabbia dei genitori che hanno perso la figlia: "L'avevano dimessa più volte, poi è morta". Ma il pagamento forse verrà annullato: "Chiederemo scusa alla famiglia". Luca Sablone, Sabato 06/06/2020 su Il Giornale. Una storia che sembra surreale ma che in realtà di inventato non ha proprio nulla. Perdere la propria figlia e vedersi arrivare la richiesta di pagamento per le prestazioni urgenti fornite al pronto soccorso è una circostanza a cui non tutti potrebbero credere. Tuttavia la testimonianza diretta è arrivata da Yves Chapellu, che ha vissuto sulla propria pelle la drammatica esperienza: "Quella lettera è stata come una pugnalata al cuore. La mia bambina di un anno e mezzo, dopo 24 ore da quell’accesso al pronto soccorso pediatrico di Aosta, giudicato da codice bianco, è entrata in coma. Poi è morta". E ora, come se non bastasse, c'è anche l'ombra del ticket. A raccontare la vicenda è il padre di Valentina, una bimba di 17 mesi deceduta lo scorso 17 febbraio all'ospedale Regina Margherita di Torino. La piccola era stata ricoverata in condizioni che venivano definite ormai disperate. Dal 20 gennaio all'11 febbraio è stata al pronto soccorso pediatrico di Aosta ben 4 volte. L'epilogo è stato sempre lo stesso: visitata e poi dimessa. Secondo i medici si trattava di semplici sintomi influenzali. Siccome è stata considerata una visita non urgente, da codice bianco, l'Azienda Usl valdostana mediante una lettera di sollecito ha chiesto alla famiglia di pagare il ticket per l'accesso alla struttura nella giornata di martedì 11 febbraio. È il caso di dirlo: oltre al danno la beffa. Ma tale esito era nell'aria. "L’ultima volta che siamo andati in ospedale ci hanno fatti accedere come codice bianco, quindi soggetti al pagamento di un ticket. Speravo che operassero con un po’ di coscienza. È stato di cattivo gusto e superficiale. Valentina dopo 24 ore è entrata in coma ed è morta", ha spiegato Yves.
Pagamento annullato? Tutto ha avuto inizio il 16 gennaio, quando Valentina viene portata al pronto soccorso dato che non sta bene già da diversi giorni. Dopo essere stata visitata viene rimandata a casa, dicendo che le si deve semplicemente somministrare la tachipirina. Ma la situazione non migliora affatto e perciò per altre tre volte viene chiesto aiuto ai medici. Le risposte comunque non cambiano: andare a casa e prendere la tachipirana. E l'11 aggiungono il consiglio di fare l'aerosol. Il giorno successivo le condizioni peggiorano: la piccola va in arresto respiratorio. Dritti nuovamente all'ospedale, dove la vogliono intubare e perciò viene sedata. Il padre e la madre escono dalla stanza in cui la stavano visitando, fiduciosi dell'operato dei medici. L'esito però è tragico: "Valentina non si è più ripresa. È stata portata all’ospedale Parini di Aosta per essere stabilizzata e alle 6 del mattino trasferita all’ospedale Regina Margherita di Torino. Dove è morta. Cinque giorni interminabili, la nostra vita da allora è finita". Ora c'è un'inchiesta in corso: la procura ha indagato 4 pediatri per omicidio colposo. I genitori non puntano il dito contro nessuno, hanno acconsentito alla donazione degli organi e chiedono soltanto giustizia. Giustamente si interrogano sul motivo per cui nessuno abbia fatto ulteriori accertamenti: "Sembrava sempre di dare fastidio. Dall’Azienda sanitaria aostana a parte una lettera di sollecito a un pagamento non abbiamo ricevuto altro". Almeno alla beffa del pagamento del ticket si potrebbe rimediare. Come riportato da La Stampa, Angelo Michele Pescarmona ha affermato che quella lettera "è stata semplicemente una richiesta ordinaria". Si trattava di un codice bianco, "quindi chi ha fatto il sollecito per il pagamento del ticket ovviamente non era a conoscenza di ciò che è successo dopo". Tuttavia il commissario dell’Usl della Valle d'Aosta ha fatto sapere che la richiesta - seppure giusta "dal punto di vista amministrativo" - risulta essere "inopportuna". "Adesso la annulleremo e chiederemo scusa alla famiglia", ha concluso.
Gemelli, paziente sparito trovato mummificato dopo 6 mesi: scoperto da operai. Pubblicato giovedì, 27 febbraio 2020 su Corriere.it da Rinaldo Frignani. Sarà l’autopsia a stabilire le cause della morte di un paziente romeno di 45 anni trovato senza vita nella mattinata di mercoledì in un condotto di areazione di uno dei palazzi del Policlinico Gemelli. Il corpo era mummificato, tanto che l’uomo è stato riconosciuto dal braccialetto da paziente che aveva ancora addosso, e si ritiene che la morte risalga addirittura all’agosto scorso, quando il senza fissa dimora assistito dalla Caritas che lo aveva accompagnato in ospedale per problemi al fegato, era scomparso. Era infatti il 13 agosto quando, dopo tre giorni di ricovero, il paziente non è stato più trovato dal personale sanitario che dopo averlo cercato dappertutto ha archiviato la sua posizione come dimissioni volontarie. In realtà il quarantacinquenne era precipitato in un vano all’ottavo piano dove potrebbe essere caduto accidentalmente nel tentativo di uscire dal reparto per andare via dall’ospedale passando da un’uscita di sicurezza. È questa l’ipotesi principale che viene fatta, anche perché nei giorni precedenti l’uomo aveva manifestato più volte l’intenzione di sospendere le cure e tornare in strada. Gli accertamenti autoptici dovranno ora stabilire se il clochard sia caduto, come sembra, da solo morendo dopo un volo di alcuni metri senza che nessuno se ne sia accorto per mesi. A dare l’allarme sono stati infatti mercoledì alcuni operai che stavano svolgendo dei lavori di manutenzione nella palazzina P. «L’uomo di 45 anni, senza fissa dimora e con una storia di epatocarcinoma su cirrosi ascitica, Hant Valer - hanno spiegato in una nota dal Gemelli nel pomeriggio di mercoledì - era stato ricoverato in Policlinico nel mese di agosto, accompagnato da un operatore volontario della Caritas che lo aveva visto più affaticato del solito e con l’aggiunta di un peggioramento della vista. Accettato in Pronto Soccorso, stabilizzato era stato destinato al reparto di Medicina Interna e Gastroenterologia per la prosecuzione delle cure e nei tre giorni seguenti era stato sottoposto a terapia idratante e a supporto nutrizionale, con iniziale positivo andamento dei valori di laboratorio. Il paziente, autonomo nello svolgimento delle comuni attività, ricevute le cure proprie dell’acuzie e percepitone il beneficio, in un colloquio avuto nel pomeriggio del 13 agosto 2019 alla presenza dell’operatore della Caritas, ha espresso ai curanti il desiderio di interrompere l’iter terapeutico. Al termine di questo colloquio, il paziente è sembrato convincersi dell’opportunità di proseguire il ricovero, ma nella notte immediatamente seguente, attorno alle 2, si è allontanato dal reparto volontariamente. Nonostante il personale sanitario si sia subito preoccupato di rintracciarlo anche con l’ausilio del servizio di vigilanza interno ed esterno, ogni tentativo di perlustrazione di scale, reparti, corridoi e ambienti esterni del Policlinico si è purtroppo rivelato vano. Ci si è quindi convinti dell’avvenuta dimissione volontaria e nella tarda mattinata del 14 agosto 2019 il ricovero è stato chiuso per “dimissione volontaria”. E’ possibile ritenere che l’uomo si sia effettivamente allontanato dal reparto adoperando l’uscita di sicurezza, introducendosi nel vano e rovinandovi all’interno. E’ peraltro possibile immaginare che l’accidentalità dell’episodio si sia determinata in tempi estremamente concentrati, sia per effetto delle problematiche organiche di cui il paziente era portatore (epatocarcinoma su cirrosi ascitica con piastrinopenia), sia per il verosimile sovrapporsi di lesività traumatica. Si tratta di un episodio che addolora un’istituzione che da sempre è vicina alle condizioni di fragilità e che ancor più recentemente ha voluto esprimere questa vocazione impegnandosi nella realizzazione di una struttura di ristoro per persone che vivono l’esperienza della marginalità. Nonostante si sia certi di aver fatto tutto il possibile per questa persona, resta il rammarico per un epilogo tristemente inaspettato».
Michela Allegri e Marco De Risi per il Messaggero il 27 febbraio 2020. Un cadavere quasi mummificato, trovato in un'intercapedine del policlinico Gemelli. All'interno di un vano di collegamento per condotte di areazione situato all'ottavo piano, per l'esattezza. Una scoperta choc: si tratta di un paziente di 45 anni, romeno, che in agosto era stato ricoverato per cirrosi epatica e che era sparito nel nulla. La procura - del caso si occupa il pm Stefano Luciani - oggi disporrà l'autopsia ipotizzando, per il momento, l'omicidio colposo. La vittima è un senza fissa dimora, Hant Valer. Il suo ultimo accesso al Gemelli risale al 10 agosto scorso. Hant era stato accompagnato da un volontario della Caritas. Negli ultimi giorni, alla malattia legata all'alcolismo si erano aggiunti gravi problemi alla vista. Dopo l'accettazione al Pronto Soccorso, il romeno era stato trasferito nel reparto di Medicina Interna e Gastroenterologia, e nei tre giorni seguenti era stato sottoposto a terapia idratante e a supporto nutrizionale. Il paziente, il 13 agosto, aveva chiesto di interrompere le cure. Dopo un colloquio con i medici, però, sembrava deciso a proseguire il ricovero. Ma verso le due di notte si sarebbe allontanato dal reparto. Il personale sanitario - raccontano dal Gemelli - avrebbe tentato di rintracciarlo, perlustrando scale, stanze, corridoi e allertando anche il servizio di vigilanza. Non trovandolo, i medici hanno chiuso il ricovero per «dimissione volontaria». Rintracciarlo era impossibile: Hant non aveva parenti in Italia, nessuno - a parte i volontari della Caritas - lo aveva mai accompagnato in ospedale. E nessuno, dopo la sua scomparsa, si è informato sul suo conto presso il nosocomio. Invece, Hant sarebbe morto proprio in quelle ore, durante l'ultimo ricovero.
LE IPOTESI. Ora saranno gli inquirenti a stabilire se per il decesso ci siano responsabilità, o se si sia trattato di un tragico incidente. Una delle ipotesi è che lo straniero si sia allontanato dal reparto usando l'uscita di sicurezza, introducendosi nel vano e cadendo: avrebbe fatto un volo di circa 6 metri, che lo avrebbe ucciso praticamente sul colpo. Ma la polizia, per il momento, non esclude nessuna ipotesi, nemmeno quella dell'omicidio volontario. Una ricostruzione che trasformerebbe questa storia in una sceneggiatura degna da film di Hitchcock, il maestro del thriller.
L'AUTOPSIA. Per avere certezze, comunque, sarà necessario attendere i risultati dell'autopsia, che potranno chiarire le dinamiche del decesso. «Si tratta di un episodio che addolora un'Istituzione che da sempre è vicina alle condizioni di fragilità e che ancor più recentemente ha voluto esprimere questa vocazione impegnandosi nella realizzazione di una struttura di ristoro per persone che vivono l'esperienza della marginalità - commentano dal policlinico - Nonostante si sia certi di aver fatto tutto il possibile per questa persona, resta il rammarico per un epilogo tristemente inaspettato». Il corpo senza vita - e in avanzato stato di decomposizione - è stato trovato ieri mattina alle 9. Alcuni operai stavano facendo lavori di manutenzione straordinaria all'ottavo piano di uno dei palazzi dell'ospedale, la struttura P. Sono stati proprio loro ad accorgersi il cadavere. Una scena da film horror. Gli operai, nauseati, hanno dovuto indossare le mascherine per proteggersi dall'odore insopportabile che arrivava dall'intercapedine. Poi, quando hanno ispezionato il vano, hanno fatto la scoperta choc: incastrato all'interno, in mezzo ai fili elettrici e alle canne fumarie, c'era un corpo mummificato. Terrorizzati, hanno dato l'allarme e l'area è stata isolata.
IL GIALLO. Sul posto è arrivata subito la polizia, che ha effettuato i primi rilievi e ha comunicato la notizia di reato in procura. Inizialmente, gli investigatori hanno pensato che il corpo senza vita potesse essere stato nascosto da qualcuno, intenzionalmente, dentro l'intercapedine, ampia pochi metri. Se così fosse, la procura dovrebbe procedere anche per occultamento di cadavere. Un'ipotesi che, almeno per ora, non ha trovato conferme. Ma sarà il medico legale a dare risposte più precise. «Difficile che l'occultamento di un cadavere non sia legato ad una morte violenta», riflette a voce alta un investigatore della polizia, tra i primi ad arrivare sul posto. E che sottolinea come, in caso di delitto premeditato, si tratti di un'operazione studiata nei dettagli: un nascondiglio perfetto, visto che per mesi nessuno si è accorto di nulla, neanche del cattivo odore del corpo in decomposizione.
Valeria e quella dose killer di chemio: morire per un errore dei medici. Le Iene News il 15 febbraio 2020. Valeria aveva 34 anni e un figlio di pochi mesi. Una dose sbagliata di farmaco ne ha causato la morte e adesso i medici sono a processo: l’incubo della prescrizione si avvicina. “La cosa che fa più male è vedere questi signori non assumersi la propria responsabilità”, dice il marito a Ismaele La Vardera. “Si stava distruggendo, si stava bruciando da dentro mia moglie”. “Scappai da là dentro, comincia a urlare e dire ‘me l’hanno ammazzata’”. “Questi signori, quando si guardano allo specchio la mattina, dovrebbero vedere il volto di mia nipote”. Sono queste le parole angoscianti degli amici e familiari di Valeria, una donna di 34 anni, madre un bimbo di pochi mesi, morta il 29 dicembre del 2011. Valeria se n’è andata dopo aver ricevuto una dose di farmaco 10 volte superiore a quella che avrebbe dovuto ricevere. Uno zero in più scritto su un foglio di carta. “Un errore così evidente, una cosa così madornale, ma come fanno?” si chiede disperata la zia di Valeria. La storia di Valeria è questa: otto anni fa le venne diagnosticato un tumore alla spalla, che aveva però buona possibilità di guarigione. “Doveva fare solo poche sedute di chemio”, ricorda la madre. E sembra che quelle poche sedute avessero sortito ottimi risultati. All’ultima somministrazione, però, qualcosa va storto: una dose di farmaco da 9 milligrammi è stata riportata come 90 milligrammi. “Quella dose avrebbe ucciso un pachiderma di 300 kg: mia figlia pesava 54 kg”, ci dice la madre. Secondo il racconto dei parenti, una infermiera si sarebbe resa conto dell’errore perché non disponeva di tutta quella quantità del farmaco e si sarebbe messa in contatto con una dottoressa – adesso a processo – che avrebbe però confermato la dose da somministrare. Sempre stando al racconto dei familiari, appena inizia la somministrazione del farmaco Valeria si sarebbe accorta che qualcosa non andava: un bruciore intenso al braccio, tanto che avrebbe chiesto aiuto all’infermiera. I medici però nemmeno qui avrebbero compreso che c’era qualcosa che non stava funzionando a dovere. Valeria riceve così tutta la dose e lascia l’ospedale, per sentirsi male poco dopo. I familiari subito pensano ai normali effetti collaterali della chemio, ma la situazione precipita in fretta. Valeria viene ricoverata in ospedale ma, secondo il racconto dei familiari, venne trattata per una semplice gastroenterite. La giovane peggiora e, dopo la scoperta dell’errore, viene trasferita in un altro ospedale: lì muore il 29 dicembre. “Sono stati 22 giorni di agonia”, ci dice il marito. “Nostro figlio sa che sua madre è diventata un angelo, le cose che si possono dire ai bimbi”. “Si davano la colpa l’un l’altro”, racconta ancora il marito parlando dei medici che avevano in cura la moglie e che per quanto accaduto in quei giorni sono finiti a processo. "Noi vogliamo giustizia", dice la zia. A oltre otto anni da questi tragici eventi, il processo a carico dei medici che avevano in cura Valeria rischia di finire con la prescrizione: per questa ragione la famiglia ha deciso di esporsi pubblicamente raccontando questa storia. Il nostro Ismaele La Vardera è andato a parlare con i tre medici coinvolti: per vedere quello che hanno detto, guardate il video in testa a questo articolo.
«Mio marito morì sedato come nei casi di Tso. Meglio se non avessi chiamato l’ambulanza». Pubblicato giovedì, 13 febbraio 2020 su Corriere.it da Simona Lorenzetti. «Non cerco colpevoli o vendetta, cerco la verità. Ogni giorno penso che se non avessi chiamato l’ambulanza, lui sarebbe ancora qui». Maria Sofia, 55 anni, non si dà pace. E vuole sapere perché suo marito, Giovanni Fresia di 60 anni, tre mesi fa è morto in un letto dell’ospedale di Rivoli dopo un ricovero per un banale attacco d’ansia. Giovanni, dipendente del Comune di Collegno, è in cura ai Servizi di igiene mentale. La sera del 26 ottobre ha una crisi. «È stato male dopo cena e mi ha detto di chiamare l’ambulanza — ricorda la moglie —. Sono arrivati il 118 e una pattuglia dei carabinieri, che io non avevo chiamato». Giovanni esce di casa e sale sull’ambulanza. È ancora un po’ agitato. A calmarlo ci pensa la figlia maggiore. «Non scorderò mai quei minuti — racconta Maria Sofia —. Mi sono avvicinata all’ambulanza e ho visto mio marito per terra. Ho chiesto spiegazioni, mi hanno risposto che lo avevano sedato e che potevo raggiungerli in ospedale». Ma è proprio al nosocomio di Rivoli che la situazione assume contorni che devono ancora essere chiariti. Al suo arrivo, Maria Sofia scopre che durante il trasporto il marito aveva avuto un rigurgito e che il vomito lo aveva soffocato, provocandogli un arresto cardiaco. «Per dieci minuti Giovanni è rimasto in ipossia e c’era il rischio di danni celebrali». Dodici ore dopo, è morto. Ora un’inchiesta della Procura cerca di far luce sull’episodio. Le cartelle cliniche dicono che Giovanni è stato sedato con la chetamina, un anestetico che solitamente si usa nei casi di Tso. Nei giorni scorsi sulla scrivania del pm Ciro Santoriello è arrivata la relazione del medico legale, Mario Abrate. Mentre la famiglia, assistita dallo studio legale Ambrosio & Commodo, ha nominato Roberto Testi come consulente di parte. L’ipotesi è che dietro la morte di Giovanni possa esserci un errore umano. Intanto la famiglia ha chiamato in causa l’Asl To3 e la prossima settimana si aprirà la fase di mediazione. Una vicenda che evoca il caso di Andrea Soldi, il giovane deceduto durante un Tso. Per la morte di Soldi sono stati condannati tre agenti della polizia municipale e uno psichiatra: il 14 febbraio si aprirà il processo d’appello.
È morto Steven Babbi, il malato di cancro escluso dall'assistenza. Le Iene News il 15 febbraio 2020. Lo avevamo conosciuto un paio di anni fa con Nina Palmieri: fin da bambino soffriva di una rara e grave forma di tumore. A 22 anni gli fu asportato un tumore, ma dopo sei mesi di malattia non ha più ricevuto lo stipendio dall’Inps. Erano intervenuti allora i suoi datori di lavoro, che per quell’aiuto sono stati premiati da Mattarella. È morto Stevan Babbi, il ragazzo ammalato di una gravissima forma di tumore e che dopo sei mesi di malattia era stato escluso dagli aiuti dell’Inps. Avevamo raccontato la sua storia nel servizio di Nina Palmieri, che potete rivedere qui sopra: al ragazzo, che all’epoca del racconto aveva 22 anni, è stato asportato un polmone nel marzo del 2017. Da quel momento era in malattia, con lo stipendio erogato dall'Inps. Il suo contratto, quello del settore artigiano-metalmeccanico, prevedeva però che l'ente previdenziale copra non più di sei mesi all'anno per malattia. A settembre del 2017, così, l'Inps gli ha comunicato la fine dei versamenti. A Steven non rimaneva più nulla. Rocco e Barbara, i suoi datori di lavoro, non hanno però accettato questa ingiustizia e hanno continuato a pagare, pur non essendo tenuti a farlo, lo stipendio a Steven. “Perché crediamo nel patrimonio primario della nostra azienda: i nostri ragazzi, quelli che lavorano con noi ogni giorno: vanno tutelati non solo nel bene ma anche quando purtroppo arriva il momento del male”. “Perché il bene porta bene”. Non solo, Rocco e Barbara hanno denunciato il caso postando su Facebook una foto di Steven dopo l’operazione e l’immagine è diventata virale. Hanno chiesto che vengano cambiate le regole sulla malattia, pensando ai moltissimi altri lavoratori malati, in particolare di cancro, che perdono tutto dopo 6 mesi (senza trovare imprenditori come loro). “Ci sembra di aver fatto una cosa normale”, ci hanno detto qualche mese dopo. Li avevamo risentiti qualche mese dopo, quando furono nominati Cavalieri dell'Ordine al Merito della Repubblica. L'onorificenza più alta che può ricevere un civile è stata consegnata ai due imprenditori dal presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. Adesso la battaglia di Steven è finita, ma il suo coraggio e l’amore dei suoi datori di lavoro è rimasto nel cuore di tutti noi. Ciao Steven.
Aurora Grazini morta a 16 anni: indagato un medico del pronto soccorso dell’ospedale. Pubblicato martedì, 18 febbraio 2020 su Corriere.it da Stefania Moretti. C’è un primo indagato per omicidio colposo per la morte di Aurora Grazini, la 16enne di Montefiascone trovata senza vita sabato mattina dai genitori nel suo letto dopo che il giorno prima, dopo alcuni accertamenti all’ospedale di Viterbo, era stata dimessa. Si tratta di un medico del pronto soccorso. L’iscrizione nel registro degli indagati è avvenuta al termine dell’acquisizione di documenti e testimonianze. «Nell’ambito delle attività investigative sul decesso della giovane Aurora Grazini avvenuto nella notte tra venerdì 14 e sabato 15 febbraio - spiegano procura e carabinieri - è stato notificato un avviso di garanzia a un medico dell’ospedale di Belcolle al fine di poter effettuare, con le tutele di legge, tutte gli accertamenti necessari. Nel pomeriggio si è svolto l’esame autoptico, su conferimento dell’incarico da parte del pubblico ministero titolare del fascicolo, Eliana Dolce, il cui esito potrebbe fornire ulteriori elementi all’indagine».
Aurora, il mistero si infittisce I genitori: «Vogliamo chiarezza». Pubblicato martedì, 18 febbraio 2020 su Corriere.it da Rinaldo Frignani. «Lotteremo con tutte le nostre forze per fare chiarezza sulla morte di Aurora. Prima per lei che per noi». Così la famiglia della 16enne deceduta in circostanze sempre più misteriose nella sua abitazione alle porte di Montefiascone poche ore dopo essere stata dimessa dal pronto soccorso dell’ospedale Belcolle di Viterbo, dove si era presentata accompagnata dalla madre per un forte attacco di panico e un malessere generale. Ieri i carabinieri sono tornati a casa della giovane e hanno sentito i familiari. Ascoltati anche alcuni amici della 16enne, studentessa di ragioneria all’istituto «Carlo Alberto dalla Chiesa». È emerso che la notte prima del decesso la ragazza era stata vegliata dal padre e dalla madre, e proprio a quest’ultima, all’alba, aveva chiesto di prepararle una tisana. Al suo ritorno nella camera da letto, la figlia era già priva di sensi. Sarà l’autopsia, in programma domani, a stabilire le cause della morte. Dalla ricostruzione del Belcolle - dove il ministro della Salute Roberto Speranza ha inviato gli ispettori per fare luce sulla vicenda - viene confermato lo stato d’ansia con il quale la giovane si è presentata al pronto soccorso nella giornata di venerdì dove è stata visitata dal responsabile del reparto. Ed è stato lui a scegliere per la 16enne un percorso psicologico, dopo aver sentito anche la madre che ha spiegato al medico il momento che la figlia stava vivendo. «È stato lui ad accompagnare la ragazza e la mamma all’uscita - conferma il direttore generale del Belcolle Daniela Donetti -, abbiamo avviato un audit interno per verificare tutti i passaggi». Proprio il medico ha fissato per oggi alle 10 una visita dal neuropsichiatra infantile per Aurora che non è stata sottoposta ad analisi del sangue ma ha assunto in ospedale alcune gocce di tranquillante. Una sostanza che potrebbe essere individuata nel corso degli esami tossicologici che non si esclude possano essere disposti dalla procura nell’ambito dell’autopsia. I parenti di Aurora escludono che la ragazza possa aver assunto altro nelle ore fra le dimissioni dall’ospedale - dove era entrata con un codice di bassa priorità - e il decesso a casa. L’attenzione dei carabinieri si è concentrata anche sulla relazione sentimentale da poco finita fra la 16enne e un ragazzo più grande che, secondo alcuni, «aveva uno stile di vita diverso da quello suo e della sua famiglia». Per la 16enne - descritta come una giovane solare e creativa - è stato un duro colpo, seguito peraltro da una violenta influenza intestinale che l’aveva debilitata facendole perdere peso. Era mancata da scuola per una decina di giorni, poi era tornata, ma ad abbatterla ulteriormente era stato un brutto voto rimediato pochi giorni fa in un’interrogazione. I malesseri erano diventati preoccupanti, come gli attacchi di panico, al punto che venerdì la madre ha deciso di portarla in ospedale a Viterbo. «Ho parlato con i genitori, non abbiamo potuto far altro che piangere insieme - racconta il parroco della chiesa di San Flaviano e Santa Margherita, don Luciano Trapè -, se me lo chiederanno celebrerò i funerali. Conoscevo Aurora da bambina, aveva fatto la comunione nella nostra chiesa».
Va in ospedale con forti dolori ma viene dimesso: muore d'infarto a casa. Pubblicato venerdì, 24 gennaio 2020 su Il Giornale.it da Alessandro Ferro. La vicenda accaduta poche ore fa a Giarre, comune in provincia di Catania, ha l'alone di un caso di malasanità. E', infatti, alquanto sospetta la morte di Luigi Magaraci, un 44enne di Macchia, piccola frazione del comune catanese, che dopo essersi recato ieri mattina intorno alle 11 con la moglie ed il padre all'ospedale Sant'Isidoro per aver accusato dolori lancinanti all'addome, è stato rispedito a casa dopo la somministrazione di un antidolorifico. La vittima morirà poche ore dopo a causa di un infarto.Come riporta LaSicilia.it, è adesso sotto accusa il medico della struttura che avrebbe sottovalutato quello che, alla fine, si è rivelato essere un infarto e che, purtroppo, nel giro di poche ore non ha dato scampo al 44enne giarrese.
Infarto scambiato per mal di stomaco. Secondo il racconto della moglie della vittima, Manuela Tomarchio, che immediatamente dopo il decesso del marito ha chiamato i carabinieri sporgendo formale denuncia, il medico del Presidio Territoriale d'Emergenza che era di turno avrebbe gestito il caso inquadrandolo come un banale malore gastrointestinale originato da un virus e così, dopo avere somministrato un antidolorifico, avrebbe invitato i familiari del paziente a rivolgersi al medico curante, senza neppure effettuare un elettrocardiogramma. L'uomo, rientrato quindi a casa, nel giro di un'ora si è aggravato accusando dolori ancora più acuti all'addome ed al petto perdendo i sensi. A quel punto è intervenuta l'ambulanza non medicalizzata con i sanitari che, secondo la denuncia della moglie, non hanno fatto nulla per rianimare l'uomo. Quando, poco dopo, è stata inviata una seconda ambulanza con il medico a bordo, per Luigi Magaraci non c'era più nulla da fare.
Indagini in corso. La salma del 44enne è stata portata all'obitorio del Policlinico di Catania a disposizione del medico legale della Procura che potrebbe decidere di effettuare un'ispezione cadaverica per accertare i motivi del decesso. Nel frattempo, l'azienda sanitaria che con una nota ha espresso il proprio cordoglio ai familiari della vittima, dopo aver appreso i fatti, nel pomeriggio di ieri ha inviato tre ispettori all'ospedale Sant'Isidoro di Giarre con il compito di verificare quanto accaduto. La cosa grave è che, nel 2015, il pronto soccorso del Sant'Isidoro è stato eliminato per quella che doveva essere una rifunzionalizzazione della struttura sanitaria e che, di fatto, non è stato mai ripristinato. Oltre a questa grave mancanza, nell'immediatezza del primo soccorso, non esiste nemmeno un'ambulanza con un medico a bordo come è accaduto nel caso della sfortunata vittima.Gli abitanti della città ai piedi dell'Etna invocano chiarezza ma, soprattutto, un ospedale che sia dotato di tutte le sue componenti. Questo caso segue, di poche ore, quanto accaduto a Modica, in provincia di Ragusa, dove un anziano, dopo 11 ore di attesa in ospedale, è stato dimesso e riconvocato per il giorno successivo. Morirà a casa dopo poche ore. Su questa vicenda è intervenuto il Codacons.
"È influenza", bimba di 17 mesi muore dopo 4 passaggi al pronto soccorso di Aosta. Pubblicato martedì, 18 febbraio 2020 su La Repubblica.it da Federica Cravero. Non ce l'ha fatta Valentina, la bambina valdostana di 17 mesi che era stata portata al Regina Margherita di Torino in condizioni disperate dopo quattro passaggi al pronto soccorso dell'ospedale di Aosta, per una tosse e un'influenza che non passavano. Ieri i medici dell'ospedale infantile torinese hanno diagnosticato la morte cerebrale e dopo il periodo di osservazione è stata dichiarato il decesso. I genitori hanno dato il consenso per l'espianto degli organi. La procura di Aosta, che ha aperto un'inchiesta (prima per lesioni colpose e ora per omicidio colposo) dopo la denuncia dei genitori ha indagato i quattro pediatri che l'hanno visitata in pronto soccorso. La famiglia aveva portato la prima volta la piccola in ospedale, nel presidio pediatrico Beauregard di Aosta, il 5 febbraio. Era stata riscontata un'infiammazione delle vie aeree alte, erano stati fatti degli esami del sangue e la piccola era stata dimessa per quella che sembrava una banale influenza. Il giorno dopo, però, la bambina era tornata: l'aveva visitata un'altra pediatra e, visto che il quadro clinico non era peggiorato, era stata dimessa. Il pomeriggio dell'11 febbraio ancora non era guarita, anzi sembrava stare sempre peggio e i genitori sono tornati al pronto soccorso. In effetti il quadro generale non era ottimale, la bambina aveva anche la febbre e la tosse, ma è stata dimessa con una terapia di cortisone e paracetamolo e dell'aerosol. La sera del 12, però, la situazione si è aggravata. Alle 23 la piccola è tornata in ospedale e mentre era lì, nemmeno un'ora dopo l'arrivo, il quadro clinico è precipitato. Subito è stato chiamato un rianimatore, poi la bimba è stata trasferita all'ospedale Parini e di lì in elicottero alla terapia intensiva del Regina Margherita di Torino, dove è arrivata con una grave insufficienza respiratoria e in arresto cardiaco. Nonostante sia stata in un primo tempo rianimala, le condizioni erano disperate e tutti i tentativi di salvare la piccola Valentina sono falliti. I familiari si sono rivolti alla polizia, che ha inviato la denuncia alla procura di Aosta, che ha affidato il fascicolo al pm Francesco Pizzato. Sono state sequestrate le cartelle cliniche e i quattro pediatri che si sono succeduti nelle visite sono stati iscritti nel registro degli indagati, atto dovuto e a loro tutela, poiché permette loro di assistere all'autopsia con un proprio consulente di parte e un avvocato difensore.
Bimba di 4 anni (figlia di due medici) morta di morbillo: chiesto il giudizio per sette medici. Pubblicato lunedì, 10 febbraio 2020 su Corriere.it da Giulio De Santis. Per la morte di una bimba di quattro anni, deceduta a causa del morbillo, sette medici del Gemelli rischiano il processo. La Procura ha chiesto il loro rinvio a giudizio per omicidio colposo poiché, secondo l’accusa, avrebbero dovuto eseguire tempestivamente esami mirati all’individuazione del virus del morbillo. Tanto più che era noto che la piccola paziente non era stata vaccinata. La bimba si chiamava Giulia Saraceni ed era figlia di due medici. Il padre, a sua volta, è nipote di un camice bianco di lunghissima esperienza, Vincenzo Saraceni, ordinario di Medicina alla Sapienza, due volte assessore regionale tra il 2000 e il 2005. Eppure cinque anni fa la piccola è morta a causa di una Pess (panencefalite subacuta sclerosante), una rara forma di encefalite causata appunto dal virus del morbillo. Come è stato possibile, in una famiglia di medici, morire di una malattia tenuta sotto controllo da oltre vent’anni? Per capire la catena di eventi sfociati nella tragedia bisogna ritornare al momento in cui i genitori di Giulia decidono di non vaccinarla. È il 2010. La bambina, a sei mesi, fa l’esavalente, ma al secondo richiamo sorgono delle complicazioni: nei tre mesi successivi ha sempre la febbre. Allora la madre e il padre scelgono di non vaccinarla più, dopo una lunga e tormentata discussione in famiglia durante la quale Saraceni senior li sconsiglia in tale senso. Nell’autunno del 2014 la piccola si ammala, il 18 ottobre è ricoverata al Gemelli. Da subito, secondo il consulente della Procura, si sarebbe dovuto cercare il virus, ma gli esami vengono tralasciati. Soltanto il 3 gennaio i medici (tutti difesi dall’avvocato Gaetano Scalise) cercano il virus ma ormai è tardi: Giulia muore il 7 marzo del 2015. L’iter giudiziario dell’inchiesta è stato travagliato. Il pm Attilio Pisani ha per tre volte chiesto l’archiviazione, basandosi sulle conclusioni dei suoi consulenti secondo i quali il morbillo «si è manifestato in modo atipico ed è decorso in modo silente». E comunque, per i tecnici dell’accusa, «anche l’eventuale precoce diagnosi non avrebbe consentito di evitare l’evento». Il gip però non ha concordato con la ricostruzione della Procura. E per due volte ha respinto la richiesta di archiviazione. Quando è arrivata la terza, ha imposto l’imputazione coatta: è necessario chiarire, secondo il giudice, se la ricerca tempestiva del morbillo avrebbe potuto salvare la piccola Giulia.
Bari, donna muore al Pronto Soccorso, famiglia denuncia: «Sottovalutato mal di gola». «Rifiutato due volte intervento 118». La donna, 48 anni, lamentava da giorni un forte mal di gola e si era rivolta a diversi medici che le avrebbero prescritto farmaci inefficaci. Si farà l'autopsia. La Gazzetta del Mezzogiorno il 10 Febbraio 2020. La Procura di Bari ha disposto i primi accertamenti urgenti sulla morte di una 48enne barese, Giulia Mininni, deceduta sabato sera nel pronto soccorso del Policlinico di Bari. Secondo la denuncia presentata dai suoi familiari, la donna accusava da circa una settimana un forte mal di gola che - sostengono i parenti - diversi medici avrebbero sottovalutato. Secondo il racconto dei familiari, formalizzato ieri in una denuncia presentata ai carabinieri di Bari, la donna si sarebbe rivolta nei giorni scorsi a diversi medici per una forma di mal di gola estremamente dolorosa. Si sarebbe fatta accompagnare dalla guardia medica, poi una prima volta al pronto soccorso del Policlinico, ancora dal medico curante e successivamente avrebbe chiamato il 118 in due occasioni. Tutti i medici che l’hanno visitata, sempre stando alla denuncia, avrebbero sottovalutato il problema prescrivendo terapie inefficaci. I parenti sostengono inoltre che, dopo un ulteriore aggravamento delle condizioni della donna, il 118, chiamato ancora una volta, ieri sera ha trasportato la paziente al pronto soccorso del Policlinico di Bari dove è stato dichiarato il decesso. La famiglia ha denunciato la vicenda ai carabinieri i quali, su disposizione del pm di turno Larissa Catella, hanno acquisito la documentazione sanitaria ed eseguito il sequestro della salma perché resti a disposizione dell’autorità giudiziaria. Già oggi il fascicolo sarà assegnato ad un magistrato del pool specializzato, il quale dovrà provvedere alla formale apertura dell’inchiesta, con la formulazione di una ipotesi.
LA NOTA DEL POLICLINICO - In riferimento alle notizie apparse sugli organi di stampa sul decesso di una donna avvenuto la sera di sabato 8 febbraio al pronto soccorso, l'azienda precisa che la paziente è arrivata al pronto soccorso del Policlinico di Bari in condizioni di arresto cardiorespiratorio, con manovre rianimatorie già iniziate dall'equipe 118. Nonostante la prolungata rianimazione cardiorespiratoria, eseguita con la collaborazione dei consulenti rianimatori, la paziente è rimasta in asistolia ed è stato dichiarato il decesso. Si sottolinea, inoltre, che non risultano altri accessi della stessa donna al pronto soccorso o in altri reparti nelle giornate precedenti.
118: RIFIUTATO TRASPORTO IN OSPEDALE - In due dei tre interventi del 118 al domicilio di Giulia Mininni, la 48enne barese deceduta due giorni fa nel Policlinico di Bari, sarebbe stato rifiutato il trasporto in ospedale. Stando a quanto ricostruito sulla base delle schede di ambulanza dal direttore del 118, Gaetano Dipietro, per tre volte era stato chiamato il sistema emergenza sanitaria e tutte le volte l’ambulanza era intervenuta al domicilio della paziente. I sintomi riferiti dai familiari della donna erano mal di gola e dolori all’interno della bocca a causa dei quali, sempre stando al racconto dei parenti, la signora non si alimentava da qualche giorno per difficoltà a deglutire. Dopo il primo intervento del 118, alcuni giorni prima del decesso, sarebbe stato rifiutato il trasporto in ospedale con rinvio al medico di base per le valutazioni del caso. Il secondo intervento risale a sabato scorso. Anche in quella occasione risulta un rifiuto al trasporto in ospedale sottoscritto da un familiare. Alla terza chiamata al 118, un’ora dopo, la situazione era ormai precipitata e all’arrivo dell’ambulanza la donna sarebbe stata già in arresto cardiaco. Le manovra rianimatorie, riferisce il 118, sono iniziate sul posto, poi in ambulanza nel tragitto verso il pronto soccorso del Policlinico dove sono continuate fino alla dichiarazione del decesso. Dalle schede di intervento risulta, inoltre, che in uno dei tre soccorsi la donna sarebbe stata sottoposta ad elettrocardiogramma. Sulla vicenda la famiglia ha sporto denuncia ai carabinieri e il fascicolo è ora all’attenzione della Procura di Bari che nei prossimi giorni disporrà l'autopsia.
Bari, 48enne muore dopo aver chiamato 3 volte il 118: le avevano prescritto terapia per mal di gola. Presunto caso di malasanità al Policlinico. Dopo le richieste d'intervento era stata lasciata a casa. Solo alla terza chiamata al 118, l’equipaggio l’ha trasportata in ospedale dov’è morta. Natale Cassano il 09 febbraio 2020 su La Repubblica. Una donna è morta a Bari dopo essere stata visitata per tre volte dai medici e lasciata a casa: Giulia Mininni, 48 anni, si è spenta al Policlinico di Bari dopo essere stata trasportata dal 118 che era stato contattato per altre due volte nell’ultima settimana e dopo che la donna era stata visitata in un’altra occasione al pronto soccorso. La donna lamentava un lancinante mal di gola. In tutte le occasioni era stata lasciata a casa. Le era stata prescritta una terapia per il mal di gola. Solo alla terza chiamata al 118, l’equipaggio l’ha trasportata al Policlinico dov’è morta. La Procura ha aperto un’inchiesta dopo la denuncia dei familiari. Sotto sequestro la salma e la documentazione.
“Se non bastano 25 ore in una barella di pronto soccorso per indignarsi…” L’Arno- Il Giornale il 7 febbraio 2020. Durissimo sfogo contro la malasanità di Diego Petrucci, sindaco di Abetone Cutigliano (Pistoia) e noto esponente pisano di Fratelli d’Italia. In un video pubblicato su Facebook lunedì scorso Petrucci denuncia che una novantenne, ricoverata nei giorni scorsi al pronto soccorso dell’ospedale Cisanello di Pisa, è stata tenuta su una barella per oltre 12 ore. “La nonna di mia moglie è barellata in un corridoio da ieri pomeriggio, adesso sono le dieci di mattina. Prego tutti di condividere questo video perché è una cosa schifosa, questi amministratori si devono vergognare. Tutte le volte che aprono bocca gli assessori regionali, il presidente della Regione, i vari consiglieri regionali che governano questa Regione devono chiedere scusa ai cittadini toscani… nei corridoi le persone sono ammassate come in zona di guerra. È una cosa vergognosa. L’assessore (alla Sanità, ndr) Saccardi venga a chiedere scusa a tutte le persone che sono ammassate nei pronto soccorsi, dove stanno non ore ma giornate. Una persona di oltre 90 anni è qui in una barella da ieri pomeriggio, sono le dieci del mattino di lunedì mattina. Non ne possiamo più di questa incapacità. La cosa peggiore è che questo stato delle cose è diventato la normalità. Io voglio denunciare questa cosa, spero che la vedano i carabinieri, le autorità di controllo, la magistratura. Che vengano a fare dei controlli per vedere come stanno le persone nel pronto soccorso di Cisanello di Pisa, accalcate nel corridoi per mezze giornate e giornate intere”. Petrucci esprime la propria solidarietà ai medici, agli infermieri a tutto il personale “che è vittima, al pari dei pazienti, di questo sistema schifoso che costa centinaia di milioni di euro all’anno ai cittadini toscani e non è in grado di offrire un letto di pronto soccorso a una persona, che stanno barellate, separate da una tenda, con i parenti costretti a litigare perché non c’è neanche una sedia a disposizione. Il sindaco di Abetone Cutigliano conclude il proprio sfogo con due parole taglienti: “Fate schifo”. Il Tirreno, che riporta la notizia, pubblica anche la risposta di Alberto Porcaro, responsabile sanità del Pd di Pisa: “Consiglio a tutti di cercare il video, soprattutto ai cittadini che hanno votato Petrucci: dispiace per loro, ma siamo certi che dopo averlo visto si pentiranno della fiducia concessa a tale individuo. Petrucci ha accompagnato la nonna della moglie al pronto soccorso di Cisanello e sbraita perché secondo lui dopo alcune ore non è stata ricoverata. Siamo convinti che abbia portato l’anziana signora in un ospedale all’avanguardia, uno dei primi in Italia, capace di attirare un gran numero di pazienti dalle altre regioni italiane. L’ospedale è dotato di un pronto soccorso attrezzato di tutte le apparecchiature più moderne e di un eliporto cui giungono pazienti dalle altre province toscane. Queste cose evidentemente le conosce anche Petrucci, cui però sfugge un concetto che proviamo a spiegargli (non siamo sicuri che capisca, ma proviamo). Lo sa che prima di essere eventualmente ricoverati i pazienti accolti in pronto soccorso devono essere visitati, valutati e devono affrontare diversi esami diagnostici? Lo sa che all’interno del pronto soccorso ogni paziente dispone di un grado altissimo di attenzione da parte di medici e infermieri altamente specializzati? Lo sa che, per un paziente dalla diagnosi non ancora certa, rimanere su una barella del pronto soccorso è il posto più sicuro che ci sia? Il sindaco Petrucci, credendo di farsi campagna elettorale a buon mercato, utilizza la nonna della moglie per offendere il presidente Rossi e l’assessore Saccardi e non sa che in questo modo ha offeso le centinaia di professionisti che lavorano al pronto soccorso e che si dedicano anima e corpo al proprio lavoro”. La replica di Petrucci non si è fatta attendere. “Sapete come è andata a finire? Quella persona anziana è rimasta 25 ore al pronto soccorso, poi è stata ricoverata. Tutto questo tempo senza acqua, se non quella data dai parenti, in uno stato di assoluta promiscuità e senza nemmeno una sedia per riposare un po’. Mi sarei aspettato che il Pd si unisse alla mia indignazione, per denunciare che certe cose non vanno bene e devono essere cambiate. Invece il Pd ha pensato bene di attaccare il sottoscritto. Eh già, questa volta non ero ‘multabile’, come successo nei confronti dei medici che hanno mosso delle critiche, e quindi intervengono le difese d’ufficio. Concludo esprimendo la mia solidarietà ai medici, agli infermieri e a tutto il personale che lavora negli ospedali, vittime anche loro di questa folle politica”.
Riceviamo e pubblichiamo una nota dell’Azienda ospedaliero-universitaria pisana. L’Aoup interviene a distanza di qualche giorno sulla vicenda del ricovero in ospedale della familiare del signor Diego Petrucci per una doverosa precisazione sul suo iter assistenziale, essendo il caso riportato sulle cronache locali. La paziente è arrivata in Pronto soccorso alle 17 del 2 febbraio a seguito di un trauma ed è stata subito sottoposta a triage, in base alla sintomatologia presentata; rivalutata dopo un’ora con modifica del codice di priorità, alle 18.18 è stata visitata e quindi instradata in un percorso articolato di esami strumentali proprio per scongiurare la presenza di eventuali lesioni in qualche settore anatomico. Al termine di questa lunga sequenza di esami è stata sottoposta alle visite specialistiche necessarie per il trauma riportato, che hanno escluso problematiche acute ma consigliavano osservazione clinico strumentale che solo in un setting assistenziale come l’osservazione breve intensiva di un Pronto soccorso si può ottenere, perché si è in grado di intervenire tempestivamente ed efficacemente in caso di repentini peggioramenti. Inoltre le sono state somministrate tutte le necessarie terapie, compresa quella antidolorifica, con misurazione dei parametri vitali a intervalli di 8 ore. Al termine dell’ultimo esame strumentale di controllo, la signora è stata ricoverata nella Medicina d’urgenza nel pomeriggio del 3 febbraio (da cui è stata dimessa in ottime condizioni generali nel pomeriggio di ieri). La sua lunga permanenza in Pronto soccorso era quindi motivata e appropriata e il suo percorso diagnostico-terapeutico è stato accurato, completo e puntuale. L’osservazione clinica è stata effettuata su letto “tecnico” (ossia adeguato agli standard ergonomici previsti), nelle migliori condizioni di comfort e privacy possibili e, dal punto di vista gestionale, paragonabili a quelli di un letto sub-intensivo. Forse l’unica carenza è stata quella di non poter disporre di un comodino ma è stato chiaramente privilegiato l’aspetto clinico-assistenziale a quello formale-alberghiero, come deve essere in un Pronto soccorso che è di riferimento per i pazienti critici e le patologie tempo-dipendenti per tutta l’area vasta nord-ovest”.
Malaria non diagnosticata all'ospedale, sette indagati per la morte di Loredana Guida. Le Iene News l'1 febbraio 2020. L’ipotesi di reato è di omicidio colposo, sono indagati sette tra medici e infermieri. La gravità dei sintomi di Loredana sarebbero stati inizialmente sottovalutati in Pronto soccorso, in una vicenda che ha sconvolto l’intera comunità di Agrigento: tra i tanti che hanno voluto ricordarla c’è anche il nostro Silvio Schembri. Sette persone sono indagate per la morte di Loredana Guida: la giornalista di Agrigento, 44 anni, è stata stroncata dalla malaria dopo un viaggio a Lagos, in Nigeria. È morta all’ospedale di Agrigento. L’iscrizione nel registro degli indagati di sette tra medici e infermieri – come atto dovuto – è avvenuta dopo l’interrogatorio dei familiari della donna. L'ipotesi di reato su cui sta indagando la procura è quella di omicidio colposo. Loredana, al suo rientro in Sicilia, aveva infatti iniziato ad avvertire i primi malesseri e si era presentata in pronto soccorso: qui però non avrebbe ricevuto l’assistenza necessaria. Dopo 9 ore in attesa di un medico avrebbe quindi abbandonato la struttura sanitaria. Tornata a casa la situazione però si è aggravata: ha uno svenimento e viene quindi trasportata in ambulanza in ospedale. Questa volta i medici capiscono che la situazione è grave e Loredana viene ricoverata nel reparto di Rianimazione. Vengono attivati anche i reparti di Malattie infettive degli ospedali siciliani e anche l’Istituto nazionale Malattie infettive di Roma. Per lei però era troppo tardi: Loredana è entrata in coma dopo 5 giorni dalla prima visita al pronto soccorso. Non è servito a salvarla neppure il tentativo di cura con un farmaco che sarebbe dovuto arrivare da Messina. Dopo 8 giorni è morta. L’indagine servirà ad accertare, tra le altre cose, perché sembra che nessuno abbia inizialmente preso come campanello d’allarme quel viaggio in Africa. Loredana l’aveva detto subito al primo ingresso in pronto soccorso. La salma è stata sequestrata e verrà sottoposta ad autopsia. La sua prematura scomparsa ha sconvolto la comunità di Agrigento e non solo, gli amici e i colleghi incontrati in questi anni. Tra loro c’è anche il nostro Silvio Schembri. “Ci ha lasciati una persona meravigliosa, una bravissima giornalista a cui ho voluto bene”, dice la Iena in un videomessaggio di ricordo. “È impossibile calcolare il tempo trascorso insieme, fianco a fianco, dentro e fuori la redazione. Ho iniziato a fare questo lavoro con te, quasi 13 anni fa. In questa giornata niente ha un senso, ho voglia di spaccare tutto. Nel 2020 non è accettabile morire così”. Speriamo che adesso questa inchiesta porti alla luce le eventuali responsabilità in questa assurda vicenda.
Morta di malaria ad Agrigento, indagate sette persone. Pubblicato venerdì, 31 gennaio 2020 su Corriere.it. Il pubblico ministero Elenia Manno ha iscritto sette persone nel registro degli indagati per la morte di Loredana Guida, la giornalista agrigentina di 44 anni che aveva contratto la malaria durante una vacanza in Nigeria. I familiari, assistiti dall’avvocato Daniela Posante, hanno denunciato omissioni e negligenze da parte dei medici dell’ospedale San Giovanni di Dio che, dopo il suo primo accesso, con la febbre a 40 e nonostante avesse comunicato di essere da poco tornata dall’Africa, sarebbe stata trattata con un semplice codice verde tanto da tornare a casa dopo alcune ore e senza che - secondo i familiari - sarebbero state avviate terapie specifiche o indagini diagnostiche. L’ufficio diretto da Luigi Patronaggio e dall’aggiunto Salvatore Vella ha iscritto sette persone (medici e infermieri dell’ospedale e il suo medico di famiglia) per l’ipotesi di reato di omicidio colposo. L’iscrizione, come atto dovuto, arriva dopo l’interrogatorio dei familiari della donna che hanno ricostruito l’intera catena di medici che ha seguito il caso. L’autopsia sul corpo della giornalista e insegnante è stata fissata per lunedì e sarà eseguita dal medico legale Sergio Cinque e dall’ex primario di medicina interna Giuseppe Abbita. Gli indagati e i familiari di Loredana Guida potranno partecipare all’accertamento nominando propri consulenti tecnici di parte. Loredana Guida si era presentata all’ospedale di Agrigento con febbre alta il 15 gennaio e riferendo di essere reduce dal viaggio in Nigeria. Era stata classificata in «codice verde» cioè non grave; una nota dell’ospedale agrigentino registra il ricovero «alle 11.41 per riferito stato influenzale». Dopo 9 ore e dopo essere stata sottoposta a un esame del sangue la donna aveva firmato il foglio di dimissioni ed era tornata a casa. Il 20 gennaio Loredana è stata di nuovo portata all’ospedale con gli stessi sintomi ma in condizioni ben più gravi tanto da essere classificata come «codice rosso». L’azienda sanitaria di Agrigento ha dal canto suo reso noto che il 21 gennaio alla paziente «veniva ipotizzata la diagnosi di malaria, confermata da un test eseguito lo stesso giorno e validato dall’istituto di microbiologia dell’università di Palermo» . Il 27 gennaio Loredana guida è deceduta.
Agrigento, morta per malaria: sette medici indagati. L'iscrizione arriva dopo l'interrogatorio dei familiari di Loredana Guida che hanno ricostruito l'intera catena di sanitari che ha seguito il caso. La Repubblica il 31 gennaio 2020. Il pubblico ministero Elenia Manno ha iscritto sette persone nel registro degli indagati per la morte di Loredana Guida, la giornalista agrigentina di 44 anni che aveva contratto la malaria durante una vacanza in Nigeria. I familiari, assistiti dall'avvocato Daniela Posante, hanno denunciato omissioni e negligenze da parte dei medici dell'ospedale San Giovanni di Dio che, dopo il suo primo accesso, con la febbre a 40 e nonostante avesse comunicato di essere da poco tornata dall'Africa, sarebbe stata trattata con un semplice codice verde tanto da tornare a casa dopo alcune ore e senza che - secondo i familiari - sarebbero state avviate terapie specifiche o indagini diagnostiche. L'ufficio diretto da Luigi Patronaggio e dall'aggiunto Salvatore Vella ha iscritto sette persone (medici e infermieri dell'ospedale e il suo medico di famiglia) per l'ipotesi di reato di omicidio colposo. L'iscrizione, come atto dovuto, arriva dopo l'interrogatorio dei familiari della donna che hanno ricostruito l'intera catena di medici che ha seguito il caso. L'autopsia sul corpo della giornalista e insegnante è stata fissata per lunedì e sarà eseguita dal medico legale Sergio Cinque e dall'ex primario di medicina interna Giuseppe Abbita. Gli indagati e i familiari di Loredana Guida potranno partecipare all'accertamento nominando propri consulenti tecnici di parte.
· La Buona Sanità.
Ospedali, come il marchio di eccellenza Irccs può ingannare il paziente. Pubblicato mercoledì, 26 febbraio 2020 su Corriere.it da Milena Gabanelli. L’ultimo decreto legislativo che disciplina la materia è il numero 288 del 16 ottobre 2003, ed è molto chiaro: «Gli Istituti di ricovero e cura a carattere scientifico sono enti a rilevanza nazionale che, secondo standard di eccellenza, perseguono finalità di ricerca, prevalentemente clinica e traslazionale (cioè converte promettenti scoperte di laboratorio in applicazioni cliniche, ndr), nel campo biomedico e in quello dell’organizzazione e gestione dei servizi sanitari, unitamente a prestazioni di ricovero e cura di alta specialità». Lo Stato incentiva la loro missione elargendo fondi pubblici extra: 164 milioni nel 2019. Oggi abbiamo 51 Irccs: 21 sono strutture pubbliche e 30 private in convenzione. Il loro rendimento viene misurato dal ministero della Salute con 25 indicatori di performance, tra i quali la presenza di ricercatori che pubblicano regolarmente, il numero di pubblicazioni e loro importanza scientifica (impact factor), la capacità di attrarre finanziamenti esteri (come indice di competitività internazionale), numero di pazienti coinvolti in sperimentazioni cliniche. I finanziamenti vengono distribuiti in modo proporzionale sulla base dei risultati ottenuti nella disciplina per cui è stato conferito il titolo. Lo Spallanzani di Roma dicevamo è un’eccellenza indiscussa, e infatti lo scorso anno ha pure ottenuto 1 milione di euro di finanziamenti Ue. Ma nella stesso ambito di specializzazione — che sono le malattie infettive — ha il marchio d’eccellenza anche il Negrar di Verona: 10 ricercatori e 10 pubblicazioni nello stesso periodo di tempo. Ovvero un decimo del personale dedicato e della produttività. Al netto dello stipendio dei ricercatori che in ogni caso è da fame (circa 1.500 euro al mese) e delle loro capacità personali, il rapporto tra i finanziamenti pubblici ricevuti e il numero di ricercatori permette di avere un indicatore significativo: quanto spende lo Stato per sostenere la ricerca dell’uno e dell’altro? Per il topo da laboratorio dello Spallanzani 29 mila euro, per quello del Negrar 70.000. L’elenco è lungo, ma alla fine, dei 51 Irccs, almeno 17 hanno una produttività scientifica irrilevante e un’attività clinica scarsa, altrettanti non ricevono nessun finanziamento Ue, 4 non hanno pazienti reclutati in sperimentazioni cliniche. Di questi 17, gli ospedali privati sono 10, e 7 quelli pubblici. Questo avviene perché la legge pur richiedendo «caratteri di eccellenza del livello delle prestazioni e dell’attività sanitaria svolta negli ultimi tre anni» e «caratteri di eccellenza della attività di ricerca svolta nell’ultimo triennio relativamente alla specifica disciplina assegnata» (art. 13 del Decreto legislativo 288 del 16 ottobre 2003), non fissa alcun standard minimo. Così il riconoscimento — che parte da una richiesta della Regione di riferimento, e finisce con un decreto del ministero della Salute, dopo la valutazione di una commissione d’esperti — avviene spesso per accontentare questa o quella Regione o il peso politico di lobby ospedaliere. Risultato: il numero degli Irccs cresce (nel 2000 erano 35 con un finanziamento di 175 milioni), ne entrano di nuovi, e siccome è sufficiente barcamenarsi, di fatto «l’onoreficenza» non viene mai tolta a nessuno. I soldi pubblici invece sono sempre gli stessi (con tendenza a diminuire), e dovendoli spartire fra un numero crescente di ospedali, le quote si assottigliano sempre di più.
Ospedali da sogno: dopo le vertebre, ricostruita in 3D una caviglia a Bologna. Le Iene News il 14 gennaio 2020. Un paziente ha ripreso la piena funzionalità della caviglia che gli è stata ricostruita con la stampante 3D. Per la prima volta al mondo questa operazione è avvenuta al Rizzoli di Bologna. Un ospedale da sogno che abbiamo conosciuto con Gaetano Pecoraro per un altro intervento d’eccellenza: la ricostruzione delle vertebre. Nuova operazione d’eccellenza al Rizzoli di Bologna. È stata ricostruita un’intera caviglia a un paziente utilizzando una protesi su misura stampata in 3D. Qui pochi mesi fa era avvenuto il primo trapianto di vertebre umane al mondo come ci ha raccontato Gaetano Pecoraro nel servizio che potete vedere qui sopra. In questo ospedale da sogno è stata messa a punto una tecnica innovativa di personalizzazione per la sostituzione della protesi della caviglia utilizzando una stampante 3D. È la prima volta al mondo che avviene un’operazione simile. Il paziente, 57enne, aveva perso la funzionalità articolare della caviglia in seguito a un grave incidente in moto di cui era rimasto vittima 13 anni fa. Il paziente era considerato inoperabile fino a oggi che ha ripreso piena funzionalità grazie alla nuova caviglia costruita in 3D al Rizzoli. Dopo le inchieste sugli ospedali da incubo del nostro paese, tra formiche sui pazienti, strutture fatiscenti e disagi, vi abbiamo raccontato l’altra faccia della sanità italiana, quella di cui possiamo andare fieri. Il nostro viaggio tra gli ospedali da sogno è partito proprio dal Rizzoli di Bologna, dove la sanità è all’avanguardia e i danni di un tumore si possono curare con la stampante 3d. Abbiamo conosciuto questa struttura per un altro primato mondiale: il primo trapianto di vertebre umane al mondo, come ci ha raccontato Gaetano Pecoraro. In un paziente di 77 anni colpito da una forma maligna di tumore osseo una parte della colonna vertebrale è stata sostituita da quattro vertebre umane che erano conservate nella Banca del Tessuto Muscolo-scheletrico della regione. “Il paziente sta bene”, ha spiegato Alessandro Gasbarrini, direttore della Chirurgia vertebrale a indirizzo oncologico e degenerativo del Rizzoli. “Dopo i primi 15 giorni di controllo post operatorio è stato dimesso in un altro reparto, per la fisioterapia, dove è stato rimesso in piedi e in condizioni di avere una vita il più normale possibile. Poi, quando era in condizioni di farlo, è tornato tra i suoi affetti". L’intuizione per questa tecnica innovativa è venuta a Alessandro Gasbarrini da una semplice riflessione: se sulla luna costruiscono i pezzi in 3D per gli astronauti, perché sulla Terra non si può fare altrettanto per chi ha un tumore?
Ospedali da sogno: qui si operano i bambini nella pancia della mamma. Le Iene il 16 dicembre 2019. A Milano c’è uno dei quattro centri in Europa dove si effettuano questi interventi su piccoli affetti da malattie rare. Gaetano Pecoraro è andato al policlinico per raccontare come funziona questo ospedale da sogno. Avete mai fatto una anestesia? Vi ricordate la sensazione che si prova poco prima di addormentarsi? Bene, pensate che ci sono bambini che vivono questa esperienza prima di nascere: vengono infatti operati quando sono ancora nell’utero della madre. Il policlinico di Milano è uno dei quattro centri in Europa che opera bambini affetti da malattie rare direttamente in utero, prima della nascita. Spesso infatti i bambini con questi tipi di malattie nascono prematuri e con alcuni problemi: Gaetano Pecoraro è andato al Policlinico a vedere come funziona questo centro da sogno. “Una ginecologa ci disse: voi vi ritroverete con un esserino con cui non avrete nessuna relazione”, racconta il padre di uno dei bambini che sono stati salvati al policlinico di Milano. Oggi quell’esserino è nato e sta benissimo! “Curiamo bambini dai 350 grammi in su”, racconta uno dei medici della struttura. Sono due le malattie rare in cui si sono specializzati: spina bifida e ernia diaframmatica. La spina bifida è un difetto della colonna vertebrale, che non si chiude completamente. Sulla schiena dei bambini si forma così una protuberanza che può causare gravi problemi cerebrali. “Il difetto della colonna vertebrale viene corretto nel feto”, racconta il dottore. “Così la qualità della vita dei pazienti è migliore”. L’ernia diaframmatica invece è una patologia che spinge gli organi dell’apparato digerente nella gabbia toracica. L’intestino per esempio toglie spazio ai polmoni e quindi il piccolo non riesce a respirare. “Abbiamo portato la sopravvivenza dei bambini malati dal 20% al 40%”, dice il dottore. Questo è possibile grazie a una operazione rivoluzionaria: “Si entra nell’addome materno, poi si passa nella bocca del feto e si arriva alla trachea. Qui si posiziona un palloncino che serve a chiudere la trachea e favorire una maggiore distensione”. Nel reparto di terapia intensiva sono tanti i bambini che lottano per sopravvivere, anche grazie alle straordinarie qualità dei medici che cercano di salvarli. Potete sentire le loro storie nel servizio di Gaetano Pecoraro qui sopra. Per effettuare le operazioni necessarie vengono utilizzati apparecchi molto piccoli: “Sono strumenti da 3 millimetri, che ci permettono di risolvere il problema”, ci racconta uno dei chirurghi.
Prima dell’arrivo di questa tecnica, curare la spina bifida era molto più complesso: veniva praticato un taglio molto ampio sulla pancia della mamma, veniva aperto l’utero ed esposto il feto. Un intervento difficile, che portava il 90% delle persone in attesa di un bambino malato a interrompere la gravidanza. Ora invece l’operazione è molto più sicura: “Non richiede né l’apertura della pancia né quella dell’utero, che è la cosa più importante”, ci spiegano. Questo tipo di intervento, purtroppo, è disponibile in questo momento solo a Milano. “Chiedemmo: quali sono le percentuali di sopravvivenza?”, racconta il padre di uno dei bambini lì curati. “Mi fu risposto: purtroppo sopravvivono”. Alcuni malati, infatti, sono ridotti in stato vegetativo. Dopo la diagnosi però la coppia legge dell’ospedale di Milano e decide di contattarli. “Noi diciamo sempre alle famiglie che si rivolgono a noi che devono essere pronte ad accogliere un bambino che può avere dei problemi”, ci spiegano i medici. La nuova operazione infatti è in fase sperimentale e i pazienti sono ancora troppo piccoli per capire se potranno camminare o meno. Gaetano Pecoraro ha potuto assistere all’operazione di rimozione del palloncino nella trachea per cercare di curare l’ernia diaframmatica: quando la donna è vicina al parto infatti è necessario rimuovere lo strumento, per non rischiare che il neonato soffochi. Nel servizio qui sopra potete vedere come funziona l’operazione. L’intervento, per fortuna, va come previsto: il bambino potrà passare ancora qualche mese nella pancia della mamma. La Iena è tornato a parlare con i genitori della bambina che è stata curata a Milano: “Il futuro di Francesca è roseo, sarà bello”, ci dicono. E noi speriamo che possa andare tutto per il meglio.
· In Montagna si invecchia prima.
Marta Ferraro per "ilmessaggero.it" il 19 settembre 2020. Denis Vashurin, residente in un villaggio nella regione della Russia orientale di Primorye, ha 32 anni, ma sembra un adolescente, perché, per ragioni sconosciute, il suo corpo ha smesso di invecchiare quando aveva 13 anni. L'uomo ha raccontato la sua storia in un'intervista al canale di YouTube Vasya na sene. Denis ha iniziato a notare che non era come gli altri già in tenera età. Fin dall'asilo, è cresciuto più lentamente dei suoi coetanei, anche se non gli dava molta importanza. Anche il suo aspetto non ha influenzato i suoi studi, a scuola aveva buoni voti, anche in educazione fisica, e per alcune cose era anche più bravo dei suoi coetanei. Quando poi si è reso conto che non sarebbe mai stato uguale agli altri ragazzi della sua età, inizialmente si è sentito a disagio. «Ho pensato a come sarebbe stato tutto, come sarebbe stata la mia vita, quanto sarebbe stato difficile per me», ha ricordato l'uomo, confessando che ancora si chiede perché gli sti succedendo tutto questo, anche se non ha rivelato se è mai stato da specialisti per scoprirlo. Nella quotidianità della vita a volte Denis deve affrontare dei problemi perché le persone non credono che lui effettivamente abbia 32 anni. Ad esempio, una volta è stato fermato da un ispettore del traffico che sospettava che fosse un minore che aveva incollato la sua foto sulla carta d'identità di un adulto. Quando ha controllato la sua età nel database, l'ufficiale ha scherzato su quanto fosse giovane. Denís confessa di sentirsi infastidito in situazioni come quella descritta, «Perché devo spiegare ogni volta?», si chiede l'uomo. Denís, che ha una fidanzata e lavora in una società di fornitura di elettricità, racconta che è più facile per lui vivere nel suo villaggio, dove tutti si conoscono e non gli chiedono nulla. Gli piace anche trascorrere il suo tempo libero lontano dalla gente, nella foresta, a caccia o pescando.
Il tempo scorre a ritmi irregolari. E in montagna si invecchia prima. Il tempo accelera a mano a mano che ci si allontana da un oggetto con grande massa. Per questo in cima a un monte, quando si è più lontani dal centro della terra, gli orologi corrono più velocemente. Tommaso De Lorenzo e Marisa Saggio, Domenica 13/09/2020 su Il Giornale. Di una cosa siamo certi: in montagna si invecchia più che al mare. E questo nonostante si dica che la salsedine e il sole rovinino la pelle, mentre l’aria fresca faccia bene. Si invecchia più velocemente sui monti perché lì il tempo scorre più velocemente che al mare. E non perché in vetta ci si diverta di più, ma perché gli orologi, tutti gli orologi, ticchettano più velocemente. Come possiamo essere certi di un fatto così strabiliante e apparentemente contrario alla nostra intuizione? Un’intuizione vecchia cent’anni di un certo Albert Einstein aprì una straordinaria rivoluzione nella scienza e nel pensiero in generale. Contraddicendo nientepopodimeno che Newton, Einstein capì che il tempo non è qualcosa di assoluto e che gli orologi non battono tutti alla stessa velocità. Lo capì già quando presentò al mondo la teoria della relatività ristretta: se mi muovo il mio orologio va più veloce rispetto allo stesso se rimanessi fermo. Incredibile. Un decennio più tardi, con la teoria della relatività generale, aggiunse che il tempo rallenta a mano a mano che ci si avvicina ad un oggetto con grande massa: maggiore è l’attrazione gravitazionale subita, più lento scorre il tempo. Ecco spiegato allora perché ad una altitudine elevata il tempo scorre più velocemente che al livello del mare: in montagna sono più lontano dal centro della Terra, sento meno la sua attrazione gravitazionale, quindi l’orologio corre più rapidamente. E io invecchio prima. Per quanto eleganti, geniali e risolutive fossero le sue teorie, anche Einstein ha fatto errori nella carriera di fisico più famoso di tutti i tempi e dunque la sua parola non è abbastanza per essere sicuri di fatti così controintuitivi. Nel 1971 un fisico ed un astronomo presero quindi alcuni orologi tra i più precisi dell’epoca, orologi atomici grandi quanto comodini. Ne lasciarono alcuni a Washington, mentre altri li portarono come bagagli (un po’ ingombranti) su aerei di linea con i quali fecero il giro del Mondo, una volta verso Est e una volta verso Ovest. Quando, tornati a Washington, confrontarono gli orologi viaggiatori con quelli casalinghi, trovarono che i primi indicavano un tempo maggiore dei secondi. Non erano più sincronizzati. E la differenza era in accordo con quanto predetto da Einstein: quando ci si muove veloci, o se si va in montagna, il tempo scorre più velocemente. Nei 50 anni successivi, esperimenti del genere sono stati ripetuti e confermati diverse volte. Con la precisione raggiunta dagli orologi attuali, che tra l’altro non sono più grandi come comodini, possiamo misurare sperimentalmente la differenza dello scorrere del tempo tra orologi distanti poche decine di centimetri l’uno dall’altro! In altre parole, sappiamo determinare sperimentalmente quanto i vostri capelli siano più vecchi dei vostri piedi. Ovviamente di poco, molto poco, un nanosecondo ogni anno, quindi non è una buona idea vivere facendo la verticale per mantenere la mente giovane. Sono differenze delle quali non possiamo renderci conto. Ma se l’uomo riuscisse a distinguere differenze di tempo così piccole, come percepirebbe lo scorrere diverso del tempo? Per semplicità, immaginiamo di riuscire a distinguere differenze di tempo di un diecimilionesimo di secondo ogni anno (mille volte più del nanosecondo del paragrafo precedente). Questo non basterebbe a distinguere la differenza tra testa e piedi, ma sarebbe sufficiente per distinguere per esempio quella che c’è tra le pendici e la cima del Monte Bianco (quasi 5 Km di dislivello). Alleniamoci a dovere e cominciamo a scalare la cima, tenendo al polso il nostro nuovissimo orologio atomico. Cosa succederebbe? Sentiremmo il ticchettio piano piano accelerare? La risposta è negativa. L’orologio non è altro che lo strumento di misura del tempo. E se il tempo cambia il ritmo via via che saliamo il Monte Bianco, anche la nostra percezione del ticchettio dell’orologio cambia con esso. Questo vale anche per i processi fisici come l’invecchiamento o il pensiero: per noi non cambierebbe nulla. Ci sembrerebbe come se tutto stesse continuando allo stesso ritmo. Solo una volta tornati a valle dopo aver raggiunto la vetta ci accorgeremmo che qualcosa è cambiato. Confrontando il nostro orologio con quello del barista con cui avevamo parlato prima di partire, scopriremmo che il nostro tempo è scivolato via più velocemente che al bar. E ci accorgeremmo di essere invecchiati un po’ di più di lui. In tutti gli esperimenti che abbiamo descritto nei paragrafi precedenti, infatti, gli orologi in gioco sono stati sincronizzati insieme nello stesso posto, portati in posti diversi o a velocità diverse, e poi riportati insieme per essere confrontati. Con l'introduzione della Relatività Generale, il tempo perde i connotati di assolutezza che aveva assunto con le idee newtoniane. L'Universo non balla tutto sullo stesso ritmo cadenzato e preciso. Ogni punto dello spazio e ogni momento ha il suo scorrere del tempo che è mutevole, cambia in maniera intimamente legata all'interazione gravitazionale di quel punto in quel momento. Con esso danzano a ritmi diversi le stelle, i buchi neri e noi stessi.
· Salute: Carcere e Caserma.
Come funziona la sanità nelle prigioni, l’ergastolo bianco dei detenuti. Viviana Lanza su Il Riformista il 18 Giugno 2020. Salute e carcere. C’è un aspetto di questo binomio in cui si addensano le maggiori criticità. È quello della tutela della salute psichica delle persone condannate. In genere i posti nelle sezioni specializzate non sono sufficienti e i ricoveri lunghi diventano una sorta di “ergastolo bianco” come segnalato dal garante regionale dei detenuti. Pur volendo considerare una situazione (e purtroppo non dappertutto è la normalità) in cui gli stessi diritti di salute garantiti fuori vengono egualmente garantiti dentro il carcere, appare evidente che il carcere, per sua stessa natura, può comprimere diritti individuali. La reclusione, la privazione della libertà, la condizione di dipendenza del detenuto per diverse necessità del vivere quotidiano finiscono inevitabilmente per incidere sulla sua sfera psicologica. E tutto si complica quando ci sono patologie pregresse, in quel caso la compatibilità tra carcere e salute mentale diventa davvero difficile. «Nonostante i ripetuti richiami degli organismi internazionali, che rispecchiano peraltro l’ispirazione originaria della riforma sanitaria – si legge nella relazione del garante regionale dei detenuti – prevale l’idea che la tutela della salute mentale equivalga ad assicurare solo servizi psichiatrici specialistici, in linea con la più generale tendenza a confondere la salute con la sanità». I dati dell’ultimo anno aiutano a comprendere le dimensioni del problema. Almeno un migliaio di detenuti con disagi mentali si trova negli istituti normali e 1.200 detenuti sono in istituti specifici. In carcere le patologie più diffuse sono schizofrenia e disturbi psicotici (in genere relativi a situazioni precedenti alla detenzione), disturbi dell’umore (frequente la depressione come reazione allo stato detentivo), disturbi d’ansia e psicosi indotte dall’uso di particolari sostanze. Non mancano casi di disturbi della personalità nei confronti dei quali il trattamento in carcere appare più complicato. Quando il governo ha provveduto a svuotare gli ospedali psichiatrici giudiziari per riportare la gran parte die malati in carcere, all’interno degli istituti di pena sono state attivate sezioni specializzate. A Napoli è il carcere di Secondigliano a ospitare un’articolazione di salute mentale con diciotto posti letto. La durata media del ricovero oscilla tra uno e cinque mesi, se non addirittura anni. «Tali situazioni – spiega il garante Ciambriello nel report annuale – non solo rischiano di acutizzare e cronicizzare le stesse manifestazioni psichiche dei detenuti degenti ma impediscono un corretto usufrutto da parte degli altri detenuti che in media superano di gran lunga la capacità dei posti all’interno di tali reparti speciali». Le sezioni cliniche di salute mentale dovrebbero funzionare come luoghi transitori, per preparare programmi terapeutici e riabilitativi da eseguirsi sul territorio. «Di fatto invece – si denuncia nel report – i detenuti che transitano in questi spazi vi restano in maniera cronica, quasi a ripetere la triste situazione di un ergastolo bianco».
I farmacisti militari che creano le medicine salvavita per chi ha una malattia rara. A Firenze c'è un centro chimico della Difesa che ha quasi due secoli ma produce medicine attualissime, dalla marijuana alle pillole contro il coronavirus. E soprattutto i farmaci "orfani" considerati dalle aziende più remunerativi. Floriana Bulfon il 18 giugno 2020 su L'Espresso. La concertina di filo spinato corre per centinaia di metri in mezzo alla periferia nord di Firenze. Sembra un residuato bellico, invece custodisce armi indispensabili: i farmaci. Noi le avevamo dimenticate, riscoprendole solo con l'epidemia. In questo baluardo della collettività invece non hanno mai smesso di occuparsene. Dai camici bianchi spuntano mostrine colorate, nell'unica officina farmaceutica di Stato c'è un'osmosi di competenze. Graduati di truppa e ufficiali, operai e laureati miscelano, combinano e distillano senza sosta per far fronte alla pandemia. Nei corridoi dello Stabilimento Chimico Farmaceutico Militare si respira la storia: “Tavolette compresse” di chinina cloridrato, scatole ingiallite di canfora, alambicchi e distillatori per droghe in rame e ottone. La nascita risale al Regio Viglietto di Re Carlo Alberto del 1832 ma la vocazione militare diventa presto civile. A inizio del secolo scorso vede la luce il Chinino dello Stato per combattere la malaria nell'Italia unita e oggi un'ala del pian terreno è colma di taniche da cinque litri di soluzione idroalcolica: disinfettante per le mani che viene mandato negli ospedali. «Abbiamo iniziato con 800 litri, poi mille, ora siamo a oltre 2 mila al giorno», spiega Simone Taccetti, per tutti “l'ultimo dei Mohicani”. È entrato come allievo operaio nel 1986 a 16 anni quando c'era ancora la scuola interna di formazione. Travasa e impacchetta insieme a Giuseppe Mirra, un parà della Folgore rientrato da una missione in Afghanistan. Sotto al camice la mimetica e una certezza: «Veniamo da esperienze diverse, ma ci unisce l'essere al servizio della comunità». Velocità e flessibilità, come per le forze d'assalto. Cosa serve? Il gel? Produciamolo! Tremila flaconi al giorno. Alcuni lotti li hanno confezionati con una partita di merce di contrabbando: 4.700 litri di alcool etilico sequestrati dalla Guardia di finanza a Monopoli. Oggi c'è la necessità di tracciare i nuovi positivi al Covid 19, di fare i tamponi rapidamente e su larga scala. Mancano i reagenti? Stanno organizzando «in collaborazione con l'università di Firenze e l'azienda ospedaliera di Careggi una produzione pubblica e a basso costo», spiega il colonnello Antonio Medica, il direttore dello Stabilimento. Ha 55 anni, è arrivato qui come soldato per la leva e c'è rimasto per l'intera carriera dopo il concorso da ufficiale chimico-farmacista. Alle emergenze sono abituati. In seguito all'incidente di Chernobyl sono stati gli unici in Europa a creare in tempo record un milione di pillole di ioduro di potassio e da allora ogni due anni preparano la scorta strategica. Antidoti che finiscono in trenta magazzini d'Italia pronti in caso di attacchi bioterroristici e calamità nucleari. Nel 2009 invece hanno preparato più di 30 milioni di capsule di un antivirale per fronteggiare una possibile epidemia di influenza aviaria. Ma c'è un'emergenza che non si ferma mai: distribuiscono quotidianamente “farmaci orfani” e non hanno smesso di farlo per il lockdown. Sono quelli che le aziende private smettono di fabbricare perché “non più convenienti”, anche se sono fondamentali per la vita di tremila persone. Curano malattie rare che spesso colpiscono i bambini, destinati a passare la loro esistenza combattendo una doppia battaglia, contro la malattia e contro l'indifferenza di un mondo che non si accorge neppure della loro sofferenza. Bambini che hanno i muscoli incapaci di sorreggerli, costretti a vivere con malattie a cui si può dare solo un nome e non una terapia. Per loro i soldati di Firenze sono angeli custodi, che fanno arrivare le medicine direttamente agli ospedali. «Dipendiamo dall'Agenzia Industria e Difesa e sopperiamo alle carenze che si possono verificare. Il prezzo di vendita ha lo scopo esclusivo di permettere il sostentamento della struttura. Noi non dobbiamo fare profitti, ma garantire il pareggio di bilancio, perciò reinvestiamo tutti gli utili», chiarisce il colonnello Medica. Cifre simboliche per coprire le spese e dare speranza. Beatrice ha un nemico: la bilirubina all'interno del globulo rosso. Per sopravvivere trascorre metà della sua giornata dentro una macchina ingombrante. «Quando è arrivato un medicinale in grado di catturare la bilirubina, con le dovute ore di esposizione alla fototerapia e gli opportuni dosaggi riuscivo a concedermi qualche ora di libertà sui prati estivi a guardare le stelle, qualche gita romantica, le emozioni che vivono tutti», racconta. Poi piombano di nuovo le ombre, la ditta che produce quel medicinale per lei indispensabile decide che non conviene più continuare. Beatrice oggi è la prima bimba italiana con la sindrome di Crigler Najjar a diventare donna e mamma e ricorda ancora l'incontro con lo Stabilimento: «Il volto illuminato di mio padre come una stanza in una mattina d'estate. La sua voce tremante a fatica è riuscita a dire: “Lo faranno anche se siamo pochi, anche se siamo soli e lo riprodurranno ogni volta che ne avremo bisogno”». Scatole di principio attivo che possono permettere una rinascita. La cura trova l'essenza nelle persone che la producono. Tanti ex voto laici, racchiusi nelle lettere appese alla parete. Quella di Stefania riporta la data del 2 giugno. «Ho avuto la fortuna di conoscere lei, maresciallo, persona che è difficile descrivere con un solo “grazie” ma un uomo che ha messo a disposizione il suo tempo di festa per mettere nelle nostre mani quattro flaconi». Il marito Sergio è affetto da aritmie maligne e grazie alla mexiletina la sua qualità della vita è migliorata. Carmine Borzacchiello, infermiere dell'aeronautica, è un compagno di viaggio di pazienti, familiari e medici. Il suo telefono squilla continuamente. Dall'altro capo l'ansia di nonna Lucia che teme «di perdere il marito per colpa dell'egoismo», il farmacista Mauro di Cantù che cerca di aiutare un suo cliente appena dimesso dall'ospedale San Raffaele di Milano, Cristiano di Monza che vuole ringraziare «questi eroi sconosciuti». La pandemia non li ha fermati. Il caporale maggiore Ivo Rizza durante gli ultimi due mesi ha percorso 5 mila chilometri e si commuove pensando al primo maggio: «Io e il luogotenente Borzacchiello abbiamo fatto una corsa fino all'ospedale Santo Spirito di Pescara. Un bambino aveva ingerito un solvente a base di rame trovato in cantina ed era in fin di vita». A salvarlo è stata la D-Penicillamina che creano qui. «Nel posto giusto», come lo definisce Paolo Giannotta. Dopo la laurea in farmacia ha mandato un curriculum, l'hanno preso per il tirocinio e poi ha vinto il concorso: «Lavoro per quello che ho studiato, sento di fare qualcosa che non è legato alle sole dinamiche di profitto». Il suo mondo è oltre una stanza di sovra-pressione. Cuffia, tuta, calzari, guanti e una mascherina simile alle FFp3 a cui ormai siamo abituati. Con lui altri coetanei. Trentenni tecnici biologici e periti chimici, tutti civili. «Produciamo anche per 25 pazienti, ma con regole farmaceutiche. Sento di dare un senso alla cura», racconta Ilaria Fusi mentre consegna le medicine alla caporale maggiore Deianira Mele: «La nostra è una staffetta al servizio delle famiglie». Lavora allo Stabilimento dal 2016, viene dal reggimento Genio guastatori, in prima fila nei soccorsi durante terremoti e alluvioni. Dietro di loro una foto ritrae le donne al lavoro negli anni Quaranta. «Allora come oggi siamo la maggioranza», sorridono con orgoglio. In questo laboratorio da pochi giorni hanno prodotto anche il primo lotto di idrossiclorochina, il farmaco prima bocciato dall'Oms e poi riammesso ai test tra le polemiche, comunque prescritto da molti medici per i malati di Covid e considerato quasi una panacea dal famoso infettivologo francese Didier Raoult. Il ministero della Salute ha chiesto di studiare la formulazione di quello già in commercio per una sperimentazione e qui si sono dati da fare per ricrearlo. «Ogni volta che ci arriva la richiesta per un farmaco è una sfida, dobbiamo capire come adattare i processi produttivi, valutare le difficoltà e allo stesso tempo essere pronti ed efficienti», spiega il colonnello Stefano Mannucci, a capo della produzione. Dall'autunno del 2014, dopo l'accordo tra i ministeri della Difesa e della Salute, hanno anche il monopolio della produzione di cannabis per uso medico: 150 chili l'anno di inflorescenze essiccate, ma l'obiettivo è arrivare almeno al doppio perché sono tanti i pazienti costretti a rivolgersi al mercato estero, soprattutto olandese. Un'ala è in costruzione e stanno realizzando nuovi estratti oleosi, più pratici per le cure. Le serre sono camere bianche. Dentro l'odore intenso e dolciastro stordisce. Per entrare porte blindate, videosorveglianza. Tutto è sterile e computerizzato con una rete chiusa per timore di incursioni. Le lampade blu e rosse illuminano le talee ad orari stabiliti, simulando il ciclo del giorno. Il sistema di irrigazione è collegato ai monitor, la terra artificiale per non avere alcune contaminazione. «Quando arrivano al tempo balsamico, il punto di maturazione, le piante sono tagliate e appese a testa in giù per far andare tutto il principio attivo verso i fiori», spiegano Giorgia Brunetti, rientrata dopo un'esperienza in un laboratorio americano, e il biologo Giorgio Fagiana. Una volta seccati li triturano e pesano. Alla fine del ciclo escono barattolini tondi di plastica con cinque grammi di cannabis. «Dobbiamo arrivare a un prodotto farmaceutico standard, con una determinata quantità di principio attivo per grammo. Va inviato nelle case di malati, deve essere sicuro», chiarisce il colonnello Mannucci. Il numero delle persone in trattamento è in crescita: nel 2013, primo anno in cui la cannabis è entrata timidamente nei sistemi sanitari regionali, il consumo era appena di 35 chili. Ora la richiesta è di 700 chili. «Oggi l'organico è di 85 persone, quando sono entrato nel 1990 eravamo in 270», racconta il direttore Medica. «Eppure la difesa della salute pubblica e la tutela del malato sono due missioni nelle quali è possibile esprimere al meglio i valori di eticità e di servizio per il Paese». Questa struttura un tempo era una cittadella autosufficiente. Le torri con la riserva dell'acqua, la centrale termoelettrica, le officine meccaniche. Si scorge ancora la scritta sbiadita della falegnameria. L'edera ha coperto i binari. Accanto corre l'alta velocità all'altezza della Stazione Rifredi, ma fino agli anni Novanta i treni entravano fino ai laboratori. Era uno snodo logistico per far partire immediatamente in farmaci. «Abbiamo toccato con mano l'importanza di poter disporre di una produzione nazionale di mascherine, reagenti, disinfettanti», ragiona Medica. Per il ministro della Difesa Lorenzo Guerini occorre riflettere: «La capacità operativa delle nostre forze armate non può essere data per scontata. Serve avviare un dibattito pubblico scevro da ipocrisie evitando il rischio che una volta passata l'emergenza da coronavirus nella percezione collettiva le spese per la Difesa vengano giudicate superflue o non necessarie. Condizionando in questo senso anche le decisioni di parte della politica. Sarebbe un errore gravissimo, che non ci possiamo permettere». Per la sanità militare si spende lo 0,32 per cento del budget del Servizio sanitario nazionale: ma la pandemia ha fatto capire a tutti come gli ospedali da campo, gli aerei con le barelle isolate per i contagiati, i sanificatori per le residenze anziani, i medici e infermieri con le stellette siano un'arma strategica. Su cui conviene investire, per la salute di tutti.
· Tumore ed altro: i malati abbandonati senza sussidio.
“Ho un tumore e l'Inps mi dà 180 giorni di malattia. Sto per restare senza stipendio”. Le Iene News il 18 giugno 2020. Dopo sei mesi di malattia, Valeria ha quasi finito il periodo coperto dall’Inps con un sussidio. A breve si ritroverà senza stipendio: "Ci vogliono più tutele per chi è nella mia situazione". “Sono Valeria, ho 35 anni e ho un tumore al seno”. Si presenta così Valeria Palumbo, intervistata da Giulia Innocenzi per Iene.it: aspettando Le Iene. “A luglio 2019 ho scoperto di avere questo tumore, mi hanno operata tre volte. Dopo ho iniziato la chemio, che sto facendo ancora adesso”. Valeria ci ha contattati perché è preoccupata per i mesi che verranno, nei quali non percepirà lo stipendio: “Per l’Inps dopo 180 giorni ho terminato il periodo di malattia, mi piacerebbe che fosse così, ma non lo è. Io sono un Oss, operatore socio-sanitario, ma ora non sto lavorando perché non posso fare alcuna mansione. La mia azienda mi garantisce che anche al termine dei 180 giorni mi mantiene il posto di lavoro, ma non verrò retribuita”. E la scadenza, racconta Valeria, è davvero vicina: “La mutua mi dura fino al 30 giugno, dopo userò le ferie di un mese, ma ad agosto, quando dovrò fare la radioterapia, resterò a casa senza percepire stipendio”. “Io sono separata”, continua Valeria. “Ho due bambini piccoli e un mutuo. Voglio parlare a nome di tutti: ci sono donne che vengono in oncologia in carrozzina e magari perdono il lavoro perché non possono svolgere nessuna mansione. A queste persone chi ci pensa? Ci vorrebbe una tutela per tutte le persone, non è che noi chiediamo di avere il cancro. Non basta come ti senti, le cure strazianti, ti ritrovi anche senza lavoro, senza soldi, emotivamente questa cosa ti butta ancora più giù”. “Chiedo una tutela per le persone che hanno il cancro. Se non possiamo andare a lavorare, in qualche modo dobbiamo vivere. Ci vuole una legge che dica che finché non si è guariti e non c’è la possibilità di tornare a lavoro, ci sia garantita almeno la possibilità di vivere dignitosamente”. Quello di Valeria, purtroppo, non è un caso isolato. Nel 2017 con Nina Palmieri vi abbiamo raccontato la storia di Steven, un ragazzo malato di tumore che, dopo aver terminato il periodo di sussidio previsto dall’Inps, è stato aiutato dai suoi datori di lavoro. Steven purtroppo non ce l’ha fatta, ma i suoi datori di lavoro non hanno smesso di battersi per aiutare le persone nella sua situazione. Così abbiamo contattato Rocco De Lucia e Barbara Burioli, per capire se nell’ultimo periodo c’è stato qualche passo in avanti. “Lottiamo da diversi anni perché questa legge venga cambiata”, dice Barbara. “E vedere che non è successo niente fa veramente male”. “La mia protesta è contro un sistema che sta ignorando persone che hanno contribuito e contribuiscono al sistema italiano pagando i contributi”, continua il marito Rocco. “Io voglio chiedere ai politici perché dopo 180 queste persone devono essere scaricate? È una norma ingiusta. Noi chiediamo di estrapolare da questa norma tutti i malati oncologici. Questa è una prova di dignità che la politica deve dare a queste persone. Il cancro ti arriva e ti devasta la vita e proprio in questo momento uno stato civile deve stare accanto a queste persone. I contribuenti non sono solo da spremere, quando c’è da dare bisogna dare”.
· Alcool e Riflessi.
Elena Meli per "corriere.it" il 27 giugno 2020. Sembra l’anima della festa, ma in realtà è la sostanza che più di ogni altra causa danno sociale: separazioni, atti criminali, perdita del lavoro e via dicendo sono solo alcuni degli eventi associati all’abuso di alcolici. Senza contare l’impatto sulla propria salute e spesso su quella altrui. Basta pensare agli incidenti stradali: uno o due bicchieri sono sufficienti per rallentare le capacità di reazione agli stimoli esterni e aumentare i rischi alla guida. «Proprio questo è uno dei motivi per cui non è definibile una quantità di consumo alcolico raccomandabile o “sicura” per la salute — fa notare Emanuele Scafato, direttore dell’Osservatorio nazionale alcol dell’Istituto superiore di Sanità e del Centro nazionale dipendenze e doping —. Al massimo si può parlare di quantità “a basso rischio”, ovvero una quantità di alcol giornaliera da non superare: 20 grammi per gli uomini (circa due bicchieri) e i 10 grammi per le donne e gli ultra 65enni. Qualunque quantità è rischiosa per i giovani, a cui si raccomanda di non consumare alcolici sino ai 18-21 anni».
Il ruolo del fegato. Come agisce l’alcol sull’organismo? «Quando si parla di alcol contenuto nelle bevande alcoliche ci si riferisce all’etanolo, molecola piuttosto piccola in grado di penetrare nel flusso sanguigno rapidamente e, attraverso di esso, diffondere in tutto l’organismo. Il fegato è l’organo che ha il compito di distruggerlo, metabolizzarlo, e lo fa in primo luogo attraverso una particolare sostanza, l’enzima alcol deidrogenasi, che “smonta” la sua molecola. Finché il fegato non ne ha completato la “digestione”, l’alcol continua a circolare diffondendosi nei vari organi, in particolar modo nel cervello, danneggiandolo. La velocità con cui il fegato rimuove l’alcol dal sangue varia da individuo a individuo ed è circa mezzo bicchiere di bevanda alcolica all’ora. L’attività dell’alcol deidrogenasi non è, infatti, uguale per tutti. Di norma è minore nella donna e negli anziani, inefficace nei giovani fino ai 18-21 anni».
Effetti cancerogeni e psicotropi. Quali sono gli effetti dell’alcol? «Oltre a essere tossico, l’alcol ha un effetto cancerogeno ed è una sostanza psicotropa, che agisce in modo negativo sulle funzioni cognitive e di controllo superiore del cervello e può portare a dipendenza. Inoltre è una molecola non nutriente ma calorica tanto che bevendo due bicchieri di alcolici in meno ogni giorno, si può dimagrire di 7-8 chili in un anno. Nell’organismo l’alcol danneggia direttamente le cellule di molti organi, i più vulnerabili dei quali sono il fegato e il sistema nervoso centrale. Durante l’adolescenza l’alcol può compromettere in modo permanente lo sviluppo del cervello e il rischio di consumo dannoso e alcoldipendenza è più probabile in funzione dell’incapacità metabolica. Non bisogna inoltre dimenticare l’effetto nocivo dell’uso di alcol sulla salute del bambino durante la gravidanza. L’alcol, infatti, giunge al feto attraverso la placenta provocando deficit della crescita, deficit neurologici e psicosociali. Il consumo di alcolici è tra i primi fattori di rischio influenti sulla riduzione della speranza di vita, oltre a poter favorire diversi tumori (bocca, esofago, fegato, seno, stomaco, ecc.), l’ictus, le aritmie cardiache, la morte coronarica improvvisa, i disturbi dell’umore e molte altre problematiche sociali e di salute».
Fabio Di Todaro per “la Stampa” il 24 gennaio 2020. Birra, vino, cocktail, superalcolici. Uno tsunami alcolico che, in apparenza, «accende» il cervello. Ma che in realtà lo colpisce. Senza pietà. L' ubriacatura coinvolge sempre più persone, a cominciare dai giovani, e ci fa ammalare. E spesso uccide. «E' l' alcol a generare i rischi per la salute, non la bevanda che lo contiene», spiega Emanuele Scafato, direttore dell' Osservatorio alcol dell' Istituto Superiore di Sanità. Sono proprio gli «under 18», assieme ad anziani e donne, il «target» più vulnerabile. Noi italiani siamo tra i maggiori bevitori d' Europa: il 42,3% delle ragazze e il 52,5% dei ragazzi (dagli 11 ai 25 anni) ha consumato almeno una bevanda alcolica in un anno. «L' alcol è una delle sostanze psicoattive più utilizzate dai nostri figli - commenta Scafato -. La maggior parte vi si avvicina troppo presto, spesso prima dei 12 anni, in genere lontano dalla famiglia». Sos sballo. I giovani prediligono il «binge drinking», l' ubriacatura veloce, mirata allo «sballo», che li porta a consumare cinque-sei drink in successione. Eppure - ammoniscono gli specialisti - l' alcol non dovrebbe essere toccato prima dei 18 anni e con cautela prima dei 21. L' incapacità fisiologica dell' organismo di metabolizzarlo lo rende un rischio immediato: per lo sviluppo del cervello prima ancora che per il fegato. E l' invito alla prudenza dovrebbe essere ancora più esteso. «E' dimostrato un pericolo di danno cerebrale fino a 25 anni: si manifesta con deficit di memoria e orientamento», dice l' esperto. Motivo per cui «non bisognerebbe mai mettersi alla guida dopo aver bevuto». I meccanismi del danno. A essere tossici per il cervello sono l' etanolo e il metabolita acetaldeide, in grado di provocare danni permanenti, strutturali e funzionali. Le due molecole, agendo come un detergente, possono sciogliere i grassi che danno stabilità alle membrane dei neuroni. La conseguenza è il danno irreversibile, fino alla morte, delle cellule cerebrali. Non solo. L' abuso di alcol è anche associato alla carenza di tiamina, portando alla sindrome di Wernicke-Korsakoff: è una forma di demenza che si manifesta come conseguenza del deficit di alcuni micronutrienti. Il troppo alcol, poi, è associato alla demenza vascolare, visto il legame con fattori di rischio come ipertensione, ictus cerebrale, fibrillazione atriale e scompenso cardiaco. Se si smette di bere, comunque, il processo di degenerazione è parzialmente reversibile, anche se la «ricostruzione» non si instaura subito. A svelare questo aspetto è stato uno studio sulla rivista «Jama Psychiatry», svelando come le lesioni cerebrali possano verificarsi fino a un mese e mezzo dopo aver bevuto l' ultimo bicchiere. Dal confronto tra ex bevitori e non è emerso, infatti, che le modificazioni della sostanza bianca si perpetuano dopo aver smesso di consumare alcolici. La maggiore vulnerabilità si riscontra a livello del corpo calloso e della fimbria, strutture deputate alla connessione tra aree del cervello coinvolte nella formazione dei ricordi, nel sistema di ricompensa (è qui che si innesca il meccanismo del bere compulsivo) e nella maturazione delle decisioni. Aspetti che riguardano tanto i giovani (il cui cervello è in formazione) quanto gli anziani (per età già esposti a un rischio più alto di sviluppare disturbi psichiatrici e malattie neurodegenerative). Il problema delle soglie. Meno alcol si beve, meglio è: ecco la regola d' oro. A tutte le età. Di certo la quantità di alcol nel sangue da non superare per non influenzare lo stato di vigilanza necessario per guidare in modo sicuro cambia in funzione di fattori come sesso, peso, altezza, età, stato di salute e condizioni di riposo. Se il limite per i conducenti con meno di 21 anni, per i neopatentati (per i primi tre anni) e per chi lavora al volante è pari a zero, quello che riguarda gli adulti viene raggiunto con due «unità alcoliche» per le donne e tre per gli uomini. Ovvero ingollando circa 12 grammi di etanolo: il contenuto di un bicchiere di vino (125 millilitri, a 12 gradi) o di una lattina di birra (330 millilitri, a quattro gradi) o di una dose di superalcolico (40 millilitri, 40 gradi). Il concetto-chiave, però, è ancora più stringente: non esistono soglie di consumo sicure. Né è possibile parlare di benefici reali, determinati da un consumo moderato, come dimostra uno studio su «The Lancet»: anche cinque-sei bicchieri di vino o birra a settimana possono accorciare la vita. A questo Sos occorre aggiungere che le bevande alcoliche sono considerate il primo fattore di rischio per le demenze. Sos tumori. E non basta. Purtroppo. L' etanolo - assieme al metabolita acetaldeide - è una sostanza cancerogena. Sono gli organi dell' apparato digerente i più vulnerabili: a partire dal colon-retto (nei consumatori moderati), fino all' esofago, allo stomaco, al fegato e al pancreas (nei forti bevitori). «Ma esiste anche una relazione tra l' incremento delle quantità di alcol e le probabilità di ammalarsi di tumore al seno - conclude Scafato -. Nelle ragazze e nelle donne il rischio che corre chi beve rispetto a chi non beve cresce del 7% per ogni bicchiere in più rispetto alla soglia di 10 grammi di etanolo al giorno e aumenta fino al 27%, se il tessuto presenta i recettori agli estrogeni». La probabilità, così come per gli altri cancerogeni, è proporzionale all' esposizione. Ma il monito vale anche per i consumatori occasionali: non esistono livelli di consumo sicuri correlati al rischio oncologico. Conclusione: l' alcol è un nemico insidioso.
· Medicinali e riflessi.
Quando i farmaci cambiano la personalità. Gioia Locati il 20 gennaio 2020 su Il Giornale. C’è il paracetamolo che rende meno empatici. Ci sono le statine per ridurre il colesterolo che trasformano persone serafiche in automobilisti aggressivi. Ci sono i rimedi contro il Parkinson che, aumentando la dopamina, allentano i freni inibitori e aprono la strada alle dipendenze. Ma l’elenco delle molecole chimiche capaci di modificare, a nostra insaputa, i nostri comportamenti – e i nostri pensieri e le nostre emozioni – è ben più lungo (comprende anche i prodotti per l’asma, gli antidepressivi e gli antiinfiammatori). Lo ha pubblicato il sito della Bbc, cliccate qui. Il report è stato curato da Beatrice Golomb, ricercatrice dell’Università di San Diego, in California. La studiosa ha raccolto svariate segnalazioni negli ultimi anni da tutti gli Stati Uniti. Per la maggior parte delle persone questi cambiamenti sono impercettibili, in altre si sono rivelati drammatici. Ma un numero altrettanto esteso di consumatori di farmaci non riesce a riconoscere i propri cambiamenti nel comportamento, se pur evidenti, tantomeno a collegarli ai medicinali. Matrimoni rotti, carriere distrutte, violenze sul partner, fino ai suicidi. Già, è difficile rendersi conto che una pastiglia che abbassa il colesterolo possa indurre depressione, tendenza al suicidio o aggressività e in taluni casi anche disturbi psichiatrici. Cliccate qui. Siamo stati abituati a pensare che questi effetti siano legati alle droghe psichedeliche. Invece, anche un farmaco che non si sospetterebbe mai potesse averne, può provocarli. Peccato che sulle confezioni non compaia alcun avvertimento…Vi sono studi che mostrerebbero che bassi livelli di colesterolo sono associati a comportamenti violenti, perfino nei pesci e nei moscerini della frutta. Cliccate qui. Tuttavia, come spesso accade nel mare magnum della letteratura scientifica, vi è anche la ricerca che afferma il contrario e “assolve” le statine dal provocare ansia e depressione. Qui.
Antidolorifici e empatia. Dominik Mischkowski, ricercatore dell’Università dell’Ohio, ha indagato gli effetti degli antidolorifici sulla personalità. Il paracetamolo allevia il dolore riducendo l’attività della corteccia insulare, area che svolge un ruolo importante nelle nostre emozioni. Lo studioso spiega che le stesse aree del nostro cervello diventano attive sia quando sperimentiamo “empatia positiva” – piacere per conto di altre persone – che quando proviamo dolore. Pare che il paracetamolo faccia sentire meglio dopo un rifiuto sociale. L’empatia non è solo una caratteristica che ci rende più simpatici con gli amici o più sensibili se guardiamo un film. Secondo alcuni studiosi è responsabile della adattabilità della nostra specie, favorisce le nostre capacità di socializzazione fin da piccoli e ci permette relazioni affettuose più stabili. Va tuttavia considerato che il paracetamolo non può cambiare la nostra personalità, perché gli effetti durano solo poche ore e pochi di noi lo prendono continuamente. Mischkowski evidenzia che dovremmo essere informati sui modi in cui ci influenza, in modo da poter usare il nostro buon senso. “Proprio come dovremmo essere consapevoli di non metterci al volante sotto l’influenza dell’alcool, dovremmo evitare di assumere il paracetamolo se dobbiamo affrontare una situazione che richiede di essere emotivamente sensibile, ad esempio una conversazione seria con un partner o un collega”. Lo studioso precisa: “Uno dei motivi per cui i farmaci possono avere un tale peso psicologico è che il corpo non è solo un contenitore di organi separati, sensibili a specifiche sostanze chimiche, ma è una rete, in cui sono collegati molti processi diversi”.
Iperattività e nevrosi. I farmaci anti asma sono associati all’iperattività, qui, e gli antidepressivi pare riducano, oltre alla depressione, anche gli stati ansioso-nevrotici. Ma quest’ultima conseguenza è un’arma a doppio taglio. Avverte lo psichiatra Peter Kramer “che quando alcune persone assumono antidepressivi, ciò che può accadere è che inizino a non interessarsi delle cose a cui la gente tiene. Perciò i pazienti dovrebbero essere avvisati degli effetti sul comportamenti come li si avverte di una conseguenza fisica”.
Effetti della medicalizzazione di massa. Negli Stati Uniti si consumano 49.000 tonnellate di paracetamolo all’anno (equivalgono a 298 compresse a persona!) . In Gran Bretagna un over 65enne su dieci ingerisce in media otto farmaci a settimana. Cliccate qui. Con l’invecchiamento della popolazione mondiale il bisogno (spesso indotto) di farmaci è destinato ad aumentare. Gli studiosi si stanno domandando se la medicalizzazione di massa abbia degli effetti anche sui cambiamenti della società. L‘antropologia farmaceutica indaga proprio come “i farmaci influenzino il nostro modo di intendere la salute, la natura e l’identità”. Emerge una nuova percezione tra lo stato di salute e di malattia (ad esempio tendenza a trattare la pre-malattia o lo stato di rischio) e tra ciò che è naturale e ciò che è artificiale.
Tutto ciò si ripercuote sulle nostre visioni del mondo, sui valori. Vi sono nuovi limiti che stabiliscono ciò che è eticamente accettabile (si pensi ai trapianti, all’uso delle staminali embrionali, fetali o adulte, al fine vita e ai cambiamenti di sesso) . In altre parole, siccome è possibile allora deve andar bene per forza...Non solo. Cambiano le nozioni di integrazione ed esclusione (si pensi alla negazione del diritto allo studio ai bambini non vaccinati). L’autrice della ricerca considera il ruolo che i prodotti farmaceutici svolgono nel creare un’identità tecnico scientifica modellata sull’assunzione di farmaci come qualcosa da abbracciare o rifiutare (posizioni ideologiche).E poi quella riflessione sui tentativi di estendere i limiti del corpo, pensando di averne il controllo. Ecco i prodotti che eliminano le mestruazioni e il sonno, ed ecco i novelli cantori pronti a esaltarne i vantaggi. Già, prodotti e cantori: chissà se fabbricati con la stessa ricetta…
Maria Giovanna Faiella per corriere.it il 23 gennaio 2020. Sonnolenza, vista offuscata, vertigini. Al volante, si sa, occorrono concentrazione, lucidità, prontezza di riflessi se capita un imprevisto sulla strada. Se assumiamo delle medicine, può essere rischioso guidare? Sulla questione fa chiarezza l’organismo americano preposto alla regolamentazione di prodotti alimentari e farmaceutici, Food and Drug Administration (Fda): «Sebbene la maggior parte dei farmaci non influisca sulla capacità di guidare, alcuni medicinali con obbligo di prescrizione o da banco (quelli che si comprano in farmacia senza ricetta) possono avere effetti collaterali e provocare reazioni che rendono pericoloso condurre un mezzo di trasporto, tra le quali sonnolenza, vista offuscata, vertigini, movimenti a rilento, nausea, difficoltà a mantenere l’attenzione o a mettere a fuoco, svenimenti, eccitabilità». Di seguito, i prodotti più comuni che richiedono maggiori cautele alla guida e i consigli su cosa fare se li assumiamo, con la consulenza delle farmacologhe Luigia Trabace e Alessandra Bitto della Società italiana di farmacologia.
l foglietto illustrativo. Nessun allarmismo, ma neanche sottovalutazione del potenziale rischio di incidenti stradali dovuti all’uso di alcuni medicinali. «Occorrerebbe una maggiore attenzione anche da parte delle istituzioni - premette Luigia Trabace, professore ordinario di Farmacologia all’Università di Foggia -. Ci sono farmaci che possono interferire negativamente sia con le funzioni motorie sia cerebrali, con importanti ricadute sulla concentrazione e sui riflessi e, di conseguenza, sulla capacità di guida». Che cosa fare per viaggiare «in sicurezza» per sé e gli altri? «Il foglietto illustrativo allegato a ogni confezione dei medicinali riporta gli eventuali effetti sulla guida e va letto attentamente prima di mettersi al volante» sottolinea Trabace. In caso di dubbi, chiedete sempre al medico o al farmacista.
Gli oppioidi. I farmaci oppioidi, impiegati per il trattamento del dolore (non solo oncologico) e prescritti dal medico, anche di famiglia, sulla ricetta rossa del Servizio sanitario, potrebbero provocare sonnolenza e alterazioni della percezione della realtà. «Appartengono alla categoria delle sostanze psicotrope (o psicoattive) - spiega Trabace -. Benché il trattamento del dolore cronico con oppioidi non possa di per sé escludere l’idoneità alla guida, la normativa italiana non fa distinzione tra chi li utilizza a scopo terapeutico e chi invece ne abusa per uso voluttuario, per cui, nel corso di un controllo di routine della polizia stradale, chi viene trovato alla guida positivo al test per sostanze psicoattive, usate per qualunque scopo, viene sottoposto alle stesse sanzioni». È l’articolo 187 del Codice della strada a stabilire che «è vietato guidare in condizioni di alterazione fisica e psichica correlata con l’uso di sostanze stupefacenti o psicotrope».
Gli ansiolitici. Anche gli ansiolitici che appartengono alla famiglia delle benzodiazepine (diazepam, lorazepam, ecc.) rientrano tra le sostanze psicotrope dispensate solo con ricetta medica. «Sono utilizzati per il controllo dell’ansia e anche per combattere l’insonnia - spiega Trabace -. Possono indurre sedazione e sonnolenza, alterando così la capacità di guida e aumentando il rischio di provocare incidenti stradali. L’effetto sedativo può dipendere da alcuni fattori, quali: dose, età, durata del farmaco in circolo, interazioni con altri farmaci, consumo di alcol che, anche in piccole quantità, può avere effetti accentuati se associato all’uso di ansiolitici». Deve fare attenzione alla guida anche chi fa alcuni esami diagnostici. «Per esempio - sottolinea Bitto - chi si sottopone a una sedazione, sia pure blanda, per fare colonscopia o gastroscopia, deve attendere almeno un paio d’ore prima di guidare, così come chi fa la risonanza magnetica con mezzo di contrasto».
Farmaci per l’insonnia. Alcuni medicinali per l’insonnia, usati da chi ha difficoltà ad addormentarsi o non riesce a dormire, potrebbero rendere meno vigili anche la mattina dopo, quindi bisogna fare particolare attenzione alla guida. Un ingrediente comune in un farmaco per il sonno ampiamente prescritto è lo zolpidem, che appartiene a una classe di medicinali chiamati sedativi-ipnotici. La Fda ha evidenziato che i medicinali contenenti zolpidem, in particolare le forme di rilascio prolungato, possono compromettere la capacità di guida e altre attività anche la mattina successiva. I preparati a base di zolpidem a rilascio immediato e prolungato sono venduti come farmaci da banco. Non bisogna dare per scontato, raccomandano gli esperti della Fda, che i farmaci per l’insonnia, senza prescrizione medica, siano più sicuri. Chi assume questi medicinali e deve guidare, può chiedere al proprio medico di rimodulare il dosaggio per prendere la dose minima efficace.
· Le Malattie neurodegenerative.
Nicla Panciera per "La Stampa" il 10 giugno 2020. Il coronavirus ha fatto registrare una riduzione nell'inquinamento dell'aria, stimata fino al 17% in aprile, secondo un lavoro su «Nature Climate Change» che ha analizzato i dati di 69 nazioni, un campione del 97% delle emissioni globali e dell'85% della popolazione mondiale. In Italia il calo massimo delle emissioni è stato del 27,7%. Il Crea, Centre for Research on Energy and Clean Air, però avverte: l'«effetto rimbalzo» è già in atto nelle città cinesi, dove con la ripartenza il particolato fine, gli ossidi di azoto e l'anidride solforosa hanno superato i livelli dello stesso periodo del 2019. La qualità dell'aria è una questione prioritaria per la salute. Vivere in un ambiente in cui lo sforamento dei limiti è la regola non fa bene: a tornare sul tema sono due allarmanti studi apparsi su «Jama Neurology» e su «Neurology». Il primo, un lavoro del Karolinska di Stoccolma, conferma il legame diretto tra inquinamento e salute cerebrovascolare: l'esposizione allo smog aumenta il rischio di sviluppare demenza. Il team di ricercatori ha seguito per un massimo di 11 anni 3 mila adulti con un'età media di 74 anni, nel cuore di Stoccolma, dove il livello medio annuo di particolato di Pm2,5 è ben al di sotto del limite in Europa e negli Usa. Eppure sono emersi effetti dannosi sulla salute: il rischio di demenza aumenta del 50% per un aumento di 0,88 microgrammi al metro cubo della concentrazione di Pm2.5 e del 14% per un incremento di 8,35 microgrammi al metro cubo della concentrazione di ossidi di azoto. Emerge, inoltre, che l'effetto dell'inquinamento sulle capacità cognitive è mediato dagli effetti vascolari: quasi il 50% dei casi di demenza da inquinamento era dovuto a ictus. Il legame tra l'inquinamento atmosferico e le malattie neurovascolari e neurodegenerative è stato al centro dell'ultimo congresso mondiale di neurologia lo scorso ottobre a Dubai. Le sostanze inquinanti sono neurotossiche, danneggiano cioè il cervello, e lo fanno più di quanto non si credesse all'inizio e sono associate alla comparsa, anche nei giovanissimi, di danni cerebrali e di una maggiore incidenza di declino cognitivo e neurodegenerazione, Alzheimer incluso. Le minuscole particelle di particolato, inalate, penetrano in profondità e dai polmoni passano nel sangue, devastando l'organismo. «Neppure il cervello è protetto dagli inquinanti più piccoli, che sono in grado di attraversare la barriera ematoencefalica, i cui meccanismi di protezione vengono alterati. A questo si aggiunge l'accesso delle particelle al cervello attraverso il bulbo olfattivo», spiega Stefano Cappa, professore di neurologia dello Iuss e responsabile del Dementia Clinical Research Center dell'Irccs Mondino di Pavia. Il secondo lavoro, apparso su «Neurology», la rivista dei neurologi americani, ha confrontato gruppi distinti di residenti nell'area Nord di Manhattan e nei quartieri di Inwood e Washington Heights per oltre 6 mila persone, monitorate con test di valutazione neuropsicologica, risonanza magnetica ed esami di laboratorio per un massimo di sette anni. Sono emersi un maggiore deterioramento cognitivo e un più rapido declino in funzione dell'esposizione all'aria di cattiva qualità, al netto di altri fattori di rischio come quelli sociodemografici. Sono risultati che, per la prima autrice del lavoro, Erin Kulick della Brown University School of Public Health, «sollevano la questione se i limiti imposti per legge siano sufficientemente bassi da proteggere la salute delle persone». La quasi totalità della popolazione urbana europea, nove cittadini su 10, è infatti esposta a concentrazioni di polveri fini superiori ai valori stabiliti dall'Oms e, secondo l'Agenzia Europea per l'Ambiente, l'Italia è la peggiore d'Europa con 76 mila morti premature correlate all'inquinamento atmosferico da Pm2.5, ozono e biossido di azoto. E ora c'è il sospetto che l'aria avvelenata, oltre a causare cancro e malattie polmonari e cardiache, abbia a che fare con la crescita delle demenze, definita, quest' ultima, dall'Oms «un'epidemia». Dati simili sono apparsi sul «British Medical Journal», su «Lancet» e su «Brain». Stiamo assistendo - ha detto Caleb Finch, gerontologo della University of Southern California - «alla nascita di un settore del tutto nuovo. E' come la ricerca su tabacco e cancro 70 anni fa». Dice Cappa: «Analisi post-mortem sui cervelli di animali e uomini a Città del Messico hanno rivelato un eccesso di placche e di ammassi neurofibrillari nei cervelli anche molto giovani. Tra le ipotesi attualmente allo studio sui meccanismi in grado di spiegare questi effetti c'è la componente di danno vascolare, molto studiata e che si accompagna alla neurodegenerazione, favorendola; c'è l'infiammazione, dovuta sia all'attivazione cronica della microglia, le cellule immunitarie del cervello, sia all'accelerata deposizione di proteine neurotossiche, marcatori neuropatologici dell'Alzheimer. Abbinando questi robusti dati neuropatologici alle evidenze epidemiologiche, è chiaro che l'inquinamento va considerato un fattore di rischio per l'Alzheimer e in una situazione in cui non si vedono progressi rilevanti nella ricerca di una cura è urgente agire su questi fattori».
· La resistenza agli antibiotici.
Milena Gabanelli e Simona Ravizza per “Dataroom – Corriere della Sera” il 16 giugno 2020. Le infezioni non ci hanno mai preoccupato troppo, perché c'era sempre un antibiotico che le curava. Poi l'industria farmaceutica ha fermato la ricerca perché costava troppo: dall'elaborazione di una nuova molecola alla sperimentazione sull'uomo ci vogliono dieci anni e 1 miliardo di euro, con un ritorno di uno a 100 rispetto ad altri farmaci. Dal 2017 a oggi sono stati approvati solo due nuovi antibiotici considerati innovativi. Parallelamente sono cresciute in tutto il mondo le infezioni che gli antibiotici in uso non riescono più a curare. E in Europa l'Italia è il Paese messo peggio. L'Escherichiacoli, che è la causa più comune di infezione della vescica nelle donne, è resistente all'antibiotico nel 14,6% dei casi contro il 5,3% Ue; la Klebsiella pneumoniae , responsabile di polmoniti e infezioni alle vie urinarie, nel 29,7% contro il 18,6% Ue; e lo Staphylococcus aureus , causa di infezioni cutanee, ma che può spostarsi attraverso il sangue (batteriemia) e infettare qualunque parte del corpo, nel 34,1% conto il 16,8% Ue. È quella che tecnicamente viene definita antibiotico-resistenza. Le cause principali sono la somma di tre fattori: 1) ne assumiamo troppi, anche autoprescritti e in modo non appropriato, 2) vengono somministrati in quantità eccessiva negli ospedali a causa di una alta diffusione delle infezioni, 3) l'utilizzo su larga scala negli allevamenti intensivi, e i cui residui entrano nella catena alimentare. Il consumo umano in Italia è di 21,4 dosi al giorno per 1.000 abitanti, contro una media Ue di 20,1. Il 75% viene acquistato in farmacia su prescrizione dei medici di base e dei pediatri. Il 9% è utilizzato negli ospedali. Il 16% è acquistato privatamente, e nel 30% dei casi è inutile (e quindi dannoso), soprattutto per le infezioni acute delle vie respiratorie, dove 8 volte su 10 sono di origine virale, e per le cistiti, per le quali gli antibiotici andrebbero impiegati solo quando il trattamento di prima linea dovesse risultare inefficace. L'uso più elevato avviene dopo i 75 anni, ma anche nei bambini. Il 40,8% della popolazione pediatrica (0-13 anni) riceve almeno una prescrizione per 2,6 confezioni in media. Nel primo anno di vita nel 2018 è stato raccomandato un antibiotico a un bambino su due. Per quel che riguarda gli ospedali, dal rapporto Esvac emerge che il consumo per uso sistemico (2,4 dosi giornaliere per 1.000 abitanti) è tra i più alti di tutti gli Stati membri. L'8% dei pazienti contraggono un'infezione durante il ricovero, cioè 500 mila ogni anno. Quelle più comuni: respiratorie 24%, batteriemie 18%, urinarie 18%, da ferita chirurgica 14%. Peggio di noi c'è solo l'Islanda. Le cause sono dovute ad una scarsa formazione del personale sanitario, e al non adeguato rispetto dei protocolli d'igiene. Negli ospedali ci si contagia anche con i batteri portati da altri pazienti e che vengono diffusi da medici e infermieri passando di fretta da una stanza all'altra senza lavarsi le mani. Il livello di igiene è misurabile attraverso il consumo di disinfettante: in Italia la media è di 15 ml per paziente al giorno, la mediana 9. Il minimo raccomandato dall'Oms è di 20 ml. Risultato: infezioni ospedaliere da germi multiresistenti in Europa ogni anno: 670.000 malati con 33 mila decessi; in Italia: 200.000 malati con 10 mila morti. Contribuisce allo sviluppo di batteri resistenti anche tutto quello che entra nella catena alimentare attraverso l'utilizzo massiccio di antibiotici negli allevamenti intensivi. Per avere un'idea: l'Italia acquista ogni anno circa 1.500 tonnellate di principio attivo antimicrobico, 500 sono per uso umano, e 1.067 per uso zootecnico, di cui il 60% è destinato agli allevamenti dei suini. Non se la passano meglio i conigli: 2,5 mg di antibiotico ogni chilo di carne. Eppure siamo migliorati. Dopo dieci anni di pressioni da parte dell'Europa siamo passati dal primo posto per mg venduti per animale, al secondo; ora in testa alla classifica c'è Cipro. I dati sono contenuti nell'ultimo rapporto dell'Agenzia Europea del Farmaco: le quantità in Italia superano di 4 volte la Francia e più di 3 la Germania. Negli ultimi due anni la situazione è migliorata nel pollame perché gli allevatori sono passati alla vaccinazione preventiva, ma quando la crescita non è considerata sufficiente si procede sempre a suon di antibiotici. Per tracciare i farmaci usati per ogni singolo animale (bovini, suini, ovini, polli, tacchini, conigli) da aprile 2019 è obbligatoria la ricetta elettronica. Una strada corretta per ridurne l'uso, ma dopo un anno dall'entrata in vigore del decreto a che punto siamo? Il Ministero della Salute i dati non ce li ha forniti. I veterinari di diverse regioni dicono che troppi allevatori sfuggono ai controlli perché c'è ancora un mercato nero, ma soprattutto acquistano online. L'attività dei Nas negli ultimi 2 anni, su 8.000 verifiche, ha riscontrato 2.500 attività illecite e il sequestro di 24.341 confezioni non regolari di antibiotici, vaccini, cortisonici. Come nell'uomo, anche negli animali quando vengono somministrati troppi antibiotici, si sviluppano batteri resistenti che possono rimanere sulla carne cruda ed essere trasmessi all'uomo se non ci si lava le mani dopo averla toccata per metterla in padella. Le tracce restano nei liquami, che finiscono nell'ambiente, rendendo a loro volta resistenti i germi del terreno su cui cresce il foraggio di cui poi si nutre l'animale; oltre a contaminare la verdura che finisce nel piatto. Motivo per cui è fondamentale lavarla bene. Per contrastare l'antibiotico resistenza nel 2017 è stato attivato un Piano nazionale (Pncar). Le indicazioni: 1) assunzione di antibiotici dopo prescrizione, con dosaggio e tempi corretti. 2) Rigidi controlli negli allevamenti sul corretto utilizzo. 3) Studio di nuove molecole. 4) Screening per batteri multiresistenti ai pazienti critici al momento dell'ammissione in ospedale. Spendendo 1 milione di euro in test diagnostici si stima un risparmio in cure per 1 miliardo di euro. Ebbene, l'applicazione del Piano è partita a fine 2019, ma è subito rimasta bloccata per il Covid-19. Converrà riprenderla in fretta, anche perché l'ultimo rapporto dell'Oms parla chiaro: in 22 paesi 700.000 morti nel 2018, e prospetta, in assenza di interventi, 10 milioni di morti entro il 2050. Per cambiare passo bisognerà maturare una consapevolezza su quel che alla fine è più conveniente per tutti. Finché sarà consentito l'allevamento intensivo, l'uso massiccio di antibiotici continuerà ad essere inevitabile. Nel biologico invece gli animali vivono in condizioni di migliore benessere e quindi non hanno bisogno di tanti farmaci. Ma è possibile estendere il modello su larga scala solo se siamo disponibili a mangiare meno carne, e a pagarla un po' di più. Se negli ospedali un infermiere ha in carico troppi letti a cui badare, sarà difficile che riesca anche a seguire sempre i protocolli. Infine: rinunciare all'uso del bazooka, almeno là dove per uccidere un germe basterebbe la fionda.
700 mila morti l’anno per resistenza agli antibiotici. Pubblicato sabato, 18 gennaio 2020 su Corriere.it da Francesco de Augustinis. Le cause: ne usiamo troppi negli ospedali e negli allevamenti. L’Italia ancora fanalino di coda (nonostante i passi avanti). Ogni anno nel mondo muoiono 700 mila persone per infezioni batteriche che gli antibiotici non riescono più a curare, a causa dell’antibiotico resistenza. In Europa il conteggio più recente parla di 33mila morti l’anno. L’Italia è maglia nera, con un bilancio di 10 mila decessi l’anno direttamente collegati alla perdita di efficacia di questi farmaci. «Abbiamo un profilo del tipo di paziente che ha queste infezioni antibiotico resistenti», afferma Annalisa Pantosti, responsabile del programma contro l’antibiotico resistenza all’Istituto superiore di sanità. «Sono pazienti in genere anziani, perché all’interno degli ospedali la popolazione più rappresentata è tra i 65 e gli 85 anni». Gli ospedali sono uno dei principali luoghi dove si trasmettono infezioni batteriche, che colpiscono in particolare persone anziane o affette da altre patologie: «Chiaramente la terapia intensiva è il reparto dove ci sono più casi, seguita però dalla medicina e dalla chirurgia», riferisce Pantosti. «Anche reparti più generali hanno un numero sostanziale di casi». Il problema della perdita di efficacia di antibiotici è direttamente collegato all’eccessivo utilizzo di questi farmaci negli ospedali, tra i medici di base, in ambito zootecnico. Un utilizzo diffuso, che genera batteri resistenti, che poi vengono «trasportati» attraverso l’ambiente, le persone o persino il cibo. «C’è una carenza di informazioni», afferma Dominique Monnet, responsabile del programma sull’antibiotico resistenza per il Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie infettive (Ecdc). «Ad esempio quando i pazienti prendono antibiotici, questi pazienti saranno a rischio infezioni da batteri resistenti nel futuro. Oppure, anche una persona sana può essere portatrice di batteri resistenti». Nelle scorse settimane l’Ecdc ha pubblicato un report aggiornato sui dati di consumo degli antibiotici e sull’andamento delle resistenze in Europa. Dopo anni di notizie negative, il report contiene segnali positivi di riduzione delle resistenze in diversi Paesi, che dimostrano l’impatto delle strategie adottate dai vari Paesi europei, tra cui l’Italia: «Il tasso di consumo di antibiotici in Italia è alto rispetto ad altri Paesi», afferma Monnet. «Ma abbiamo mostrato che negli ultimi anni c’è stato un calo. Quando le persone sono consapevoli, non chiedono, non usano e non prescrivono farmaci antibiotici in situazioni in cui non sono necessari». Segnali positivi di riduzione dell’eccessivo utilizzo di antibiotici arrivano anche dal settore zootecnico in Italia, che però è ancora ai primissimi posti in Europa per l’utilizzo di questi farmaci. «Dobbiamo renderci conto che la nostra situazione richiede un esame approfondito», ha detto Giancarlo Belluzzi, medico veterinario, all’ultima edizione della Giornata della suinicoltura a Cremona, proprio dedicata alla questione della resistenza agli antibiotici. «I dati che sono stati pubblicati ultimamente (Esvac, ndr) ci mettono in una luce non proprio di rispetto su questo tema. Siamo i secondi nella classifica di utilizzatori di queste molecole in Europa, prima di noi c’è soltanto Cipro, dopo di noi c’è la Spagna». Proprio gli allevamenti di suini sono uno dei principali responsabili dell’uso di antibiotici in ambito zootecnico in Italia, in particolare per «trattamenti di massa», somministrati a interi gruppi di animali tramite i mangimi medicati. «In Europa in media un suino riceve antibiotici per 18 giorni, su un’aspettativa di vita media di 200 giorni», afferma Jeoren Dewulf, ricercatore dell’Università di Ghent, in Belgio. «Significa che in media durante il 9 per cento della vita del suino, l’animale riceve antibiotici. Se lo rapportiamo a un uomo, significherebbe che ognuno di noi prende antibiotici per un mese intero ogni anno». L’uso di antibiotici è concentrato nelle prime settimane di vita dei suinetti: «L’utilizzo è prevalentemente nelle prime fasi di vita dell’animale, il che dimostra un uso strategico, preventivo degli antibiotici», continua Dewulf. «Non è la cura a una patologia, ma è l’uso di antibiotici per prevenire l’insorgenza delle malattie». «Qualcuno potrebbe dire che non ci sono problemi per la salute umana, perché non ci sono antibiotici nel periodo vicino alla macellazione», conclude il ricercatore. «Ma è del tutto falso. Questo uso nella fase iniziale è molto efficace nel selezionare batteri resistenti. Poi possono scomparire i residui degli antibiotici, ma i batteri resistenti rimangono nell’animale fino al momento della macellazione».
· Tumore: scoprirlo in anticipo.
Da ansa.it il 22 luglio 2020. Una tecnica basata sull'analisi del sangue riconosce cinque forme di tumore comuni con un anticipo di quattro anni rispetto alle tecniche tradizionali. Lo indica la ricerca internazionale pubblicata su Nature Communications e coordinata dall'Università della California a San Diego. La tecnica, chiamata PanSeer, riconosce precocemente nel 91% dei casi, i tumori di stomaco, esofago, colon retto, polmoni e fegato in persone senza sintomi, e in futuro potrebbe entrare nella routine delle analisi di controllo. Coordinata da Kun Zhang, dell’Università della California a San Diego, il test promette di avere importanti ricadute sulla sopravvivenza dei malati di tumore grazie alla diagnosi molto precoce, che permette di intervenire con farmaci o con la chirurgia quando il tumore è gli inizi della sua formazione. Non si tratta certamente, rilevano i ricercatori, di “indovinare” se una persona si ammalerà: quelli che il test va a cercare sono i segnali, estremamente precoci, di un cambiamento in atto nel modo in cui si replica il Dna. La tecnica va infatti a cercare nel sangue le firme della metilazione, ossia del processo che in condizioni normali accompagna la replicazione del Dna, ma che in presenza di tumori può subire delle alterazioni. La tecnica è stata messa alla prova su 605 individui asintomatici, a 191 dei quali in seguito è stato diagnosticato un tumore. A questi test si sono aggiunti quelli condotti su 223 persone con tumore e su 200 tessuti tumorali. Il risultato è stato incoraggiante perché ha dimostrato di poter fare una diagnosi per cinque forme diffuse di tumore.
Tumore, come scoprirlo con quattro anni di anticipo: PanSeer, la tecnica che può cambiare la storia. Libero Quotidiano il 22 luglio 2020. Con le analisi del sangue un tumore si potrà scoprire con un anticipo di quattro anni rispetto alle tecniche tradizionali. Passi avanti nella ricerca tumorale, la scoperta è dell'Università della California di San Diego, lo studio è stato pubblicato su Nature communications. La tecnica, chiamata PanSeer, messa a punto da team del professor coordinata da Kun Zhang, riconosce precocemente nel 91% dei casi, al momento riconosce cinque tipi di cancro: i tumori di stomaco, esofago, colon retto, polmoni e fegato in persone senza sintomi. La tecnica potrebbe entrare nella routine delle analisi di controllo e promette di avere importanti ricadute sulla sopravvivenza dei malati di tumore, grazie alla diagnosi molto precoce. In questo modo diventa possibile intervenire con farmaci o con la chirurgia quando il tumore è nei primissimi stadi della sua formazione. Non è una tecnica per dire se una persona si ammalerà o meno i ricercatori spiegano che "quelli che il test va a cercare sono i segnali, estremamente precoci, di un cambiamento in atto nel modo in cui si replica il Dna. Identifica cioè nel sangue le firme della metilazione, il processo che in condizioni normali accompagna la replicazione del Dna, ma che in presenza di tumori può subire delle alterazioni". Le analisi sono state testate su 605 individui asintomatici, a 191 dei quali in seguito è stato diagnosticato un tumore. A questi test si sono aggiunti quelli condotti su 223 persone con tumore e su 200 tessuti tumorali. Il risultato è stato incoraggiante perché ha dimostrato di poter fare una diagnosi per cinque forme diffuse di tumore. "L'obiettivo ultimo", ha rilevano Zhang, "è fare in modo che simili analisi del sangue diventino parte di quelle fatte di ogni anno per un checkup completo". A breve termine, invece, il test potrà essere utilizzato per controllare chi è più a rischio di sviluppare il tumore per la sua storia familiare, per l'età o per l'esposizione ad altri fattori.
· L'anemia.
Luspatercept, la nuova molecola contro l'anemia. Luspatercept ha dimostrato di ridurre il numero di trasfusioni necessarie dei pazienti colpiti da sindromi mielodisplastiche e beta-talassemia con un impatto significativo sul decorso clinico e sulla qualità di vita. Luca Romano, Martedì 27/10/2020 su Il Giornale. Una nuova molecola capace di emancipare dal continuo bisogno di trasfusioni di sangue i pazienti colpiti da sindromi mielodisplastiche e beta-talassemia. La rivoluzione terapeutica che si sta delineando coincide con luspatercept, prodotto da Celgene ora parte di Bristol Myers Squibb, e già approvata dall' Agenzia Europea del Farmaco (EMA) in Europa sulla base di due studi pubblicati sul New England Journal of Medicine. Il farmaco, disponibile in tempi brevi, ha dimostrato di ridurre il numero di trasfusioni necessarie, con un impatto significativo sul decorso clinico e sulla qualità di vita. Anche perché l'anemia grave, spesso presente tanto nelle sindromi mielodisplastiche che nella beta-talassemia, costringe i pazienti da un lato a frequenti sedute in ospedale a causa del fabbisogno di globuli rossi, e dall'altro ad assumere quotidianamente una terapia ferrochelante per scongiurare che il ferro in eccesso possa danneggiare organi come cuore, fegato e pancreas.
Le sindromi mielodisplastiche e la beta-talassemia. Per meglio capire gli effetti di luspatercept è necessario spiegare prima che cosa si intende per sindromi mielodisplastiche e beta-talassemia. Le sindromi mielodisplastiche sono un gruppo eterogeneo di tumori del sangue, in cui le cellule del midollo osseo non riescono a diventare cellule perfettamente funzionanti e sane ma si fermano a uno stadio immaturo. "Sono definite malattie clonali perché il loro sviluppo è dovuto ad una singola cellula che, sfuggendo ai meccanismi di controllo, si moltiplica, dando origine a cellule alterate nella forma e nella funzionalità. I sintomi e il decorso variano in modo significativo in base al tipo di cellula ematica colpita", ha spiegato Valeria Santini, Professore di Ematologia all’Università di Firenze e Responsabile MDS Unit dell’Azienda Ospedaliero Universitaria Careggi di Firenze. Nei casi più gravi tali sindromi possono evolversi in leucemia mieloide acuta. Certo è che il loro minimo comun denominatore è provocare l'insufficienza midollare nei pazienti affetti, che a sua volta impedisce alle cellule del midollo di giungere a una maturazione completa. Le sindromi mielodisplastiche colpiscono per lo più persone anziane, con un'età media di 74 anni. Si stimano circa 4-5 persone colpite ogni 100mila abitanti. "Anche la beta-talassemia costringe i malati a sottoporsi a trasfusioni di sangue ogni 2-3 settimane per tutta la vita e ad assumere ogni giorno una terapia ferrochelante, per evitare i danni causati dall’accumulo di ferro a organi vitali",ha sottolineato la Prof.ssa Maria Domenica Cappellini, Ordinario di Medicina Interna all’Università degli Studi di Milano. In Italia si stimano circa 7mila giovani adulti malati, di cui 5mila circa definiti trasfusioni dipendenti e 2mila non trasfusioni dipendenti.
Il ruolo della molecola luspatercept. Qui entra in gioco il ruolo di luspatercept, una molecola che ha la potenzialità per cambiare la storia della due malattie citate, riducendo la necessità delle continue trasfusioni. "Consiste in un farmaco iniettabile sottocute ogni 21 giorni, che il paziente in futuro potrà eseguire a casa", ha aggiunto la professoressa Capellini. Luspatercept riduce l’eritropoiesi inefficace – ovvero la causa principale delle manifestazioni cliniche della talassemia – e consente la produzione di globuli rossi maturi. Può essere inoltre somministrato potenzialmente a tutti i pazienti colpiti da beta-talassemia, a differenza di altre opzioni disponibili come il trapianto di midollo, unica terapia che può condurre alla guarigione ma con il limite della disponibilità di un donatore compatibile, o della terapia genica, ancora da consolidare. "Anche nelle sindromi mielodisplastiche – ha concluso la prof.ssa Santini – l’unica terapia definitiva è il trapianto di cellule staminali, praticabile solo in un numero limitato di casi e nei pazienti più giovani, al di sotto dei 70 anni". Nelle forme a più basso rischio, la linea cellulare più colpita è quella dei globuli rossi, con grave anemia che causa sintomi debilitanti. La terapia, in questi casi, è costituita dai fattori di crescita dei globuli rossi come l’eritropoietina, dalle trasfusioni di sangue e dalla terapia ferrochelante. Solo in alcuni pazienti giovani con caratteristiche particolari di malattia e in buone condizioni generali è indicata la terapia immunosoppressiva per abbassare la risposta immunitaria. Luspatercept promette invece di aprire nuove prospettive, con l'intenzione di migliorare la qualità di vita dei pazienti.
· Tumore allo stomaco.
Tumore allo stomaco, quali sono i sintomi? Ad esserne maggiormente colpiti sono i soggetti con un'età superiore ai 70 anni. Maria Girardi, Venerdì 15/05/2020 su Il Giornale. È la quinta neoplasia in ordine di incidenza tra gli uomini e la sesta tra le donne. La quasi totalità dei casi viene attribuita a soggetti con un'età superiore ai 70 anni. Il tumore allo stomaco è una forma cancerosa che si sviluppa a partire da una cellula impazzita dello stesso. Lo stomaco è l'organo dell'apparato digerente entro cui si raccolgono gli alimenti ingeriti e dove avviene la digestione delle proteine e dei carboidrati. Lungo circa 25 centimetri e protetto dal peritoneo, esso risiede tra l'esofago e l'intestino tenue. A separarlo dal primo, una valvola chiamata cardias. A separarlo dal secondo, invece, un'altra valvola conosciuta come sfintere pilorico. Questa tipologia di cancro, a differenza di quello al pancreas, può colpire qualsiasi porzione dell'organo. Esistono diversi tipi di tumore allo stomaco. Il più diffuso (90% dei casi) è il cosiddetto adenocarcinoma gastrico che trae origine dalle cellule epiteliali della tonaca mucosa o dalle ghiandole interposte tra queste cellule epiteliali. Il restante 10% dei casi comprende altre forme: linfoma gastrico, tumore stromale gastrointestinale, leimiosarcoma e carcinoide gastrico. Non si conoscono ancora le cause del tumore allo stomaco. Esitono, tuttavia, alcuni fattori di rischio in grado di influenzare la sua comparsa. Tra questi i primi sono sicuramente quelli ereditari. Vi sono, infatti, alcune patologie geneticamente determinate connesse allo sviluppo della neoplasia. La più famosa è il tumore gastrico diffuso ereditario che si caratterizza per una mutazione a carico del gene CDH1. Non meno nota è la sindrome di Lynch di tipo II. Da tenere d'occhio anche i fattori di rischio nutrizionali. È pericolosa una dieta caratterizzata da un consumo eccessivo di: alimenti affumicati, fritti, di origine animale, conservati all'interno di buste di plastica, contaminati da aflatossine, ricchi di nitriti, molecole carbonizzate, margarine e oli di origine tropicale. Da non sottovalutare, poi, l'appartenenza al gruppo sanguigno A, i polipi gastrici, l'anemia perniciosa, l'obesità o il sovrappeso, l'abuso di alcol. Ancora il fumo di sigaretta, l'infezione da Helicobacter Pylori, l'ulcera gastrica e la gastrite atrofica autoimmune. La sintomatologia del tumore allo stomaco si palesa solo dopo una prima fase asintomatica o caratterizzata da manifestazioni cliniche aspecifiche. Agli esordi i sintomi sono di carattere digestivo e includono: dispepsia, bruciore di stomaco, sensazione di fastidio e di pienezza in corrispondenza dell'epigastrio, episodi di indigestione. Ancora rigurgiti, nausea, vomito, alternanza di stipsi e diarrea, dolore epigastrico dopo i pasti. Talvolta a questi disturbi si associano segni di carattere generale quali: febbre, perdita di peso, anoressia, facile affaticamento. Mano a mano che il carcinoma progredisce, la sintomatologia diviene più ampia e comprende: edema, ematemesi, melena, algia dietro lo sterno e alla parte inferiore dell'addome, epatomegalia, ascite, anemia sideropenica e iperpigmentazione della cute.
· Il Tumore del Pancreas.
Tumore, parla l'oncologo Francesco Schittulli: "Quali cibi preferire per evitare la malattia". Libero Quotidiano il 25 Gennaio 2020. L'alimentazione è di vitale importanza. Parola dell'oncologo Francesco Schittulli che mette in allerta sulle malattie. "Consideriamo questo: il 35 per cento di tutte le patologie oncologiche è addebitabile a una errata alimentazione, cioè una alimentazione scorretta comporta il rischio di sviluppare il 35 per cento di tutti i tipi di cancro, perché non riguardano soltanto i tumori gastro-intestinali, i tumori dell'apparato digerente", interviene l'esperto a PoliticaPresse. Per Schittulli bisogna adeguarsi a una alimentazione ricca di frutta, di verdura, nonché di fibre e di legumi. Cercare di evitare dunque grassi. Non solo, perché non si può dimenticare l'attività fisica. Consiglio dei consigli: "Sarebbe bene alzarsi da tavola sempre con un po' di appetito", ha precisato il professore, aggiungendo: "Chi nascerà tra trent'anni avrà un'aspettativa di vita di oltre 110 anni".
È il tumore del pancreas. Marta Musso per “Salute - la Repubblica” il 14 gennaio 2020. Talmente aggressivo e insidioso, che quasi non dà via di scampo. È il tumore del pancreas, una patologia che secondo le stime uccide 95 mila persone l' anno solo in Europa. E il numero, purtroppo, sembra destinato ad aumentare: la forma più comune, l' adenocarcinoma pancreatico, è la quarta causa di morte per tumore e potrebbe diventare la seconda entro il 2030, visto che l' incidenza è in aumento e le novità terapeutiche continuano a latitare. A cinque anni dalla diagnosi sopravvive appena il 9% dei pazienti. Colpa anche di una diagnosi difficile, in quanto la malattia rimane asintomatica per lungo tempo e solo il 7% dei casi viene diagnosticato all' inizio. «Anche quando compaiono, i sintomi sono aspecifici e difficili da riconoscere. Parliamo di indizi - spiega l' oncologo Michele Reni, direttore del programma strategico di coordinamento clinico al Pancreas Center dell' Irccs Ospedale San Raffaele di Milano - come la comparsa del diabete da adulti, dolore allo stomaco simile alla gastrite, dolore dorsale, calo di peso non giustificato da diete o altri fattori. Sintomi comuni a molte altre patologie, che meriterebbero però accertamenti anche per un possibile tumore del pancreas». Gli esami in questo caso sono la tac del torace e dell' addome e l'ecoendoscopia, che devono essere effettuati in centri ad alta specializzazione. Test di screening al momento non ce ne sono e l' unica popolazione a rischio nota riguarda chi ha la mutazione Brca, che predispone anche al tumore al seno e alle ovaie. Sul versante delle opzioni terapeutiche non va meglio. Nonostante la rilevanza in termini di mortalità si tratta di una malattia "rara", con un' incidenza annua di 12 persone ogni centomila. Questo rallenta la ricerca e non aiuta ad attrarre l' interesse delle aziende farmaceutiche. «Il numero dei pazienti con tumore del pancreas non è sufficientemente ampio da suscitare un forte interesse da parte delle aziende. La maggior parte dei progressi sono stati infatti compiuti dalla ricerca accademica », dice Reni. Attualmente, sottolinea l'esperto, non ci sono grandi studi in corso in questo campo, probabilmente perché quelli svolti negli ultimi anni hanno dato risultati deludenti. A eccezione dell' ultimo progresso fatto con il farmaco sperimentale olaparib, destinato a un piccolo sottogruppo di pazienti (circa il 6%) che hanno una mutazione genetica ereditaria Brca, in questo momento ci si sta focalizzando su una migliore gestione della malattia. «L'unica cura che può ambire a guarire il paziente è l' intervento chirurgico in combinazione con terapie oncologie», dice Massimo Falconi, primario di Chirurgia del Pancreas e direttore del Pancreas Center all' Ircss Ospedale San Raffaele. Secondo Falconi per questa neoplasia sono necessari sia un approccio sia una competenza multidisciplinari. «I tumori del pancreas - osserva Reni - vengono seguiti un poco dappertutto ma queste malattie hanno molte complicazioni e richiedono competenze trasversali di diversi specialisti che non sono disponibili ovunque». Solo nel 20% dei casi il tumore del pancreas è asportabile con intervento chirurgico. «Sebbene la resezione chirurgica sia rilevante bisogna considerare che anche se il tumore apparentemente è in fase iniziale, in realtà più dell' 85% dei pazienti ha già disseminato cellule metastatiche nel corpo, spesso non visibili», dice Reni. Per questo, ci si sta orientando nel sottoporre i pazienti alla chemioterapia prima dell' intervento chirurgico per bersagliare le micrometastasi non visibili.
Valentina Arcovio per “la Stampa” il 21 gennaio 2020. Tumore del colon-retto e tumore del pancreas. Due killer diversi, ma entrambi diventati più comuni e pericolosi negli ultimi 30 anni.
Secondo il «Global Burden of Disease», il programma di ricerca epidemiologico che riunisce oltre 1800 studiosi di 127 nazioni, sia i tassi di mortalità legati al cancro al pancreas sia i tassi di incidenza del tumore al colon retto sono aumentati del 10% a livello globale nel periodo tra il 1990 e il 2017. Obesità, diabete e fumo sembrano essere le principali cause. Tutti fattori di rischio prevenibili che saranno al centro della prossima campagna «Le Arance della Salute», organizzata in tutta Italia dalla Fondazione Airc per la ricerca e la cura del cancro il prossimo 25 gennaio. La campagna sarà l' occasione per presentare al pubblico i progressi della ricerca che sta cercando di rendere i tumori sempre più curabili. Compresi quello al colon-retto e al pancreas, appunto. Per entrambi questi tumori le indagini targate Airc stanno aprendo una serie di promettenti strade, che un giorno - è la speranza che arriva dai laboratori - porteranno allo sviluppo di trattamenti più precisi e più efficaci. Fondamentale, ad esempio, è la creazione di nuovi modelli sui quali riprodurre i meccanismi dei tumori e testare, così, vecchi e nuovi farmaci. «La ricerca di una cura per il cancro passa di frequente attraverso lo studio sperimentale di aspetti della malattia che si possono riprodurre in cellule in coltura e in animali di laboratorio», conferma Sabrina Arena, ricercatrice dell' Istituto di Candiolo-Irccs e dell' Università di Torino. «Nei modelli sperimentali così ottenuti - aggiunge - è possibile individuare potenziali bersagli terapeutici e valutare nuovi trattamenti». La ricercatrice è una delle autrici di un lavoro che ha portato alla creazione di due tipi di modelli preclinici del tumore del colon-retto, descritti in uno studio pubblicato sulla rivista «Clinical Cancer Research». «Il primo modello è costituito dai cosiddetti PdX, topolini nei quali sono stati trapiantati tumori umani e considerati dei veri e propri avatar dei pazienti - sottolinea Arena - . Il secondo, invece, è rappresentato da gruppi di cellule in coltura, derivate dai tumori trapiantati nei topi». In particolare i ricercatori hanno dimostrato che le linee cellulari ottenute riproducono fedelmente le caratteristiche biomolecolari dei PdX e possono essere utilizzate per studi farmacologici e funzionali che sarebbero difficilmente praticabili nei topi. «Grazie ad un importante lavoro di squadra oggi abbiamo 29 tipi di avatar murini e 29 rispettive linee cellulari - spiega Arena -. Tutto questo ci ha permesso di creare una banca di modelli preclinici unica nel suo genere e l' abbiamo messa a disposizione della comunità scientifica internazionale per lo studio approfondito del tumore del colon-retto. Queste linee cellulari sono, infatti, rappresentative dei sottogruppi molecolari che caratterizzano il compendio genomico del tumore del colon-retto e possono essere d' aiuto per ipotizzare e poi valutare l' efficacia di trattamenti già in uso per altre malattie o, ancora, per poter effettuare uno screening su larga scala di nuove molecole al fine di identificare innovative strategie terapeutiche». Anche la ricerca di base sul cancro al pancreas appare piuttosto vivace. Dopo 30 anni di successi limitati, si è infatti compreso che per rendere questa forma di cancro più curabile bisogna comprendere meglio i meccanismi alla base dell' estrema eterogeneità delle cellule che la compongono. E' la missione sposata da Gioacchino Natoli, dell' Istituto Europeo di Oncologia, impegnato a caratterizzare i diversi tipi cellulari che compongono questo tipo di tumore. In uno studio condotto da Marta Milan, ricercatrice Airc, e i cui risultati sono stati pubblicati dalla rivista «Embo Journal», Natoli e il suo team hanno identificato una proteina, chiamata Foxa2, comune a tutti i tipi cellulari del tumore pancreatico, seppure con funzioni diverse. «Pur trovandosi in tutte le diverse popolazioni cellulari di questo tumore, Foxa2 svolge funzioni pro-tumorali diverse in ogni popolazione cellulare, alleandosi con differenti partner», spiega Natoli. Si tratta di un piccolo tassello nella comprensione di uno dei tumori più difficili da sconfiggere, ma importante. «Comprendere meglio le proprietà biologiche del tumore e i meccanismi alla base di questa diversità - conclude Natoli - aumenterà le nostre chance di ottimizzare i trattamenti».
· Tumore esofageo.
Tumore esofageo, quanto è frequente e come si manifesta? Seppur questa tipologia di cancro interessi in particolar modo soggetti con un'età superiore ai 50 anni, di recente si sono riscontrati casi anche in pazienti giovani. Maria Girardi, Martedì 05/05/2020 su Il Giornale. È la diciottesima neoplasia più comune nei Paesi industrializzati e, seppur ultimamente si sono riscontrati episodi anche in soggetti giovani, si sviluppa soprattutto in individui con un'età superiore ai 60 anni. Ad esserne maggiormente colpiti sono gli uomini con 1500 casi stimati ogni anno in Italia, contro i 600 del genere femminile. Il tumore esofageo è un processo neoplastico che trae origine dai tessuti dell'esofago, ovvero un condotto muscolo-membranoso che, collegando la faringe allo stomaco, consente il passaggio dei liquidi e degli alimenti ingeriti. A seconda del tessuto nel quale si forma, si distinguono due tipologie principali di tumore esofageo. La più diffusa è il carcinoma a cellule squamose (60% circa dei casi). Solitamente si sviluppa nella porzione superiore e intermedia dell'organo. L'adenocarcinoma, invece, rappresenta il 30% di tutte le neoplasie che interessano l'esofago. Questa forma insorge quasi sempre nell'ultimo tratto del canale. Non sono ancora note le cause del tumore esofageo, tuttavia si ritiene che esso sia l'esito di una combinazione di fattori genetici, dieta, stile di vita e patologie pregresse dell'esofago. La presenza di uno stato infiammatorio cronico della mucosa, dunque, con il passare del tempo condurrebbe allo sviluppo del cancro. I principali fattori di rischio sono: obesità, eccessivo consumo di carni rosse, alcolismo, dieta povera di frutta e verdura, ingestione di cibi e bevande bollenti, fumo di sigaretta, acalasia esofagea, infiammazioni croniche (esofagite peptica, reflusso gastro-esofageo, esofago di Barrett). Ancora infezione da papilloma virus, lesione da caustici, terapie radianti pregresse, tilosi palmare e plantare, sindrome di Plummer-Vinson. Quest'ultima si caratterizza per la triade clinica disfagia, anemia sideropenica e membrane nel lume esofageo. Negli stati precoci il tumore esofageo è spesso asintomatico. Il primo campanello d'allarme consiste nella disfagia, ovvero la difficoltà ad ingerire il cibo. Inizialmente il soggetto prova una sensazione spiacevole. Gli sembra, infatti, che i cibi solidi si arrestino durante il loro passaggio nello stomaco. Tale manifestazione diviene poi costante e si estende anche ai liquidi e alla saliva. Negli stadi avanzati la stessa deglutizione può divenire dolorosa (odinofagia). Altri sintomi includono: paralisi delle corde vocali, raucedine, disfonia, singhiozzo, dolore al torace, melena, tosse. Ancora broncopolmoniti da inalazione, ematemesi, crampi dolorosi dell'esofago, bruciori di stomaco, eruttazioni frequenti, vomito, anemia sideropenica. Nelle forme avanzate può aver luogo un versamento pleurico con conseguente dispnea. Segni clinici meno frequenti sono: dolori alle ossa associati alla presenza di metastasi, aumento delle dimensioni del fegato, rigonfiamento dei linfonodi ai lati del collo e sopra la clavicola.
· Prostata e Prostatite.
Vera Martinella per il “Corriere della Sera - Salute” il 4 ottobre 2020. Non si possono più ignorare i sintomi. Si è costretti ad alzarsi più volte nel corso della notte per andare in bagno e spesso, nel fare pipì, si prova bruciore o una sensazione di non riuscire a svuotare completamente la vescica. Oppure entrambe e, in ogni caso, è ormai troppo frequente lo stimolo a dover urinare, il getto è ridotto e magari lo su fa in due tempi. È in questa situazione che la maggior parte degli uomini, generalmente dopo i 60 anni, si rassegna a prenotare una visita dall' urologo, che emette il «verdetto»: trattasi di ipertrofia prostatica benigna (Ipb) o adenoma prostatico. «Quelli che di solito vengono chiamati "disturbi della prostata" sono, in termini medici, i Luts ovvero: Lower Urinary Tract Symptoms, cioè sintomi delle basse vie urinarie - spiega Francesco Montorsi, professore Ordinario di Urologia e direttore dell' Urologia all' ospedale San Raffaele di Milano -. I segnali caratteristici dei Luts sono difficoltà a iniziare la minzione, flusso ridotto, sgocciolamento terminale, minzione in più tempi, urgenza, frequenza, pollachiuria notturna (elevata frequenza di piccole quantità di urina), residuo urinario post minzionale, ritenzione urinaria, insufficienza renale, infezioni urinarie ricorrenti. Nonostante ciò, la maggior parte degli uomini richiede un consulto medico solo quando avvertono già da tempo sintomi abbastanza seri». Il primo passo per lo specialista è inquadrare il paziente da un punto di vista diagnostico per individuare la causa dei disturbi e poi scegliere la terapia più indicata fra le numerose a disposizione. Come? «Si va dai consigli comportamentali al trattamento farmacologico per le condizioni meno gravi - risponde Alberto Lapini, presidente della Società Italiana di Urologia Oncologica (Siuro) e responsabile Prostate Cancer Unit all' Azienda Ospedaliera Universitaria Careggi di Firenze -. Quando poi la terapia medica non determina più benefici si deve ricorrere a procedure interventistiche standard o innovative». Esistono diverse categorie di farmaci: gli alfabloccanti (i più comunemente utilizzati sono alfuzosina, tamsulosina, silodosina) possono essere usati in pazienti con prostate non particolarmente voluminose ma con sintomi importanti. «Poi ci sono gli inibitori delle 5-alfa-reduttasi (finasteride e dutasteride) che agiscono riducendo il volume della prostata e, quindi, il grado di ostruzione - spiega Giario Conti, responsabile dell' urologia al Sant' Anna di Como -. Diversi studi scientifici hanno dimostrato che la combinazione di alfa-bloccanti e inibitori della 5-alfa reduttasi è superiore rispetto alla monoterapia con uno solo dei due farmaci, su tutti i parametri considerati, come riduzione dei sintomi, miglioramento del flusso e ritardo nella progressione della malattia verso la fase che dovrebbe poi condurre alla chirurgia». «I fitoterapici (il più noto è la Serenoa Repens) e gli integratori sembrano avere un' azione prevalentemente riduttiva delle situazioni infiammatorie (prostatiti) che spesso si accompagnano all' Ipb e questo può rendere ragione della loro efficacia nella diminuzione dei sintomi che spesso sono in grado di ottenere, per periodi di tempo variabili, nonostante gli studi clinici in merito non abbiano la stessa forza di quelli relativi ai farmaci standard» precisa Conti. Quanto alla chirurgia, oggi viene eseguita quasi esclusivamente mediante procedure endoscopiche. «Turp e Tuip, ovvero resezione e incisione trans-uretrale della prostata, possono essere considerate elettive per prostate di dimensioni ridotte - spiega Lapini -. La Tuip, in particolare, è rivolta a giovani con ghiandole piccole nel tentativo di conservare l' eiaculazione, mentre la Turp bipolare permette la resezione di maggior tessuto prostatico per cui può essere usata anche per prostate di dimensioni medie, così come la cosiddetta Tuvp bipolare, o vaporizzazione della prostata. Poi ci sono i laser, di cui esistono fondamentalmente tre tipi: Olmio, Tullio e Green laser, con caratteristiche specifiche per tipologie diverse di organo e paziente. Tutti consentono d' effettuare un' enucleazione della ghiandola, ovvero l' asportazione della parte centrale ipertrofica (come in chirurgia) per via endoscopica. Consentono di trattare con successo anche prostate voluminose garantendo un' ottima "guarigione" della zona trattata, con poco sanguinamento». Infine, la chirurgia open (ovvero a cielo aperto) offre ottimi risultati funzionali, ma è una procedura altamente invasiva che può però trovare indicazione ancora oggi in casi selezionati, ad esempio in prostate molto voluminose o quando sono presenti diverticoli vescicali di grosse dimensioni. «Procedura laparoscopica e robotica vengono valutate solo in trial clinici, visti gli ottimi risultati che già otteniamo con tecniche endoscopiche mininvasive, che sono meno costose - chiarisce Conti -. Un intervento endoscopico ha come conseguenza quasi categorica la perdita della eiaculazione (eiaculazione retrograda), mentre non incide sulla potenza sessuale, salvo situazioni precarie preesistenti. Solitamente interventi e laser sono ben tollerati con complicanze post-operatorie minime». Infine, esistono numerose terapie di nuova introduzione, alcune ancora sperimentali, che sono state introdotte negli ultimi anni: acquablation, Rezum, Urolift, embolizzazione selettiva delle arterie prostatiche. «I dati di cui disponiamo sulla loro efficacia e sicurezza non sono ancora completamente maturi e non possiamo trarre conclusioni definitive, ma tutte queste metodiche, che comunque dovrebbero sempre essere messe a confronto con il gold standard della terapia chirurgica, possono trovare un loro spazio di applicazione - conclude Montorsi -. Pazienti anziani, con altre patologie in atto o con trattamenti farmacologici limitanti (antiaggreganti e anticoagulanti per esempio) e uomini che non possano o non vogliano essere sottoposti agli interventi standard sono possibili candidati a questi trattamenti alternativi, purché vengano correttamente informati di quali siano i risultati attesi e della scarsità, per ora, di informazioni a lungo termine».
Tumori genitourinari, in Italia cresce il numero dei casi (anche prima dei 50 anni). Nel 2019 81.500 connazionali hanno ricevuto diagnosi di cancro a prostata, vescica, rene e testicolo: vanno curati da team composti da più specialisti e privilegiati i trattamenti meno invasivi V. M. su Il Corriere della Sera il 29 settembre 2020. I tumori di prostata, rene, testicoli e vescica sono sempre più diffusi nel nostro Paese e i casi sono un aumento, tanto che nel 2019 81.500 connazionali, sia uomini che donne, hanno ricevuto la diagnosi di una neoplasia che interessa l'apparato genitourinario. E se grazie ai progressi nella diagnosi e nelle terapie oggi otto pazienti su dieci sopravvivono alla neoplasia, per migliorare l’assistenza ai pazienti è necessario tuttavia prevedere sempre più il «lavoro di squadra» tra diversi specialisti come urologo, oncologo radioterapista, oncologo medico, anatomopatologo, radiologo, medici nucleari e geriatri. A questi temi la SIUrO (Società Italiana di Urologia Oncologica) ha deciso di dedicare il suo trentesimo congresso nazionale, in corso in modalità virtuale rappresentano circa il 20% di tutte le neoplasie registrate nel nostro Paese.
Meno di 50 anni. Sebbene molto diffusi, questi tumori sono ancora poco conosciuti e, secondo statistiche recenti, il 44 per cento degli italiani non sa che esistono cure efficaci in grado di contrastarli. Ancora troppi (il 61 per cento) ignorano che possono essere in molti casi prevenuti attraverso stili di vita sani: appena il 9 connazionali su 100 sanno, infatti, che il fumo di sigaretta causa il carcinoma della vescica, 38 su 100 riconoscono sedentarietà e obesità come fattori di rischio delle neoplasie alla prostata e al rene. «Negli ultimi anni registriamo anche un aumento delle neoplasie urologiche nei pazienti con meno di 50 anni - dice Alberto Lapini, presidente nazionale SIUrO -. E’ un dato di cui dobbiamo tenere conto soprattutto nella scelta delle cure da somministrare che devono essere sempre di più concordate in ambito multidisciplinare e ove possibile meno invasive. Sempre di più tendiamo infatti a trattamenti chirurgici conservativi o a protocolli di sorveglianza attiva quest’ultimi per pazienti che presentano patologie neoplastiche a basso rischio di evoluzione. Come società scientifica stiamo promovendo questo approccio alle malattie oncologiche attraverso un confronto costruttivo tra i diversi specialisti coinvolti nell’assistenza al paziente».Nel 2019 in Italia si sono registrati 37mila nuovi casi di cancro della prostata, 12.600 al rene, 2.200 al testicolo e 29.700 alla vescica. «Rappresentano un quinto di tutte le neoplasie registrate nel nostro Paese - prosegue Lapini -. Sono però molto difficili da individuare ai primi stadi ed emblematico in questo senso è il carcinoma renale dove in un terzo dei casi il riscontro è occasionale. Di solito avviene quando un paziente si sottopone a un accertamento radiologico a livello addominale per altri motivi o problemi di salute. Come specialisti abbiamo a disposizione un’ampia scelta di trattamenti efficaci e, infatti, otto malati su dieci riescono a sconfiggere la neoplasia urologica. Nel carcinoma della prostata e del testicolo le percentuali di sopravvivenza sono addirittura del 92% e 91%».
Rendere disponibile una nuova cura per il carcinoma del rene metastatico. Il 35% delle neoplasie renali nel nostro Paese viene individuata in fase avanzata o metastatica, quando è molto più difficile da curare. Ma le combinazioni di nuovi farmaci riducono il rischio di morte, allungano e migliorano la vita dei malati: «Per questo chiediamo che sia riconosciuta quanto prima la rimborsabilità alla combinazione nivolumab ed ipilimumab - aggiunge Giario Conti, segretario nazionale SIUrO -. Fin dal 2017 i due farmaci immunoterapici hanno ottenuto risultati clinici importanti che sono stati poi confermati da numerosi studi. Il vantaggio si è reso più evidente soprattutto nel sottogruppo di pazienti definiti a prognosi intermedia e sfavorevole che hanno una malattia più aggressiva e una minore attesa di vita. Rappresentano circa il 75% di tutti i casi registrati nel nostro Paese. Si tratta di un trattamento non certo risolutivo ma sicuramente capace di aumentare la quantità e qualità di vita nonché le possibilità di guarigione. Chiediamo quindi a tutti gli attori coinvolti: Agenzia Italiana del Farmaco, Ministero della Salute e azienda produttrice di riprendere le trattative».
Campanelli d’allarme. «Nel tumore del rene la ricerca medico-scientifica sta facendo grandi passi in avanti dopo anni di sostanziale immobilismo - sottolinea Renzo Colombo, vicepresidente SIUrO -. E’ una neoplasia che ogni anno fa registrare oltre 3.100 casi uomini e donne con meno di 50 anni. Si rende quindi necessario avere quanto prima disponibili, anche nel nostro Paese, terapie innovative in grado di dare nuove chances ai tutti i pazienti, anche quelli più giovani. E, per avere maggiori probabilità di guarire, è fondamentale non trascurare alcuni "campanelli d'allarme" e segnalare il prima possibile al proprio medico curante alcuni sintomi come la presenza di sangue nelle urine - conclude Colombo -. Può essere infatti un indicatore della presenza di un tumore della vescica. Una frequente necessità di urinare è invece una delle principali avvisaglie del carcinoma prostatico. Abbiamo trascorso mesi molto problematici perché la pandemia e il successivo lockdown hanno reso molto difficile l’accesso alle strutture sanitarie. Il Covid-19 rappresenta ancora una seria minaccia ma non deve essere un pretesto per non fare controlli medici ed esami diagnostici. I nostri ospedali e ambulatori sono ormai sicuri e quindi raccomandiamo a tutti gli italiani, che ne hanno bisogno, di sottoporsi agli accertamenti. Il cancro non può essere sottovalutato e continuerà ad essere un problema di salute per milioni di persone anche dopo la fine della pandemia».
Pier Luigi Vercesi per il “Corriere della Sera - Salute” il 6 settembre 2020. Perché Dante colloca tra gli spiriti magni Dioscoride, medico dei tempi di Nerone, per i suoi studi sulle erbe e non gli riconosce i meriti di guaritore? Immaginiamo per colpa della prostata o, meglio, di come la curava. Mise a punto una tecnica che l' avrebbe dovuto far sprofondare all' inferno. Consisteva nell' introdurre dal meato uretrale (la punta estrema dell' organo sessuale maschile) cimici vive che causavano contrazioni violente del collo vescicale e facilitavano la minzione. Ci asteniamo da ulteriori commenti ma simili torture per affrontare le complicazioni prostatiche risalivano almeno alle civiltà mesopotamiche. Si usavano, sin da allora, cateteri in bronzo o in ferro. A nulla valse l' anatema di Ippocrate contro chi praticava questi interventi: servì solo a lasciare libero il campo a «barbieri» e ciarlatani. Felipe, medico di Carlo V, l' Asburgo sul cui impero non tramontava mai il sole, per alleviare i dolori del sovrano sostituì le cimici con una sostanza corrosiva a base di calce viva, albume d' uovo e bava di lumaca. Doveva restargli in corpo una settimana per «macerare» la prostata. L' imperatore resistette alcuni anni e decise di abdicare quando nulla riuscì più ad alleviare i suoi dolori. Alla visione del catetere, Michelangelo prima e Voltaire dopo inorridirono. Preferirono annegare la sofferenza nell' oppio e proprio allo «sballo» si devono i comportamenti bizzarri dell' illuminista francese negli ultimi anni di vita. Jean-Jacques Rousseau, invece, accettò la tortura e per mascherarla cominciò a vestirsi con una ampia veste armena. Scorrendo le pagine di storia verrebbe da definire «mal francese» anche la prostatite, tanti furono i transalpini famosi che ne soffrirono. Napoleone III ebbe un violentissimo attacco a Sedan, durante la guerra contro i prussiani, e si arrese al nemico anche sotto la pressione di dolori lancinanti. Charles De Gaulle accettò il catetere durante il volo che lo portava in Messico, nel 1964, per una missione diplomatica. Ma a patto che rimanesse segreto di Stato.
Antonella Sparvoli per “Salute - Corriere della Sera” il 12 marzo 2020. Almeno un uomo su due nel corso della sua vita va incontro a un episodio di prostatite, soprattutto nella fascia di età che va fra i 18 e i 50 anni. Sebbene nella maggior parte dei casi si tratti di una infiammazione che si risolve senza strascichi, talvolta alcuni pazienti sviluppano forme croniche particolarmente insidiose, che possono degenerare in una sindrome dolorosa del pavimento pelvico.
Di che cosa si tratta?
«Di un' infiammazione della prostata che può essere acuta o cronica - premette Emanuele Montanari, professore ordinario di Urologia dell' Università degli Studi di Milano e direttore dell' Unità operativa complessa di urologia della Fondazione Irccs Policlinico di Milano -. La forma acuta è sempre di origine batterica, mentre quella cronica può essere sia batterica sia abatterica, nel senso che in questo secondo caso non si riesce a rilevare la presenza di germi all' origine dell' infiammazione. In alcuni casi la prostatite cronica può dare origine oppure essere associata alla sindrome cronica da dolore pelvico , una condizione difficile da trattare e molto invalidante».
Quali sono i sintomi?
«La prostatite acuta si manifesta tipicamente con febbre elevata, brividi, difficoltà a urinare, bruciori, fastidio o dolore perineale. Nelle forme croniche il quadro è di solito più sfumato e si sviluppa nel corso del tempo; di solito non c' è febbre elevata. Proprio perché i sintomi sono meno eclatanti può capitare che venga sottovalutata e non riconosciuta. Esiste anche una forma di prostatite cronica asintomatica che non dà alcun sintomo e viene in genere rilevata in occasione di indagini fatte per altre ragioni».
E le possibili cause?
«Nella maggior parte dei casi la prostatite acuta è causata da batteri di origine intestinale, come Escherichia coli, Proteus ed Enterococco, che giungono alla prostata in seguito alla contaminazione fecale delle vie urinarie inferiori. Questo tipo di contaminazione può essere favorita da rapporti sessuali anali non protetti».
Come si pone la diagnosi?
«In caso di prostatite acuta, la diagnosi si basa sull' osservazione dei sintomi che in genere sono molto caratteristici e definiti. Se si sospetta invece una prostatite cronica, è utile eseguire alcuni accertamenti a partire dall' esame delle urine, dall' urinocoltura e dalla raccolta delle urine dopo massaggio prostatico (test di Meares Stamey).
Per distinguere le forme batteriche da quelle abatteriche è essenziale eseguire l' esplorazione rettale in quanto la localizzazione del dolore può essere indicativa. Inoltre per escludere altre patologie, come calcolosi o ascessi prostatici, si può ricorrere all' ecografia tradizionale o, più spesso, transrettale».
Esiste una terapia?
«La terapia delle forme acute si basa sull' uso di antibiotici ad ampio spettro perché, vista la gravità dei sintomi (febbre che può raggiungere i 40° C), bisogna intervenire subito. Anche la terapia della prostatite cronica batterica si basa sul ricorso ad antibiotici, in questo caso mirati in base ai risultati dell' antibiogramma. Per "ripulire" bene la prostata dai batteri che si sono moltiplicati al suo interno il trattamento antibiotico deve essere protratto per almeno un mese. Nelle forme croniche, agli antibiotici possono essere affiancati altri farmaci, soprattutto qualora sopraggiunga la sindrome da dolore pelvico. Si tratta di farmaci per ridurre il dolore come gli antinfiammatori e attenuare i sintomi urinari (alfa-bloccanti, inibitori della 5 alfa reduttasi, eccetera)».
· Tumore della vescica.
Tumore della vescica: in Europa 6.500 casi legati a contaminanti presenti nell’acqua del rubinetto. Pubblicato martedì, 21 gennaio 2020 su Corriere.it da Vera Martinelli. Ogni anno in Europa oltre 6.500 casi di tumore alla vescica, il cinque per cento del totale, sono correlabili all’esposizione ai trialometani, sostanze chimiche contenute nell’acqua potabile. Si è calcolato che, se tutti i Paesi dell’Unione europea si attenessero alle regole stabilite dai regolamenti comunitari, almeno 2.900 casi annui potrebbero essere evitati. È la conclusione a cui giunge un’indagine appena pubblicata sulla rivista Environmental Health Perspectives e coordinata dai ricercatori spagnoli del Barcelona Institute for Global Health (ISGlobal) che hanno voluto quantificare i possibili danni provenienti da questi composti chimici che si formano nelle acque pubbliche durante la disinfezione con cloro o con disinfettanti laddove venga meno il controllo sui reattivi chimici e sui prodotti di smaltimento. I trialometani sono composti chimici che si formano durante la disinfezione con cloro o con disinfettanti clorurati mediante la reazione fra cloro e la materia organica contenuta nell’acqua. I disinfettanti clorurati sono uno dei metodi più utilizzati per la potabilizzazione delle acque: l’acqua, infatti, anche quando sembra limpida e pura, è in realtà un veicolo di trasmissione di numerose specie di microrganismi. La IARC (International Agency for Research on Cancer), che sulla base dei dati scientifici raccolti in tutto il mondo cataloga le sostanze cangerogene, li ha inseriti nelle classi 2B (ovvero possibili cancerogeni, per le quali esistono evidenze incerte su animali da laboratorio) e 3 (sospetti cancerogeni, con pochissime evidenze certe, per i quali esiste comunque dubbio). In questa nuova indagine, a cui hanno partecipato anche scienziate italiane del Dipartimento di Scienze Biomediche dell’Università di Modena e Reggio Emilia, i ricercatori hanno voluto stimare il numero di casi di tumore che possono essere direttamente imputati al consumo di acqua contaminata. Hanno analizzato per la prima volta su larga scala la presenza delle sostanze chimiche appartenenti alla categoria dei trialometani (quali cloroformio, bromodiclorometano, dibromoclorometano e bromoformio) provenienti nell’acqua di rubinetto di 26 Paesi europei (Bulgaria e Romania sono state escluse perché le informazioni disponibili erano scarse). I dati sono stati raccolti tra il 2005 e il 2018 e i risultati finali provengono dall’incrocio dei livelli di trialometani rilevati nell’acqua corrente dalle amministrazioni locali con l’incidenza del tumore alla vescica nella popolazione del singolo Stato. La percentuale rilevata varia molto da Paese a Paese: l’Italia si trova in una posizione intermedia con l’1,2 per cento di casi di tumore alla vescica attribuibili al contatto con i trialometani, pari a 336 casi all’anno. Cipro (23%), Malta (17%), Irlanda (17%), Spagna (11%) e Grecia (10%) sono le nazioni con il maggior numero di casi di carcinoma vescicale associato alle sostanze chimiche dannose. Mentre le popolazioni meno esposte alla contaminazione sono quelle di Danimarca (0%), Paesi Bassi (0.1%), Germania (0.2%), Austria (0.4%) e Lituania (0.4%). «Il dato rassicurante è che in media nella popolazione europea i livelli di trialometano nell’acqua potabile sono risultati molto al di sotto della soglia massima consentita con 11,7 microgrammi per litro in confronto ai 100 fissati dall’Organizzazione Mondiale della Sanità e ai 30 fissati per alcuni di essi dalla Direttiva CE come limite massimo - commenta Renzo Colombo, vice-presidente della Società Italiana di Urologia Oncologica (SIUrO) e coordinatore dell’Area di Attività Assistenziale Uro-oncologica dell’Unità Operativa di Urologia dell’IRCCS San Raffaele di Milano -. In nove Stati, però, la concentrazione delle sostanze è risultata superiore al valore massimo, tra i quali l’Italia, oltre a Cipro, Estonia, Ungheria, Irlanda, Italia, Polonia, Portogallo, Spagna e Regno Unito. Il risultato dell’indagine appena pubblicata sollecita quindi il rispetto delle normative comunitarie anche attraverso il ricorso a tecnologie più sicure per il trattamento dei trialometani nelle acque contaminate ricorrendo ad esempio alle tecniche in cui i composti volatili vengono estratti dalla fase fluida o ai sistemi filtranti a carboni attivi che possono essere adottati anche per il trattamento le acque di rubinetto delle unità abitative». Il carcinoma della vescica è la quinta forma di cancro più frequente in Italia con circa 27.100 nuovi casi diagnosticati nel 2018 nel nostro Paese: 21.500 tra gli uomini e 5.600 tra le donne. Nonostante ad ammalarsi siano soprattutto gli uomini, sono le donne a rischiare di più la vita perché nel sesso femminile la diagnosi arriva troppo spesso in ritardo. «Circa un quarto dei casi di tumore della vescica è attribuibile ad esposizioni lavorative in settori dove vengono impiegati soprattutto gli uomini - spiega Colombo -: il rischio di carcinoma uroteliale è più alto tra gli occupati nelle industrie dei coloranti derivati dall’anilina e delle ammine aromatiche (benzidina, 2-naftilamina), sostanze chimiche generate soprattutto nella produzione di vernici e pigmenti per tessuti, pelle e carta, oltre che nell'industria della gomma e del catrame». Quali i sintomi a cui prestare attenzione? «Il principale segnale di un carcinoma vescicale è la presenza di sangue nelle urine - conclude l’esperto -. Altre spie iniziali possono essere la necessità di urinare più frequentemente, l’urgenza, il dolore o la difficoltà all’atto di urinare. Sono sintomi comuni ad altre malattie urinarie, anche non gravi e le donne tendono a sottovalutarli perché più frequentemente soffrono di cistiti o di perdite ematiche, nelle urine e non, collegate al ciclo mestruale o meno. Tendono così a non allarmarsi, a ritardare la visita dallo specialista o gli accertamenti e arrivano a scoprire la neoplasia tardivamente, quando le cure devono essere più aggressive».
· Il Cancro al Seno.
Tumore al seno: più protezione con l'allattamento. L’allattamento materno riduce il rischio di sviluppare il tumore alla mammella del 45%, oltre ad avere una serie di risvolti positivi e benefici anche per il nascituro. Mariangela Cutrone, Venerdì 06/11/2020 su Il Giornale. Oltre che sottoponendosi ai controlli periodici e seguendo corretti stili di vita, c’è anche un altro modo per ridurre il rischio di sviluppare il tumore alla mammella: allattare il proprio figlio al seno. L’allattamento è un gesto che ha effetti postivi non soltanto sul neonato, ma anche sulla mamma. Nello specifico, nelle donne che allattano al seno il rischio di sviluppare un tumore alla mammella diminuisce del 4,3% per ogni anno in cui si porta avanti questa pratica. Inoltre, in chi è predisposta alla malattia geneticamente per via della mutazione del gene Brca1 (il cosiddetto “gene Jolie”, visto che anche l’attrice Angelina Jolie ha ereditato tale mutazione) l’allattamento al seno fa calare le probabilità di sviluppo di questo tumore del 45%, percentuale che sale al 59% se si hanno parenti stretti con tale patologia.
Effetti benefici dell'allattamento materno. La riduzione del rischio di tumore al seno conseguente all’allattamento è dovuta al fatto che, solo quando allatta, la ghiandola mammaria giunge alla sua completa maturazione e così diventa più resistente alle mutazioni che possono causare tale tumore. Inoltre, quando si allatta si riduce la produzione di estrogeni, fattore che protegge dal carcinoma mammario. Perché l’allattamento al seno protegga effettivamente dal tumore alla mammella è però fondamentale seguire uno stile di vita sano, rinunciando al fumo, limitando il consumo di alcolici e svolgendo attività fisica regolarmente. Oltre che proteggere dal tumore alla mammella, l’allattamento al seno abbassa anche il rischio di comparsa di osteoporosi in età avanzata, la possibilità di sviluppare diabete di tipo 2 e di soffrire di depressione post partum. Inoltre, determinando un maggior consumo energetico, permette alle neomamme di tornare in forma velocemente. E non è tutto, perché questa pratica rinforza il legame fra la mamma e il bambino.
Allattamento al seno, la posizione è importante. Tuttavia, non è sempre tutta rose e fiori. Soprattutto all’inizio, a causa di scorrette posizioni in cui può essere tenuto il neonato o di un attacco errato della bocca del piccolo, possono verificarsi dei problemi. «In questi casi, la neomamma può avvertire dolore e può comparire un arrossamento a livello di areola e capezzolo. È anche possibile che si formino dolorose ragadi al seno e, nel corso del tempo, le condizioni possono peggiorare, con la comparsa di ingorghi mammari, che possono evolvere in mastiti. Tutti questi disturbi non devono essere considerati come fisiologici ed è necessario intervenire per migliorare la situazione. Il rischio, altrimenti, è che la mamma smetta di allattare al seno», spiega la dottoressa Raffaella Aliperti, consulente per l’allattamento e sostegno al post partum del Centro di Aiuto alla Vita della Clinica Mangiagalli di Milano. Innanzitutto, è fondamentale che la neomamma, rivolgendosi a consultori o a strutture simili, impari a tenere il bambino in una posizione corretta mentre lo allatta. Inoltre, per non sollecitare sempre la stessa area del capezzolo, si dovrebbe provare ad allattare in varie posizioni. Al tempo stesso, utile è lavorare sulla tecnica di attacco del bambino al seno, correggendo la modalità di suzione, che immediatamente diventerà meno dolorosa.
Martina Saporiti per “il Venerdì - la Repubblica”l'11 febbraio 2020. Il tumore al seno è una malattia tipicamente femminile, ma gli uomini non ne sono immuni. Nel 2019 i nuovi casi di carcinoma mammario maschile (nella foto, l' ingrandimento di un tessuto colpito) sono stati 500, come nel 2018 (dati dell' Associazione italiana di oncologia medica). Certo, l’incidenza è trascurabile rispetto ai 53 mila nuovi casi del tumore femminile, ma proprio questo rende la malattia insidiosa. Gli uomini spesso sottovalutano i sintomi (noduli, arrossamento della pelle del seno, cambiamenti nella forma dei capezzoli da cui possono fuoriuscire liquidi) ritardando le diagnosi e pregiudicando la guarigione (nel 2016 le morti sono state 144). I maschi non si ammalano come le donne perché hanno meno tessuto mammario e meno estrogeni (ma obesità o eccessivo consumo di alcol, alterando l' equilibrio ormonale, possono favorire lo sviluppo della malattia). E un peso ha anche la genetica: di solito il tumore colpisce gli uomini tra i 60 e i 70 anni, ma se si manifesta prima è probabile che sia responsabilità dei geni Brca e soprattutto di Brca2, che da solo riguarda circa il 4-14 per cento dei tumori mammari maschili.
Tumore al seno, via libera al nuovo farmaco per evitare la chemio. Lavinia Nocelli il 29/01/2020 su Notizie.it. Tumore al seno, in italia via libera all'abemaciclib, il nuovo farmaco che permetterà di evitare la chemioterapia. L'ok dall'Aifa. Medicina, via libera dall’Aifa al nuovo farmaco per curare il tumore al seno. La nuova terapia che permetterà di evitare la chemio alle pazienti affette da metastasi.
Via libera al nuovo farmaco. Addio alla chemioterapia per il tumore metastatico al seno. Approvata dall’Aifa, e pubblicata in Gazzetta ufficiale, la rimborsabilità dell’abemaciclib, il nuovo farmaco sviluppato e prodotto da Lilly, inibitore selettivo dello Cdk 4&6, le chinasi ciclina-dipendenti. Una terapia che arriva anche in Italia e che insieme al fulvestrant, altro farmaco usato nella terapia ormonale, permette all’abemaciclib di migliorare l’aspettativa di vita, passando da una media di 37,3 mesi a 46,7 rispetto al solo trattamento col fulvestrant. Secondo gli studi, quest’ultimo traguardo raggiunto sarà un’arma chiave per le 10mila nuove pazienti che ogni anno si ritrovano a lottare contro il male terribile che è il tumore al seno.
Parola all’esperto. Disponibile per tutte le pazienti in pre, peri e post-menopausa, il farmaco è disponibile sul mercato per le donne con carcinoma mammario avanzato, matematico positivo ai recettori ormonali (Hr+) o negativo al recettore del fattore umano di crescita epidermico di tipo 2 (Her2-). Questo, il più diffuso tra le pazienti, riguarda circa il 70% dei casi in stadio avanzato. A tal proposito è intervenuto Pierfranco Conte, direttore della divisione di oncologia medica 2 all’Istituto oncologico veneto e docente di oncologia medica all’Università di Padova: “Abemaciclib porta con sé numeri davvero importanti per moltissime donne con tumore del seno metastatico. Questo farmaco è un inibitore selettivo molto efficace in grado di prolungare il controllo della malattia nelle pazienti con tumore al seno sensibile agli ormoni”. Una buona notizia, insomma, per tutte le donne e pazienti.
La doppia sfida di Ann, da scienziata a paziente: "Studiavo il cancro, poi mi ha colpito". Biologa, Zeuner fa ricerca per eliminare le cellule che resistono alle terapie. Verso tecniche innovative finanziate dall’Airc. Caterina Pasolini il 24 gennaio 2020 su La Repubblica. Ragazzina solitaria con la testa fra le nuvole, Ann sognava di fare l'astronoma. È diventata invece biologa, ricercatrice con l'obiettivo di vincere i tumori. Pensava di lavorare per gli altri, i malati, fino alla mattina in cui si è ritrovata lei stessa a combattere un cancro al seno. Divisa tra razionalità di scienziata e ansia di madre, di donna col corpo improvvisamente nemico, mutilato. "Io volevo guardare le stelle, starmene sola col naso all'insù tra lune e costellazioni, ma in fondo la doppia elica del Dna, il nostro codice genetico, come struttura somiglia alle galassie a spirali". Sorride la dottoressa Zeuner, 50 anni, trovando un filo che lega la bambina di ieri e il suo presente di studiosa che salva vite grazie all'Airc (Associazione per la ricerca sul cancro) che domani sarà nelle piazze con la vendita delle arance per finanziare la ricerca.
Dalle stelle alle cellule?
"Al primo esame di università ho scoperto che non ero dotata per la fisica, i telescopi potevo scordarmeli. Così, ho scelto un altro ramo e studiando tra Roma e l'America sono diventata biologa. Lavoro all'Istituto superiore di sanità".
Cosa studia?
"Grazie ai fondi dell'Airc, sono a capo di un team checerca di capire come fare in modo che le cellule dormienti del cancro, soprattutto intestino e polmoni, rimangano tali, così che il tumore non torni anche a distanza di anni. Dopo un'operazione possono infatti restare cellule nascoste che resistono alle terapie. Io cerco di capire i meccanismi della loro attivazione perché attraverso nuove tecnologie si possano eliminare".
Da ricercatrice a paziente...
"Non pensi mai che ti possa capitare. Una mattina con l'autopalpazione del seno ho sentito che qualcosa non andava, sono andata a farmi una ecografia e le facce lunghe dei colleghi mi hanno fatto capire tutto. Conoscere il tumore forse ha diminuito all'inizio la paura , ma l'ansia per il futuro, sapendo quello che mi aspettava tra cure, operazioni e soprattutto avendo due figli, di 15 e 10 anni, è rimasta. Ho fatto la mastectomia, i raggi, poi la ricostruzione. E ora dopo mesi, sono al lavoro più motivata di prima".
Risultati della ricerca?
"Abbiamo brevettato un farmaco senza effetti collaterali, ma per farlo arrivare nelle farmacie ci vorranno molto lavoro e finanziamenti".
Com'è cambiata la sua vita?
"Ho rivoluzionato la dieta: poca carne, pochi zuccheri, alcol e latticini e più attività fisica. Ma soprattutto ho capito che dovevo cominciare a pensare seriamente anche a me, a non mettermi sempre per ultima dopo il lavoro, i figli. Ecco, questo vorrei dire alle donne".
Cosa vorrebbe dire alle donne?
"Che il tumore alla mammella è una piaga sociale: ci vogliono più ricerca e più informazione per sconfiggerlo. Il numero di casi è in crescita e ogni giorno muoiono 35 donne. Troppe non si osservano, travolte dallo stress, dalla cura di tutti. Invece dovrebbero pensare anche a loro stesse. Perché, con la ricerca e le buone abitudini, vincere il cancro è una cosa possibile".
· Il Cellulare provoca il tumore?
Telefoni cellulari e tumori al cervello: cosa dicono 20 anni di ricerche - L’inchiesta. Pubblicato domenica, 09 febbraio 2020 su Corriere.it da Milena Gabanelli e Simona Ravizza. In cure spendiamo 5,6 miliardi l’anno, in ricerca solo 21milioni. Cosa si sa delle 140 mila sostanze chimiche sul mercato? Il nesso causale tra l’esposizione alla sostanza e l’insorgere della malattia è stato dimostrato per le fibre di amianto, la formaldeide e il benzene (leucemie e il cancro al polmone), per metalli come l’alluminio, il cromo, il nichel e radiazioni da Radon 222 (soprattutto per i tumori al polmone) e tanti altri.Un esempio emblematico è quello dei pesticidi e fertilizzanti. Solo in Italia, nel 2017 ne sono stati sparsi 1,3 miliardi di tonnellate, e per un ettaro di agricoltura convenzionale ne sono usati 396 kg l’anno. Gli studi epidemiologici hanno riscontrato tra gli agricoltori tassi elevati di linfomi, leucemie, tumori allo stomaco, al pancreas, al cervello; fra i coltivatori di patate e di ulivi neoplasie al rene; fra i frutticoltori cancro al colon e alla vescica. Il Glifosato è uno dei diserbanti più potenti e diffusi nelle coltivazioni intensive, tant’è che entro il 2020 la sua richiesta, nel mondo, raggiungerà 1 milione di tonnellate. È stato studiato a lungo, ma ad oggi ancora non esiste una letteratura scientifica univoca sui danni che può provocare.Lo Iarc nel 2015 l’ha classificato come probabile cancerogeno, la European Food Safety Authority (Efsa) come improbabile cancerogeno, per l’Environmental Protection Agency (Epa), incaricata della protezione ambientale dal governo Usa, invece non è cancerogeno. In Europa il limite giornaliero della quantità di glifosato che può essere ingerita con il cibo o l’acqua da bere, espressa in base alla massa corporea, è di 0,5 milligrammi al giorno per ogni chilo di peso, per gli Usa 1,75. Dunque qual è la reale soglia di sicurezza per l’uomo? Dai risultati delle indagini dell’Istituto di ricerca sul cancro Ramazzini di Bologna, considerato fra i più autorevoli a livello internazionale per la ricerca sulle malattie ambientali, emerge che il livello di glifosato ammesso dagli Usa, somministrato a ratti a partire dalla vita embrionale fino ad una età corrispondente a 18 anni nell’uomo, può interferire con il normale sviluppo sessuale, è genotossico (cioè capace di provocare rotture del Dna), e altera la flora batterica intestinale. Sono ancora in corso le indagini che riguardano gli effetti su ghiandola mammaria, reni, fegato e sperma. Intanto che le autorità sanitarie stabiliscano definitivamente chi ha ragione, noi continuiamo ad essere esposti.Un altro tema di portata planetaria è l’esposizione alle onde elettromagnetiche di antenne e cellulari. Il resoconto del National Toxicology Program) pubblicato a marzo 2018, così come quello dell’Istituto Ramazzini, mettono in evidenza un aumento dei tumori del cervello (glioblastoma) e delle cellule di Schwann. Entrambi hanno esposto migliaia di cavie. L’Agenzia americana alle radiofrequenze a 900 MHz per tutto il giorno ad intermittenza, simulando in pratica l’uso quotidiano del cellulare. L’Istituto italiano invece ha esposto le cavie alle antenne 3G (1,8 GHz) in maniera continua per 19 ore al giorno. Altri tre lavori sperimentali, dove l’esposizione è stata fatta su un numero più ridotto di ratti, un periodo di tempo più corto e 2 ore al giorno, hanno invece prodotto un risultato negativo. In una recentissima pubblicazione del Ministero della Salute francese viene evidenziato che il glioblastoma (tumore del cervello) è aumentato di 4 volte fra il 1990 e il 2018. La scienza quindi non è concorde, mentre il mondo, privo di conoscenza su eventuali rischi, corre verso il 5G, di cui non si conosce ancora nulla.Il grosso della ricerca è finanziato dall’industria che ha tutto l’interesse a nascondere o a prolungare nel tempo le decisioni in merito alla nocività di un prodotto. Solo gli studi realizzati con il finanziamento pubblico possono garantire l’indipendenza del risultato. Dai dati elaborati per Dataroom da Alleanza contro il cancro, la più importante organizzazione di ricerca oncologica italiana, risulta che degli irrisori 210 milioni di fondi stanziati soltanto 21 milioni vanno a finanziare gli studi che cercano «cosa» provoca i tumori. Mentre il programma europeo con il più alto budget mai stanziato – circa 80 miliardi di euro per il periodo 2014-2020 (Horizon) – sostiene innovazioni e scoperte per registrare nuovi prodotti da mettere sul mercato e zero euro per individuare quali prodotti, tra quelli già in circolazione, sono cancerogeni. In compenso solo in Italia spendiamo oltre 5,65 miliardi l’anno di farmaci per curare poi chi si ammala di cancro. Una cifra cresciuta di 650 milioni nell’ultimo anno, e su cui pesa anche il costo dei farmaci innovativi (614 milioni di euro). In un ospedale tipo italiano le terapie con i farmaci tradizionali s’aggirano sui 2.000 euro a ciclo, quelle innovative possono costare fino a 5.300 euro a ciclo che significa un totale di 90 mila euro l’anno. Ben vengano questi farmaci se danno più speranza di vita o di guarigione ai malati, ma purtroppo non è sempre così.
«L’uso prolungato del cellulare può causare il tumore»: la sentenza della Corte d’Appello a Torino. Pubblicato martedì, 14 gennaio 2020 su Corriere.it da Simona Lorenzetti. Esiste un nesso di causa tra l’uso intensivo e prolungato del telefono cellulare e l’insorgenza di alcune tipologie di tumore. A confermarlo è la Corte d’Appello di Torino, che sottolinea che «esiste una legge scientifica di copertura che supporta l’affermazione del nesso causale secondo i criteri probabilistici “più probabile che non”». Il caso pilota riguarda un torinese di 56 anni al quale i giudici hanno riconosciuto una rendita vitalizia di circa seimila euro l’anno, stabilendo che esiste una connessione tra il tumore cranico di cui l’uomo è affetto e l’uso continuato che ha fatto del cellulare per esigenze lavorative. La storia è quella di Roberto Romeo, dipendente Telecom, che nel 2010 all’improvviso ha scoperto di non sentire più nulla dall’orecchio destro. Gli accertamenti clinici hanno svelato la presenza di un cancro, benigno ma invalidante, alla base dell’orecchio. Ora l’Inail è stata condannata (in primo grado dal Tribunale di Ivrea nel 2017 e ora anche dalla Corte d’Appello di Torino): per i giudici il tumore è una malattia professionale che ha reso il dipendente Telecom invalido per il 23 per cento. Nella sua battaglia legale Romeo è stato assistito dallo studio legale Ambrosio e Commodo. «Speriamo che la sentenza spinga a una campagna di sensibilizzazione, che in Italia non c’è ancora — afferma l’avvocato Stefano Bertone —. Come studio abbiamo aperto il sito neurinomi.info, dove gli utenti possono trovare anche consigli sull’utilizzo corretto del telefonino». «Non voglio demonizzare l’uso del telefonino, ma credo sia necessario farne un uso consapevole», ha spiegato Romeo.
Lo smartphone fa male solo ai topi, su uomini nessuna evidenza scientifica. Valerio Rossi Albertini il 16 Gennaio 2020 su Il Riformista. Quando si tratta di pericoli occulti le polemiche o, almeno, le discussioni sono inevitabili. E siccome un telefonino portatile, bene o male, lo abbiamo tutti, siamo tutti coinvolti. È molto tempo che si dibatte sui potenziali pericoli di un ordigno che ci teniamo attaccato alla testa, a pochi centimetri dal cervello, ma stavolta c’è qualcosa di più. Il Tribunale di Torino ha confermato in appello una sentenza che in primo grado aveva disposto il risarcimento per Roberto Romeo, (ex) dipendente della Telecom, costretto a usare il telefonino diverse ore al giorno per molti anni. I giudici hanno infatti ravvisato un “nesso di causalità” (badate bene alle parole usate) tra l’uso intensivo del cellulare e l’insorgenza di un tumore – fortunatamente benigno, ma pur sempre invalidante- al nervo acustico. È davvero possibile? E come? Le radiazioni emesse dal telefonino sono “onde elettromagnetiche”, ovvero appartengono alla stessa famiglia delle onde che trasportano il segnale della radio e della televisione, della luce del sole e dei raggi ultravioletti, gli UV, che stimolano l’abbronzatura, ma sono dannosi per la pelle, soprattutto alle prime esposizioni. Per capire la questione, partiamo proprio dei raggi Ultravioletti. I raggi Ultravioletti posso provocare tumori alla pelle, ad esempio il melanoma. Si può affermare con certezza, è un dato acquisito dalla letteratura scientifica e la giustificazione chimico-fisica è chiara: I raggi Ultravioletti sono radiazioni “ionizzanti”. In termini elementari significa che sono in grado di spezzare le molecole biologiche di cui sono costituiti i tessuti del corpo, ad esempio la pelle quando siamo al mare… Una cellula così danneggiata in generale muore. Poco male perché ne abbiamo tante altre. Ma a volte sopravvive alla lesione e comincia a riprodursi in modo anomalo e incontrollato, dando origine al tumore. Le onde dei telefonini, al pari delle onde radio-televisive, sono invece classificate “non ionizzanti”. Non sono in grado di recidere i legami molecolari e quindi non possono originare direttamente tumori. Tuttavia, sono parenti prossime delle microonde dei forni e, pur non avendo la stessa capacità di scaldare le sostanze contenenti o immerse in liquidi acquosi (come è il cervello), qualche effetto di riscaldamento lo provocano. Riscalda oggi, riscalda domani, può essere che cellule particolarmente sensibili, come quelle del sistema nervoso, possano impazzire? Non lo sappiamo ancora con certezza. Per cercare di stabilirlo, si sono condotte statistiche su ampie fasce di popolazione dedite all’uso frequente del cellulare, ma è difficile rintracciare il nesso tra la causa e l’effetto, il “nesso di causalità”, quando gli effetti sono rari o controversi. Vediamo perché. Che la vita sedentaria e il sovrappeso predispongano alle patologie cardiovascolari, o il fumo a quelle polmonari, risulta così evidente che i soggetti vengono definiti “a rischio”, ma nella maggior parte dei casi non è altrettanto semplice. La patologia osservata potrebbe essere attribuibile a varie cause, o magari essere dovuta a fattori intrinseci, genetici. Ad esempio, c’è chi è allergico a sostanze innocue o ha una predisposizione che amplifica effetti altrimenti molto blandi. La faccenda si complica ulteriormente se il nesso causale non coincide col nesso temporale. Se bevo una bevanda dallo strano sapore, mi sento male, vengo ricoverato e mi riscontrano i sintomi di un avvelenamento, con tutta probabilità la bevanda conteneva una sostanza tossica. Ma se bevo regolarmente acqua che scorre in vecchie condutture e dopo qualche decina di anni ravviso i sintomi di avvelenamento, bisognerà fare delle indagini per capirne l’origine. Con i telefonini è una cosa analoga a questo secondo caso. Se fossero molto nocivi, saremmo tutti morti. Invece non lo siamo e, tranne in rari casi, non abbiamo neanche particolari problemi al nervo acustico. Come mai? Perché telefoniamo poco? Perché il nostro modello di telefonino è meno dannoso di quello del signor Romeo? Perché usiamo gli auricolari? Molto difficile a dirsi. Esperimenti in condizioni controllate e riproducibili sono stati condotti su cavie di laboratorio. Le cavie venivano esposte a onde analoghe a quelle dei telefonini, ma più intense, per molte ore al giorno, fin dalla nascita. In effetti, sono state osservate patologie anche serie, però in condizioni troppo diverse da quelle di comuni telefonate per poter trarre conclusioni definitive: Gutta cavat lapidem ma, a meno che non si tratti della tortura cinese, nessuno ha mai riportato danni essendo stato colpito da qualche goccia! E quindi torniamo alla sentenza. I giudici si sono pronunciati in favore del risarcimento perché hanno accolto la tesi della difesa. Gli avvocati si sono infatti appellati al principio per cui, pur non potendo essere certi che il tumore si potesse attribuire all’uso smodato del cellulare, tuttavia era più probabile che fosse quella la causa, piuttosto che no… Una conclusione di tipo statistico, quindi, che continuerà probabilmente ad alimentare a lungo discussioni sulla reale pericolosità dei cellulari. Ma una cosa è certa. Usare il vivavoce o gli auricolari costa poco e ci mette al riparo da eventuali spiacevoli sorprese.
Cellulari, l’esperto del Cnr: «Non c’è evidenza di rischio tumore ma usateli con prudenza». Pubblicato mercoledì, 15 gennaio 2020 su Corriere.it da Margherita De Bac. Moccaldi (Cnr): «Gli studi non hanno mai fornito elementi di pericolo».
Le onde elettromagnetiche del cellulare sono cancerogene, come sostiene la sentenza della Corte d’Appello di Torino?
«No, non c’è evidenza scientifica consolidata che questo possa accadere. I dati disponibili sulla base delle ricerche degli ultimi 30 anni suggeriscono che l’uso dei telefoni cellulari non sia associato all’aumento del rischio di tumori. Lo ha ribadito solo pochi mesi fa l’Istituto Superiore di Sanità in una metanalisi degli studi pubblicati tra il 1999 e il 2017. I miei autorevoli colleghi affermano che le radiofrequenze non possono causare neoplasie nelle zone più esposte del corpo durante le chiamate vocali».
Roberto Moccaldi è responsabile della medicina del lavoro al Cnr: da 30 anni si occupa di protezione dalle radiazioni ionizzanti e non ionizzanti, quelle appunto dei campi elettromagnetici.
Se le prove scientifiche mancano davvero, come mai i giudici torinesi hanno affermato il contrario?
«I consulenti tecnici del tribunale evidentemente hanno fatto riferimento ai pochi studi che dimostrano l’esistenza di rischi legati all’uso dei telefonini. Questi studi costituiscono la nettissima minoranza rispetto a una massa di informazioni che invece smentiscono l’ipotesi di pericolo per la salute. Siamo comunque l’unico Paese al mondo ad aver riconosciuto la malattia professionale da telefonino a dispetto dell’evidenza. Dopo aver seguito nel tempo i comportamenti di centinaia di migliaia di persone non abbiamo registrato nel complesso un aumentato rischio oncologico tra chi usa il cellulare e la popolazione non esposta alle onde elettromagnetiche».
I dati raccolti finora sono sufficienti?
«Altre ricerche sono in corso ma non ci aspettiamo sorprese. Sono convinto che confermeranno i risultati ».
Cosa altro dice il rapporto dell’Istituto Superiore di Sanità?
«Chiarisce che i notevoli eccessi di rischio osservati in alcuni studi non sono coerenti con l’andamento temporale dei tassi di incidenza dei tumori cerebrali che non hanno risentito del rapido aumento dell’esposizione. Dopo decenni di studio non sono noti i meccanismi biologici che potrebbero causare la malattia tumorale da parte delle radiofrequenze».
E allora come mai il ministero di Salute la scorsa estate sul sito ufficiale ha avviato una campagna informativa sulle modalità di esposizione alle onde elettromagnetiche?
«È stata una disposizione del Tar a indicare che alcuni ministeri avrebbero dovuto adottare una campagna informativa sulle corrette modalità d’uso della telefonia mobile e sui rischi eventuali derivanti da un uso improprio degli apparecchi».
(La sentenza è quella che a gennaio 2019 ha accolto in parte un ricorso proposto dall’associazione per la prevenzione e la lotta all’elettrosmog, ndr).
Tenere il cellulare sul comodino o addirittura sotto al cuscino quando dormiamo è un’abitudine corretta?
«In attesa che la ricerca approfondisca ancora qualche aspetto può essere corretto raccomandare di tenere gli smartphone lontano dal corpo quando non vengono utilizzati. Tale consiglio diventa prescrizione per pazienti con pace maker o altri dispositivi impiantati. Niente cellulare sotto il cuscino, non se ne comprende il vantaggio una volta per tutte i dubbi. Le residue incertezze, scrive nel suo rapporto l’Iss, riguardano i tumori a più lenta crescita e l’uso nell’infanzia».
Altre precauzioni?
«Il ministero consiglia di applicare l’auricolare o il vivavoce, e di preferire l’invio di messaggi scritti o vocali alle conversazioni. Bisognerebbe parlare in condizione di buona ricezione del segnale. Viene poi spiegato che l’esposizione alle onde avviene solo se l’utente parla e non quando ascolta, quando trasmette i dati e non in ricezione».
Sono state ipotizzate interferenze con la fertilità maschile. Quindi sarebbe meglio non tenerlo in tasca?
«Rientra tra le misure cautelari diminuire l’esposizione. Per quanto riguarda l’interferenza con la fertilità maschile potrebbe essere legata al riscaldamento. da radiofrequenze, uno dei pochi effetti certi legati a queste fonti ma a livelli di intensità di campo di gran lunga superiori a quelli emessi dall’apparecchio. Il calore del cellulare oltretutto dipende dalle batterie».
Nei confronti dei bambini vanno adottate cautele maggiori rispetto agli adulti?
«Le cautele non riguardano certo il rischio. Bisognerebbe concentrare l’attenzione sulla smart addiction, vale a dire la dipendenza da telefonino in età infantile, patologia già descritta dai neuropsichiatri».
· Tumore al Cervello.
Nico Riva per leggo.it il 26 gennaio 2020. Esiste un modo per frenare l'avanzata dei più letali tumori al cervello. Ed il segreto sta nella proteina TAU, fra le cause di patologie neurodegenerative come l'Alzheimer. Ne sono convinti i giovani autori della scoperta, ricercatori spagnoli dell'Instituto de Salud Carlos III (ISCIII). Dalla loro analisi sui campioni di 180 pazienti è infatti emersa una connessione tra i gliomi (tumori cerebrali altamente letali) e le malattie neurodegenerative. La ricerca, pubblicata sulla rivista Science Translational Medicine, dimostra che la proteina TAU si ritrova anche nelle cellule dei gliomi, dove reprimerebbe la loro capacità di creare nuovi vasi sanguigni, fondamentali per rifornirsi di nutrienti, favorendo la crescita e l'aggressività del tumore. Se la TAU si riduce, aumenta la malignità del cancro. Il ruolo della proteina, negativo in ambito neurodegenerativo, stavolta si scopre invece benefico. La ricerca permette così di conoscere meglio i gliomi, fra i tumori più rari ma con i tassi di mortalità più elevati, anche perché resistente alla chemioterapia e alla radioterapia. Per questo, i ricercatori dell'ISCIII affermano con entusiasmo che la scoperta rappresenta un trampolino di lancio fondamentale per stabilire nuove strategie terapeutiche e nuovi studi. Il loro prezioso lavoro offrirebbe quindi anche la possibilità di indagare le malattie neurodegenerative da un nuovo punto di vista. Ricardo Gargini, principale firma dello studio, ha confessato a El País: «Crediamo che Tau sia la chiave fra Alzheimer e cancro». La funzione protettiva della proteina nei gliomi si potrebbe inoltre ricreare con composti derivati dal taxolo, principio attivo che si utilizza come agente antitumorale per vari tipi di cancro. Un fantastico passo in avanti per la scienza e la medicina è appena stato compiuto. ¡Gracias, España! Il merito della scoperta va principalmente ai ricercatori dell'ISCIII Beatriz Heranz, Esther Hernández, Rafael Hortigüela, Pilar Sánchez Gómez, Ricardo Gargini, Berta Segura-Collar, Teresa Cejalvo e Andrés Romero Bravo. Lo studio è stato però realizzato in collaborazione con il Centro di Investigazione Biomedica del Red di Malattie Neurodegenerative (CIBERNED), dell'Associazione Spagnola contro il Cancro (AECC), del Centro di Biologia Molecolare del CSIS e dell'Ospedale 12 Ottobre, integrati nell'Istituto di Ricerca Sanitaria i+12 di Madrid. Il progetto è stato finanziato dal Ministero dell'Economia e della Competitività, dell'Associazione Spagnola contro il Cancro e del NIH (Istituto Nazionale di Salute).
· Tumori, in Italia sopravvivenza più alta che nel resto d’Europa.
Tumori, scoperto il meccanismo che corrompe il sistema immunitario. Uno studio curato dall’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù di Roma in collaborazione con l’Università di Genova rivela il meccanismo molecolare che inibisce il nostro sistema immunitario nel combattere il cancro. Mariangela Cutrone, Mercoledì 20/05/2020 su Il Giornale. Un ordine ingannevole impartito dalle cellule cancerose frena il sistema immunitario e disarma le cellule “natural killer” dell'organismo che distruggono i tumori. Questo "freno inibitore" si chiama Pd-1. Non è altro che una proteina che, quando “corrotta”, altera l’azione delle difese del nostro organismo che dovrebbero difenderci dal cancro. Si tramuta in un alleato delle cellule maligne. La proteina Pd- 1 è stata oggetto di studio del team di ricerca dell'Ospedale pediatrico Bambino Gesù di Roma, in collaborazione con il Dipartimento di Medicina sperimentale dell'Università di Genova e con il sostegno di Fondazione AIRC. La ricerca accurata su questo freno inibitore è stata pubblicata sul Journal of Allergy and Clinical Immunology. La proteina Pd-1 impedisce all’organismo di avere reazioni di difesa eccessive che possono danneggiare l'organismo e i tessuti. Queste possono provocare l’insorgere di malattie autoimmuni e violente reazioni infiammatorie. Lo studio, durato due anni, ha consentito di comprendere in che modo le cellule cancerose riescano a dare alle cellule NK l'ordine di sfruttare al massimo il meccanismo molecolare. Con esso le cellule che dovrebbero difenderci contro il cancro vengono letteralmente frenate non riuscendo più ad attaccare e distruggere il tumore stesso. La scoperta di questo freno inibitore è importante perché ci consente di capire come il tumore agisce nel nostro organismo e come combatterlo efficacemente. Il contesto di azione del meccanismo molecolare è denominato micro-ambiente tumorale. È un ambiente creato dal tumore stesso che indebolisce le cellule normali alterando la loro funzione a proprio vantaggio. Le "natural killer" così cominciano a produrre una serie di sostanze chimiche in grado di inibire o disarmare le cellule difensive e le citochine. Quest’ultime sono delle particolari molecole proteiche che funzionano come messaggeri del sistema immunitario. La Dott.ssa Linda Quatrini, una delle ricercatrici dello studio in questione, ha spiegato che quando tre particolari citochine denominate IL-15, IL-18 e IL-12 si combinano con il cortisolo si forma una miscela esplosiva. Essa è in grado di innescare il meccanismo ingannevole per cui le cellule natural killer, che avrebbero il compito di attaccare il tumore, iniziano invece ad esprimere PD-1. Il cortisolo è un ormone che viene prodotto in abbondanza dalle ghiandole surrenali in situazioni di stress, ma anche nel corso di malattie infiammatorie e di tumori. I ricercatori chiariscono di aver anche identificato il meccanismo molecolare di questo fenomeno esaminando l’influenza del cortisolo nel nostro organismo. Si è scoperto infatti che questo ormone interviene a diversi livelli della catena di montaggio della proteina PD-1. Agisce sulla trascrizione del gene e sulla traduzione della proteina.
Quali sono le differenze tra immunoterapia e CAR-T contro i tumori? Pubblicato domenica, 17 maggio 2020 su Corriere.it da Vera Martinella. Qual è la differenza fra i vari tipi di immunoterapia? Oggi guardiamo tutti a queste nuove grandi speranze ma, almeno per quello che ho capito, non tutte le immunoterapie sono uguali e non tutte le immunoterapie funzionano per ogni tipo di neoplasia. Che differenza c’è, allora, fra i farmaci che hanno nomi che finiscono in «mab» e l’’immunoterapia in cui vengono prelevati i linfociti T del paziente e «ingegnerizzati» (se ho compreso bene, perché possano riconoscere ed eliminare le cellule tumorali) e poi iniettati di nuovo. Risponde Giordano Beretta, presidente dell’Associazione Italiana di Oncologia Medica (Aiom) e responsabile dell’Oncologia Medica di Humanitas Gavazzeni Bergamo. La stimolazione del sistema immunitario per combattere i tumori è una possibilità terapeutica studiata da molti anni. In passato, in assenza di conoscenze biologiche sufficienti, venivano impiegati farmaci quali l’interferone e l’interleuchina che hanno però dato risultati solo marginali. Le attuali conoscenze hanno consentito di individuare una nuova categoria di farmaci, i «checkpoint inibitori», che consentono di attivare in modo importante la risposta immunitaria. Ciò avviene con l’impiego di anticorpi monoclonali (i farmaci che terminano in «mab») in grado di sbloccare l’attività di alcune cellule del sistema immunitario che riconoscono le cellule tumorali e le attaccano. La moderna immunoterapia, pur avendo evidenziato un’importante attività, che consente di ottenere risposte di lunga durata in una percentuale di pazienti che può arrivare ad essere considerata guarita, non è però efficace in tutti i casi e presenta controindicazione all’impiego in alcune categorie di pazienti. Per quali pazienti è indicata l'immunoterapiaLe neoplasie con risultati migliori. Le neoplasie in cui si sono evidenziati i risultati migliori sono il melanoma, i tumori del polmone, i tumori del rene, della vescica e del distretto testa collo. In altri sottogruppi di pazienti, ad esempio, in chi soffre di tumori del distretto gastroenterico con «instabilità dei microsatelliti», (un’alterazione su base genetica che comporta l’alterata attività dei sistemi di riparazione del Dna) l’immunoterapia ha dato risultati molto interessanti, anche se, al momento, non è ancora riconosciuta da Ema (European Medicine Agency) ed Aifa ( Agenzia Italiana del Farmaco). Anche in questi casi però l’immunoterapia non è sempre efficace e deve spesso essere impiegata dopo un trattamento convenzionale con chemioterapia. Il beneficio è inoltre limitato in pazienti con condizioni generali non buone per presenza di altre patologie, per ridotto «performance status »(una scala con cui si valuta la condizione generale del paziente) o che necessitino di alte dosi di cortisone. Inoltre non può essere impiegata in pazienti con malattie autoimmuni, ad esempio artrite reumatoide, tiroidite autoimmune, perché potrebbe determinare un loro rapido peggioramento. Le neoplasie in cui si sono evidenziati i risultati migliori sono il melanoma, i tumori del polmone, i tumori del rene, della vescica e del distretto testa collo.CAR-T therapy efficaci contro alcuni tumori del sangue. Infine, le cellule ingegnerizzate, ovvero CAR-T (dall’inglese Chimeric Antigen Receptor T-cell), rappresentano un tipo di immunoterapia complessa, efficace e già in uso anche in Italia per curare alcune neoplasie del sangue. Per ora non trovano invece indicazione nella maggior parte dei tumori solidi: sono in corso diverse sperimentazioni, ancora alle prime fasi, ma al momento attuale non abbiamo dati sufficienti per utilizzarle.La tecnica consiste nel prelevare i linfociti T dal paziente, trattarli con metodiche complesse che li rendono capaci di individuare selettivamente un particolare antigene attraverso il legame con un anticorpo e, successivamente, moltiplicarli in vitro e reinfonderli al paziente.Infine, le cellule ingegnerizzate, ovvero CAR-T (dall’inglese Chimeric Antigen Receptor T-cell), rappresentano un tipo di immunoterapia complessa, efficace e già in uso anche in Italia.
Da "ansa.it" il 31 marzo 2020. Un test del sangue scova oltre 50 tumori in fase precoce, ancora prima che compaiano i sintomi, e ben 12 dei più aggressivi e di difficile diagnosi precoce come il cancro del pancreas. È lo straordinario risultato riportato sugli Annals of Oncology da Michael Seiden dell'azienda statunitense US Oncology. Il test si basa sullo studio del Dna tumorale circolante nel sangue attraverso un software che sfrutta l'intelligenza artificiale. Il programma è stato sviluppato sulla base di campioni di sangue di 1500 persone con tumori non trattati e altrettanti individui sani. In seguito il software è stato testato analizzando 650 campioni di sangue di pazienti con tumore e 610 campioni di soggetti sani di controllo. Il sistema è risultato super specifico nel fare la diagnosi: sbaglia solo lo 0,7% delle volte diagnosticando un tumore che in realtà non esiste (falso positivo). "Questo è uno studio decisivo - ha dichiarato il direttore della rivista Fabrice André dell'Institut Gustave Roussy in Francia - e rappresenta un primo passo verso lo sviluppo di facili test di screening". "La diagnosi precoce di oltre il 50% dei tumori potrebbe salvare milioni di vite ogni anno nel mondo", ha concluso.
Da "ansa.it" il 4 febbraio 2020. Si nasconde nello stesso sistema immunitario il meccanismo che permette ai tumori di sfuggire a ogni controllo. La scoperta, pubblicata sulla rivista Science Advances, potrebbe aprire la via a nuove terapie anticancro e si deve al gruppo tedesco coordinato dall'italiana Teresa Carlomagno, della Leibniz University Hannover (Luh), in collaborazione con Maja Banks-Khn e Wolfgang Schamel, dell'università di Friburgo. Le due proteine che involontariamente aiutano i tumori si chiamano Pd-1 e Shp-2 e si trovano sulla superficie delle cellule T del sistema immunitario. In condizioni normali il loro intervento è necessario in quanto si legano fra loro per frenare un'eccessiva reazione immunitaria. In particolare la proteina Pd-1 "ha la funzione di sopprimere un'eccessiva risposta immunitaria per evitare processi infiammatori eccessivi", dice all'ANSA Carlomagno. Per funzionare, aggiunge la ricercatrice, "la proteina ha bisogno di essere attivata. In seguito all'attivazione interagisce con un'altra proteina chiamata SHP-2 e da' inizio a una cascata di eventi che porta al blocco della risposta immunitaria". Il problema, prosegue, "è che i tumori si "appropriano" di questo meccanismo per sfuggire alla risposta immunitaria". In pratica, spiega la biologa strutturale, le cellule tumorali la proteina Pd-1 e "danno inizio alla sua interazione con la proteina Shp-2, dando vita alla cascata di eventi che porta alla soppressione della risposta immunitaria". Attualmente esistono già terapie anticancro che mirano a disturbare l'attivazione della proteina Pd-1 da parte delle cellule tumorali, ma sono basate su anticorpi costosi e hanno effetti collaterali. La scoperta apre la strada a terapie alternative in grado di riattivare le proprie difese contro le cellule tumorali. Scoprendo come le due proteine interagiscono tra loro, conclude l'esperta, "abbiamo creato la base di conoscenza necessaria per sviluppare molecole che disturbino il legame di Pd-1 a Shp-2 e che agirebbero su un altro anello della catena, rispetto agli anticorpi in commercio".
Tumori: in 10 anni aumentati del 53% i pazienti vivi dopo la diagnosi. L' Italia fra i primi per la sopravvivenza, ma le eccellenze sono a macchia leopardo. I dati diffusi alla vigilia della Giornata mondiale contro il cancro. La Repubblica il 03 febbraio 2020. Ma l'Oms lancia l'allarme: nel mondo in 20 anni i casi di tumore aumenteranno del 60%. In dieci anni, in Italia, i pazienti vivi dopo la diagnosi di tumore sono aumentati del 53 per cento. Erano due milioni e 250mila nel 2010, oggi sono 3 milioni e 460mila. Un risultato molto importante, che dimostra i passi in avanti realizzati nell'assistenza oncologica e che colloca il nostro paese ai vertici in Europa e nel mondo. Ma si tratta di un risultato migliorabile, perchè sono ancora troppe le differenze sul nostro territorio: dall'adesione e copertura degli screening ancora troppo basse al Sud, alla realizzazione delle reti oncologiche regionali a macchia di leopardo, alla disponibilità solo in alcune Regioni più virtuose di terapie efficaci e di test in grado di analizzare il profilo molecolare del tumore. E' concreto il rischio di pericolose discrepanze a danno dei pazienti. Per questo l'Associazione italiana di oncologia medica (Aiom) chiede, in occasione della Giornata mondiale contro il cancro che si celebra domani, che venga seguito l'esempio delle regioni più virtuose, a tutto vantaggio dei pazienti.
Stili di vita scorretti e fattori ambientali. "Nel 2018 sono stati stimati, nel mondo, più di 18 milioni di nuovi casi di cancro, erano 12 milioni nel 2008", spiega Giordano Beretta, presidente nazionale dell'Aiom e responsabile dell'Oncologia Medica all'Humanitas Gavazzeni di Bergamo. "La patologia è in costante crescita nel mondo per la diffusione di stili di vita scorretti, a cui si aggiungono anche fattori ambientali. La qualità del nostro Sistema Sanitario - prosegue - è testimoniata dalla sopravvivenza a 5 anni dalla diagnosi, che presenta tassi più alti rispetto alla media europea nei tumori più frequenti: 86 per cento nella mammella (83 per cento UE), 64 per cento nel colon (60 per cento UE), 16 per cento polmone (15 per cento UE) e 90 per cento prostata (87 per cento UE). E raggiungiamo questi risultati con minori investimenti: la spesa sanitaria pubblica in rapporto al Pil nel nostro Paese ha registrato un calo, passando dal 7 per cento nel 2010 al 6,5 per cento nel 2017, a fronte del 9,8 per cento della media europea. Vi sono, però, ancora differenze regionali che devono essere superate, perché nessuno rimanga indietro e tutti possano accedere alle cure più efficaci indipendentemente dal luogo in cui vivono".
Le terapie contro il melanoma. Alcune Regioni come la Campania hanno segnato la strada. "A ottobre 2019, è stata la prima in Italia a fornire gratuitamente a tutti i pazienti colpiti da melanoma, un tumore della pelle, la combinazione di due molecole immunoterapiche, nivolumab e ipilimumab", spiega Paolo Ascierto, direttore dell'Unità di Oncologia Melanoma, Immunoterapia Oncologica e Terapie Innovative dell'Istituto Nazionale Tumori IRCCS Fondazione G. Pascale di Napoli. "Un anno fa, la terapia era stata approvata dall'Agenzia Italiana del Farmaco (Aifa), ma lasciata in fascia C, impendendone così la rimborsabilità da parte del Servizio sanitario nazionale. Si è creato in questo modo - continua - un grave danno per i pazienti colpiti da melanoma, soprattutto per i cittadini con metastasi cerebrali asintomatiche, circa il 40 per cento del totale, per i quali questa combinazione ha evidenziato risultati importanti: il 70% delle persone è libero da recidiva a 2 anni, motivo per cui tale trattamento è riconosciuto come prima opzione dalle maggiori linee guida internazionali in questi pazienti. Nelle altre Regioni la terapia non è ancora rimborsata, chiediamo che le Istituzioni locali si attivino quanto prima perché i malati non possono aspettare".
Test genomici in Lombardia. La Lombardia è stata apripista sui test genomici, stabilendone, a settembre 2019, la rimborsabilità per le donne con carcinoma della mammella in stadio iniziale (positivo ai recettori ormonali e a rischio intermedio). Nel trattamento del tumore della mammella si stanno evidenziando preoccupanti disparità nell'accesso alle terapie. "In particolare, nelle forme che esprimono in quantità eccessiva la proteina HER2 e che rappresentano circa il 15-20 per cento dei casi, l'ente regolatorio europeo (Ema) nel 2015 ha approvato pertuzumab, terapia a bersaglio molecolare, prima della chirurgia (trattamento neoadiuvante)", spiega Lucia Del Mastro, membro del direttivo nazionale dell'Aiom e eesponsabile Breast Unit IRCCS Ospedale Policlinico San Martino di Genova. "E' dimostrato che il farmaco, somministrato insieme alla chemioterapia prima dell'intervento chirurgico, aumenta la probabilità di ottenere la risposta patologica completa, vale a dire la scomparsa del tumore invasivo sia nel seno che nei linfonodi, riducendo così le probabilità di ripresa di malattia. AIFA ha recepito l'indicazione europea, ma nel 2017 - prosegue - ha deciso di non rimborsare la molecola. In questo modo, si creano disuguaglianze sia rispetto agli altri Paesi europei che invece (fatta eccezione per la Francia) hanno rimborsato la molecola sia all'interno del territorio nazionale.
Disparità fra le diverse regioni. Assistiamo a disparità inaccettabili nell'accesso alla terapia, anche all'interno di una stessa Regione, perchè alcuni ospedali hanno assunto la decisione di acquistare il farmaco, invece altri, per considerazioni di budget, non l'hanno adottata. Nel momento in cui EMA approva un farmaco con una specifica indicazione, Aifa dovrebbe non solo recepire la decisione ma anche rimborsare la terapia. La situazione attuale crea difficoltà sia alle pazienti sia ai medici, che non possono seguire le linee guida internazionali che raccomandano il trattamento neoadiuvante con pertuzumab".
Da "huffingtonpost.it" il 4 febbraio 2020. Se non ci sarà un cambio di rotta, “il mondo vedrà un aumento del 60% dei casi di tumore nei prossimi 20 anni”. La crescita maggiore di nuovi casi, stimata dell′81%, si verificherà nei paesi a basso e medio reddito, dove i tassi di sopravvivenza sono i più bassi. A lanciare l’allarme è l’organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) che, oggi, in occasione della Giornata mondiale del cancro, definisce “inaccettabile il gap tra i Paesi” e delinea i “passi per salvare 7 milioni di vite” dai tumori in 10 anni. Nel 2019, oltre il 90% dei paesi ad alto reddito disponeva, nel proprio servizio sanitario pubblico, di servizi completi per prevenire, diagnosticare e curare i tumori le neoplasie, rispetto al 15% dei paesi a basso reddito. Numeri che hanno il loro riflesso sulla vita dei pazienti. “Gli ultimi 50 anni hanno visto enormi progressi nella ricerca” e “i decessi sono stati ridotti”, afferma Elisabete Weiderpass, direttore dell’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro (Iarc). A beneficiarne sono stati però soprattutto i paesi ad alto reddito che hanno adottato programmi di prevenzione, diagnosi precoce e screening, che, insieme a un trattamento migliore, hanno contribuito a una riduzione del 20% di mortalità prematura tra il 2000 e il 2015. Mentre i paesi a basso reddito hanno visto solo una riduzione del 5%”. Questo è “un campanello d’allarme per affrontare le inaccettabili disuguaglianze tra i servizi oncologici nei paesi ricchi e poveri”, sottolinea Ren Minghui, vicedirettore generale dell’Oms, responsabile Area malattie trasmissibili e non trasmissibili. “Almeno 7 milioni di vite potrebbero essere salvate nel prossimo decennio, basandosi sulla copertura sanitaria universale e mobilitando diverse parti interessate a lavorare insieme”, ha affermato Tedros Adhanom Ghebreyesus, direttore generale Oms. Oltre agli screening, tra gli interventi da implementare, la riduzione dell’uso del tabacco (responsabile del 25% dei decessi per cancro), la vaccinazione contro l’epatite B per prevenire il tumore al fegato, l’eliminazione del cancro al collo dell’utero, attraverso la vaccinazione contro l’HPV.
Nicla Panciera per "lastampa.it" il 4 febbraio 2020. Si celebra oggi nel mondo la giornata mondiale contro il cancro. Immunoterapia, prevenzione, rivoluzione genomica: molti sono i risultati ottenuti grazie al progresso della ricerca e al lavoro quotidiano dei clinici in termini di riduzione della mortalità e miglioramento della qualità di vita e numerosi sono gli obiettivi da raggiungere, come l’abbattimento delle differenze regionali nell’accesso alle cure e ai servizi oncologici. L’Associazione Italiana di Oncologia Medica (AIOM) lancia un appello alle Istituzioni perché venga seguito l’esempio delle Regioni più virtuose, a tutto vantaggio dei pazienti. Allarme dell’Oms. Troppe differenze fra i vari Paesi. Differenze regionali, ma anche legate alle latitudini visto che l’Oms parla di «inaccettabile gap tra i vari Paesi» in fatto di diagnosi e cure. «Se non ci sarà un cambio di rotta, il mondo vedrà un aumento del 60% dei casi di tumore nei prossimi 20 anni». Avvisa l’Organizzazione Mondiale della Sanità. La crescita maggiore di nuovi casi, stimata dell'81%, si verificherà nei paesi a basso e medio reddito, dove i tassi di sopravvivenza sono i più bassi. Sempre l’Oms delinea i «passi per salvare 7 milioni di vite» dai tumori in 10 anni. Nel 2019, oltre il 90% dei paesi ad alto reddito disponeva, nel proprio servizio sanitario pubblico, di servizi completi per prevenire, diagnosticare e curare i tumori le neoplasie, rispetto al 15% dei paesi a basso reddito. Numeri che hanno il loro riflesso sulla vita dei pazienti. «Almeno 7 milioni di vite potrebbero essere salvate nel prossimo decennio, basandosi sulla copertura sanitaria universale e mobilitando diverse parti interessate a lavorare insieme», ha affermato Tedros Adhanom Ghebreyesus, direttore generale Oms. Oltre agli screening, tra gli interventi da implementare, la riduzione dell'uso del tabacco (responsabile del 25% dei decessi per cancro), la vaccinazione contro l'epatite B per prevenire il tumore al fegato, l'eliminazione del cancro al collo dell'utero, attraverso la vaccinazione contro l'HPV. In dieci anni, in Italia, i pazienti vivi dopo la diagnosi di tumore sono aumentati del 53%. Erano 2 milioni e 250mila nel 2010, oggi sono 3 milioni e 460mila. «Nel 2018 sono stati stimati, nel mondo, più di 18 milioni di nuovi casi di cancro, erano 12 milioni nel 2008» spiega Giordano Beretta, Presidente Nazionale Associazione Italiana di Oncologia Medica (AIOM) e Responsabile dell’Oncologia Medica all’Humanitas Gavazzeni di Bergamo.
Federico Malavasi per ilrestodelcarlino.it il 4 febbraio 2020. Igor il russo ovvero Norbert Feher è stato condannato dal Tribunale di Teruel, in Spagna, a 21 anni di carcere, per il tentato omicidio di due persone, un agricoltore e un fabbro, reato commesso il 5 dicembre 2017 ad Albalate del Arzobispo (Aragona). Nell'udienza che si era svolta il 28 gennaio, l'accusa aveva chiesto per il killer serbo 22 anni e 10 mesi. Igor rispondeva anche di possesso illegale di armi. Il suo avvocato spagnolo, Manuel Zapater, sta decidendo se presentare appello, confidando sulla possibilità di ottenere un ulteriore sconto di pena, visto che Igor ammise le sue responsabilità fin dal momento dell'arresto, avvenuto il 15 dicembre del 2017, dopo aver ucciso tre persone, un agricoltore e due agenti della della Guardia civil. Il processo per i tre omicidi comincerà in primavera. In Italia, invece, lo attendono altri due processi: a Ferrara è apparso oggi in videoconferenza per rispondere davanti al Tribunale cittadino di tre rapine, commesse nell'estate del 2015, con la banda composta insieme ad Ivan Pajdek e Patrick Ruszo. E infine il processo d'Appello, a Bologna, per gli omicidi dell'aprile 2017 della guardia volontaria Valerio Verri e del barista Davide Fabbri, fissato il prossimo 27 maggio. In primo grado, nel marzo del 2019, venne condannato all'ergastolo.
Ore 10.16. Il volto di Norbert Feher, alias Igor il russo, il pluriomicida serbo detenuto in Spagna dove fu catturato dopo gli omicidi del volontario ferrarese di Legambiente Valerio Verri e del barista di Budrio Davide Fabbri, fa capolino in videoconferenza nell'aula B del tribunale di Ferrara. Feher é imputato per le tre rapine violente dell'estate del 2015, commesse insieme a due complici, Ivan Pajdek e Patrick Ruszo (già processati per quei fatti). Felpa bianca e giubbino nero, Feher ha risposto alle prime domande di rito del tribunale. Ha detto di capire "perfettamente" l'italiano e ha dato il consenso a essere processato in videoconferenza. Il killer ha poi nominato un nuovo avvocato, Gianluca Belluomini di Bologna al posto di Cristian Altieri. Il nuovo legale ha chiesto i termini a difesa e l'udienza é stata aggiornata a mercoledì, quando verrà ascoltato Alessandro Colombani, vittima della rapina messa a segno dalla banda a Villanova di Denore. Poi il calendario fissato per il 13 marzo e infine 1 aprile, quando si potrebbe avere la sentenza: sarebbe il terzo anniversario dell'omicidio del barista di Budrio Davide Fabbri. "Sì è la sua voce, l'ho riconosciuta dalle poche parole, ricordo quel tono di voce sulle mie orecchie, 5 anni fa, quando venni aggredito e bastonato", ha detto Colombani ai cronisti -. Sono un sopravvissuto e oggi in questa aula sono tornato indietro nel tempo, a 5 anni fa, perché quella cicatrice è sempre aperta, sono i fantasmi che ricompaiono, una cosa che ti rimane tutta dentro che ha cambiato il corso della mia vita e da sopravvissuto oggi sono qui per testimoniare e chiedere giustizia per quelli che non ci sono più".
Vito Salinaro per “Avvenire” il 20 gennaio 2020. Rispetto alla media europea gli italiani sopravvivono di più alla seconda causa di morte in assoluto (dopo le malattie cardiovasco-lari): il cancro. La notizia circolava da tempo. Ma è stata confermata, con l' ufficialità dei numeri a Bari, nel corso del rapporto 'State of health in the EU: Italy. Country health profile 2019'. In particolare per il tumore alla prostata - che fa registrare, nei maschi italiani, un' incidenza del 18,1% - la sopravvivenza a 5 anni è del 90%, contro una media dell' 87% ottenuta nel Vecchio continente. Per il cancro ai polmoni (che ha un' incidenza, in Italia, del 14,1%) la sopravvivenza nel Bel Paese è del 16% (15% in Europa), mentre per quello al seno il rapporto è del 64% (Italia) contro il 60% (Europa). Scontato il riferimento del Rapporto al Sistema sanitario nazionale (Ssn) che, «fornendo di norma cure efficaci e tempestive per i pazienti oncologici », fa guadagnare all' Italia «il secondo tasso più basso di mortalità prevenibile nell' Ue, dopo Cipro». Nel Rapporto ci sono anche note meno liete: tra il 2010 e il 2018, viene evidenziato, oltre 8.800 neolaureati in medicina o medici già in possesso di una formazione completa, hanno infatti lasciato l' Italia. E questo per mancanza di un tirocinio o di una specializzazione per completare la formazione poiché i posti sono limitati a un numero totale assai inferiore a quello dei laureati. Resta però il dato del progressivo aumento delle percentuali di guarigione in Italia che, come sottolineano l' Associazione italiana di oncologia medica (Aiom) e l' Associazione italiana registri tumori (Airtum), ha raggiunto, nel 2018, il 63% nelle donne e il 54% negli uomini. «Concordo nel dire che da noi il Sistema sanitario nazionale fa ancora la differenza. E se in Italia la cultura dello screening raggiungesse le percentuali auspicate si otterrebbero risultati ancora più lusinghieri nella lotta a questa malattia»; così Paolo Ascierto, direttore della struttura complessa di Oncologia medica, melanoma, immunoterapia oncologica e terapie innovative dell' Istituto nazionale tumori Pascale di Napoli. «Gli italiani - aggiunge - sono comunque sempre più attenti ad alcune delle cause scatenanti del cancro. Qualche esempio? Il fumo di sigarette, in generale, è in diminuzione, mentre cresce l' attenzione a quello che mangiamo, privilegiamo la dieta mediterranea e alimenti come olio d' oliva e pomodori. Inoltre - spiega Ascierto - facciamo meno lampade abbronzanti che rappresentano un fattore di rischio. Tutto questo incide perché la prevenzione inizia dai corretti stili di vita». E il futuro? «I trattamenti anticancro più innovativi sono sempre più diffusi in tutto il Paese e non necessariamente riservati agli Irccs (Istituti di ricovero e cura a carattere scientifico, ndr ) o agli ospedali universitari - dice lo specialista -. Certo, i centri ad alta specializzazione non possono essere dietro ad ogni angolo però tutte le regioni hanno almeno un punto di riferimento accreditato. Il futuro ci apre a grandi speranze», assicura l' oncologo. Nei prossimi 10 anni «la percentuale dei pazienti guariti salirà ulteriormente e in modo considerevole». Le innovazioni nella cura «sono continue grazie all' immunoterapia, alle terapie combinate, ai farmaci target. Solo due mesi fa abbiamo riscontrato avanzamenti importanti nella ricerca su due tumori: l' epatocarcinoma e quello della mammella di tipo triplo negativo.
Ma molte altre molecole già si annunciano come determinanti per aumentare decisamente l' efficacia delle attuali terapie».
Tumori, in Italia sopravvivenza più alta che nel resto d’Europa. Pubblicato venerdì, 17 gennaio 2020 su Corriere.it da Vera Martinella. Se lo chiedono, almeno una volta, migliaia di connazionali che affrontano una diagnosi di cancro come malati in prima persona o assistendo una persona cara: devo andare all’estero a farmi curare? Non ci saranno più speranze di guarire se vado dal luminare oltre confine? La risposta è scientifica e sta nelle statistiche ufficiali: in Italia i tassi di sopravvivenza a cinque anni dalla scoperta di una neoplasia sono più elevati rispetto alle media europea. A ricordarlo sono gli esperti riuniti a Bari per la presentazione del rapporto «State of Health in the EU: Italy. Country Health Profile 2019». Basta guardare i numeri dei tipi di cancro maggiormente riscontrati nelle persone: per il tumore alla prostata (il più diffuso fra gli uomini) la sopravvivenza nel nostro Paese è del 90% contro una media dell’87% nel resto d’Europa; per quello ai polmoni (terzo più frequente nella popolazione) è del 16% in Italia e del 15% in Ue; per quello al seno (il più comune nelle donne) dell’86% da noi contro l’83% europeo; per il carcinoma colon-rettale (secondo nella diffusione nel nostro Paese) rispettivamente del 64% e 60%. Il Rapporto di Salute nell’Unione Europea è un’iniziativa biennale che presenta a rappresentanti politici, gruppi di interesse e operatori sanitari, una panoramica a livello dell’Ue dei profili sanitari per Paese, mettendo in evidenza le caratteristiche specifiche di ciascuno Stato membro e le relative sfide che saranno presentate insieme ad una relazione di accompagnamento in cui la Commissione trae conclusioni trasversali. La Regione Puglia ospita oggi a Bari una delle quattro tappe europee di presentazione del Rapporto: le altre saranno ad Atene, Stoccolma ed Helsinki. «Il Sistema sanitario nazionale – si legge nel volume - fornisce di norma cure efficaci e tempestive per i pazienti oncologici» e il nostro Ssn italiano viene promosso per la sua efficienza: «L’Italia – è scritto - registra il secondo tasso più basso di mortalità prevenibile nell’Ue, dopo Cipro».
Da noi le morti per cancro diminuiscono in misura maggiore rispetto all’Europa. Altri rapporti in precedenza avevano rilevato che in Italia i pazienti vivono più a lungo della media europea, come in occasione del congresso annuale della European Society for Medical Oncology (Esmo) lo scorso autunno. «La sopravvivenza a 5 anni è il miglior strumento per valutare l’efficacia di un sistema sanitario nella lotta al cancro – ricorda Giordano Beretta, presidente dell’Associazione Italiana di Oncologia Medica (Aiom) -. In Italia raggiunge il 63% ed è migliore sia della media europea (57%) che dei livelli toccati dal Nord Europa, come i Paesi Scandinavi (59%), Regno Unito e Irlanda (53%). Non solo. In Italia le morti per cancro diminuiscono in misura maggiore rispetto al resto d’Europa. Il nostro Paese si trova al primo posto in questa classifica: in 15 anni (2001-2016) il calo dei decessi è stato pari al 17,6%, in Francia e Spagna al 16%, nel Regno Unito al 13% e in Germania al 12,3%. Un risultato molto importante, se si considera che l’impatto dei farmaci oncologici sulla spesa farmaceutica totale rimane inferiore a quello degli altri Paesi: rappresenta infatti il 13% contro il 17,3% del Regno Unito e il 17% della Germania». Altri rapporti in precedenza avevano rilevato che in Italia i pazienti vivono più a lungo della media europea, come in occasione del congresso annuale della European Society for Medical Oncology. Sono 371mila, secondo le stime presentate al Ministero della Salute, i nuovi casi di cancro diagnosticati nel nostro Paese nel 2019. A dare il censimento ufficiale della situazione nel nostro Paese è il volume «I numeri del cancro in Italia 2019», che per l'anno scorso mette in luce anche come persistano alcune differenze fra le varie Regione: al Sud ci si ammala di meno (grazie per lo più ad abitudini alimentari, vita riproduttiva, minore esposizione a fattori di rischio ambientale), ma la minore adesione agli screening oncologici non ha fatto rilevare quei benefici effetti della diagnosi precoce, che si registrano al Nord. Quasi 3 milioni e mezzo di italiani (3.460.025, il 5,3% dell’intera popolazione) oggi vivono dopo la diagnosi di cancro, cifra in costante crescita (erano poco più di 2 milioni e mezzo nel 2010), grazie a terapie sempre più efficaci e alla maggiore partecipazione ai programmi di prevenzione.
Tumori, in Italia tassi sopravvivenza più alti che nel resto d'Europa: presentato rapporto a Bari. Per il tumore alla prostata in Italia la sopravvivenza è del 90% contro una media dell’87% nel resto d’Europa. Per il cancro ai polmoni è del 16% in Italia e 15% in Europa. La Gazzetta del Mezzogiorno il 17 Gennaio 2020. In Italia i tassi di sopravvivenza a 5 anni dalla diagnosi di malattie oncologiche sono più elevati rispetto alle media europea. Emerge dal rapporto 'State of Health in the EU: Italy. Country Health Profile 2019' presentato a Bari. Per il tumore alla prostata in Italia la sopravvivenza è del 90% contro una media dell’87% nel resto d’Europa. Per il cancro ai polmoni è del 16% in Italia e 15% in Europa, per quello al seno 86% in Italia contro l’83% europeo, per il tumore al colon 64% in Italia e 60% in Europa. «Il sistema sanitario nazionale - si legge nel rapporto - fornisce di norma cure efficaci e tempestive per i pazienti oncologici». Più in generale, il Ssn italiano viene promosso per la sua efficacia: «L'Italia - è scritto - registra il secondo tasso più basso di mortalità prevenibile nell’UE, dopo Cipro». Il rapporto - che verrà presentato successivamente ad Atene, Stoccolma e Helsinki - analizza l’efficacia ed efficienza del sistema sanitario italiano paragonandolo a quello di 26 Stati membri dell’UE. All’evento prende parte la viceministra della Salute, Sandra Zampa. La conclusione dei lavori è affidata al presidente della Regione Puglia Michele Emiliano. Alle tavole rotonde organizzate nell’arco della mattinata parteciperanno anche Isabel De La Mata, direttore generale della Commissione europea Salute, Silvio Brusaferro, presidente dell’Istituto italiano di Sanità e Luca Lorenzoni (Ocse). Circa un terzo dei decessi avvenuti in Italia nel 2017 è attribuibile a fattori di rischio comportamentali, tra cui i rischi connessi alla dieta, il tabagismo, il consumo di alcolici e la scarsa attività fisica. E' quanto emerge dal rapporto State of Health in the EU: Italy. Country Health Profile 2019» presentato a Bari, e organizzato dall’Aress Puglia in collaborazione con la Commissione europea, Ocse e Osservatorio Europeo sui Sistemi Sanitari e sulle Politiche Sanitarie. Sul totale dei decessi avvenuti nel 2017, circa il 16% (98.000) è riconducibile a rischi connessi alla dieta (tra cui un basso consumo di frutta e verdura e un consumo elevato di zuccheri e sale). Il consumo di tabacco (compreso il fumo attivo e passivo) è responsabile di circa il 14 % delle morti (oltre 90.000), quasi il 4% (26.000) è attribuibile al consumo di alcolici e il 3% (18.000) alla scarsa attività fisica. Tutte le percentuali sono inferiori alla media dell’Unione europea, ad eccezione di quella relativa alla scarsa attività fisica. In Italia il consumo di tabacco continua a rappresentare uno dei principali problemi di salute pubblica, in particolare tra gli uomini: nel 2017, il 25% della popolazione maschile in Italia ha dichiarato di fumare quotidianamente, rispetto al 15% delle donne. Nonostante il calo registrato nell’ultimo decennio, la percentuale di fumatori resta superiore a quella della maggior parte dei paesi dell’UE. Resta molto elevato anche il numero di fumatori tra gli adolescenti italiani. Nel 2015, più di un terzo dei ragazzi e delle ragazze di 15 e 16 anni ha dichiarato di avere fumato, anche solo occasionalmente, nel mese precedente. Nel 2017 l’Italia ha destinato alla sanità l’8,8 % del proprio Pil, collocandosi al di sotto della media europea, pari al 9,8%. La spesa sanitaria pro capite si è attestata a 2.483 euro, oltre il 10% in meno rispetto alla media dell’Europa, pari a 2.884 euro. E’ quanto emerge dal rapporto State of Health in the EU: Italy. Country Health Profile 2019" presentato questa mattina a Bari, nell’aula del consiglio regionale pugliese: si tratta di un evento organizzato dall’Aress Puglia in collaborazione con la Commissione europea, Ocse e Osservatorio Europeo sui Sistemi Sanitari e sulle Politiche Sanitarie. Il rapporto analizza l’efficacia ed efficienza del sistema sanitario italiano paragonandolo a quello di 26 Stati membri dell’UE. «Dopo la crisi economica del 2009 - si legge nel rapporto - la spesa sanitaria pro capite ha registrato un calo fino al 2013, per poi riprendere ad aumentare moderatamente». Sebbene i Lea, i livelli essenziali di assistenza, di base coprano un’ampia gamma di servizi, le spese non rimborsabili a carico delle famiglie sono relativamente elevate (24%) e costituiscono la maggior parte della spesa sanitaria rimanente. Le assicurazioni sanitarie private rivestono un ruolo marginale, andando a coprire soltanto il 2% circa della spesa sanitaria totale. L’Italia ha la seconda più alta speranza di vita in Europa, però ci sono notevoli disparità tra Nord e Sud, per genere e situazione socio-economica. E’ quanto emerge dal rapporto State of Health in the EU: Italy. Country Health Profile 2019» presentato questa mattina a Bari, nell’aula del Consiglio regionale pugliese: si tratta di un evento organizzato dall’Aress Puglia in collaborazione con la Commissione europea, Ocse e Osservatorio Europeo sui Sistemi Sanitari e sulle Politiche Sanitarie. Il rapporto analizza l'efficacia ed efficienza del sistema sanitario italiano paragonandolo a quello di 26 Stati membri dell’UE. «Nel complesso - si legge nel rapporto - il sistema sanitario italiano è efficiente, e garantisce un buon accesso a prestazioni sanitarie di elevata qualità a costi relativamente bassi, sebbene si registrino differenze considerevoli tra le regioni. Le principali sfide per il sistema sanitario italiano consistono nel migliorare il coordinamento delle prestazioni sanitarie per la crescente fascia della popolazione affetta da malattie croniche, e ridurre le disparità di accesso alle cure». Nel 2017, la speranza di vita alla nascita in Italia ha raggiunto gli 83,1 anni, ponendo il Paese al secondo posto nell’Unione europea dopo la Spagna. Gli uomini italiani vivono in media quattro anni in meno delle donne. Sussistono inoltre notevoli disparità connesse alla situazione socioeconomica e a livello interregionale: gli uomini italiani meno istruiti vivono in media 4,5 anni in meno rispetto a quelli più istruiti, e le persone che risiedono nelle regioni del Nord vivono oltre tre anni in più rispetto a chi vive al Sud. Nel 2017, la regione con la speranza di vita alla nascita più elevata era la regione settentrionale del Trentino-Alto Adige, i cui cittadini avevano una speranza di vita di tre anni superiore rispetto alla regione meridionale della Campania, la regione in cui la speranza di vita era la più breve.
· Ecco il santo protettore dei malati di cancro.
Ecco il santo protettore dei malati di cancro. Il santuario a Padova dedicato a Leopoldo Mandic. Leopoldo Mandic, frate cappuccino morto di tumore nel 1942, è stato nominato ufficialmente il loro patrono. Era stato canonizzato da papa Giovanni Paolo II, che lo indicò come modello dei confessori. A Padova il santuario. Enrico Ferro l'08 febbraio 2020 su La Repubblica. San Leopoldo Mandic è stato nominato ufficialmente patrono dei malati di tumore. La Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti, presieduta dal cardinale Robert Sarah, ha firmato il decreto giovedì scorso. L’annuncio ufficiale l'ha dato la Diocesi di Padova, dove ha sede il Santuario di San Leopoldo che ne conserva le spoglie. «Questo riconoscimento è un’occasione per farsi prossimi a tutti i bisogni di attenzione e vicinanza di chi vive la malattia, specie in campo oncologico. È un modo per essere vicini a malati e familiari, che spesso si trovano soli, ma anche agli operatori sanitari: è un modo per ascoltare la sofferenza», dice soddisfatto il vescovo di Padova Claudio Cipolla. Il riconoscimento arriva dopo un lungo iter avviato nel 2016, a seguito della richiesta dei frati cappuccini e di un gruppo di medici padovani. Da quel 23 luglio 2016 al 6 gennaio 2020 sono intercorsi vari passaggi e sono state raccolte 69.758 firme. È questo un ulteriore riconoscimento alla santità del frate cappuccino canonizzato nel 1983 da papa Giovanni Paolo II, che lo indicò come modello dei confessori. Leopoldo Mandic, al secolo Bodgan Ivan, nato il 12 maggio 1866 in Montenegro, provò lui stesso l’esperienza della malattia oncologica, portandone il peso con serenità. Morì di tumore all'esofago il 30 luglio 1942. Ora la congregazione lo riconosce patrono dei malati di tumore, con queste parole: "San Leopoldo Mandi? da Castelnuovo, presbitero dell’Ordine dei Frati Minori Cappuccini, che spese tutta la sua vita nell’esercizio del ministero della Riconciliazione e, che, colpito da una malattia tumorale, ne portò il grave e prolungato peso con fede serena, è venerato con particolare devozione dai malati e dai loro familiari. Per questo motivo, accogliendo gli unanimi voti dei fedeli, la Conferenza dei Vescovi Italiani ha approvato l’elezione di San Leopoldo quale Patrono presso Dio dei malati di tumore d’Italia". Una figura legata al Nordest la sua. Il giovane Bogdan fu accolto nel seminario cappuccino di Udine e poi, diciottenne, il 2 maggio 1884 al noviziato di Bassano del Grappa (Vicenza), dove vestì l'abito francescano, ricevendo il nuovo nome di "fra Leopoldo" e impegnandosi a vivere la regola e lo spirito di san Francesco d'Assisi. Dal 1885 al 1890 completò gli studi filosofici e teologici nei conventi di Santa Croce a Padova e del Santissimo Redentore a Venezia. Il 20 settembre 1890, nella basilica della Madonna della Salute a Venezia, fu ordinato sacerdote. A Padova, al convento di piazzale Santa Croce, padre Leopoldo arrivò nella primavera del 1909 e nell'agosto del 1910, fu nominato direttore degli giovani frati cappuccini che frequentavano lo studio della Filosofia e della Teologia. Come altri 'stranieri' residenti in Veneto, nel 1917 fu sottoposto a indagini di polizia e, visto che non intendeva rinunciare alla cittadinanza austriaca, venne mandato al confino nel sud d'Italia. Il 27 maggio 1919 tornò al convento di Cappuccini di Santa Croce in Padova, dove riprese il proprio posto. Martedì prossimo (11 febbraio) sarà la giornata mondiale del malato. Il vescovo Claudio Cipolla ricorderà il nuovo patrono dall'altare della Basilica del Santo di Padova. Enrico Ferro
· L’Amiloidosi.
Amiloidosi, di cosa si tratta e come si manifesta? A seconda della natura delle proteine che costituiscono i depositi di amiloide, la malattia si distingue in varie tipologie. Maria Girardi, Martrdì 05/05/2020 su Il Giornale. Con il termine amiloidosi si indicano una serie di patologie caratterizzate dall'accumulo, quasi sempre in sede extracellulare, di amiloide, ovvero un materiale proteico fibrillare. La causa dell'amiloidosi consiste in disordini della struttura secondaria delle proteine. In condizioni normali queste vengono sintetizzate da una stringa lineare di amminoacidi che, ripiegandosi, assume una conformazione specifica. Proprio grazie a tale struttura la proteina è in grado di svolgere le sue funzioni. Le proteine amiloidi, invece, derivano da un precursore elaborato non correttamente dalle cellule. Attualmente sono stati individuati ben 20 diversi precursori proteici che possono assumere una conformazione amiloide. In base alla localizzazione dei depositi, la malattia si distingue in una forma localizzata e in una sistemica. La prima, solitamente meno grave, è confinata ad un organo o a un tessuto. Nella seconda, invece, i depositi, di origine neoplastica, infiammatoria, genetica o iatrogena, sono diffusi in vari organi. A seconda della natura delle proteine che costituiscono i depositi fibrillari, si distinguono poi diverse tipologie di amiloidosi.
Amiloidosi primaria. Spesso conseguenza di gammopatia monoclonali e associata al mieloma multiplo, questa forma deriva da un accumulo di fibrille contenenti catene leggere di immunoglobuline derivate da plasmacellule monoclonali. Oltre alle manifestazioni generali (affaticamento, perdita di peso, edema), i sintomi variano in base all'organo interessato (prevalentemente reni, cuore, fegato, sistema nervoso periferico e autonomo, pelle, polmoni) e alle dimensioni dei depositi di amiloide. Manifestazioni tipiche sono: vertigini, mancanza di respiro, formicolio alle mani e ai piedi, porpora intorno agli occhi, macroglossia, sindrome del tunnel carpale, lesioni cutanee.
Amiloidosi secondaria. Si sviluppa come complicanza di malattie che causano una condizione infiammatoria persistente (artrite reumatoide, tubercolosi, lebbra, febbre mediterranea familiare) e di alcune forme cancerose (carcinoma a cellule renali). L'amiloide si accumula in particolar modo nella milza, nel fegato, nei linfonodi, nelle ghiandole surrenali e nei reni. Caratteristica di questa tipologia è l'epatosplenomegalia e la proteinuria.
Amiloidosi senile (cardiaca). Tipica del processo di invecchiamento, si riscontra nei soggetti di età superiore ai 60 anni. Le cause dei depositi a livello cardiaco non sono ancora note.
Amiloidosi ereditaria. Provocata da un difetto genetico, questa forma attacca prevalentemente il sistema nervoso. I pazienti, infatti, sviluppano negli arti inferiori una neuropatia simmetrica sensitivo-motoria. I rischi di soffrire di amiloidosi aumentano negli individui di sesso maschile con più di 60 anni, nei dializzati, in chi soffre di patologie croniche infettive o infiammatorie e negli individui con disordini che interessano le plasmacellule, come mieloma multiplo, linfoma, gammopatia monoclonale.
· La Brucellosi.
Cos’è la brucellosi, malattia degli animali trasmissibile all’uomo. Notizie.it il 19/09/2020. Cos'è e come si può trasmettere la brucellosi, malattia infettiva tipica degli animali d'allevamento che può però colpire anche l'essere umano. Leggendo notizie che trattano di contaminazioni alimentari e dei successivi sequestri capita a volte di imbattersi nella parola brucellosi; termine indicante una malattia infettiva diffusa tra gli animali d’allevamento, ma anche tra cervi e cetacei, che in alcuni casi può venire trasmessa anche all’uomo, con sintomi variabili dalla semplice febbre fino al decesso nei casi più gravi. Ma com’è possibile contrarre la brucellosi e in che modo la si può individuare una volta contagiati?
Brucellosi, cos’è?
La brucellosi, la quale deve il suo nome al microbiologo scozzese David Bruce che per primo la isolò nel 1886, è una cosiddetta zoonosi, cioè una malattia infettiva degli animali trasmissibile però anche agli esseri umani. Essa può venire scatenata da una delle sette diverse specie di batteri del genere Brucella, come la Brucella Abortus, la B. Suis, la B. Ovis, la B. Neotomae, la B. Canis, la B. Maris e la B. Melitensis, quest’ultima prevalente sul territorio italiano e particolarmente pericolosa per le capre. La malattia generata dal batterio, che nelle sue diverse specie, può colpire anche mucche, maiali, capre, pecore e cani, viene considerata un potenziale pericolo per la sanità pubblica sia per la possibilità che venga trasmessa all’uomo sia per i danni economico alla filiera agroalimentare che può provocare se diffusa all’interno degli allevamenti.
I sintomi nell’uomo. Nell’essere umano la brucellosi si presenta generalmente con sintomi simili a quelli di un’influenza, con febbre, mal di testa, mal di schiena e affaticamento generale. In forme più gravi o se non curata tempestivamente tuttavia, la brucellosi può portare anche a danni del sistema nervoso centrale, con febbri ricorrenti e dolori articolari nel caso dovesse diventare una malattia cronica. Nei casi estremi può anche sopraggiungere il decesso, la cui probabilità è però del 2% sul totale dei contagiati. Solitamente la brucellosi viene curata con dei normali antibiotici, anche se in alcuni casi è necessario il ricovero ospedaliero.
Come si contrae. La brucellosi può essere contratta in due modi principali: cioè attraverso l’ingestione di alimenti infetti, come latte non pastorizzato, o attraverso il contatto diretto con animali contagiati. Un rischio quest’ultimo a cui sono esposto soprattutto i lavoratori agricoli, per i quali è sempre raccomandato di indossare guanti protettivi durante lo svolgimento delle loro mansioni.
· L’Infarto.
Antonio G. Rebuzzi per “il Messaggero”, Professore di Cardiologia Università Cattolica-Policlinico Gemelli Roma, il 4 novembre 2020. Le donne sono meno colpite dalle malattie coronariche, ma sono svantaggiate rispetto agli uomini se hanno un infarto? Un po' sì e un po' no. In età giovanile vi sono vari fattori, tra cui le più sane abitudini di vita ed il ruolo giocato dagli ormoni femminili, che sostanzialmente proteggono le donne nei confronti delle patologie vascolari. Nel periodo post-infartuale, le conseguenze invece sembrano essere più pesanti. Mentre l' angina e l' infarto miocardico negli uomini è nella maggior parte dei casi dovuto ad un' ostruzione delle arterie coronariche maggiori, nelle donne oltre all' ostruzione, ci possono essere cause differenti. Si può avere, infatti, uno spasmo dei piccoli vasi coronarici (il cosiddetto microcircolo) o anche una dissezione coronarica che consiste in una separazione spontanea dei vari strati che compongono la parete delle arterie e che può portare ad una chiusura del lume dentro cui scorre il sangue.
I PROGRAMMI. A fronte di una spesso differente fisiopatologia che porta all' infarto, le linee guida propongono terapie simili che sono basate su trials clinici in cui le donne sono una netta minoranza. Si cura quindi più o meno alla stessa maniera patologie di origine a volte differenti. Nell' ultimo numero della rivista Journal of American College of Cardiology, è pubblicato un articolo di Sanna A.E.Peters del George Institute for Global Health dell' Imperial College di Londra sulle differenze tra uomo e donna nella risposta ad eventi coronarici.
Sono stati analizzati i dati di oltre 1.500.000 soggetti di entrambi i sessi dai 21 anni in su. È stato quindi valutato il rischio nell' anno successivo, di andare incontro ad importanti patologie cardiache sia nei pazienti che avevano avuto un infarto sia nei soggetti precedentemente sani, uomini e donne. Il rischio di andare incontro ad un infarto o angina era maggiore del 35% per gli uomini se non vi era una patologia cardiaca pregressa. Se invece si era già verificato un evento cardiovascolare, le probabilità di una recidiva non differiva tra uomini e donne. Quasi che le donne, una volta colpite da un infarto, perdessero il vantaggio dovuto ai fattori protettivi. Situazione relativamente simile per quanto riguarda la rivascolarizzazione coronarica. Ioanna Kasmidou della Columbia University di New York ha analizzato i risultati di numerosi studi sulle angioplastiche coronariche. A 5 anni dall' intervento le donne avevano un maggior numero di complicanze e maggiore mortalità cardiovascolare.
LA FRAGILITÀ. Cosa rende le donne più fragili? Varie sono le spiegazioni.
1) Quelle colpite da infarto arrivano mediamente più tardi in ospedale e quindi l' efficacia della cure è ridotta
2) Il minor calibro delle coronarie nelle donne rende qualsiasi intervento più difficile
3) Fanno mediamente terapia ridotta rispetto agli uomini. In vari studi si è registrato un uso inferiore di statine ed antiaggreganti nonché una minore riabilitazione post evento.
Melania Rizzoli per ''Libero Quotidiano'' il 12/10/2020. Vi sentite stanchi, affaticati, con mancanza di respiro, vi si gonfiano le caviglie la sera ed avete difficoltà a prendere sonno quando vi coricate, perché avvertite un senso frullìo o di oppressione sul petto che scambiate per crisi di ansia? Andate a fare un elettrocardiogramma, perché potreste avere la Fibrillazione Atriale, la forma più comune nel mondo di aritmia cardiaca, un disturbo elettrico del cuore non sempre pericoloso, ma che, se non curato, può avere conseguenze gravi, a partire dall' ictus cerebrale, fino a quelle fatali per arresto cardiaco improvviso. La Fibrillazione Atriale è una alterazione del ritmo del cuore che colpisce 10 persone su 100 dopo i 75 anni, che quando insorge si fa sentire eccome, perché dopo pochi giorni provoca stanchezza diurna, senso di vertigine, di ansia o di svenimento, fiato corto che impone di dilatare il torace con lunghi sospiri, ridotta capacità di resistenza allo sforzo (affanno nel salire le scale), sfarfallìo retrosternale, ma che altrettanto spesso si presenta con sintomi così sfumati da non venir percepiti dal soggetto affetto. Eppure basterebbe un gesto semplice per capire quando il cuore non batte a ritmo regolare, poiché per sentirlo fisicamente bastano due dita sul polso, proprio sotto la radice del pollice, dove scorre l' arteria radiale (le vene non pulsano), per tastare con i polpastrelli i battiti irregolari, quindi non ritmici, e riconoscere la subdola fibrillazione, quasi mai intuita dai pazienti affetti perché pochi sanno cosa sia questa aritmia, pur essendo una patologia cardiaca molto frequente nel nostro Paese.
I numeri Sono oltre due milioni e mezzo gli italiani che ne soffrono e la sua diffusione aumenta con l' età, come aumenta il ritmo cardiaco che può raggiungere dai 120 ai 180 battiti al minuto, una condizione di tachicardia che, se perdura, mette spesso a rischio la vita. Quando un cuore fibrilla vuol dire che la parete muscolare di una delle sue quattro camere, non si contrae bene, per cui il suo sangue non viene pompato nelle arterie con forza e nella maniera corretta, con getti ematici regolari e ben indirizzati, ma al contrario il sangue refluisce e ristagna negli atri o nei ventricoli favorendo così la formazione di coaguli, i quali possono in parte disgregarsi o parcellizzarsi, sollecitati dal fremito muscolare, e spostarsi in piccoli trombi nel sangue arterioso, i quali poi raggiungono i capillari del cervello dove, essendo più voluminosi del loro stretto lume, si incuneano e si arrestano provocando l' infarto della zona encefalica interessata, privata dell' ossigeno vitale, determinando il temibile ictus cerebrale. Quando è parossistica l' episodio di fibrillazione atriale dura da pochi minuti a poche ore e si risolve spontaneamente, mentre quando è persistente essa dura oltre una settimana senza regredire, e addirittura può diventare permanente per un tempo indefinito.
I pazienti Questa aritmia cardiaca colpisce con maggior frequenza i pazienti affetti da ipertensione, coronaropatia, valvulopatie, scompenso cardiaco, ipertiroidismo, diabete ed obesità e può essere facilmente e correttamente diagnosticata con un elettrocardiogramma e confermata con l' esame Holter, un apparecchio che registra per 24 ore consecutive il battito cardiaco. Per contrastare la fibrillazione atriale si ricorre alla somministrazione di farmaci anti-aritmici e beta-bloccanti per prevenire o ridurre in numero delle crisi elettriche cardiache, una terapia che va sempre associata all' assunzione di farmaci anti-coagulanti per impedire la formazione di trombi negli atri e ridurre il rischio di ictus cerebrale. Se tale approccio non si rivela sufficiente, nelle fibrillazioni atriale databili a meno di 48ore si ricorre alla "cardioversione elettrica", una scossa impressa sul muscolo cardiaco in grado di interrompere l' aritmia con un "reset" del battito, altrimenti va considerato l' intervento di ablazione transcatetere, una procedura strumentale che risolve nell' 85% il disordine ritmico, riportando il battito cardiaco al regolare ritmo sinusale. La Fibrillazione Atriale purtroppo non causa alcun sintomo in una porzione significativa di pazienti, si verifica anche senza motivo apparente in un cuore sano (ma una causa c' è sempre), e viene scoperta, spesso in ritardo, per caso, ma anche quando non costituisce un pericolo imminente è sempre bene trattarla e possibilmente prevenirla. Per cui coloro che sono affetti da ipertensione, malattie metaboliche, sovrappeso e obesità, è bene che eseguano regolarmente un controllo cardiologico. Impegna un' ora di vita, vita che può essere salvata da un semplice elettrocardiogramma.
Renato Farina per ''Libero Quotidiano'' il 15 agosto 2020. Non è bello arrivare in un sabato notte d' agosto con un infarto in ospedale. Bello però è poterlo raccontare. Anche se resta il sospetto che possa essere l' ultimo articolo di un narciso. Tutto è andato come i medici mi avevano annunciato da anni. Mangiare ogni volta come se fosse l' ultima scorpacciata, a letto mai, diabete, ipertensione, obesità, precedenti in famiglia: il ritratto di un condannato a morte. Dunque quando ho sentito una mano afferrarmi dietro la spalla sinistra, e poi scendere fino alla mano, risalire e appoggiarsi sul petto, e premere, la maledetta, trasformarsi in un punteruolo, ho pensato: ci siamo. Ho resistito un po' nelle lenzuola sudate, mi sono alzato, ho preso due aspirine ciclopiche, una pillola contro i reumatismi, però con un pezzo di formaggio perché non facesse male allo stomaco. Di nuovo nel talamo appiccicoso. Ho pensato a qualche riga di testamento su whatsapp. Vanda mi ha detto: «Andiamo in ospedale». Io: «Figurati se è un infarto. È un torcicollo anomalo. Arrivo lì e mi diranno subito che sono un simulatore e mi dovrei vergognare». Comunque si parte, mia moglie guida come Hamilton, riesce anche a parlare con dolcezza coi box, che sarei io. L' ospedale della mia cittadina, Desio (Monza e Brianza), è stata una formidabile casamatta nella lotta al Covid, e il pronto soccorso è rimasto con l' abbigliamento da battaglia di quelle giornate. Mi ricorda il posto di confine tra l' Iraq e la Giordania durante la guerra del Golfo. Un tubo nero che sembra la gola di un drago con lucine rosse nelle fauci. Fuori un infermiere che fuma, due africani seduti sul marciapiede. Attraverso la soglia, e subito mani sicure mi afferrano. Perfezione. Mi ritrovo sottoposto a cardiogramma, mi bucano il braccio, muoio dal freddo (l' infarto fa venire freddo). Come se osservassi dall' aldilà constato che il Covid è stato una scopa. È sparita la ressa del sabato notte che solo sei mesi fa rendeva queste strutture sanitarie simili ad avamposti di guerriglia sudamericana con peruviani ed equadoregni feriti e/o ubriachi, mescolati a bambini con il raffreddore. C' è un anziano su un lettino, una gigantesca nigeriana con una bellissima maglietta piena di lustrini. I medici nello stanzino, a cui hanno passato il foglietto con il grafico dei miei battiti sbilenchi, sono giovanissimi, muovono la carta come se fosse la lista della spesa, davanti e dietro. Oddio, sono spacciato, in che mani. Il maschio mi porge un antidolorifico in polvere, dico, per stemperare il mio terrore, che sa di cioccolato. «No», mi corregge severo, e capisco che pensa «questo vecchio rincoglionito...». Benevolo aggiunge: «Sa di cappuccino». Uno che corregge la gente che sta crepando sul sapore dell' intruglio sa di certo il fatto suo e mi tranquillizzo. Arriva la cardiologa, la quale mi parla con serenità, mi spiega che cosa è capitato, un bell' infarto, e intanto convocano chi in quel momento e ancor oggi mi appare come un' arcangelessa. Lascio perdere i particolari tecnici. Attraverso un pertugio del mio braccio destro spedisce non so cosa dentro un' arteria e da lì nel muscolo cardiaco. Non va bene, ho arterie troppo contorte. Si passa all' altro braccio. Mi parla, mi chiede di descrivere il dolore. È una bestia che mi attraversa con la lingua in fiamme il petto. Non resisto. Poi invece resisto. Dev' essere la certezza che o così o si muore. Quindi, nella distensione dopo questo trapanamento durato un' ora, racconta di essere di Gdynia, di aver operato allo stesso modo e alla stessa arteria Lech Walesa al San Raffaele. Mi ricordavo! Dieci anni fa! E lungi dal crepare sotto i ferri, rompe ancora le scatole in Polonia. Allora la sfagiolerò pure io. Dopo qualche giorno, sempre lei, la dottoressa Renata Rogalska, polacca, 42 anni, due gemellini nati da poco, rifarà la stessa cosa, ricostruendo altre due arterie scassate, scolpisce, contempla, vorrebbe dare un altro colpetto forse, ma si ferma: «Meglio che non sia perfetta, mai cedere all' estetismo». Ma com' è strana la vicinanza alla morte. In questa occasione, giusto ieri, sento un fuoco nel petto, un' oppressione che non ce la faccio proprio. Penso: meglio morire, ma basta. Lei serafica: «Su, descriva il dolore». Io dico: «La bestia è in mezzo al petto, mi stritola, ora è salita al mento, perché, sa, io non ho il collo». Risate. Ma come, crepo, e questa ride, e ride pure l' infermiere. Ma sì, rido pure io. Patire l' inferno e ridere. Quanta umanità e che livello di professionalità ho sperimentato. Penso: piccolo ospedale, domenica d' agosto, che razza di splendore è la sanità lombarda. In unità coronarica eravamo in sei. Ci separano le tende. Uomini e donne. La privacy non può esistere comunque. Ma il pudore regge. Non è violato, perché la sofferenza crea un alone di dignità che se ne frega delle padelle e dei pappagalli. Che magnifiche persone gli infermieri e le infermiere, quanta pazienza. Ho capito quello che mi spiegò un giorno una loro collega: «Tu non stai toccando un corpo, ma un' anima». È il segreto del pudore e del rispetto. Spero di averlo imparato. Anche se ciascuno di noi sei lì dentro, terapia intensiva, pensava: sono io quello che sta peggio e rischia di più? Ma certo trasferiscono al reparto "normale" tutti ma non me...Poi eccomi anch' io in cardiologia. Stanza a due letti. Il mio collega di stanza è un signore di 48 anni. È il beniamino dell' ospedale. Ci vive, in pratica. Ha fatto - dice - dieci infarti. Ha perso ogni suo avere, non ha nessuno, anche la sua fidanzata vivace come lui "on the road", dice con un certo gusto romantico. Il comune coi suoi servizi sociali non gli trova un alloggio, è invalido all' 80 per cento. E così siccome non hanno 400 euro per un monolocale al mese, vorrebbero spedirlo in dormitorio a Milano: ma finir lì vuol dire essere derubati, perdere qualsiasi speranza. E così lo accolgono negli ospedali, come ricordo in certi film degli anni '50. Il costo per l' erario è infinitamente più alto, ma non è un falsario: dieci infarti, qualche acciacco si trova sempre. In reparto aiuta tutti, raccoglie le confidenze. E mi dice pure la sua. Ha il reddito di cittadinanza più una pensione di invalidità. Qual è il problema?- mi dice mettendomi in mano la tessera gialla che consente le elargizioni. Che i soldi del reddito di cittadinanza non riesce a spenderli. Infatti si possono usare solo per il mangiare, i vestiti, le scarpe. E la Caritas e le varie beneficienze forniscono cibo e vestiario. La cosa buona, dice sfoggiando un modello fantastico di iPhone, è che però si possono spendere in cellulare e telefono. Ma non è che se ne compra uno al mese... Per recuperare soldi, lui come tanti "on the road", fanno la spesa al supermercato per due-trecento euro e poi rivendono a metà prezzo la merce. Ferragosto con l' infarto poteva essere meno interessante di così.
Da repubblica.it l'1 febbraio 2020. Mentre guardano la loro squadra del cuore, i tifosi più sfegatati sperimentano livelli di stress talmente alti da far aumentare il rischio di infarto. A mettere in guardia è uno studio pubblicato sulla rivista Stress and Health, che ha testato la presenza di cortisolo, l'ormone dello stress, nella saliva dei tifosi durante tre partite dei Campionati del mondo Brasile 2014. Ricerche precedenti hanno mostrato un aumento degli attacchi di cuore tra i tifosi durante le partite più importanti. Nel loro studio, i ricercatori dell'Università di Oxford hanno monitorato i livelli di cortisolo nella saliva di 40 tifosi e tifose brasiliani prima, durante e dopo tre partite di Coppa del Mondo. Hanno trovato, in particolare durante la storica sconfitta casalinga in semifinale contro la Germania, finita 7-1, livelli di cortisolo schizzato alle stelle, un parametro particolarmente pericoloso, perché collegato a aumento della pressione arteriosa e affaticamento del cuore, soprattutto se è già indebolito. "Anche i sostenitori occasionali sperimentano lo stress, ma non così forte come in coloro che si identificano con la propria squadra", spiega la ricercatrice Martha Newson. "Non sono state riscontrate invece - sottolinea - differenze nei livelli di stress tra uomini e donne, nonostante il pregiudizio secondo il quale gli uomini siano più legati alle loro squadre di calcio". Gli stadi, concludono i ricercatori, dovrebbero abbassare le luci e suonare musica rilassante dopo le partite e i club potrebbero prendere in considerazione la possibilità di offrire screening cardiaci o altre misure di salute ai sostenitori più impegnati.
Infarto, i sette segnali premonitori che il corpo manifesta un mese prima dell'attacco al cuore. Libero Quotidiano il 28 Gennaio 2020. L'infarto colpisce all'incirca 120mila persone all'anno, 25mila delle quali non fanno in tempo ad arrivare in ospedale. Eppure c'è un modo per capire, un mese prima, se si sta per verificare un attacco di cuore. Sono sette i segnali premonitori che possono avvisare se c'è qualcosa che non va nel nostro corpo. Per prima cosa non va presa sotto gamba la sudorazione eccessiva, da tenere d'occhio se non è collegata al caldo, a disfunzioni tiroidee, al cancro o alla menopausa. Poi va tenuta controllata l'aritmia o la tachicardia, così come la dispnea (la difficoltà nel fare respiri lunghi e profondi). Quest'ultimo campanellino d'allarme può manifestarsi anche sei mesi prima l'infarto. Ma non solo, bisogna fare attenzione anche alla nausea, sia che questa si verifichi a stomaco pieno che a stomaco vuoto. Attenzione poi al senso di profonda insonnia accompagnata da fiacca (entrambi dovuti ai tessuti meno ossigenati perché il cuore sta soffrendo). Da tenere monitorate anche le calvizie e l'aumento della pressione arteriosa con forti mal di testa ed emorragie dal naso.
Infarto, un batterio intestinale ne favorisce l’insorgenza. Pubblicato lunedì, 13 gennaio 2020 su Corriere.it da Cristina Marrone. Scienziati italiani hanno scoperto la complicità di un batterio dell’intestino, Escherichia coli, nell’infarto: il batterio risulta infatti in circolo nel sangue dei pazienti e presente anche nell’arteria ostruita che causa l’infarto. Resa nota sull’European Heart Journal la scoperta è frutto di una ricerca su 150 persone, guidata da Francesco Violi, Direttore della I Clinica Medica del Policlinico universitario Umberto I. La scoperta potrebbe gettare le basi sia per un vaccino preventivo anti-infarto, sia per delle terapie mirate da somministrare in fase acuta.
Le malattie cardiovascolari, che includono infarto del miocardio e ictus, sono le principali cause di morbilità e mortalità nel nostro Paese. Ogni anno più di 100.000 italiani sono colpiti da queste due patologie con un aggravio economico e sociale per le famiglie e lo Stato. La maggior parte degli infarti si verifica a causa della formazione di un coagulo di sangue (trombo) che va a ostruire una o più arterie coronarie (le arterie che portano sangue ossigenato e sostanze nutritive al muscolo cardiaco), ma i meccanismi che ne sono alla base non sono stati completamente chiariti. In 50 pazienti colpiti da infarto è stata analizzata la concentrazione della capsula batterica presente nei trombi ed è stata confrontata con quella di 50 pazienti in condizione normale (angina stabile) e di 50 soggetti di controllo. I ricercatori hanno osservato nel gruppo degli infartuati una presenza batterica significativamente superiore rispetto agli altri due gruppi, associandola all’attivazione delle piastrine a livello del trombo. Attraverso metodiche di biologia molecolare è stato possibile dimostrare che il batterio che circolava nel sangue dei pazienti con infarto era l’Escherichia Coli, tipicamente di origine intestinale. Ma chi il batterio Escherichia coli rischia quindi l’infarto? «Nella nostra ricerca - spiega il direttore della I clinica medica del policlinico Umberto I di Roma, Francesco Violi - abbiamo trovato il Dna del batterio Escherichia Coli nel 34% dei soggetti che hanno avuto un infarto perché c’è una maggiore permeabilità intestinale. Abbiamo cercato lo stesso batterio nella gente sana, ma non lo abbiamo trovato nel loro sangue». Importante è cercare di capire perché i cardiopatici hanno una maggiore permeabilità intestinale. « Una cosa potrebbe essere un disturbo della permeabilità intestinale tout court, ma c’è da tenere presente che anche la dieta grassa predispone al passaggio dei batteri nel sangue: più il cibo è grasso più c’è possibilità che i batteri passino nel sangue ed Escherichia coli circola in quantità tali che può dare trombosi e lo abbiamo visto nel modello sperimentale». Per comprendere il motivo della presenza batterica, il team ha analizzato la permeabilità intestinale dei pazienti, che è risultata alterata rispetto ai soggetti di controllo. Tale condizione è stata correlata con la concentrazione della capsula batterica nel trombo coronarico, suggerendo che l’aumentata permeabilità intestinale sia responsabile della traslocazione batterica nel sangue dei soggetti con l’infarto. Il fenomeno è stato riprodotto a livello animale attraverso l’iniezione di Escherichia Coli, che ha amplificato la trombosi. I ricercatori hanno inoltre individuato il recettore cellulare cui l’Escherichia Coli si lega per facilitare la trombosi, Toll-like receptor 4, e hanno inibito il processo trombotico favorito dal batterio attraverso un inibitore specifico. «Questi risultati - spiega Violi - oltre ad aver definito un nuovo meccanismo che favorisce l’infarto, aprono nuove prospettive terapeutiche che prevedono l’uso della molecola individuata nei casi acuti oppure lo sviluppo di un vaccino che prevenga il processo di trombosi delle coronarie» In soggetti cardiopatici un vaccino contro l’Escherichia Coli potrà ridurre l’incidenza di infarto? Questo è ancora tutto da studiare, ma potrebbe essere un nuoco passo verso la prevenzione.
Una ricerca dell'università di Padova scopre il legame tra i composti chimici usati per lo più in campo industriale e le malattie cardiovascolari. La Repubblica il 24 gennaio 2020. Individuato il legame tra inquinamento da Pfas, le sostanze chimiche che possono essere presenti in vernici, farmaci e presidi medici, e malattie cardiovascolari. Una ricerca italiana ha scoperto che questi inquinanti possono attivare le piastrine, rendendole più suscettibili alla coagulazione e predisponendo a un aumento del rischio cardiovascolare. La ricerca è dell'università di Padova sotto la guida di Carlo Foresta, ordinario di endocrinologia, con i gruppi di Luca De Toni e Andrea Di Nisio. I risultati sono stati pubblicati sull'International Journal of Molecular Sciences. Questa ricerca nasce dalle osservazioni epidemiologiche riportate sia in studi internazionali che dal Servizio Epidemiologico Regionale e indicative di un aumentato rischio cardiovascolare associato all'inquinamento da Pfas. Va precisato che la normale fluidità del sangue è mantenuta dall'equilibrio tra elementi che ne bloccano la coagulazione e altri che la stimolano. In questo delicato dialogo giocano un ruolo chiave le piastrine, microscopiche componenti del sangue capaci di percepire la presenza di danni ai vasi sanguigni e di innescare molto rapidamente il processo della coagulazione, al fine di impedire i fenomeni emorragici. Tutto questo avviene in condizioni di normalità, ma in presenza di fattori di rischio cardiovascolari quali il fumo di sigaretta, il diabete e l'eccessivo peso corporeo, l'equilibrio si rompe rendendo le piastrine molto più reattive e inclini a innescare la coagulazione. Il risultato sono l'infarto cardiaco e l'ictus cerebrale. "Stando alle nostre scoperte, lo Pfoa (acido perfluoroottanoico) sarebbe in grado di attivare le piastrine, rendendole più suscettibili alla coagulazione, anche in condizioni normali, predisponendo a un aumento del rischio cardiovascolare", spiega Foresta. "Il meccanismo attraverso il quale lo Pfoa si suppone alteri l'equilibrio della coagulazione sanguigna è complesso: sembra infatti che l'inquinante agisca modificando la struttura della membrana cellulare delle piastrine, ovvero la struttura che protegge le cellule ematiche e ne media l'interazione specifica con i diversi tessuti corporei. In sostanza, studi in vitro hanno documentato, oltre alla modificazione della struttura della membrana, parametri piastrinici che esprimono una maggior propensione all'aggregazione piastrinica e quindi alla coagulazione", aggiunge. Il significato clinico di queste sperimentazioni è stato poi approfondito eseguendo, in collaborazione con Paolo Simioni dell'Università di Padova, dei test di valutazione dell'attività piastrinica in 78 soggetti con diversi livelli di esposizione a Pfas. "I risultati emersi hanno confermato dei segnali di aumentata attivazione piastrinica con conseguente incremento della propensione all'aggregazione delle stesse", precisa ancora Foresta. "Questi dati potrebbero spiegare l'osservazione epidemiologica tra Pfas e patologie cardiovascolari, soprattutto se sussistono altri fattori di rischio noti per queste patologie, come diabete, obesità, fumo e alcol", conclude. I Pfas sono stati utilizzati a partire dagli anni '50 come emulsionanti e tensioattivi in prodotti per la pulizia, nella formulazione di insetticidi, rivestimenti protettivi, schiume antincendio e vernici. Sono impiegati anche nella produzione di capi d'abbigliamento impermeabili, in prodotti per stampanti, pellicole fotografiche e superfici murarie, in materiali per la microelettronica. I composti perfluoroalchilici vengono usati inoltre nei rivestimenti dei contenitori per il cibo, come ad esempio quelli dei "fast food" o nei cartoni delle pizze d'asporto, nella produzione di Ptfe (dalle note proprietà antiaderenti) e di nuovi materiali che hanno trovato applicazione in numerosi campi come quello tessile. Come conseguenza dell'estensiva produzione e uso dei Pfas e delle loro peculiari caratteristiche fisico-chimiche, questi composti sono stati spesso rilevati in concentrazioni significative in campioni ambientali e in organismi viventi, incluso esseri umani. La scoperta arriva a pochi giorni dall'allarme lanciato dall'Associazione Italiana Medici per l'Ambiente (Isde) che ha definito la situazione determinata in Veneto dalla contaminazione da Pfas, usati nei processi industriali e poi sversati per decenni nel suolo e nelle falde acquifere, "una delle più gravi emergenze ambientali mai affrontate, che richiede interventi immediati, come studi epidemiologici e una mappa dei pozzi". Alcuni Paesi, intanto, come Olanda, Danimarca, Svezia e Norvegia, hanno manifestato la volontà di arrivare a una proposta di divieto per tutta la famiglia dei Pfas.
· La trombosi venosa.
Ecco che cos'è la trombosi venosa. Tutte le cause e rischi. Sull'eventuale correlazione tra il disturbo e l'infezione da Covid si è espresso il chirurgo vascolare Gabriele Di Luca. Maria Girardi, Venerdì 03/07/2020 su Il Giornale. Conosciuta anche come "sindrome da classe economica", non risparmia giovani e bambini, anche se tende ad avere un'incidenza maggiore con l'avanzare dell'età. Ad esserne più colpite sono le donne (il rapporto con il sesso maschile è di 2 a 3), molto probabilmente a causa degli ormoni (estrogeni e in modo minore progestinici). La trombosi venosa, i cui meccanismi vennero riassunti per la prima volta nella seconda metà dell'Ottocento dallo studioso tedesco Virchow, rappresenta l'occlusione parziale o completa di un asse venoso. Ciò può verificarsi in seguito a danni della parete venosa, all'alterazione dei meccanismi della coagulazione o al rallentamento del ritorno venoso stesso. Si tratta di una patologia seria e molto più frequente di ciò che si possa immaginare. I rischi sono maggiori per chi rimane seduto troppo a lungo, ad esempio durante un viaggio o al lavoro. Come già accennato, da un punto di vista fisiologico, la trombosi venosa è l'esito di un processo anomalo di coagulazione del sangue che scorre all'interno di una vena, spesso localizzata nelle gambe. Nel vaso della stessa si forma un coagulo ematico (trombo) che rallenta o, addirittura, blocca la circolazione sanguigna con conseguente sofferenza delle strutture anatomiche a monte dell'ostruzione. Esistono fattori di rischio in grado di favorirne la comparsa, tra questi il fumo di sigaretta, il sovrappeso e l'obesità. Discorso a parte merita l'ereditarietà. Si è infatti scoperto che la trombosi venosa può essere favorita da lievi mutazioni genetiche nei fattori della coagulazione. Anche la terapia ormonale sostitutiva intrapresa in menopausa innalza la possibilità di sviluppare questo distubo. È stata, invece, smentita una correlazione importante tra lo stesso e l'ipertensione arteriosa. I sintomi della trombosi venosa sono spesso subdoli e aspecifici. Inizialmente si limitano alla comparsa di un senso di pesantezza e gonfiore alle gambe. Tuttavia è bene rammentare che tali segni clinici, inclusi arrossamenti, dolore e tensione, si manifestano quando l'occlusione è estesa e colpisce vene importanti situate in profondità. Le conseguenze della trombosi venosa dipendono dal destino a cui va in contro il coagulo. Nella maggior parte dei casi esso si scioglie. Diversamente aumenta di dimensioni o peggio ancora, si rompe. In questo caso piccoli frammenti chiamati emboli possono essere trasportati fino al cuore che, a sua volta, li spinge nelle arterie dei polmoni, generando la cosiddetta embolia polmonare.
Esiste una correlazione tra il Coronavirus e la trombosi venosa? Si è parlato di una 'tempesta di coaguli' nel sangue di coloro che si ammalano di Covid in forma grave. Sulla questione ha voluto fare il punto Gabriele Di Luca. Il chirurgo vascolare dell'ASST Gaetano Pini-CTO ha sì notato un aumento dei casi di trombosi venosa negli ultimi mesi, ma non tra i soggetti contagiati dal virus. "Rispetto al periodo di osservazione clinica pre-Covid19 - egli afferma - ho riscontrato un aumento del verificarsi di complicanze trombotiche arteriose, in particolare nei pazienti che presentano già alterazioni di alcuni distretti. In alcune di queste situazioni si è persino giunti a eventi di tipo ischemico e alla gangrena dei distretti più periferici degli arti inferiori". Secondo Di Luca, la causa di questo fenomeno è la riduzione dell'attività fisica e dei movimenti durante il lockdown. Conclude, infatti, così: "Uno stile di vita sedentario e il sovrappeso a esso correlato possono aumentare il rischio di sviluppare una complicanza trombotica a livello degli assi venosi degli arti inferiori e pelvici".
· Sindrome aerotossica: il sistema di areazione degli aerei fa male?
Sindrome aerotossica: il sistema di areazione degli aerei fa male? Le Iene il 16 dicembre 2019. Alessandro Politi torna a occuparsi della sindrome aerotossica, ovvero quei danni che sarebbero causati dai fumi tossici nelle cabine degli aerei. Non esistono studi che confermano l’esistenza di questo fenomeno: alcune persone che lavorano nel settore ci hanno però raccontato quello che sembra accadere. Poche settimane fa con Alessandro Politi ci siamo occupati dell’aria che respiriamo in aereo. Ci hanno raccontato che potrebbe avere delle tossine dentro, perché passando attraverso i motori potrebbero esserci delle perdite di olio e lubrificanti che finirebbero nei nostri polmoni. Bisogna specificare che non esistono studi scientifici che dimostrino questo fenomeno. Tuttavia, come potete vedere nel servizio qui sopra, sono molte le testate giornalistiche internazionali che si sono occupate del caso. Il centro del dibattito è il sistema di areazione degli aerei di linea: le turbine che servono a far volare l’apparecchio fanno entrare l’aria frontalmente, sia per far funzionare i motori sia per fornire aria alla cabina. Per funzionare correttamente le turbine hanno bisogno di essere lubrificate con un olio sintetico che raggiunge in 450 gradi. Il problema è che potrebbero esserci delle micro perdite che potrebbero contaminare l’aria che arriva in cabina con le sostanze tossiche contenute in questi oli. Al Parlamento europeo è stata presentata una mozione in cui si chiede di incoraggiare gli studi sulla sindrome aerotossica. Alessandro Politi ha provato a parlare con vari piloti, hostess e steward: c’è chi nega e chi invece sostiene di aver firmato un contratto e quindi di non poter parlare. “Sono tutte cazzate”, sentenzia un pilota. Dopo la messa in onda del servizio, però, abbiamo ricevuto varie segnalazioni. Tra queste quella di uno steward. “Mi fa strano che ci siano persone, addirittura piloti, che dicano che non lo sanno”, ha detto ad Alessandro Politi. “Per me è proprio un discorso di omertà. Se fai questo mestiere ti è capitato sicuro” di avere questi sintomi, sostiene lo steward che vuole rimanere anonimo. “Le compagnie ti fanno anche tanta pressione psicologica, anche nelle policy aziendali c’è scritto di non parlare dell’azienda”. Anche un pilota ci aveva detto di non poterne parlare perché aveva firmato un contratto. All’estero, però, sia piloti che hostess sembrano confermare l’esistenza di questo problema. Perché da noi quindi è così difficile parlarne? Alcune persone che lavorano nel mondo dell’aviazione ci hanno raccontato in forma anonima come le compagnie aeree cercherebbero di nascondere quello che succede: “Il pilota se c’è un ‘fume event’ deve riportarlo, l’escamotage che hanno trovato è di chiamarlo "smell event". Così l’aereo può rivolare”, sostiene una hostess. In caso di "fume event", ovvero quando l’olio delle turbine si mescola all’aria che entra in cabina, “in teoria c’è una circolare di Airbus che prevede che l’aereo resti fermo per almeno 100 ore. In pratica non succede quasi mai”, ci racconta un’altra hostess. “Un aereo che sta a terra costa tantissimo per la compagnia ed è già tanto se sta fermo fino al giorno seguente”, sostiene. Quando succedono questi eventi, però, sembra che molti dei passeggeri non se ne accorgano: “La maggior parte delle persone pensa che sia l’odore dell’aereo”, sostiene un ex pilota irlandese. Siamo sicuri che le aziende del settore facciano di tutto per garantire la sicurezza delle persone che volano in aereo, ma una telefonata ricevuta da un ingegnere italiano ci ha preoccupato: “Ho avuto un’esperienza di meno di un anno in un’azienda italiana”, ci racconta. “Occupandomi essenzialmente di manutenzione motori e del sistema di areazione, quindi del collegamento tra il velivolo e la cabina, i condotti di olio e aria arrivavano in condizioni abbastanza pietose. Non garantivano più l’impermeabilità”, sostiene questo ingegnere. “Questo problema lo presentava l’80% dei casi”. A domanda specifica se l’olio possa quindi finire in cabina mescolato all’aria, lui però ci dice di aver firmato clausole di segretezza. Alessandro Politi ha chiesto ai produttori degli aerei quale sia la loro posizione sulla sindrome aerotossica: “Ci sono degli odori, ma oggi tutti i sistemi di aerazione sono certificati e vengono controllati molte volte dalle autorità”. Noi ovviamente ci auguriamo che sia tutto a posto e funzioni per il meglio. Airbus, comunque, sta lavorando a un nuovo sistema di areazione che non passa più per i motori. Sembra che questo sia applicabile anche agli aerei di vecchia generazione. Questo garantirebbe un miglioramento della qualità dell’aria in cabina. “Io sono diventata l’ombra di me stessa dopo quei fumi tossici”, chiude l’hostess che ci è venuta a trovare.
· L’encefalomielite mialgica (ME): sindrome da fatica cronica CFS.
La ballerina senza più forza: «Io, malata di fatica cronica. Se mi lavo i capelli, non posso fare altro». Pubblicato domenica, 29 dicembre 2019 su Corriere.it da Stefano Ferrio. La storia di Lucia Libondi, 40 anni, ex insegnante di danza. «Mi dicevano che era depressione, la sindrome mi è stata riconosciuta in Belgio. In Italia siamo solo fantasmi». «Oggi se faccio un giro di pista scendo dalla moto stremato e devo restare una settimana sul divano a recuperare». Lo ha confessato a inizio mese Casey Stoner, pilota australiano di 34 anni, ex campione del mondo di MotoGP, rivelando così la patologia che lo ha colpito: l’encefalomielite mialgica (ME), nota anche come sindrome da fatica cronica (l’acronimo è CFS). Invalidante, subdola e non facilmente diagnosticabile. «Stoner mi ha ricordato le ultime lezioni di danza che sono riuscita a dare. Passai settimane a letto per recuperare». Vicentina, 40 anni, insegnante di danza e professionista-laureata nel mondo dell’arte finché la salute glielo ha permesso, Lucia Libondi è una dei centomila italiani affetti dalla stessa patologia, che, fra i vip, oltre al pilota australiano, riguarda il pianista jazz Keith Jarrett e Stuart Murdoch, leader della pop-band scozzese Belle and Sebastian. «Devo sempre dosare le energie — ci dice — se mi lavo i capelli non me ne restano per le pulizie; inoltre seguo una dieta rigorosa e vado a letto prestissimo. Se me la sento, esco un po’, ma mi è capitato di crollare anche dentro un negozio». La incontriamo un pomeriggio in cui è in grado di uscire di casa. «Oggi è uno dei cinque giorni alla settimana in cui posso combinare qualcosa, negli altri due sono costretta a letto totalmente priva di forze, e a stento riesco a farmi da mangiare. Quando sono al massimo però studio, perché voglio prendere una seconda laurea in filosofia». Lucia ricorda: «È nel 2008 che inizio a stare male: affaticamento costante, perdite di peso, violente intolleranze alimentari, metabolismo alterato. Negli otto anni successivi, per reggermi in piedi, sono costretta a tagliare prima la vita sociale, poi la danza, e infine il lavoro nel mondo dell’arte. Nel frattempo i medici a cui mi rivolgevo, a volte anche al pronto soccorso, liquidavano tutto come depressione, diagnosi in cui non mi riconoscevo». La svolta è in due fasi. «La prima nel 2016 — ricostruisce l’insegnante di danza — quando uno psichiatra intuisce che la mia è una depressione reattiva a qualcos’altro, e la seconda un anno fa, quando questo qualcosa trova nome all’ospedale universitario di Lovanio, in Belgio. Lì mi ero trasferita per studiare filosofia, e il caso vuole che il Belgio sia l’unico Paese europeo a riconoscere l’encefalomielite mialgica». Ciò significa una diagnosi formulata in un solo giorno, seguendo un protocollo che esclude altre patologie, e nello stesso tempo individua la compresenza di alcuni sintomi ben precisi. Lucia Libondi è anche vicepresidente dell’organizzazione di volontariato «CFS/ME»: «In Italia, dove i malati sono circa centomila, l’encefalomielite mialgica è ancora una malattia ignota a livello istituzionale — prosegue —. Per dire, in Veneto esiste una legge apposita, ma non è attuata in mancanza di un centro ospedaliero di riferimento. A me hanno riconosciuto un’invalidità al 14%, che è come dire zero. La strada, quindi, è ancora molto lunga e in salita». Quale speranza, allora? «Al momento attuale solo il 5% di noi guarisce senza un’apparente ragione, esattamente come quando si inizia a stare così — conclude Lucia —. Per fortuna in Paesi come gli Stati Uniti, dove i casi di ME sono oltre due milioni, stanno investendo milioni di dollari nella ricerca. Viene da lì la speranza che mi aiuta a continuare a studiare, e a non rinunciare all’idea che un giorno tornerò a danzare».
· La meningite.
L'ameba mangia il cervello del 13enne. Il Così un tuffo nel lago può uccidere. Il tredicenne Tanner Lake Wall si è spento a causa di una meningoencefalite amebica primaria. Maria Girardi, Martedì 15/09/2020 su Il Giornale. Non ce l'ha fatta Tanner Lake Wall, il tredicenne vittima di un'ameba mangia cervello. Purtroppo non è questo il primo caso di aggressione del raro parassita Naegleria fowleri che abita le acque della Florida. Il ragazzino era in campeggio e, mentre faceva il bagno, l'ameba gli è entrata nel naso. Da questo momento una diagnosi terribile, meningoencefalite amebica primaria e l'inizio del calvario. Mal di testa, nausea, vomito, fino alla sofferta decisione da parte dei genitori, ad agosto, di staccare la spina del respiratore al quale Tanner era ormai attaccato. Affranti dal dolore, i due ora si battono per la sensibilizzazione della collettività. L'invito è quello di non abbassare la guardia perché, come afferma il padre, anche una sola immersione può essere fatale. L'ameba mangia cervello (Naegleria fowleri) è un protista, ovvero un gruppo eterogeneo di organismi in cui si includono gli eucarioti non appartenenti ai regni animali, piante o funghi. Il parassita vive in acque dolci a temperature variabili, incistandosi sotto i 10 gradi e sviluppandosi in ambienti con temperatura fino a 42 gradi. Il suo ciclo di vita è semplice. Generalmente sopravvive come forma amebica in fanghiglie acquose. Quando la realtà ambientale diventa inospitale si trasforma in una cisti mononucleata e, così, può attendere anche per molto tempo condizioni migliori per la sua esistenza. Nell'uomo un'infezione da Naegleria fowleri è in grado di causare la temibile meningoencefalite amebica primaria, ovvero una malattia estremamente grave che colpisce il sistema nervoso centrale. Il primo caso di meningoencefalite amebica primaria venne documentato in Australia nel 1965. La patologia, seppur rara (si sono registrati solo 300 casi a partire dal 2008), presenta un tasso di mortalità superiore al 95%. Il contagio dell'ameba avviene in seguito all'insufflazione di acqua infettata. In questo modo, attraverso la mucosa olfattiva e seguendo un gradiente di temperatura favorevole, il protista risale lungo le fibre del nervo olfattivo fino ad arrivare al cervello. Qui esso si nutre del tessuto cerebrale dopo digestione enzimatica e si moltiplica, generando lesioni necrotico-emorragiche. Particolarmente pericolosi, dunque, risultano essere i bagni in fiumi e laghi soprattutto se la temperatura dell'acqua è elevata e le pratiche di lavaggio delle cavità nasali con acque infette a scopo igienico o rituale. L'esordio dei sintomi della meningoencefalite amebica primaria avviene da uno a nove giorni dopo l'esposizione. Inizialmente essi includono: cefalea, febbre, nausea, vomito. Ancora collo rigido e cambiamenti del gusto e dell'odore. Possono, altresì, manifestarsi: confusione, allucinazioni, convulsioni, atassia e scarsa concentrazione. Con il passare del tempo l'infezione progredisce rapidamente e, al coma, segue la morte che giunge sette o quattordici giorni dopo la prima fase sintomatologica. Il trattamento di solito non fornisce buoni risultati. Tuttavia alcuni studi hanno dimostrato una sensibilità all'amfotericina B e ai sulfamidici.
Meningite a Villongo, parla la ragazza guarita: «Ora in paese mi evitano». Pubblicato lunedì, 06 gennaio 2020 su Corriere.it da Fabio Paravisi. La paura della meningite lei se l’è sentita addosso, l’ha vissuta con la febbre, il dolore e il terrore di chi sapeva di passare dalla stessa strada dalla quale solo due giorni prima una sua concittadina non era più tornata. Ma adesso è guarita e sta bene, anche se in paese c’è chi sembra guardarla con un certo timore. «E posso anche capirli», dice. Lei ha sedici anni, vive a Villongo versante Sant’Alessandro e sta seguendo a distanza ciò che sta succedendo. «Mi ricordo che i primi due o tre giorni sono stata malissimo, con febbre molto alta, e avevo tanta paura», racconta la studentessa dell’Istituto Riva di Sarnico con la voce di chi non parla con piacere di quel periodo. Il 5 dicembre, due giorni dopo la morte di Veronica Cadei stroncata proprio dalla meningite, la sedicenne si è presentata dal medico con gli stessi sintomi della prima vittima, febbre alta e rigidità al collo. Il dottore ha subito dato l’allarme e la ragazza è stata portata al Papa Giovanni: «Ci sono rimasta per due settimane. I primi giorni sono stati i peggiori perché stavo proprio male». Non è però mai stata in pericolo di vita. «Per fortuna la febbre ha cominciato a scendere, a 38 e poi a 37 e io ho iniziato a sentirmi sempre meglio. Infine sono stata dimessa ancora prima di Natale, mi hanno detto che ero del tutto guarita e infatti sto bene». A colpirla, secondo le analisi eseguite dal Policlinico di Milano con l’Istituto superiore della sanità, era stata un’infezione da meningococco di tipo C, lo stesso ceppo della malattia di Veronica Cadei. Ora, anche se la sedicenne è ormai guarita, la paura che sta crescendo a Villongo e in tutta la zona dopo il quarto caso di meningite in un mese sta toccando anche lei. «Quando vado in giro per il paese — spiega — mi accorgo che c’è qualcuno che mi evita, forse ha paura che possa essere ancora malata». Sbagliano? «Nì. Nel senso che io non sono malata e non sono pericolosa per nessuno, ma posso anche capire che in questa situazione si possa avere paura di tutto. La situazione che si è creata nella zona non mi spaventa ma spero veramente che non capiti anche ad altre persone». È invece ancora ricoverata in ospedale la quarta persona che nell’ultimo mese è stata colpita dalla meningite. Andrea Schiavone, 36 anni, operaio abitante a Villongo, si trova dal 21 dicembre agli Spedali Civili di Brescia. Si era sentito male mentre si trovava a casa ed era stata sua madre, che aveva letto sui giornali della vittima di qualche settimane prima, a preoccuparsi e a dare l’allarme. L’uomo era stato ricoverato nella Terapia intensiva dell’ospedale bresciano in condizioni gravissime e si era temuto per la sua vita, ma le cure avevano subito dato i loro effetti. Tanto che dopo i primi giorni il paziente è stato spostato nel reparto di Malattie infettive e ora viene dato in continuo miglioramento. Anche nel suo caso le analisi avevano riscontrato un caso di sepsi da meningococco di tipo C.
(LaPresse il 4 gennaio 2020) - Una 14enne di Sassari è morta nella serata di Capodanno nel reparto di rianimazione dell'ospedale civile della città, dove era ricoverata in gravissime condizioni da alcuni giorni per una sospetta meningoencefalite batterica non meningococcica. Lo riporta La Nuova Sardegna, secondo cui la ragazzina si era sentita male il 29 dicembre ed era stata trasportata al pronto soccorso già grave.
Melania Rizzoli per “Libero quotidiano” il 4 gennaio 2020. Non c' è un solo colpevole per una importante malattia contagiosa come la meningite, poiché gli agenti patogeni sono vari e diversi, ma i sintomi sono sempre maledettamente uguali, e non riconoscerli, o chiamare il medico quando l' infezione è già diffusa, può avere gravi conseguenze, a volte fatali. È quello che è accaduto ad una quattordicenne di Sassari, che da tre giorni accusava la classica triade sintomatologica, tipica di questa sindrome: febbre alta improvvisa, mal di testa, il sintomo di esordio più comune, e rigidità nucale, ovvero l'impossibilità per il dolore nel flettere il collo in avanti, con lieve alterazione dello stato mentale, ma purtroppo la ragazza è arrivata in ospedale troppo tardi, l' infezione era divenuta sistemica e dopo due giorni di coma è morta. Tutti e tre questi segni di infiammazione meningea sono presenti insieme in oltre il 70% dei casi, già all' inizio della malattia, come è anche vero che se nessuno di essi è presente, la meningite è estremamente improbabile. Altri fenomeni comuni associati a questa infiammazione cerebrale sono la fotofobia e la fonofobia, cioè l' intolleranza alla luce ed ai rumori forti, per cui il paziente si rifugia a letto al buio e lontano da vocalizzi umani, televisivi o musicali, ma si possono presentare anche nausea, vomito, disorientamento temporo-spaziale, cosa che indirizza i familiari verso una errata diagnosi di "influenza intestinale" (che in medicina non esiste), ed inoltre il paziente meningeo sdraiato a letto assume quasi sempre la posizione fetale, disteso su un lato a «cane di fucile», con il capo esteso sul tronco, le cosce flesse sull' addome e le gambe flesse sulle cosce, una postura che tende a ridurre il dolore dovuto allo stiramento delle radici dei nervi spinali. La meningite è la più frequente sindrome infettiva del sistema nervoso centrale, ed oltre a coinvolgere le membrane protettive (meningi) che ricoprono l' encefalo, interessano anche quelle del midollo spinale, può essere causata da batteri, virus e altri microrganismi, per cui la gravità è molto variabile, da forme subcliniche a quelle fulminanti, sempre letali, e si configura in assoluto come una delle più urgenti emergenze mediche in qualunque reparto di rianimazione del nostro Paese. la forma più comune La forma virale di meningite è quella più comune e fortunatamente meno pericolosa, di solito non ha complicanze serie e si risolve nell' arco di 7/10 giorni, mentre la forma batterica, pur essendo più rara, è la più temibile, perché sempre insidiosa nel suo percorso, e il trattamento consiste nella somministrazione precoce di antibiotici, di antivirali e di cortisonici, per prevenire i danni neurologici derivanti dall' infiammazione cerebrale, ed una meningite batterica non trattata prontamente o curata in ritardo può portare deficit permanenti od essere letale. Il picco delle epidemie di meningite si registra da dicembre a maggio, quando il clima freddo favorisce le infezioni delle vie respiratorie (raffreddori, sinusiti, faringiti ecc), mentre i casi si riducono drasticamente durante la stagione delle piogge, è una malattia contagiosa e la trasmissione del germe avviene per via inalatoria o durante uno stretto contatto come il bacio, uno starnuto o un colpo di tosse, ma il contagio non avviene come per il raffreddore o l' influenza, quando ci si ammala semplicemente respirando l' aria in cui si trova la persona affetta, perché il batterio o il virus deve attecchire e percorrere la via vascolare fino a raggiungere quella neurologica. Affinché il contagio avvenga è comunque necessario essere a stretto contatto con la persona infetta o trovarsi con essa in ambienti angusti e affollati, poiché la propagazione di tali germi raramente supera i tre metri di distanza, e l' essere esposti ad alcuni di questi patogeni non comporta necessariamente lo sviluppo della malattia, anche se è molto frequente lo stato di «portatore», cioè di un individuo sano nel cui faringe, saliva e secrezioni nasali albergano questi batteri, i quali, se trasmessi ad individui con sistema immunologico depresso, possono provocare l' infezione. L'incubazione della meningite varia dai 3 ai 6 giorni, e la malattia è contagiosa solo durante la fase acuta e nei giorni immediatamente precedenti l'esordio, anche se i sanitari sono spesso costretti ad assumere la profilassi durante tutto il periodo di assistenza ai pazienti infetti. Più difficile è la diagnosi clinica nei bambini piccoli che ancora non comunicano, nei quali possono essere presenti sintomi aspecifici come sonnolenza, irritabilità, gonfiore delle fontanelle craniche e convulsioni, ed anche in questi casi il ritardo del trattamento farmacologico può portare sovente a deficit permanenti quali sordità, epilessia o idrocefalo, perché i piccoli pazienti sono più comunemente colpiti dai batteri meningococco, pneumococco e quelli sotto i 5 anni di età dall' Haemophilus influenzae di tipoB. Fortunatamente, con l' introduzione della vaccinazione, i casi si sono ridotti moltissimo, anche se piccole infezioni di testa e collo, come la comune otite o sinusite, se non curate con i princìpi attivi farmacologici, possono facilitare il percorso dei batteri di molti infanti alle meningi, fino alla forma purulenta. Le persone affette da meningite, adulti o neonati che siano, vanno ricoverate al più presto e monitorate poiché, soprattutto nelle prime fasi della malattia, possono sviluppare ulteriori problemi che richiedono trattamenti particolari, come le sepsi, ovvero la diffusione dei batteri nei vasi sanguigni dell' intero organismo, (il corpo si copre di petecchie, piccole macchie rosse indice di setticemia), con alterazioni della pressione sanguigna, della coagulazione, di ischemie con gangrena, ed emorragie surrenali, prodromo di una prognosi sempre grave. L'esame più importante, oltre a quelli strumentali e radiologici di conferma, resta la puntura lombare, dove l' analisi al microscopio del liquido cerebrospinale individua con esattezza il germe responsabile e l' entità del suo danno, evidenziando la presenza o meno di ipertensione endocranica, quella che può condurre il paziente al coma. È necessario ripetere che in caso di meningite ogni ritardo nel trattamento specifico è associato ad una prognosi negativa, ed è sempre consigliabile la somministrazione di antibiotici ad ampio spettro anche nel dubbio, anche se si è in fase di conferma della diagnosi, prima del ricovero ospedaliero, soprattutto se è presente la succitata triade sintomatologica, perché paradossalmente un piccolo ritardo di sole tre ore può segnare il destino dell' ammalato. La letalità della meningite è molto elevata nei soggetti molto giovani o molto anziani, ma il rischio di morte è naturalmente influenzato dalla natura del patogeno e dalla durata in cui questo è stato presente nel liquor cerebrale senza essere contrastato dai farmaci, ma nel 20% dei casi il decorso della malattia risulta talmente rapido e acuto da portare all' esito fatale pur in presenza di adeguata terapia. L'unica forma di prevenzione efficace resta la vaccinazione, che ha eliminato in molti Paesi i patogeni più frequenti causa di meningite nei bambini, oltre che è sempre imperativa la profilassi per tutte le persone che hanno avuto contatti stretti con i malati, cosa che può ridurre il rischio di contrarre la malattia, pur non proteggendo contro le possibili infezioni future. La vaccinazione, specie contro il meningococco, è consigliabile anche agli adolescenti, in quanto rientrano tra le categorie a maggiore rischio di contagio (baci e promiscuità), perché se è vero che la maggior parte dei casi di questa malattia guarisce grazie alle terapie immediate e specifiche, è anche vero che oggi perdere una sola persona a causa della meningite virale o batterica che sia, è per noi medici una sconfitta della medicina, della scienza e della ricerca, che da anni mettono a disposizione tutti i sistemi preventivi sicuri e collaudati.
Ps: I genitori della ragazza sarda di 14 anni, deceduta a Capodanno nell' ospedale di Sassari, hanno autorizzato la donazione dei suoi organi, che hanno riguardato polmoni, fegato, reni e cornee, i quali sono stati già impiantati in pazienti riceventi, senza alcun rischio di contagio, perché il processo di donazione prevede tutto un percorso di idoneità degli organi prelevati, e si avvale di una rete di sicurezza nazionale, oltre che dei massimi esperti infettivologi in ogni Centro Regionale Trapianti.
· L’emicrania.
DAGONEWS l'1 ottobre 2020. Gay, lesbiche e bisessuali hanno più probabilità di soffrire di emicrania rispetto agli eterosessuali. È quanto emerge da uno studio che punta il dito sullo stress che queste persone sono costrette a subire. I ricercatori hanno intervistato più di 9.800 adulti di età compresa tra 31 e 42 anni nell'ambito del National Longitudinal Study of Adolescent to Adult Health. Dai risultati è emerso che gay, lesbiche e bisessuali avevano il 58% di probabilità in più di soffire di emicrania rispetto agli etero. L'emicrania spesso produce un intenso dolore pulsante su un lato della testa, sebbene entrambi i lati possano essere interessati. Può durare ore o addirittura giorni ed essere accompagnata da nausea, vomito e sensibilità alla luce, al suono o ad altri input sensoriali. L'emicrania è la quinta ragione principale per le visite al pronto soccorso, secondo la Migraine Research Foundation, e colpisce le donne più degli uomini. «Sappiamo che lo stress in generale può scatenare emicranie e poiché le minoranze sessuali subiscono discriminazioni e stress aggiuntivo, sembra logico che possa scatenare emicranie - ha detto il dottor Jason Nagata, professore di pediatria presso l'Università della California, San Francisco, e autore dello studio - Ricerche precedenti hanno dimostrato che le emicranie sono più diffuse tra le minoranze, tra cui neri, latini, donne e persone con uno status socioeconomico inferiore. Ma nessuno aveva esaminato le minoranze sessuali». I risultati dello studio sono stati pubblicati nella versione online di JAMA Neurology.
Rosalba Miceli per "lastampa.it" il 20 giugno 2020. Un importante risultato per la neurologia italiana: uno studio sull’emicrania ha vinto il Wolff Award, il premio internazionale più importante alla ricerca nell’ambito delle cefalee, che viene conferito per la prima volta al gruppo italiano della Società Italiana di Neurologia, da parte della Società Americana delle Cefalee. L’emicrania è il mal di testa disabilitante più frequente nella popolazione generale. In particolare, l’emicrania è stata identificata dall’OMS come la malattia che causa maggiore disabilità nella fascia di età tra 20 e 50 anni (ossia nel momento della vita in cui siamo più produttivi) in relazione al numero di giorni (o anni) di lavoro persi a causa della malattia. In Europa ne soffrono circa 136 milioni di persone, di cui 6 milioni solo in Italia, bambini ed adolescenti compresi. Di fronte a tali numeri diventa fondamentale dare risposte efficaci a livello sanitario e sociale. La diagnosi precoce può davvero impattare positivamente sull’evoluzione della malattia, poiché evita importanti conseguenze quali la cronicizzazione del disturbo e l’abuso di farmaci oltre alle ricadute sulla qualità della vita. L’emicrania è una patologia con sintomatologia complessa che presenta non solo il sintomo del dolore del capo ma anche un corteo sintomatologico di accompagnamento come nausea, vomito, fastidio per la luce, per i rumori, per gli odori e, talora anche l’allodinia cutanea. «L’allodinia - chiarisce il professor Tedeschi, Presidente della Società Italiana di Neurologia (SIN) - è quella sensazione dolorosa che porta il paziente con attacco di emicrania ad avvertire dolore anche per stimoli innocui, come pettinarsi, indossare gli occhiali, gli orecchini o la cravatta, toccarsi il volto o tenere i capelli legati. Dal punto di vista clinico, si tratta di un sintomo legato ad un peggiore andamento dell’emicrania, nel senso che la patologia tenderà alla cronicizzazione». Proprio su questo sintomo, di particolare interesse clinico, si sono concentrati i ricercatori. Lo studio premiato mette in luce i meccanismi che sottendono l’allodinia cutanea nei pazienti emicranici. La ricerca è stata condotta dal Centro Cefalee della I Clinica Neurologica dell’Università della Campania “Luigi Vanvitelli” e dal Centro Alti Studi di Risonanza Magnetica diretti dal professor Gioacchino Tedeschi. Grazie alla scoperta del gruppo di neurologi campani è stato dimostrato che il sintomo dell’allodinia può essere previsto anche con tre anni di anticipo. Infatti, prima ancora che si sviluppi, i pazienti emicranici mostrano nel loro cervello delle anomalie in alcuni circuiti cerebrali che si evidenziano attraverso la risonanza magnetica funzionale. «Nello specifico - spiega il professor Antonio Russo, responsabile del Centro Cefalee della I Clinica Neurologica dell’Università della Campania “Luigi Vanvitelli” - ciò avviene perché la corteccia del cervello emicranico interpreta “in maniera scorretta” gli stimoli non dolorosi applicati alla cute durante un attacco emicranico. Quanto detto si associa ad anomalie strutturali e funzionali di aree cerebrali deputate non solo alla percezione e modulazione dello stimolo doloroso ma anche alla interpretazione dello stimolo doloroso stesso». È già possibile applicare tali studi per la diagnosi precoce su larga scala dei pazienti a rischio di una peggiore evoluzione della patologia? Allo stato attuale tali analisi sono disponibili solo in quei centri nei quali si intrecciano competenze sia nel campo dell’emicrania che dell’imaging avanzato; tuttavia l’individuazione di una alterazione dei circuiti cerebrali che sottende alla cronicizzazione del dolore ha una grande importanza per la comprensione dei meccanismi intrinseci del dolore. Con possibili ricadute cliniche e terapeutiche anche su altri tipi di dolore oltre a quello caratteristico dell’emicrania.
· I Colpi di Testa.
Marco Beltrami per fanpage.it il 27 febbraio 2020. Novità per tutti i giovani calciatori inglesi. La Football Association, massimo organo calcistico d'oltremanica, ha deciso di vietare i colpi di testa per gli under 12. Una situazione per evitare i potenziali rischi di malattie neurodegenerative. La decisione arriva dopo che determinati studi hanno rivelato che diversi ex calciatori hanno avuto tre volte più probabilità di problemi cerebrali rispetto ad altre persone. I piccoli calciatori non potranno più colpire il pallone di testa né in allenamento e né durante le partite. Il massimo organo calcistico inglese, la Football Association, ha infatti in una nuova direttiva annunciato il divieto di toccare la sfera con la testa per gli Under 12. Una situazione che segue quanto già accaduto in Scozia e in Irlanda, e che nasce dagli studi effettuati sui calciatori. Nei dossier è stato evidenziato che molti giocatori hanno avuto tre volte più probabilità di morire di malattie neurodegenerative in più rispetto ad altre persone. Conseguenza dei tanti colpi di testa in carriera, che hanno prodotto effetti cerebrali.
Perché sono stati vietati i colpi di testa dei calciatori under 12. Questo divieto non influirà particolarmente sul gioco, perché i colpi di testa sono molto più rari durante le partite. A tal proposito l'Amministratore delegato della FA Mark Bullingham nella nota della FA ha dichiarato: "Questa regola è un'evoluzione delle nostre linee guida attuali, e aiuterà allenatori e insegnanti ad eliminare i colpi di testa dal calcio giovanile. Le nostre ricerche hanno dimostrato che i colpi di testa sono rari nelle partite di calcio giovanili, quindi questo non influirà sul divertimento che i bambini di tutte le età traggono dal gioco del calcio". Soddisfatta la figlia di Jeff Astle, ex nazionale inglese di encefalopatia cronica traumatica nel 2002 morto per le conseguenze anche dei colpi di testa, che ha dichiarato: "È una regola molto sensata per rendere il gioco che tutti amiamo più sicuro per quelli coinvolti".
Da gazzetta.it il 27 febbraio 2020. Allarme calciatori. Secondo una ricerca svolta in Inghilterra su richiesta della Football Association e del sindacato dei giocatori (quindi decisamente seria), i calciatori professionisti hanno una percentuale di rischio molto superiore alla media di morire di demenza e di altre gravi malattie neurologiche. Come riporta il Daily Express in prima, hanno esattamente probabilità tre volte e mezzo superiori rispetto a persone della stessa fascia d'età. Lo studio, condotto dall'Università di Glasgow per 22 mesi sui casi di 7676 ex calciatori scozzesi, ha anche riscontrato un rischio cinque volte superiore per l'Alzheimer, di quattro volte per malattia neuromotorie come la Sla e di due volte per il Parkinson. La FA ha già fatto sapere che istituirà una task force per cercare di comprendere meglio le cause di questi numeri impressionanti. Il sospetto è che possano dipendere dalle tante volte in cui i calciatori colpiscono il pallone di testa, soprattutto quelli di una volta che erano particolarmente pesanti. Ma questo nesso non è comunque riportato nella ricerca dell'Università di Glasgow. Dell'Inghilterra campione del mondo nel '66 sono tre i giocatori affetti da Alzheimer (Martin Peters, Nobby Stiles e Ray Wilson), a cui si aggiunge il caso di Jeff Astle, scomparso nel 2002 a 60 anni per encefalopatia traumatica cronica. L'attaccante era famoso per i suoi colpi di testa.
Andrea Pettinello per foxsports.it il 27 febbraio 2020. Troppi calciatori rischiano di soffrire di demenza una volta terminata la carriera, gli allenatori lo sanno e non fanno assolutamente nulla per tutelarli. A rivelarlo è Alan Shearer, che in un documentario che andrà in onda sulla BBC non solo si è sottoposto a test medici specifici per stabilire quali e quante fossero le possibilità di soffrire di demenza in futuro, ma ha anche cercato di sensibilizzare coloro che potrebbero presto avere a che fare con problematiche simili. Tra partite e allenamenti, un giocatore può colpire il pallone con la testa tra le 800 e le 1500 volte a settimana: un dato troppo spesso sottovalutato. E fino alla morte di Jeff Astle avvenuta nel 2002 per una rara forma di demenza, gli esperti non avevano mai realmente preso in considerazione il fatto che colpire il pallone con la testa provocasse un danno gravissimo al cervello dei calciatori. Prendiamo come esempio Fabrice Muamba, vivo per miracolo dopo esser collassato in campo nel bel mezzo di una partita per un arresto cardiaco. In seguito a quell'incidente, nel giro di poco più di 6 mesi, su tutti i campi di calcio (non solo quelli di Premier League) era obbligatorio che i paramedici a bordocampo avessero accesso a un defribrillatore. In quel caso ci si è mossi prontamente, risolvendo un problema fino a quel momento ignorato, ma quanto bisognerà aspettare prima che il rischio della demenza venga preso realmente in considerazione? Dobbiamo assicurarci che il gioco del calcio non diventi uno sport in grado di uccidere. Finora non ci si è presi abbastanza cura degli ex calciatori e non lo si sta facendo nemmeno con i giocatori attuali. Servono risposte immediate, ma soprattutto serve maggior sensibilità e responsabilità da parte di chi, queste situazioni, le vive ogni singolo giorno della sua vita. Chiunque pratichi questa attività, e non deve per forza giocare in Premier League, potrebbe in futuro soffrire di questo tipo di problematica. Queste le parole con le quali Alan Shearer ha voluto introdurre il documentario che andrà in onda sulla BBC durante il prossimo weekend. L'obiettivo dell'ex attaccante inglese, nonché miglior marcatore della storia della Premier League, è quello di dar voce anche a quelle poche persone che nel corso di questi ultimi anni hanno cercato di sensibilizzare tutti coloro che ritenevano la demenza un problema marginale in uno sport come il calcio. In allenamento colpivo il pallone di testa tra le 100 e le 150 volte. Ogni giorno. Il che vuol dire una media di 1000/1500 colpi di testa a settimana. Allora non era un problema, ma oggi o un domani potrebbe esserlo. Ho già di mio una pessima memoria e non escludo che il tutto possa aggravarsi con il passare del tempo. A far da ostacolo, però, ci si è messo recentemente Les Ferdinand, anche lui ex attaccante della nazionale inglese e oggi direttore sportivo al QPR, che ha spiegato di non aver intenzione di supportare la teoria di Shearer fino a che non saranno dei medici specializzati a confermare la veridicità delle sue parole. In attesa che il documentario di domenica sveli qualche retroscena, i pareri sull'argomento continuano a essere ancora troppo discordanti.
· Cefalea invalidante.
Riconoscimento alla cefalea cronica primaria come malattia sociale. Annnamaria Parente, Senatrice, su Il Riformista il 9 Luglio 2020. Ieri, 8 luglio, in Senato, con l’approvazione del DL 1425, abbiamo finalmente riconosciuto la cefalea primaria cronica come malattia sociale e invalidante. Con 235 sì, 2 contrari e nessuna astensione la cosiddetta “malattia invisibile” è stata riconosciuta come malattia sociale dando una risposta concreta a milioni di persone, in prevalenza donne, che purtroppo ne soffrono. Una legge molto attesa da ben 3 legislature. Un articolo unico dove si parla di diagnosi: “La cefalea primaria cronica, accertata da almeno un anno nel paziente mediante diagnosi effettuata da uno specialista del settore presso un centro accreditato per la diagnosi e la cura delle cefalee che ne attesti l’effetto invalidante, è riconosciuta come malattia sociale, per le finalità di cui al comma 2, nelle seguenti forme:
a) emicrania cronica e ad alta frequenza;
b) cefalea cronica quotidiana con o senza uso eccessivo di farmaci analgesici;
c) cefalea a grappolo cronica;
d) emicrania parossistica cronica;
e) cefalea nevralgiforme unilaterale di breve durata con arrossamento oculare e lacrimazione;
f) emicrania continua.”
La diagnosi è fondamentale, ed è al centro di questo provvedimento, quando riconosciamo una malattia sociale, riconosciamo anche dei benefici alle persone che ne soffrono, quindi è ancora più importante fare una diagnosi precisa anche per accertare la cefalea come primaria e non come sintomo di un’altra malattia. La cefalea cronica è la terza malattia invalidante del sistema nervoso nel mondo, una recente ricerca del Censis ci dice che a soffrirne nel mondo è circa il 12% delle persone, in Italia parliamo di 8 milioni di persone, in prevalenza donne: “il 18,3% è costituito da uomini, mentre l’81,7% è di genere femminile. Considerando la variabile anagrafica emerge un’età media piuttosto bassa: il 20,3% è rappresentato da 18-34enni, il 37,1% da 35-44enni, il 30,6% da 45-54enni ed infine l’11,9% da 55-65enni. In merito allo stato civile, il 67,3% risulta coniugato/convivente, mentre i celibi/nubili sono poco più di un quarto dei rispondenti (25,4%)”. Quindi ne soffrono di più le persone giovani, quelle in età da lavoro, addirittura i ragazzi a scuola. Una tra le malattie più invalidanti, con alti costi sociali ed economici che impatta moltissimo sul mondo del lavoro. Basti pensare che i sintomi sono nausea, vomito, sensibilità alla luce e al suono con conseguente perdita di concentrazione – quindi ci sono delle persone che non sono in grado di andare al lavoro -. Con questa legge chi ne soffre potrà godere di tutele sociali e lavorative. Inoltre si prevede che, con decreto del Ministro della salute, previa intesa in sede di Conferenza Stato Regioni, saranno individuati progetti sperimentali di metodi innovativi per la cefalea primaria. È importante che questo percorso diagnostico-terapeutico sia uniforme in tutto il territorio nazionale. Abbiamo sperimentato, in seguito al Covid-19, le difficoltà date dalle disuguaglianze del Servizio Sanitario nelle nostre Regioni sia nelle strutture che sulla medicina di territorio per questo l’uniformità dell’accesso, anche alle cure e al riconoscimento della cefalea cronica come malattia invalidante, è molto importante. Il percorso che porta al riconoscimento e alla diagnosi della cefalea è lungo e difficoltoso, a complicare il processo di emersione della patologia concorrono diversi fattori, spesso interconnessi tra loro, e il ricorso e l’individuazione del professionista giusto non è sempre immediato, per questo è urgente e necessario superare gli squilibri territoriali e rafforzare la medicina territoriale con la creazione di équipe preparate sul territorio con il rafforzamento delle aggregazioni funzionali territoriali: creazione di gruppi di medici specialisti dal neurologo allo psichiatra, all’oculista, all’otorino, dal cardiologo al dentista che possano affrontare al meglio questa malattia.
· Il Fegato Malato.
Stefano Lorenzetto per il “Corriere della Sera” il 21 gennaio 2020. All' età di 4 anni, il futuro professor Luigi Rainero Fassati, 84 a marzo, primo dei sei figli del marchese Giuseppe Ippolito Fassati di Balzola, appoggiò un orecchio sul ventre della madre, incinta della terzogenita Yula. «Sentii il battito cardiaco. E poi un terremoto: era la mia sorellina che si muoveva. Dissi alla mamma: voglio aprirti la pancia per vedere che cosa c' è dentro». L' ha visto. Come direttore del dipartimento di chirurgia e dei trapianti del Policlinico di Milano, dove ha lavorato per 45 anni, ha inciso con il bisturi l' addome di 692 pazienti per innestarvi un fegato nuovo. Il suo vero primato, tuttavia, è il messaggino che Corrado gli ha spedito da Santa Marinella il 29 dicembre per augurargli buon 2020: «Sono passati 30 anni dall' ultimo trapianto. Che ne pensa? Vivrò ancora?». Un vero miracolo, perché, a 36 mesi dal primo intervento per una cirrosi epatica da virus B, il luminare dovette sostituirgli il fegato a causa di una recidiva e dal 2010 il sopravvissuto ha gettato via i farmaci immunosoppressori, che i trapiantati assumono per sempre onde evitare le crisi di rigetto. «Vivrai ancora a lungo», gli ha risposto Fassati. Di pazienti così, morti di vecchiaia a oltre 30 anni dal trapianto, ne ha già avuti. L' altro prodigio, tanto strabiliante quanto inutile, lo compì su Alex. Il chirurgo scrittore - 12 fra saggi e romanzi, l' ultimo, Un tempo per guarire , pubblicato a settembre da Salani - lo racconta in Mal d'alcol, stesso editore.
L'esito migliore, la sconfitta peggiore.
«È così. Fui svegliato alle 3.20. Il primario dell' ospedale Santa Giulia mi stava mandando questo giovane di 19 anni, uscito di strada in motorino, in preda a un' emorragia imponente, che non si riusciva ad arginare. Mezz' ora dopo ero in sala operatoria. Al ragazzo avevano già trasfuso cinque sacche di sangue. Ne aspirai dall' addome tre litri. Il flusso non si arrestava, faticavo persino a vedere gli organi interni. Provai a suturare il fegato ricucito dal collega. Era spappolato, solo a toccarlo si lacerava ancora di più».
A quel punto che si poteva fare?
«Niente, dovevo rassegnarmi a lasciarlo morire. O tentare un trapianto. Ma né il centro nazionale di Roma né quello di Parigi trovavano un organo. "Lo ha qui di fronte", esclamò Marina, la fidanzata. "Prelevi metà del mio fegato e lo dia ad Alex". Lei è pazza, replicai. M' insultò: "La denuncerò". Fu così che mi balenò un' idea: togliergli il fegato per bloccare l' emorragia, in attesa di un donatore».
Un proposito ai limiti della follia.
«Lo so, me lo dissero anche i miei assistenti. Risposi: mi assumo ogni responsabilità, scrivo sulla cartella clinica che voi non siete d' accordo. Procedetti all' espianto, sicuro di porre fine alla mia carriera, perché temevo che in quelle condizioni il malato non vivesse per più di 120 minuti. Invece resistette 25 ore, finché il mio aiuto non volò in Austria a prelevare il fegato di un anziano di 78 anni morto a Graz. Che il trapianto era perfettamente riuscito lo capii vedendo uscire qualche goccia di bile dal coledoco».
Come fu il decorso postoperatorio?
«Passati 15 giorni, lo dimisi. Mi confessò la causa dell' incidente: "Da Lodi, dove faccio il dj, tornavo a Melegnano sbronzo, come ogni notte". Mi giurò solennemente che si sarebbe astenuto per sempre dall' alcol. Quattro anni dopo venne a trovarmi la fidanzata, con il viso gonfio: Alex era tornato a bere, la picchiava. Un giorno mi telefonarono dall' ospedale di Melegnano per dirmi che era stato ricoverato con una grave emorragia gastrica ed era morto nel giro di 45 minuti».
Di qui la sua missione da pensionato.
«Sì, girare nelle scuole per mettere in guardia gli studenti dai pericoli dell' alcol. Ne ho già incontrati 54.000. Viola non sapeva che bastano 5 bicchierini di vodka uno in fila all' altro per lasciarci la pelle. La salvai. In mio onore volle battezzare Luigi suo figlio, che oggi ha 15 anni. Ho curato 24 giovani in coma epatico, a 8 di loro ho dovuto trapiantare il fegato. Un minuto prima sono sani e un minuto dopo morti, se non trovi un donatore compatibile. Provo una tale rabbia...».
Ma perché accade?
«Il corpo ha tre sistemi per difendersi dall' alcol: il vomito, il respiro che lo elimina al 10-15 per cento attraverso i polmoni, il fegato che lo neutralizza all' 80 per cento con l' alcoldeidrogenasi. Ma questo enzima nei ragazzi fino a 18-19 anni non c' è. Già 15 minuti dopo aver bevuto, tutto l' etanolo è in circolo nel sangue. Ecco spiegate le stragi sulle strade».
Senza dancing, movida e apericena, si berrebbe ugualmente tanto?
«No. Oggi è di moda il binge drinking , bere per stordirsi. Chi va in discoteca ha il 31,9 per cento di probabilità in più di ubriacarsi, rispetto al 7,8 di chi non la frequenta. E ingollare drink a garganella aumenta di 70 volte le probabilità di un' epatite acuta fulminante con coma».
Spaventoso.
«Non lo sa nessuno. Ogni anno la tv fa 3.000 ore di pubblicità agli alcolici ma non spiega che sono la prima causa di morte dai 16 ai 22 anni e la seconda dai 22 ai 30. Perché, vede, se io asporto mezzo fegato invaso da un tumore, dopo due mesi si rifà. Ora, una superbevuta uccide 2,5 milioni di cellule epatiche, che in 45 giorni si riformano. Ma se ti ubriachi ogni settimana, l' organo è spacciato».
Come mai i giovani bevono forte?
«Fino agli anni Novanta non era così. È morta la famiglia. Solo l' 1-2 per cento di chi è seguito dai genitori si ubriaca, negli altri casi arriviamo al 18. Alzi la mano chi non ha mai bevuto alcolici, chiedo agli studenti: lo fanno solo gli islamici. Chi si è ubriacato una volta? La alzano 60 su 100. Chi lo fa ogni settimana? Il 5 per cento. Oggi si vendono cocktail buonissimi, dolci, molto economici, scorciatoie sicure per l' eccitazione e la disinibizione».
Parla per esperienza personale?
«Mi sono concesso un whisky di sera fino alla laurea, nel 1961. Da allora sono totalmente astemio. Vino e liquori sono incompatibili con la mia professione».
Il consumo di alcolici è di 80 milioni di litri l' anno. Il vino fattura 11 miliardi. Vuole distruggere un' industria italiana?
«Voglio che i giovani imparino a bere con moderazione, tutto qui. Sono il primo a dire che mezzo litro di vino a 12 gradi, suddiviso fra pranzo e cena, quindi a stomaco pieno, in un adulto è benefico: aumenta il colesterolo buono, abbassa la pressione arteriosa, stimola la forza di contrazione del cuore, è antiossidante».
Perché diventò chirurgo epatico?
«Perché lo era il mio maestro, Dinangelo Galmarini. Aveva visto le sperimentazioni sui maiali in Brasile. Nel 1983 provammo il trapianto sull' uomo».
E andò bene?
«Certo. Consideri che nel 1982 ero stato formato a Pittsburgh da Thomas Earl Starzl, che 20 anni prima aveva eseguito con successo il primo al mondo».
Eppure Starzl fu chiamato l'«assassino di Denver», come mi ha raccontato Cristiano Huscher, anche lui suo allievo.
«Vero. L' 11 luglio lo assistevo in un trapianto. "Non guardi la tua Italia in finale ai Mondiali?", si stupì. E fece portare un televisore in sala operatoria. Poiché non ero abilitato agli interventi chirurgici negli Stati Uniti, mi cedeva la propria tessera personale per poterli eseguire. In quel 1982 mi affidò da tradurre il suo libro The puzzle people , uscito da Longanesi con il titolo Ai limiti del possibile ».
Anche lei ama scrivere.
«Una passione nata dalla lettura. In matematica ero un somaro, così fin dal ginnasio per tre anni fui rimandato a settembre. Questo significava finire relegato per tutta l' estate a Reggiolo, dalla zia Eugenia, zitella, terziaria francescana, con il cappellano don Angelo, che officiava la chiesa del Palazzo Fassati, poi donato al Comune. Nell' immensa biblioteca la zia aveva nascosto i volumi che figuravano nell' Indice dei libri proibiti. Non mi fu difficile scovarli, a cominciare dal Decamerone di Boccaccio. Intanto i miei fratelli e il resto della famiglia, in tutto 32 persone, stavano da giugno a ottobre in una villa privata dentro il Des Bains, al Lido di Venezia, insieme con la nonna materna Sarina Nathan, cugina di Ernesto, che fu sindaco di Roma dal 1907 al 1913, e moglie di Iro Bonzi».
Il padre del conte Leonardo Bonzi, che vendette a Silvio Berlusconi i terreni per costruire Milano 2 e a don Luigi Maria Verzé quelli per l' ospedale San Raffaele?
«Lui, il trasvolatore dell' Angelo dei bimbi, campione olimpionico di bob. Ma per me soprattutto il marito di Clara Calamai, interprete della Cena delle beffe , prima donna nella storia del cinema italiano ad apparire a seno nudo. Al liceo Parini dicevo agli amici: scommettiamo che oggi viene a prendermi mia zia, l' attrice? E incassavo un sacco di soldi».
Durante le vacanze forzate a Reggiolo nacque la sua vocazione per la chirurgia.
«Grazie al medico condotto, Ermete Fontanili. Mi teneva nel suo ambulatorio, fu lui a insegnarmi a praticare le endovene. All' ospedale faceva tutto da solo, dai parti alle appendiciti, aiutato da una suora che addormentava i pazienti con l' etere nel gocciolatore. Invece per le tonsille arrivava l' otorinolaringoiatra da Reggio Emilia. Mentre le madri tenevano fermi i figli, con una pinza le strappava senza anestesia. Al vedere il fiotto di sangue che schizzava dalla gola, svenni».
Chi erano «Chiara e Gao che non ci sono più», ai quali dedica «Mal d'alcol»?
«Un' amica e suo figlio. Al marito trapiantai il fegato, invano. Gao fu colpito da tumore al cervello. Chiara lo fece curare a San Francisco. Tornarono dopo due anni: non vi era più nulla da fare. Un giorno ricevetti una mail: "Ciao Lura, grazie di tutto". Corsi a casa loro. Li trovai distesi nel letto, vestiti con tuniche bianche. La mamma stringeva la mano del figlio ucciso dal cancro. Si era suicidata per stargli accanto anche nell' eternità».
· Il Colesterolo.
Fabio Di Todaro per “la Stampa” l'11 marzo 2020. Due sole iniezioni all' anno, con un obiettivo ambizioso: ridurre gli oltre 40 mila decessi causati, ogni anno, in Italia, dalle malattie cardiovascolari. L' ultima tappa della sfida per ridurre i valori del colesterolo «cattivo» partirà dalla Gran Bretagna. Il governo inglese - grazie a un accordo raggiunto con l'azienda produttrice, la Novartis, in attesa delle autorizzazioni da parte della Food and Drug Administration e dell' Agenzia Europea del Farmaco - ha deciso di «offrire» l'inclisiran ad almeno 20 mila persone affette da ipercolesterolemia familiare o ad alto rischio di insorgenza di un nuovo ictus o infarto. Si tratta di un farmaco con un meccanismo d' azione diverso dagli altri in uso (statine, ezetimibe e inibitori del Pcsk9). Il tutto con un' azione a lunga durata: da qui la possibilità di effettuare una somministrazione ogni sei mesi, sufficiente negli studi clinici condotti a dimezzare tanto i livelli di colesterolo Ldl quanto di quello totale. E' un risultato potenzialmente salvavita per tutti quei pazienti che, dopo un periodo di trattamento, finiscono per non rispondere più ai farmaci disponibili. Ldl, sempre più basso. Portare verso il basso i livelli di colesterolo Ldl è la strategia più efficace per ridurre l' impatto delle malattie cardiovascolari. Oltre a evitare il fumo di sigaretta, infatti, il fattore di rischio che promuove la aterosclerosi è rappresentato dall' accumulo del colesterolo «cattivo» nei vasi sanguigni. In partenza, quando si è sani, una dieta ricca di vegetali e povera di grassi e l' attività fisica regolare possono essere sufficienti a proteggerci. Ma, una volta che il processo di indurimento delle arterie è avanzato, ricorrere ai farmaci è l'unica opportunità di cui disponiamo per prevenire la complicanza più grave dell' ipercolesterolemia: l'insorgenza degli eventi acuti cardio (infarti) e cerebrovascolari (ictus). Più che il valore totale del colesterolo è la quota di quello Ldl a richiedere maggiori attenzioni. Depositandosi all' interno delle arterie, la frazione «cattiva» è responsabile della comparsa di lesioni che ostruiscono il flusso del sangue. Un problema sentito anche in Italia, dove, nel 2017, sono stati 47mila i decessi per cause attribuibili a valori di Ldl troppo elevati. Da qui, non esistendo un limite minimo di colesterolo «cattivo» assolutamente sicuro, la decisione di puntare verso valori ancora più contenuti. L'arsenale di oggi. Per chi ha un cuore che ha già fatto le bizze le linee-guida europee per le dislipidemie fissano il limite a 55 (mg/dl). Una soglia che non sempre si raggiunge con le statine, sole o in abbinamento con l' ezetimibe. «Questo rimane il trattamento standard dell' ipercolesterolemia, ma non è sufficiente in tutti i casi», afferma Pasquale Perrone Filardi, direttore del reparto di cardiologia del Policlinico universitario Federico II di Napoli. «Sappiamo che dimezzare il colesterolo Ldl nelle persone ad alto rischio può non bastare. Dobbiamo trovare il modo di migliorare la risposta terapeutica, ricorrendo anche alla combinazione di più farmaci». In Italia sono disponibili gli anticorpi monoclonali, assunti tramite iniezioni sottocutanee quindicinali o mensili. Fino a poche settimane fa potevano essere prescritti solo a chi è affetto da ipercolesterolemia familiare, ma sul finire del 2019 l' indicazione è stata estesa a tutti i pazienti ad alto rischio. Un'opportunità in più, che non è però destinata a essere l' ultima. I tempi d' azione. Con la prossima introduzione dell'inclisiran l'aderenza alle terapie dei pazienti potrebbe migliorare. La molecola si è rivelata in grado di determinare la stessa riduzione di colesterolo Ldl delle molecole oggi più potenti (oltre il 50%) con due iniezioni all' anno. Una modalità d' azione - accostabile a quella degli antivirali per l' Hiv, degli anticorpi monoclonali per il trattamento dell'emicrania e della sclerosi multipla e degli antipsicotici per la schizofrenia - che ha portato molti a parlare di «vaccino» per il colesterolo, anche se non è corretto definire tale l' inclisiran. «Se la riduzione dei valori di colesterolo sarà accompagnata anche da un calo della mortalità, questa molecola si candida a essere un' opzione importante per tutte le persone affette da una forma di ipercolesterolemia familiare o comunque ad alto rischio». Potrebbero essere tra 70 e 80 mila gli italiani interessati al nuovo farmaco. Della gamma, entro un anno, entrerà a far parte anche l' acido bempedoico, che si candida a essere un' alternativa delle statine nel trattamento di prima linea.
Melania Rizzoli per “Libero quotidiano” il 18 dicembre 2019. Ogni anno 4 milioni di persone in Europa, ed oltre 48mila in Italia, muoiono di malattie cardiovascolari per non avere effettuato controlli sui livelli del colesterolo "cattivo". È questo l' allarme lanciato in apertura dell' 80° Congresso nazionale della Società Italiana di Cardiologia (Sic) che si è tenuto due settimane fa a Roma, dove sono state presentate prove schiaccianti, derivanti da studi fisiopatologici, epidemiologici, genetici e da studi di popolazione, che dimostrano come il "Colesterolo LDL", sigla di Low Density Lipoproteins (ovvero lipoproteine a bassa densità), sia una potente causa di infarto e di ictus, e che ridurre questo valore è efficace per non morire anche se si hanno livelli di partenza inferiori alla media. Inoltre è stato evidenziato che è necessario abbassare il colesterolo LDL il più presto possibile, specialmente nei pazienti a rischio anche basso, che non esiste un limite inferiore di colesterolo LDL noto per essere pericoloso, perché la sua riduzione riduce il rischio indipendentemente dai livelli di base, e che in ogni caso questa molecola killer deve poter essere abbattuta e portata sotto i 55 mg/dl anche negli individui in apparente buona salute. Il colesterolo LDL infatti, accumulandosi nelle arterie in forma di placche ne irrigidisce le pareti, aggravando il rischio di problemi ostruttivi, soprattutto nelle coronarie del cuore e nei vasi del cervello, per cui chi deve monitorarlo con maggiore attenzione sono coloro che soffrono di malattia aterosclerotica, cardiovascolare, chi ha già sperimentato l' infarto o l' ictus, i portatori di stent o di by-pass coronarici, e chi soffre di diabete mellito, di ipertensione e di insufficienza renale anche lieve, e quanto più si riduce il suo valore nel sangue, tanto più migliora la prognosi e l' aspettativa di vita.
FATTORI DI RISCHIO. Il colesterolo è una molecola organica lipidica molto importante nella fisiologia del nostro corpo, poiché è una costituente insostituibile delle membrane cellulari di tutte le nostre cellule, oltre ad essere un precursore degli ormoni steroidei, della vitamina D e degli acidi biliari, indispensabili per la digestione dei grassi, e la sua totale assenza è incompatibile con la vita. La concentrazione di tale sostanza nel sangue però non deve superare certi limiti, perché i suoi livelli eccessivi possono essere molto pericolosi per la salute umana, e mentre il colesterolo HDL è considerato quello "buono" per il suo ruolo protettivo, la suddivisione tra frazione di colesterolo LDL e HDL è invece fondamentale, poiché tanto più il rapporto è favorevole alla prima, tanto più alto è il rischio di malattie cardiovascolari. Secondo le recenti guide linea, i valori del solo Colesterolo Totale non sono invece significativamente correlati con la quantificazione del rischio cardiovascolare, in quanto sono soltanto uno dei molti fattori predisponenti, per cui meglio evitare di impazzire per riportare la soglia del colesterolo totale al di sotto dei 200mg/dl, ma piuttosto bisogna concentrarsi sulla riduzione della quota LDL, quella cioè definita la più pericolosa per le tragiche conseguenze che il suo alto dosaggio ematico comporta. È bene sottolineare che i valori del colesterolo totale e quelli del colesterolo LDL vengono comunque utilizzati insieme per calcolare un parametro importantissimo, chiamato "indice di rischio", il quale rappresenta un valido e statisticamente significativo strumento per valutare il reale rischio cardiovascolare del paziente.
MEDICINALI UTILI. Per raggiungere l' obiettivo di portare al di sotto dei 55mg/dl il colesterolo LDL non servono a niente gli integratori, ma sono necessari i farmaci, contenenti i principi attivi farmacologici, e quelli con cui si inizia il trattamento per abbatterlo sono le statine, molecole molto ben tollerate e i cui benefici superano di gran lunga i pericoli, anche tra quelli a basso rischio, e se le statine, combinate con l' altro farmaco di prima scelta, l' ezetimibe, che agisce inibendo l' assorbimento del colesterolo a livello intestinale, non sono sufficientemente a ridurne i livelli, possono essere usati i Pcsk9, una classe di medicinali molto potenti, che vengono somministrati una volta al mese. Un famoso studio che ha coinvolto oltre 18mila persone, pubblicato lo scorso anno sul New England Journal of Medicine, ha dimostrato che l' associazione di statina piu ezetimibe riduce in modo significativo, rispetto alle sole statine, sia gli infarti che gli ictus ischemici, anche nei pazienti con ipercolesterolemia familiare e genetica. La buona notizia è che a breve, entro un anno, saranno immessi sul mercato alcune novità del settore farmacologico per il trattamenti dell' ipercolesterolemia, come l' acido bembepodico, che interviene direttamente sulla biosintesi del colesterolo, una molecola che non sostituirà le statine, ma potrà essere una soluzione di trattamento per chi non può assumerle. Per quanto riguarda la dieta, chi è affetto da ipercolesterolemia deve preferire pesce azzurro, olio di oliva, noci, frutta, verdura, alimenti integrali e probiotici, considerati alcuni dei migliori alleati contro l' aumento di tale molecola lipidica, poiché la moderazione calorica e la sobrietà della dieta rappresentano un elemento chiave nel controllo del rischio cardiovascolare.
RIMEDIO NATURALE. Tra i nuovi fattori emergenti che minano la nostra salute, uno dei più importanti, oltre al colesterolo, per valutare il rischio cardiovascolare da qualche anno è rappresentato dall' Omocisteina, un amminoacido solforato, che quando presenta elevati livelli nel sangue può essere altrettanto pericoloso, e deve necessariamente essere controllato consumando adeguate quantità di acido folico, commercializzato come Folina, una vitamina presente nei vegetali a foglia verde, in grado di abbassare con una pillola al giorno questo fattore di rischio addizionale, i cui valori plasmatici non devono superare i 12mmol/l. Nel 2017 una persona su cinque che in Italia è morta per malattie cardiovascolari ha avuto cause imputabili al mancato controllo del colesterolo LDL, per un totale di poco meno di 50mila decessi, ma nell' ultimo anno fortunatamente si sta diffondendo la cultura del controllo di tali valori plasmatici, che per troppo tempo sono stati privati dell' attenzione che meritavano.
· La Sla. Sclerosi laterale amiotrofica.
Francesco Perugini per “Libero quotidiano” il 29 aprile 2020. La Sla è la malattia del calcio. Una ricerca dell' Istituto Mario Negri stabilisce con certezza il legame tra il pallone e la Sclerosi laterale amiotrofica (Sla) che negli anni ha colpito tanti famosi campioni, da Gianluca Signorini a Giovanni Bertini, l' ex difensore della Roma che ne è stato l' ultima celebre vittima a dicembre 2019. Era "la Stronza" per Stefano Borgonovo, diventato il simbolo della lotta a questo male terribile che priva le persone del controllo sul loro corpo e colpisce in Italia 6 mila persone. Secondo lo studio condotto Elisabetta Pupillo e da Ettore Beghi, in collaborazione con Nicola Vanacore dell' Istituto Superiore di Sanità, è la professione in sé - e, paradossalmente, il dono di un talento eccezionale per il pallone - a portare all' insorgere della malattia. E soprattutto ad anticipare l' insorgere dei sintomi in fisici che dovrebbero essere forti e allenati dopo anni di carriera ad alto livello. Analizzando i giocatori di serie A, B e C dal 1959/60 al 1999/20, lo studio ha identificato 34 malati con una sorprendente preponderanza dei centrocampisti (15): solo tre i portieri, sette gli attaccanti e nove i difensori colpiti tra coloro che sono finiti negli album Panini degli anni d' oro del nostro calcio. Ciò che resta difficile da comprendere per gli scienziati è perché la sindrome neurodegenerativa colpisca i calciatori il doppio delle persone comuni, con il tasso di casi che è addirittura «sei volte superiore» per i soli calciatori di Serie A. In particolare, i professionisti del pallone vedono l' emergere della malattia in età decisamente precoce (45 anni contro i 65,2 della media europea). «I nostri dati confermano che non vi è alcuna associazione tra le squadre in cui i calciatori hanno militato e l' insorgenza della malattia», commenta Elisabetta Pupillo. «Altri studi condotti insieme a colleghi europei e americani, però, ci inducono a pensare che la causa non sia il gioco del calcio in sé, ma una serie di concause, ancora da definire nei dettagli. Tra queste ricordiamo il ruolo dei traumi, l' attività fisica intensiva, una predisposizione genetica e altro ancora. Ogni fattore potrebbe avere un ruolo ad oggi ancora non chiaro». Di fronte alle evidenze scientifiche cadono così le ipotesi formulate negli anni, soprattutto dal pm di Torino Raffaele Guariniello, che avevano ricercato - senza successo - le cause dell' insorgenza della Sla nell' uso di doping o nei diserbanti usati per la cura dei campi da calcio.
Morte Anastasi, la Sla gioca a calcio e miete vittime senza fare sconti. Pubblicato domenica, 19 gennaio 2020 su Corriere.it da Gaia Piccardi. Guariniello: «C’è un nesso. La mafia ha i pentiti, il pallone no». Anastasi Pietro, morto venerdì a Varese di sclerosi laterale amiotrofica (Sla) a 71 anni, ci costringe ad aggiornare la macabra contabilità dei caduti sotto l’implacabile tackle della «malattia professionale» dei calciatori. A definire per primo così la Sla è stato il magistrato torinese Raffaele Guariniello, autore di un prezioso studio epidemiologico su un campione di 24 mila calciatori italiani di Serie A, B e C dalla stagione ‘59-60 a quella ‘99-2000 (fondamentale si rivelò l’archivio delle figurine Panini), recentemente confermato da uno studio dell’Istituto Mario Negri di Milano arrivato fino al 2018 con un follow up allargato. Le ricerche concordano: in Italia i calciatori si ammalano di Sla di più e prima delle altre categorie professionali. I casi fin qui accertati di Sla nel calcio italiano sono 32. Esclusi Anastasi e Giovanni Bertini, ex difensore di Roma e Fiorentina (le misteriose morti dei giocatori viola degli anni 70, da Beatrice a Longoni, da Saltutti a Galdiolo, furono al centro di un’inchiesta di Guariniello), arresosi alla Sla a 68 anni lo scorso dicembre. «Il rischio ricalcolato sulla popolazione calcistica è circa 2 volte di più rispetto alla popolazione generale — spiega il dottor Ettore Beghi —. Considerando solo la Serie A, il rischio sale a 6 volte di più». Il 6 novembre 2002 si spegneva Gianluca Signorini, amatissima bandiera del Genoa, il primo celebre caduto sul fronte della Sla. Verrebbe da dire che dopo quasi quattro lustri di indagini e ricerca non è cambiato nulla. La Sla resta una malattia neurodegenerativa incurabile, multifattoriale, quindi difficilissima da decifrare. «La mia speranza, mentre la casistica purtroppo cresce, è che sia maturata la consapevolezza dell’ambiente — dice l’ex pm, che presiede la commissione amianto del ministero dell’Ambiente —. Trovare il nesso tra calcio e Sla è importante ai fini della prevenzione. Io lavorai da solo, in un clima sconsolante. Con una perplessità che non mi ha mai abbandonato: benché non si possa pensare che la Sla sia una malattia solo dei giocatori italiani, il mio studio non ebbe seguito in Europa. Provai a sensibilizzare Michel Platini all’Uefa, da noi Damiano Tommasi sembrava molto interessato, ma non ci fu seguito. Sarebbe stato interessante, invece, incrociare i dati». I casi nel calcio continentale non mancano (l’olandese Fernando Ricksen, ex Rangers e Zenit, è deceduto il 18 settembre 2019 a soli 43 anni), però nessuno ne parla. Contro l’indifferenza delle istituzioni ha sbattuto anche Chantal Borgonovo, che insieme al marito Stefano (ex Fiorentina e Milan) ha combattuto in prima linea, pubblicamente: una generosità che ha finalmente portato la Sla sulle prime pagine dei giornali. «La ricerca va avanti, ma sul fronte calcio siamo fermi — racconta dal timone della Fondazione Borgonovo —. Nel silenzio generale i calciatori continuano ad ammalarsi e morire». Nel febbraio 2017 un incontro a Zurigo con il neopresidente della Fifa Gianni Infantino, cui fu chiesto di finanziare proprio la ricerca del l’Istituto Mario Negri, finì con un pugno di mosche in mano. Salvo sentirsi dire un anno dopo che «adesso che c’è la Fondazione Fifa siamo pronti al dialogo». Un libro già uscito, una fiction da proporre, altre iniziative per tenere vivo l’interesse su un tema di cui si torna a parlare in occasione dei funerali (stamane a Varese quello di Anastasi): «A vent’anni pensi solo a giocare a calcio. Dovrebbero essere le istituzioni a fare opera di sensibilizzazione. Ma io non mi arrendo» promette Chantal. Il primo nel ‘73 fu Armando Segato, ex Cagliari e Fiorentina, seguito da Fulvio Bernardini, centrocampista di Lazio, Inter e Roma, ct della Nazionale dal ’74 al ’77. Le ipotesi? Sempre le stesse: 1) Traumi (colpi di testa, scontri, infortuni); 2) uso di sostanze dopanti e abuso di farmaci; 3) esposizione a sostanze chimiche per ravvivare l’erba e il verde dei campi. «Non si vuole criminalizzare il calcio — chiosa Guariniello —, ma trovare il nesso. Peccato non aver mai incontrato un pentito su questo fronte. La mafia li ha, il calcio no».
· La Fibromialgia.
Sapete che cos'è la fibromialgia? Come riconoscerla e combatterla. Lo studio, pubblicato sul Journal of Clinical Medicine, è stato condotto dai ricercatori del Dipartimento di Medicina dell'Università di Verona e del Dipartimento di Medicina Sperimentale dell'Università di Genova. Maria Girardi, Domenica 06/09/2020 su Il Giornale. Secondo recenti statistiche colpisce circa 1,5-2 milioni di italiani, soprattutto di età compresa fra i 25 e i 55 anni. Ad esserne maggiormente interessate sono le donne con un rapporto di incidenza rispetto agli uomini di 9:1. La fibromialgia è una malattia reumatica che colpisce i muscoli e lo scheletro e si caratterizza per la presenza di dolore cronico e rigidità in molte sedi dell'apparato locomotore. Il termine deriva dal latino "fibro" e dal greco "myo" (muscolo) e "algos" (dolore). Dunque letteralmente significa "dolore proveniente dai muscoli e dai tessuti fibrosi" (tendini e legamenti). Poiché i segni clinici possono presentarsi contemporaneamente, si parla di sindrome fibromialgica. In passato la patologia veniva considerata come una fibrosite. Alla fine degli anni '40, esclusa la presenza di infiammazione, fu stabilito che la fibromialgia aveva una base psicologica. Attualmente secondo la classifica internazionale delle malattie, il disturbo andrebbe classificato come sindrome somatica funzionale. Pur non essendo state ancora stabilite le cause, si ritiene che la fibromialgia abbia una genesi multifattoriale. In quasi tutti i casi il suo esordio è correlato ad un evento apparentemente non associabile al disturbo: trauma fisico, psichico, problematiche e problematiche a eziologia virale. Vari sono i fattori di rischio che ne favoriscono la comparsa:
1) Alterazione a livello dei neurotrasmettitori. Un forte stress endogeno o esogeno altera il funzionamente dei neurotrasmettitori cerebrali (serotonina, noradrenalina, dopamina) e contribuisce all'insorgenza dei sintomi dolorosi. Allo stesso tempo il sistema endocrino e quello immunitario sono interessati dal malfunzionamento delle reti neuronali-cerebrali. Di conseguenza l'iperattività del sistema nervoso vegetativo provoca un deficit di irrorazione sanguigna a livello muscolare con relativa iperalgesia.
2) Stress fisico e/o emotivo. La malattia è frequentemente associata a condizioni quali la sindrome da fatica cronica, il disturbo post-traumatico da stress, la depressione e la sindrome del colon irritabile. Da non sottovalutare, poi, i traumi fisici al cervello, al midollo spinale e il colpo di frusta cervicale.
3) Disequilibrio ormonale. Nei soggetti fibromialgici sono state osservate modifiche dell'asse ipotalamo-ipofisi-surrene. Non si esclude, quindi, che una causa della patologia possa essere una perturbazione del sistema endocrino.
4) Infezioni. Alcune problematiche, spesso ad eziologia virale, sono in grado di innescare o di aggravare la sintomatologia. Tra queste si ricordino la mononucleosi infettiva, il morbo di Lyme e la sindrome da contaminazione batterica del tenue.
I ricercatori del Dipartimento di Medicina dell'Università di Verona e del Dipartimento di Medicina Sperimentale dell'Università di Genova hanno appurato l'esistenza di fattori autoimmuni alla base della fibromialgia. Lo studio, i cui risultati sono stati pubblicati sul Journal of Clinical Medicine, è stato condotto analizzando il genoma dei pazienti e confrontandolo con quello di un gruppo sperimentale di controllo composto da soggetti sani, divisi per età e sesso. Nella prima parte dell'indagine sono stati identificati i geni deregolati propri della malattia. Successivamente, ricercando le alterazioni a livello cellulare, si è constatato che le stesse riguardavano le cellule del sistema immunitario e che presentavano caratteristiche simili a quelle riscontrabili nelle patologie autoimmuni. La scoperta apre le porte a nuove e sempre più mirate strategie terapeutiche.
· L’Epilessia.
Valentina Arcovio per “il Messaggero” il 18 dicembre 2019. Un'ombra su Star Wars. Il film che proprio domani torna al cinema con un nuovo episodio. Più precisamente per coloro che soffrono di epilessia. Grandi e piccoli. Ci sarebbero, infatti, alcune scene della saga di Guerre Stellari che pare possano arrivare a scatenare crisi epilettiche. Tanto che la Disney ha invitato i distributori a prendere misure speciali per avvertire gli spettatori del rischio. Ma la Lega italiana contro l'epilessia (Lice) precisa subito una cosa: «Si tratta di un'eventualità che riguarda le persone affette da epilessia fotosensibile, una particolare condizione neurologica che insorge in genere in età infantile ed adolescenziale ed interessa una piccola percentuale delle persone con epilessia». Non riguarda quindi tutti gli spettatori e neanche tutti i pazienti affetti da epilessia.
LUCINE DI NATALE. A rischio sarebbero quindi le stesse persone che dovrebbero stare attente alle luci intermittenti o troppo brillanti, come quelle presenti nelle discoteche o che addobbano le strade in questi giorni. I pazienti affetti da epilessia fotosensibile sono coloro che rischiano le crisi anche a causa delle luci lampeggianti poste su auto della polizia, sui camion dei pompieri e sulle ambulanze.
I COLORI. E ancora: sono coloro che dovrebbero fare attenzione alle immagini dai colori troppo intensi e cangianti attraverso schermi tv e di altro tipo, agli effetti speciali in film e videogiochi, ma anche alle fotocamere con flash ripetuti e fuochi d'artificio. Non è un problema che ha solo a che fare con le luci artificiali. Ci sono anche alcune stimolazioni luminose intermittenti presenti in natura, per esempio, il riflesso del sole sull'acqua o sulla neve, ecc. «La fotosensibilità è una condizione che preoccupa molto i genitori di bambini o ragazzi con epilessia» spiega Oriano Mecarelli del Dipartimento di Neuroscienze Umane presso l'Università La Sapienza di Roma e presidente della Lice. «Questa caratteristica individuale viene comunque testata abitualmente durante l'esecuzione dell'elettroencefalogramma e, una volta accertata, i soggetti e le famiglie vengono informati affinché provvedano ad alcune precauzioni», aggiunge. Perché è possibile contenere i rischi. «Se il paziente non può in alcun modo evitare l'esposizione ad un fattore di rischio spiega l'esperto - è opportuno che indossi occhiali protettivi dotati di speciali lenti colorate oppure, se non a sua disposizione, è utile che nella visione di stimoli luminosi intermittenti si copra con la mano un occhio e allontani immediatamente lo sguardo dalla fonte del disturbo». Da ricordare molti suggerimenti utili che possono aiutare a prevenire l'insorgenza di crisi nei pazienti con epilessia fotosensibile durante la visione di stimoli luminosi intermittenti.
La Lice ne ha individuati dieci.
La prima regola è quella di illuminare l'ambiente circostante, posizionando una lampada accesa vicino allo schermo ed evitando la penombra.
La seconda è un suggerimento valido per tutti e cioè guardare la tv e giocare ai videogiochi evitando di posizionarsi troppo vicini allo schermo.
Nella terza e quarta la Lice raccomanda di regolare le impostazioni internet per controllare le immagini in movimento, di utilizzare schermi 100 Hz o di tecnologia più moderna e ridurre l'impostazione della luminosità dello schermo.
In generale, questa sono la quinta e la sesta regola, è bene limitare il tempo trascorso davanti al video e seguire uno stile di vita sano limitando stress ed assunzione di alcol. L'associazione consiglia inoltre di evitare pc e tv quando si è particolarmente stanchi; e di scegliere videogiochi che non coinvolgano troppo dal punto di vista emotivo e in cui i passaggi tra le immagini e i colori non siano eccessivamente bruschi.
· La dislessia è anche un business.
Maria Sorbi per il Giornale il 9 marzo 2020. Negli ultimi quattro anni il numero dei bambini dislessici è aumentato vertiginosamente (+88%), così come quello degli alunni disgrafici (+164%). Quelli che fino a poco tempo prima erano considerati i discoli della classe, disattenti, ingestibili e disordinati, improvvisamente sono stati catalogati con Dsa, disturbi specifici dell' apprendimento che in Italia colpiscono il 3,2% della popolazione scolastica. Complessivamente parliamo di 276mila alunni. Nel 2015 le diagnosi sono passate addirittura da 94mila a 177mila per la dislessia e da 30mila a 79mila per la disgrafia. Come mai i dati hanno registrato un' impennata del genere? Siamo di fronte a un boom di disturbi? Nulla di tutto ciò. Semplicemente abbiamo imparato a dare un nome alle cose. A insegnarlo, nel bene e nel male, è stata la legge 170 del 2010, il provvedimento che prevede misure per i bambini con disturbi di dislessia, disgrafia, disortografia e discalculia. Tuttavia non si può dire che i problemi siano stati risolti dal giorno in cui è stata varata la legge, anzi. Sono venuti al pettine nodi che fino a quel momento erano rimasti sommersi e gestirli ne ha causati altri. Insomma, quello sulla dislessia è una questione complessa che coinvolge un po' tutti: ci sono professori che segnalano i casi alle Asl e altri che non lo fanno, genitori in confusione che non sanno bene a chi rivolgersi. E ragazzi, che rischiano di pagare il prezzo più alto. Anche la comunità degli psicologi è divisa: ci sono quelli «vecchio stampo» secondo cui l' eccesso di diagnosi è un effetto collaterale della mancanza di pazienza da parte degli insegnanti e quelli che invece si affidano alle diagnosi per avviare nuovi percorsi per potenziare l' apprendimento. L' INTOPPO DIAGNOSI Il cuore del problema sta nel sistema delle certificazioni del disturbo. Di fatto gli insegnanti delle scuole hanno segnalato i casi di ragazzi con problemi di apprendimento tutti in una volta e le Asl si sono trovate a gestire una valanga di richieste senza avere le strutture adeguate. Risultato: per avere un certificato un alunno aspetta tra i sei mesi e un anno. Eppure avere un documento che certifichi il disturbo è fondamentale per gli studenti: innanzitutto perché dà accesso, durante il percorso scolastico, a strumenti compensativi (utilizzo di supporti tecnologici) e misure dispensative (più tempo per svolgere i compiti in classe, utilizzo di supporti tecnologici) e poi perché - in alcuni casi, non sempre - agevola l' accesso all' indennità di frequenza, una somma prevista dalla legge 289 del 1990 con cui lo Stato eroga 293,75 euro ai minori con «difficoltà persistenti a svolgere i compiti e le funzioni della propria età». Oltre agli alunni con disabilità, talvolta questo contributo viene concesso anche a studenti Dsa e Adhd (disturbo da deficit di attenzione e iperattività) o con disturbi del comportamento alimentare. La cifra può servire a sostenere le spese per le sedute con gli psicologi o i percorsi di recupero. I TEST A formulare la diagnosi di dislessia o discalculia deve essere uno staff di specialisti o una struttura accreditata che si appoggi a un' équipe multidisciplinare composta da un neuropsichiatra Infantile, uno psicologo, un logopedista. Figure non sanitarie (quali pedagogisti, tutor degli apprendimenti, counselor) non possono fare diagnosi cliniche. I medici sono chiamati a valutare alcuni parametri: intelligenza, capacità di scrittura, capacità di lettura, comprensione del testo, capacità di calcolo. La diagnosi di dislessia, disortografia e disgrafia può essere fatta alla fine della seconda elementare, mentre quella di discalculia alla fine della terza elementare. Prima di queste tappe scolastiche la varietà dei risultati dei test rende troppo difficile il discernimento di un disturbo specifico dell' apprendimento. Come si è creato l' intoppo delle liste d' attesa? «Nel momento in cui è emerso un problema che prima non aveva nome - spiega Andrea Novelli, psicologo membro del consiglio direttivo dell' associazione italiana dislessia Aid - allora si sono formate le liste d' attesa. Seppur con tempi che variano di regione in regione, l' 80% delle diagnosi viene effettuato dal servizio pubblico. Il restante 20% da strutture private o accreditate». Strutture che organizzano anche percorsi di riabilitazione e affiancamento allo studio (a pagamento) e che sono diverse da regione a regione. In Lazio nemmeno esistono e le certificazioni sono in mano esclusivamente al pubblico, con tempi d' attesa tra i più lunghi. Il sistema sanitario si è trovato impreparato ad accogliere l' ondata di casi da analizzare e tutti quei servizi considerati una Cenerentola fino a poco tempo prima si sono trovati improvvisamente in prima linea. Per di più, spiega il neuropsichiatra infantile Sergio Messina a capo dell' Aid, «molti casi di ragazzi che prima risultavano sotto la legge 104, sono confluito nella 170. Anche per questo i numeri sono aumentati così. Prima alcuni bambini venivano catalogati come 104 pur non essendo disabili. Vorrei specificare che gli alunni dislessici e i Dsa in generale non hanno bisogno di un insegnante di sostegno, non hanno un deficit dovuto a una malattia. Sono bambini intelligenti che hanno solo un disturbo, un metodo differente di apprendere le cose». In base alle segnalazioni del ministero dell' Istruzione sembra che il 20% della popolazione scolastica sia interessata da disturbi dell' apprendimento. «Ma non è così - spiega Messina - Le certificazioni servono proprio a questo: a identificare chi è realmente un Dsa e chi no. Altrimenti sarebbe come dire che tutti i bambini pallidi sono anemici e non è così». LA POLEMICA L' argomento dislessia continua a dividere psicologi e insegnanti. Da una parte ci sono quelli che pensano sia fondamentale diagnosticare il disturbo il prima possibile, dall' altra c' è la fazione di quelli che vedono dietro le segnalazioni di casi di Dsa un tentativo degli insegnanti di lavarsi le mani di alcune responsabilità. «Le elementari - sostiene Francesco dell' Oro, autore del libro Indietro tutta, navigando verso la scuola di domani - stanno diventando pentole a pressione. Il rischio è che, alle prime difficoltà, si venga inseriti in un' area di attenzione. Il dislessico legge una parola e pensa a quella dopo. Io credo che in molti casi lo possa aiutare la lentezza. Va ripensato il metodo della scuola elementare: meno test, meno voti e metodi alla X Factor. Ogni bambino ha la sua tempistica di apprendimento e maturazione. Diamogli il tempo per assimilare e crescere».
La dislessia è anche un business. In 4 anni i bambini italiani con qualche "Dsa" (disturbo Specifico di Apprendimento) sono cresciuti del 160%. E lo Stato alle famiglie eroga 300 euro al mese. Ma non è facile averle. Giorgio Sturlese Tosi il 17 gennaio 2020 su Panorama. Se un bambino ha un disturbo dello sviluppo, dell’apprendimento, del comportamento alimentare, o una qualche disabilità, la sua famiglia riceve dallo Stato, ogni mese, una cifra mensile di quasi 300 euro. Cosa buona e giusta, si direbbe. E di fatto lo è. Ma se quello stesso bambino fa fatica a leggere e scrivere per motivi che nulla c’entrano con un presunto disturbo, se la sua disabilità non è una vera disabilità ma deriva da una falsa diagnosi (o è un «falso positivo»), se la famiglia non avesse diritto o necessità di un sostegno economico, se i controlli fossero poco accurati, ecco, allora quella somma, garantita un po’ a capocchia e un po’ a tutti, diventa un problema. Etico, ed economico per i conti dello Stato.
È quello che sta succedendo in Italia con «l’indennità di frequenza»: una somma prevista dalla legge 289 del 1990 con cui lo Stato eroga 293,75 euro per ogni minore che, per esempio, abbia una diagnosi di Dsa, disturbo specifico di apprendimento (dislessia, disgrafia, discalculia...); di Adhd, disturbo da deficit di attenzione e iperattività; di disturbo del comportamento alimentare, come anoressia o bulimia. O di Bes, Bisogni educativi speciali, ampio contenitore che racchiude i bambini iperattivi, con difficoltà di concentrazione. Indennità, fino a poco tempo fa, nota alle sole famiglie con queste problematiche. Oggi invece la platea di chi ne ha diritto si sta allargando al punto da rappresentare un allarme per i conti pubblici. Nel 2019 l’Inps ha erogato 166.351 indennità a minori, pari a 48 milioni e 865 mila euro. L’anno precedente erano 155.907 e la somma arrivava a poco più di 45 milioni di euro. Un aumento di tre milioni solo nell’ultimo anno che, secondo tutte le stime, è destinato a crescere sempre più. Con l’aggravante che le lacune normative consentono ampi spazi di manovra per chi vuole intascare l’assegno di quasi 300 euro al mese (3.500 euro all’anno). Per avere diritto all’indennità, infatti, il minore deve avere un reddito inferiore a 4.906,72 euro annui. Cioè tutti. Perché quello della famiglia non conta. Così il figlio di un industriale ha gli stessi diritti di chi con lo stipendio non arriva a fine mese. Altra nota negativa: le spese che il minore deve sostenere per la riabilitazione necessaria a competere ad armi pari con i compagni di scuola non devono essere certificate. In altre parole, l’Inps non richiede le ricevute di pagamento per eventuali tutor di sostegno, lezioni private, sedute dallo psicologo. Se da un lato è evidente che i 293 euro mensili non bastano a coprire i costi che una famiglia deve sostenere per far fronte alle criticità del figlio, d’altra parte nessun controllo impedisce che questi finanziamenti restino nelle tasche di chi non ha assoluta necessità o intenzione di ricorrere a questi strumenti compensativi. Un rischio che impone una revisione normativa, anche perché il banco sta per saltare. L’impennata della spesa è dovuta, in gran parte, all’aumento di casi certificati di Dsa, categoria dentro cui finisce un po’ di tutto, dalle reali «neurodiversità» alle carenze del sistema scolastico. Se da un lato, quindi, vengono riconosciute le difficoltà soggettive di alcuni studenti, per altri potrebbe trattarsi di un alibi. Del resto, i dati nazionali stilati dal ministero dell’Istruzione rivelano che il fenomeno è esploso negli ultimi quattro anni. Oggi gli alunni delle scuole italiane con disturbi specifici dell’apprendimento sono 276.109, con picchi del 6 per cento alle medie. La forma più nota di Dsa è la dislessia, che comporta serie difficoltà nella lettura, nella scrittura e nel calcolo, ma anche in alcuni comportamenti come allacciarsi le scarpe o relazionarsi con gli altri bambini. In questo caso le difficoltà sono serie e ben riconoscibili. Ma esistono altre forme di disturbi dell’apprendimento accusati di condizionare la resa scolastica. Come la disgrafia, la pessima calligrafia associata alla difficoltà di riconoscere e scrivere le lettere, la disortografia, che comporta errori di ortografia, e la discalculia, la difficoltà di eseguire calcoli matematici.
L’incremento del numero di certificazioni dal 2015 in poi è da capogiro: quelle relative alla dislessia sono salite da circa 94 mila a 177 mila, segnando un tasso di crescita dell’88,7 per cento; le diagnosi di disgrafia sono passate da 30 mila a 79 mila, con una crescita del 163,4 per cento. Anche il numero di alunni con disortografia certificata è più che raddoppiato, passando da circa 37 mila a 92 mila (+149,3 per cento), mentre gli alunni con discalculia sono aumentati da 33 mila a poco meno di 87 mila (+160,5 per cento). Non ci sono più i somari, insomma, ma solo allievi con difficoltà? Panorama ha parlato con il componente di una commissione delle Marche chiamata a valutare le certificazioni che le famiglie devono allegare alle richieste di indennità di frequenza. E i sospetti si rivelano fondati. «Per avere queste certificazioni» ci dice la nostra fonte «sono fioriti centri accreditati a pagamento, privati o semi-privati, ai quali conviene che una persona abbia queste patologie: il costo per ottenere la certificazione parte da 300 euro, ma varia da studio a studio». Per ottenere l’indennità occorre che il minore frequenti la scuola poi, da giugno a settembre, l’erogazione in teoria viene interrotta. «Però è possibile averla anche nei tre mesi di vacanza, presentando l’attestazione di frequenza di un corso presso una struttura di riabilitazione. Ma la legge non fissa il numero minimo di sedute, quindi bastano due o tre lezioni al mese». Difficile poi valutare seriamente le richieste di bambini stranieri: «Capita che famiglie di immigrati che non parlano una parola di italiano si presentino davanti alla commissione chiedendo l’indennità. Mostrano valutazioni, rilasciate anche da strutture pubbliche, che attestano difficoltà intellettive quando c’è solo un problema di bilinguismo». Sono bambini che in famiglia parlano la loro lingua e fuori si esprimono in italiano, con ovvie difficoltà rispetto ai coetanei. Ma è solo ignoranza della lingua, non un disturbo dell’apprendimento. «In questi casi, io personalmente rifiuto la richiesta, ma noi passiamo per una commissione rigorosa, non so cosa facciano gli altri». Ulteriore conferma di errori di valutazione, quando non di veri e propri abusi, arriva da Davide Novara, pedagogista e direttore del Centro psicopedagogico per l’educazione e la gestione dei conflitti, che ha scritto un libro denuncia sull’argomento: Non è colpa dei bambini. «Mentre sulle diagnosi di Dsa, i centri pubblici hanno tirato il freno, sono nati tanti centri privati disinvolti, che realizzano neurocertificazioni sui minori la cui validità è assai discutibile. I cosiddetti falsi positivi. C’è un vero business dietro queste etichette».
«Nella comunità scientifica si dibatte proprio di questo» aggiunge Anna Maria Costantino, direttore del reparto di Neuropsichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza del Policlinico di Milano. «Non basta un test di verifica per certificare un disturbo specifico dell’apprendimento. Talvolta le segnalazioni si rivelano un falso allarme. Non dimentichiamo che la scuola ha gravi carenze dal punto di vista del potenziamento didattico: potrebbe accadere che parta la segnalazione quando magari sarebbe bastato intervenire per tempo sul programma». L’inadeguatezza del Servizio sanitario nazionale alimenta il business di centri privati. «I tempi di attesa per le visite» denuncia Andrea Novelli, che all’associazione Aid riceve decine di segnalazioni di disservizi, «arrivano a 12 mesi; l’alternativa è rivolgersi a professionisti privati, ma i costi possono superare i mille euro, e parliamo soltanto delle diagnosi che devono essere redatte da tre specialisti: un neuropsichiatra infantile, uno psicologo e un logopedista. Le spese per la riabilitazione poi spesso non sono rimborsate dal Servizio sanitario e ricadono interamente sulle famiglie e la scuola non è pronta a fronteggiare le dimensioni del fenomeno, che aumenterà nei prossimi anni». Le lezioni costano 40 euro l’ora. E per ottenere qualche risultato ne servono almeno 20. «Magari sulla base di un falso positivo, un genitore si trova a pagare anche 6 mila euro annui per una serie di trattamenti, logopedia, psicomotricità...» sottolinea Novara.
Panorama ha verificato che gli uffici pubblici dove prenotare una visita specialistica spesso non funzionano. In una Asl di Milano, dove gli studenti con Dsa certificata sono 30 mila, dopo una settimana di tentativi e 43 telefonate a vuoto non siamo riusciti nemmeno a parlare con un operatore. In un’altra Asl dell’area metropolitana milanese ammettono che il 20 per cento dei bambini o ragazzi con probabile Dsa viene preso in carico soltanto sei mesi dopo la segnalazione. In Regione Lombardia, dove pure hanno appena varato una legge che prevede équipe multidisciplinari per tagliare le liste d’attesa e 5 milioni di stanziamento ad hoc, per la prima visita si aspettano anche più di cinque mesi. In Calabria, invece, il dato non viene nemmeno monitorato. Chi troppo e chi troppo poco. Non sarà un caso se Valle d’Aosta e Liguria hanno più del 5 per cento di alunni certificati con Dsa (Lombardia il 4,7 per cento, Piemonte 4,8) e in Calabria lo 0,8 per cento (l’1 per cento in Campania e l’1,3 in Sicilia). Ogni Regione adotta un protocollo diverso, ma la sostanza non cambia: servono fino a otto mesi per completare l’iter e poter ottenere una certificazione che riconosca il tipo di disturbo. L’unica scelta resta, dunque, il privato. Per la professoressa Costantino «mancano servizi, fondi, personale: solamente un bambino con Dsa su due riesce ad avere una diagnosi col Servizio sanitario nazionale, e solo uno su tre accede al trattamento riabilitativo con il sistema pubblico. Tutti gli altri si devono rivolgere a proprie spese ai privati».
L’Inps, da qualche tempo, tenta di arginare il boom incontrollato di richieste con dinieghi che a loro volta alimentano i ricorsi. Gli avvocati fiorentini Francesco Chetoni e Francesca Raffaele sono ormai punti di riferimento a livello nazionale. «Da Bolzano a Palermo abbiamo seguito almeno un centinaio di ricorsi contro la decisione di uffici provinciali Inps di negare l’indennità di frequenza» dice Chetoni. «E la percentuale di azioni legali vinte si aggira intorno al 90 per cento, con punte del 100 per cento in Sicilia». «Spesso i rigetti non sono nemmeno motivati» aggiunge l’avvocato Raffaele. «Una famiglia che se lo è visto erogare, l’anno dopo non ne ha più diritto, senza un perché. C’è un’evidente lesione dei diritti dei minori più bisognosi». Le legge infatti non specifica esattamente di quali disturbi il bambino debba soffrire per avere diritto all’indennità, e questo crea confusione. «Le difficoltà di un minore non cessano quando suona la campanella della scuola. Anzi, i costi a carico delle famiglie sono necessari proprio per gestire la vita quotidiana, spesso uno dei genitori deve lasciare il lavoro per seguire il figlio». E il rischio di abusi? «Posso dire che tutte le famiglie che seguiamo hanno un reddito basso» replica l’avvocato Chetoni «e che quei 300 euro sono una boccata di ossigeno per bambini con vere necessità». Sarà certamente vero e il problema è serio. Troppo per essere risolto dalla commissione verificatrice dell’Inps con tre minuti di colloquio e al massimo due domande, una delle quali, in genere, pare sia: «Per quale squadra tifi?».
· Lo stress ( fa anche venire i capelli bianchi).
Daniela Natali per corriere.it l'1 settembre 2020. Per la seconda volta (la prima è stata nel 2007, al termine del primo mandato) Shinzo Abe, il premier giapponese sessantacinquenne si ritira a causa delle cattive condizioni di salute. La sua malattia ha un nome: colite ulcerosa, una patologia con la quale lotta da molti anni, ma il suo riacutizzarsi, scrivono in molti, sembra dovuto all’eccezionale stress al quale è stato sopposto ultimamente: pandemia da Covid, Olimpiadi rinviate, crollo della «Abenomics».
Lo stress buono. Ma lo stress può far ammalare? «Dipende dal tipo di stress — chiarisce Nicola Montano, docente di Medicina interna all’Università Statale di Milano e alla guida dell’European Federation of Internal Medicine nel triennio 2018-2021 — la prima grande distinzione è tra forma acuta e cronica. Davanti a un evento “acuto”, penso per esempio all’emozione legata all’attesa di un evento sia positivo che negativo, l’organismo risponde aumentando il battito cardiaco, la respirazione e l’adrenalina in circolo; ma, passato il “momento”, tutto torna come prima. Lo stress è una riposta di adattamento dell’organismo alle sollecitazioni provenienti dall’ambiente esterno e ha anche un ruolo positivo: é fondamentale per sopravvivere perché davanti a un pericolo reale e immediato ci rende più pronti a reagire e ad operare una scelta rapida tra fuggire o combattere: fight or flight. Ma è quando lo stress è cronico, come probabilmente nel caso del premier giapponese, è tutta un’altra storia».
Lo stress cattivo. Perche’? Che danni fa lo stress cronico? «Innesca una serie di eventi che portano l’organismo a uno stato di infiammazione all’origine di molte malattie croniche, che colpiscono più distretti del corpo e tra queste malattie c’è anche la colite ulcerosa. Mi spiego meglio. Un evento stressante attiva alcune aree del nostro cervello tra cui l’ipotalamo che, attraverso una serie di meccanismi ormonali, stimola le ghiandole surrenali a rilasciare i cosiddetti ormoni dello stress: cortisolo e catecolamine (adrenalina e noradrenalina). In “fase acuta” questi ormoni danno “benzina” al nostro organismo e ci permettono di reagire: l’attivazione dell’Asse Ipotalamo-Ipofisi-Surrene è considerata una risposta adattiva dell’organismo, ma un prolungato stato di attività ci indebolisce perché le catecolamine inducono il rilascio di sostanze infiammatorie (citochine) e rendono il sistema immunitario meno efficace nel combattere le infezioni. Ciò si traduce in un danno che può colpire organi diversi e associarsi allo sviluppo di patologie autoimmuni».
Le conseguenze. Quali sono le malattie associate a questo secondo tipo di stress? «Restando a quelle più note, citerei quelle del tratto gastrointestinale: oltre alla colite ulcerosa, il morbo di Crohn, e poi tutti i tipi di vasculiti, il lupus, la sclerodermia, l’artrite reumatoide”.
Le cure. Il premier giapponese ha dichiarato nel 2013 : “Se il farmaco a cui ricorro avesse impiegato più tempo a entrare sul mercato, non sarei dove sono oggi”. Di che farmaco può trattarsi? E la colite ulcerosa può avere esisti fatali? «Di suo è una malattia cronica con fasi altalenanti di benessere e riacutizzazioni, ma se si aggrava e non viene curata, si può arrivare alla colite fulminante con perforazione dell’intestino e a emorragie molto gravi. Inoltre aumenta il rischio di cancro al colon. Quanto alle terapie fino a quindici e più anni fa avevamo a disposizione solo antinfiammatori e cortisonici, ora ci sono i farmaci biologici come gli anticorpi monoclonali, che hanno un’azione molto più specifica e potente e hanno meno effetti collaterali».
La dieta. La dieta giapponese, tanto apprezzata dai nutrizionisti da essere in competizione con quella mediterranea , può aver avuto un ruolo nell’insorgere della colite ulcerosa? Forse si eccede con le fibre: tanto riso, verdure soia....
«Dobbiamo sempre ricordare che la dieta, così come l’attività fisica e il sonno (e la rinuncia a fumo e alcool), sono i tre maggiori pilastri per la prevenzione delle malattie e di conseguenza sono alla base del nostro benessere. A mia conoscenza non ci sono cibi specifici che siano stati messi in relazione con lo sviluppo di colite ulcerosa. Il fatto che la colite ulcerosa sia più diffusa in Europa e negli Stati Uniti che nei Paesi asiatici già ci dovrebbe dire che nella dieta giapponese non c’è nulla di potenzialmente dannoso. E , poi, attenzione ad attribuire al cibo poteri eccessivi in senso sia positivo sia negativo. Prendiamo per esempio il pesce. In Giappone, come noto, se ne mangia molto, e tutti sappiano che è ricco di Omega 3, dall’azione anti-infiammatoria; ma quanto pesce dovremmo mangiare per annullare gli effetti di una vita che non ci piace o si è fatta troppo pesante?»
Daniela Mastromattei per “Libero Quotidiano” il 25 ottobre 2020. Gli antichi lo predicano da secoli: il ventre (ombelico del mondo) è al centro dell'energia. Per questo dovremmo imparare ad ascoltarlo maggiormente. Lui è il primo ad accorgersi se siamo preoccupati o stressati, se siamo tesi o tristi. È il nostro secondo cervello per precise ragioni biochimiche e neurologiche, ne è convinta pure la comunità scientifica da almeno 20 anni, mentre filosofi e saggi lo sostenevano ancor prima. Ai piani bassi ci sono le stesse cellule nervose dei piani alti. Nei 12 metri di apparato gastrointestinale si dipanano qualcosa come cinquecento milioni di neuroni. Un intelletto viscerale in grado di secernere ormoni e rilasciare neurotrasmettitori che hanno effetti cruciali non soltanto sui processi digestivi ma anche sull'intero metabolismo, sull'umore e perfino sul comportamento. Tanto che a differenza degli altri organi del nostro corpo, l'intestino è dotato di un sistema nervoso autonomo che gli permette di portare a termine i suoi compiti (digestione e assorbimento dei nutrimenti) senza dover ricevere autorizzazioni né ordini dal sistema nervoso centrale. Beata indipendenza. Anzi, è proprio la pancia, la prima a sentire se qualcosa non va e ad avvertire il cervello principale, il quale corre in soccorso mettendo a disposizione tutta l'energia che riesce a trovare in giro per il corpo. E a darsi da fare prontamente di fronte a un'urgenza che richieda una risposta immediata come possono esserlo una forte emozione o un accesso di ira. Ma col passare del tempo, le situazioni di tensione psichica diventano problematiche per l'intestino, come scrive Silvio Danese, gastroenterologo di fama internazionale nel libro "La pancia lo sa", con cui Eliana Liotta inaugura la sua collana Sonsogno Scienze per la vita. La pancia lo sa che la sindrome dell'intestino irritabile è quasi sempre una questione di stress. Che colpisce specialmente uomini e donne che si portano i problemi di lavoro a casa e anche quando sono in famiglia non riescono a staccare la spina. E seppur la testa vorrebbe negare tutto, a volte è proprio quel borbottio sotto il diaframma a lanciare degli inequivocabili segnali. «Certi mal di pancia derivano da una cattiva coscienza», si legge nel romanzo "Il malpensante" di Bufalino. Gli studi lo confermano: una recente ricerca infatti ha evidenziato che il 35,9 per cento dei pazienti affetti da sindrome dell'intestino irritabile soffre di ansia a livelli patologici. Altro che centro di smaltimento rifiuti, come qualcuno pensa, piuttosto possiamo immaginare il nostro intestino come una stanza di bottoni che regola il funzionamento di tutto l'organismo. Luogo vitale dal quale hanno origine le virtù di calma, consapevolezza, serenità, ragione ed equilibrio, secondo la filosofia zen, cara ai giapponesi. Tuttavia quel "peso sullo stomaco" che appare e scompare potrebbe nascondere delle allergie o intolleranze alimentari. A volte delle infiammazioni patologie più subdole come la depressione: si calcola che l'intestino fuori posto possa influire per oltre il 10 per cento. Atro dato interessante: un quarto degli italiani adulti soffre di disturbi digestivi che si manifestano con dolore, bruciore o gonfiore. In questi casi, oltre a un'alimentazione corretta, alcuni tipi di psicoterapia, in particolare quelle che insegnano a trasformare i pensieri negativi e a gestire stress e ansia, riescono ad alleviare i sintomi. Ecco perché è importante saper ascoltare i messaggi che arrivano per rimettere in sesto corpo e mente. Lo stato di salute generale, il sistema immunitario per fronteggiare virus e malanni e persino ciò che regola la longevità risiedono nell'apparato digerente. Che ci piaccia o no.
Francesco Musolino per “il Messaggero” il 28 ottobre 2020. Ormai è una certezza. Il nostro benessere è legato a quello dell' intestino, e viceversa. Un concetto olistico supportato dalle evidenze scientifiche ma come possiamo prenderci cura del nostro corpo partendo dalla tavola? Con l' intento di sfatare tabù e favorire la conoscenza, la giornalista e scrittrice d' origine siciliana, Eliana Liotta bestseller con La dieta smartfood e L' età non è uguale per tutti ha appena varato la collana editoriale Scienze per la vita per Sonzogno: «Ho pensato ad una collana di libri afferma Liotta che possa raccontare le teorie scientifiche più recenti e interessanti, con la massima attenzione al lettore e alle sue esigenze. Saranno libri in cui la scienza e la narrazione dovranno camminare di pari passo, del resto, se non ci stupiamo per il funzionamento del corpo umano, cos' altro avrà il potere di farci emozionare?», conclude la Liotta. Un viaggio che comincia con La pancia lo sa. Interpretare i messaggi di stomaco e intestino per vivere meglio (pp. 192, 16) del professor Silvio Danese (1975, Guardiagrele) presidente della European Crohn' s and Colitis Organisation nonché uno dei maggiori gastroenterologi italiani, coordinatore dell' Immuno Center all' ospedale milanese Humanitas.
Professore, esiste davvero un legame fra lo stress e la pancia?
«Strettissimo. Ad esempio, la gastrite nervosa nasce quando periodi di tensione provocano una forte stimolazione dell' asse ipotalamo-ipofisi-surrene, e quindi un' eccessiva produzione di succhi gastrici acidi».
Auto diagnosi, fake news e timore della classe medica: sono questi i principali killer della nostra salute?
«Aggiungo la sedentarietà e i pasti poveri di frutta e verdura e invece ricchi di prodotti industriali con una lista lunghissima di ingredienti e di additivi, che alla lunga risultano infiammatori».
Il secondo cervello sta davvero nell' intestino?
«Invito i miei pazienti a scomporre la parola in-testino: una piccola testa! Se fosse aperto e disteso coprirebbe circa 300 metri quadrati, quasi quanto un campo da basket, e nella sua superficie è tappezzato da qualcosa come cinquecento milioni di neuroni, in dialogo continuo con quelli cranici attraverso il nervo vago. Nel primo cervello produciamo appena il 10% di serotonina, mentre il resto si produce nel secondo, con varie funzioni come la motilità, cioè la capacita delle viscere di far scorrere il cibo lungo il tubo digerente verso l' uscita. Guarda caso, chi non riesce ad andare in bagno con regolarità ha una sensazione di pesantezza che si accompagna alla mancanza di energia e a un po' di pessimismo».
Verrà un giorno in cui parleremo dei disturbi gastrointestinali senza vergogna?
«Pensi, in Italia, ogni anno, i disturbi digestivi colpiscono un quarto degli adulti e di stitichezza soffre in maniera cronica quasi il 20% della popolazione. Ma pochi si rivolgono a un medico, come riporta una ricerca pubblicata sull' American Journal of Gastroenterology, perché il tabù di parlare del proprio rapporto con il bagno è fortissimo. E invece la visita con uno specialista può essere risolutiva».
Melania Rizzoli per “Libero Quotidiano” l'1 agosto 2020. Le persone che hanno vissuto un evento particolarmente stressante, traumatico e prolungato nel tempo, con esperienze critiche, gravi e dolorose, sviluppano una serie di minacce della propria integrità fisica che vanno dalla comparsa di malattie fino al rischio di morire. Saper gestire lo stress e conservare l' energia fisica e psicologica é di fondamentale importanza per non rischiare il "burnout", ovvero la sindrome da stress post-traumatico, un esaurimento psicofisico che porta al distacco emotivo dal ruolo fino ad arrivare a bruciarsi emotivamente e psicologicamente, per il sovraccarico emozionale subìto che non si è saputo contrastare. La capacità di affrontare situazioni emotivamente stressanti e di essere in grado di assorbire gli urti degli eventi, non è una condizione comune, poiché molto dipende dalle situazioni avverse ed ognuna di loro scatena preoccupazione, ansia e paura, e le persone più fragili caratterialmente e mentalmente spesso non sono in grado di arginare l' onda negativa o di compensare gli episodi che hanno interrotto il flusso continuo della vita naturale. Il disturbo da stress post-traumatico è una condizione psicopatologica che provoca disagio clinicamente significativo con compromissione del funzionamento sia sociale che lavorativo, più in generale relazionale, che può manifestarsi in modalità diverse, ma la caratteristica principale è indicata dallo sviluppo di una serie di sintomi ansioso-depressivi con calo dell' umore, che esprimono disagio, sofferenza ed anedonia, ovvero perdita di piacere ed interesse generale, oltre che disturbi dissociativi. Tali manifestazioni insorgono a partire da poche settimane dall' avvenimento originale, e comunque entro i tre mesi, anche se occasionalmente possono emergere dopo uno due anni, ed i sintomi premonitori comprendono irritabilità, ansia, scoppi d' ira o esagerate risposte di allarme, problemi di concentrazione, instabilità umorale, depressione, difficoltà ad addormentarsi o mantenere il sonno.
PROCESSO FISIOLOGICO. Il meccanismo dell' ansia é un processo fisiologico che attiva l' organismo di fronte ad un allarme, è adattivo e fino a un certo punto rende migliori, capaci e più reattivi, ma oltre una certa soglia manda l' organismo in totale stress psicofisico, provoca sofferenza ed incapacità a reagire in modo adeguato fino a far sentire il soggetto impotente, il quale inconsciamente si arrende via via senza più tentare di adattarsi. La sindrome di adattamento agli eventi negativi della vita infatti, si articola in una prima fase di allarme, biochimico-ormonale, una fase di resistenza, in cui lo psicosoma organizza le proprie difese e una fase di esaurimento, in cui si assiste al crollo di tali difese. Esistono numerosi studi sulle modificazioni dei parametri immunitari in condizioni di stress dell' uomo, le cui capacità di reazione si abbassano a tal punto da non poter più far fronte a situazioni di pericolo, e se tale reazioni si prolungano nel tempo, con indebolimenti progressivo delle difese del corpo, si lascia spazio alle patologie, si diventa cioè predisposti a contrarre malattie di vario genere, quali infezioni, alterazioni della funzionalità cardiaca fino allo sviluppo di tumori.
DISTURBO STRESS POST TRAUMATICO. È ormai testato quanto gli stati di stress prolungato incidano sul sistema immunitario con i conseguenti principali effetti immunodepressivi ed aumentata suscettibilità alle malattie, e gli studi scientifici confermano che nel periodo precedente al manifestarsi di tali patologie si riscontra sovente un preciso accumularsi nel tempo di eventi stressanti che hanno inciso sullo stato generale della salute. Il disturbo post-traumatico da stress può essere innescato da eventi naturali, come terremoti, alluvioni o incendi, da incidenti stradali, lutti, separazioni, perdita di un importante amore, di un ruolo personale o sociale, di un lavoro, della casa, da un avviso di garanzia, e da qualunque evento che di colpo cambia o stravolge la propria vita, tutte situazioni che provocano un "danno biologico indiretto", un disturbo inizialmente psicologico che va dal danno morale a quello da emozione, che comporta dolore, patema d' animo, depressione, turbamento, sofferenza psichica, e che alla fine vira nel cosiddetto "danno di conseguenza", ovvero in una vera e propria lesione psicologica e fisica, caratterizzata dalla permanente lesione dell' integrità psichica della persona, la quale non è più in grado di difendersi e non trova più le energie interiori di riserva per reagire. Chi viene colpito da tale patologia manifesta difficoltà nel ricordo, sentimenti di distacco o estraneità nei confronti degli altri, con riduzione dell' affettività e dell' interesse alla partecipazione sociale, con insorgenza di pensieri ricorrenti e reattività negativa a fattori che simbolizzato il trauma vissuto, e tali sintomi possono essere presenti sia di giorno che di notte, sotto forma di sogni od incubi. Possono presentarsi anche disturbi di natura cognitiva ed emotiva, con sviluppo di idee negative nei confronti di se stessi ed incapacità a sperimentare esperienze positive, disinteresse per la vita sessuale, con atteggiamenti di frequente irritabilità od ansia eccessiva e percezione distante o distorta della realtà circostante.
MALESSERI. Fortunatamente non tutti gli eventi traumatici della vita portano allo sviluppo di un disturbo post-traumatico, ma nel 25/30% dei casi questo disagio non si risolve, soprattutto nei soggetti che cercano "di fare da soli", privi di un supporto sociale, affettivo e familiare protettivo dopo l' esposizione all' evento negativo, condizione che non aiuta alla elaborazione del trauma ed al recupero della propria identità e dignità personale, con aggravamento della sintomatologia al punto da mettere in discussione la propria responsabilità con peggioramento del malessere psicologico. Il decorso della malattia varia a seconda del soggetto e della sua età, poiché sotto i 50anni si osservano risposte immunitarie più attive, ma molto dipende dall' approccio psicologico di tali pazienti e dal loro carattere, alcuni dei quali recuperano entro sei mesi, mentre altri hanno sintomi che durano più a lungo, con conseguenze che vanno dall' abuso di alcol a disturbo della personalità, fino allo sviluppo di vere e proprie malattie organiche più o meno gravi, alcune delle quali anche letali.
Lo stress fa venire i capelli bianchi (adesso lo conferma anche la scienza). Il Corriere della Sera il 24 gennaio 2020. Lo stress fa venire i capelli bianchi: a dirlo non sono più solo le leggende popolari (si pensi a Maria Antonietta, i cui capelli diventarono bianchi in una sola notte quando venne catturata durante la Rivoluzione francese, oppure la trasformazione del presidente Barack Obama prima e dopo l’ingresso alla Casa Bianca), ma anche la scienza. Una ricerca condotta tra Stati Uniti e Brasile sotto la guida di Ya-Chieh Hsu dell'Università di Harvard e pubblicata sulla rivista Nature ha stabilito un nesso fra il sistema nervoso e le cellule staminali che rigenerano i pigmenti (nei topi di laboratorio). La scoperta è avvenuta per caso: gli scienziati stavano conducendo uno studio sul dolore sui topi dal pelo scuro e hanno quindi somministrato alle cavie una tossina per indurre il dolore. Meno di un mese dopo il pelo degli animali era diventato completamente bianco. A quel punto il team di studiosi ha voluto indagare più a fondo, per capire se il fenomeno dipendesse dallo stress indotto dal dolore e quindi dall’attivazione delle fibre del sistema nervoso simpatico. Ha quindi messo a punto un esperimento molto semplice: dopo aver iniettato la tossina nei topi, i ricercatori hanno trattato gli animali con un farmaco in grado di inibire la trasmissione alle fibre nervose simpatiche.
Cellule staminali. «Il processo di perdita del colore del pelo è stato bloccato dal trattamento» ha spiegato Thiago Mattar Cunha dell’Università di San Paolo in Brasile. «Sotto stress, il sistema nervoso simpatico è molto più attivo e questa dovrebbe essere in genere una buona cosa - ha sottolineato in una nota Ya-Chieh Hsu -, ma la sua attivazione rilascia grandi quantità di un neurotrasmettitore chiamato noradrenalina che, per quanto ci consenta di agire rapidamente di fronte a una situazione di pericolo, viene però assorbito dalle cellule staminali che rigenerano il pigmento responsabile del colore dei capelli e che si trovano nel bulbo pilifero, favorendone così la rapida riduzione. Gli esperimenti sui topi hanno quindi mostrato come tutte le cellule staminali che rigenerano i pigmenti vengano perse in pochi giorni: una volta sparite, non è più possibile rigenerarle. Questi risultati potrebbero aiutare a fare luce su come lo stress influisca su altri tessuti e organi e aprire quindi la strada per nuovi studi, volti a indagare come modificare o bloccare gli effetti dannosi dell’affaticamento eccessivo».
· Riposare o dormire?
PIERO ANGELA - I MISTERI DEL SONNO. Dagospia il 22 giugno 2020. Frammenti di “I misteri del sonno” di Piero Angela (Mondadori), raccolti da Giorgio Dell’Arti e pubblicati da “la Repubblica”. Durante il sonno il corpo e il cervello non riposano affatto: si passa in realtà per molte fasi attive con aumento della pressione, agitazioni varie, ecc. A che cosa serve dormire, allora? A questa domanda la scienza non è ancora in grado di rispondere del tutto.
Disturbi. Disturbi del sonno: narcolessia, si cade addormentati all'improvviso, in qualunque luogo a qualunque ora. Una signora narcolettica era costretta a girare con un biglietto nella borsetta: «Attenzione, non è un infarto, mettetemi da un canto a riposare...». Colpisce da giovani, presente anche nel mondo animale (cani, ecc.), in Italia 50 mila casi;
sonnambulismo, è un disturbo del risveglio, il sonnambulo non va mai a urtare contro i mobili perché ci vede (come i delfini, come gli uccelli: dorme e vede), il sonnambulo che cammina sui tetti con le braccia avanti naturalmente non esiste, però si è dato il caso di una famiglia di sonnambuli che, continuando a dormire, si trovò radunata in salotto;
ipersonnia o sindrome di Klein-Levine, il soggetto dorme 10-12 ore, quando si sveglia non vuole alzarsi, mangia di continuo non avendo fame, si masturba incessantemente e non ha freni inibitori, copula con chiunque gli capiti a tiro senza distinzioni di età o di sesso.
Colori. Le donne sognano più degli uomini. I sogni sono tutti a colori. Quelli femminili si svolgono prevalentemente in interni, quelli maschili in esterni. Ciascun sogno dura parecchi minuti e non - come molti credono - pochi secondi.
Un anno. Radunati i sogni di dieci anni di un solo uomo si otterrebbe un video di cinquemila ore (sei mesi).
Sogni. Gli uomini sognano - che se ne ricordino o no - almeno un'ora a notte, più facilmente un'ora e mezza. In un anno l'intera umanità produce duemila miliardi di ore di sogni. La metà di questo tempo è occupata da sogni angosciosi.
Animali. Cavallo e giraffa dormono 2-3 ore, il pipistrello 20 ore, i rettili non sognano, gli uccelli sì, i predatori sognano più delle prede, la gallina sogna venti volte meno del gatto, i delfini non sognano.
Mezzi. Gli uccelli dormono in volo, adoperando metà del cervello mentre l'altra riposa. A loro volta i delfini dormono e nuotano, cioè fanno dormire le due metà del cervello a turno. Essendo mammiferi hanno bisogno che una parte di loro sia sempre sveglia per poter tornare a galla a respirare.
Ballo. A Torino, subito dopo la guerra, in occasione della Fiera dei vini, in piazza Carlo Alberto si tenevano maratone di ballo con premi in denaro: le donne potevano entrare e uscire a piacimento dalla gara, gli uomini non potevano smettere mai, pena l'eliminazione. Unica concessione: un quarto d'ora di riposo all'ora. Gli uomini, con questo sistema, andavano avanti anche per trenta giorni, affittando donne corpulente che li sorreggessero mentre ballavano, che consentissero loro di dormire volteggiando.
Sottoterra. Nel 1960 lo speleologo francese Michel Siffre si fece chiudere in una grotta sotterranea. Non aveva contatti con l'esterno e neanche punti di riferimento che potessero orientarlo (orologi, ecc.), non gli arrivava nessuna luce, non sapeva mai se era giorno o notte. Così, per sei mesi. In seguito gli strumenti mostrarono che, in un primo tempo, rimaneva sveglio 32-34 ore e ne dormiva 14. Più tardi, subentrò invece un ritmo normale: 16 ore di veglia e otto di sonno. Siffre ebbe però sempre l'impressione che i due cicli fossero più corti: restava addormentato otto ore e credeva di avere schiacciato un pisolino, supponeva che fosse trascorso un giorno e ne erano passati due.
Natale. Nel '93 Montalbini, essendo rimasto chiuso in una grotta per un anno, all'uscita credeva che fosse estate e invece era Natale.
Kevin Loria per "it.businessinsider.com" il 14 agosto 2020. Trascorriamo un sacco di tempo a preoccuparci per il nostro sonno. Secondo una ricerca della “National Sleep Foundation”, più di un terzo degli americani afferma che la qualità del proprio sonno è “scarsa” o “appena sufficiente”. Ma di quanto sonno abbiamo veramente bisogno? Innanzitutto, partiamo dalle cattive notizie: non c’è un unico modello che si adatta a tutte le esigenze – il bisogno di dormire varia davvero da persona a persona. Potreste essere tra quelle persone incredibilmente rare che in realtà possono farsi bastare poche ore di sonno a notte (quasi sicuramente non lo siete), o potreste essere dall’altra parte della barricata, ovvero coloro che i medici definiscono “grandi dormitori”, che potrebbero aver bisogno di 11 ore a notte. Ma ci sono alcune cose che sappiamo sul sonno, e che possono aiutarvi a capire di quanto sonno avete effettivamente bisogno – e quale sia il miglior modo per riposare di notte. Ecco cinque fatti che vi aiuteranno a capire quali sono i vostri modelli di sonno personali e come si rapportano a quelli del resto della popolazione.
1.C’è un motivo se i dottori raccomandano da 7 a 9 ore di sonno. La quantità di sonno di cui la gente ha bisogno cade in quella che è una curva a campana, con la stragrande maggioranza della popolazione che necessita tra sette e nove ore di riposo ogni notte per sentirsi riposata. Il grafico in alto, tratto dal libro “Internal Time: Chronotypes, Social Jet Lag, and Why You’re So Tired” del cronobiologo tedesco Till Roenneberg, mostra la distribuzione generale dei bisogni di sonno. (La cronobiologia è la scienza dei nostri orologi interni).
2. Avete un cronotipo naturale, o un orologio del corpo, che determina quando vi è più comodo dormire ed essere svegliati. Spesso pensiamo a noi stessi come a persone mattiniere o dormiglione, ma queste divisioni non sono scientifiche – sono solo modi per confrontarci tra di noi. “Il modo in cui ci si definisce gufi o allodole è veramente arbitrario”, dice il dottor David Welsh, professore associato che studia i ritmi circadiani presso la UC San Diego. Welsh afferma che se si guarda a grandi indagini sulla popolazione, si ottiene una normale distribuzione dei cronotipi: la maggior parte delle persone ha cronotipi abbastanza “medi”, alcuni preferiscono alzarsi un po’ prima o un po’ dopo, e piccoli gruppi naturalmente si alzano molto presto o molto tardi.Non esiste una linea che distingue i diversi cronotipi. Ma tutti abbiamo una pianificazione interna che ci fa sentire più svegli o più sonnolenti in momenti diversi del giorno. A causa di fattori quali i livelli ormonali, la genetica e l’esposizione alla luce, alcuni di noi sono più attenti al mattino, mentre altri preferiscono orari più tardi durante il giorno. Se il vostro programma non è allineato con il vostro cronotipo, vi sentite stanchi e non sincronizzati.
3. La quantità di sonno necessita di cambiamenti nel corso della vostra vita. La raccomandazione da sette a nove ore è standard per gli adulti, ma i bambini hanno bisogno di molto più sonno, mentre le persone anziane tendenzialmente ne hanno meno bisogno. Il grafico sopra. della “National Sleep Foundation” mostra come questi requisiti cambino quando i bambini crescono. Oltre ai cambiamenti dei bisogni di lunghezza del sonno, anche i cronotipi si modificano col passare del tempo. Secondo il libro di Roenneberg, i bambini piccoli tendono naturalmente ad essere più mattinieri. Attorno alla pubertà, è più probabile che passino ad un cronotipo da gufi notturni, che tende poi a tornare a un cronotipo più mattiniero dopo i 20 anni.
4. Ci sono alcune cose che potete fare per regolare il vostro cronotipo naturale. Sebbene le vostre esigenze di sonno (sia il cronotipo, quando siete svegli, che la lunghezza, di quanto sonno necessitate) siano per lo più genetiche, ci sono alcune cose che potete fare per regolare il vostro programma e almeno fare meno fatica ad alzarsi al mattino. I nostri corpi rispondono alla luce, soprattutto alla potente luce naturale del sole. Essere esposti a quella luce al mattino dice al nostro corpo che è tempo di svegliarsi e darsi una mossa. Di notte, stare seduti al buio stimola la produzione dell’ormone della melatonina, che ci aiuta a rilassarci e addormentarci (disturbiamo questo processo guardando la luce proveniente dagli schermi degli smartphone). Ma possiamo modificare tutto questo fino ad un certo punto, controllando la nostra esposizione alla luce. Questo processo, chiamato “entrainment”, è quello che i nostri corpi devono fare quando andiamo dove c’è un fuso orario differente – ecco perché soffriamo del cosiddetto jet lag. Ma possiamo anche utilizzarlo per allenare i nostri corpi ad alzarsi e ad andare a dormire prima, esponendoci alla luce naturale al mattino ed evitando la luce eccessiva di notte. Questo non vi farà diventare delle persone mattiniere, ma può far sì che abbandonare il letto sia un po’meno doloroso.
5. Le vostre esigenze di sonno sono personali; cercate di capire cosa funziona per voi. Capiterà che salteranno fuori nuove ricerche, e che la gente affermi cose come “studi hanno stabilito che sette ore è la quantità ottimale di sonno, non otto”. Ma per quanto interessante sia la ricerca sul sonno, sappiamo che le persone sono diverse e hanno esigenze diverse. I risultati di uno studio non si traducono in consigli validi per tutti. Nel caso del sonno, gli esperti consigliano di capire cosa funzioni meglio per sé. Se potete abbandonarvi naturalmente al sonno per un paio di giorni o una settimana, andando a letto quando siete stanchi e svegliandovi quando vi viene di farlo naturalmente, preferibilmente limitando l’alcool e la caffeina, avrete poi un’idea migliore delle vostre esigenze individuali. Prendete un po’ di sole durante il giorno, e fate un po’ di esercizio fisico. Se dopo aver fatto tutto questo avete ancora problemi di sonno, potrebbe essere il momento di parlare con un medico. Potreste essere parte della grande percentuale di popolazione con un apnea del sonno non diagnosticata, specialmente se russate. Oppure potreste avere qualche altro disturbo che può essere curato. Vale però la pena prendersi del tempo per capire cosa si può fare per dormire meglio. Non riuscirci abbastanza solleva alcune gravi preoccupazioni per la salute.
Melania Rizzoli per Libero Quotidiano il 26 gennaio 2020. Chi non dorme abbastanza e con regolarità invecchia più rapidamente e i segni del tempo appaiono con grande anticipo, prima del previsto. Il potere del sonno come elisir di giovinezza è stato confermato scientificamente da un team di ricercatori inglesi che indagavano sui misteri ancora irrisolti del l' invecchiamento, come per esempio la comparsa precoce delle rughe, ed è stato dimostrato come e perché il sonno insufficiente sia correlato ad un deterioramento precoce della pelle e del sottocutaneo, insieme ad una sua ridotta capacità di recupero, in termini di danni epidermici, sia del viso che del corpo. Il credo popolare da sempre sostiene che dormire almeno otto ore a notte rende più belli, ma questo nuovo studio ha dimostrato, con analisi e dati scientifici, il ragionamento opposto, ossia che dormire poco rende più brutti, ed i segni di stanchezza, quali pelle pallida con perdita di luminosità, occhi gonfi, pori dilatati, guance non rosee con impressi i solchi persistenti delle pieghe del cuscino al risveglio, tutti indice di carenza di riposo notturno, possono comparire sul volto in appena due giorni di privazione di ore di sonno. La ricerca succitata è stata intitolata "Il sonno di bellezza", nella quale si evidenzia l' associazione di lunga data tra la qualità e quantità del riposo e l' aspetto giovanile, e tale studio, pubblicato su Nature Cell Biology, ha sviscerato l' importanza, per l' epidermide, il derma e il sottocutaneo, del salutare black-out notturno, dimostrando come tale sospensione vitale della veglia inneschi la produzione di un particolare tipo di collagene. Oltre la metà del nostro peso corporeo infatti, è formato dalla "matrice extracellulare", ovvero dal supporto strutturale e biochimico alle cellule sotto forma di tessuto connettivo come ossa, pelle, tendini e cartilagine, e la metà di tale matrice è fatta di collagene, una struttura completamente formata e matura al raggiungimento dei 17 anni di età. Il collagene però è composto da due tipi di fibrille, quelle più spesse, di circa 200 nanometri di diametro, che sono permanenti e rimangono tutta la vita, e quelle più sottili, che misurano circa 50 nanometri, le quali essendo più fragili si rompono regolarmente ogni giorno durante le nostre attività quotidiane, le quali vengono stimolate a riformarsi e ricompattarsi però tutte le notti, durante il riposo salutare della durata di otto ore. Il collagene, che è la proteina più abbondante del nostro organismo, e garantisce l' integrità e la forza della trama del tessuto connettivo, quando è logorata dall' usura, le sue fibre che si spezzano nelle ore diurne non hanno il tempo fisiologico per ricostruirsi o ripristinarsi, e tale ritardo comporta microscopici avvallamenti e piccole fosse che non riescono ad essere riempite per la mancanza di sostanza rigenerata, cosa che non aiuta a mantenere compatta la matrice extracellulare, determinando a lungo termine segni evidenti di perdita di tonicità ed imperfezioni cutanee quali le odiate rughe del volto. Tale meccanismo è stato paragonato dagli scienziati a quello della vernice sulle pareti, alla quale, se non si lascia il tempo di asciugarsi ed amalgamarsi con il muro sottostante, tende a formare crepe che si riempiono solo aggiungendo ulteriore vernice, come accade per esempio nella guarigione delle ferite, quando queste si riaprono qualora vengano sollecitate ancora troppo fresche, senza aspettare il tempo di rinnovamento del connettivo e del relativo collagene. Non dormire un numero adeguato di ore ha dunque ripercussioni sulla pelle in diversi modi, con un rallentamento del recupero cutaneo di tutta una serie di fattori di stress ambientali, come per esempio la rottura della barriera cutanea di difesa contro gli UV, i raggi ultravioletti solari, tutte concause che peggiorano l' efficienza riparatoria della pelle e del suo sistema immunitario, con la evidenza negativa della valutazione della pelle e dell' aspetto del viso nella carenza cronica di sonno. Ci sono pochissime persone che non necessitano di dormire meno di 7/8 ore al giorno, e ci sono alcuni che pensano siano loro sufficienti appena 4/5 ore a notte, non sapendo che invece in tal modo stanno invece invecchiando a ritmo accelerato , e a lungo termine la situazione peggiora. Tralasciando le conseguenze sgradevoli che la carenza di sonno provoca sulla salute generale, come sul sistema immunitario, cardiovascolare, neurologico, encefalico e metabolico, tutti i pazienti che sono stati privati del sonno nei molti studi eseguiti su questo tema, hanno mostrato conseguenze estetiche evidenti in senso negativo, apparendo meno sani, meno attraenti, con aria sempre stanca, rugosa e assonnata, e più suscettibili a contrarre malattie infiammatorie ed infettive per i motivi immunologici succitati. Il sonno insufficiente è diventato un' epidemia a livello mondiale, se si calcola che il 63% della popolazione umana non dorme a sufficienza, ma mentre la privazione di ore del riposo notturno è stata da sempre collegata a problemi generali di salute quali obesità, diabete, deficit immunitario e cancro, oggi si confermano i suoi effetti, finora sconosciuti, anche sulla pelle, soprattutto del viso, per cui ora sappiamo che fare i gufi non è una buona cosa, sia dal punto di vista della bellezza, dell' estetica, che della salute generale.
Emanuela Griglié per “la Stampa” il 22 gennaio 2020. Avvertenze: ognuno dorme a modo suo, per cui i consigli generalizzati su come farlo meglio valgono poco, anzi niente. Però. Non sarebbe bellissimo poter dare tutta la colpa alla scienza per risolvere delle diatribe fondamentali tipo: qual è la temperatura giusta nella camera in cui si dorme? Che, non si può negare, è un tema, quando il letto tocca dividerlo con qualcuno, con infinite discussioni e imbrogli sui gradi da impostare sul termosifone (e poi d' estate si ricomincia con l' aria condizionata). Purtroppo un numero unico e insindacabile non c' è e bisogna accontentarsi di alcune raccomandazioni di massima: quella più comune, citata dalla Cleveland Clinic e dalla «National Sleep Foundation» Usa, parla di una media tra i 15,5 e i 19,5°, un intervallo che è però un' autostrada. Secondo uno studio americano, le persone che dormono in ambienti molto caldi la mattina successiva hanno livelli più elevati di cortisolo, l' ormone dello stress. Però la variazione umana rende praticamente impossibile dare numeri specifici. Temperature diverse si adattano a persone diverse in modo diverso. La «National Sleep Foundation» fornisce qualche suggerimento su come regolare al meglio la temperatura corporea, tipo andare a dormire con le calze o indossando un cappello, ma niente di più. «Oltre al buon senso di evitare le temperature estreme una risposta non esiste - ci spiega Piero Salzarulo, specialista in neuropsichiatria e presidente della Società Italiana di Ricerca sul Sonno -. Una persona che pesa 90 chili e ha una determinata massa lipidica e una che ne pesa 60 con una massa lipidica di un altro tipo non avranno mai la stessa risposta alla temperatura. È il soggetto stesso che deve percepire il suo clima ottimale. Fissare 17° per tutti gli individui è un nonsense, come ogni volta che si fanno le medie. Per esempio sostenendo che si devono dormire sette ore, un numero che non è confacente per chi, per ragioni genetiche ancora sconosciute, oltrepassa da tutta la vita le otto ore». L' unico avvertimento fondamentale è imparare ad avere un buon rapporto con il proprio sonno, a conoscerlo. «Ognuno ha un' idea abbastanza precisa sull' ora in cui bisogna andare a letto e su quante ore si dovrebbe dormire. Ma spesso sono dei costrutti psicologici-sociali errati. I parametri statistici sono quelli ideali, ma non vanno bene per tutti. Così la sensazione di dormire meno di quanto si ritiene necessario deriva da false credenze. È importante, invece, capire i segnali che il nostro organismo ci manda, che significano che è ora di dormire: la sensazione di non riuscire a tenere gli occhi aperti, aumento degli sbadigli e della sensazione di fatica. Ma spesso vengono ignorati. E va a finire che il soggetto va a letto quando non è pronto e così dorme male». «Spesso l' insonnia - continua Salzarulo - deriva dalla discrepanza tra le sensazioni fisiologiche per determinare il momento del sonno e i dogmi esterni. Se all' inizio è recuperabile, quando la discrepanza diventa cronica è difficilissimo». Il periodo della vita in cui si dorme al top (ma pure qui si tratta di media) è intorno ai 15 anni, poi, invecchiando, si disimpara un po' a dormire. «Quello che diventa difficile non è addormentarsi, ma si sperimenta più frequentemente il risveglio intermedio e la difficoltà a riaddormentarsi dopo. Succede perché nell' anziano il cervello è meno adatto a fabbricare un' architettura del sonno più continua». Perché il sonno è un avvenimento ordinato, successione di molti elementi ben organizzati: gli stati rem e no rem si alternano più volte nel corso della notte. Quando questa sequenza diventa caotica, la veglia si intrufola più facilmente. Banalmente succede che ci si sveglia. Come si dorme, in effetti, è un parametro nel nostro stato di salute. «Alcune patologie - cardiovascolari, respiratorie, del sistema nervoso e altre ancora - possono influire sul sonno, non solo nel rendere difficile il suo inizio ma spezzettandolo molto di più», aggiunge Salzarulo (per approfondire leggere il libro «Messaggi dal sonno», edito da Franco Angeli). «Altre malattie, invece, si rivelano nel sonno: tipo certe forme di epilessia». Dormire poco o male a lungo termine può provocare squilibri di tipo ormonale e metabolico, ma una ricetta per i sogni d' oro non c' è. Ognuno deve capire il suo modo di dormire. Tocca quindi rassegnarsi o cercare di mettersi insieme con individui con una termoregolazione compatibile. Anzi, si potrebbe suggerire una app di incontri per trovare l' anima gemella con simile percezione del caldo e del freddo. Del resto la scienza sta già operando: tra mille polemiche il genetista di Harvard George Church è al lavoro per sviluppare uno strumento che includa gravi malattie genetiche tra i criteri per la scelta dei partner nelle app di appuntamenti.
· Il Sonniloquio.
Elena Meli per corriere.it il 3 novembre 2020. Fischi e mugugni, risatine e vere e proprie vocalizzazioni sono segnali provenienti dal mondo dei sogni, perché non è sempre vero che chi dorme lo fa in silenzio. Gli psicologi esperti di sonno conoscono bene il fenomeno di queste espressioni vocali di chi dorme, che possono assumere aspetti affascinanti, perché sembrano provenire da un universo al quale chi è sveglio non ha accesso. Il fenomeno è più frequente tra i bambini e i giovani, ma chi parla nel sonno di norma non se ne rende conto, a meno che non venga svegliato immediatamente. Il più delle volte il partner di letto lo informa la mattina seguente che durante la notte «ha parlato». In genere comunque chi parla nel sonno, al contrario di quanto si vede talvolta nei film, non rischia di svelare trame e segreti inconfessabili. «La maggior parte delle vocalizzazioni si limita a una-cinque parole» dicono gli autori dello studio Sleep talking: A viable access to mental processes during sleep, pubblicato sulla rivista Sleep Medicine Reviews, guidati da Luigi De Gennaro del Dipartimento di Psicologia dell’Università Sapienza di Roma. «La durata media di queste vocalizzazioni è di uno-due secondi, la massima di circa 30 secondi. Il volume può variare dal sussurro al grido e c’è accordo sul fatto che gli episodi di vocalizzazione hanno contenuti più emozionali se avvengono durante il sonno REM, rispetto ai contenuti più piatti e non emozionali del sonno non-REM».
Neologismi. Durante il sonno non-REM, le frasi sono poi più frequentemente sconnesse, con la produzione anche di neologismi incomprensibili, mentre durante il sonno REM l’articolazione del discorso può raggiungere una certa strutturazione. C’è una stretta relazione tra il parlare nel sonno, detto anche sonniloquio, e la frequenza con la quale si ricordano i sogni. «Chi ha la tendenza a parlare durante il sonno spesso è anche una persona che con maggior facilità ricorda i propri sogni» dice De Gennaro. «Inoltre, dati provenienti dalla ricerca indicano che esiste una coerenza tra i contenuti del sonniloquio e quelli dei sogni, almeno per come vengono ricordati. Anche se può sembrare sorprendente, questo stretto rapporto tra sogni e sonniloquio può potenzialmente essere utilizzata per superare alcune difficoltà decennali nell’indagine sui sogni. Infatti per la maggior parte gli studiosi si sono in realtà limitati a studiare il ricordo dei sogni piuttosto che i sogni stessi nel momento in cui sono generati dalla mente che dorme. Esplorare direttamente le parole che vengono pronunciate durante il sonno potrebbe invece permettere indagini sui sogni mentre si stanno svolgendo».
Contenuti volgari. Oggi si sa che nei sogni c’è una prevalenza di contenuti a carattere emozionale, con riferimenti frequenti agli eventi della vita quotidiana o a situazioni che sono state vissute come traumatiche. «E sono frequenti, anche se a qualcuno può non fare piacere saperlo, contenuti espressi con un linguaggio volgare, spesso in associazione a situazioni erotiche» dice ancora De Gennaro, il cui gruppo studia in particolare i meccanismi cerebrali alla base delle esperienze emozionali che si fanno durante i sogni. «Si tratta di strutture e meccanismi in larga parte sovrapponibili a quelli che svolgono la stessa funzione durante l’attività diurna. Un esempio per tutti è rappresentato da una piccola formazione chiamata amigdala, nota per svolgere un ruolo cruciale nella regolazione delle emozioni negative durante il giorno. Alcuni studi indicano che svolgerebbe lo stesso ruolo anche nel sonno e che la neurochimica cerebrale sottostante sia simile a quella della veglia».
Continuità tra veglia e sonno. Uno studio realizzato dal gruppo di ricerca di De Gennaro sui sogni di pazienti affetti da Malattia di Parkinson – che quindi avevano un ridotto funzionamento dei network cerebrali mediati dalla dopamina - ha messo in evidenza un ruolo di questo neuromediatore nella produzione di sogni, che in questi pazienti sono infatti risultati poco vividi e impoveriti. C’è un altro esempio di continuità tra meccanismi della veglia e del sogno dice ancora De Gennaro, «ed è rappresentato dagli incubi dei pazienti affetti da Disturbo Post-Traumatico da Stress. Come gli psichiatri hanno descritto da decenni, i flashback visivi dell’esperienza traumatica che sono alla base di questo disturbo rappresentano un suo sintomo cardine. In assoluta continuità, chi ne soffre vive sogni terrifici e incubi notturni che sono spesso una rivisualizzazione della scena del trauma».
· Psoriasi.
Psoriasi, che cos'è e come si cura. La psoriasi è una malattia che si manifesta con la formazione sulla pelle di placche arrossate e in rilievo. Non si conoscono ancora le cause. È spesso legata allo stress. Mariangela Cutrone, Martedì 27/10/2020 su Il Giornale. La psoriasi è una malattia spesso trascurata per l’imbarazzo che causa a chi ne soffre. Colpisce tra l’1% e il 3% della popolazione. Si manifesta con la formazione di placche in rilievo arrossate, rivestite da squame biancastre. Per informare e sensibilizzare l’opinione pubblica, il 29 ottobre si celebrerà la Giornata Mondiale della Psoriasi. A causare la comparsa delle chiazze è la perdita del controllo della replicazione delle cellule. “Solitamente la produzione da parte dell’organismo di una quantità superiore al normale di sostanze pro-infiammatorie fa sì che le cellule si replichino ogni 14 giorni. Normalmente dovrebbero replicarsi ogni 28 giorni. Ciò provoca l’accumulo sulla superficie della cute di cellule ancora dotate di nucleo e che, quindi, non hanno ancora completato il proprio sviluppo. Le cellule che vengono replicate ogni 28 giorno affiorano sulla cute quando hanno terminato la propria maturazione e, perciò, sono prive di nucleo. L’assenza di nucleo le rende più leggere e quindi non tendono a rimanere depositate sulla superficie della pelle. Invece, le cellule che si replicano ogni 14 giorni. Come accade in chi soffre di psoriasi, hanno il nucleo e sono più pesanti. Si accumulano sulla cute e danno luogo alla formazione di squame”: spiega la dottoressa Elisabetta Sorbellini, specialista in dermatologia. Nella sua forma classica, detta “forma in placche”, la psoriasi tende a manifestarsi soprattutto in alcune aree del corpo, come i gomiti, le ginocchia e la zona lombare. Le chiazze che contraddistinguono il disturbo sono dure al tatto Non è una malattia genetica ma è più probabile soffrire di psoriasi se almeno un altro componente della famiglia ne soffra o sia affetto da malattie immunologiche, come l’alopecia areata o la vitiligine. Pur non essendoci una causa associabile a questa patologia in modo univoco, ci sono alcuni fattori che, nelle persone predisposte, ne favoriscono la comparsa. Il principale fattore scatenante è lo stress. Le chiazze possono comparire anche a seguito di seri traumi come incidenti stradali, interventi chirurgici, uso di determinati farmaci, soprattutto corticosteriodi, ma anche i betabloccanti e quelli a base di litio e infezioni da streptococco. Questi fattori possono inoltre peggiorare la situazione di chi già presenta chiazze. Oltre che in quella tradizionale, la psoriasi può presentarsi in varie forme. La forma guttata, che ha una maggiore incidenza fra i giovani. È spesso conseguente a un’infezione da streptococco. È caratterizzata da piccole chiazze concentrate soprattutto sul tronco. La forma seborroica invece comporta sintomi simili a quelle della dermatite seborroica come infiammazione, prurito. Si manifesta in altre aree del corpo, come le unghie o attorno alle orecchie. Per la diagnosi della psoriasi è sufficiente una visita dermatologica. Solo in rari casi è richiesta una biopsia accurata della pelle. Può essere curata grazie ad innovativi farmaci biologici. Essi sono capaci di inibire le proteine che favoriscono l’alterazione dei tempi di replicazione delle cellule. Per migliorare l’aspetto delle chiazze è poi utile l’uso topico di creme a base di vitamina D e betametasone. Hanno lo stesso effetto della fototerapia con raggi ultravioletti Uvb. Riduce anche le dimensioni delle chiazze. Il ricorso alla fototerapia deve essere breve. Non si può infatti esagerare con l’assorbimento dei raggi Uvb. Infine l’esperta consiglia di vivere sereni e tranquilli lontani dai ritmi frenetici perché nella maggior parte dei casi la patologia dipende proprio dallo stress.
Psoriasi, la malattia infiammatoria che va oltre la pelle. Irma D'Aria su La Repubblica il 29 ottobre 2020. Può colpire viso, mani, cuoio capelluto e anche i genitali. Dal cibo, ai nuovi farmaci, al vaccino contro l’influenza, gli esperti spiegano cosa si può fare per convivere bene con questa patologia. 29 ottobre la giornata mondiale. Parte tutto dall’infiammazione, coinvolta nella genesi di molte patologie, tra cui la psoriasi. Non a caso il prossimo Congresso Eadv, che si svolge online dal 29 al 31 ottobre, ha come tema centrale proprio quello delle malattie infiammatorie con numerose sessioni e poster dedicati alla psoriasi. Spesso liquidata come malattia dermatologica, in realtà si tratta di una patologia molto complessa che può creare profondo disagio anche a livello emotivo e limiti nello svolgimento delle proprie attività quotidiane. Eppure se ne parla poco e spesso male perché le ‘fake news’ corrono veloci in rete anche su questo tema. Ed è per questo che la campagna lanciata dalla International Federation of Psoriasis Associations (Ifpa) in occasione del World Psoriasis Day che si celebra il 29 ottobre in più di 50 Paesi nel mondo, ha come slogan #BeInformed con l’obiettivo di aumentare l’awareness delle persone sulla psoriasi e diffondere informazione di qualità.
Che cos'è. La psoriasi è una malattia cronica recidivante immuno-mediata molto frequente nella popolazione generale perché si calcola che il 3% degli italiani ne sia affetto. Si tratta di una patologia che può interessare la cute ma anche le articolazioni. Nelle forme gravi è oggi considerata una malattia ‘sistemica’. Che cosa significa? “E’ ormai noto - spiega Ketty Peris, direttore Unità complessa di Dermatologia della Fondazione Policlinico Gemelli Università Cattolica del Sacro Cuore - che questa malattia è associata con la sindrome metabolica o problemi cardio-vascolari ed è quindi evidente che alla base ci sia un processo infiammatorio che nelle forme gravi diventa generalizzato e può colpire altri organi o sistemi”. Poiché le manifestazioni cliniche della psoriasi possono essere molto varie, le terapie cambiano in relazione alla gravità della malattia. Le forme di lieve entità, cioè quelle modeste per estensione e per sedi coinvolte, si avvalgono ancora di terapie locali a base di creme, unguenti e schiume. Per le forme più gravi è necessaria una terapia sistemica. “Facciamo ancora molto uso dei farmaci tradizionali che possono essere immuno-soppressori come la ciclosporina ma anche il methotrexate e poi abbiamo la grande categoria dei farmaci biologici”, prosegue la dermatologa. “Siamo partiti molti anni fa con gli anti TNF-Alfa. farmaci che utilizziamo ancora oggi soprattutto quando c'è un coinvolgimento articolare, ma che hanno un meccanismo d'azione molto più generale, mentre negli ultimi anni sono stati prodotti farmaci che hanno un'azione sempre più specifica. Poi è arrivata la categoria degli anti-interleuchina 17 e oggi abbiamo anche la classe degli anti-interleuchina 23”. Insomma, i farmaci offrono un'efficacia sempre maggiore e, infatti, l’80-90% dei pazienti risponde alle nuove terapie. A questo ovviamente si associa un aumento della qualità della vita. “Tra l’altro - aggiunge Peris - sono farmaci il cui trattamento è abbastanza distanziato nel tempo, quindi non siamo più alle due punture a settimana come quando eravamo partiti tanti anni fa, ma addirittura abbiamo farmaci che possono essere usati una volta al mese o una volta ogni tre mesi e questo è un grande vantaggio per l’aderenza del paziente al trattamento”. Terapie che non vanno abbandonate nemmeno in questa fase di emergenza Covid come sta accadendo in alcuni casi per pazienti che temono di indebolire il sistema immunitario ed aumentare il rischio di contagio. Altro timore infondato è quello della vaccinazione antinfluenzale quest’anno fortemente raccomandata. “Per le persone con psoriasi o artrite psoriasica e in terapia con immunomodulanti o immunosoppressori vige l’indicazione di vaccinarsi contro l’influenza”, chiarisce Peris. Le raccomandazioni del Ministero della Salute sono chiare. “La vaccinazione antinfluenzale è raccomandata in tutti i pazienti in trattamento con farmaci immunosoppressori”, si legge. “Compresi quindi i pazienti affetti da psoriasi che seguono queste terapie”.
Psoriasi, il 90% di chi prende immunosoppressori sopravvive al Covid-19. Oltre il 90% dei pazienti affetti da psoriasi e Covid-19 in cura con farmaci che possono influenzare il loro sistema immunitario sopravvive. Il dato arriva dalla prima analisi del registro online PsoProtect creato da dermatologi e ricercatori del St John's Institute of Dermatology a Guy's and St Thomas, del King's College London e della University of Manchester per comprendere come la psoriasi e i farmaci utilizzati per trattarla potrebbero influenzare la gravità del Covid-19. I primi risultati del registro di PsoProtect sono stati pubblicati sul Journal of Allergy and Clinical Immunology. Visto che la psoriasi è una patologia correlata al sistema immunitario, i dermatologi hanno cercato di capire in che modo interagisca con il Covid-19. I pazienti con psoriasi da moderata a grave sono trattati con terapie che influenzano il sistema immunitario, inclusi farmaci biologici che prendono di mira specifiche proteine immunitarie, o tradizionali immunosoppressori in compresse, e molti di questi pazienti sono stati invitati a proteggersi durante la pandemia. L'analisi finora riguarda 374 casi di pazienti provenienti da 25 paesi con psoriasi che hanno contratto anche il Covid-19. La maggior parte dei pazienti (89%) assumeva farmaci: il 71% biologici e il 18% immunosoppressori tradizionali. Il 93% dei pazienti si è completamente ripreso dal Covid-19, il 21% è stato ricoverato in ospedale e il 2% è deceduto. Lo studio ha rilevato che, analogamente alla popolazione generale, i pazienti più anziani, maschi e con altri problemi di salute come la malattia polmonare cronica avevano maggiori probabilità di essere ricoverati. "La nostra analisi - spiega Satveer Mahil, dermatologo presso il St John's Institute - è importante per poter rassicurare i nostri pazienti sul fatto che la sopravvivenza di chi soffre di psoriasi è alta e i fattori di rischio sono simili a quelli della popolazione generale”. Insomma, ora ci sono dati concreti per ribadire l’importanza di non abbandonare le terapie per timore che possa aumentare il rischio di contagiarsi. Timori che nascono dal fatto che molti farmaci colpiscono specifici percorsi biologici alla base dell’infiammazione e agiscono inibendo il sistema immunitario iperattivo: per questo rientrano nella categoria degli immunomodulanti o immunosoppressori. Fra questi, ci sono il metotressato, la ciclosporina e i nuovi farmaci biologici. Ma si tratta di farmaci studiati per inibire specificamente le risposte autoimmuni, cioè una delle cause di patologie come psoriasi e artrite psoriasica. “E’ scorretto affermare che i pazienti psoriasici in terapia con immunomodulanti o immunosoppressori abbiano un rischio maggiore di essere colpiti dal nuovo coronavirus”, chiarisce Ketty Peris. “La maggiore suscettibilità a virus e altri patogeni dipende dalle condizioni del paziente. Ad esempio, si prendono in considerazione parametri ematochimici, età, presenza di altre patologie”. Proprio per guidare i pazienti in questa fase difficile ed evitare che abbandonassero la terapia, la Sidemast (Società italiana di Dermatologia medica, chirurgica, estetica e delle Malattie Sessualmente Trasmesse) ha divulgato un vademecum specifico per chi ha la psoriasi e/o artrite psoriasica. La prima raccomandazione è proprio quella che i pazienti in terapia con immunosoppressori “non devono sospendere di propria iniziativa la terapia”. Nelle malattie infiammatorie croniche fra cui la psoriasi, infatti, la fase acuta della malattia predispone al rischio di infezioni più delle terapie. Altra raccomandazione è quella di rivolgersi al dermatologo in caso di dubbi e perplessità riguardo alla prosecuzione della terapia o altri atteggiamenti da tenere.
Fighter Food, come combattere la psoriasi a tavola. Avocado, cavolo, verza e cime di rapa sono tra i ‘Fighter Food’ che possono avere un effetto benefico sull’organismo e aiutare a tenere sotto controllo anche malattie infiammatorie come la psoriasi. Proprio perché il cibo può avere un ruolo funzionale, in occasione della Giornata Mondiale della Psoriasi, Apiafco (Associazione Psoriasici Italiani Amici della Fondazione Corazza) lancia il progetto Cibo e Benessere, otto volumi per oltre 900 pagine di consigli, suggerimenti e ricette rivolti a coloro che soffrono di psoriasi e di malattie infiammatorie ma non solo. Nella collana trovano spazio 350 ricette, 24 articoli scientifici e 27 articoli informativi, 14 Chef tra cui un mito nel mondo dell’alta pasticceria, Luca Montersino e Matteo Zonarelli della pluristellata Osteria Francescana. “Vogliamo celebrare questa Giornata Mondiale della Psoriasi con una campagna informativa che per la prima volta si focalizza sull’alimentazione. Il cibo è un amico insostituibile e con questo progetto vorremmo rispondere alla richiesta d’aiuto dei pazienti, che sempre di più si pongono domande sull’importanza di un’alimentazione corretta, capace di prevenire malattie e migliorare la qualità della vita, spesso senza avere risposte chiare. Anche perché, in materia di psoriasi, risposte certe non ce ne sono”, dice Valeria Corazza. L’alimentazione riveste un ruolo di grande importanza nella cura del paziente psoriasico. “Dobbiamo prenderci cura del paziente in maniera olistica e globale”, afferma Federico Bardazzi, responsabile Ambulatorio Psoriasi Severe U.O. Dermatologia, Policlinico di S. Orsola, Bologna. “Un’alimentazione corretta dal punto di vista quantitativo e qualitativo rappresenta oggi un alleato insostituibile nella corretta gestione della patologia, per ridurre lo stato infiammatorio dell’organismo e l’incidenza delle comorbidità”. Ma quali sono i principali alimenti e nutrienti a cui affidarsi per restare in salute? Mangiare frutta e verdura fa bene a tutti e in particolare a chi soffre di patologie a carattere infiammatorio come la psoriasi. Nella frutta e nella verdura, infatti, sono numerose le molecole capaci di contrastare i processi infiammatori, come l’alto contenuto di vitamine e minerali, di fibra alimentare e sostanze ad azione nutraceutica capaci di modulare la risposta dell’organismo nei confronti di diversi tipi di stress. Anche il pesce ha un effetto benefico, soprattutto quello azzurro tipico del mar Mediterraneo come aringhe, sarde e acciughe, che hanno una più alta concentrazione di acidi grassi della serie Omega 3 in grado di ridurre il rischio cardiovascolare di oltre il 30% se consumati regolarmente. Per pasta e pane, i nutrizionisti suggeriscono di scegliere tra i prodotti realizzati con i grani antichi o tradizionali che a differenza di quelli moderni sono complessivamente meno infiammatori. Questo è dovuto alla differenza della forza del glutine (indice W), meno strutturato e più digeribile, che nei grani antichi porta alla formazione di una quantità minore di quei frammenti proteici che sono considerati “tossici” per i celiaci, ma anche per tutti gli altri soggetti perchè contribuiscono ad innescare processi infiammatori. Fondamentale evitare il sovrappeso. “Rispetto al resto della popolazione - spiega Enzo Spisni, Dipartimento di Scienze Biologiche, Geologiche e Ambientali Università di Bologna - i pazienti affetti da psoriasi mostrano una maggiore prevalenza di obesità e sindrome metabolica, due condizioni anch’esse caratterizzate da un importante stato infiammatorio cronico. L’infiammazione infatti sembra essere il legame tra psoriasi e obesità, due disturbi spesso strettamente legati tra loro. Una buona aderenza alla dieta mediterranea potrebbe essere la chiave per contrastarli entrambi. Infatti, è stato provato che in persone affette da psoriasi un’elevata aderenza alla dieta mediterranea sia associata a sintomi meno severi”. La collana "Cibo e benessere" - presentata anche nel corso di un Talk Live su Facebook promosso da Apiafco con il contributo incondizionato di Alfasigma - rappresenta anche un modo per fornire ai pazienti risposte scientificamente valide. “Molto spesso i pazienti ci chiedono se la psoriasi può essere legata a quello che mangiano e purtroppo spesso il poco tempo di cui disponiamo durante le visite non ci permette di rispondere con adeguata chiarezza e completezza ai loro quesiti”, prosegue Bardazzi. Il paziente si trova quindi da solo ad interrogare internet alla ricerca di risposte ai propri dubbi. In un’epoca di infodemia, in cui il web pullula di un’immensa quantità di informazioni spesso poco attendibili il soggetto si trova a concludere la sua ricerca con più dubbi che risposte”. La mini-enciclopedia Cibo e Benessere si compone di otto volumi, disponibili gratuitamente in versione integrale sul sito di Apiafco, nella sezione dedicata all’alimentazione, per coloro che intendono iscriversi all’Associazione. Tutti gli altri utenti interessati potranno effettuare il download di un ebook contenente degli estratti di ciascun volume.
Storia di Francesco, “Mi chiedo perché la psoriasi non mi sia venuta ai gomiti”. Prima di ammalarsi Francesco non sapeva neanche cosa fosse la psoriasi. Al massimo conosceva qualcuno con delle strane ‘rughette’ sui gomiti che, però, gli sembrava cosa di poco conto. Poi, però, circa quattro anni fa, ha notato delle macchioline dietro le cosce e vicino all’anca. Non gli diede molto importanza e nel giro di poco tempo sparirono per poi tornare qualche giorno dopo in una zona del corpo specifica: i genitali. Ed è stato allora che in Francesco D’Angelo, 38 anni di Popoli, in provincia di Pescara, è scattato l’allarme tanto da arrivare al Pronto soccorso scoprendo che si trattava di psoriasi. La prima cosa che il ragazzo chiese al medico fu quale crema doveva usare per farla andare via. La risposta fu: “Mi dispiace ma non andrà mai via”. Francesco ricorda ancora molto bene la sensazione che provò: “Quando hai l’apparato sessuale che sembra una Millefoglie e un esperto ti dice che non passerà mai, credimi, sei molto lontano dalla felicità”. Ricevuta la diagnosi, Francesco chiama subito la sua ragazza. “Stavamo insieme da 2 anni, ma quella fu anche l’ultima volta che la sentii. Quando gli dissi che avevo la psoriasi e che il medico mi aveva detto che non poteva guarire, lei attaccò il telefono. Mi ritrovai solo”, racconta. “Ho passato tanto tempo a cercare di capire perché mi sia venuta questa malattia e soprattutto perché non poteva uscirmi sui gomiti”. Da quel momento, l’idea di dover approcciare una ragazza ha angosciato Francesco: “Cosa avrei fatto dopo il primo bacio? Quale scusa avrei inventato per potermi congedare senza destare sospetti nel momento in cui si poteva andare oltre? Torni a casa e ti senti un giocattolo vecchio”, si sfoga Francesco. Dopo un periodo buio di depressione, Francesco, che nel tempo libero si dedica alla musica, trova la forza di reagire e va da un nuovo dermatologo che gli parla, per la prima volta, dei farmaci biologici. “Purtroppo, l’iter terapeutico per arrivare alla somministrazione di questi farmaci è articolata e lunga. Quindi dopo aver provato tutti i trattamenti topici possibili e dopo aver provato la ciclosporina, senza aver nessun risultato, è arrivata la possibilità di usufruire del farmaco biologico”, spiega il giovane. “Quando ho iniziato la cura ero una persona finita. Dopo due settimane di terapie è andato tutto via. Pulito, preciso, nuovo. Sono rinato. In due anni mi è ricomparsa solo una volta e per qualche giorno una macchiolina dietro il ginocchio…..Oltre a questo sporadico caso non ho avuto più problemi”, racconta felice di condividere la sua testimonianza anche come membro dell’Associazione Psoriasici Italiani Amici della Fondazione Corazza, Apiafco: “Oggi per i malati di questa patologia ci sono molte soluzioni, ma è importante non aver paura di uscire allo scoperto, andare da un bravo dermatologo e documentarsi anche con le testimonianze delle persone che hanno affrontato questa malattia. Non mollare, la vita è troppo avventurosa per fermarla per colpa di qualche crosta!”.
Una graphic-novel per raccontare la psoriasi. Per far emergere l’impatto emotivo che la psoriasi può avere sulle persone, la campagna “Psoriasi visibile - Impatto Invisibile. Guardiamo oltre le apparenze” punta sulla graphic-novel. A partire da settembre i pazienti avevano la possibilità di testimoniare e condividere la loro storia ed esperienza con la malattia psoriasica sul sito impattoinvisibile.it. Una giuria composta dai rappresentanti delle Associazioni pazienti, delle Società scientifiche e da giornalisti, ha selezionato la storia che è più in grado di far emergere il vissuto psicologico e l’impatto invisibile della psoriasi ed ispirare una narrazione che la matita di Sergio Algozzino, uno dei più affermati illustratori italiani, sta traducendo in immagini realizzando una graphic novel che verrà presentata e premiata al termine della campagna, promossa da Amgen con Adipso (Associazione per la Difesa degli Psoriasici), Adoi (Associazione Dermatologi-venereologi Ospedalieri Italiani e della Sanità Pubblica) e Sidemast (Società Italiana di Dermatologia e Malattie Sessualmente Trasmissibili), il prossimo 5 novembre.
· L’Herpes Zoster: «Fuoco di Sant’Antonio».
Antonella Sparvoli per "corriere.it" il 18 ottobre 2020. Attivato anche dallo stress. In gergo medico si chiama Herpes zoster, ma in Italia la maggior parte delle persone lo conosce come «Fuoco di Sant’Antonio», malattia infettiva, talvolta molto insidiosa, che ha come bersaglio i nervi e la pelle ed è causata dalla riattivazione del virus della varicella. Come si sviluppa? «Dopo la guarigione dalla varicella, malattia infettiva che la maggior parte delle persone supera durante l’infanzia, il virus varicella-zoster (come tutti i virus erpetici) non viene eliminato del tutto, ma rimane confinato, inattivo, nei gangli nervosi dei nervi sensitivi», spiega il professor Carlo Gelmetti, direttore della Dermatologia pediatrica dell’Irccs Ospedale Maggiore Policlinico di Milano. «Può tuttavia succedere che a distanza di tempo, il virus si risvegli a causa di un indebolimento del sistema immunitario, come può capitare con l’avanzare dell’età, o per l’impiego di alcuni farmaci immunosoppressori o, ancora, in seguito a uno stress ambientale (troppo caldo, troppo freddo, troppo sole) o emozionale. Il virus riattivato si moltiplica e risale lungo il fascio nervoso periferico fino a raggiungere la cute innervata da questo nervo, area chiamata in termini tecnici dermatomero».
I segni e i sintomi. Da che cosa si riconosce il Fuoco di Sant’Antonio? «Nel momento in cui si riattiva il virus, il paziente avverte un fastidio nella sede corrispondente a quella innervata dal ganglio nervoso interessato. La forma statisticamente più comune è quella toracica, ma possono essere interessati anche i nervi sensitivi del volto oppure quelli sacrali. Il fastidio iniziale, avvertito come pizzicore, bruciore, formicolio o persino dolore, può essere più o meno intenso a seconda dell’età, in genere è maggiore negli anziani o, invece, addirittura assente nei bambini. «Compare poi un tipico arrossamento con vescicole a contenuto liquido che si rompono con facilità. Si formano così delle croste che si staccano nell’arco di una o due settimane. Di solito i disturbi sono localizzati solo a un lato del corpo, nell’area innervata da un nervo sensitivo». Finché non si manifestano le classiche vescicole cutanee, la diagnosi può essere difficile perché il paziente lamenta fastidi non ben identificabili. Per esempio se è interessato un nervo toracico a sinistra, si può addirittura pensare a un infarto. Quando però compaiono le caratteristiche lesioni (di solito monolaterali), la diagnosi è pressoché immediata.
Le terapie farmacologiche e il vaccino. Esistono cure efficaci per questa patologia? «Il ricorso a farmaci antivirali, da assumere il prima possibile dal momento dell’esordio dei sintomi, favorisce una guarigione più rapida e riduce il rischio della nevralgia posterpetica, la complicanza più temibile dell’Herpes zoster. «In genere si utilizza l’aciclovir a dosaggio elevato, circa quattro volte maggiore rispetto alle dosi usate per combattere l’Herpes simplex (famiglia di virus che causano l’Herpes labiale e quello genitale). In alternativa si può somministrare il valaciclovir, un profarmaco di aciclovir. Al paziente si raccomanda poi di evitare situazioni stressanti che potrebbero rallentare la guarigione e/o favorire lo sviluppo di complicanze». In Italia è anche disponibile un vaccino usato per prevenire sia l’Herpes zoster sia la nevralgia posterpetica. Il vaccino contiene una forma attenuata del virus della varicella-zoster che stimola il sistema immunitario ad agire specificamente contro il virus. La vaccinazione gratuita è rivolta alle persone con 65 anni di età e alle persone con più di 50 anni con particolari condizioni di salute (diabete, patologie cardiovascolari, bronchite cronica, eccetera.). «La vaccinazione andrebbe presa in considerazione soprattutto negli anziani (over 70), quando il rischio di riattivazione del virus è maggiore. Un nuovo vaccino ricombinante, ancora non disponibile nel nostro Paese viene attualmente consigliato per profilo di efficacia e sicurezza» segnala Gelmetti.
Con la nevralgia posterpetica si rischia grosso. Quali sono le complicanze? «Le vescicole cutanee causate dall’Herpes zoster si risolvono sempre senza grossi problemi, ma il nervo sensitivo interessato può impiegare molto tempo a guarire o non guarire mai in rari casi, soprattutto negli anziani. Il risultato può essere la citata nevralgia posterpetica, caratterizzata dalla persistenza di dolore neuropatico anche per settimane, mesi o anni dalla scomparsa delle lesioni cutanee dell’Herpes zoster. Il dolore viene in genere descritto dai pazienti come bruciore continuo nella parte interessata, a cui si possono associare alterazioni della sensibilità superficiale della cute».
· La Mononucleosi: la "malattia del bacio".
Valentina Arcovio per “il Messaggero” il 9 aprile 2020. Baciarsi ai tempi dell'emergenza Covid-19 è probabilmente la cosa più pericolosa che si possa fare. E in tempi di quarantena è probabilmente la cosa che più manca, specialmente a chi è lontano dai propri affetti. Quindi, mai come quest'anno, la Giornata internazionale del bacio, che si celebra ufficialmente lunedì prossimo, ci vedrà probabilmente molto nostalgici. Tecnicamente sarà il giorno in cui si ricorda il bacio più lungo della storia, scambiato da una coppia thailandese per la bellezza di 58 ore 35 minuti e 58 secondi. Ma è anche l'occasione di pensare a quando finalmente potremo baciarci di nuovo senza rischi, magari in vista di un'altra giornata storica dedicata al bacio, quella che si celebra il 6 luglio. E possiamo festeggiarlo ripensando a quanto i baci ci facciano stare bene. Mentalmente e fisicamente. La scienza, infatti, ha dimostrato che i baci hanno degli insospettabili effetti benefici per la nostra salute. Numerosi studi suggeriscono, ad esempio, che baciare fa aumentare il battito cardiaco, migliorando la circolazione sanguigna. Non solo. L'adrenalina che si sprigiona con un bacio fa pompare più sangue al cuore, diminuendo la pressione sanguigna e il colesterolo cattivo. E ancora: uno studio della Northwestern University Feinberg School of Medicine ha suggerito che il bacio contrasta la produzione di ormoni glucocorticoidi, come il cortisolo, chiamato anche ormone dello stress, e favorisce il rilascio di endorfine e dopamina, sostanze euforizzanti naturali che allontanano la depressione. Baciarsi rinforza anche le difese naturali dell'organismo. Uno studio condotto presso l'Ospedale Satou di Osaka ha scoperto che mezz'ora di baci provoca un netto miglioramento della funzionalità immunitaria e riduce i livelli di IgE, cioè degli anticorpi associati alle reazioni allergiche. Il bacio è ottimo anche per la salute orale. Sivan Frankel, medico specializzato in odontoiatria estetica e generale al Dental Parlor di New York, ha specificato che l'aumento della produzione di saliva generato dai baci è un vero vantaggio per la salute orale: il bacio, stimolando le ghiandole salivari, consente un aumento di saliva che, a sua volta, tampona l'acidità dell'ambiente orale, causa di carie. Mentre, secondo l'Academy of General Dentistry americana l'aumento della produzione di saliva generato da un bacio favorisce la rimozione dei residui di cibi e dei batteri responsabili della carie. Il bacio può essere anche un'ottima palestra per rimanere giovani e addirittura dimagrire. Si stima che quando baciamo alleniamo fino a 30 muscoli facciali e attiviamo l'irrorazione sanguigna. Questo significa che la pelle del nostro viso si mantiene morbida, resistente e giovane. In pratica, ha lo stesso effetto dei famosi auto-massaggi facciali antirughe. Ma l'atto di baciare consente anche di bruciare calorie. Non solo per il movimento che si fa, ma anche per le emozioni che suscita. I baci, infatti, possono accelerare il battito cardiaco fino a 140 pulsazioni al minuto, contro le 70 normali. Sintomi positivi che possono avere un effetto snellente.
Melania Rizzoli per “Libero quotidiano” il 15 febbraio 2020. Ogni anno, durante la settimana di San Valentino, si assiste al picco di contagi di una patologia virale molto diffusa, la Mononucleosi, causata dal virus di Epstein-Barr (EBV), conosciuta come la "malattia del bacio", poiché viene trasmessa direttamente tramite lo scambio di saliva durante l' atto del baciare. La sindrome colpisce prevalentemente l' età adolescenziale e giovanile, quella compresa tra i 15 e i 25 anni, ed in questa settimana oltre il 75% dei ragazzi che approfittano della festa degli innamorati per eccedere in effusioni affettive, vengono contagiati dai vari partner infetti o da inconsapevoli portatori sani dell' agente patogeno. Ad oggi il 90% della popolazione adulta risulta essere sieropositivo per questo virus, avendo sviluppato tale malattia in epoca puberale senza esserne a conoscenza, periodo nel quale il decorso è in genere clinicamente indistinguibile da quello di una faringite acuta o di una tonsillite dolorosa, con febbre, linfonodi del collo ingrossati, malessere generale e debolezza, con sintomi simili a quelli di una comune influenza ma con un decorso lungo almeno tre settimane, mentre, quando contratta in età più avanzata, esso può perdurare per oltre un mese e tende sovente a complicarsi, coinvolgendo l' intero sistema linfatico e il suo organo principale, la milza, che appare aumentata di volume, fragile e dolente. È importante sapere che tale virus rimane nell' ospite anche dopo la guarigione, e la sua eliminazione con la saliva continua per oltre un anno, anche se in molti soggetti viene eliminato in maniera saltuaria per tutta la vita. Ma le malattie trasmesse con il bacio sono molte e varie, hanno origine batterica e virale, e l' allarme è oggi focalizzato su quelle a trasmissione sessuale (MTS) inerenti la pratica del sesso orale, il quale comporta l' uso della bocca, delle labbra e della lingua, bagnate dalla saliva, per stimolare l' eccitazione reciproca con un partner.
TRA I 18 E I 55 ANNI. Il sesso orale è praticato da oltre l' 85% dei soggetti sessualmente attivi, in un' età compresa tra i 18 e i 55 anni, e tale tipologia di rapporto intimo avviene comunemente tra persone sia eterosessuali che omosessuali, e se il partner ha un' infezione alla bocca o alla gola è possibile che questa venga diffusa a livello del pene, della vagina, dell' ano e del retto, mentre se lo stesso ha un' infezione genitale od ano-rettale, il sesso orale non protetto può favorire la trasmissione degli agenti infettivi nel cavo orale o in quello laringo-faringeo. Occorre considerare che le malattie sessualmente trasmissibili con l' arte del baciare possono essere trasmesse ad un soggetto durante un rapporto anche se la persona infetta non manifesta particolari segni o sintomi, poiché molte di queste sindromi all' inizio sono assolutamente asintomatiche. Tra le principali infezioni batteriche che si possono contrarre o trasmettere con i baci durante il sesso orale, ad oggi le più diffuse sono la Clamidia, la Gonorrea, la Tricomoniasi e la Sifilide, tutte in aumento, ed il rischio di contagio tra una persona sana ed una infetta si nasconde ogni qualvolta vi sia uno scambio di fluidi sessuali e di saliva includenti microbi, poiché nei casi di rapporti oro-genitali, gli agenti patogeni possono fare ingresso nella gola, ed ivi depositarsi esercitando la loro azione, come anche, se il partner infetto ha il batterio in faringe o in laringe, esso può essere depositato, trasferito ed assorbito a livello della vagina o del tratto urinario ed ano-rettale. Tra le infezioni di origine virale più note spicca quella da Herpes Virus, che nella sua forma Simplex limita la propria azione nella zona della bocca, delle labbra e del naso, mentre durante i rapporti sessuali di natura orale questo virus può diffondersi per contatto diretto tra la mucosa labiale infetta e i genitali, dove provoca lesioni identiche a quelle cutanee, vescicolose e pustolose a rischio di super contaminazione batterica. Ma è l' infezione da Papilloma Virus ( HPV) quella più comune, più diffusa e più pericolosa, in quanto questo agente virale, presente in circa il 70% delle donne e degli uomini non vaccinati, vanta oltre 100 sierotipi, alcuni responsabili di lesioni benigne della pelle, come le verruche, i condilomi e i papillomi, mentre altri ceppi virali hanno un potenziale oncogeno considerato medio-alto, cioè in grado di sviluppare lesioni che evolvono in senso neoplastico, riconosciuti come il fattore di rischio più comune e temibile del 100% del tumore femminile della cervice uterina e del 20% dei cancro del laringe in entrambi i generi. Tale tipo di virosi si trasmette nei due sessi tramite il sesso orale o con i rapporti vaginali ed anali, e tra le modalità di contagio si deve includere anche lo scambio di giocattoli sessuali contaminati con i fluidi o la saliva dalle persone infette. L' assenza di sintomi iniziali di tale patologia virale, sia negli uomini che nelle donne, ne favorisce la diffusione ad ogni partner con cui si viene a contatto, anche per una sola volta e senza distinzione di sesso, in ogni rapporto non protetto. È importante sottolineare che entro una settimana dal contagio, sia esso virale o batterico, l' infezione può dare manifestazione nel punto d' ingresso orale o genitale dell' agente patogeno, con comparsa di sintomi fastidiosi come bruciore, prurito, arrossamenti, piccole lesioni mucose o cutanee, ma è anche frequente che il virus od il batterio non provochi alcun disturbo evidente o visibile che richiami attenzione, come accade per esempio nei casi di trasmissione inconsapevole della malattia da parte di una persona portatrice sana, la quale non accusa nessun sintomo riconducibile alla patologia, anche se il contatto tra le sue mucose orali o genitali con i fluidi salivari, vaginali o spermatici sono stati sicuramente veicolo e impianto di infezione. Ma nel giorno di San Valentino criminalizzare scientificamente il bacio può sembrare un proposito scellerato, poiché questo irresistibile contatto labiale ed irrinunciabile atto d' amore dalla psichiatria è considerato invece terapeutico, in quanto coinvolge positivamente la sfera emotiva, psicologica, fisica, cerebrale, erotica, emozionale, sessuale e sociale, stimolando l' encefalo al rilascio di ormoni benefici quali il testosterone, l' ossitocina, le endorfine e i ferormoni, sostanze chimiche che aumentano il desiderio, inducono l' eccitazione, sedano l' ansia, migliorano l' umore, provocano piacere, eliminano le tensioni, rilasciano la muscolatura e favoriscono la procreazione, oltre ad essere indice assoluto di salute generale. Anche perché è dimostrato che baciarsi è importante, addirittura fondamentale per la vita affettiva e salutare per quella emotiva, per l' equilibrio mentale e la stabilità cerebrale che ne deriva, e il numero di baci scambiati o ricevuti è direttamente proporzionale al livello di benessere fisico e psicologico, poiché è un dato scientifico certo che chi si astiene da questa pratica amatoria, soddisfacente e gratificante, chi rinuncia a questo atto d' amore volontariamente e per qualunque motivo, forse non si infetterà con virus e batteri a trasmissione orale e sessuale, ma tendenzialmente sarà più infelice e malinconico, coverà insoddisfazione repressa, svilupperà un indebolimento del sistema immunitario, e sarà più esposto a contrarre malattie anche più gravi e incurabili, come quelle inguaribili dell' anima.
· L’Autismo.
Scoperti i geni e le mutazioni che causano l'autismo. Ricerca congiunta di ricercatori di Torino, Siena e New York: dall'analisi di 35 mila Dna sono state trovate informazioni sulle motivazioni genetiche che causano il disturbo. Apriranno nuove frontiere nella diagnosi e nella cura. Sara Strippoli su La Repubblica il 28 Gennaio 2020. Nuove importanti informazioni sulle motivazioni genetiche che causano l'autismo. Uno studio multicentrico internazionale, appena pubblicato sulla rivista scientifica Cell ha permesso di identificare i meccanismi biologici responsabili e chiarire le basi genetiche dell'autismo. Tra i protagonisti di questo studio mondiale anche la Città della Salute e l'Università di Torino. La base dello studio è l'analisi di di oltre 35mila soggetti attraverso una tecnica di sequenziamento del Dna, l'analisi dell'esoma. Si tratta di una tecnica recentemente sviluppata per lo studio delle malattie genetiche che consente di "leggere" la parte del Dna che codifica per proteine ed identificare eventuali mutazioni associate ad una malattia genetica. L'autismo è un disturbo del neurosviluppo che esordisce nei primi anni di vita e colpisce l'1% della popolazione nelle sue varie forme di presentazione ed è caratterizzato da compromissione della qualità dell'interazione sociale, alterazione della qualità della comunicazione e modelli di comportamento ed interessi limitati, stereotipati e ripetitivi che impediscono di interagire adeguatamente con le persone e l'ambiente. Il disturbo si manifesta con una vasta gamma di presentazioni cliniche e livelli di gravità, tanto da essere definito come spettro autistico, definizione recentemente introdotta nella pratica clinica ed indubbiamente più appropriata. Questa evoluzione concettuale sottolinea che la presentazione dei disturbi dello spettro autistico è estremamente eterogenea e correlata a centinaia di specifici sottogruppi clinici al suo interno. Negli ultimi anni, grazie ai progressi tecnologici che permettono di studiare su larga scala il genoma umano, è stata dimostrata la base genetica di molte condizioni caratterizzate da manifestazioni che rientrano nei disturbi dello spettro autistico. Oggi viene fatto un importante passo avanti nella comprensione di questo gruppo di malattie grazie al lavoro di un consorzio internazionale, l'Autism Sequencing Consortium (Asc), fondato e co-coordinato da Joseph Buxbaum (Icahn School of Medicine at Mount Sinai, New York), al quale hanno aderito alcuni gruppi italiani, tra i quali quelli dei professori Alfredo Brusco e Giovanni Battista Ferrero (Città della Salute ed Università di Torino) e Alessandra Renieri (Università di Siena).
LA RICERCA - Il lavoro è iniziato nel 2015, grazie alla collaborazione dei gruppi italiani con il Consorzio Asc, con la dottoressa Silvia De Rubeis della Icahn School of Medicine at Mount Sinai di New York. Con il coinvolgimento di molti centri clinici è iniziata la raccolta di famiglie con soggetti affetti da disturbo dello spettro autistico e dei loro genitori da vari Paesi nel mondo. In particolare, in Piemonte il progetto di ricerca, denominato NeuroWES, è stato coordinato dai gruppi dei professori Ferrero e Brusco (Città della Salute ed Università di Torino), che hanno esteso la collaborazione ai neuropsichiatri, genetisti e pediatri di tutta la regione. "Alle famiglie è stata proposta la possibilità di essere inserite nello studio, dopo un'attenta ed approfondita rivalutazione clinica dei casi e la spiegazione dei risvolti della ricerca" spiega il professor Ferrero del dipartimento di Scienze della Sanità Pubblica e Pediatriche dell'ospedale Regina Margherita della Città della Salute di Torino. Il Dna delle famiglie selezionate è stato inviato al consorzio, che ha provveduto all'analisi dell'esoma. La parte più complessa dell'intero processo è stato l'approfondimento dei risultati di queste analisi, dato l'elevatissimo numero di soggetti analizzati e la complessità della loro elaborazione bioinformatica. E' stato così possibile identificare oltre 100 geni associati ai disturbi dello spettro autistico, 30 dei quali mai descritti prima. I geni identificati sono espressi precocemente nello sviluppo del cervello, e molti hanno un ruolo nella regolazione dell'espressione genica legata proprio ai meccanismi che regolano lo sviluppo del sistema nervoso centrale, o sono coinvolti nella comunicazione tra neuroni. Questi geni sono caratterizzati dall'essere colpiti da mutazioni altamente distruttive e frequentemente de novo, cioè non ereditate dai genitori. Questo implica che almeno una parte di queste malattie sia dovuta a mutazioni casuali avvenute nelle cellule riproduttive, e spiega la scarsa ricorrenza della malattia in famiglie.
LE PROSPETTIVE - I dati ora pubblicati sono solo la punta di un iceberg: "In collaborazione con il gruppo del professor Marco Tartaglia (Ospedale Pediatrico Bambin Gesù, Roma) e del dottor Tommaso Pippucci (Università di Bologna) stiamo rianalizzando i dati dei casi piemontesi" racconta il professor Alfredo Brusco "e grazie alla collaborazione con la Genetica Medica della Città della Salute di Torino, diretta dalla professoressa Barbara Pasini, stiamo riportando alle famiglie dei pazienti una diagnosi definitiva in circa il 30% dei casi analizzati. Nello stesso tempo stiamo lavorando su nuovi geni associati a disturbo dello spettro autistico che stiamo attivamente studiando presso il Dipartimento di Scienze Mediche dell'Università e della Città della Salute di Torino, grazie al finanziamento come Dipartimento di Eccellenza" aggiunge il professore. Parallelamente tutte le famiglie in cui è stata identificata una mutazione nel Dna vengono richiamate sia per comunicare la diagnosi genetica che per rivalutare i dati clinici dei soggetti affetti, alla luce dei dati biologici, al fine di identificare e caratterizzare le specifiche condizioni genetiche associate a disturbi dello spettro autistico. L'identificazione di nuovi geni associati a forme di disturbo dello spettro autistico è solo all'inizio e si prevede siano oltre 1000 i geni implicati in queste malattie eterogenee. Infatti buona parte di queste malattie sono probabilmente associate a diverse varianti in geni importanti per il neurosviluppo che diventano patologiche solo quando combinate assieme. Le sfide del prossimo futuro, che potranno essere affrontate proprio grazie alle collaborazioni internazionali come questa sono molteplici. La prima è la comprensione dei meccanismi che portano allo sviluppo della malattia. Esistono ipotesi multiple sull'origine della malattia, e nessuna esclude l'altra: tra queste, difetti della migrazione neuronale, alterazione del citoscheletro, di canali ionici, di interazioni tra sinapsi. I nuovi geni identificati suggeriscono uno sbilanciamento tra segnali eccitatori ed inibitori nella trasmissione sinaptica tra i neuroni. Identificare nuovi geni significa quindi comprendere meglio la neurobiologia di queste malattie e fornire risposte alle famiglie con pazienti affetti da disturbo dello spettro autistico.
Autismo, i geni coinvolti sarebbero più di 1000: identificati 102. Ciascuno di questi è responsabile di un diverso disturbo dello spettro autistico. Lo studio su 35.000 persone ha permesso di fornire una diagnosi anche genetica al 30% dei pazienti. Viola Rita su La Repubblica il 28 Gennaio 2020. Più di 1000 geni potrebbero essere coinvolti nell'autismo. E la lista di quelli già scoperti e caratterizzati sale a 102, grazie a uno dei più ampi studi internazionali sui disturbi dello spettro autistico. La nuova ricerca pone un tassello importante del puzzle che porterà alla comprensione dell'autismo e di tutte le sue possibili forme, i disturbi dello spettro autistico, che colpiscono circa l'1% della popolazione. Lo studio, cui hanno preso parte anche i ricercatori della Città della Salute e Università di Torino e dell'Università di Siena, è appena stato pubblicato sulla rivista Cell. I ricercatori hanno coinvolto circa 35mila persone, di cui 12mila con una diagnosi di autismo, mentre gli altri 23mila sono i loro familiari. Il lavoro, iniziato nel 2015, ha portato a scoprire più di 30 geni in più associati all'autismo. Per arrivare a questo risultato gli scienziati hanno scelto una tecnica di sequenziamento del Dna di impiego abbastanza recente, nota come analisi dell'esoma, che permette di esaminare tutti i geni e scoprire possibili mutazioni genetiche collegate a varie malattie.
102 geni associati all'autismo. Grazie all'uso di questa tecnica su un campione così vasto di persone e alla rielaborazione dei dati è stato possibile individuare i 102 geni, mentre fino a poco fa l'elenco ne conteneva soltanto 65. “Ognuno di questi – spiega Alfredo Brusco, professore di genetica medica alla Città della Salute di Torino – è stato collegato a una diversa forma di autismo, all'interno del vasto 'contenitore' che include tutti i disturbi dello spettro autistico”. Questi disturbi del neurosviluppo sono infatti molto numerosi e differenti, per sintomi e gravità, come spiega l'esperto, e corrispondono ad alterazioni di geni diversi.
Dare una diagnosi genetica. Dei 12mila partecipanti con una diagnosi di autismo, nel 30% dei casi gli autori sono riusciti a identificare una mutazione genetica associata alla patologia. “Per la restante parte – prosegue Brusco – contiamo di poter studiare, in futuro, la presenza di altri geni legati all'autismo, che stimiamo possano essere anche 1000. Oppure di un'azione combinata di più geni contemporaneamente, nelle cosiddette forme poligeniche, una strada della ricerca che ancora non è stata sufficientemente approfondita e che è difficile da studiare”. Il risultato di oggi è importante perché permette di comprendere meglio gli ingranaggi dei disturbi del neurosviluppo. “Poter associare un gene specifico (una mutazione) a molte delle forme da cui sono affetti i partecipanti è un passo rilevante”, spiega ancora l'esperto, “significa poter fornire una diagnosi genetica alle famiglie di persone con un autismo spesso molto invalidante”.
Mutazioni non presenti nei genitori. Ma c'è un altro elemento importante, emerso dallo studio. “Si tratta di mutazioni genetiche de novo, ovvero alterazioni occorse nell'individuo ma che non sono presenti nel corredo genetico dei genitori”, sottolinea Brusco, “dunque non ereditate. Questo implica che almeno una parte dei disturbi dello spettro autistico sia dovuta a mutazioni casuali avvenute nelle cellule riproduttive, e spiega la scarsa ricorrenza della malattia in famiglie”. Il prossimo passo sarà proprio quello di capire a cosa sono dovuti gli altri casi. “Studiare questi e altri geni – conclude l'esperto – è essenziale per comprendere meglio l'autismo e in futuro arrivare a delineare nuovi strumenti per affrontarlo”. Non sono infatti ancora ben chiare tutte le cause dell'autismo, anche se gli esperti a livello internazionale concordano che ci sono sia fattori genetici sia ambientali. Fra questi, un filone di ricerca è dedicato allo studio su come l'esposizione ad alcuni farmaci durante la gravidanza possa aumentare il rischio di autismo per il nascituro.
· La sindrome di Asperger.
Giornata mondiale della sindrome di Asperger: cos’è e quali sono i sintomi. Pubblicato martedì, 18 febbraio 2020 su Corriere.it. Il 18 febbraio si celebra l’International Asperger Day, dedicato alle persone con la Sindrome di Asperger. Tra le persone che hanno raccontato di essere affette da questa sindrome ci sono anche Susanna Tamaro (la scrittrice lo ha rivelato nel suo ultimo libro) e l’attivista svedese Greta Thunberg (che ne ha parlato come un «superpotere, non una malattia») . La sindrome prende il nome dallo psichiatra e pediatra austriaco Hans Asperger ed è comunemente considerata una forma di autismo «ad alto funzionamento». Questo significa che non isola quanto l’autismo in senso stretto e che in genere non comporta significativi ritardi nello sviluppo del linguaggio o dello sviluppo cognitivo. Chi è affetto da questa sindrome in genere ha una compromissione delle interazioni sociali che può esprimersi con diversi livelli di gravità e spesso adotta comportamento ripetitivi e stereotipati e sviluppa attività e interessi molto ristretti, talvolta con un talento straordinario. La difficoltà a sviluppare e/o mostrare empatia è probabilmente l’aspetto più caratteristico della sindrome (che può accompagnarsi ad altri disturbi della sfera psico-affettiva) e comporta problemi e limitazioni nell’interazione sociale. Di conseguenza, i bambini che ne sono affetti possono avere problemi a instaurare amicizie e a condividere interessi con altri, oppure possono sviluppare un utilizzo ridotto del linguaggio non verbale (contatto visivo, espressioni facciali, postura e gesti). Nell’infanzia e durante l’adolescenza questo può causare può condurre a un isolamento a volte accompagnato da un particolare accanimento sociale da parte dei coetanei. Gli Aspie hanno comportamenti e modi di comunicare inusuali, che possono mettere a disagio o annoiare l’interlocutore. Gli«Asperger» dimostrano spesso la capacità di essere molto sistematici e di applicarsi in maniera focalizzata ai propri compiti. Non a caso, secondo alcuni studi sarebbe possibile attribuire forme più o meno marcate di sindrome di Asperger a personaggi del calibro di Charles Darwin, Vincent van Gogh e soprattutto Albert Einstein, un grande scienziato considerato però dai suoi contemporanei poco versato per gli affetti personali. «Ho la sindrome di Asperger — confessa — e questo vuol dire che qualche volta sono un po’ diversa dalla norma. E, nelle giuste circostanze, essere diversa è un superpotere»: lo ha detto Greta Thunberg, quest’estate, in uno dei suoi pochissimi tweet dedicati a questioni personali. L’attivista svedese ha aggiunto: «Non parlo pubblicamente della mia diagnosi per nascondermi dietro di essa, ma perché so che molte persone ignoranti vedono ancora (l’Asperger, ndr) come una malattia o come qualcosa di negativo». Thunberg ha raccontato di aver provato, in passato, un forte senso di isolamento, ma di averlo superato non appena ha trovato «uno scopo»: un riferimento alla sua battaglia per l’ambiente.
Maria Novella De Luca per “la Repubblica” l'11 gennaio 2020. «Spesso dico ai miei pazienti che dobbiamo ringraziare Greta Thunberg. Perché oggi quella strana parola, Asperger, è entrata nel lessico collettivo. Per chi ha la sindrome è stato come uscire dall' isolamento, come spezzare il muro del silenzio ». Lo racconta così, con una battuta, "l' effetto Greta", Davide Moscone, psicologo e psicoterapeuta. Ossia la rivoluzione "sociale" dietro la rivoluzione "ambientale" dei Fridays for future . Perché con Greta, eroina planetaria e testarda con le trecce e la sindrome di Asperger, una diversità è diventata forza. Asperger, nome, cioè, di una forma di autismo identificato e codificato nel 1944 (in pieno nazismo) dal discusso pediatra austriaco Hans Asperger, i cui scritti furono per la prima volta tradotti in inglese dalla psichiatra Lorna Wing nel 1981. «Grazie a Greta centinaia di persone hanno cercato il significato di quella parola, e non poche hanno scoperto di essere Asperger. Poter dare un nome, finalmente, alle proprie "stranezze" o sofferenze, ai propri disagi sociali, è una conquista», spiega Moscone, presidente dell' associazione Spazio Asperger . Così è accaduto (ancor prima dell' effetto Greta, in realtà) a Susanna Tamaro, scrittrice bestseller, forse la aspie più famosa d' Italia, così si chiamano gli Asperger tra di loro. Tamaro ha raccontato di aver trovato un depliant sulla giornata mondiale della sindrome in uno studio medico. E di aver compreso, finalmente, da cosa derivavano le sue difficoltà di relazione. Tanto da voler scandagliare quella condizione nel suo ultimo libro "Il tuo sguardo illumina il mondo". «Comprendere di essere Asperger ha cambiato la mia vita, è stata come un' illuminazione. Finalmente ho capito il perché di tante sofferenze che mi perseguitavano fin dall' infanzia. Passavo per essere una bambina matta, strana, timida in modo patologico. Ho preso psicofarmaci e calmanti fin da piccolissima. Era come se avessi un nemico interno che boicottava e boicotta tutti i lati della mia vita». Annunciando, quindi, la sua scelta di ritirarsi dal mondo, pur non smettendo di scrivere. «La mia sindrome neurologica può dare dei vantaggi - dice Tamaro - una memoria spaventosa, ad esempio. Ma anche enormi svantaggi, soprattutto dopo i cinquant' anni. Non ho più la forza di muovermi e fare incontri. Per questo mi ritiro». Una scelta estrema che racconta però, bene, le tante facce di questa sindrome dello spettro autistico, sulla quale sono state costruite leggende e stereotipi. Passando dal definire gli Asperger come dei "disabili mentali" a definirli, invece, tutti geni, dotati di quozienti intellettivi strabilianti. Un po' tutti Einstein insomma, che genio lo era davvero pur con la sindrome di Asperger. Racconta Riccardo, 25 anni, una laurea in Informatica. «Quando dicevo ai miei colleghi di università che sono Asperger, cadevano dalle nuvole. Dopo aver conosciuto Greta sanno di cosa si tratta e finalmente mi capiscono». Aggiunge Davide Mosconi: «Molti Asperger hanno intelligenze brillanti, molti sono invece del tutto nella norma. Le caratteristiche che li accomunano sono le difficoltà nel fare amicizia, nell' entrare in una dimensione intima, comprendere il linguaggio indiretto degli altri, le metafore, le battute». Un esempio? «Un mio piccolo paziente è entrato in crisi quando ha sentito la mamma che diceva "sono morta di sete". Ha pensato che stesse morendo davvero». Peculiarità che possono diventare ossessioni o trasformarsi in straordinarie opportunità. «C' è chi ha la fissazione dell' astronomia chi dei treni. Chi della matematica chi dei videogiochi. Sanno tutto di quella materia. Quindi possono diventare ottimi ingegneri, fisici, matematici. Oppure, al contrario, restare schiavi di un' ossessione». Prima che la sindrome fosse riconosciuta, gli Asperger venivano considerati pazienti psichiatrici, curati con psicofarmaci, isolati. Oggi qualcosa è cambiato, ma la strada è lunga. «Per i nostri figli la scuola può diventare un incubo », denuncia Maria Teresa, mamma di Sabina, 9 anni, Asperger. «La difficoltà di comunicare, il fissarsi sulle cose, la loro insofferenza al rumore li fa apparire strani, e per questo diventano vittime di bullismo. Eppure quando spieghi ai compagni che i nostri bambini sono come Greta, lo sguardo dei ragazzi cambia. Sì, noi genitori dobbiamo tanto a quella ragazzina con le trecce».
Maria Sorbi per “il Giornale” il 9 febbraio 2020. Greta Thunberg compirà diciotto anni il prossimo anno e diventerà anche lei un'adulta con sindrome di Asperger, un disturbo dello spettro autistico ad alto funzionamento che riguarda circa l' 1 per cento della popolazione e che può passare a lungo sotto silenzio, arrivando alla diagnosi molto più tardi rispetto ad altre forme di autismo: lei stessa lo ha scoperto a 13 anni, altri, come la scrittrice Susanna Tamaro, dopo i quarant' anni, altri ancora ci convivono tutta la vita senza saperlo ma soffrendo delle proprie difficoltà emotive, del sentirsi diversi e incapaci di stabilire relazioni con gli altri. Socialmente vengono catalogati come «strani» ma non ne approfondiscono le ragioni né seguono terapie e cure. Accontentandosi di vivere con il loro disordine mentale e quella confusione che per essere gestita li isola dai rapporti sociali. Accade lo stesso a chi ha il disturbo da Deficit di attenzione e iperattività o Adhd: in Italia si stima che riguardi il 2% della popolazione, oltre un milione di adulti, ma ne è consapevole meno di uno su cinque. Persone che faticano nella vita di tutti i giorni perché sono troppo impulsive e disorganizzate, incapaci di focalizzarsi o di gestire gli stress e le emozioni. Una vita più serena grazie a interventi mirati è possibile anche negli adulti, ma il primo passo è arrivare velocemente alla diagnosi corretta. Questo è possibile solo attraverso la collaborazione tra neuropsichiatri infantili e psichiatri, che infatti, inaugureranno un network nazionale per promuovere la ricerca nel settore e, in collaborazione con le Associazioni di pazienti e familiari dei pazienti, per realizzare campagne informative nazionali in modo da diffondere la consapevolezza della necessità di occuparsi delle persone con Adhd, Asperger e altre patologie del neurosviluppo durante tutto l' arco della loro vita, dall' infanzia all' adolescenza, all' età adulta. Al congresso nazionale della Società Italiana di Neuro psico farmacologia è stato fatto il punto sulle possibili strategie di trattamento e sono state indicate le «bandierine rosse» che possono nascondere un disturbo del neurosviluppo in età adulta. Riconoscerle è indispensabile per evitare molte sofferenze e difficoltà: si stima che nei soli Stati Uniti il costo sociale dell' Adhd negli adulti oscilli fra i 140 e i 260 miliardi di dollari fra spese sanitarie e mancata produttività, inoltre la presenza di Adhd favorisce la comparsa di altri disturbi come depressione (40% dei casi), disturbi d' ansia (35%) e abuso di sostanze (10%). «I disturbi del neurosviluppo si manifestano di solito nell' infanzia, spesso in concomitanza fra loro, con deficit che possono influenzare il benessere anche in età adulta perché favoriscono la comparsa di altre malattie psichiche e compromettono il funzionamento sociale e lavorativo spiega Claudio Mencacci, co-presidente della Società italiana di Neuropsicofarmacologia e direttore del dipartimento Neuroscienze e salute mentale al Fatebenefratelli-Sacco di Milano. Questi disturbi infatti persistono nell' adulto, pur con manifestazioni cliniche che possono modificarsi a seguito dello sviluppo individuale. Purtroppo, non sono rari i casi in cui i sintomi restano senza diagnosi ben oltre i 18 anni: nell' adulto infatti l' Adhd e l' Asperger possono essere «mascherati» da altre condizioni psicopatologiche che spesso compaiono proprio perché le strategie di adattamento ai contesti risultano spesso insufficienti a un buon funzionamento nel lavoro, nello studio, nelle relazioni, di fatto esponendo il paziente a continui stress e micro-traumi. Così per esempio nel nostro Paese è stato stimato che picchi di Adhd siano presenti nel 25-30% dei pazienti con dipendenze e disturbi alimentari. Il primo passo per arrivare alla diagnosi prosegue Mencacci è riconoscere i campanelli d' allarme dei disturbi del neurosviluppo nell' adulto, così da sospettare il problema e rivolgersi al medico. Ma in questi casi è anche fondamentale la sinergia con il neuropsichiatra infantile, sancendo quello che ormai è un dato condiviso: la continuità tra le due età della vita: infanzia-adolescenza e passaggio età adulta».
COME ACCORGERSI. «I segni tipici dell' Adhd nell' adulto sono per esempio la disorganizzazione e l' incapacità di darsi delle priorità, pianificare o focalizzarsi su un compito, la scarsa capacità di gestione del proprio tempo o di portare a termine gli obiettivi, tratti come l' impulsività, la scarsa tolleranza alle frustrazioni, gli sbalzi d' umore frequenti e la difficoltà nel gestire gli stress elenca Matteo Balestrieri, co-presidente della Società Italiana di Neuro psico farmacologia e direttore della Clinica Psichiatrica dell' Azienda Sanitaria Universitaria Friuli Centrale di Udine Le persone con sindrome di Asperger hanno tipicamente scarse capacità di interazione sociale, sono spesso chiuse in un loro mondo e hanno difficoltà di comunicazione con gli altri, hanno una bassa autostima, interessi limitati e a tratti ossessivi, con un grande bisogno di routine fisse. In entrambi i disturbi i pazienti che arrivano all' età adulta senza avere avuto una diagnosi possono non sospettare il loro problema, ma semplicemente trovare molto faticosa la vita e le sfide di tutti i giorni; anche per questo molti non chiedono aiuto e la diagnosi arriva magari dopo aver identificato altre malattie: il 16% dei pazienti con altri disturbi mentali ha un Adhd non diagnosticato». Riconoscere i disturbi del neurosviluppo in età adulta è invece indispensabile sia per dare un nome alle proprie difficoltà e riuscire finalmente a sentirsi un po' meno «strani» e diversi, sia per intervenire con terapie che possano mitigare i malesseri e migliorare la qualità di vita, naturalmente dopo una valutazione che tenga conto delle altre eventuali patologie psichiatriche presenti per identificare le priorità cliniche.
I FARMACI DEI MAGGIORENNI. «Diversamente da quanto accade nei bambini, negli adulti i farmaci sono la prima scelta, sebbene affiancati da interventi cognitivi, psicologici ed eventualmente interventi di coaching aggiunge Mencacci Per l' Adhd il farmaco più utilizzato è il metilfenidato, che tuttavia nel nostro Paese può essere prescritto dopo i 18 anni solo se si è già in trattamento prima del compimento della maggiore età: questo ne limita fortemente l' impiego, così in Italia l' unico farmaco approvato per l' adulto con Adhd è l' atomoxetina, farmaco che porta a una remissione del disturbo il 60-70% dei pazienti agendo prevalentemente sulla corteccia frontale. Al di fuori della loro indicazione clinica possono essere impiegati anche altri farmaci come gli inibitori della ricaptazione di serotonina e noradrenalina, clonidina, bupropione, modafinil e così via, da valutare però caso per caso; inoltre, si stanno sempre più sviluppando terapie digitali che possano supportare i pazienti nella gestione dei sintomi del disturbo, come app e software che aiutano a restare organizzati, a porsi degli obiettivi e a ridurre le distrazioni». Purtroppo, nonostante le possibilità terapeutiche, si stima che tuttora appena il 10% degli adulti con Adhd venga curato. «Negli adulti con Asperger conclude Balestrieri le comorbidità psichiatriche sono molto frequenti: depressione, ansia, disturbo ossessivo-compulsivo e disturbo bipolare sono comuni, per cui la terapia deve spesso intervenire sia sulle altre patologie, sia sui sintomi tipici dell' Asperger. L' irritabilità e i disturbi del comportamento possono essere gestiti con antipsicotici come risperidone e aripiprazolo, ma non esistono farmaci specifici per migliorare gli aspetti emotivi dell' Asperger: sono in sperimentazione molti principi attivi, per esempio farmaci che agiscono sulla vasopressina che sembrano poter migliorare le capacità di empatia dei soggetti con Asperger. Anche per questo disturbo sono allo studio terapie digitali mirate a facilitare il riconoscimento degli stati emotivi altrui e a migliorare l' efficacia degli interventi psicologici, che restano importanti per consentire ai pazienti un miglior funzionamento sociale». E già il solo fatto che i disturbi comportamentali non siano più un tabù da tenere nascosto, come accadeva fino a poco tempo fa, è un grosso passo avanti per affrontare il problema.
· Tricotillomania, il disturbo ossessivo di strapparsi i capelli.
Tricotillomania, il disturbo ossessivo di strapparsi i capelli. Le Iene il 29 dicembre 2019. “Quando mi strappo i capelli non mi sento più sola”, ha detto una ragazza che soffre di tricotillomania. Veronica Ruggeri la incontra insieme ad altre affette da questo disturbo: sono milioni in tutto il mondo e alcune di loro sono anche state vittime di bullismo. A quasi tutti noi succede di giochicchiare con i capelli o con la barba di tanto in tanto. Ci sono però persone per cui tutto questo non è un normale gesto quotidiano, ma un vero e proprio disturbo psicologico. È la tricotillomania, quella condizione psicologica ossessiva che porta chi ne soffre a strapparsi di continuo i peli del corpo, in particolare i capelli. E sono milioni le persone che ne soffrono in tutto il mondo. Veronica Ruggeri ha incontrato tre ragazze affette dalla tricotillomania: le hanno raccontato cosa significa convivere tutti i giorni con questo disturbo. “Ho iniziato a strappare i capelli di mia madre, poi sono passata ai miei”, le dice una di queste ragazze. “Passavo sempre più tempo a farlo, poi mi accorgevo di averne lasciato parecchi per terra”, racconta un’altra. “Quando mi strappo i capelli non mi sento più sola”. Non è ancora chiaro da cosa derivi questo disturbo, di sicuro chi ne soffre passa più di tre ore al giorno con le dite tra i capelli. “Al massimo sono stata un giorno senza strapparmeli”, confessa Serena. Un altro problema con cui si scontrano queste persone è il bullismo: “Mi chiamavano pelata di merda, mostro, malata del cazzo”. È difficile lottare contro questo problema, ma è possibile curarsi, in primo luogo ricorrendo all’aiuto di un professionista. “Non siamo né mostri né alieni, siamo persone normali che hanno bisogno di una mano”.
· La Disfunzione Erettile.
Melania Rizzoli per "Libero" il 9 giugno 2020. E niente. In molti casi non c'entrano età, obesità, diabete, iperplasia prostatica, disturbi delle vie urinarie, colesterolo, neuropatie o malattie cardiovascolari per favorire la comparsa della disfunzione erettile, perché per molti uomini l'impotenza è determinata dalla nascita, in quanto è scritta nei geni. In un'area genomica del cromosoma 6 é stata individuata una sequenza associata all'aumento del rischio di questa patologia maschile, ossia dell'incapacità di ottenere o mantenere un'erezione sufficiente per l'attività sessuale, un problema che affligge milioni di individui nel mondo. Una ricerca condotta dagli esperti del Kaiser Permanente, coadiuvati da diverse università americane, pubblicata sulla rivista "Proceeding of the National Academy of Science" ha identificato con precisione una variante genetica legata a questo tipo di disturbo, strettamente legata al gene Sim1, quello che interferisce con uno specifico circuito ormonale (leptina-melanocortina) deputato sia alla regolazione dell'indice di massa corporea, sia alla regolazione dell'attività sessuale. La ricerca, condotta su ben 36mila uomini affetti da disfunzione erettile assolutamente refrattaria ai comuni farmaci, aveva l'obiettivo di individuare la variante del genoma collegata con la presenza di tale disfunzione, ed ha anche appurato che il gene Sim1 non ha niente a che fare con la regolazione del peso, ma agisce con un meccanismo diverso, correlato ai neuroni del desiderio sessuale. In testa Benché parta tutto dalla mente, e da specifiche aree cerebrali, da diversi decenni sappiamo che questa patologia maschile è legata a molte cause, tra le principali delle quali, escludendo quelle di natura psicologica, imperano i fattori neurologici, ormonali e vascolari, i più frequenti, gli stessi sui quali si basano tutti i farmaci oggi esistenti per la disfunzione erettile che dimostrano grande efficacia terapeutica nella maggior parte degli uomini che ne fanno uso. Ma proprio dall'osservazione di quel terzo di pazienti disfunzionali che non traevano giovamenti da nessuno dei medicinali in uso è partito il sospetto che fosse proprio la genetica ad influire o a far fallire le cure, con l'individuazione di una associazione tra impotenza coeundi ed una specifica posizione genomica, chiamata "locus genetico", che è risultato significativamente associato all'alto rischio di disfunzione erettile, in quanto posizionato vicino al gene Sim1, quello responsabile del 26% del rischio di mancata erezione, che svolge un ruolo centrale nella regolazione del peso corporeo e della funzione sessuale. Terapie Al contrario di quanto si pensi, la prova che esiste una componente genetica della malattia non è affatto una cattiva notizia, perché tale scoperta apre la strada a indagini su nuove terapie che possano influire sul delicato assetto cromosomico, poiché una volta scoperto il difetto genetico, è trovata la via per indagare nuovi farmaci più mirati, che vadano ad interferire con il meccanismo leptina-melanocortina, quelli appunto che possono indurre erezione e che potrebbero mandare in soffitta il sidenafil, il tadalafil, e vardenafil (principi attivi che noi conosciamo col nome di Viagra, Cialis, Levitra) almeno in coloro che hanno nel Dna la componente geneticamente determinata accusata di produrre impotenza. Questo lavoro, che è praticamente il primo che si attua in questo campo, indica quindi la strada verso nuove terapie per la disfunzionale erettile, le quali potrebbero essere utilizzate per trattare gran parte degli uomini che non rispondono ai trattamenti attualmente disponibili, dopo aver verificato, con un semplice esame del sangue, la base genetica, un nuovo elemento, molto utile, di ulteriore conoscenza della complicata, scientificamente parlando, sessualità umana maschile.
Dagospia il 15 febbraio 2020. L’andrologo e sessuologo fiorentino Nicola Mondaini a La Zanzara su Radio 24. “Esistono due possibilità. Esiste quello che si chiama il pene curvo congenito, cioè, che si ha dalla nascita. Lo ha 1 maschio su 100. Deve essere la mamma a rendersene conto quando fa il bagnetto al bambino. A quel punto la soluzione è una soluzione chirurgica quando uno è piccolo. La realtà è che molte volte non c’è diagnosi, i bambini non vengono più visti dalle mamme, quindi si arriva ai 18-20 anni, si evita la sessualità, si arriva ai 30 anni…”.
E perché uno evita la sessualità?: “Perché possono esserci delle curvature anche superiori ai 90 gradi. Il pene curvo congenito è caratterizzato da una curvatura verso il basso. In questo caso c’è una soluzione chirurgica. Noi ora ridiamo e stiamo allo scherzo, ma per chi ce l’ha potete immaginare…Il problema si può risolvere con un intervento della durata di trenta minuti in day hospital. La sera si va a casa ed il problema è risolto. Poi bisogna evitare rapporti sessuali per tre mesi”.
E se uno volesse trombare col pene curvo di 90 gradi, come fa?: “Non è impossibile, chiaramente ci possono essere determinate posizioni di traverso per entrare. Alcuni pazienti riferiscono che pur di non farsi operare prendono queste posizioni trasversali”. “Poi – dice ancora Mondaini – c’è il pene curvo acquisito, che è quello che capita all’improvviso nella vita ed è una tragedia, perché uno si sveglia la mattina e si ritrova il pene storto. Avviene all’improvviso. Questo avviene intorno ai cinquant’anni. Ti svegli la mattina e ti ritrovi questo pene storto, curvo. Ci possono essere dei sintomi, dei campanelli d’allarme. Ti viene all’improvviso un dolore sul pene che non ci si spiega, senti come una piccola pallina dentro il pene, un sassolino, perché la malattia è caratterizzata dalla comparsa di una piccola placca, di mezzo centimetro o un centimetro. Appare all’improvviso e determina che all’improvviso una mattina ti svegli col pene storto. L’altro dramma è che la malattia non finisce qui, perché comincia a determinare anche una retrazione. Quindi negli anni il pene si accorcia. In questo caso c’è sempre la soluzione chirurgica come nel caso del pene curvo congenito, poi esiste da tre anni finalmente un nuovo farmaco. Questo enzima si può inserire in questa placca, la scioglie. Per guarire ci vogliono due, tre mesi. Questo pene acquisito ha un nome che è Induratio penis plastica, o malattia di La Peyronie, dal medico che l’ha descritta. La malattia colpisce, incredibile, il 10% degli italiani. E nessuno ne parla”.
Quante persone in Italia hanno il micropene invece?: “Devi calcolare che la normalità del pene flaccido in Europa è 9 cm. Io vedo 5000 piselli all’anno. Per capirsi, le misure normali sono da flaccido 9 cm. Poi in erezione la media è 14 cm. Un micro pene da flaccido è circa 1 cm e mezzo ed in erezione arriva a 3 cm. Onestamente sono delle tragedie. Come si calcolano questi tre cm? Si calcolano dal pube fino al meato esterno”.
Quante persone hanno il micro pene?: “Su 5000 persone che vedo all’anno due o tre. In Italia qual è la percentuale? Bassissima, qui siamo a 1 su 10.000, una cosa molto rara. E chiaramente richiede una soluzione chirurgica ,si può fare una ricostruzione del pene. Poi invece esiste il pene nascosto che è un pene normale, che all’apparenza sembra un micro pene, in realtà spesso si tratta di pazienti che chiaramente hanno un sovrappeso importante, un uomo può pesare 150 kg, per cui il pene tende a nascondersi nell’adipe. In realtà basta spingere sull’addome, il pene viene fuori. In quel caso bisogna invitare il paziente a dimagrire”.
Scusi, ma è vero che i cinesi hanno il cazzo piccolo?: “Da un punto di vista scientifico il pene dei cinesi è più piccolo rispetto al pene degli europei. Ma è un dato morfologico, come l’altezza è in media più bassa. Non è un luogo comune, è un dato scientifico. Siccome il pene entra nella morfologia, si adegua alla morfologia dei cinesi”
Viola Rita per repubblica.it il 12 febbraio 2020. Il viagra, la pillola blu, di blu non ha soltanto il colore. Fra gli effetti indesiderati della pillola per la disfunzione erettile in rari casi ci sarebbero anche disturbi visivi persistenti, fra cui una visione blu intensa insieme all'incapacità di cogliere il rosso e il verde. Effetti che in certi casi potrebbero durare anche per qualche settimana, secondo l'autore di una ricerca, Cuneyt Karaarslan, che lavora all'ospedale oftalmico Dünyagöz Adana in Turchia. Per ora lo studio ha preso in considerazione un numero piuttosto ristretto di pazienti che si sono rivolti all'ospedale turco con vari disturbi visivi dopo aver assunto il Viagra nel massimo dosaggio. Per questo, anche se il farmaco può essere importante per il benessere psico-fisico, è bene assumerlo sempre sotto controllo medico e stare attenti a dosaggi alti, soprattutto alla prima assunzione. I risultati sono pubblicati su Frontiers in Neurology.
Il Viagra, breve storia. Ventidue anni fa il Viagra (il nome del principio è sildenafil, mentre Viagra è il nome commerciale più noto) sbarcava nelle farmacie italiane e, secondo gli ultimi dati disponibili della Società Italiana di Urologia, il nostro paese è il secondo in Europa per acquisto di questo farmaco. Inizialmente studiato per curare l'angina pectoris, la molecola mostrò alcuni effetti collaterali, fra cui uno molto comune era l'erezione del pene. Per questo nel 1998 fu approvato dalla Fda, l'ente statunitense che controlla farmaci e alimenti, per la disfunzione erettile. Il farmaco è efficace e i suoi effetti durano dalle 3 alle 5 ore mentre gli effetti collaterali sono per lo più mal di testa, visione offuscata e alterazione della percezione dei colori (riportata nel bugiardino) lieve e transitoria, di solito massimo a due ore di distanza secondo quanto riferito dall'Ema, l'Agenzia europea per i medicinali.
La ricerca. I ricercatori hanno osservato però dei fenomeni insoliti in 17 pazienti che si erano recati presso l'ospedale oftalmico in Turchia, e sulla base dei dati hanno svolto un'indagine e pubblicato lo studio. Tutti e 17 avevano disturbi visivi, fra cui pupille dilatate, vista offuscata, sensibilità alla luce e visione blu intensa insieme all'incapacità di cogliere il rosso e il verde. Tutti i pazienti erano alla loro prima assunzione e avevano preso il sildenafil al dosaggio massimo di 100 mg. E non avevano una prescrizione medica, ma si trattava di un'auto-medicazione, mentre si raccomanda sempre l'uso sotto controllo medico (in Italia, inoltre, ma non in tutti i paesi, c'è l'obbligo di ricetta). In questo caso in tutti e 17 i pazienti i disturbi sono spariti entro i 21 giorni dal primo sintomo, un periodo comunque più lungo rispetto agli effetti indesiderati comuni. E senza dubbio, spiega l'autore, nonostante i problemi siano poi passati, si è trattato di un'esperienza difficile per chi l'ha vissuta. La buona notizia, prosegue Karaarslan, è che reazioni così persistenti dovrebbero essere molto rare. In ogni caso è sempre bene consultare sempre il medico e potrebbe essere meglio non iniziare dal dosaggio più alto. E soprattutto chi ha un'aumentata sensibilità dovrebbe considerare di fare la prima assunzione sotto la supervisione medica. Sempre ricordando che questi farmaci, usati seguendo le regole, “forniscono un supporto sessuale e fisico molto importante”, sottolinea l'autore.
Attenzione agli occhi. Ma non è la prima volta che uno studio solleva problemi della vista persistenti associati al Viagra. Nel 2014, infatti, uno studio su topi aveva mostrato che l'assunzione di sidenafil potrebbe non far bene agli animali con un carattere legato alla malattia rara ed ereditaria chiamata retinite pigmentosa (un “portatore” della malattia genetica ma senza sintomi). Questi animali mostrarono problemi alla vista per due settimane, nonché la perdita di alcune cellule della retina – un possibile inizio di un processo degenerativo. Tuttavia, nei topi senza questo carattere genetico, i sintomi duravano per due giorni. Per questo lo studio suggeriva che uomini con questa particolare condizione genetica dovrebbero evitare il Viagra.
· L’Infertilità.
Da ansa.it il 17 dicembre 2019. Svelato il meccanismo molecolare che si cela dietro ai casi di infertilità maschile considerati finora inspiegabili: il problema è nel Dna degli spermatozoi, che resta erroneamente impigliato nelle proteine (chiamate istoni) attorno alle quali si avvolge per compattarsi nel nucleo delle cellule. Il difetto, che potrebbe essere trasmesso ai figli, è stato riprodotto per la prima volta nei topi di laboratorio e potrà aiutare la ricerca di nuove cure contro la sterilità, come indica lo studio pubblicato sulla rivista Developmental Cell dai ricercatori dell'Università della Pennsylvania. "Per gli uomini che soffrono di infertilità senza una causa apparente, tutto può risultare nella norma all'esame medico: sia la conta che la motilità degli spermatozoi. Eppure non riescono ad avere figli", spiega la prima autrice dello studio, Lacey J. Luense. I risultati ottenuti dal suo gruppo sono molto importanti perché dimostrano che "il problema è dovuto a un errore nello sviluppo degli spermatozoi a partire dalle staminali germinali e, in particolare, nella mancata sostituzione delle proteine che avvolgono il Dna delle cellule, gli istoni, con le protamine, proteine più piccole che servono a compattare il Dna negli spermatozoi", spiega Carlo Alberto Redi, direttore del Laboratorio di Biologia dello Sviluppo dell'Università di Pavia. Grazie a nuove tecniche di sequenziamento genetico, i ricercatori americani sono riusciti perfino a localizzare i punti del Dna che restano impigliati negli istoni. "Questo - spiega Redi - avviene in corrispondenza di alcune regioni non codificanti del genoma, a livello di alcuni promotori che regolano l'espressione di geni e in corrispondenza di uno specifico gene, chiamato Gcn5". Proprio quest'ultimo groviglio molecolare è stato riprodotto nei topi di laboratorio, "creando una sorta di avatar che ha aiutato a studiare meglio il fenomeno e soprattutto a dimostrare il suo passaggio da una generazione all'altra. La trasmissione alla progenie - sottolinea l'esperto - è un dato di estremo interesse, se consideriamo che il difetto di cui stiamo parlando non è una mutazione scritta nel Dna, ma una modificazione epigenetica che può essere determinata dallo stile di vita, ad esempio dalla dieta, dall'alcol o dai farmaci".
Erin Heger per it.businessinsider.com il 2 ottobre 2020. Il numero di spermatozoi si riferisce alla quantità di spermatozoi per millilitro di liquido seminale. La misurazione del numero di spermatozoi di solito fa parte di un’analisi dello sperma che esamina anche la forma degli spermatozoi e la loro motilità. Tutti questi fattori possono avere un ruolo chiave nella fertilità di un uomo. Ci vuole solo uno spermatozoo per fecondare un ovulo, ma maggiore è il numero di spermatozoi, maggiori sono le possibilità di mettere incinta il tuo partner, dice Zaher Mehri, medico ed esperto di fertilità presso il New Hope Fertility Center. In una sola eiaculazione sono presenti milioni di spermatozoi, ma solo poche centinaia di essi arriveranno all’ovulo. Molti spermatozoi muoiono nell’ambiente acido della vagina prima di migrare verso l’utero e nelle tube di Falloppio. Un numero di spermatozoi normale è compreso tra 15 e 200 milioni per millilitro di sperma. Un numero di spermatozoi inferiore a questo potrebbe causare difficoltà nella fecondazione. Ciò che mangi, la frequenza con cui ti alleni e il tuo stile di vita generale possono avere un impatto sul numero di spermatozoi. Ecco sei modi per aumentare il numero di spermatozoi e aumentare le possibilità di concepimento.
1. PERDERE PESO. “Gli uomini in sovrappeso tendono ad avere un numero di spermatozoi inferiore rispetto a quelli normopeso”, dice Mehri. Ciò potrebbe essere dovuto al surriscaldamento corporeo, che può uccidere lo sperma. Il grasso in eccesso intorno ai testicoli potrebbe isolarli, facendoli riscaldare. Anche i cambiamenti ormonali negli uomini in sovrappeso possono influenzare negativamente la produzione di sperma. Gli uomini in sovrappeso hanno maggiori probabilità di avere livelli di testosterone più bassi e livelli di estradiolo più alti, che possono avere un impatto negativo sulla produzione di sperma. Se hai un indice di massa corporea (BMI) di 25 o superiore, perdere anche una piccola quantità di peso può aumentare il numero di spermatozoi. Uno studio del 2016 pubblicato sul Journal of Urology – una pubblicazione iraniana – ha esaminato gli effetti della perdita di peso sul numero di spermatozoi in 200 uomini con BMI superiore a 25. Dopo un programma di esercizi intensivi di sei mesi, i ricercatori hanno osservato aumenti significativi del volume e della concentrazione dello sperma fra gli individui che avevano perso peso rispetto a quelli in sovrappeso.
2. INIZIA A FARE ESERCIZIO. “La funzione del sistema riproduttivo dipende dalla salute generale del corpo, quindi quando un uomo si esercita regolarmente, i testicoli funzionano meglio e il numero di spermatozoi migliora”, dice Merhi. Uno studio del 2014 pubblicato su Human Reproduction ha esaminato 231 uomini in cerca di cure per la fertilità e i loro livelli di attività fisica. I ricercatori hanno scoperto che il sollevamento pesi, la corsa e il jogging erano associati a concentrazioni di sperma più elevate rispetto ad altri tipi di attività, come camminare o aerobica. Sebbene questo studio abbia rilevato che alcuni tipi di esercizi risultano essere più efficaci rispetto ad altre per un aumento del numero di spermatozoi, qualsiasi tipo di esercizio fisico è meglio di nessuno, afferma Temeka Zore, endocrinologa riproduttiva di Spring Fertility. Perché l’esercizio riduce l’infiammazione, che può migliorare la funzione dello sperma. Alcuni studi hanno dimostrato che alcuni tipi di esercizi, come andare in bicicletta, potrebbero essere associati a una riduzione del numero di spermatozoi, ma sono necessarie ulteriori ricerche per trarre conclusioni definitive su quali tipi di esercizi siano i migliori, dice Zore. “Gli studi sono limitati e inconcludenti sul tipo esatto o la quantità di attività fisica che può migliorare il numero di spermatozoi”, dice Zore. “Non ci sono studi di alta qualità che affermano in modo definitivo che un esercizio è migliore di un altro”.
3. SMETTI DI FUMARE. Il fumo può avere un impatto negativo sul numero di spermatozoi, quindi smettere di fumare può migliorare la salute dello sperma. Secondo uno studio del 2007 pubblicato su Human Reproduction, gli uomini che fumano più di 20 sigarette al giorno sperimentano una riduzione del 19% della concentrazione di sperma rispetto ai non fumatori. Il motivo esatto per cui il fumo riduce il numero di spermatozoi non è del tutto noto, ma una revisione del 2015 pubblicata sul World Journal of Men’s Health ha scoperto che il fumo può danneggiare il DNA nello sperma, che riduce la fertilità. Anche se fumi da anni, smettere di fumare renderà il tuo sperma più sano, dice Mehri. Ci vogliono circa tre mesi affinché i testicoli producano sperma fresco, quindi gli uomini che smettono di fumare almeno tre mesi prima del concepimento avranno uno sperma più sano e maggiori possibilità di fecondare un ovulo.
4. EVITA L’ABUSO DI SOSTANZE. Il consumo moderato di alcol, che è di circa due bicchieri al giorno per gli uomini, non sembra avere un effetto negativo sul numero di spermatozoi, dice Mehri. Tuttavia, alcuni studi suggeriscono che il consumo eccessivo, definito come 14 o più drink a settimana, può ridurre la qualità dello sperma e abbassare la produzione di testosterone. Anche altri farmaci come gli oppioidi o la marijuana possono avere un impatto negativo sulla fertilità. Sono necessarie ulteriori ricerche per vedere se l’interruzione dell’abuso di sostanze inverte l’effetto negativo che ha sulla salute dello sperma. Ma, in generale, astenersi dall’uso di sostanze e sviluppare abitudini sane può migliorare il numero di spermatozoi e la fertilità. “Se stai cercando di concepire, ti consigliamo sempre di essere la versione più sana di te stesso, il che significa evitare il fumo e le droghe e se scegli di bere di farlo con moderazione “, dice Zore.
5. Assumere un integratore di acido D-aspartico. L’acido D-aspartico (D-AA) è un amminoacido che aiuta nella formazione delle proteine nel corpo. Si trova in alte concentrazioni nelle ghiandole endocrine, come l’ovaio e i testicoli. Poiché lo sperma, come qualsiasi cellula del corpo, contiene proteine, il D-AA è importante per la funzione dello sperma, dice Mehri. Basse concentrazioni di D-AA possono contribuire a ridurre il numero di spermatozoi e la motilità, quindi prendere un integratore di D-AA potrebbe aiutare, dice Mehri. Uno studio del 2012 pubblicato su Advances in Sexual Medicine ha esaminato 60 uomini con problemi di fertilità e ha scoperto che l’assunzione di integratori di D-AA per tre mesi ha aumentato sostanzialmente il numero di spermatozoi e la motilità degli stessi. È importante notare che quelli nello studio non erano individui sani in quanto avevano già disturbi dello sperma. Pertanto, non ci sono prove conclusive che gli integratori di D-AA aumenterebbero il numero di spermatozoi in individui sani. Gli integratori D-AA possono essere acquistati online e la dose di solito va da 2.000 a 3.000 mg al giorno, ma dovresti consultare il tuo medico prima di assumere qualsiasi integratore, dice Mehri. Il D-AA può causare irritabilità e mal di testa se si prende la dose sbagliata e i suoi effetti a lungo termine non sono ancora noti.
6. SEGUI UNA DIETA SANA. Ciò che mangi influisce anche sul numero di spermatozoi e sulla salute generale. Gli antiossidanti in particolare possono migliorare la fertilità, dice Mehri. Le vitamine E e C hanno dimostrato di essere buoni antiossidanti per la funzione dello sperma. Uno studio del 2006 pubblicato sul Journal of Medicinal food ha esaminato 13 uomini con problemi di fertilità di età compresa tra 25 e 35 anni. Gli uomini hanno ricevuto 1.000 mg di integratori di vitamina C due volte al giorno per due mesi. Il numero di spermatozoi è aumentato di oltre il 100% e la mobilità degli spermatozoi del 92%.
Gli alimenti ricchi di vitamina C includono: Gli acidi grassi Omega-3 hanno anche dimostrato di migliorare la funzione dello sperma , dice Zore. Gli acidi grassi Omega-3 sono acidi grassi essenziali che i nostri corpi non possono produrre da soli, quindi dobbiamo consumarli nella nostra dieta. Gli acidi grassi fanno parte della membrana degli spermatozoi , quindi un consumo adeguato di acidi grassi omega-3 può migliorare il numero e la motilità degli spermatozoi.
Gli alimenti ricchi di acidi grassi omega-3 includono: Pesce, Fagioli, Semi di lino, Noci, Semi di soia, Semi di Avocado.
IN CONCLUSIONE. Molti fattori possono influenzare il numero di spermatozoi. Fortunatamente, ci sono dei passaggi che puoi intraprendere per aumentare il numero di spermatozoi e aumentare le tue possibilità di concepimento. Fare esercizio, mangiare bene e smettere di fumare sono tutti cambiamenti nello stile di vita che puoi apportare per migliorare la tua fertilità e la tua salute generale.
· Tocofobia, Contraccezione ed Aborto.
Cesare Peccarisi per corriere.it il 5 febbraio 2020. Timore infondato del parto. Secondo l’Istat nel 2018 abbiamo toccato il minimo storico delle nascite dall’unità d’Italia. Fra i motivi della denatalità non ci sono soltanto quelli economici, come le spese da affrontare per asili, istruzione, ma anche i cambiamenti sociali o ritmi di vita sempre più frenetici che inducono ansia e depressione. Tuttavia la scelta di non avere figli può avere anche un’altra ragione psicologica , poco considerata, chiamata tocofobia, una sindrome che indica un timore eccessivo e infondato del parto (la parola viene dal greco tokos, parto e fobia, paura).
Una sindrome molto studiata. Descritta nel 2000 sul British Journal of Psychiatry dalle psichiatre inglesi Kristina Hofberg e Ian Brockington dell’Università di Birmingham, ne hanno parlato di recente sull’Indian Journal of Psycholgical Medicine anche i ricercatori del Dipartimento di psichiatria di Karnataka e Bengaluru e poco prima di loro i colleghi delle Università di Lubiana e Gerusalemme sul Journal of Perinatal Medicine. Ormai di questa sindrome, detta anche maieusio-fobia (dal greco maieusis, cioè parto di donna in travaglio) si occupano studiosi di tutto il mondo.
Figli sempre più tardi. In alcuni casi questa sindrome potrebbe spiegare anche la crescente tendenza a rimandare la maternità: sempre più donne fanno figli a 40 anni ricorrendo alla fecondazione assistita. La tendenza a ritardare la gravidanza è stata ribadita di recente dal Ministero della Salute nel 17° CeDAP (il rapporto annuale sull’evento nascita in Italia) secondo il quale l’età media delle madri italiane si è spostata a 32,8 anni. Ma non solo denatalità e ritardo delle gestazioni: la tocofobia potrebbe essere implicata anche in un altro fenomeno rilevato dall’indagine CeDAP e cioè l’aumento dei parti cesarei, una tendenza che non riguarda solo l’Italia, ma tutto il mondo.
Cesarei in aumento. Regolamentare questi comportamenti è difficile e può essere d’esempio il caso dell’Inghilterra dove, nonostante che le Linee Guida 2004 del Nice (The National Institute for Health and Care Excellence) avessero indicato ai medici di declinare le richieste di cesarei privi di indicazioni cliniche, fra il 1989 e il 2010 questi sono comunque passati dal 10 per cento al 25 per cento. Le direttive Nice sono state poi riviste nel 2011 concedendo il cesareo alle madri che lo richiedevano, previa una o più sedute di counseling psichiatrico. Adesso lo studio di The Lancet rivela però che già quattro anni dopo i cesarei d’oltremanica erano saliti al 26,7 per cento.
Aumenta il rischio di depressione. Non vanno però dimenticati i rischi anestesiologici, emorragici e laparoscopici del cesareo, né il fatto che, come osservato dai ricercatori della National Yang-Ming University di Taiwan, fa aumentare del 48 per cento il rischio di depressione, anche se programmato e non praticato d’urgenza. Né va infine scordato il fenomeno dei cesarei inutili, non solo in Italia. È stato pubblicato su BMC Pregnancy & Childbirth uno studio secondo cui in Armenia (dove i cesarei sono saliti dal 7,2 per cento del 2000 al 31 per cento del 2017) il rimborso ai medici per i cesarei era 11 volte maggiore rispetto al parto vaginale: un buon motivo economico per praticare cesarei anche senza necessità cliniche. E qui la tocofobia c’entra proprio poco.
L’ansia allunga il travaglio. «Molte donne temono il parto, ma in alcune la paura può diventare una vera fobia - dice Claudio Mencacci, direttore del Dipartimento di Neuroscienze del Fatebenefratelli-Sacco di Milano -. Come hanno scoperto all’Università di Oslo, se non curate queste paure prolungano il travaglio di un’ora e 32 minuti, col rischio di parto col forcipe o di un cesareo d’urgenza». Queste donne temono soprattutto il dolore, la perdita di controllo e danni della vagina che potrebbero poi allontanare il partner. La sindrome inizia in giovane età, spesso dopo un evento traumatico a cui hanno assistito. «Sono donne in genere ansiose e la tocofobia può svelare una depressione prenatale - prosegue Mencacci -. Ma, soprattutto nelle primipare, un adeguato counseling psicologico può far molto, magari con gruppi di auto-aiuto dove giovani mamme raccontano la loro esperienza».
Pillola del giorno dopo, boom di vendite: ecco come funziona e quali rischi comporta. Pubblicato mercoledì, 05 febbraio 2020 su Corriere.it da Milena Gabanelli e Simona Ravizza. Deve restare contraccezione d’emergenza perché non protegge dalle malattie sessuali. Il 22% ha rapporti non protetti. L’8 maggio 2015 l’Agenzia italiana del Farmaco (Aifa) decide che le donne maggiorenni possono acquistare EllaOne senza ricetta. L’impennata di vendite è immediata: in un anno si passa da 123.800 confezioni a 229.900, che arrivano a 253 nel 2018. Sono gli ultimi dati disponibili elaborati da Federfarma per Dataroom. Il principio attivo è l’Ulipristal acetato, utilizzato anche per curare i fibromi uterini. Una pillola di EllaOne ne contiene 30 mg.La questione è ancora dibattuta: la EllaOne impedisce solo la fecondazione oppure ha anche un effetto anti-annidatorio che può interrompere la gravidanza? Cosa fin qui è stato dimostrato ce lo spiega Giuseppe Remuzzi, direttore dell’Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri di Milano, alla luce degli studi scientifici internazionali. L’Ulipristal acetato agisce sul progesterone, l’ormone che permette la creazione delle condizioni nell’utero per la fecondazione, e può avere due effetti:
1) l’inibizione dell’ovulazione. Vuol dire che l’ovulo trova la porta chiusa e quindi è più complicato, se non impossibile, uscire dal follicolo e incontrare lo spermatozoo.
2) Una possibile azione sull’endometrio e, dunque, sull’annidamento dell’embrione e al mantenimento della gravidanza. Molti studi concludono che le basse dosi di Ulipristal acetato utilizzate per la contraccezione d’emergenza non hanno effetti significativi sullo spessore dell’endometrio e sull’impianto dell’embrione. Tuttavia questi risultati sono ancora considerati non definitivi. Uno studio recente confronta l’efficacia della EllaOne come contraccettivo d’emergenza in base al momento in cui avviene la sua somministrazione. A fare la differenza è il momento dell’ovulazione, e il periodo fertile inizia normalmente 5 giorni prima e si conclude 1 giorno dopo. Se la pillola viene assunta prima dell’ovulazione la gravidanza viene evitata nel 77,6% dei casi, se dopo nel 36,4%. In sostanza: la percentuale di gravidanze è inferiore in modo significativo a quella prevista in seguito a rapporti sessuali non protetti assumendo il farmaco prima dell’ovulazione. Siccome per una donna è complicato sapere con esattezza quando ovula, e il farmaco lo prende «al bisogno», verrebbe da suggerire di prenderlo subito dopo il fatto. Ed è forse anche questa la ragione per la quale non è prevista la ricetta medica. Sono stati valutati su 4718 donne durante il programma di sviluppo clinico. Cefalea, nausea e vomito sono gli effetti collaterali più comuni (nel 25% dei casi). Poi stanchezza, dolorabilità dei seni, dolore addominale e alla schiena, capogiri e, meno frequentemente, diarrea, che si protraggono per 1-2 giorni dall’assunzione. Il principio attivo Ulipristal acetato è condiviso sia da EllaOne sia da Esmya, un medicinale utilizzato in modo continuativo per il trattamento dei fibromi dell’utero in donne adulte non ancora in menopausa. Sull’uso di Esmya c’è allerta per le possibili conseguenze sul fegato, dopo 4 casi di insufficienza epatica riscontrati in donne che ne hanno fatto uso: nella documentazione disponibile all’Ema non sono, però, attribuibili con certezza all’impiego di Esmya ed è verosimile che si trattasse di pazienti che avevano già insufficienza epatica. In ogni caso le indicazioni all’impiego dei due farmaci sono diverse: Esmya è da somministrare una volta al giorno per un massimo di 3 mesi in compresse da 5 mg, mentre EllaOne contiene 30 mg, ed è da assumere una sola volta e solo in occasione di rapporti a rischio. Visti i dati di mercato alle giovani ragazze sembra sfuggire il fatto che EllaOne è un farmaco destinato esclusivamente a un uso estremo, e che non protegge da infezione trasmissibili sessualmente e soprattutto non può sostituire l’uso corretto di un metodo anticoncezionale come invece rischia di essere. Infatti negli ultimi 6 anni la vendita dei profilattici nelle farmacie è diminuita del 26% . Va detto che non è dato sapere se parallelamente sono aumentati gli acquisti al supermercato o online. Resta il fatto che dagli ultimi dati del ministero della Salute su 13.973 universitari il 22% dichiara di aver avuto rapporti occasionali non protetti.
· La Menopausa.
Da "ilmattino.it" il 3 febbraio 2020. Menopausa, una clinica in Gran Bretagna promette una terapia per ritardarla di dieci anni, e 11 donne hanno pagato 7.000 euro per sperimentarla. La clinica di Birmingham promette che il trattamento allontani la menopausa di dieci anni, ma secondo diversi esperti non c'è nessuna prova che la procedura funzioni, né che sia innocua. Lo riferisce il sito della Bbc, secondo cui al momento almeno 11 donne hanno pagato circa settemila euro per sottoporsi alla terapia.
La terapia. Il trattamento consiste nella rimozione di una piccola porzione delle ovaie che viene tagliata in strisce sottili e congelata, per poter essere poi reimpiantata anche dieci o vent'anni dopo. Se la donna vuole avere una gravidanza, riferisce Simon Fishel, l'esperto che ha messo a punto la procedura, il tessuto viene reimpiantato vicino alle tube di Falloppio, mentre se il desiderio è rallentare la menopausa può essere inserita in una zona con un buon afflusso di sangue, come l'avambraccio. In questo secondo caso la porzione di ovaie dovrebbe sostituire la terapia ormonale che si prende in menopausa. Fra gli esperti che hanno criticato la procedura c'è Melanie Davies, della società scientifica Fertility Preservation, preoccupata per il fatto che «donne sane si sottopongano a una procedura chirurgica che non è necessaria sperando di preservare la fertilità futura e la terapia di sostituzione ormonale. Sappiamo che la fertilità può essere ripristinata in una percentuale di donne che hanno avuto un tumore - spiega -, ma nessuna donna in salute si è mai sottoposta a questa procedura, e non c'è nessuna evidenza che il tessuto sia ancora funzionale dopo dieci anni».
· Le Malattie sessuali.
Irma D'Aria per "repubblica.it" il 17 febbraio 2020. Proprio a San Valentino arriva una ricerca che sembra fatta apposta per invitare ad essere fedeli. Lo studio, pubblicato online sulla rivista BMJ Sexual & Reproductive Health, ci dice che avere tanti partner non fa bene alla salute e anzi potrebbe addirittura far aumentare il rischio di cancro. Pochi studi fino ad ora avevano esaminato il potenziale impatto del numero di partner sessuali sulle condizioni di salute. Per cercare di colmare questa lacuna, i ricercatori hanno attinto alle informazioni raccolte per il Longitudinal Study of Aging (ELSA), uno studio di monitoraggio rappresentativo a livello nazionale degli over 50 che vivono in Inghilterra. In tutto sono state coinvolte 5722 persone (2537 uomini e 3185 donne) a cui - tra il 2012 e il 2013 - è stato chiesto quanti partner sessuali avessero avuto potendo scegliere da nessuno a dieci o anche più. Inoltre, gli è stato chiesto di valutare anche la propria salute e di segnalare qualsiasi condizione o malessere anche di vecchia data che incidesse in qualche modo sulle loro attività di routine. Naturalmente sono state prese in considerazione anche altre informazioni come l’età, l’etnia, lo stato civile, il reddito familiare, lo stile di vita (fumo, consumo di alcol, attività fisica) e l’eventuale presenza di sintomi depressivi. L'età media dei partecipanti era di 64 anni e quasi tre su quattro erano sposati.
Uomini più libertini. Cosa ne emerso? Circa il 28,5% degli uomini e il 40% delle donne ha dichiarato di aver avuto nessuno o solo un partner sessuale fino ad oggi; il 29% degli uomini e il 35,5% delle donne afferma di averne avuto tra i 2 e i 4. Man mano che aumenta il numero dei partner diminuisce la percentuale di risposte positive: solo un uomo su cinque (20%) e il 16% delle donne ha riportato di essere stato con 5-9 persone mentre rispettivamente il 22% degli uomini e poco meno dell’8% delle donne ha risposto di aver avuto 10 o più storie.
Cattive abitudini e attività fisica intensa. Per entrambi i sessi, ad avere un numero più elevato di partner sessuali erano soprattutto i più giovani, i single e chi era economicamente più agiato o al contrario in difficoltà. Non solo: tra le abitudini dei più "farfalloni" c’è anche il fumo e il consumo di alcol con maggior frequenza e lo svolgimento di attività fisica intensa su base settimanale.
Più partner hai, più aumenta il rischio di cancro. Quando tutti i dati sono stati analizzati, è emersa un'associazione statisticamente significativa tra il numero di partner sessuali avuti nel corso della vita e il rischio di una diagnosi di cancro. Rispetto alle donne che non avevano avuto nessuna storia o soltanto una, quelle con 10 o più partner, avevano il 91% in più di probabilità di avere una diagnosi di cancro. Negli uomini, chi aveva avuto dai 2 ai 4 partner sessuali aveva una probabilità più alta del 57% mentre tra quelli con 10 o più fidanzate la percentuale saliva al 69%. Non solo: le donne con una vita sessuale più attiva avevano anche il 64% in più di probabilità di soffrire di una condizione cronica limitante rispetto a quelle che affermavano di avere avuto una sola storia.
Il rischio legato alle malattie sessualmente trasmesse. In questo tipo di ricerche, che si limitano a osservare i dati, non è possibile stabilire con certezza un nesso di causa-effetto. Ma questi risultati confermano quelli di studi precedenti che hanno dimostrato come le infezioni a trasmissione sessuale siano strettamente implicate nello sviluppo di diversi tipi di cancro ed epatite. “Anche se non sappiamo con precisione quali tipi di tumore sono stati diagnosticati - spiegano gli autori dello studio – possiamo ipotizzare che il rischio elevato di cancro è dovuto alla maggiore probabilità di contrarre infezioni a trasmissione sessuale". Un altro studio della Johns Hopkins Bloomberg School of Public Health, pubblicato su Annals of Oncology, aveva indagato sul rischio degli uomini di contrarre il virus nel cavo orale, scoprendo che dipende dal numero di partner con cui si hanno rapporti orali e dall'essere o meno fumatori. Se nelle donne la probabilità varia tra 0,7 e 1,5% (a seconda del numero di partner), se si è maschi fumatori e si hanno rapporti orali con più di 5 persone si arriva quasi al 15%. I numeri della ricerca sono americani, certo, ma il trend è lo stesso anche in Italia.
Spunti per campagne di prevenzione. Se altre ricerche confermeranno l’esistenza di un nesso causale tra il numero di partner sessuali e le condizioni di salute, si potrebbero realizzare delle campagne di prevenzione e programmi di screening che prendano in considerazione anche la vita di coppia. Resta da capire meglio anche le differenze legate al genere e soprattutto che solo nelle donne una vita sessuale più ‘dinamica’ si associa a malattie croniche: “Ci sfugge la ragione – dichiarano i ricercatori – visto che gli uomini tendono ad avere più partner sessuali e che d’altro canto le donne hanno maggiori probabilità di vedere un medico quando si sentono male, cosa che dovrebbe potenzialmente limitare le conseguenze negative per la salute”.
Valeria Arnaldi per leggo.it il 6 febbraio 2020. Aldo Morrone direttore scientifico dell'istituto San Gallicano di Roma, perché questo sensibile aumento di malattie sessuali? «Abbiamo registrato un netto aumento di sifilide e condilomi acuminati nella popolazione molto giovane e spesso dai malati ci è stato fatto esplicito riferimento a pratiche di chemsex. Sostanzialmente, i giovani approcciano l'attività sessuale, tramite diversi tipi di app, incontrano persone sconosciute con le quali hanno rapporti che possono essere di una sera o ripetuti nel tempo. Per non avere reazioni non gradite e aumentare le proprie capacità sessuali, i ragazzi fanno ricorso a farmaci».
Quando dice giovani a che età si riferisce?
«Parlo anche di minorenni. Abbiamo avuto il caso di un tredicenne e si arriva fino ai 17 anni. Moltissimi adolescenti hanno paura dell'impotenza. Non sanno neppure riconoscere le malattie sessualmente trasmissibili, non hanno conoscenza della complessità del rapporto sessuale, né dei suoi rischi. Manca una adeguata educazione sessuale».
Quali rischi comporta l'uso di questi aiuti farmacologici?
«I rischi non sono solo quelli legati alle infezioni sessuali, ma anche di carattere cardiologico. Uno degli effetti della sifilide peraltro è la maggiore facilità di contrarre l'Hiv. Chi è sano ha una maggiore capacità di contrasto in caso di contagio. Di chemsex si parla poco, è una realtà scarsamente conosciuta, ma è diffusa».
Che cosa si può fare per affrontare il boom di malattie sessualmente trasmissibili?
«Bisogna fare formazione. Assolutamente. Si deve parlare degli aspetti positivi di un rapporto sessuale, ma anche dei suoi rischi. Si possono fare test per Hiv e sifilide in pochissimo tempo, perfino davanti alle discoteche. Per la diagnosi è sufficiente la saliva. Poi servirebbero incontri nei consultori familiari. Dovremmo aiutare anche i giovanissimi ad avere le conoscenze necessarie a un corretto sviluppo sessuale».
Boom di infezioni veneree «Troppe app di incontri». Descritta per la prima volta nel XVI secolo, tanto affievolita da considerarsi ormai vinta tra gli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento, la sifilide, detta anche male francese, torna a fare paura. Numeri alla mano, infatti, si registra un sensibile aumento di casi a livello internazionale. E pure in Italia. La crescita di episodi non riguarda solo la sifilide ma, in generale, le malattie sessualmente trasmissibili. Secondo i dati dell'Organizzazione mondiale della Sanità, si verificano tre milioni di casi di infezioni sessuali al giorno nel mondo. Nel 2018 sono stati registrati oltre 357 milioni di casi di origine batterica e 745 milioni di casi virali. In particolare, si tratta di tricomoniasi con 143 milioni, clamidia con 131, gonorrea con 78, sifilide con 6,5. A ciò vanno aggiunte le stime relative al numero di persone che avrebbero contratto un'infezione genitale da virus dell'herpes simplex, oltre 410 milioni, e le donne con un'infezione da papillomavirus umano, più di 290 milioni. Il fenomeno cresce anche in Italia. A dare l'allarme è l'istituto San Gallicano di Roma. Per comprendere la misura di ciò che sta accadendo basta guardare al trend degli ultimi dieci anni. I dati, presentati a margine del convegno medico di alta formazione Le malattie sessualmente trasmissibili nel nuovo millennio: percorsi avanzati di prevenzione, diagnosi e terapie tenutosi a Roma, sono chiari. Le segnalazioni di infezioni sessualmente trasmissibili erano 4000 all'anno nel decennio precedente, oggi sono arrivate fino a 5300. A crescere, in particolare, è stata la sifilide, passata da 80 casi annui prima del 2000 a 420 casi annui dopo il 2000. I condilomi acuminati sono saliti dai 1500 casi annui registrati nel periodo fino al 2007 ai 3000 riscontrati tra 2008 e 2016. Le ragioni di questa nuova proliferazione di malattie che si credevano se non completamente superate, comunque ormai lontane dalla grande diffusione, secondo gli esperti dell'Istituto sarebbero da ricercare anche nella tecnologia, con le molte app che sono dedicate a favorire incontri tra sconosciuti, pure a fini sessuali. Velocità degli incontri, scarsa o mancata conoscenza tra gli individui, carenza o assenza di precauzioni creano un mix decisamente pericoloso. Il resto lo fa la chimica, con il chemsex, ossia il sesso sotto droghe, prese proprio per migliorare le prestazioni. Un gioco pericoloso, che vede al primo posto, tra le vittime, i giovani e i giovanissimi, che usano le app per incontri sessuali, anche di gruppo e, per assicurarsi prestazioni record fanno ricorso spesso ad aiuti farmacologici. Le stime Oms del 2019 evidenziano circa 661mila casi di sifilide congenita nel 2016, che hanno causato oltre 200mila morti neonatali.
· La Vulvodinia
Vulvodinia: "Ti toglie sessualità e femminilità". le Iene News il 3 marzo 2020. Nina Palmieri, nel servizio in onda stasera a Le Iene su Italia 1 dalle 21.20, ci porta alla scoperta della vulvodinia, una patologia che colpisce l’organo genitale femminile, e che comporta, oltre ad atroci dolori, privazioni quotidiane inimmaginabili. Come ci raccontano le giovani vittime. “Ti toglie la tua femminilità, ti toglie la tua libertà, perdi la tua sessualità, il tuo sentirti donna, ti toglie tutto e nessuno lo capisce e nessuno lo conosce. E nei casi peggiori ti dicono che tu stai bene, che sei tu che sei pazza!”. Valentina, Sara, Valeria e Rossella, sono ragazze giovani con una vita apparentemente normale. Ma la loro esistenza invece è stata stravolta dalla vulvodinia, una malattia neuropatica dovuta alla crescita di piccole terminazioni nervose, in maniera del tutto disordinata, a livello dell’organo genitale femminile. E, come ci raccontano, “è un problema anche solo fare la doccia o la pipì” . Un dramma di cui Nina Palmieri, attraverso le testimonianze delle ragazze affette da questa patologia, ci racconta nel servizio in onda stasera a Le Iene sui Italia 1, dalle 21.20. Un disturbo molto diffuso, ma di cui si sa pochissimo e che pochi specialisti sono in grado di diagnosticare e di affrontare. Un disturbo che porta con sé tantissime privazioni quotidiane, dal cibo al farsi una doccia, dal sesso al semplice dormire.
Vulvodinia: tormento per tantissime quasi sconosciuto al sistema sanitario. Le Iene News il 3 marzo 2020. È difficile anche solo fare una doccia, camminare o avere una vita sessuale: Nina Palmieri ci fa conoscere, attraverso le testimonianze delle giovani vittime, la vulvodinia, una patologia molto diffusa ma che in pochissimi conoscono e sanno curare Valentina, Sara, Valeria e Rossella sono ragazze normalissime, con una vita apparentemente normale. Ragazze che però portano con sé il peso di una malattia decisamente poco conosciuta, una malattia che gli nega anche la più semplice delle quotidianità: la vulvodinia. Ce la fa conoscere Nina Palmieri, che intervista le vittime di una patologia che colpisce l’organo genitale femminile, dovuta alla crescita di piccole terminazioni nervose, in maniera disordinata, a livello vulvare. Ce lo spiega un medico, uno di quei pochi in Italia che la conoscono e se ne occupano: “Un nervo è un po’ come un cavo elettrico, deve portare un segnale, la corrente... Quando queste terminazioni perdono l’orientamento, te lo portano in maniera disordinata”. Le conseguenze, per chi è affetto da vulvodinia, sono davvero difficili da accettare, perché i nervi che impazziscono danno letteralmente la scossa e il dolore si manifesta in modo molto diversi da donna a donna. Come in Valentina, che spiega: “Senti degli spilli conficcati dentro la carne… costantemente”. “Senti bruciare le viscere proprio, perché ti coinvolge tutto proprio”, aggiunge Rossella. Che aggiunge: “Sono stanca, stanca mentalmente di pensare a questa cosa. Dodici anni son lunghi, la vita di prima non me la ricordo più”. La patologia, che in pochissimi riescono a diagnosticare e a curare, richiede decine di medicinali assunti ogni giorno, che talora non riescono comunque a placare le sofferenze. Colpisce il 15% delle donne, una su 7. E il dolore porta con sé tutta una serie di quotidiane privazioni. “Io non posso mangiare glutine…”, spiega Sara mentre Valentina racconta: “A volte anche il contatto con l’acqua…quando faccio la doccia…...non riesco a dormire”. Il sesso, naturalmente, è un lontanissimo ricordo, come spiega Valentina: “Non ho rapporti da luglio, l’idea, la voglia c’è ma la reprimi”. “Ci sono due cose belle nella vita”, racconta Valeria, “mangiare e il sesso...” Per chi ci prova, raggiungere il piacere significa soffrire tantissimo: “È piacere misto a dolore, quindi dura meno... il corpo si protegge…” Oltre alla sofferenza fisica, le vittime devono combattere anche con le battutine delle persone sottovalutano il problema. “Sorridi sei così bella sei giovane… sei giovane”, racconta Sara. Rossella aggiunge: “Ti guardano come se fossi un marziano oppure non ti lamentare... sei sempre stanca e anche se non te lo dicono lo capisci da come ti guardano. E non parlo solo di fidanzati, parlo di amiche, amici…” E alle volte, come accaduto a Francesca, arrivi a pensare al suicidio: “La mia idea era buttarmi da qualche finestra…” Ci ha provato per due volte, ci racconta, ma alla fine l’amore l’ha salvata “”Lui è la mia grande forza... l’ho conosciuto nel pieno di questi casini... E mi ha chiesto di sposarlo”. Curare la vulvodinia è anche una battaglia costosisima, perché le cure non vengono riconosciute dal servizio sanitario nazionale. “Io spendo 500 euro al mese”, ci racconta Rossella, “ma sono solo palliativi”. Valeria conferma: “Se dovessi dirti quanto ho speso in 10-11 anni per questo problemi, credo potrei comprarmi un macchinone di quelli grandi, anche più di 50-60 mila euro”. Incontriamo il dottor Galizia, uno dei pochi urologi che in Italia si occupano di vulvodinia, una patologia colpirebbe circa una donna su 15: “Sono malattie giovanili, la massima incidenza è tra i 30 e i 40 anni, però si vedono anche tante ragazze molto più giovani”. Intanto Rossella, Valentina, Francesca, Valeria e Sara hanno trovato un primo modo per aiutarsi, un gruppo Facebook attraverso il quale si supportano e si scambiano le informazioni utili alla battaglia, dalle cure ai medici che se ne occupano. “Quando io sono entrata nel gruppo non avevo mai parlato con nessuno di questa cosa”, spiega Valentina, “e invece ci sono così tante altre donne…”. Prima che scoppiasse l’emergenza coronavirus abbiamo provato a contattare il ministro della Salute Speranza, ma adesso non è sicuramente il momento giusto. Caro ministro, non sottovaluti anche lei la patologia di queste giovani donne!
· La sindrome da odore di pesce marcio.
Che cos’è la sindrome da pesce marcio. La trimetilaminuria è nota come sindrome da odore di pesce. È causata da un’alterazione del metabolismo e da sbalzi ormonali ed è dall’elevato impatto psicologico. Mariangela Cutrone, Martedì 30/06/2020 su Il Giornale. La trimetilaminuria è una malattia metabolica rara nota anche come “sindrome da odore di pesce”. Secondo recenti ricerche scientifiche è causata da un’eccessiva produzione di un enzima chiamato trimetilamina. L’organismo si trova in condizione di produrre in eccesso la trimetilamina quando vi è un alterato metabolismo o dei particolari disturbi di tipo ormonale. Il primo caso clinico di questa malattia rara fu reso pubblico nel 1970. Di fatti la ricerca accurata su di essa fu pubblicata sulla nota rivista medica The Lancet. Questo disturbo spesso dipende dal tipo di regime alimentare che si segue. A favorirlo è l’eccessivo consumo di cibi in particolare carne e uova. Studi recenti hanno inoltre evidenziato che si registra una produzione eccessiva della trimetilamina nei soggetti obesi con insulino-resistenza e nei topi maschi obesi con insulino-resistenza. Essa viene rilasciata da questi soggetti attraverso il sudore, l'urina, il respiro e altri fluidi corporei. Di conseguenza il soggetto tende ad emanare un forte odore in tutto il corpo che sembra quello del pesce in tutto marcio. Nei casi gravi questo odore è forte e altamente sgradevole tanto da influenzare notevolmente la qualità della vita del soggetto stesso che si sente in imbarazzo quando si deve rapportare con gli altri o frequentare luoghi pubblici. L’intensità di questo odore varia da soggetto a soggetto. A soffrire di questa malattia rara sono maggiormente le donne rispetto agli uomini. Secondo i ricercatori ciò dipende da determinati ormoni sessuali femminili. Di fatti ormoni come gli estrogeni e il progesterone, possano aggravare considerevolmente i sintomi. Il problema peggiora soprattutto nel periodo della pubertà quando appunto si riscontra un’alterazione ormonale. Inoltre nel sesso femminile l’odore diventa più forte prima e durante il periodo mestruale, dopo l'assunzione di contraccettivi orali, e intorno alla menopausa. Questo sgradevole odore varia in base a diversi fattori noti, tra questi la dieta, le modificazioni ormonali, il livello di stress, la quantità di sudore prodotto, altri odori nello spazio circostante. La percezione dell'odore è fortemente influenzata anche dal senso individuale dell'olfatto. Può portare disturbi psicologici in chi ne è affetto e persino indurlo all’isolamento sociale. Infatti è una di quelle malattie considerate ad alto impatto psicologico. Attualmente non esiste una terapia di tipo farmacologico. Si può intervenire a livello alimentare. Gli esperti consigliano di ridurre i sintomi seguendo un’alimentazione di tipo vegetariano. Quindi bisognerà ridurre il consumo di cibi come pesce, carne, piselli, fegato, uova, soia e fagioli dalla propria dieta.
Ilaria Del Prete per leggo.it il 20 febbraio 2020. «Se dovessi descrivere la mia vita con una parola, sceglierei “rinuncia”, soprattutto ad una vita “normale”». Erica Astrea ha 35 anni, a prima vista nessuno potrebbe mai immaginare che soffra di una malattia talmente invalidante da averle fatto desiderare la morte sin da bambina. La ragazza di Teverola (Caserta) è tra le 15 persone in Italia affette da trimetilaminuria (TMAU), una malattia rara nota anche come sindrome da odore di pesce. Raccontare la sua storia le costa fatica. La prima volta lo ha fatto in un'intervista alle Iene, e ora - dopo un lungo anno di silenzio - torna a farlo per aiutare chi soffre come lei.
Erica, cos’è la sindrome da odore di pesce marcio?
«È una malattia del metabolismo che provoca un difetto nella normale produzione della flavina monossigenasi (FMO3)».
E quindi cosa le succede?
«Il mio corpo non è capace di degradare una molecola maleodorante (TMA) che si accumula nell’organismo e viene espulsa attraverso la sudorazione, la saliva, l’urina, il respiro e le secrezioni vaginali, provocando quale effetto l’emanazione di cattivo odore».
Di che tipo?
«Acido. Simile a quello del pesce marcio. Da qui il nome della sindrome».
Quando è comparsa la malattia?
«È presente sin dalla nascita, ma diventa evidente solo quando il bambino viene svezzato o quando inizia a ingerire cibi che contengono precursori della trimetilamina (come la colina, la lecitina, la betaina e la carnitina). Io non sentivo il mio odore, e anche i miei genitori ne erano assuefatti al punto da non notarlo. Ma non era raro che le persone attorno mi indirizzassero frecciatine parlando di igiene personale».
E lei come reagiva?
«Mi lavavo in modo compulsivo, arrivando a fare anche dieci docce al giorno».
Come è riuscita a individuare la malattia?
«Un giorno, avevo 30 anni, il mio ex fidanzato mi ha detto che in determinati momenti emanavo un odore simile a quello del pesce marcio. Così abbiamo iniziato ad indagare e siamo arrivati alla TMAU attraverso un test effettuato presso il centro di ricerca dell’Università di Messina, coordinato dalla dottoressa Antonina Sidoti. All’epoca era l’unico in Italia, oggi ce ne sono anche a Roma, Napoli e Bologna».
Prima di allora non aveva mai chiesto un parere medico?
«Sì. Gli specialisti che avevo consultato riconducevano il tutto a una questione psicosomatica. Ma io non ero pazza».
Come si comportano gli altri con lei?
«Sin da piccola ho notato atteggiamenti ambigui. La gente mi isolava. In treno, le persone cambiavano vagone. A scuola di danza, gli altri cambiavano sala. In ufficio, i colleghi aprivano porte e finestre anche d’inverno».
Altre persone soffrono del suo disturbo?
«In Italia esistono 15 casi diagnosticati. Ho parlato della mia malattia in un’intervista alle Iene e da allora almeno altre 40 persone sospettano di esserne affette. Ecco perché il mio impegno costante è la divulgazione».
Cosa può fare chi sospetta di avere la Tmau?
«Prima di sottoporsi al test è necessaria una visita medica con un genetista, che valuta il da farsi. Ad ogni modo vivere nel dubbio non porta alla risoluzione del problema, quindi la prima cosa da fare è mettere da parte la paura del pregiudizio della gente e trovare il coraggio per affrontare tutto. Gestisco in prima persona le pagine "Insieme per la Tmau" su Instagram, Facebook e Twitter in cui si possono trovare maggiori informazioni, oltre a un supporto morale».
Quali difficoltà affronta nel quotidiano?
«Oltre a quelle legate alla salute, soffro di sbalzi d’umore con alti (pochi) e bassi (molti). La mia ultima esperienza di lavoro è terminata proprio a causa della patologia. Ho avuto diversi colloqui, in cui ho sempre volutamente informato i miei interlocutori della patologia e in tutti i casi non sono mai stata ricontatta. Come pure non ho mai avuto riscontro alle numerose richieste d’aiuto indirizzate ai ministri della salute che si sono susseguiti nelle ultime due legislature».
E nella vita sentimentale?
«Prima della scoperta della malattia, la paura mi ha sempre limitato. Coglievo da parte dei miei ex fidanzati comportamenti strani. Certamente anche per chi mi sta accanto non è semplice: è una scelta che solo chi ama veramente può fare, considerate le numerose difficoltà».
Esiste una cura?
«No. Per cercare di minimizzare le conseguenze della TMAU seguo una dieta restrittiva, eliminando carne, pesce, uova, legumi, prodotti con lievito e cereali. Particolare accortezza dedico all’igiene del corpo, ma è fondamentale anche il supporto psicologico. Chi soffre di Tmau tende ad isolarsi, avere pensieri estremi: anche io ho vissuto e vivo tutt’ora momenti difficili».
· Il Mento sfuggente.
Da ortognaticaroma.it - maxilloroma.it il 16 gennaio 2020. Il mento sfuggente, un problema comune e in apparenza innocuo che in realtà nasconde, oltre che risvolti importanti sull’intera estetica del volto, ripercussioni di tipo funzionale e psicologico nella vita di chi ne è colpito. Da sempre, nell’immaginario comune, l’eroe viene rappresentato con una struttura mandibolare robusta e definita, mentre il nemico, spesso sciocco e codardo, con un mento retruso: ne sono esempio il quarterback delle commedie Usa che ha sempre una struttura ossea facciale ben sviluppata e di contro il nerd con la faccia piatta, dal mento sfuggente. Il mento e in generale il terzo inferiore del volto, rappresenta quindi una delle parti più importanti per l’estetica e l’equilibrio generale di un volto ma al tempo stesso è una delle caratteristiche estetiche più sottovalutate. Le persone in genere sono piuttosto consce di quali siano certi difetti estetici come la calvizie, il sovrappeso o il naso troppo grosso ma non sempre sono in grado di cogliere i vari difetti di allineamento del mento, che invece possono essere addirittura più penalizzanti di un naso importante. Spesso, ci si focalizza sul naso anche quando il naso di per sé non sarebbe da correggere, e appare penalizzante solo perché magari sembra troppo sporgente a causa di una retrusione. Il problema, può portare di riflesso ulteriori deficit estetici come rughe intorno alla bocca maggiormente evidenti, un contorno del collo e del mento poco definiti e uno sviluppo precoce del doppio mento. Le cause che portano a questo tipo di problema possono essere molteplici:
Congenita: il mento sfuggente è fin dalla nascita, vuole dire che la formazione difettosa del mento comincia dal grembo materno.
Micrognazia: la mascella inferiore è più piccola della mascella superiore.
Recessione attiva del mento: è una causa che raramente si verifichi dopo l’adolescenza.
Artrite della mascella inferiore o dall’articolazione temporo mandibolare che può causare la recessione del mento.
Malocclusione dento-scheletrica di II classe. Un mento piccolo, arretrato ed incassato, oltre a rappresentare un limite estetico, nasconde sempre problemi di tipo funzionale, come la difficoltà di masticazione per i problemi legati all’occlusione dentale difettosa, dolore dell’articolazione temporo-mandibolare, artrite che provoca dolore se si ride o si mangia, difficoltà respiratore, apnee del sonno e problemi posturali con conseguenti mal di schiena. L’anteface, che è quella condizione per la quale la porzione del volto intermedia e quella inferiore sporgono rispetto alla linea del volto, è considerata da alcuni chirurghi la soluzione estetica ideale per l’armonizzazione del viso: personalmente ritengo che non sia necessario intervenire cosi drasticamente, ma è fuori dubbio che un corretto allineamento del mento sia un requisito fondamentale per essere considerati belli.
Ma quali sono le possibilità di correzione estetico-chirurgiche di questo problema? In affiancamento alla tradizionale mentoplastica additiva ovvero quell’intervento di chirurgia estetica che ha come obiettivo di modificare la forma e il posizionamento del mento, oggigiorno, il nostro team ha ideato un innovativo intervento di chirurgia ortognatica legato al mondo dell’estetica: Beauty-full Chin che mira a risolvere definitivamente il mento sfuggente. Questa tecnica permette quindi di correggere i profili arretrati, i cosiddetti “bird face” quelli che hanno un decificit di sviluppo mandibolare e un terzo inferiore del volto poco rappresentato: un intervento perfetto per apportare maggiore definizione ai tratti somatici del volto, ideale sia per gli uomini che vogliono accentuare i loro lineamenti rendendoli più mascolini, sia per le donne che vogliono acquistare una perfetta simmetria facciale. Beauty-full Chin nasce quindi con l’obiettivo di correggere le più severe seconde classi dento-scheletriche, che si manifestano nei soggetti nei quali i molari, i premolari e i canini dell’arcata superiore toccano solo o addirittura scavalcano gli omologhi inferiori. L’intervento consiste nella combinazione di due specifiche tecniche, popolari nella chirurgia maxillo facciale: la genioplastica Chin Wing (plastica al mento) che consente di modificare il terzo inferiore del volto in tutte le sue dimensioni, unita all’intervento bimascellare “counterlockwise rotation” del piano occlusale. La genioplastica Chin Wing è una tecnica chirurgica che mira a poter mobilizzare tutto il bordo mandibolare inferiore. In termini pratici si tratta di una genioplastica allungata posteriormente fino agli angoli mandibolari. Il segmento così mobilizzato può essere portato in avanti o anche ampliato trasversalmente per meglio definire gli angoli mandibolari. La counterclockwise rotation è invece il movimento di rotazione del piano occlusale in senso antiorario rispetto alla visione di profilo. Si può ottenere riducendo la parte anteriore del mascellare (utile soprattutto in casi in cui si associa il gummy smile) o aumentando l’altezza del mascellare posteriormente o entrambe le cose contemporaneamente. La combinazione integrata dei due interventi, permette di avere, oltre che un enorme avanzamento della mandibola e quindi del mento, anche un interessante aumento del volume mandibolare, ridefinendo il profilo e aumentandone la definizione degli angoli (contorno mandibolare), il tutto, enfatizzando un incredibile effetto tridimensionale. Beauty-Full Chin garantisce di conseguenza molteplici vantaggi rispetto ad una normale mentoplastica, che interviene esclusivamente sull’osso mandibolare. L’intervento, infatti, corregge i difetti di occlusione, cioè di posizionamento delle due arcate dentarie: questo fattore determina quindi la possibilità di poter agire sia in soggetti che hanno precedentemente corretto eventuali malocclusioni attraverso un percorso ortodontico, sia in soggetti con il difetto in essere. L’intervento inoltre, estendendosi a tutto il bordo inferiore della mandibola, permette un avanzamento maggiore che non sarebbe possibile con la più comune genioplastica che creerebbe un antiestetico effetto step-off dovuto all’eccessivo avanzamento del mento. L’operazione, minimamente invasiva, della durata di circa tre ore, viene effettuata in anestesia generale: il taglio viene fatto nel bordo inferiore della mandibola e non incide assolutamente con occlusione e denti, pertanto non c’è bisogno di nessuna fase preoperatoria. L’utilizzo delle più moderne tecnologie, come il trapano piezoelettrico, garantiscono una precisione assoluta con il massimo rispetto dei tessuti nobili, come i nervi, che danno sensibilità al mento. Nel caso in cui il paziente abbia una buona occlusione si può ricorrere all’intervento senza necessità di ortodonzia, altrimenti può essere necessario un breve percorso con apparecchio fisso subito dopo l’intervento (surgery first) o poco prima e dopo l’operazione. Sono previste due notti di ricovero. Il paziente può alimentarsi con una dieta morbida fredda dalla sera stessa dell’intervento e usualmente non viene effettuato il bloccaggio intermascellare che consisterebbe nel posizionamento di elastici serrati tra le due arcate mascellari, impedendo ogni genere di movimento. Dopo 15 giorni in media si è in grado di tornare alle attività principali. Beauty-Full Chin ha un esito estetico pressoché immediato: già dopo il primo mese si nota un risultato che si avvicina all’80% del risultato finale; La vera soddisfazione arriverà però nell’arco di tre mesi quando il gonfiore sarà sparito del tutto e lascerà spazio ad una definizione del volto senza eguali.
· Questione di Lingua…
Melania Rizzoli per ''Libero Quotidiano'' il 19 gennaio 2020. Invece di esibirla inutilmente in modo provocatorio a chi vi sta antipatico, fatela a voi stessi la linguaccia, la mattina appena alzati davanti allo specchio, e guardatela con attenzione, soprattutto se non vi sentite bene, perché dall' osservazione della vostra lingua potrete intuire in anticipo una malattia covata o già manifesta, che questo importante organo preannuncia con puntuale anticipo. Durante qualunque visita clinica, il medico non dimentica mai di ordinarvi: «Fuori la lingua», poiché la sua visione diretta è un efficace e infallibile indirizzo diagnostico, sorta di cartina di tornasole del vostro benessere o malessere, un campanello d' allarme, una guida visibile di molte patologie che verranno poi confermate da esami più mirati. La lingua che esprime buona salute deve essere di colore roseo ai bordi, più chiara al centro, deve apparire umida, tonica, con margini lisci, e potersi estroflettere o sollevarsi sul palato senza difficoltà, poiché in caso contrario essa potrebbe riflettere malattie infettive, virali, batteriche o fungine, malattie del sangue, metaboliche, immunologiche, sistemiche, neurologiche, e finanche tumorali. È molto importante osservarne l' aspetto, il colore e il grado di umidificazione, perché una lingua secca e asciutta indica uno stato di disidratazione, di diabete scompensato o di problemi renali. Se la lingua appare pallida può suggerire un' anemia in atto, se ha una patina bianca dal centro ai bordi una malattia infettiva, una gastrite o un' ulcera dello stomaco, mentre quando si scurisce, e appare marrone o nera, rivela uno sviluppo batterico anaerobico, dovuto a gastrite o al consumo eccessivo di tabacco, il cui fumo si insinua tra le papille gustative annerendone la radice. Quando invece rivela un colorito giallastro nella superficie inferiore, accanto al frenulo linguale, ci avverte di un inizio di itterizia, ovvero disturbi in atto di fegato, cistifellea e bile, ancora prima che l' ittero compaia nelle sclere degli occhi, oppure un malfunzionamento della milza. Nei bambini il sintomo di esordio della scarlattina è la cosiddetta «lingua a fragola», dal momento che così appare come sintomo di esordio di questa malattia, prima della comparsa del caratteristico esantema cutaneo, mostrandosi esattamente come il noto frutto, di colore rosso scarlatto interrotto da puntini chiari sulla superficie dorsale, mentre invece il primo sintomo del morbillo sono macchioline rosso-giallastre non sulla lingua, ma sulla parete interna delle guance nel cavo orale. Al contrario, per chi vede comparire sul dorso linguale puntini rossi sparsi in modo irregolare, con aspetto di micro-angiomi, è sempre consigliabile eseguire un esame del fegato e dei polmoni per escludere formazioni angiomatose in tali organi vitali. COME UN TAPPETO La lingua, anche se lo sembra, non è mai completamente liscia, poiché è ricoperta da papille e villi gustativi, che al microscopio le danno un aspetto simile a un tappeto erboso, e che ogni settimana andrebbero spazzolati dolcemente. Ma se ad occhio nudo essa appare ruvida, si deve sospettare una carenza vitaminica (B6-B12) o una infezione sistemica non diagnosticata. La settimana scorsa è scomparso un grande personaggio del giornalismo italiano, Gianpaolo Pansa, e molti hanno pubblicato una sua foto scherzosa mentre fa la linguaccia al fotografo, ma ad una attenta osservazione quella sua lingua mostrava una patina bianca non omogenea, a chiazze, anch' esse biancastre e madreperlacee, che ad un occhio clinico allenato avrebbe potuto far sospettare una infezione fungina da mughetto o una infiammazione batterica, e comunque un sintomo di immunodepressione, ovvero di un sistema immunitario indebolito e deficitario, con difficoltà a contrastare le infezioni o infiammazioni, condizione che predispone sempre a varie malattie.
DIVERSE SINTOMATOLOGIE. La lingua «a carta geografica», ovvero quando su quest' organo essenziale per la fonazione e l' alimentazione compaiono fessure o solchi più o meno profondi, sia sul dorso che sui bordi, indica uno stato allergico, una dermatite atopica, o una reazione antigene-anticorpo compromessa, con interessamento del sistema immunologico di difesa. Quando invece appare completamente liscia, come ricoperta di pelle sottile, cosa che spesso fa virare il suo colore verso toni più scuri, vuol dire che insiste uno stato di deperimento organico che riduce o fa perdere i villi di superficie, a causa di diete drastiche prive di nutrienti fondamentali, di malattie epatiche, e soprattutto di malattie tumorali. La lingua erosa però può presentarsi anche in caso di lichen o di malattie infiammatorie del cavo orale, mentre un motivo di allarme deve insorgere sempre quando quest' organo si ingrossa senza un motivo apparente, quando al risveglio si notano ai bordi le impronte dei denti, perché tale situazione può dipendere da un mal funzionamento dell' ipofisi, una ghiandola secernente ormoni che si trova al centro del cervello, che ne favorisce l' accrescimento (gigantismo), e se la lingua si gonfia improvvisamente è sempre un sintomo di una reazione allergica avversa (tipo orticaria) che abbisogna di intervento terapeutico (cortisonico) immediato, dal momento che la lingua ha la sua radice nel profondo della gola, e può portare effetti di soffocamento. La lingua è un organo molto vascolarizzato, per cui quando viene feritasanguina abbondantemente, ma è anche un organo innervato, per cui è molto sensibile e soffre il dolore da trauma. Quando viene protusa fuori dalla bocca deve mostrare una direzione retta, perché se appare deviata da un lato o dall' altro rivela sempre un danno neurologico cerebrale, come accade nei casi di ictus, o di paralisi di nervi della testa e della faccia.
FUNZIONI IMPORTANTI. La lingua con la sua struttura fibro-muscolare svolge importanti funzioni gustative, tattili, fonetiche e masticatorie, e con il termine «glossite» si intendono fenomeni infiammatori a suo carico, sia di natura infettiva (candida, sifilide, Papilloma virus ecc), che di natura non infettiva (lichen planus, penfigo, allergie ecc), mentre la glossidinia indica invece la comparsa di sintomi quali dolore o bruciore, tipici dell ulcere virali o batteriche, oppure delle più innocue afte orali, che bisogna sempre distinguere da malattie della lingua più impegnative, come per esempio il carcinoma della lingua. Questa patologia nei primi stadi ha sintomi molto lievi se non assenti, ma si presenta sempre come una piccola ulcerazione non tendente a guarigione spontanea (come accade nelle lesioni benigne), e l' unico sintomo può essere un lieve bruciore e dolore allo stimolo meccanico. Ad un esame obiettivo l' aspetto di tale piccola ferita va differenziata dalle comuni ulcere di natura erpetica o aftosa, ma se persiste e non regredisce richiederà una diagnosi più approfondita. Attualmente la più comune neoplasia benigna della lingua è invece il condiloma da HPV, il Papilloma virus, il cui contagio avviene durante i rapporti sessuali, che appare come una minuscola escrescenza, e che comunque va sempre curato per la sua possibile futura trasformazione maligna.
I COMPITI DELLA SALIVA. La saliva ha, tra i suoi molti compiti, anche un' azione disinfettante, ma spesso non riesce a contrastare i virus e i batteri più aggressivi che prevalgono e si insinuano tra le papille e i villi della superficie linguale, dove, protetti dall' umidità e dal calore, esercitano la loro azione patologica. La comparsa sulla lingua dei segni di un gran numero di patologie locali o generali ha attivato una specifica strategia basata sull' informazione della popolazione, oltre che degli operatori sanitari, odontoiatri, medici di base e igienisti dentali, per il trattamento precoce di tali lesioni su un organo così importante, dotato di multifunzioni essenziali. Sempre che ognuno di noi, ogni tanto, si faccia delle grandi boccacce di fronte allo specchio, per osservare il proprio cavo orale con attenzione, aiutandosi con una fonte luminosa, per rivolgersi a un medico anche in caso di dubbio, poiché, per la salute generale, è sempre meglio aver sprecato un' ora per una visita inutile, che arrivare ad un esame tardivo le cui conseguenze possono essere gravi.
· La Glossofobia.
Come superare la paura di parlare in pubblico. Si chiama glossofobia e può essere completamente slegata dalla timidezza: ecco come affrontarla al meglio. Chiara Monateri il 19 Febbraio 2020 su La Repubblica. Chiara Monateri è docente di Sociology of Cultural Processes presso lo IED di Milano psicologia. Quando si tratta di parlare in pubblico, non bisogna generalizzare sul fatto che chiunque potrebbe avere un momento di ansia iniziale, facilmente “reprimibile”, per poi riuscire a condurre avanti con sicurezza un discorso. Il timore o l’insicurezza di parlare in pubblico, per chi ancora non lo sapesse, può essere una vera e propria fobia, detta per l’esattezza glossofobia. Ne hanno sofferto famosissimi come Barbara Streisand ed Ella Fitzgerald, Pavarotti, Adele e Fiorello. Secondo uno studio britannico condotto da YouGov UK nel 2014, è la terza paura più comune tra 13 che tengono sveglie le persone di notte, dopo acrofobia (paura delle altezze) e l'ofidiofobia, paura dei serpenti.
I sintomi. Alcune persone sono particolarmente portate per attività di tipo performativo in cui si trovano esposte ad un pubblico, ma per altre, invece, una situazione del genere può portare al panico più completo, con sintomi molto simili a quelli degli attacchi d’ansia: difficoltà nel respirare, sudori freddi, palpitazioni e voce strozzata. Questo tipo di fobia, inoltre, pare che affligga una larghissima parte delle popolazioni occidentali: nei soli Stati Uniti, ad esempio, ne è afflitto il 75% della popolazione. Il problema della diffusione della glossofobia non sarebbe particolarmente rilevante, se questa non fosse profondamente legata agli ambienti di lavoro: molti dipendenti infatti, arrivati ad un certo livello professionale, sono tenuti a tenere discorsi in pubblico, sia davanti ai propri team sia di fronte ad esterni, e riuscire ad affrontare questi momenti dimostrando sicurezza e solidità rappresenta certamente una qualità che viene valutata positivamente nei contesti manageriali. Come riuscire dunque ad affrontare un’ansia che sembra ingestibile? Abbiamo raccolto tutti i metodi necessari per cominciare ad interfacciarsi consapevolmente con questa tematica e per prepararsi a parlare in pubblico. Sette consigli per vincere la propria fobia:
1) Prepararvi darà i suoi frutti. Per prima cosa, se dovete tenere un discorso in pubblico ricordatevi che avete un ruolo rilevante, quindi cominciate a fare leva sulla vostra autostima: dovreste avere un moto d’orgoglio per l’incarico che vi è stato assegnato. I life coach e gli psicologi sostengono inoltre che prepararsi molto bene sarà sempre meglio che improvvisare, di fronte a situazioni del genere: se avete imparato un discorso davvero bene, anche in momenti di “vuoto”, in cui perdete il filo, saprete comunque riagganciarvi ad uno dei punti principali della vostra storia. Come uno sport, al di là del risultato finale, il parlare in pubblico riuscirà meglio a chi ha fatto della continua pratica una disciplina.
2) Concentratevi sul mantenere la calma. Quando si parla in pubblico, di solito conviene parlare più lentamente del solito, perché tutti i concetti vengano recepiti chiaramente, ma anche in maniera più ritmata e incisiva, due fattori che si possono migliorare attraverso l’esercizio. Questa metodologia è utile perché quando ci si trova in situazioni di imbarazzo, si tende a velocizzare il proprio parlato e magari a incappare in fenomeni che non si verificano mai nella vita di tutti i giorni, come il balbettare. Quindi, iniziare a provare il proprio discorso con un ritmo lento, poi da perfezionare e da dotare di ritmo e di vari accenti e sottolineature vocali, è la mossa giusta per non incappare involontariamente in incidenti di percorso.
3) Fate le prove davanti a uno specchio. Anche se sulle prime lo specchio può sembrare il peggiore dei nemici, in queste occasioni potrebbe diventare il vostro migliore alleato. Se inizierete a provare il vostro discorso davanti allo specchio, questo vi suggerirà tutti gli accorgimenti da apportare a come vi esprimente visivamente, dal cambio dell’espressione, fino e dove appoggiate lo sguardo e a come e quanto gesticolate. Dovete dedicare parecchia attenzione a quest’ultimo punto che spesso viene tralasciato: la tensione, infatti, potrebbe portarvi a gesticolare troppo e a sproposito, distraendo il pubblico. Proprio per questo motivo l’ideale è iniziare da subito a prepararsi ad un discorso che non è solo fatto di parole, ma anche di un linguaggio del corpo in armonia col messaggio che si vuole trasmettere.
4) Sceglietevi un audience ristretto. Se avete dei veri amici, questa potrebbe essere l’occasione giusta per chiedere il loro supporto. L’ideale per prepararsi alle effettive sensazioni che si avranno sul palco, per fare insomma una vera “prova generale”, è iniziare a provare la vostra performance davanti a un piccolo gruppo di amici. Il percorso più efficace è iniziare davanti ad una sola persona, per poi arrivare ad avere dai 3 ai 5 amici ad ascoltarvi: il provare con un’audience che piano piano si va gonfiando, vi darà delle piccole pillole di autostima che diventeranno la vostra spinta di sicurezza per affrontare il discorso ufficiale… anche le critiche costruttive, fatte da amici che sono davvero sinceri con voi, saranno molto utili da tenere a mente.
5) Focalizzatevi sui pensieri positivi. Non conta solo prepararsi per occasioni di questo tipo, ma bisogna concentrarsi esclusivamente su pensieri positivi. Se praticate già discipline come yoga e meditazione, per esempio, potete essere avvantaggiati sul giusto mindset per queste performance, che necessitano di una forte dose di proattività e positività. Chi soffre di ansia legata al parlare in pubblico si crea spesso una trappola mentale che lega la performance a pensieri negativi come la non-riuscita o il disaccordo del pubblico, quindi se si è abituati a creare un momento di calma e positività, si avrà un’arma utile in più per prepararsi ad effettuare un buon discorso.
6) Pensate al pubblico. Un trucco per non concentrarvi troppo su voi stessi, è focalizzarvi sul pubblico, anche a buona ragione: state per parlare ad un gruppo di persone che si raduna per imparare o ispirarsi ascoltando il vostro discorso, ed il vostro fine è proprio quello di arrivare a loro nel modo migliore, e “soddisfarli” nelle loro aspettative. Proprio per questo motivo, prima di salire sul palco visualizzate nella vostra mente la soddisfazione del vostro audience, la “riuscita” del vostro discorso invece della performance nei dettagli: questa immagine vi darà una spinta positiva, spazzando via il focus esclusivo su voi stessi che potrebbe procurarvi ansia.
7) Piacevoli e d’impatto, non perfetti. Anche l’estetica vuole la sua parte: presentatevi con un bell’aspetto e con abiti che rispecchiano la vostra figura lavorativa, così da esprimervi in tutta la vostra persona. Ricordatevi che l’estrema perfezione non piace a nessuno, e soprattutto non è necessaria per un discorso di successo. La cosa più importante è risultare a vostro agio e “vicini” a chi vi sta ascoltando. Pensate a grandi relatori come Barack Obama, e scegliete a chi ispirarvi: l’ex presidente USA sembrava sempre naturale, sincero e professionale, e queste tre caratteristiche personali lo hanno reso un oratore memorabile.
· Gli Integratori.
Simona Regina per “la Stampa” il 9 febbraio 2020. Per chi ha problemi di salute ci sono i farmaci. Il target degli integratori, invece, sono le persone sane. Del resto, come sottolinea l' Efsa, gli integratori «non sono medicinali» e, in quanto tali, non possono vantare funzioni terapeutiche. «Pertanto - continua l' Autorità Europea per la Sicurezza Alimentare - il loro uso non ha lo scopo di trattare o prevenire malattie nell' uomo o di modificarne le funzioni fisiologiche». Di fatto, ai sensi della direttiva 2002/46, gli integratori sono equiparati agli alimenti. Prescritti dal medico, consigliati in farmacia e sponsorizzati dall'«influencer» di turno, gli integratori spopolano sugli scaffali: pillole, estratti, capsule, barrette, con cui fare rifornimento di vitamine, minerali, antiossidanti, acidi grassi essenziali, fibre, piante, estratti di erbe...Ma questo rifornimento è effettivamente necessario? «Dipende», risponde Renato Bruni, docente di biologia farmaceutica all' Università di Parma, che con il suo nuovo libro, «Bacche, superfrutti e piante miracolose» (Mondadori), offre una bussola per orientarsi meglio e con consapevolezza nel sempre più vasto mondo degli integratori dalle mille promesse. Già, perché promettono di rafforzare il sistema immunitario, di contribuire a ridurre il colesterolo, il rischio cardiovascolare, la cistite e altro ancora. Ma è davvero così? «Se effettivamente vitamine, sali minerali e altri nutrienti sono fondamentali per mandare avanti il meccanismo biochimico del nostro corpo, dobbiamo ricordarci che li assumiamo regolarmente mangiando, se la nostra è una dieta sana ed equilibrata». L' uso dell' integratore, dunque, va contemplato solo in caso di un' accertata carenza, rilevata attraverso gli esami del sangue, o per soddisfare un aumentato fabbisogno dell' organismo. È il caso, per esempio, della necessaria integrazione di vitamina B12 e ferro per chi segue una dieta vegana o di acido folico per le donne in gravidanza. Attenzione, quindi, a non fare dell' integratore una sorta di alibi per giustificare cattive abitudini. Lo ricorda anche il ministero della Salute: è erronea la convinzione di poter compensare gli effetti negativi di comportamenti scorretti ricorrendo a un integratore alimentare. Basta pensare, per esempio, agli antiossidanti: servono eccome, ma «a fare davvero bene - spiega Bruni - è la dieta ricca in frutta e verdura, con le famose 5-7 porzioni giornaliere. Non si trae, invece, lo stesso beneficio, in termini di prevenzione delle malattie associate allo stress ossidativo, con l' assunzione di integratori di antiossidanti. Il beneficio, confermano infatti diversi studi, c' è solo se queste sostanze sono fornite da autentica frutta e vera verdura che ci garantiscono l' apporto di una combinazione di polifenoli, carotenoidi, vitamine, fibre e così via». Stesso ragionamento - spiegano gli specialisti - vale per gli ormai famosi omega 3: per ridurre il rischio cardiovascolare meglio mangiare regolarmente pesce. Del resto, le ultime linee-guida per una sana alimentazione del Crea, il Centro di ricerca alimenti e nutrizione, ricordano che è sbagliato pensare che un singolo nutriente, da solo, al di fuori di una dieta corretta possa rallentare l'invecchiamento, proteggere dai radicali liberi, dalle malattie cardiovascolari o, addirittura, dal cancro. In ogni caso, prima di assumere un integratore, è consigliabile parlarne con il medico, perché questi prodotti non sono esenti da effetti collaterali: se si superano le dosi consigliate oppure se, contemporaneamente, si sta seguendo una terapia farmacologica. Ma allora quando servono? Servono - è bene sottolinearlo - quando per ragioni mediche, per esempio per allergie alimentari o per scelte etiche, si segue una dieta selettiva che non garantisce l' apporto di tutti i nutrienti utili all' organismo. Oppure in caso di attività sportiva, solo se intensa e prolungata, potrebbe essere utile reintegrare i minerali persi (in particolare il sodio) e le scorte energetiche. Ingiustificato è invece, secondo le linee-guida del Crea, l' uso di altri integratori proteici o di amminoacidi. Ci sono poi alcune fasce della popolazione che non riescono ad assumere le quantità ottimali delle sostanze nutritive: per esempio gli anziani e le persone che convivono con malattie che interferiscono con il loro assorbimento, come l' osteoporosi, la malattia di Crohn o l' anemia da ferro. È documentato, per esempio, il bisogno di supplementazione per gli «over 50» di calcio e vitamina D, mentre ai neonati, l' Organizzazione Mondiale della Sanità raccomanda la somministrazione, subito dopo la nascita, di vitamina K, che stimola una corretta coagulazione del sangue. In generale - conclude Bruni - di fronte all' offerta vastissima di integratori si dovrebbe valutare attentamente se ci sono prove della loro efficacia e quanto effettivamente il loro uso possa apportare benefici concreti tali da giustificare la spesa. Si pensi al cranberry, il mirtillo rosso americano. Gli integratori a base di questa pianta vengono proposti per la prevenzione delle infezioni ricorrenti del tratto urinario. Gli studi confermano che, a determinati dosaggi, contribuiscono a ridurre di circa il 30% la frequenza di recidive di cistite. Il punto è che, «se incorriamo in una ricaduta all' anno, dovremmo assumere cranberry regolarmente per tre anni prima che ci regali una ricaduta in meno. Se invece abbiamo a che fare con otto episodi di cistite ogni 12 mesi, il mirtillo rosso americano potrebbe ridurle a sei».
· Gli alimenti salutari.
Dagospia il 29 agosto 2020. SAPETE A QUALE GRADO DI MATURAZIONE MANGIARE UNA BANANA? CHI SOFFRE DI DIABETE PUÒ OPTARE PER LA VERSIONE VERDE E ACERBA: È UNA FONTE DI PROBIOTICI OTTIMI PER LA SALUTE DELL’INTESTINO, MA PUÒ FARCI SENTIRE PIÙ APPESANTITI PER LA PERCENTUALE DI AMIDO – QUANDO IL FRUTTO È GIALLO HA UN ALTO INDICE GLICEMICO E RISULTA PIÙ DIGERIBILE – LA BANANA “MACCHIATA”, INVECE, È RICCA DI…Da "lastampa.it" il 29 agosto 2020. La banana è uno dei frutti più condannati nelle diete a causa di un mito che la vuole ipercalorica. In realtà, come dice la nutrizionista Analía Moreiro, è un frutto completo che «fornisce vitamine, magnesio e potassio, aiuta a regolare l'attività intestinale e migliora il sistema immunitario». Il team di dietisti e nutrizionisti della High Performance Nutrition Australia ha fornito alcuni consigli su come e quando mangiare questo frutto.
DAGONEWS il 14 settembre 2020. Bere acqua fa bene alla pelle e aiuta ad avere meno fame. È quanto emerso da un sondaggio di OnePoll che ha esaminato le abitudini di duemila britannici durante il lockdown. Più di un quarto degli intervistati ritiene di avere la pelle molto più luminosa nei giorni in cui beve più acqua e quasi un quarto (il 23%) si sente meno affamato. Quattro su 10 si sentono più riposati nei giorni in cui consumano più acqua. Dallo studio è emerso, però, che il 28% non ricorda sempre di mantenersi idratato, ma durante il lockdown il 36% ha dichiarato di aver bevuto più acqua.
Melania Rizzoli per “Libero Quotidiano” il 3 agosto 2020. Bere troppa acqua senza seguire le indicazioni del nostro organismo è dannoso per la salute, perché molti sono i problemi che possono insorgere assumendo quantità troppo elevate di liquidi senza averne necessità. Con il caldo di queste settimane tutti noi tendiamo ad idratarci in maniera superiore, senza pensare che l' abuso di acqua ingerita, quando esagerata, può avere conseguenze molto negative, addirittura pericolose, poiché il meno che possa capitare è una sudorazione eccessiva, ma contraccolpi seri possono riguardare cervello, che potrebbe non riuscire a controllare la gestione dei liquidi aumentati, e il cuore, organo vitale che si troverebbe a pompare sangue troppo diluito con conseguenti problemi cardiologici. È stato coniato addirittura un nuovo termine medico, "Aquaholism", per indicare una forma esagerata di consumo di acqua, che può portare, in casi estremi, ad una vera e dipendenza, che, al pari dei quella dell' alcolismo, ha come effetto negativo la tendenza a bere anche quando non se ne sente il bisogno. Se non si è in presenza di una particolare malattia che lo impone, bisogna bere quando si ha sete, ovvero quando il nostro corpo ce lo chiede, e comunque non bisognerebbe superare 1,5/2 litri al giorno, anche se è difficile stabilire il giusto quantitativo di acqua da assumere quotidianamente perché molto dipende da fattori soggettivi ed oggettivi. Nella stagione invernale ad esempio si tende a bere di meno perché si suda di meno, mentre se si svolge intensa attività fisica o si sta ore sotto il sole, si avverte il bisogno di dissetarsi in maggior misura, per compensare i liquidi persi con la sudorazione. Inoltre molto dipende dall' alimentazione che influisce in modo determinante sul senso della sete, soprattutto quando si ingeriscono cibi salati. Detto questo, non bisogna pensare che si sia nel giusto quando si beve poco o quando non lo si fa nonostante la sete, poiché se si avverte l' esigenza di bere significa che il nostro organismo ci sta comunicando di essere in debito di liquidi, una richiesta che va sempre e comunque assecondata. Molte persone sono convinte che bere molto aiuti l' organismo a depurarsi mediante l' aumento della minzione, come erroneamente suggeriscono alcuni spot pubblicitari molto popolari, ed hanno l' abitudine di girare muniti di una bottiglia d' acqua dalla quale attingono a ritmi elevati, ignorando che l' abuso di liquidi in alcuni casi può avere conseguenze dannose se non pericolose, che vanno dal semplice aumento della sudorazione ad intossicazioni con contraccolpi che possono riguardare l' apparato cardiovascolare, quello renale e quello neurologico. Per fortuna raramente accade che un' assunzione eccessiva di acqua per via orale causi iper-idratazione, in quanto di solito i reni in buona salute sono in grado di espellere facilmente i liquidi in eccesso, soprattutto se non si hanno deficit all' ipofisi, alla tiroide, e se il fegato ed il cuore funzionano regolarmente. Le intossicazioni da acqua invece, si presentano quando l' organismo assorbe più acqua di quanta non sia in grado di eliminarne, per cui si può sviluppare iperidratazione con edemi declivi (caviglie gonfie), soprattutto se esiste una patologia che riduce la capacità dell' organismo di espellere liquidi o che aumenti la tendenza a trattenerli. Inoltre quando si assume una quantità eccessiva di acqua, il sodio presente nel sangue viene diluito, ed essendo questo un elettrolita essenziale multifunzionale, la diminuzione della sua concentrazione (iponatriemia) provoca subito sintomi tipici che variano da disturbi organici a psicotici, a seconda del livello ematico raggiunto. L' iperidrataziome comunque è molto più comune nei soggetti in cui l' eliminazione urinaria non avviene normalmente, come accade per esempio in molte malattie cardiache, renali od epatiche, o come accade a chi fa uso regolare di antidepressivi, farmaci che favoriscono la ritenzione idrica. Bere troppo inoltre, provoca anche problemi di insonnia agendo in maniera negativa sull' ormone che regola l' attività dei reni durante il riposo notturno. Certamente ci sono casi patologici specifici in cui è necessario bere di più, come nel caso della calcolosi renale, delle cistiti, ed in tutte quelle situazioni in cui è necessario espellere ogni giorno una quantità di urina pari a circa due litri, come accade nelle cardiopatie, oppure quando bisogna reintegrare i liquidi persi, come nel caso delle gastroenteriti con diarrea, o negli stati di disidratazione. Al contrario ci sono stati casi in cui gli atleti delle maratone si sono caricati di acqua ed alcuni sono addirittura morti perché avevano bevuto sotto sforzo oltre il necessario. Il rischio infatti é la succitata iponatriemia o intossicazione da acqua, un disturbo elettrolitico in cui la concentrazione del sodio nel plasma diventa più bassa del normale, cosa che provoca sintomi che vanno dalla letargia, nausea e convulsioni, fino all' arresto cardiaco. Quindi otto bicchieri di acqua al giorno sono spesso eccessivi anche in agosto, e lo "stop alla idratazione" è un segnale che arriva direttamente dal cervello quando sono stati ingeriti troppi liquidi, per cui bisogna comunque seguire il senso della sete e bere quando se ne sente il bisogno, una regola fondamentale da non sottovalutare, e soprattutto bere acqua, la bevanda più dissetante, che non contiene calorie e non fa ingrassare, per mantenere in attento equilibrio dei volumi di liquidi nel nostro fragile organismo, esposto alla calura di questa stagione.
Jessica D' Ercole per “la Verità” il 2 agosto 2020. Sir Winston Churchill sosteneva che «il gin tonic ha salvato più vite e menti di inglesi, che tutti i medici dell' Impero». Quello che non sapeva è che il gin avrebbe salvato anche la Royal Collection Trust, la charity che amministra le residenze reali aperte al pubblico, messe a dura prova dal coronavirus.
La regina Elisabetta, che ha dovuto licenziare 200 dipendenti, ha deciso di produrne uno tutto suo, il Buckingham Palace Dry Gin, con 12 erbe raccolte direttamente nei 16 ettari di giardini del suo palazzo. Quaranta sterline per 70 centilitri di puro spirito reale che andranno a rimpinguare le casse della charity. E, dato che il gin tonic è il cocktail dell' estate 2020, il primo lotto è andato esaurito in una manciata di minuti dal lancio. Il secondo, previsto per il 16 ottobre, è già in prevendita. D' altronde il gin, anche se nato in Olanda con le bacche di ginepro, è il distillato inglese per antonomasia. Se in epoca vittoriana veniva usato per addolcire l' amaro del chinino somministrato ai membri della Compagnia britannica delle Indie orientali come rimedio contro la malaria, oggi Sua Maestà il gin ama sorseggiarlo con del Martini davanti al camino d' inverno, con la tradizionale acqua tonica per rinfrescare le estati. I bartender di corte hanno fatto sapere che il gin tonic reale viene preparato in «un bicchiere modello tumbler pieno di ghiaccio con mezza parte di gin e mezza di tonica, guarnito con una fetta di limone». Elisabetta, che ha ereditato la sua passione per il gin dalla madre, non beve da sola: a farle compagnia anche suo marito Filippo Mountbatten. Il 20 novembre del 1947 ne trangugiò uno alle 9 del mattino in soli due sorsi. Mezz' ora dopo era all' abbazia di Westminster per sposare la futura regina davanti a 2.500 invitati. A confermare la passione dei britannici per il gin tonic anche l' attore Hugh Grant: «Mia madre sostiene che molti inglesi hanno bisogno di due gin tonic per stare bene. Io, forse, sono uno di loro...».
Reali e inglesi però non sono gli unici ad apprezzare il gin. Tra gli scrittori americani non ne poteva fare a meno Francis Scott Fitzgerald. Nei ruggenti anni Venti, le sue serate mondane venivano sempre annaffiate con abbondante Gin Rickey, ovvero gin (all' epoca di contrabbando) con acqua minerale, succo di lime e tanto ghiaccio. A Fitzgerald questo drink piaceva molto anche perché era convinto che il gin fosse l' unico alcolico di cui non restasse traccia nell' alito. Lo fece bere persino a Daisy e Tom ne Il grande Gatsby.
In Shaker. Il libro dei cocktail, libro scritto con Roberto Leydi nel 1961, Umberto Eco ricordava che «l' alcolico più facile da trovare nell' America del proibizionismo era il gin. Se raro era il whisky e rarissimo il cognac, il gin saltava fuori da tutte le parti e ciò per la semplice ragione che il gin si può fare in casa, nella vasca da bagno. Certo il risultato di questa produzione familiare non era straordinario, ma in tempi alcolicamente tanto difficili poteva anche passare. Oggi le circostanze sono tali che il sistema del bagno non è più consigliabile. Si trova senza alcun dubbio del gin migliore dal droghiere sotto casa». Tuttavia se qualcuno volesse cimentarsi a fare il gin in vasca bastano 20 litri di alcol, bacche di ginepro, semi di anice stellato, angelica, sedano, bucce di arancia, mandorle, cannella. Si lascia il tutto in infusione per qualche giorno mescolando di tanto in tanto. Infine lo si filtra travasandolo nelle bottiglie.
Eco apprezzava il Martini cocktail tanto da definirlo «il nepente, segno di civiltà». In realtà più che un Martini cocktail, il professore beveva Gin Martini on the rocks in proporzioni 16:1, lamentando che non tutti lo sapessero fare come piaceva a lui: «Pochi i luoghi dove bere sicuri: due o tre bar a Bologna, due a Milano, ma nessuno a Parigi, per la semplice ragione che in Francia non lo sanno fare, neppure se glielo spieghi direttamente al banco. So di andare sul sicuro al Peninsula di Hong Kong, all' Otani di Tokyo o al Raffles di Singapore, ma non si creda che negli Stati Uniti lo sappiano fare ovunque».
In una delle Bustine di minerva pubblicate da Eco sull' Espresso si leggeva: «Gli americani bevono tre Martini a colazione, io li batto di gran lunga, ma con il Gin Martini alla mia maniera», perché come scriveva il premio Pulitzer americano Bernard DeVoto in The Hour: A Cocktail Manifesto: «La giusta unione fra gin e vermouth è una magnificenza enorme e improvvisa; è uno dei matrimoni più felici della terra». Altro scrittore appassionato di gin, tanto da inserirlo tra le righe di La gatta sul tetto che scotta e Un treno chiamato desiderio, era Tennessee Williams. Lui preferiva il Ramos Gin Fizz, un cocktail a base gin con uovo, crema, succo di lime, limone, fiori d' arancio e acqua tonica. Ancora oggi, a New Orleans, questo drink viene bevuto in onore del drammaturgo americano.
Ed Ernest Hemingway, che di alcol ne capiva qualcosa, quando tornò in Italia nel 1948 per rivedere i luoghi della guerra, si assicurò che nella Buick azzurra che lo doveva portare da Genova a Cortina ci fosse, oltre alla quarta moglie Mary, anche una riserva di Gordon Gin.
«Un colpo alla testa». Il distillato di bacche di ginepro, è un ingrediente fondamentale anche de La caduta del francese Albert Camus: «Per fortuna che c' è il gin, il solo lume in questa oscurità. Percepisci la luce dorata che ti accende dentro? Mi piace passeggiare per la città di sera nel calore del gin». Tornando nel Regno Unito, in 1984 George Orwell ricorda che il «Victory Gin era come acido e, per di più, quando lo si manda giù si ha la sensazione di venire colpiti dietro la testa con una mazza. Poco dopo, però, la sensazione bruciante nello stomaco si placò e il mondo cominciò a sembrare più felice». Non ha mai nascosto il suo debole per il gin anche J.K. Rowling, madre di Harry Potter e di Jessica. Nel 1990, rimasta single con la figlia appena nata, era solita fare lunghe passeggiate all' aperto per le vie di Edimburgo per far addormentare la sua piccola. Non Jessica crollava, la mamma si fermava in pub, ordinava un gin tonic e dava vita al piccolo mago. In una nota a margine delle bozze di Harry Potter ha anche scritto «I want a large gin».
Lo scrittore e saggista britannico Martin Amis, su RivistaStudio, ha ricordato una sbornia epocale con Anthony Burgess, l' autore di Arancia meccanica: «Abbiamo cominciato con i gin tonic (due ciascuno), per poi passare a una quantità pazzesca di vino rosso di non eccelsa qualità. Io ho cercato di fare del mio meglio per tenere il passo di Burgess, che, alle cinque, aveva preso a bere un brandy doppio dopo l' altro come se si trattasse di una gara: tre sorsate, sollevava il bicchiere e ne ordinava un altro. Alle sei ha chiesto un gin tonic. Che ha posto fine alla seduta. I postumi sono stati per me di proporzioni terrificanti e sono durati per mezza settimana». Burgess era un fan anche dell' Hangman' s Blood, un cocktail fatto con whisky, rum, port, brandy, stout, champagne e ovviamente gin. Nelle pagine di A Journey - Un viaggio l' ex premier Tony Blair rispose a chi gli dava dell' alcolista che beveva «un gin tonic prima di cena, poi due bicchieri di vino, a volte mezza bottiglia. Insomma, non troppo». Tra i politici, anche l' ex premier Mario Monti gradisce il gin tonic e l' ex presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker, che ha sempre negato problemi con l' alcol, ha ammesso di concedersene uno ogni tanto ma «solo in estate». In fondo, come ha detto Letizia Battaglia, la fotografa che con le sue immagini ha raccontato la Mafia e la sua Palermo: «Anche il gin tonic può essere un atto politico, visto che alla mia età è sconsigliato da tutti i medici, ma io lo bevo lo stesso». Va detto che, gin tonic dopo gin tonic, Elizabeth Bowes-Lyon, la Regina Madre, arrivò a 102 anni. Lei, del gin, fece un elisir di lunga vita.
Lunga vita al pomodoro, silenziando un gene. Pubblicato martedì, 07 luglio 2020 da La Repubblica.it. Hanno trovato il gene responsabile del processo di invecchiamento della pianta di pomodoro: si chiama Heb, come la dea della giovinezza della mitologia greca, perché la sua disattivazione permetterà di ottenere coltivazioni più longeve e produttive. Il risultato è pubblicato sulla rivista Scientific Reports dai ricercatori del Dipartimento di Bioscienze dell'Università Statale di Milano. Lo studio dei processi di maturazione e invecchiamento delle piante è di grande interesse in agricoltura: poter prolungare la vita della pianta e la capacità fotosintetica delle sue foglie permette infatti di aumentare la biomassa, la resa delle colture, la conservazione e l'accumulo di sostanze preziose. Quando una foglia ingiallisce inizia un processo di senescenza che è caratterizzato da diversi cambiamenti, come lo smantellamento degli organelli delle cellule e la degradazione della clorofilla. Questa cascata di eventi è regolata da molecole (fattori di trascrizione) chiamate "Nac": il loro compito è quello di legarsi al Dna per regolarne la trascrizione, ossia il processo con cui l'informazione contenuta nei geni viene copiata in una molecola di Rna messaggero da tradurre poi in proteina. Tra questi fattori di trascrizione Nac, i ricercatori ne hanno identificato uno che è espresso in particolare nelle foglie e nelle gemme fiorali: lo hanno chiamato Heb e hanno osservato che regola i geni coinvolti nel processo di senescenza, andando ad attivare segnali che determinano la disidratazione dei tessuti e lo smantellamento della clorofilla. Il suo silenziamento nel pomodoro porta alla produzione di piante che rimangono giovani e verdi più a lungo, con foglie dotate di una migliore capacità di fare fotosintesi e un contenuto più alto di clorofilla. Questo risultato, seppur preliminare, pone le basi per future applicazioni che consentiranno di sviluppare coltivazioni più longeve e produttive.
LA DELIZIA D’ORIENTE – STORIA DI SUA MAESTÀ LA MELANZANA, ARRIVATA A NOI SOLO NEL MEDIOEVO E DIVENTATA UNA DELLE REGINE DELLA CUCINA. Gemma Gaetani per "La Verità" il 7 luglio 2020. Recita un motto popolare che ha anche la versione tarantina: «La melanzana non mangiarla se non sei sano». Nella città pugliese dal cui toponimo derivano i sostantivi «tarantella», «tarantismo» e «tarantola» il proverbio diventa, appunto, «'A marangian no tt' a mangia' c no ssi' san» e la spiegazione del monito, che in senso figurato consiglia di non fare il passo più lungo della gamba, sta nel contenuto di solanina della melanzana. La Solanum melongena, questo è il suo nome botanico, è il frutto commestibile della pianta angiosperma (cioè coi semi nel frutto) dicotiledone (cioè col seme suddiviso in due cotiledoni) della famiglia delle Solanaceae come patata, pomodoro, peperoncino, tabacco. Si tratta della versione addomesticata in Asia della specie selvatica Solanum incanum: i primi esemplari importati dall'Oriente nel nostro Occidente erano lievemente tossici, avendo un contenuto di solanina superiore a quello odierno, e perciò si consigliava di non mangiarli se già non si era in forma.
MAI MANGIARLA CRUDA. La solanina dell'attuale melanzana non deve destare estrema preoccupazione: nella melanzana cruda, il contenuto in solanine (-solanina, solasonina e solamargina) è pari a 9-13 mg per 100 g, meno della metà del valore considerato accettabile per gli ortaggi cioè 20-25 mg per 100 g. Per intossicarsi col glicoalcaloide che la pianta sviluppa per proteggersi da funghi e parassiti bisognerebbe assumere 2-4 chili di melanzane crude, tuttavia è consigliabile consumare sempre e solo melanzane cotte, perché un'intossicazione anche minima può creare sgradevoli disturbi gastrointestinali (già la cottura a meno di 243 °C, temperatura a partire dalla quale la solanina degrada completamente, non la elimina del tutto, quindi evitiamo di aggravare la cosa col consumo a crudo). Dicevamo delle prime melanzane che giungono in Europa con più solanina di oggi: nonostante fossero conosciute fin dalla preistoria in Asia, troviamo la prima citazione scritta della melanzana nell'antica guida cinese all'agricoltura dell'anno 544 Qimin Yaoshu, le melanzane giungono da noi nel Medioevo per il tramite arabo di mercanti mediorientali che le introducono prima in Italia e in Spagna e poi nel resto d'Europa. Proprio come accade per altre piante, anche solanacee come il pomodoro, le melanzane non diventano subito una tipica coltura alimentare europea, in primo luogo perché le si riteneva velenose oppure afrodisiache, erano cioè percepite come pianta più medicinale che alimentare. Rappresentate per la prima volta nel manoscritto miniato italiano del XIV secolo Il libro de casa Cerruti, divennero vere e proprie protagoniste della cucina solo quando lo diventò anche il pomodoro (che, importato in Europa dopo la scoperta dell'America, si è affermato come alimento prima in Italia e poi nel resto d'Europa solo nel XVIII secolo).
DAGLI ARABI ALLA SICILIA. Molte ipotesi sulle origini della ricetta italiana per eccellenza con le melanzane, cioè quelle melanzane alla parmigiana diffuse innanzitutto in Sicilia, Calabria e Campania e dal sud assurte a piatto a diffusione nazionale, datano la nascita del piatto tra XVII e XVIII secolo, in convergenza, appunto, con l'exploit del pomodoro. Poiché è arrivata nel Mediterraneo ben dopo l'epoca degli antichi greci e romani, il suo nome non ha etimologia latina o ellenica e deriva direttamente dall'arabo bdingin: «petonciana», «petonciano» o anche «petronciano» sono i primi nomi italiani, ora in uso soltanto in Sicilia. Per evitare fraintendimenti sulle sue proprietà, che potevano nascere dall'interpretazione di «peto» come suffisso (che in realtà non è), si sostituirono quelle due sillabe con mela: la «petonciana» diventò «melanciana» e poi melanzana, che, per paraetimologia, venne anche interpretata come «mela non sana» (il riferimento è alla difficile digestione da cruda della melanzana d'un tempo). Nel resto d'Europa il nome deriva dall'arabo con l'articolo al-bdhingin che in Catalogna diventa albergínia, in Francia e Germania aubergine, in Spagna berenjena e alberengena, in Portogallo bringella, mentre il nome anglosassone eggplant cioè «pianta delle uova» si spiega con le cultivar bianche, che in effetti paiono uova bianche di gallina, e poi dà vita all'islandese eggaldin e al gallese planhigyn wy. Un po' scherzando, potremmo dire che la melanzana presenta la forma di una grossa pillola e in effetti si comporta come un vero e proprio ricostituente multivitaminico minerale, tanto che i vegani, complice anche la struttura ampia e spugnosa che permette di farne «filetti», la concepiscono come una bistecca vegetale. Tale, ovviamente, non è, però è vero che un etto di melanzana contiene innanzitutto ben 184 mg di potassio, 33 mg di fosforo e 26 mg di sodio.
BUONA ANCHE PER IL DIABETE. Il potassio è un importantissimo sale minerale, coinvolto in vari processi fisiologici come la contrazione muscolare, l'equilibrio idrosalino e la regolazione della pressione arteriosa, il fosforo è necessario per il metabolismo energetico delle cellule e la costruzione delle proteine e il sodio, col quale non bisogna esagerare, perché un eccesso alza la pressione arteriosa, aumenta la glicemia e la ritenzione idrica (la Rda consigliata è massimo 2 g al giorno e la melanzana non rischia certamente di esaurirla, però salatela poco), ma nemmeno è da evitare perché il sodio è di aiuto nei dolori reumatici, contrasta i crampi muscolari e aiuta il sistema nervoso centrale. Poi abbiamo l'acido folico o vitamina B9, utile in particolare alle donne in gravidanza, la cui carenza rallenta la sintesi del Dna e la divisione cellulare, può creare problemi alla spina dorsale e provoca diverse forme di anemia. Sempre contro l'anemia abbiamo il ferro (0,2 mg) e la vitamina C (2,2 mg). Quest' ultima è un antiossidante fondamentale per il sistema immunitario, per la sintesi del collagene e per l'assimilazione del ferro da parte dei globuli rossi, inoltre aiuta - come anche le vitamine del gruppo B che la melanzana contiene in buona quantità - la sintesi della serotonina, l'ormone del buonumore con valenza antidepressiva. Le melanzane aiutano anche la salute del cuore: soprattutto le varietà con buccia di colore viola scuro sono molto ricche di polifenoli, di acidi clorogenico e caffeico e di flavonoidi come la nasunina che proteggono il cuore dallo stress ossidativo causato dai radicali liberi (perciò conviene mangiarle sempre con la buccia). Si tratta di antiossidanti organici, con proprietà anche antivirali e antibatteriche, non molto noti, ma capaci di combattere con un certo vigore i radicali liberi. L'antiossidante acido clorogenico rallenta anche il rilascio di glucosio nel flusso sanguigno dopo un pasto, quindi la melanzana, col suo indice glicemico 20 che la fa appartenere ai cibi a basso indice glicemico, può essere tranquillamente mangiata anche da chi ha problemi di diabete. Coi suoi 6 g di carboidrati per 100 g, suddivisi in 3 di fibre alimentari e 3 di zuccheri, la melanzana è considerata anche un ortaggio decisamente detox e genericamente antitumorale perché le fibre ripuliscono l'intestino da scorie e tossine.
IL TEST DELLA FRESCHEZZA. Sempre grazie all'alto tasso di fibre stimola la motilità intestinale ed è di aiuto nelle diete, saziando bene e velocemente, soprattutto se cotta al forno, alla griglia, al vapore, insomma in preparazioni che non la vedano fritta. La sua struttura spugnosa, infatti, determina un rilevante assorbimento di grassi che, se si è nel corso di una dieta dimagrante, non sono i benvenuti se sono in eccesso. Le melanzane non contengono grassi e anzi il loro consumo abbassa il tasso di colesterolemia. Con sole 25 calorie ogni 100 grammi, sono perfette per chi vuole restare leggero. Nel 2019 abbiamo raccolto 2.192.492 quintali di melanzane coltivate in piena aria e 813.666 quintali in serra per un totale di 3.006.158 quintali di melanzane italiane. Rispetto al 2018 (2.200.598 quintali di melanzane coltivate in piena aria e 782.536 quintali in serra, totale 2.983.184) abbiamo registrato un piccolo aumento produttivo e un aumento della coltivazione in serra a discapito di quella in piena aria, leggermente diminuita. La Sicilia, da sola, copre un terzo della produzione italiana di melanzane e, a livello di classifica, noi italiani ci posizioniamo come noni produttori al mondo (dopo Cina, India, Egitto, Turchia, Iran, Indonesia, Iraq e Giappone) e come primi in Europa, seguiti da Spagna e Romania. Occorre però fare molta attenzione agli accordi commerciali tra Unione europea e paesi del nord Africa e all'incremento della produzione e dell'esportazione non solo africane ma anche spagnole, che per noi rappresentano una minaccia: compriamo sempre - facciamoci attenzione - melanzane italiane, soprattutto adesso che sono nel cuore della raccolta della coltivazione in pieno campo. Le varietà italiane di questo frutto della terra estiva sono tante: la «Violetta lunga palermitana», col frutto lungo e scuro, la «Violetta lunga delle cascine» col frutto violetto; la «Violetta nana precoce», piccolina, la «melanzana di Murcia» con foglie e fusto spinosi e il frutto violetto e rotondo, la «Tonda comune di Firenze», con frutto violetto pallido, ibrida e con pochi semi e la polpa tenera e compatta, la «melanzana bianca» e poi la «melanzana rossa Dop» di Rotonda (provincia di Potenza), con forma e colore simili al pomodoro, polpa fruttata e sapore leggermente piccante (è la Solanum aethiopicum, un'altra specie probabilmente importata in Italia dai reduci delle guerre coloniali della fine del XIX secolo e recentemente recuperata grazie al presidio slow food e il riconoscimento del marchio Dop, il suo nome lucano è merlingiana a pummadora). Un piccolo trucco per riconoscere la freschezza della melanzana, al di là della specie o della coltivazione, è la durezza. Più la melanzana è dura (caratteristica che in altri casi può indicare acerbità), più è fresca.
Hilary Brueck per "it.businessinsider.com" il 28 giugno 2020. Ecco le tre principali bugie sull’alimentazione che mi sono state propinate da piccolo: gli alimenti a basso contenuto di grassi sono sempre migliori rispetto a quelli ricchi di grassi. Bere più latte rafforza le ossa. E: sei idratato correttamente solo quando la pipì è trasparente. No, no, e no. Allora non lo sapevo, ma alcuni di questi “fatti” sul mangiar sano che ho assorbito da giovane erano furbe tattiche di marketing travestite da consigli di esperti su cosa mangiare. Altri consigli sono stati poi sfatati dalla ricerca scientifica. Ecco alcuni miti sull’alimentazione che ci hanno insegnato da piccoli rivelatisi semplicemente falsi.
MITO: I prodotti a basso contenuto di grassi sono migliori per il girovita rispetto agli stessi prodotti ricchi di grassi. Potrebbe sembrare un controsenso, ma mangiare meno grassi potrebbe in realtà fare ingrassare. “Il consumo di grassi non fa aumentare di peso”, ha scritto il dottor Aaron Carroll nel suo libro The Bad Food Bible. “Al contrario, in realtà potrebbe aiutare a perdere qualche chilo”. Infatti è più probabile che le persone che assumono pochi grassi (cosa di cui il nostro corpo ha bisogno per funzionare correttamente) assumano al loro posto zucchero e carboidrati raffinati, cosa che col tempo può comportare un significativo aumento di peso. Studi condotti su persone di tutto il mondo ne hanno dimostrato più e più volte la veridicità. Le molecole di grasso aiutano il nostro corpo a rimanere in salute e ci aiutano ad assorbire sostanze nutritive presenti negli altri cibi. Perciò non dovete sentirvi in colpa se preferite il latte intero a quello parzialmente scremato.
MITO: Dovresti “fare rifornimento” di elettroliti dopo l’esercizio fisico. Spiacente, amanti del Gatorade, ma gli elettroliti e i performance drink non hanno effetti particolari sul vostro corpo. “Gli atleti che perdono molta massa corporea durante le maratone, le ultramaratone e gli Ironman sono di solito i migliori, il che suggerisce che la perdita di fluidi non è così strettamente legata al rendimento, come affermano i produttori di bevande”, ha scritto la giornalista Christie Aschwanden nel suo libro del 2019, Good to go: What the athlete in all of us can learn from the strange science of recovery. Aschwanden spiega che il tuo cervello è perfettamente in grado di regolare da solo gli elettroliti come il sale all’interno del corpo. “Affinché le vostre cellule funzionino correttamente, vi serve la giusta quantità di fluido e di elettroliti nel sangue, e questo equilibrio è strettamente regolato da un ciclo di feedback”, dice.
MITO: La tua pipì dovrebbe essere trasparente e dovresti bere otto bicchieri d’acqua al giorno. Se la vostra pipì è trasparente, probabilmente dovreste trovare presto una toilette perché siete iperidratati. In realtà, il corpo ha un “centro della sete” nel cervello che aiuta a regolare la quantità di fluidi che vi serve ed è regolato in maniera straordinaria (anche se tende a diventare meno efficace col passare degli anni). Il modo migliore per restare idratati è quello di ascoltare la vostra sete e bere quando vi sentite. Non ignorate la voglia di bere acqua né confondetela con la fame, e in generale starete bene. E non preoccupatevi neanche tanto del colore della vostra urina. Un giallo chiaro o paglierino può indicare che siete ben idratati, ma non dovete per forza farvi prendere dal panico se l’urina è più scura. “La pipì scura potrebbe voler dire che siete a corto di fluido, ma anche che i vostri reni stanno controllando l’osmolalità del vostro plasma salvaguardando acqua”, ha detto Aschwanden.
MITO: La colazione è il pasto più importante del giorno. Alcuni produttori di cereali hanno guadagnato un sacco di soldi grazie a questa frase ad effetto. “Molti, se non la maggior parte degli studi che dimostrano che chi consuma la colazione è più sano e controlla meglio il peso rispetto a chi non consuma la colazione erano finanziati da Kellogg e da altri produttori di cereali i cui affari dipendono da persone che credono che colazione sia sinonimo di cereali pronti da mangiare”, ha scritto nel 2015 sul suo blog Food Politics l’esperta di nutrizione Marion Nestle. “Studi condotti con finanziamenti indipendenti tendono a dimostrare che qualsiasi modello di alimentazione che fornisce frutta e verdura, bilancia le calorie e non include troppo cibo spazzatura può sostenere la salute“. Il consiglio sulla colazione da parte di Nestle è breve e coinciso: “Se vi svegliate affamati, fate senz’altro una colazione mattutina. Sennò, mangiate quando siete affamati e non preoccupatevi troppo”. In effetti, gli studi hanno dimostrato che le persone che fanno ginnastica al mattino a stomaco vuoto possono bruciare fino al 20% in più di grasso corporeo durante gli esercizi. Ovviamente, continuano a essere pubblicati studi che suggeriscono come il saltare la colazione sia collegato a morte prematura. Ma il personal trainer Max Lowery ha detto poco fa a Business Insider che ricerche del genere potrebbero non prendere in considerazione tutti i fattori. “Le persone che in generale sono più attente alla salute tendono a fare la colazione perché seguono raccomandazioni sanitarie”, ha notato Lowery, “mentre di solito le persone che saltano la colazione sono complessivamente meno sane perché le ignorano”. Però, i nutrizionisti consigliano spesso di mangiare qualcosa entro le prime due o tre ore dal risveglio mattutino per evitare di diventare scontrosi e affamati.
MITO: I cereali sono un ottimo cibo per la colazione. La maggior parte dei cereali è ultra lavorata. Vuol dire, cioè, che sono ricchi di conservanti, confezionati in sacchetti di plastica e cosparsi di zucchero. Gli scienziati hanno inizi a evidenziare i pericoli degli alimenti lavorati come questi: le persone che ricorrono a questo genere di cibi pronti tendono a mangiare di più (circa 500 calorie extra al giorno) e aumentano più di peso delle persone che mangiano frutta, verdura, grani e altre piante commestibili non lavorate. Invece di iniziare la giornata con i cereali, molti dietologi ed esperti nutrizionisti suggeriscono di mangiare una tazza di yogurt greco con noci e bacche. Ciò fornirà al vostro corpo grassi salutari, proteine e fibre per saziarvi.
MITO: I succhi 100% di frutta sono una scelta salutare. Recentemente, gli scienziati hanno osservato le cartelle cliniche di oltre 13.400 adulti statunitensi e concluso che a ogni 33 cl. in più di succo bevuti al giorno corrispondeva un rischio di morte maggiore del 24%. Il risultato non ha sorpreso i nutrizionisti che studiano le bevande zuccherate, dato che il modo in cui il nostro corpo elabora lo zucchero presente nei succi di frutta è praticamente identico al modo in cui assumiamo lo zucchero da una lattina di bibita gassata. Semplicemente, il succo non soddisfa il nostro stomaco come fa una porzione di frutta fibrosa. “Si tratta fondamentalmente di zucchero e acqua, senza proteine o grassi che controbilanciano quel metabolismo”, Jean Welsh, professoressa di nutrizione della Emory University, aveva precedentemente detto a Business Insider. In modo analogo, neanche i frappè — che sono spesso ricchi di zucchero e potrebbero non contenere tutte le fibre presenti nella frutta intera — sono un cibo sano.
MITO: Fare uno spuntino è sano. Fare uno spuntino può essere un’abitudine sana, dato che evita alle persone di mangiare troppo durante i pasti. Ma la ricerca dimostra che inserire gli spuntini nella vostra routine quotidiana non è necessariamente meglio per la vostra salute rispetto a tre pasti completi al giorno. Inoltre, molti spuntini facilmente disponibili non ci fanno molto bene in quanto sono spesso ultra-elaborati e ricchi di zuccheri, e quindi collegati all’aumento di peso e maggiore probabilità di casi di tumore. “Quando mangiate cibi veri, genuini e sani, vi sentite sazi prima”, ha detto recentemente a Business Insider Ocean Robbins, nipote del magnate dei gelati Irvine Robbins (cofondatore della Baskin-Robbins). “Il vostro corpo si sente sazio. Avete davvero i nutrienti di cui necessitate e a tempo debito potete avere meno appetito”.
MITO: Digiunare fa male alla salute. Fare qualche saltuaria pausa dal mangiare sta diventando una tendenza popolare nella Silicon Valley, avallata anche da una sorprendente quantità di prove. Il digiuno intermittente può aiutare le persone a prevenire malattie come il diabete, il colesterolo alto e l’obesità. È una pratica che può anche stimolare la produzione di una proteina che potenzia le connessioni cerebrali e può servire da antidepressivo. Gli scienziati pensano addirittura che digiunare possa allungare la durata della vita mantenendo le cellule sane e giovani più a lungo. In generale, una pausa di almeno 12 ore al giorno all’intestino fa bene, come detto nel 2015 al New York Times dal biologo e ricercatore del ritmo circadiano Satchidananda Panda. Basta solo non esagerare.
MITO: Probabilmente non assumete abbastanza proteine. Solo perché qualcosa è ricco di proteine non significa che sia salutare. “Molti statunitensi hanno una diete con una quantità di proteine più che sufficiente“, hanno scritto recentemente su Berkeley Wellness gli esperti di salute pubblica della University of California, a Berkeley (anche se gli ultra sessantacinquenni sono una notevole eccezione alla regola). Uno studio di lungo periodo condotto su oltre 131.300 persone negli USA ha scoperto che più proteine animali si mangiano, più aumenta la probabilità di morire per un infarto, suggerendo che potrebbe essere meglio privilegiare le proteine vegetali come quelle della frutta a guscio e dei legumi, invece di affidarsi alla carne.
MITO: La piramide alimentare dovrebbe essere la vostra guida di riferimento. Chiariamo subito una cosa: questa è l’immagine di un triangolo alimentare sulla faccia di una piramide. La “piramide” dell’immagine è stata pubblicata nel 1992 dal Dipartimento dell’agricoltura degli Stati Uniti (USDA) e suggerisce che esiste una strategia ideale per un’alimentazione ideale che tutti possono seguire. Questa strategia consisteva nel fare il pieno di pane e pasta, mangiare grandi porzioni di frutta e verdura (dalle tre alle cinque al giorno), e completare la dieta con qualche latticino e proteina proveniente da carne, frutta a guscio e legumi. Ma studio dopo studio i ricercatori stanno scoprendo che quello che fa bene a una persona potrebbe non andare per tutti gli altri. Organismi diversi reagiscono in maniera diversa ai grassi e ai carboidrati ingeriti, quindi quella che per qualcuno è una fonte di energia equilibrata, potrebbe far schizzare alle stelle la glicemia di qualcun altro per poi farla crollare. Ma i nutrizionisti sono generalmente d’accordo sul fatto che tutti possano trarre benefici dal mangiare più alimenti non trasformati, come verdura a foglia verde, pesce, frutta a guscio e riso integrale, eliminando al tempo stesso pane bianco e cracker confezionati della base di questo triangolo.
MITO: Le scaglie di carruba sono più sane del cioccolato. Gli amanti dei dolci salutisti hanno comprato per anni scaglie di carruba invece del cioccolato. La carruba deriva dal frutto seccato dell’albero di carruba mediterraneo (mentre il cioccolato deriva dal cacao). Ma avrebbero fatto meglio a continuare con il cioccolato. “Senza offesa per la carruba, ma non è buona come il cioccolato”, ha detto Robbins. “Si è scoperto che in realtà il cioccolato è più sano — fa bene al cuore e al cervello”. Il che non vuol dire che dobbiate mangiare barrette di cioccolato. Ma un po’ di cioccolato amaro (70% o più) di quando in quando potrebbe servire a migliorare la circolazione sanguigna e a proteggere il cuore. Gli scienziati non hanno neanche scoperto alcun reale collegamento tra consumo di cioccolato e sfoghi di acne.
MITO: Lo yogurt è sempre una scelta sana. Molti yogurt confezionati nel reparto latticini sono pieni di zucchero. Se vi piace lo yogurt, sceglietene uno bianco; potete sempre spolverarlo di frutta a guscio, semi, frutti di bosco o spezie come cannella e noce moscata per dargli sapore.
MITO: La margarina fa meglio del burro e tutti gli olii fanno male. La margarina era molto apprezzata durante la mania delle diete povere di grassi degli anni ’90. Realizzata con olii vegetali quali olio di palma e olio di colza, e semi di soia, è stata commercializzata come un’alternativa “più sana” ai grassi animali. Ma la margarina conteneva grassi insaturi. I ricercatori di Harvard stimano che durante il periodo di massimo splendore dei grassi insaturi, negli anni ’90, la loro presenza nella nostra alimentazione ha portato a circa 50.000 morti evitabili all’anno negli USA. Nel 2018, la Food and Drug Administration (FDA) ha emanato un bando quasi universale sui grassi insaturi artificiali, e oggi la maggior parte delle margarine non contengono gassi insaturi. Ma le alternative al burro sono altamente trattate, e gli olii vegetali che vengono riscaldati in laboratorio per evitarne il deterioramento, come quelli della margarina, possono essere dei gravi agenti patogeni. Spesso, un ingrediente fondamentale della margarina è l’olio di palma, che non fa lontanamente bene al nostro cuore quanto i grassi monoinsaturi presenti allo stato liquido a temperatura ambiente, come nell’olio d’oliva. I grassi monoinsaturi possono abbassare i livelli del colesterolo cattivo e mantenere in forma il nostro sistema immunitario con la vitamina E, e sono quindi un’alternativa più sana.
MITO: Evita il tuorlo ricco di colesterolo e mangia solo l’albume. Non ci sono prove che il colesterolo delle uova si traduca in elevato colesterolo nel sangue per la maggior parte delle persone. Nel tuorlo di un uovo di gallina c’è un sacco di colesterolo: più di 180 milligrammi, oltre metà della dose giornaliera raccomandata. Ma ciò non significa dovremmo diffidare un’omelette mattutina bella gialla. “In realtà, non esiste un singolo studio che ha dimostrato come un elevato consumo di uova sia collegabile a un alto rischio di malattie cardiache”, ha detto a The Cut nel 2015 Walter Willett, ricercatore alimentare presso Harvard.
MITO: Dovresti mangiare meno carboidrati possibile. Non ci sono prove che il colesterolo delle uova si traduca in elevato colesterolo nel sangue per la maggior parte delle persone. Nel tuorlo di un uovo di gallina c’è un sacco di colesterolo: più di 180 milligrammi, oltre metà della dose giornaliera raccomandata. Ma ciò non significa dovremmo diffidare un’omelette mattutina bella gialla. “In realtà, non esiste un singolo studio che ha dimostrato come un elevato consumo di uova sia collegabile a un alto rischio di malattie cardiache”, ha detto a The Cut nel 2015 Walter Willett, ricercatore alimentare presso Harvard.
MITO: Dovresti mangiare meno carboidrati possibile. Una caloria è una caloria, giusto? Sbagliato. I nutrizionisti invitano sempre più a valutare i cibi da un punto di vista olistico, invece di basarsi sul conteggio dei singoli nutrienti o delle calorie. L’avocado, ad esempio. L’equivalente di una tazza contiene 234 calorie e 14 grammi di grasso monoinsaturo, insieme a dosi minori di grasso polinsaturo (2,7 g) e saturo (3,1 g). Ma un avocado fornisce anche buone dosi di fibre, proteine e potassio, che può contribuire a mantenere sani livelli di pressione sanguigna. Nessuno direbbe che si ottengono gli stessi benefici per la salute o che ci si sazierebbe dopo aver mangiato 234 calorie di patatine (circa 25 patatine). Studi recenti hanno dimostrato che le piante sono la scelta migliore per la nostra salute e che consumare più cibi trattati — anche con la stessa quantità esatta di calorie — può fare guadagnare peso.
MITO: Il succo d’arancia fa passare il raffreddore. Il succo d’arancia contiene molta vitamina C, che aiuta a mantenere forte il nostro sistema immunitario. Ma ciò non vuol dire che un bicchiere di succo d’arancia contrasterà un raffreddore in corso, o lo farà addirittura passare più velocemente. Provate invece a succhiare una pastiglia allo zinco — secondo alcuni studi lo zinco può far passare più velocemente il raffreddore.
MITO: Assumere nutrienti dalle vitamine è lo stesso che mangiarli nei cibi, per cui un multivitaminico al giorno leva il medico di torno. Gli scienziati hanno provato in continuazione gli effetti dei multivitaminici, ma non hanno ottenuto prove valide di alcun beneficio reale per la nostra salute. “Mostratemi un singolo studio mai compiuto che dice che persone che hanno assunto pillole multivitaminiche… sono state meglio. Non ci sono studi”, ha detto recentemente a Business Insider Ajay Goel, un biofisico che fa ricerca sul cancro. La US Preventative Services Task Force non raccomanda alle persone di assumere vitamine o integratori come misura di prevenzione di malattie cardiache o cancro, le principali cause di decessi negli USA. In effetti, ci sono prove che gli integratori possono fare più male che bene. “Gli integratori di vitamina A supplementare possono condurre a livelli tossici se assunti con troppa frequenza”, ha detto su un blog il dott. Clifford Lo, professore associato di nutrizione presso la Harvard School of Public Health. Cercate di assumere le vitamine e i minerali importanti da frutta e verdura fresche.
MITO: Il sale fa male. Non esistono prove convincenti sul fatto che il sale da solo faccia aumentare la pressione sanguigna o contribuisca alla morte per infarto. Forse le persone che mangiano tanto sale sono a rischio per molte altre ragioni, soprattutto perché la loro dieta e il loro stile di vita sono complessivamente meno salutari. Ad esempio, il sale è un ottimo conservante, ed è quindi presente in grande quantità nei cibi confezionati, che sappiamo non essere salutari.
MITO: Mangiare carote migliora la vista. Secondo Snopes, questa convinzione errata potrebbe essere nata nella Seconda Guerra Mondiale, quando gli inglesi dicevano che i loro piloti di bombardieri avevano una vista incredibilmente buona grazie alle carote invece di ammettere di usare i radar per rintracciare i nazisti. Le carote fanno bene alla salute degli occhi, ma non possono farti vedere meglio. Contengono molti elementi chimici chiamati carotenoidi, come anche gli spinaci, i cavoli, i cavolfiori e le patate dolci. Il nostro organismo trasforma questi elementi chimici in nutrienti, come la vitamina A che è essenziale allo sviluppo di embrioni sani, per mantenere sani i tessuti e assicurare il corretto funzionamento del sistema immunitario. Ad esempio, chi segue una dieta ricca di carotenoide beta carotene, ha minori probabilità di soffrire di tumore al collo dell’utero e leggermente minori probabilità di tumore al seno. Per mantenere sani gli occhi con l’invecchiamento, i ricercatori che studiano la degenerazione maculare consigliano di mangiare molti vegetali ricchi di vitamine C, E, zinco, omega 3 e altri nutrienti. Oltre alle carote, si possono mangiare pesce, broccoli, frutta a guscio e bacche.
MITO: Il caffè fa male alla salute. Per decenni, i ricercatori hanno cercato di capire se bere caffè fa male alla salute. A grande maggioranza, la risposta è no. Una gran quantità di studi scientifici suggerisce che bere caffè possa contribuire ad allungare la vita. Forse la prova migliore in proposito proviene da due grandissimi studi: uno condotto su oltre 400.000 persone negli USA e un altro su oltre 500.000 cittadini europei. Entrambi gli studi hanno scoperto che chi beve regolarmente caffè ha meno probabilità di morire per qualsiasi causa rispetto a chi non beve il suo caffè quotidiano. Altre ricerche hanno addirittura suggerito che circa quattro tazze di caffè al giorno potrebbe esse la quantità migliore per fare invecchiare bene il cuore. Ma il caffè non è la bevanda perfetta. “Ad alcuni non serve perché li rende agitati e dipendenti, provocando mal di testa se non ne bevono molto”, dice Robbins. “E credo che a volte la nostra società sia un po’ nevrotica”.
MITO: Le bibite dietetiche fanno bene. Zero calorie! Nessun problema, giusto? Le bibite dietetiche possono essere utili per rinunciare alle bevande zuccherate, ma gli scienziati non sono ancora sicuri che non facciano male. Un recente studio durato 34 anni condotto su più di 118.000 uomini e donne negli Usa ha scoperto che le bibite dietetiche e i sostituti dello zucchero consumati in grandi quantità potrebbero non essere molto migliori per il nostro organismo rispetto alle bibite zuccherate. “Le bibite dietetiche possono servire per aiutare chi beve molte bibite zuccherate a ridurne il consumo, ma l’acqua resta la scelta migliore e più sana“, ha detto Vasanti Malik, autore dello studio e ricercatore presso la Harvard T. H. Chan School of Public Health. Malik ha scoperto che le donne che bevono quattro o più bibite con dolcificanti artificiali al giorno aumentavano la loro probabilità di morte (scoperta che però non vale per gli uomini). Secondo i ricercatori la spiegazione per il collegamento osservato tra bevande dietetiche e decessi è attribuibile al fatto che le persone che sono già sovrappeso ne bevono di più. Ma servono ulteriori ricerche.
MITO: Per prevenire l’osteoporosi bisogna bere molto latte. “Got milk?” era una furba pubblicità degli anni ‘90 del California Milk Processor Board per contrastare il calo di vendite di latte. Per anni, celebrità con i baffi di latte ci hanno detto che il calcio contenuto nel latte è speciale per mantenere robuste le nostre ossa. Ma in realtà non esistono prove che il latte sia più efficace rispetto ad altri alimenti ricchi di calcio, come le verdure a foglia verde e i legumi. Il calcio è utile per avere ossa robuste e i latticini ne contengono molto: ma per la salute delle nostre ossa ci servono anche le vitamine D e K. Tra l’altro, non sembra che chi beve molto latte sia al riparo da fratture.
Nicla Panciera per "La Stampa" il 27 giugno 2020. Troppo sale non fa solo salire la pressione e aumentare il rischio di ictus e di infarto, ma indebolisce la risposta immunitaria dell'organismo contro alcuni batteri. Il legame tra sale e sistema immunitario non è una novità, ma ora si inizia a svelarne i meccanismi, oltre che misurarne in modo preciso gli effetti sull'organismo. Lo ha fatto un team dell'Università di Bonn in un lavoro pubblicato sulla rivista «Science Traslational Medicine»: un'alimentazione ricca di sale nei topi peggiora la gravità delle infezioni renali causate da E. coli e delle infezioni sistemiche causate da Listeria monocytogenes, un comune patogeno alimentare. Una ridotta capacità di combattere queste infezioni è stata riscontrata anche nei neutrofili - un tipo specifico di globuli bianchi - dei soggetti volontari sani che per una settimana avevano consumato ogni giorno una quantità di sale di 6 grammi superiore alla soglia massima raccomandata dall'Oms, che è di 5 grammi. «Le ghiandole surrenali, al di sopra dei reni, producono due tipi di ormoni: i mineralcorticoidi e i glucocorticoidi, attivi sul metabolismo minerale e sul sistema immunitario. Alterazioni dei livelli del sale si riflettono proprio in questa intercorrelazione, la quale ha anche un senso dal punto di vista evolutivo: se sono attaccato da un predatore, devo dare la precedenza alla fuga, mobilitando quindi le riserve minerali, e non posso pensare di armare il sistema immunitario nella lotta ai germi», spiega Angelina Passaro del dipartimento di medicina interna dell'Università degli Studi di Ferrara e coordinatrice del corso di laurea di dietistica. Il sensore renale che rileva l'eccesso di sale provoca anche un aumento di glucocorticoidi, i quali inibiscono la risposta immunitaria. «Lo studio mostra il complesso sistema di controllo che porta dall'eccesso di sale all'immunosoppressione. E ci racconta un aspetto importante dal punto di vista pratico: in un contesto di lunga sopravvivenza, eccedendo con il sodio, esponiamo l'organismo a una depressione cronica del sistema immunitario che può essere, come stiamo osservando con il Covid-19, estremamente pericolosa». Quando si parla di sodio e di sistema immunitario si parla anche di salute del cervello. Uno studio realizzato da Costantino Iadecola, direttore del «Brain and Mind Research Institute» della Weil Cornell Medical School di New York, apparso sulla rivista «Nature Neuroscience», aveva dimostrato che l'effetto nocivo del sale sul cervello in termini di compromissione delle capacità cognitive non dipende dall'ipertensione, a cui era invece attribuito, ma proprio da un meccanismo di natura immunitaria. Il seguito, su «Nature», mostra che un'elevata assunzione di sale riduce la sintesi di ossido nitrico (monossido di azoto), il che porta all'attivazione di un enzima, chiamato CDK5, che è coinvolto nella fosforilazione della proteina tau, che finisce per accumularsi, in un processo equivalente a quello delle demenze. L'Oms raccomanda - è bene ricordarlo - un consumo giornaliero di sale non superiore ai 5 grammi, corrispondenti a circa 2 grammi di sodio. La quantità ideale raccomandata per gli adulti dall'American Heart Association è invece di 3,75 grammi al giorno di sale, e quindi 1,5g di sodio, valori già rivisti alla luce del rischio cardiovascolare e di quello ipertensione. «Ma il consumo medio giornaliero nel nostro Paese - dice Passaro - è in realtà tra i 5 e i 6 grammi di sodio». Combattere gli eccessi è una delle priorità stabilite dagli specialisti dell'Oms: il Piano d'azione globale 2013-2020 prevede, infatti, una riduzione del 30% del consumo di sodio, da realizzare entro il 2050. L'Organizzazione chiede agli Stati l'adozione di programmi, linee-guida e misure politiche che coinvolgano anche l'industria alimentare e tutti gli operatori del commercio al fine di ridurre la presenza di sale aggiunto negli alimenti prodotti e venduti. Il sale, infatti, si trova in tutti gli alimenti trasformati, dai salumi ai formaggi fino al pane, in tutti i cibi elaborati che acquistiamo, nei piatti pronti e anche nei prodotti surgelati. «Da lì provengono almeno 3,5 dei 5 grammi di sodio che assumiamo ogni giorno: solo 1,5 grammi è contenuto naturalmente negli alimenti come frutta e verdura», spiega Angelina Passaro. Il sale aggiunto è, di conseguenza, superfluo e dannoso. Tanto che il limite dei 5 grammi al giorno - si legge nell'ultimo rapporto del Centro di ricerca Crea-Alimenti e Nutrizione - «è una quantità che di fatto rappresenta un compromesso tra la soddisfazione del gusto e la prevenzione dei rischi». Escludendo gli anziani, la cui situazione va valutata caso per caso a seconda della patologia e delle terapia, quella al sale è un'abitudine da abbandonare: «Spesso si danno ai bambini, in una fase critica dello sviluppo del gusto, pappe salate nell'errata convinzione di renderle più appetibili. Niente di più sbagliato. L'addizione di sale non è necessaria. Ci vuole attenzione a non creare l'abitudine a un sapore di cui il bimbo dovrà, come noi, liberarsi». Conclusione: «Tutti dovrebbero ridiventare capaci di apprezzare il vero sapore degli alimenti».
Denis Carito per "chedonna.it" il 19 giugno 2020. Quello che usiamo tutti i giorni, alimenti, spezie, condimenti contribuiscono alla nostra salute e al nostro fabbisogno giornaliero, per di più, contengono formidabili proprietà.
La scelta di alimenti freschi e di stagione dovrebbe essere la base della nostra alimentazione quotidiana. Spesso spostiamo la nostra attenzione su cibi artificiali, integratori chimici e non integratori naturali e non ci accorgiamo delle proprietà di tutti quegli ingredienti che siamo solite utilizzare nella nostra cucina. I prodotti tipici della nostra terra rappresentano l’essenza del nostro benessere. Non abbiamo certamente bisogno di imbottirci di medicinali talvolta senza alcuna ragione. I rimedi per i nostri malanni possiamo trovarli senza fatica negli scomparti della nostra cucina. Possiamo combattere mal di gola, insonnia, mal di stomaco, prurito e tutto naturalmente. Ecco qui i cibi che ci aiutano a difenderci dalle malattie.
Aglio, questo alimento possiede proprietà analgesiche, antinfiammatorie e antibatteriche. Preparare una tisana calda con aglio tritato e zenzero può aiutare ad alleviare i sintomi di mal di gola e febbre.
Zenzero, vanta la speciale qualità di ridurre di molto la sensazione di nausea e riesce inoltre, sotto forma di suffumigio, a liberare il naso chiuso.
Menta e coriandolo, preparando una bevanda calda a base di queste due spezie benefiche e bevendola almeno tre volte al giorno, possiamo liberarci dalla febbre piano piano facendo scendere la temperatura corporea.
Aloe vera, essa ha un notevole potere anti-infiammatorio, lenisce ustioni, la dermatite, le scottature provocate da sole.
Olio di cocco, è estremamente idratante e conferisce benefici anche per l’igiene orale.
Yogurt, il suo importante compito è quello di stabilire un equilibrio tra i batteri buoni e quelli nocivi nell’intestino. Della diarrea puoi dimenticartene mangiandolo tre volte al giorno.
Ciliegie, quando sono di stagione e non riuscite a prendere sonno mangiatene molte. Ebbene sì, le ciliegie aiutano a contrastare l’insonnia. Contengono molta melatonina che riesce a regolare il nostro riposo.
Credere in ciò che mangiamo. Mangiare bene è davvero importante e scegliere accuratamente la propria dieta lo è altrettanto, se poi aggiungiamo il consumo di cibi che possono proteggerci dall’insorgenza di malattie siamo a cavallo. Mantenersi in forma mangiando alimenti che ci preservino da malanni comuni e portare avanti una routine equilibrata dipende molto dal nostro grado di informazione riguardo molti alimenti.
Milena Gabanelli per "corriere.it" il 7 maggio 2020. Quello che abbiamo capito in questi drammatici mesi è che in caso di contagio, l’aggravamento è provocato da uno stato di infiammazione profonda che altera il sistema immunitario. E quindi, oltre al rigido rispetto delle regole, quello che possiamo fare è cercare di rafforzare il nostro sistema immunitario, che è strettamente legato al microbiota intestinale, ovvero quell’insieme di microrganismi che regolano molte funzioni e generano una risposta anti-infiammatoria contro i patogeni. Il 70-80% delle cellule immunitarie del corpo si trova proprio nell’intestino e, quindi, l’efficienza di questa attività dipende dalla varietà di alimenti e dalla qualità dei nutrienti che appunto introduciamo con il cibo. Certo, poi ognuno è diverso e quindi l’aspetto nutrizionale va personalizzato. Per esempio: gli agrumi sono una importante fonte di vitamina C, ma se soffro di gastrite li devo evitare e sostituire con qualcos’altro. Ecco quindi la buona pratica suggerita da dietologi e immunologi. I micronutrienti importanti più importanti per il sistema immunitario:
Zinco. È un minerale essenziale che si trova in tutti gli organi, i tessuti e i fluidi corporei e dopo il ferro è il secondo oligominerale più abbondante. Una sua carenza è stata associata a molte condizioni patologiche, tra cui malattie da raffreddamento, e polmoniti. È presente a diverse concentrazioni sia nei cibi animali che vegetali e ne dobbiamo assumere 9-12 mg (donna-uomo al giorno). Un bisogno che può essere coperto con 10 alici, oppure due seppie o calamari, una coscia di tacchino, un tuorlo d’uovo, oppure circa 200 g di fesa di manzo. Le ostriche ne contengono in assoluto la maggiore quantità, ben 90 mg, ma non sono un alimento che consumiamo facilmente. Tra le migliori fonti vegetali, invece il germe di grano, semi oleosi di canapa (tre cucchiai ne contengono il 31% e il 43% del fabbisogno), seguiti da semi di zucca, sesamo e girasole. Lo troviamo nei legumi, pinoli, noci, mandorle e nocciole, mentre tra i latticini la fonte migliore è il parmigiano, che con una porzione di 50 g ne fornisce circa 4-6 mg.
Magnesio. Una sua carenza è associata ad uno stato di infiammazione cronica. Il fabbisogno giornaliero può essere coperto mangiando 4 cucchiai di miglio decorticato o 4 cucchiai di legumi secchi; mentre 100 gr di spinaci crudi, 6 noci brasiliane, 100 gr di riso integrale ne apportano la metà del fabbisogno, che è di 240 mg al giorno.
Beta-glucani. Si trovano nella parte esterna del chicco di orzo e avena, nei funghi e nelle alghe. Una volta introdotti con la dieta, i beta-glucani sono capaci di stimolare l’attività dei fagociti (particolari globuli bianchi che hanno il compito di «mangiare» virus, parassiti e batteri). Il porridge, alimento a base di avena, è una ottima colazione.
Vitamina A. Indispensabile perché mantiene l’integrità di cute e mucose, che sono la prima barriera verso i patogeni esterni. Ne sono ricchi alcuni alimenti animali e i vegetali di colore arancione. Il fabbisogno giornaliero raccomandato varia tra 0,6 – 0.7 mg (donna – uomo). Mangiando 4 carote si assumono ben 2,3 mg, con mezzo piatto di zucca circa 1,1mg e circa 0,5mg con 3-4 albicocche, nel tuorlo d’uovo invece sono 0,113 mg.
Vitamina C. È un micronutriente che non possiamo sintetizzare e supporta vari meccanismi di difesa cellulari. Un buono status della vitamina C contrasta le infezioni virali comuni come le malattie respiratorie ed evita lo sviluppo di complicanze. Il fabbisogno giornaliero varia da 105 mg a 85 mg (rispettivamente per uomini e donne). È importante assumerla con la dieta, mangiando ad esempio 2 kiwi al giorno (128 mg), un’arancia (75 mg), una ciotola di fragole (81 mg) o di ribes rosso (50mg).
Mangiando 100 g di peperone rosso o di cavolo nero ne assumiamo dai 128 mg ai 120 mg, se optiamo per i broccoli 89 mg, spinaci 54 mg, mentre una porzione di lattuga o rucola o cavolo rosso crudo ne apportano rispettivamente 47, 88, 55 mg. Poiché è una vitamina che si ossida facilmente e si perde con la cottura ad alte temperature, è preferibile cuocere a vapore e gli agrumi andrebbero tenuti in frigo e mangiati o bevuti subito, in caso di spremute.
Acidi grassi polinsaturi omega-3. Il capostipite della famiglia è l’acido α-linolenico (ALA). L’organismo non è in grado di sintetizzarlo, per questo è definito un nutriente essenziale che deve essere necessariamente introdotto con la dieta. Presente soprattutto in alcune tipologie di frutta secca e di semi oleosi. Tre cucchiaini di semi di lino ne apportano 5,1 mg, 7-8 noci 2 mg. Fondamentali per l’organismo sono anche l’acido eicosapentaenoico (EPA) e l’acido docosaesoenoico (DHA), appartengono anche essi alla classe degli omega-3. Il fabbisogno giornaliero può essere soddisfatto assumendo pesce azzurro (che ne risulta più ricco): alici, sarde, sgombri. Consigliate 2-3 porzioni di pesce settimanale e 30 gr di noci.
Acido folico. Stimola la formazione di globuli bianchi e il fabbisogno giornaliero (0,4 mg) si raggiunge mangiando mezzo piatto di asparagi, fagiolini, spinaci, bietole o un piatto di scarola, cavolfiori, cavolo cappuccio, fagioli, ceci, lenticchie o piselli. Selenio: ostacola la formazione dei radicali liberi, proteggendo le cellule dai danni dell’ossidazione. Interviene nel funzionamento del sistema immunitario e nel metabolismo degli ormoni tiroidei. Il fabbisogno giornaliero è di 0,05 mg e si assume con mezzo piatto di polpo, 6 gamberi o un filetto di rombo. Tre 3 cucchiaini di semi di chia forniscono un terzo del fabbisogno giornaliero.
Polifenoli. Sono dei modulatori epigenetici del microbiota. Ne contengono in assoluto la quantità più elevata i frutti rossi come more e mirtilli, lamponi, ribes e le verdure crude. Poi the verde, riso integrale, riso nero, miele, origano, rosmarino, basilico, maggiorana e cannella. Una buona quantità di polifenoli si può assumere con 3 cucchiai di un buon olio extravergine di oliva, che contiene anche oleocantale, oleorupeina e idossitirosolo, che hanno un potere anti-infiammatorio paragonabile a quello dell’ibuprobene.
Ferro. Una carenza determina un indebolimento del sistema immunitario e le donne hanno un fabbisogno maggiore dell’uomo, rispettivamente 18 e 10 mg. Alimenti vegetali ricchi di ferro sono legumi, crescione o cavolo riccio. I legumi però contengano i fitati (e assunti in grandi quantità hanno controindicazioni), pertanto è fontamentale eliminarli con l’ammollo. Quattro cucchiai di avena e 4 cucchiai di legumi forniscono circa il fabbisogno di ferro giornaliero. Invece l’alimento di origine animale che ne contiene di più, dopo il fegato bovino, sono le vongole: un piatto sono 100 grammi. Mentre 100 g di carne rossa o bianca forniscono solo 1,9 g di ferro.
Vitamina D. È oggi ritenuta un ormone per il ruolo importante che svolge anche a livello immunitario. I migliori contenuti li troviamo in aringhe, alici o alcuni funghi come i chiodini, mentre è l’esposizione alla luce solare la maggiore fonte. Si considera che buoni livelli di vitamina D nel sangue siano compresi tra 30-50 ng/dl. La quantità di vitamina D che si riceve dal sole dipende da molti fattori:
1) l’ora del giorno (la pelle ne produce di più quando è al sole a metà giornata);
2) la quantità di pelle esposta (più pelle espone una persona, più vitamina D produce il corpo, l’esposizione della schiena, ad esempio, consente al corpo di produrre più vitamina D rispetto alle mani e al viso);
3) colore della pelle: quella pallida assorbe più rapidamente delle pelli di colore più scuro.
Il modo migliore per ottenere abbastanza vitamina è attraverso l’esposizione al sole non protetta da filtri solari, ma questo può causare gravi problemi, soprattutto nei soggetti con pelli chiare e tendenti ad avere molti nei. Quindi occorre valutare i fattori di rischio personali. In generale un’esposizione frequente al sole e per tempi brevi, evitando di scottarsi, è da ritenersi salutare. In caso di carenza è raccomandabile l’integratore a base di vitamina D3 (colecalciferolo), affidandosi ad una figura professionale che ne stabilità il dosaggio giornaliero adeguato.
Alimenti fermentati. Aumentano la salute del microbiota intestinale, del sistema digestivo e immunitario. I più comuni alimenti fermentati sono yogurt, kefir, kimchi, he kombucha, miso, crauti e tempeh.
Cosa evitare? Troppo sale a tavola riduce le difese immunitarie, e quindi la possibilità di contrastare le infezioni batteriche. Bastano 6 g in più al giorno per mandare in tilt una parte fondamentale del sistema immunitario. Stesso meccanismo avviene introducendo troppi zuccheri: una sola lattina di bevanda gassata zuccherata può contenerne fino a 39 g. La dose raccomandata è 25 g. L’effetto sul sistema immunitario è immediato, iniziando 30 minuti dopo il consumo di zucchero, e può durare fino a cinque ore.
Consumo di alcol: l’alcool sopprime il sistema immunitario in ambedue le sue componenti, innata e acquisita, e altera il microbiota intestinale. Se assunto in modo persistente nel tempo riduce le capacità dei globuli bianchi di circondare e distruggere batteri pericolosi. L’eccesso di alcolici, inoltre, interferisce con la produzione di citochine, rendendo più sensibili alle infezioni. Da evitare assolutamente quando è in corso un’infezione virale o batterica.
La qualità alimentare. Per mantenere un buon stato di salute, e avere un sistema immunitario efficiente, è bene cucinare partendo da materie prime non trasformate, non trattate con pesticidi, non provenienti da allevamenti intensivi e che non contengano additivi, zuccheri o eccesso di sale. Infine: queste linee generali non sono adattabili a tutti, occorre considerare il proprio personale stato di salute, età, intolleranza e in tal caso evitare questo o quell’alimento. Nota: Se poi ogni tanto si beve un bicchiere di vino o si mangia una fetta di salame non succede nulla. A tavola, come nella vita, anche la trasgressione ha un impatto positivo sullo stato di benessere, che a sua volta da un buon contributo al sistema immunitario.
Da "liberoquotidiano.it" il 17 febbraio 2020. Una corretta alimentazione è fondamentale anche per il nostro cervello: cibi sani e genuini e poco raffinati sono decisivi per il benessere fisico e psichico. Ci sono infatti dei cibi che sono considerati dannosi per il cervello: nel lungo periodo potrebbero comportare un calo della memoria o un decremento dell'elasticità del governo, comportando un rischio-demenza. Tra questi alimenti ritenuti dannosi, quelli troppo zuccherati o i cibi pronti. Tra gli alimenti dannosi per la nostra "mente" ecco le bibite zuccherate, che aumentano la possibilità di Alzheimer. E ancora, le farine bianche e i carboidrati raffinati, i quali diminuiscono alcune funzioni legate alla memoria a causa della maggiore probabilità di infiammazioni all'ippocampo. Sconsigliati anche cibi pronti e preconfezionati, che contengono conservanti e idrogenati, sempre correlati all'Alzheimer. Bocciato anche l'aspartame, che inibisce l'area del cervello che regola le emozioni. Ma il peggiore dei nemici per il nostro cervello rimane l'alcol, il cui abuso comporta la riduzione del volume cerebrale e compromette i neurotrasmettitori.
Angela Cotticelli per "iodonna.it" il 28 febbraio 2020. Scaffali dei supermercati saccheggiati, affannosa ricerca di mascherine e disinfettanti per le mani, locali e strade vuote, persone che guardano il prossimo con diffidenza. Sono questi gli effetti della diffusione del Coronavirus in Italia, un’epidemia che ha causato enormi sconvolgimenti per chi vive nelle zone del focolaio e che continua a scatenare attacchi d’ansia e panico lungo tutto lo stivale. Eppure «Il panico, la paura e lo stress psichico sono potenti immunosoppressori, compromettono l’efficienza del sistema immunitario, la nostra principale e naturale difesa contro le aggressioni virali e batteriche», avverte il professor Pier Luigi Rossi, Specialista in Scienza della Alimentazione e in Igiene e Medicina Preventiva e docente presso l’Università degli Studi di Bologna, Università Cattolica di Roma, Università di Sassari. «Piuttosto che guardare al di fuori di noi e temere il Coronavirus, dobbiamo concentrate l’attenzione verso il nostro sistema immunitario e la vitamina D, che costituiscono la nostra vera e naturale difesa contro le malattie infettive», continua l’esperto. Perché ci si ammala. «Abbiamo sottovalutato la nostra reazione immunitaria, talvolta compromessa da uno stile di vita sbagliato e da un’errata alimentazione. Siamo perciò più deboli e incapaci di far fronte a batteri e virus. Ci si ammala perché il sistema immunitario non è in grado di difenderci. Aver ridotto la Scienza della Alimentazione ad un gossip dietetico commerciale è stato ed è un grave errore scientifico e culturale. Non si mangia solo per dimagrire, ma per costruire ogni giorno il nostro organismo», mette in guardia Rossi. Ma come rafforzare il sistema immunitario e tenere sotto controllo i livelli di vitamina D per mettere a riparo l’organismo dalle aggressioni virali? L’iter della vitamina D «La vitamina D è la regina del sistema immunitario. Per i suoi effetti riconosciuti è oggi definita un ormone in grado di agire sulle cellule immunocompetenti attivando la loro attività. È messa in deposito all’interno degli adipociti e da lì deve passare nel sistema linfatico per essere disponibile prima di giungere nel sangue. Ma in presenza di un sistema linfatico compromesso, si ha un effetto sequestrante: la vitamina D staziona nell’organo adiposo. In condizioni normali, invece, viene drenata nel sistema linfatico e giunge nelle stazioni, i linfonodi, che producono gli anticorpi e attivano il sistema immunitario», spiega il professor Rossi. La giusta dose «Molte persone non hanno mai eseguito la ricerca della vitamina D nel sangue. Conoscere il proprio valore è una scelta di medicina preventiva. Consiglio questa semplice analisi del sangue all’inizio dell’autunno per stare in salute durante l’inverno. Perché l’organismo possa avere una naturale difesa, è fondamentale che la dose di vitamina D3 nel nostro organismo sia superiore a 30nanogrammi, meglio ancora se il suo valore superi i 50 nanogrammi», illustra l’esperto. Vitamina D per fasce d’età «Proprio in questi giorni di Coronavirus ho terminato una ricerca scientifica su oltre 12mila referti di analisi del sangue per la vitamina D eseguiti nella mia città, Arezzo. È risultato che il 30% della popolazione ha un valore basso di vitamina D. Il parametro più significativo capace di incidere sulla sua carenza è l’età, non è il sesso. I bambini e i giovani sotto i 15 anni hanno una loro ottima dose di vitamina D, che col passare degli anni si riduce in modo progressivo, esponendo il corpo umano a decadenza funzionale e strutturale. Il numero maggiore di referti con carenza di questa vitamina appartengono alla classe di età superiore a 80 anni», sottolinea il professor Rossi. Quando il valore è basso «Le persone con ridotti valori di vitamina D possono tendere ad ammalarsi con maggiore frequenza rispetto alle persone con efficienti valori di vitamina D3. Il 90% della vitamina D del nostro organismo è ottenuta dall’azione dei raggi solari sul colesterolo della cute, che si trasforma in vitamina D. Il restante 10% deriva invece dagli alimenti», evidenzia l’esperto. Le cause della sua carenza «Le cause di grave ipovitaminosi D possono essere una progressiva perdita della cute a produrre vitamina D per azione dei raggi solari, una maggiore massa adiposa accumulata con l’età, in grado di sequestrare la vitamina D all’interno degli adipociti bianchi, una minore esposizione al sole della cute per uno stile di vita che prevede poco tempo all’aria aperta e infine un’alimentazione carente di alimenti ricchi di vitamina D», suggerisce il professor Rossi. I cibi che la contengono «Si sente parlare spesso di vitamina D in correlazione alla menopausa. Ma la carenza di vitamina D non è solo un problema di osteoporosi, anche di sistema immunitario. È consigliabile perciò portare in tavola gli alimenti che ne sono ricchi. In primis: pesce, uova, burro, alcuni formaggi e avocado», sottolinea l’esperto. Come integrare «Su consiglio del medico, possiamo realizzare l’integrazione della vitamina D con piccole dosi giornaliere, per garantirne il naturale assorbimento. Una volta iniziata l’integrazione mediante farmaco, bisogna comunque procedere alla verifica del livello di vitamina D con una nuova analisi del sangue per verificare che la cura stia garantendo una dose idonea nell’organismo, assicurando quindi una naturale stimolazione sul sistema immunitario», conclude il professor Rossi.
Marta Musso per "wired.it" il 27 agosto 2020. Nello scatolone delle cose proibite, le donne incinte dovrebbero aggiungere ora anche la moka e il caffè. A consigliarlo oggi sono i ricercatori dell’università di Reykjavik, in Islanda, secondo cui il consumo di caffeina, probabilmente una delle sostanze psicoattive più consumate al mondo, è associato a esiti negativi della gravidanza. Dallo studio, appena pubblicato sulla pagine della rivista Bmj Evidence based Medicine, non esisterebbe una soglia sicura di consumo di questa sostanza per le donne incinte, contrariamente a quando creduto finora. Ma non tutti sono d’accordo. Secondo le raccomandazioni dell’Nhs britannico, dell’American College of Obstetricians and Gynecologists, delle Dietary Guidelines for Americans e dell’Autorità europea per la sicurezza alimentare (l’Efsa) il limite di sicurezza per il consumo di caffeina durante una gravidanza è fissato a 200 mg, pari a circa due tazze di caffè al giorno. Nel nuovo studio, tuttavia, i ricercatori hanno passato in rassegna circa 50 ricerche precedenti riguardanti il legame tra la caffeina e gli esiti della gravidanza, scoprendo che questa sostanza è associata a un aumento significativo del rischio di eventi avversi, come aborto spontaneo, natimortalità, basso peso alla nascita, leucemia infantile, sovrappeso e obesità infantile. Questo studio, precisiamo, è osservazionale e non dimostra, quindi, alcuna relazione di causa-effetto tra il consumo di caffeina e gli esiti negativi di una gravidanza. Secondo i ricercatori, tuttavia, evitare del tutto bevande come caffè e tè sarebbe la raccomandazione migliore per le future madri. “Esiste una sostanziale evidenza cumulativa di un’associazione tra consumo materno di caffeina e diversi esiti negativi della gravidanza, in particolare l’aborto spontaneo, natimortalità, basso peso alla nascita, leucemia acuta infantile e sovrappeso e obesità infantili, ma non il parto pretermine”, spiega Jack James, autore dello studio. “Di conseguenza”, precisa l’esperto, “le attuali raccomandazioni sanitarie riguardanti il consumo di caffeina durante la gravidanza necessitano di una revisione radicale”. Ma non tutti sono d’accordo. Molti esperti, infatti, consigliano di limitare, e non eliminare del tutto, il consumo di caffeina durante una gravidanza. Per esempio, secondo Christopher Zahn, vicepresidente dell’American College of Obstetricians and Gynecologists “non è necessario un cambiamento immediato all’attuale raccomandazione basato su questa ricerca”, riferisce l’esperto alla Cnn. “Il consumo moderato di caffeina, meno di 200 mg al giorno, non sembra essere un fattore importante che contribuisce all’aborto spontaneo o al parto pretermine”. Della stessa opinione è anche Daghni Rajasingam, portavoce del Royal College of Obstetricians and Gynecologists, secondo cui “il consiglio di limitare l’assunzione di caffeina a 200 milligramm al giorno è ancora valido. Questo studio non sostituisce tutte le altre prove disponibili che dimostrano che un consumo limitato di caffeina è sicuro per la maggior parte delle donne incinte”. Altri esperti, inoltre, ritengono che i risultati del nuovo studio siano allarmisti. “Ci sono così tante cose che bisogna evitare durante una gravidanza che l’ultima cosa di cui abbiamo bisogno è generare ansia inutile”, spiega alla Bbc Luke Grzeskowiak, ricercatore all’Università di Adelaide, in Australia. “Le donne dovrebbero essere rassicurate sul fatto che la caffeina può essere consumata con moderazione durante la gravidanza”.
Da "leggo.it" il 28 febbraio 2020. Il caffè ci dà il buongiorno tutte le mattine, il nostro miglior amico almeno fino alle 9.00 quando in genere poi si è costretti ad accendere il pc e barcamenarsi tra scartoffie, telefonate e colleghi: l’oro nero diventa un preziosissimo alleato anche nella dieta, aiuta infatti a dimagrire con un metodo scientificamente provato. Tutto sta nell’accelerare il metabolismo e portare il nostro corpo a bruciare più velocemente le calorie che ingeriamo. Uno studio pubblicato dalla National Library of Medicine ha dimostrato che consumare caffeina contribuisce alla riduzione della massa grassa e un’altra ricerca parallela – condotta dal Centro di ricerca sull’infiammazione di Hong Kong in Cina – ha indagato sull’azione combinata di caffè e cannella per dimagrire più rapidamente: ne basta mezzo cucchiaino in una tazza di caffè nero.
Maria Rita Montebelli per “il Messaggero” l'1 agosto 2020. C'è chi lo gusta alla salentina, con ghiaccio e latte di mandorle e chi lo concepisce solo alla napoletana, ristretto e in tazzina bollente. In qualunque declinazione, il caffè è una piccola gioia, un delizioso rito sociale e culturale, che ci tiene compagnia dall' inizio della giornata. Ma quanto se ne può consumare per essere certi di non assaporarne anche gli effetti indesiderati? A fare il punto sulle ripercussioni del caffè sulla salute è un articolo del New England Journal of Medicine, firmato ricercatori dell' Università nazionale di Singapore e di Harvard.
LA SICUREZZA. Il perimetro di sicurezza è definito dal contenuto di caffeina, il cui consumo negli adulti non dovrebbe superare i 400 mg al giorno (e mai più 200 mg in un colpo solo). Una misura piuttosto larga, pari a 5 tazzine di espresso o 8 tazze di tè. Ma la caffeina è presente anche in alcuni soft drink, negli energy drink (che ne contengono da 80 a 420 mg per confezione) e nelle pillole anti-fatica, in vendita sul web. Per anni si è discusso dei possibili pericoli per la salute (in particolare sul fronte cancro e malattie cardiovascolari) di caffè e caffeina. Poi se ne sono scoperti i risvolti salutari; il caffè ad esempio contiene polifenoli e niacina che riducono lo stress ossidativo, migliorano la salute del microbioma intestinale e modulano il metabolismo dei grassi e degli zuccheri. Per contro tuttavia, il cafestolo, una sostanza presente nel caffè non filtrato (espresso, caffè turco), fa aumentare il colesterolo. Ma anche così, un consumo di 3-5 tazzine di caffè al giorno si associa a un ridotto rischio cardiovascolare. La caffeina inoltre riduce il senso della fame e stimola il metabolismo basale, quindi aiuta a non aumentare di peso (a patto di non consumarla nelle bevande zuccherate) e protegge dalla comparsa di diabete di tipo 2.
IL FEGATO. Questa sostanza psicoattiva protegge inoltre da malattie del fegato, calcoli biliari e renali, alcuni tumori (come quello del fegato e dell' endometrio) e morbo di Parkinson. Il consumo di 2-5 tazze al giorno si associa infine ad una ridotta mortalità. L' effetto della caffeina dura in genere 2,5 - 4,5 ore, con ampie differenze individuali; il fumo ne dimezza la durata in circolo, i contraccettivi orali la raddoppiano. Da evitare decisamente in gravidanza, soprattutto negli ultimi mesi, quando per smaltirla occorrono fino a 15 ore. Se consumata nelle giuste dosi, la caffeina aumenta le performance cognitive e il livello di attenzione, riduce il senso di fatica e la percezione del dolore. Per contro, chi esagera si ritrova a fare i conti con uno stato ansioso, nervosismo insonnia, tremori, tachicardia.
LE ARITMIE. Infine, l' accoppiata caffeina (in genere sotto forma di energy drink super zuccherati) alcol, tanto in voga tra i giovani della movida, può scatenare gravi problemi neurologici (i più piccoli hanno una soglia di tolleranza alla caffeina, principale ingrediente, molto bassa) e cardiovascolari (aritmie), che possono rivelarsi anche fatali. Abbiamo detto che la dose giornaliera di caffeina ritenuta accettabile per un adulto in buone condizioni di salute è di 400 mg, valore che scende a 100 mg per gli adolescenti. Il consumo di una sola lattina, dunque, copre spesso quasi tutta la dose giornaliera accettabile di caffeina e a volte, addirittura, la supera.
Maria Rita Montebelli per “il Messaggero” il 21 febbraio 2020. Consumare latte e latticini in grandi quantità fa bene o male alla salute? Nell'immaginario collettivo il latte, per i bambini, come per gli adulti, è un superalimento benefico. Un articolo di revisione del New England Journal of Medicine di questa settimana, fa luce su una serie di miti. Secondo gli autori, Walter Willett e David Ludwig dell'Università di Harvard (Usa), la quantità ottimale di latte da consumare, dipende solo dalla composizione generale della dieta. Calcio e vitamina D, ad esempio oltre che nel latte si possono trovare anche nei cavoli, nei broccoli, nella frutta a guscio, e anche nei fagioli. Secondo i ricercatori si possono raddoppiare le dosi di latte e latticini quotidiane se si limitano quelle di carni rosse e insaccati. Da evitare, invece, l'aumento della quantità di latte e latticini dimenticando verdure e legumi. Non c'è inoltre motivo di preferire il latte scremato a quello intero, in termini di vantaggi per la salute. E mentre non ci sono dubbi che nei bambini e negli adolescenti il latte sia un alimento prezioso per la crescita, negli adulti i suoi benefici sono più sfumati. Ecco perché. Il latte fa bene alle ossa? Si ritiene che la bevanda possa proteggere dal rischio di fratture, grazie al suo contenuto di calcio. Ma guardando le statistiche questa certezza rivela qualche piccola ombra. Le nazioni che consumano più latte, infatti, sono anche quelle con i tassi più elevati di frattura dell'anca. Secondo gli autori non esistono prove che un elevato consumo di latte durante l'adolescenza (e men che mai in età adulta), protegga dal rischio di fratture più tardi nel corso dell'intera vita. Gli studi dimostrano invece che consumare latte da ragazzi aiuta a diventare più alti, forse grazie al suo contenuto in alcuni aminoacidi e ormoni anabolizzanti. Il latte aiuta a controllare il peso? Una metanalisi di 29 studi randomizzati non ha riscontrato alcun beneficio sul controllo del peso corporeo in chi consuma latte e latticini. Solo il consumo di yogurt risulta associato ad un minor aumento di peso. Gli studi sull'adolescenza e sui bambini rivelano che il consumo di latte scremato è associato ad un aumento di peso, mentre quello di latte intero e latticini, no. A conti fatti sembra avere un effetto neutro sulla bilancia.
Il latte abbassa la pressione? Visto il contenuto relativamente alto di potassio il latte consumato in grandi quantità, potrebbe aiutare a ridurre la pressione arteriosa. Gli studi non dimostrano questa ipotesi. Il consumo di latte protegge dal diabete? In alcuni studi, l'assunzione di latticini si associa ad una modesta riduzione del rischio di diabete di tipo 2. Per ridurre il rischio è meglio bere latte, che bevande zuccherate o succhi di frutta. Ma bere caffè protegge dal diabete più del latte.
Il latte protegge dai tumori? Non è facile dare una risposta a questa delicata domanda, perché tanti sono i fattori di confusione relativi ad alimentazione e tumori. Gli studi sembrano però suggerire un aumento del rischio di alcuni tumori (prostata e forse tumore dell'endometrio) nei forti consumatori di latte; al contrario il latte sembra proteggere dal rischio di tumore del colon.
DAGONEWS il 12 febbraio 2020. Curiosi di sapere cosa succede al vostro corpo quando mangiate cibo spazzatura? Lo rivela la dietologa Susie Burrell che ha spiegato perché i fast food sono così dannosi per la nostra salute: lo junk food contiene le calorie di cui hai bisogno per un'intera giornata, insieme a zucchero, sale e grassi saturi che vengono raccomandati in quasi due giorni. E se mangiare cibi ultra-elaborati porta a lungo termine a un aumento di peso e a rischi per la salute come malattie cardiache e diabete, Susie ha sottolineato che gli effetti si vedono anche nell’immediato. «Ci sono molti effetti collaterali anche quando mangi fast food solo occasionalmente - ha detto - Quando sovraccarichi lo stomaco e il cervello con un afflusso di grassi, calorie, carboidrati e zuccheri, probabilmente ti sentirai di nuovo affamato molto più rapidamente. Ciò significa che anche se hai introdotto nel tuo corpo 1.000 calorie in meno di 10 minuti, il corpo ama così tanto questa energia che la brama di nuovo molto rapidamente. E dunque avrai voglia di cibi ricchi di grassi e zuccherini, con un alto contenuto di sale come pizza, hamburger e pollo fritto che portano a gonfiore e stanchezza. L'alto contenuto di sale in genere porta ritenzione idrica mentre il corpo fa gli straordinari nel tentativo di sbarazzarsi dell'enorme quantità di sale che ha ricevuto. Questo è il motivo per cui potresti sentirti stanco, gonfio e assonnato per oltre due ore dopo che hai mangiato in un fast food. Per il cuore significa anche lavorare di più, il che pone più stress sul corpo in generale». Quando si mangia un pasto ricco di grassi e carboidrati, il corpo è «costretto a rilasciare insulina in più nel tentativo di mantenere i livelli di glucosio nel sangue sotto controllo. Ciò significa che ogni volta che mangiamo un pasto abbondante, c'è una maggiore pressione sui nostri livelli di insulina, che alla fine porta a un lento e insidioso aumento di peso nel tempo - ha continuato Susie – Gli alti livelli di insulina portano a un aumento di peso, fame, insulino-resistenza, diabete e infiammazione». Se vuoi ancora goderti un pasto da fast food, Susie consiglia di mangiare cibo spazzatura solo una volta al mese, imparando a concederselo sempre un po' meno.
Cristiana Lauro per Dagospia il 7 febbraio 2020. In Italia viviamo per il cibo, non parliamo d’altro. Sappiamo stare a tavola, esportiamo la fama dei nostri cuochi ovunque, nelle nostre case mediamente si mangia meglio che all’estero e siamo produttori di ottime materie prime su tutto il territorio. Che bravi noi italiani! Sì, ma siamo anche dei rompicoglioni però, ammettiamolo. Ognuno ha le sue fisse e guai a chi tocca le tradizioni! La cucina della nonna non si discute, le ricette vengono tramandate oralmente per centoquaranta generazioni, il nome del piatto è valido solo nel proprio quartiere e chi più ne metta, pur di rompere le palle con idee granitiche immutabili. Ricordate i primi anni di Masterchef, quando il giovedì sera stavamo tutti quanti appiccicati alla TV a rimirar Bastianich, Cracco e Barbieri fra padelle, scene madri e sganassoni? Erano divi di prim'ordine. Cracco in particolare il più desiderato dalle donne a colazione, pranzo e cena, con picchi acuti di aspirazione durante lo spuntino notturno. Nonostante le pause solenni e lo sguardo severo, Cracco era inattaccabile. Poi però decise di mettere l’aglio nell’amatriciana e apriti cielo. Uno spicchietto d’aglio, sia ben chiaro, non lo zenzero o la salicornia, ma venne giù il mondo. Si fermò il Paese, impazzirono i social, ci furono scioperi e picchetti fuori dalle fabbriche, in diversi istituti alberghieri e manifestazioni in piazza con interpellanze parlamentari. In un batter d’occhio una massa incontenibile di permalosi imbracciò l’artiglieria mentre comprava la pizza surgelata al supermercato. Il tradizionalista duro e puro è così, per lui nulla è perfettibile, ma tutto è sospetto. In trent'anni ha cambiato abitudini su abbigliamento, scelte politiche e gusti sessuali. Manda audio o faccette su whatsapp, ha imparato a twittare, piazza commenti con le gif su Facebook, ma se la cottura del ragù non arriva a sei ore precise è disposto a portarti in tribunale. Ecco un breve tracciato geografico e umano di alcuni esempi di intransigenza assoluta nei confronti dei quali anche la psichiatria ha gettato la spugna.
IL CARBONARISTA. E’ convinto di sapere tutto sulla carbonara, a dire il vero non ha mai approfondito le origini e la tradizione di questo piatto avvolto nel mito. Guancialista radicale e oltranzista, potrebbe passare le ore a schernire il nordico che usa la pancetta, a bullizzare il ristorante che ci ha messo un po’ di panna o a stigmatizzare chi taglia il pecorino con troppo parmigiano. Mangia la carbonara solo in tre ristoranti a Roma (impossibile allargare la cerchia) e ha attivato un alert sul cellulare che scatta quando qualcuno nomina il suo piatto preferito. Si vanta di cucinarla da Dio e solitamente è un chiodista - ovvero un maniaco della pasta al dente - che per dodici secondi di cottura in più può scatenare l’inferno. (Se volete approfondire la storia e le origini della pasta alla carbonara e provare delle ricette con varianti creative firmate da grandi chef, vi consiglio di leggere “La carbonara perfetta”, di Eleonora Cozzella. Cinquesensi editore).
IL GOURMETTISTA. Usa solo prodotti di eccellenza, sottolineando con una certa spocchia la parola eccellenza. È sia causa che effetto del dilagante fighettismo gastronomico contemporaneo. Quello che ha obbligato anche le trattorie più rustiche a declamare i piatti e a raccontare al cliente le abitudini fisiche e morali dei contadini. Mangia in una decina di ristoranti in tutta Italia, e non ne scopre uno di sua iniziativa manco se lo paghi. Negli anni ha trasformato le sue ossessioni modaiole - ma non il suo atteggiamento generale - passando dallo zenzero al topinambur, per finire con le patate viola. Se al gourmettista capita di dover preparare per qualcun altro un pezzo di pane con burro e alici, quel pane sarà solo a lievitazione naturale con farine di grani antichi macinate a pietra, burro da affioramento e alici rigorosamente del Cantabrico. Cetara, adesso no. Mentre, in assenza di estranei, per uno spuntino a casa, uno snack preconfezionato dell’hard discount va benissimo. Le sue scelte sul vino sono altrettanto modaiole quindi è maniaco dei vini “naturali”, ossessionato dai solfiti e, se ha meno di quarant’anni, beve birre artigianali. Sopra i quaranta invece va bene tutto, tanto è birra.
L'ESCLUSIVISTA. Che Napoli sia la città della pizza l’hanno capito anche gli americani (addirittura!). I napoletani sono dei commercianti meravigliosi e riescono a condurre locali che sfornano 1500 pizze al giorno con una qualità elevatissima. Chapeau! Ma l’atteggiamento dei napoletani sulla loro specialità è un po’ fanatico. Insomma la pizza buona esiste solo a Napoli perché ci stanno il sole, l’aria e l’acqua di Napoli, le canzoni e mille altre tradizioni che nessuno si sognerebbe di attaccare. Ma non portate un napoletano a mangiare la pizza dove dite voi se non volete passare la peggiore serata della vostra vita. D’altra parte le guerre alimentari nel nostro paese sono all’ordine del giorno, da nord a sud. Alcuni altri esclusivisti sparsi per il nostro territorio sono: i bolognesi con i tortellini (in perenne scazzo coi modenesi per stabilire la paternità del piatto), i veneti coi risotti, i milanesi con la cotoletta, i romagnoli con la piadina (sul tema fra Cesena e Riccione volano stracci) i romani con la pasta asciutta, solo per citare alcuni esempi. E non parliamo della Sicilia dove la battaglia fra arancino e arancina assume connotati epici. Insomma, potremmo dire che l’Italia è un paese unito nella battaglia gastronomica.
IL RISOTTISTA. Si fa presto a prendere per i fondelli i miti meridionali e capitolini ma guardate che anche a Milano - e al Nord in generale - quando la faccenda sfiora i fornelli il discorso si fa serio, ad esempio se parliamo di risotto. In Veneto e in Lombardia lo fanno meglio, l’hanno capito anche i francesi (addirittura!), ma anche qui alcuni miti stanno invecchiando male. Il risotto è un piatto di rara robustezza che ci ricorda un’Italia affamata di pietanze sostanziose e sorrisi nel dopoguerra. Ma è proprio necessario aggiungere col badile qualche tonnellata di burro per ottenere il famoso effetto onda? Per preparare il risotto alla milanese si comincia con i grassi e si finisce con altri grassi. Sì, perché prima si soffrigge (ovviamente con il burro), poi si tosta il riso, si sfuma col vino, si aggiunge il brodo di carne un po’ alla volta e alla fine formaggio grana a valanga e il burro di cui prima. Io però, cari risottisti radicali, vi giuro che i risotti buoni si possono fare anche utilizzando qualche quintale di burro in meno. Il genovese ha la testa dura e il carattere un po’ burrascoso ma se osi affermare questa cosa, rischi la rissa. Va bene amici genovesi, mettiamola così: siete molto severi e la vostra severità si manifesta principalmente quando si parla di pesto, dove già i problemi iniziano nella denominazione “pesto genovese” contro “pesto alla genovese” (son problemi) per finire sugli ingredienti e sul metodo. Il pesto si prepara con il basilico genovese d.o.p che è un particolare tipo di basilico a foglia piccola. Si utilizza olio extra vergine di oliva della riviera ligure e va pestato nel mortaio di marmo col pestello di legno. Se vi dovesse sfiorare la più vaga idea di andare in deroga a una sola di queste regole, siete squalificati. Ok è vero, frullatori e minipimer aumentano la temperatura del basilico, ma non facciamone una guerra di religione! Ovviamente anche i genovesi partecipano agli scazzi gastronomici tipicamente italiani, e infatti è meglio non dargli torto nemmeno sulla focaccia, sulla farinata, le acciughe, il baccalà, i gamberi e bla, bla, bla. Capito come siamo messi? E adesso con una cottura risottata vado a scuocere una carbonara al pesto genovese con olio siciliano e la metto su una base di pizza che ho fatto a modo mio. Così, per vedere l’effetto che fa.
Miriam Romano per ''Libero Quotidiano'' il 6 febbraio 2020. In quanti ci siamo adoperati per ridurre il caffè o addirittura per eliminarlo del tutto dalle nostre giornate. Abbiamo passato, e l'epoca non si può dire del tutto conclusa, persino la moda delle bevande sostitutive. Dal caffè decaffeinato a tazze abbondanti di tè senza caffeina per attutire i sensi di colpa. L'abitudine a centellinare la caffeina fino a quasi eliminarla è per molti una sofferta astinenza. Ma a quanto pare gli amanti del caffè potranno tirare un sospiro di sollievo. Un cambio di tendenza, come spesso accade in questi casi, si sta registrando. La demonizzata caffeina, per anni ostracizzata, sta tornando in voga. Ne sono riprova alcune bevande che, a scapito delle mode trascorse, non temono più di inserire la caffeina tra gli ingredienti principali. Un nuovo tè nero, "Attivatè", è da poco sul mercato. Una bevanda che non solo non nasconde la caffeina ma ne sfoggia pure la presenza. Il tè con più caffeina. E pure la coca-cola ormai si è lasciata alle spalle le varianti senza caffeina. L' ultima varietà è quella al contrario «Plus» caffè, che significa appunto con più caffeina. Tanto che sorseggiare una lattina di coca cola è uguale a bere una tazza di caffè.
DOLCE RISVEGLIO. E a dirla tutta non è nemmeno un male. Perché al di là di specifiche controindicazioni per particolari stati di salute, si può senz' altro dire che il caffè male non fa. Una buona notizia soprattutto per chi per svegliarsi non può farne a meno. È chiaro, l' abuso di caffeina, come d' altronde quasi d' ogni cosa, non è consigliato. Ma privarsi di due o tre tazzine al giorno, è una rinuncia evitabile. In alcuni casi e per alcune situazioni, può persino fare bene. Alcuni studi, ad esempio, dimostrano che assumere regolarmente caffè può proteggere da malattie degenerative come Alzheimer o Parkinson. Il motivo è forse intuitivo: le persone che bevono caffè sono più attive durante la giornata, evitano di appisolarsi sul più bello, non faticano a rimanere svegli fino a sera. Uno stile di vita quello dei "bevitori" del caffè che protegge, insomma, dalle condizioni che affievoliscono le funzioni cerebrali. Il caffè se non rende più intelligenti, permette al cervello di lavorare più efficacemente. Chi prima di studiare per sostenere un grosso esame, non è stato favorito da grosse sezioni di caffè per migliorare la concentrazione ? Sedersi poi al tavolo e consumare una tazza di caffè è un momento prezioso della giornata. Ma al di là delle percezioni personali, pure la scienza lo conferma: la caffeina mette di buon umore. La spiegazione è questa: la caffeina bloccherebbe la produzione di adenosina, induttore del sonno, e riuscirebbe a collegarsi ai recettori della dopamina, causa principale delle sensazioni di buon umore. Per chi invece sostiene che il caffè faccia male perché alla pari di sigarette o droghe crei dipendenza, non è del tutto vero. Che un caffè tiri l' altro è innegabile. Ma a differenza di altre sostanze una vera e propria dipendenza da caffè, non esiste. Complice invece la dopamina, che dal caffè viene sì accresciuta, ma non provoca un circolo vizioso: il nostro cervello diventa solo più sensibile e dunque rifiutare di bere un altro caffè non è così semplice.
IN LINEA. Non solo. La caffeina può essere anche utile alla perdita di peso ed è consigliata dai dietologi per favorire le diete. Proprio il caffè infatti aiuterebbe a tirar via i cuscinetti di grasso, riducendo la produzione di trigliceridi. Se la massa corporea magra, infatti, non viene intaccata dall' assunzione di caffeina, la massa grassa, in parte, viene "stimolata". Un'ottima soluzione per tutti, ma soprattutto per chi pratica sport come corsa o ciclismo, per i quali i "cuscinetti" di grasso sono drasticamente da evitare. Tanto che gli atleti, solitamente, non si negano mai una bevanda a base di caffeina. E pure il fegato trae i suoi benefici dall' assunzione di caffè. Studi recenti confermano che bere almeno una tazza di caffè al giorno riduce del 20% la probabilità di ammalarsi di cirrosi epatica. I benefici al buon umore, inoltre, sono stati sottolineati anche da un' indagine dI Harvard, secondo cui bere il caffè ridurrebbe la propensione al suicidio. Il consumo di 2 o 3 tazze di caffè al giorno, infatti, diminuirebbe il rischio di suicidio del 50%. Come dicevamo dunque, mai abusare. Ma non neghiamoci il piacere di una semplice tazza di caffè.
Peperoncino, rischio infarto ridotto del 40% e di ictus del 60%: quante volte assumerlo a settimana. Libero Quotidiano il 17 Dicembre 2019. Usare il peperoncino riduce il rischio di morte per infarto del 40% e di ictus del 60 per cento. E ancora, riduce del 23% il rischio di decesso per qualunque causa rispetto a chi non ne fa uso abitualmente. Sono questi i clamorosi risultati di uno studio pubblicato sul Journal of the American College of Cardiology e coordinato dagli epidemiologi dell'IRCCS Neuromed di Pozzilli (Isernia). Importantissime le dosi: il peperoncino per ottenere simili risultati va usato circa 4 volte a settimana. La ricerca - effettuata in collaborazione con l'Istituto Superiore di Sanità, l'Università dell'Insubria a Varese e il Cardiocentro Mediterraneo di Napoli - è basato sull'analisi delle abitudini alimentari di 22.811 molisani il cui stato di salute è stato monitorato per un tempo medio di otto anni. Gli esperti hanno visto che usare il peperoncino 4 o più volte a settimana si associa a una riduzione del rischio complessivo di morte del 23%, una riduzione del rischio di morte per infarto del 40%, e una riduzione di oltre la metà del rischio di ictus. Marialaura Bonaccio, primo autore del lavoro ed epidemiologa del Neuromed, ha spiegato che "l'aspetto più interessante è che la protezione assicurata dal peperoncino è indipendente dal tipo di dieta adottata complessivamente, ovvero sia che si mangi in modo sano, sia che si scelga un'alimentazione meno sana, l'effetto protettivo del peperoncino.
Da "liberoquotidiano.it il 4 febbraio 2020. Una ricerca che arriva dal Canada potrebbe cambiare la nostra concezione sulle uova. Lo studio - effettuato dai ricercatori di Population Health research institute della McMaster University e di Hamilton health sciences - mette in luce come mangiare un uovo al giorno, al contrario di quanto si possa pensare, non ha nessun effetto negativo per la salute. Nemmeno per chi ha mattie cardiovascolari o metaboliche. Gli scienziati - come riporta ilfattoalimentare.it - hanno esaminato i dati di 177mila persone, raccolti nell'ambito di tre studi precedenti condotti in 50 paesi di sei continenti. In tutto, le ricerche avevano coinvolto 146mila soggetti sani e 31.500 persone con patologie cardiovascolari. In tutti e tre gli studi erano presenti dati sulle abitudini alimentari dei soggetti: dunque è stato possibile dividere i soggetti tra chi mangiava un uovo al giorno o meno, rilevando come anche chi lo mangiava non aveva alcuna conseguenza negativa sui livelli di colesterolo ematico o sull'incidenza di gravi eventi cardiovascolari quali infarti. Nessuna conseguenza neppure sul tasso di mortalità.
Daniela Natali per il “Corriere della Sera - Salute” il 9 febbraio 2020. La pasta fa ingrassare? È uno di quegli argomenti su cui non si finisce mai di discutere. Non bisogna mangiarla di sera, sostengono in tanti, perché si depositerebbe tutta su fianchi o pancia (a seconda del sesso di appartenenza). Magari meglio a pranzo quando (si spera) dovrebbe venire bruciata dalle varie attività della giornata. La questione ha tenuto banco qualche mese fa, complice uno studio, mal interpretato, uscito sulla prestigiosa rivista The Lancet , in cui si parlava del ruolo del triptofano nel favorire l' addormentamento. Lo studio, contando sul fatto che la pasta contiene questa sostanza, era diventato l' occasione per parlare di spaghetti e affini come di autentici «cibi della buonanotte». «Tutto un equivoco - spiega però Marcello Ticca, vicepresidente della Sisa, la Società italiana di Scienze dell' alimentazione - e gli autori dell' articolo divulgativo, che lo ha creato, hanno poi provveduto a chiarire».
Come è nato l' equivoco ?
«Sulla pasta circolano a cadenza regolare le notizie più disparate. L' idea che potesse conciliare il sonno era legata al suo contenuto in triptofano. Si tratta di un aminoacido essenziale che favorisce nel nostro organismo la sintesi di serotonina, un neurotrasmettitore che, fra l' altro, controlla l' umore e "sembra" anche poter agevolare il sonno. Però l' efficacia del triptofano da questo punto di vista non è provata e inoltre la pasta non è affatto una ricca fonte di triptofano: ne contengono molto di più altri cibi quali i formaggi maturi, il pesce, le carni, le uova, i legumi. Questo, tuttavia, non significa che sia vietato mangiarla di sera».
Insomma, per penne e maccheroni non scatta mai il coprifuoco, come del resto ha scritto nel suo libro «Miraggi alimentari»?
«Proprio così. La pasta e altri prodotti ricchi di amido possono essere mangiati in qualunque momento della giornata. Anzi, un piatto di pasta, non eccessivo e non troppo condito, viene smaltito molto meglio che non, ad esempio, un piatto di carne, garantendo quindi alla sera una digestione più facile e di conseguenza una migliore qualità del sonno».
È vero che alla sera vanno limitate le calorie o anche questo è leggenda?
«Questo è un argomento diverso. L' opportunità di mangiare di meno la sera si basa sull' interessante teoria che il nostro orologio biologico influisca sulla utilizzazione di quello di cui ci nutriamo, facendo sì che ciò che ingeriamo nella seconda parte della giornata tenda più facilmente a essere immagazzinato come grasso di riserva che non a essere "bruciato" per le nostre necessità energetiche».
Quindi il detto caro ai nostri nonni: «colazione da re, pranzo da principe, cena da povero» è ancora e sempre valido?
«Pare proprio di sì. Ma va precisato che alleggerire il pasto serale per controllare meglio sia il peso, sia la massa grassa complessiva, è una strategia che riguarda tutti gli alimenti, e non certo soltanto quelli a base di carboidrati, come sostiene erroneamente una delle più diffuse false credenze sull' alimentazione».
Che cosa dicono, a proposito di pasta e cereali in genere, le nuove Linee guida per una sana alimentazione uscite a fine 2019?
«Nel ribadire che non esistono cibi buoni e cibi cattivi in assoluto, e che il modello mediterraneo deve restare il cardine dell' alimentazione - risponde Marina Carcea, dirigente tecnologo del Crea, l' italiano Consiglio per la ricerca in agricoltura- nelle Linee Guida si ricorda che i cereali nella nostra dieta sono sempre stati la fonte principale di carboidrati e si ribadisce che circa il 60 per cento delle calorie giornaliere dovrebbe provenire da questi ultimi».
Perché una quota così importante di carboidrati nel nostro menu?
«I carboidrati sono la fonte energetica più facilmente utilizzabile dal l' organismo e la loro assimilazione non produce scorie metaboliche, a differenza di quanto accade con altre molecole, come ad esempio le proteine. Questo fa sì che assicurino alle cellule rapidi "rifornimenti", ma i carboidrati non sono tutti uguali : ci sono quelli complessi e quelli semplici. I primi, rappresentati essenzialmente da amido, che è presente nei cereali, nelle patate, nei legumi secchi, richiedono un certo lavoro digestivo per poter essere assorbiti sotto forma di glucosio; i secondi, definiti semplici, sono costituiti da una o due molecole e sono quelli "dolci", insomma gli "zuccheri", e vengono assorbiti rapidamente.
Ma, allora, ci sono carboidrati da preferire?
«Entrambi i tipi di carboidrati sono importanti per assicurarci energia con modalità differenti, ma la proporzione tra gli uni e gli altri deve essere quella indicata dalle linee guida: almeno tre quarti complessi e non più di un quarto semplici. I cereali poi - come d' altronde la frutta, la verdura , i legumi - specie se integrali hanno il pregio di rifornirci di fibre, che sono fondamentali per regolare molte delle nostre funzioni, nonché di elementi minerali, di vitamine e di altre sostanze bioattive».
Ci dia una parola definitiva: la pasta fa o non fa ingrassare?
«Il fatto è che oggi la mangiano spesso ipercondita. E qui bisogna aprire una parentesi sui grassi. Nelle Linee guida si ricorda che debbono rappresentare il 20-25 per cento delle calorie complessive, il guaio è che noi tendiamo spesso ad assumermene di più. Insomma, non è tanto la pasta, a pranzo o a cena , che ci fa ingrassare, ma il fatto che la mangiamo con sughi ricchi, in un contesto di abbondanza e sedentarietà, e raramente come piatto unico, seguita da una semplice insalata e un frutto. Come dire: è la somma degli addendi che sposta l' ago della bilancia».
· L’Obesità.
Noemi Penna per "lastampa.it" il 24 maggio 2020. Mangiare a volontà e non ingrassare è il sogno di tutti coloro che lottano con il peso forma. Ma esser magri è anche una questione di geni. Una piccola consolazione, o la scusa perfetta in vista della prima prova costume post quarantena, arriva dall'Università di British Columbia, Canada, dov'è stato «isolato» il gene della magrezza. I ricercatori hanno individuato la sequenza genetica che fa mantenere la linea, o meglio, che permette ad alcune persone di rimanere più magre nonostante mangino esattamente come altre. Lo studio, pubblicato sulla riviste scientifica Cell, ha esaminato un campione di 47 mila persone in Estonia, permettendo così di individuare la porzione di Dna che gioca un ruolo centrale nella regolazione del dispendio energetico. «Conosciamo tutti queste persone: è circa l'1% della popolazione», afferma Josef Penninger, direttore del Life Sciences Institute e professore del dipartimento di genetica medica dell'Università della British Columbia. «Possono mangiare quello che vogliono ed essere metabolicamente sani. Mangiano molto, non fanno attività sportiva regolare, ma nonostante tutto semplicemente non aumentano di peso». Una fortuna che alcuni hanno senza neanche accorgersene. Il team di Penninger ha esaminato i dati della biobanca estone, che comprende 47.102 persone dai 20 ai 44 anni, e confrontato i campioni di Dna con i dati clinici dei soggetti sani e magri rispetto ai normopeso e sovrappeso, scoprendo così la presenza costante del gene Alk attivo in chi pesa di più. Già si conosceva l'esistenza dei geni Sirt, al centro di molte "diete" che promettono di dimagrire riattivando il metabolismo. Alk, invece, è sempre stato considerato un oncogene, ovvero un gene che muta frequentemente causando vari tipi di tumori, come quello al polmone. Ma sinora non si conosceva il suo ruolo al di fuori di quello neoplastico. Questa nuova scoperta ha suggerito che il gene in questione potrebbe svolgere un ruolo centrale nell'aumento di peso: basta "spegnerlo", ovvero inibirlo, per rimanere magri. Gli studi sui topi hanno anche suggerito che Alk è altamente espresso nel cervello, da cui comanda i tessuti adiposi a bruciare o meno i grassi dal cibo. Ora, terapie mirate e altri studi su questo gene potrebbero aiutare gli scienziati a combattere l'obesità. «Se ci pensate, è realistico poter spegnere Alk per vedere se dimagriamo», afferma Penninger. «Gli inibitori dell'Alk già esistono e vengono utilizzati nei trattamenti antitumorali». Per raggiungere questo scopo, ovviamente, saranno necessarie ulteriori ricerche e sperimentazioni, a partire dai neuroni che esprimono Alk regolando il cervello a livello molecolare, per bilanciare il metabolismo e promuovere la magrezza.
Maria Rita Montebelli per “il Messaggero” il 14 maggio 2020. L'obesità non è mai una scelta. Ma la conseguenza di una serie di problemi in larga misura indipendenti da noi. Eppure, uno dei pregiudizi più comuni che alimentano lo stigma contro questa condizione è che dimagrire sia solo questione di volontà e che l'essere in forma o in sovrappeso dipenda solo dall'equilibrio tra le calorie ingerite e quelle consumate. Sono le basi pseudo-scientifiche del fat shaming (discriminazione contro le persone grasse), di quella forma velenosa di critica non richiesta che molti riservano alle persone con tanti chili di troppo, facendole vergognare del proprio aspetto e colpevolizzandole. Un fenomeno talmente diffuso e dalle conseguenze così gravi da aver portato un ampio gruppo di esperti internazionali (medici e ricercatori ma anche associazioni di pazienti) a scrivere un vero e proprio manifesto. Nature Medicine lo ha pubblicato di recente, primo nome Francesco Rubino, chirurgo esperto in interventi su pazienti obesi al King's College Hospital di Londra. Da qui, l'allarme. Chi soffre di obesità si vergogna e questa condizione porta a decisioni scellerate come quella di non sottoporsi agli esami clinici e ai regolari test di controllo. I ricercatori hanno sottolineato, in particolare, la diserzione nei confronti degli screening tumorali. Atteggiamento che può facilmente condurre a pericolosi ritardi nella diagnosi di cancro. I tipi che più spesso risultano associati all'aumento di peso nelle donne sono il seno e l'endometrio. Nell'uomo la complicanza più frequente riguarda il tumore del colon. Bullizzate e isolate dai compagni a scuola, discriminate sul lavoro e nella vita sociale da adulti, le persone obese si colpevolizzano anche così, trascurando le minime misure di protezione. Oltre ad essere a maggior rischio di diabete di tipo 2, malattie cardiovascolari e tumori, i soggetti in sovrappeso sono infatti anche a maggior rischio di sviluppare disturbi ansioso-depressivi. Senza contare il fatto ricordano gli autori del lavoro che i pazienti, stretti in una simile morsa, finiscono col mangiare di più e col muoversi di meno. Secondo l'Organizzazione mondiale della sanità, l'obesità è l'epidemia non infettiva più diffusa del Terzo Millennio. Il sovrappeso interessa 2,3 miliardi di persone nel mondo e la condizione di obesità vera e propria circa 650 milioni di persone. In Italia, dati Istat, una persona su dieci viene definita obesa, parliamo di oltre 5 milioni di adulti. Allarme anche per i bambini: su 50.000 under 11, il 21,3% è in sovrappeso e il 9,3% obeso. E purtroppo, sempre partendo dall'assunto infondato che dimagrire sia solo questione di volontà lo stigma continua a perseguitarli anche quando cercano una soluzione nella chirurgia destinata a questi pazienti, la bariatrica. Anche in questo caso, denunciano ancora i ricercatori, le persone obese sono sopraffatte dalla vergogna perché accusate, da un mondo scientificamente ignorante, di aver scelto la via più facile. Spesso l'unica possibile, sottolineano gli autori del lavoro su Nature Medicine. Insomma l'occhio giudicante non solo non aiuta le persone in sovrappeso, ma ottiene l'effetto opposto.
Maria Lombardi per “il Messaggero” il 18 febbraio 2020. Qual è il peso della felicità? Vallo a capire. Con troppi chili in più di certo non ci si sente in pace, non fosse che per le analisi sballate, le scale con l'affanno e poi tutti quegli sguardi, tra la malizia e la commiserazione, e quelle battute ciccione, buzzicona, balena, cicciobomba che restano dentro come cicatrici. Ma non è detto che quando si dimagrisce e tanto, 40 o 70 chili, il risultato sia più leggerezza. È vero la bilancia finalmente ti sorride, dice che ce l'hai fatta, ma il peso a volte non se ne va, resta lì, nella testa, a condannarti al destino di ex-obeso. Grassi anche da neo-magri, insoddisfatti e scontenti. Capita, e gli esperti spiegano perché: al dimagrimento del corpo dovrebbe seguire quello della mente, ma non sempre è così. C'è chi si continua a sedere, anche con sette taglie in meno, con la paura di sfondare la sedia. O chi è convinto di non riuscire a passare attraverso una porta, come succedeva prima e non potrebbe più succedere dal momento che occupa la metà dello spazio. La cantante Adele, la vita più stretta e anche il sorriso, tutti a interrogarsi su quello sguardo appena più spento. Il deputato dem Filippo Sensi, con gli abiti extra large anche se ormai ci balla dentro, e il suo grido di dolore, alla Camera: «Sono stato per tutta la vita e sono, cito, un cicciabomba, un cannoniere, un panzone, un trippone, una palla di lardo. Una volta un ragazzino mi gridò: Sensi mi fai senso, lo ricordo come fosse adesso». Un cicciobomba, era e lo è rimasto. «Chiunque mi conosce sa che sul mio peso scherzo, ci sorrido, lo esorcizzo, ma mi ci misuro ogni giorno e sento questo sguardo che pesa, che mi pesa». Gli alti e bassi che Costanza Rizzacasa d'Orsogna racconta nel suo libro Storia della mia grassezza: «A sedici anni pesavo 80 chili, a diciannove 47, e così via. Ho provato ogni genere di farmaco, ho vomitato per decenni. E intanto sognavo che un giorno, quando fossi diventata magra, tutto sarebbe andato a posto, e la mia vita sarebbe iniziata. Solo che non è mai successo». Quanto è pesante il cammino per la leggerezza. «Il dimagrimento dovrebbero essere sia fisico che mentale», spiega Iris Zani, presidente dell'associazione Amici obesi. «Non sempre è facile. Se la mente non segue la perdita di peso del corpo, non ci si riconosce più». Questo nulla toglie «ai miglioramenti pazzeschi, per la maggioranza, in termini di salute e di vita, ai benefici psicologici». Qualcuno però fatica a ritrovarsi nelle nuove forme, e nemmeno le vede, prigioniero della vecchia immagine, «e continua a cercare un risultato che in realtà ha già raggiunto». Tanti sacrifici per poi non crederci. «Ed è per questo che suggeriamo ai pazienti di farsi seguire nel dimagrimento da un nutrizionista e da uno psicologo». Emanuel Mian, psicologo ed esperto di immagine corporea: «Molti dimagriscono e permangono nella loro insoddisfazione. Si chiama delusione corporea. Riguarda chi ha riposto troppe aspettative nel dimagrimento, dandogli un significato quasi magico». Tanti chili in meno e troverò l'amore, un lavoro, nuovi amici, il successo. Ma riguarda anche chi semplicemente «non riesce a vedere i risultati, ossia non integra a livello neurologico la nuova immagine corporea e lo spazio che occupa». E dunque continua a sentirsi tanto e largo anche se non lo è più, e si accanisce in una dieta che non serve, arriva a infastidirsi per i complimenti, come stai bene, sei in forma, e nemmeno le taglie in meno lo convincono che ce l'ha fatta. «Il segreto è impegnarsi attivamente nel dimagrimento - aggiunge Mian - non viverlo passivamente soltanto perdendo peso. Bisogna usare il corpo con l'attività fisica, con la tonificazione e prendersene cura, solo così si raggiunge una nuova consapevolezza. Usare il corpo, dunque, e non osservarlo». Ricostruirlo se serve, con interventi di chirurgia plastica, perché a volte la pelle flaccida mette più a disagio della ciccia. Le ferite delle offese «quelle non si cancellano» e in un certo senso si resta grassi per sempre, l'ex continua ad essere schiavo dello stigma dell'obesità. C'è chi «chiede continue rassicurazione sul nuovo aspetto con il risultato di aumentare la propria incertezza e chi i complimenti li rifiuta». Una parola in più, e si riaprono le ferite. «Bastano piccole cose per riportarti indietro, ai tradimenti subiti, alle discriminazioni e alle offese. E fanno ancora male», l'attrice Nadia Rinaldi oltre 70 chili in meno. «La mia è stata una rinascita meravigliosa». Un percorso doloroso, si è sottoposta a un intervento di by pass bilio-intestinale. «L'ho fatto per amore dei miei figli, ho rischiato l'infarto e ho dovuto prendere una decisione. Ma voglio dare un consiglio e una giusta informazione. Chi vuole sottoporsi a un intervento come il mio o di riduzione dello stomaco è preferibile che scelga una struttura pubblica. Si viene seguiti anche con un percorso psico-terapeutico». A 16 anni arrivano i chili di troppo. «Per un problema di tiroide. Il pubblico mi ha conosciuta morbida, ma io mi sentivo magra dentro e ho avuto sempre un atteggiamento positivo. Mi fa commuovere vedere le immagini di come ero, mi fa tenerezza la Nadia grassa, è stata brava e le faccio i complimenti perché nonostante tutto ce l'aveva fatta». Eppure, nonostante i chili andati via, «non si dimentica nulla, il dolore subito e le mortificazioni. Quando mi fanno i complimenti oggi, mi viene da pensare: ero così anche quando mi offendevano. I grassi vengono umiliati, le donne anche di più. Adesso tutti mi dicono come sei bella, poi però si fatica di più a trovare ruoli nel cinema. Qualcuno arriva a dire: ti preferivano prima. Se hai fatto la buzzicona, se sei stata una caratterista per loro devi restare inchiodata a quel ruolo. E allora mi viene da chiedere: mi prendevate a fare film perché sono brava o perché ero grassa?». Inutile cercare il peso della felicità, non ne ha.
Da "lastampa.it" il 27 febbraio 2020. La malnutrizione non è più solo carenza di cibo, ma eccesso di quello di bassa qualità. Tanto che il numero di bambini e adolescenti obesi nel mondo è passato dagli 11 milioni del 1975 ai 124 milioni del 2016, un aumento di 11 volte in circa 40 anni. Colpa del marketing aggressivo che spinge sin da piccoli verso fast food, bevande zuccherate, alcol e tabacco. È quanto emerge dal Rapporto realizzato da Unicef, Organizzazione Mondiale della Sanità e Lancet. In alcuni paesi i bambini vedono fino a 30.000 annunci pubblicitari in Tv in un anno. In Italia si stimano circa 2 milioni e 130 mila bambini e adolescenti obesi o in eccesso di peso, pari al 25,2% della popolazione tra i 3 ed i 17 anni. A pesare, secondo l'Associazione, «sono le abitudini a tavola all'interno dei nuclei familiari con il preoccupante abbandono in Italia dei principi della dieta mediterranea. Nel 2019 gli italiani nel carrello della spesa hanno tagliato gli acquisti di frutta e verdura che scendono nel 2019 a circa a 8,5 miliardi di chili, in diminuzione del 3% rispetto all'anno precedente, con effetti sulla salute e sulla qualità della vita, secondo l'analisi della Coldiretti su dati Cso». «Si è verificato infatti un brusco calo che - sottolinea la Coldiretti - ha fatto scendere il consumo individuale sotto la soglia minima di 400 grammi di frutta e verdure fresche per persona, da mangiare in più volte al giorno, raccomandato dal Consiglio dell'Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) per una dieta sana». «A provocare il calo - precisa la Coldiretti - è stato il -4% della frutta ed il -2% degli ortaggi nonostante il diffondersi di smoothies, frullati e centrifugati consumati al bar o a casa grazie alle nuove tecnologie. Un dato ancora più allarmante - denuncia Coldiretti - se si considera che a consumare meno frutta e verdura sono soprattutto i bambini e gli adolescenti, con quantità che sono addirittura sotto la metà del fabbisogno giornaliero, aumentando così i rischi legati all'obesità e alle malattie ad essa collegate». «Per assicurare una migliore alimentazione ma anche per educare le nuove generazioni è importante - sostiene la Coldiretti - qualificare l'offerta delle mense scolastiche anche con cibi locali a km 0 che valorizzano le realtà produttive locali e garantiscono genuinità e freschezza». L'esposizione dei giovani alla pubblicità delle sigarette elettroniche è aumentata invece di oltre il 250% negli Usa in due anni. «L'autoregolamentazione del settore industriale ha fallito. Studi dimostrano - spiega Anthony Costello, uno degli autori del rapporto - che non ha frenato la capacità delle imprese di fare pubblicità ai minori». E la realtà potrebbe essere ancora peggiore. «Abbiamo pochi dati sull'enorme espansione della pubblicità sui social media e degli algoritmi diretti ai bambini».
Tiziana Lapelosa per “Libero quotidiano” il 31 gennaio 2020. La conferma di quel che si vede con gli occhi, soprattutto quando si va in giro per il Sud Italia, è che una buona fetta di bambini è "chiatto". Dove per "chiatto" si intende grasso. Bambini con le guanciotte che vien voglia di tuffarci le dita dentro e girovita da fare invidia a Platinette prima di fare pace con l' alimentazione. La sintesi del bambino obeso è ben rappresentata in un vecchio video - a metà tra una pellicola di Almodòvar e Kusturika - dell' artista napoletana Maria Nazionale che canta "Pens semp à isso" (Pensi sempre a lui), dove si vede, appunto, un bambino in carne che balla e fa il coro. In Italia la situazione è che uno su tre è sovrappeso, uno su dieci obeso cronico. Chili in più che se un tempo certificavano l' appartenenza ad una famiglia benestante, che poteva permettersi cibo a volontà, oggi si traduce in potenziali costi per la sanità italiana, per via delle conseguenze sulla salute che sovrappeso e obesità comportano. Un bambino "tondo" di oggi è un potenziale malato di domani. Un danno se si pensa che in Italia la spesa sanitaria legata ai problemi con la bilancia rappresenta il 9%. Ma veniamo ai numeri, quelli raccolti e diffusi ieri dall' Eurispes, l' istituto di ricerca italiano che monitora i cambiamenti del tessuto sociale e politico dell' Italia. Nel confronto con l' Europa, in quanto a obesità, siamo secondi soltanto a Cipro. Con una differenza tra maschietti e femminucce: i primi raggiungono il 21%, le seconde il 14%, piazzandosi al quarto posto. Che significa? Che si mangia male. E chi lo fa già a partire dall' asilo, non certo per colpa sua, ha un rischio 4 volte maggiore di diventare chiatto nel corso dell' adolescenza. E la stessa possibilità di diventare un adulto obeso la hanno pure quei bambini con i chili che superano la linea sottile tra sovrappeso e obesità, che a sei anni faticano a muoversi. «Bisogna fare attenzione fin da subito. I bambini grassi da piccoli, da grandi avranno difficoltà a dimagrire perché il numero degli adipociti, ovvero le cellule del grasso, che si sviluppano nel corso della crescita, non variano di numero», osserva Ilaria De Rosa, specializzanda in Scienze della Nutrizione. «Quello che varia è il volume. Una volta adulti, si avrà più facilità ad ingrassare che non a dimagrire». L' alimentazione, dunque, è l' abc per un girovita normale. A rischio sono soprattutto quanti nascono e vivono in famiglie con condizioni socioeconomiche difficili e con un livello basso di istruzione. Per lo più al Sud, quindi. I più non hanno la possibilità di comprare cibo il meno elaborato possibile, e incredibilmente più caro, ma possono mettere mano al portafogli solo per acquistare alimenti industriali spesso di bassissima qualità, che vuol dire un eccesso di zuccheri, grassi saturi, calorie. L' Oecd, l'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, ha calcolato che una riduzione del 20% delle calorie contenute negli alimenti ricchi di "inquinati" (e quindi grassi, zuccheri e via così) potrebbe far risparmiare circa 280 milioni di euro all' anno alla sanità riducendo qualcosa come 700mila patologie. Dicevamo dei bambini, e c' è una notizia incoraggiante: i diversi focus fatti dal Sistema nazionale di Sorveglianza (promossi dal ministero della Salute e coordinato dall' Istituto superiore di sanità) hanno evidenziato che dal 2008 ad oggi le percentuali sono in discesa. Come campione, a distanza di due anni, sono stati presi 45mila bambini tra gli 8 e i 9 anni. Ne è emerso che tra il 2008/9 e il 2016, la prevalenza del sovrappeso è passata dal 44,4 al 39,4%, l' obesità dal 21,2 al 17%. Segno che qualcosa si muove anche se non è abbastanza. «Non bisognerebbe portare i bambini ai fast food, dare loro bibite gassate e perfino succhi di frutta fatti solo di zucchero. Danno subito energia, aumentano la glicemia e creano dipendenza. Meglio la frutta fresca, magari frullata per renderla più appetibile», osserva Ilaria De Rosa. Stesso discorso vale per le merendine. «Cellulari, iPad, videogiochi andrebbero banditi ai più piccoli, che invece dovrebbero praticare qualsiasi tipo di sport a partire dai 4-5 anni». Dall' obesità in età evolutiva ne conseguono malattie come ipertensione (un obeso su 4 ne soffre), pre-diabete (un bambino obeso su 20 ne è colpito) fino all' arteriosclerosi. Meglio prevenire.
Filippo Sensi: «Io bullizzato perché grasso. Ho perso quaranta chili, ora navigo nei vestiti». Pubblicato giovedì, 30 gennaio 2020 su Corriere.it da Maria Teresa Meli. Il deputato: «Parlarne è liberatorio, si batte la vergogna. Dopo il discorso tanti colleghi mi hanno parlato delle loro esperienze». Filippo Sensi è uno che non ama la visibilità. Portavoce di Matteo Renzi prima e di Paolo Gentiloni poi, ha fatto del non apparire la sua cifra. Ma mercoledì, nell’aula di Montecitorio, durante l’esame delle norme contro il bullismo, è intervenuto per raccontare la sua esperienza personale. Quella di un ragazzino grasso bullizzato dai coetanei. Ora Sensi è dimagrito («Quando stavo a dieta mi veniva l’acquolina in bocca vedendo in tv le pubblicità del cibo per gatti», raccontava in quel periodo agli amici per prendersi in giro).
Le è costato questo outing?
«No, la parte del vittimista non fa per me: ho semplicemente pensato che valesse la pena presentare un ordine del giorno per isolare all’interno della questione del bullismo due temi su cui negli ultimi anni sta crescendo la consapevolezza: il “fatshaming” e il “bodyshaming”. Io ovviamente ho parlato del mio tema personale, perché sono sempre stato grasso, però questo riguarda tutti, chi è piccolo, chi è alto alto... Ognuno ha le sue caratteristiche che possono essere un impedimento nel corso della vita. Perciò ho preso la parola pensando che potesse essere utile. E lo è stato, come ho potuto riscontrare subito dopo il mio intervento. È come se si fosse aperta una porta emotiva: tanti colleghi sono venuti a raccontarmi la loro esperienza personale o quella di amici e familiari. È stata una specie di liberazione per tutti. All’inizio l’Aula era distratta poi piano piano si è creato un altro clima, di silenzio e attenzione, perché parlavo di una cosa che mi riguardava ma riguardava anche ognuna delle persone presenti».
Come la bullizzavano quando era piccolo?
«Sono sempre stato grasso e come tutti i ragazzini grassi ero inseguito da battute, a volte dallo scherno e dalla derisione. È normale che chi è stato sovrappeso abbia subito mortificazioni. Mi chiamavano “manzo”. Ma a volte può essere più mortificante della gang di bulli il non riuscire ad allacciare una cintura sull’aereo, oppure dover andare in giro a cercare taglie che non ci sono, o lo sguardo di chi ti vende un paio di pantaloni pensando “guarda che per te non ci sono”».
E lei come la viveva?
«Non ci piangevo in bagno».
Non si vergognava?
«No. O meglio, penso di no. Perché poi è ovvio che questi episodi da qualche parte, dentro di me, stanno, come tutte le ferite che ognuno di noi ha. Ci ho sofferto? Non credo, ma dovrei fare un percorso per capirlo. Alcune cose mi sono rimaste in testa, altre no. Sulla mia obesità scherzo sempre molto, può essere che sia un modo per esorcizzarla, per fare finta di viverla senza senso di inadeguatezza. Quando ero ragazzino non ho reagito chiudendomi in casa e non ho saccheggiato il frigorifero per reazione. Non ho mai sofferto di alimentazione ossessivo-compulsiva. Sono sempre stato quello che da piccolo si chiamava il mangione, cioè quello che divorava pasta e pane, però lo facevo a tavola con gli amici, non l’ho vissuto nel segreto. Ma per molti altri non è così, la grassezza diventa lo stigma, e le prese in giro sono un problema che può portare fino a conseguenze estreme».
Che cosa si dovrebbe fare secondo lei in questi casi?
«Io penso che si debba avere consapevolezza, rispetto, e, se possibile, amore. Ma vorrei essere chiaro: parla uno che non sempre ha questo rispetto, in Aula sono uno dei più irruenti. Non voglio dividere il mondo in vittime e carnefici. Non sono un ultrà del politicamente corretto, anzi tutt’altro, sono per la consapevolezza: essere responsabile di quello che dici è un conto, arrivare a una sterilizzazione del linguaggio è un altro. E anche sul normare, attenzione perché fare le leggi è veramente delicato: incidono sulla vita delle persone. Noi possiamo fare bellissime leggi, ma poi bisogna vederne le conseguenze, perciò dobbiamo anche essere pronti a cambiarle».
Perché a un certo punto ha deciso di dimagrire?
«Avevo fatto delle analisi che erano sballate, ma non sballatissime. Mi è scattata la molla: è successo nel passaggio tra palazzo Chigi con Renzi e palazzo Chigi con Gentiloni. Come se avessi trasformato quel momento in un’occasione per fare una cosa che avevo sempre rimandato. Allora la mia prima decisione è stata quella di eliminare quei tre, quattro litri al giorno di... non citi il nome la prego... di quella bibita gassata e molto zuccherina che bevevo. Ho fatto come Zeno Cosini. Mi sono detto: questo è il mio ultimo bicchiere di quella straordinaria e buonissima bevanda e mi sono messo a dieta. Una dieta normale: pesavo 131 kg, ora ne peso 90. Sono ancora sovrappeso, dovrei dimagrire di più e piano piano lo farò. Il mio regime alimentare è quello che conosciamo tutti: frutta, verdura, proteine, no pasticche. Questo vale per me, poi ognuno è un caso a parte».
Però va ancora in giro con i vestiti di quando era grasso, non ne ha comprati di nuovi?
«No, per uno che è stato grasso come me mettersi i vestiti larghi di quando pesavi molto di più è una soddisfazione quasi erotica. Ti senti che sciacqui nel vestito e quella è una sensazione bellissima. Magari così sei ridicolo, ma è come una coperta di Linus...».
Perché con il suo discorso contro il «fat shaming». Sensi ha parlato di tutti noi. Pubblicato giovedì, 30 gennaio 2020 su Corriere.it da Rizzacasa d’Orsogna. «Sono stato per tutta la vita un “ciccia bomba cannoniere”, un “panzone”, un “trippone”, una “palla di lardo”. Chiunque mi conosca sa che sul mio peso scherzo, lo esorcizzo, ma mi ci misuro ogni giorno, non come un’ossessione ma come la mia dimensione, e sento questo sguardo che pesa, che mi pesa, già, mi pesa. Non tutti, però, e facciamo finta che sia un passo avanti, riescono a scherzarci su, e quando sei ragazzo o, magari, quando sei ragazza, è maledettamente più difficile». Ieri pomeriggio, illustrando, nella discussione alla Camera della proposta di legge su bullismo e cyberbullismo, un ordine del giorno su cui avevamo lavorato dopo l’estate, il deputato del Pd Filippo Sensi ha portato per la prima volta il fat shaming all’attenzione dell’Aula di Montecitorio. E ha parlato di sé. Di come da ragazzino lo chiamassero «manzo», di quanto suo padre se ne dispiacesse. Di quando un coetaneo gli disse: «Sensi, mi fai senso». Ha parlato di sé, Filippo Sensi, chiedendo che la legge sul bullismo non dimentichi il fat shaming, e nel farlo, nel parlare di sé, ha parlato di tutti noi. Dei nostri corpi imperfetti e delle vite che viviamo a causa di essi. Di quel peso su cui per darci un tono scherziamo, mentre dentro vorremmo morire. «Non tutti ci scherzano, no», ha proseguito Sensi. «Ci si chiude in casa, magari, si finisce in cucina a rubare cibo, si seppellisce la derisione, come? Mangiando, di più, ancora e ancora e ancora, il cibo come anestesia, come stordimento, per non sentirli più, per non sentirsi più, perdersi lì dentro perché nessuno ci trovi, tanto nessuno ci cerca, se non con lo sguardo». Perché siamo invisibili, se non per esser presi in giro. Quando sei obeso, o obesa, perfetti sconosciuti si sentono in dovere di fermarti per strada e dirti le cose più crudeli, di guardarti con disprezzo, con orrore. È per questo che moltissimi di noi si chiudono in casa, dove tutto peggiora. Il fat shaming è un bullismo quotidiano, uno dei pochi ancora permesso. Ci rimproverano di esser diventati politically correct, ma le battute, il dileggio dei grassi sono ancora un’isola felice. Mentre in dieci anni, secondo uno studio di Harvard, il pregiudizio contro razza, età e orientamento sessuale è diminuito o rimasto inalterato, quello contro la grassezza è aumentato del 15%. La stessa medicina, del resto, ha ritenuto per decenni che “maltrattare” un paziente obeso fosse la soluzione per farlo dimagrire, e «obesità mostruosa» è ancora espressione diffusa presso certe Asl. Uno studio della Florida State University citato da Sensi dimostra che chi è vittima di fat shaming è due volte e mezzo più a rischio di ingrassare ulteriormente e notevolmente. Addirittura, sarebbe proprio il pregiudizio contro le persone grasse il vero motore di quella che negli Stati Uniti chiamano ormai “epidemia di obesità”. Il fat shaming è così pervasivo che la School of Public Health di Harvard parla della F di “fat” come di nuova lettera scarlatta, invitando ad adottare un linguaggio non ostile. Il fat shaming, dicono, è tossico come l’inquinamento, perché spinge chi ne è vittima a non uscire di casa, a scegliere un percorso diverso per evitare i bulli. Ogni persona obesa, ex obesa o semplicemente grassa, ha il suo bagaglio di storie agghiaccianti il suo catalogo di insulti. Non scorderò mai il ragazzino del quarto piano - quanto mi piaceva - che mi chiamava «tricheco», né il tweet di chi, molti anni più tardi, commentando un mio sfogo, disse che noi obesi andremmo rinchiusi nei lager, che lì sì dimagriremmo. Le circostanze possono essere diverse, le esperienze sono straordinariamente simili. Ieri pomeriggio, in Parlamento, tutte le nostre esperienze, tutto il nostro dolore, sono esplosi con una voce unica. Per evitare, come ha detto Sensi, che la vergogna del corpo diventi una condanna, un destino ineluttabile. Le abbuffate compulsive, l’anoressia, il suicidio. Quanti ragazzi ogni anno si tolgono la vita dopo essere stati tormentati da messaggi come «Ucciditi, maiale!»? Anche gli adulti possono essere fragili. Quando pochi anni fa pesavo 130 chili mi dicevano che ero un mostro, e volevo morire. Questo corpo, questo nostro corpo imperfetto e bellissimo, ci accompagnerà per l’esistenza e lo dobbiamo amare, contro tutti quelli che ci dicono il contrario. Ma non possiamo farlo da soli. Il fat shaming può fare danni irreparabili, e la battaglia dev’essere trasversale. Sinistra, destra, centro, pari opportunità, salute, scuola. I segnali positivi ci sono. «Subito dopo il mio intervento», racconta Sensi, «persone di tutti i gruppi parlamentari sono venuti a raccontarmi la loro storia. Qui, in Aula, dove ci si confronta spesso aspramente, sono venuti a dirmi: “Oggi hai parlato anche di me”».
“Io, ex grasso dico: la lotta al bullismo non diventi la dittatura del politicamente corretto”. Giulia Merlo su Il Dubbio il 31 gennaio 2020. Intervista al dem Filippo Sensi, il suo discorso alla camera contro il fatshaming ha fatto il giro del web. Ha fatto il giro della rete e dei giornali, il suo discorso alla Camera durante la presentazione del suo ordine del giorno su quello che in inglese si chiama “fatshaming” e in italiano si traduce con qualcosa come bullismo su chi soffre di obesità. Così Filippo Sensi, ex portavoce di Matteo Renzi e Paolo Gentiloni e oggi deputato del Pd, ha acceso un faro su se stesso – quaranta chili persi e una vita vissuta da «grasso» – pur di mettere al centro un problema che fa soffrire, soprattutto gli adolescenti.
Quanto è difficile parlare di qualcosa di personale davanti ai colleghi?
«Dico la verità, non è stato difficile. Era da tempo che ci pensavo e l’occasione giusta è stata questa. Soprattutto, tenevo al fatto che il mio non passasse per uno sfogo o per una confessione. Il mio è stato un atto politico».
È qualcosa che lei ha risolto?
«Anche pensando a quando ero ragazzo, non ricordo sofferenze rispetto alla mia condizione di grasso. Eppure probabilmente esistono delle spie comportamentali che dicono che anche in me un disagio c’è stato: io scherzo molto sulla mia condizione, faccio battute autoironiche. Forse è stato questo il mio modo di tradire il mio disagio».
Lei ha raccontato di non aver sofferto di bullismo per il fatto di essere sovrappeso.
«Le questioni legate al body shaming variano da persona a persona. Io, per esempio, non ho mai avuto l’impressione di soffrire della mia situazione: essere grasso è qualcosa che mi ha sempre accompagnato, non ho mai sofferto di disturbi alimentari e non sono mai stato quello che andava a mangiare la notte svuotando il frigorifero. Sono sempre stato grasso semplicemente perchè mangiavo. Però ho pensato che fosse giusto parlare di me nel presentare questo ordine del giorno, perchè il fatto di raccontare la mia vita da persona obesa ha permesso di arrivare più direttamente alle persone che hanno o hanno avuto problemi analoghi e che, a differenza mia, ne hanno sofferto di più».
Ha funzionato?
«È stato come stappare qualcosa che era rimasto chiuso: moltissimi colleghi e anche tante persone comuni mi sono venute a parlare o mi hanno scritto, raccontandomi la loro storia o quella di persone a loro care. Le leggi sul bullismo sono difficili da scrivere e da applicare».
In Italia a che punto siamo?
«In questa legislatura ne abbiamo parlato molto e sono state approvate norme contro il bullismo, il cyberbullismo e la violenza sulle donne. Il fenomeno esiste ed è in crescita, anche perchè il web è uno strumento molto pervasivo, per questo si sente l’esigenza di punti fermi. Detto questo, non sono convinto che le leggi siano sempre lo strumento migliore».
In che senso?
«Si tratta di norme che impattano sulla vita e sul corpo delle persone, quindi serve grande delicatezza. Noi applaudiamo in aula e le approviamo, ma poi i loro effetti concreti li vedremo solo col tempo, per questo è necessario che queste leggi vengano accompagnate: la loro messa a terra a volte non coincide con le migliori intenzioni con cui sono state approvate. La legge può essere un buon strumento per sanzionare i comportamenti dei bulli, ma solo se teniamo ben presente che si tratta di testi che devono essere considerati modificabili per aderire alla realtà. C’è il dibattito in aula, ma poi a pesare è l’esperienza delle persone».
Lei, personalmente, si definisce contrario al politicamente corretto, non è un controsenso?
«Posso dirle come la penso io, sulla base della mia esperienza. Io sono contrario al politicamente corretto ma è anche vero che, per carattere, non ho mai vissuto come un’offesa diretta alcune parole. Credo che ci sia qualcosa di liberatorio nel fatto di consentire alle persone di dire ciò che vogliono, ma sempre entro i limiti della responsabilità e del rispetto nei confronti degli altri. Tutto è relativo: può ferire più uno sguardo che una parola, oppure un “pappappero” sentito alle spalle, quando si è piccoli, può segnare fin da adulti. Ad alcuni scivola addosso, su altri produce conseguenze gravi».
Anche a lei capita di trascendere verbalmente?
«Si figuri, io dico un sacco di cose sbagliate e non sono immune nè alle violenze verbali nè alle parole politicamente scorrette. Ci mancherebbe: il mio discorso non voleva tirare linee tra vittime e carnefici».
I confini sono labili?
«Io credo tocchi ad ognuno di noi capire se ciò che diciamo sta ferendo qualcuno. Personalmente, non sono per dire “questo non si può dire”. No, io credo che si possa dire tutto, ma bisogna poi assumersene la responsabilità. A questo serve la legge, a produrre un effetto di fronte ad azioni che feriscono: ognuno faccia quel che ritiene, ma sapendo che avrà delle conseguenze».
Tutti commossi per l’intervento di Sensi, ma quando fu bullizzato da Scanzi se ne fregarono. Michele Anzaldi il 30 Gennaio 2020 su Il Riformista. L’approvazione alla Camera della legge sul bullismo è stata l’occasione per parlare anche di una specifica forma di bullismo, ovvero il fatshaming e il bodyshaming, la tendenza di giudicare, offendere o deridere una persona per una sua peculiarità fisica. A richiamare l’attenzione dei media è stato l’intervento del collega Filippo Sensi, che ha raccontato la sua esperienza personale, le offese subite per il suo aspetto fisico da giovane e anche successivamente. Un intervento che ha creato una grande empatia sia un Aula che sui giornali e sui social. Mi sarebbe piaciuto, però, che la stessa attenzione a questo caso fosse stata riservata alcuni anni fa, nel 2015, quando a offendere Filippo fu il commentatore televisivo Andrea Scanzi. In un articolo sul Fatto Quotidiano, Scanzi definiva Sensi, che allora ricopriva l’incarico di portavoce del presidente del Consiglio Matteo Renzi, con queste parole vergognose: “Bizzarro omino sferico”. Un’indecenza per chiunque, ma in particolare per chi è giornalista e viene puntualmente invitato come commentatore nelle principali trasmissioni televisive di informazione, a partire da quelle del servizio pubblico. Dopo quell’episodio, la Rai ingaggiò Scanzi addirittura come ospite fisso del “Processo del Lunedì” su Rai3 e giurato di Sanremo. Nel 2015 nessuno protestò, ad eccezione del sottoscritto con un articolo sull’Huffington Post. Non ricordo servizi sui telegiornali, né dichiarazioni e tweet di solidarietà come oggi sui social. Oggi che il discorso di Filippo è generale, non si rivolge a qualcuno in particolare, oggi che il bullo è un bambino anonimo dei tempi della scuola e non un giornalista con nome e cognome, evidentemente è più facile solidarizzare. Nel 2015, invece, insultare il portavoce del presidente del Consiglio Renzi era considerato accettabile, o almeno così deve essere stato. Non ci furono interventi dell’Ordine dei Giornalisti, né della Commissione stabile per il codice etico della Rai, né del direttore del Fatto Quotidiano. Il diritto di critica non è diritto di insultare e bullizzare. Quanti colleghi parlamentari e non solo sono stati vittime di insulti personali sui giornali per il loro aspetto fisico? Insulti che non hanno nulla a che vedere con una presunta satira, e nemmeno con l’ironia, neanche quella più triviale. Perché troppo spesso vengono lasciati passare senza dire nulla? Fino a quando le proteste non interverranno al momento opportuno, finché la difesa di categoria e di corporazione prevarrà sulla necessità di stigmatizzare certi comportamenti e certe espressioni, è difficile che i problemi si possano risolvere. Solidarizzare quando non costa nulla è facile, quello che serve però è sanzionare quando chi offende ha un nome e cognome, magari è anche famoso e ha migliaia di follower.
Giuliano Ferrara per “il Foglio” il 3 febbraio 2020. Certo che i grassi soffrono il giusto e l'ingiusto, ma chi non soffre? Soffrono i bassi, gli alti, i miopi, gli imbranati, gli storpi, i segaligni, i nasuti, gli snasati, i brutti, i poveri, i malati, e soffrono gli innamorati disprezzati e i cornuti, e quanto, che glielo si rinfacci con un insulto o no. Il punto non è la sofferenza, e la violenza che la genera e la codifica nella diffusa pratica dell'odio o dello spregio, il punto è se sia opportuno medicalizzare la sofferenza come una malattia sociale, trasformare le curve della genetica o la grande bouffe in "disturbo alimentare compulsivo", e dei disturbati fare vittime. Filippo Sensi, enorme portavoce che si è rimpicciolito per il gusto di vivere una nuova sua vita, ha detto alla Camera e sui giornali cose sagge e giuste, prese una per una, e con un tono sereno, accattivante se vogliamo ma non accattone d'affetto. E' stato corretto, non politicamente o ideologicamente corretto. Ma presa nel suo insieme, la sua orazione pro ciccia, commovente e applaudita da una platea di magri e falsi magri, può recare nocumento a chi da sempre combatte la stessa buona battaglia su altri spalti. L'obesità non è una fortezza inespugnabile, popolata da orgoglio luciferino, può anche figurare come una fragilità, una dipendenza, una deformità che fa ridere, ma il "bue muto" (Tommaso d'Aquino) pesava come Sensi (una volta) e come me (ancora adesso), e se Amleto era di una magrezza esistenziale, pari "alla tinta nativa della sua risolutezza e al pallore del suo pensiero", Falstaff nella sua ridanciana corpulenza ha reso il mondo più felice di quanto non potesse mai farlo, nella sua tristezza, il principe di Danimarca spossessato. Se la fortezza di noi grassi ha punti deboli e può essere presa d'assalto, la giocosità è più efficace delle leggi sullo hate speech nel difenderla. Se una hostess o uno steward mi porge la prolunga della cintura di sicurezza con timida discrezione, come uno scambio di sostanza proibita, e lo fa per non offendermi, io gli rispondo a voce alta che ringrazio, perché la cintura normale non arriva proprio, e gesticolo per mostrarla ai passeggeri circonvicini. Quest'estate allo stabilimento si complimentavano con me perché, sebbene dotato di un corpo tondo, nuotavo quaranta minuti di buona lena. Complimentarsi per la curiosa performance di un ciccione? La mia risposta è stata, dopo due Martini, che ora dovevo andare perché avevo le mie solite due ore di tennis, e caracollando agile mi dirigevo alla pennica lasciando gli astanti in buona forma o ilari o confusi. Bisogna fare molta attenzione, e distinguere. A chi sia in apprensione, anche legittima, per lo schiacciamento abusivo della Personalità e dei suoi Diritti sotto uno strato di tessuto adiposo, va ricordato che curare gli altri e curarsi è bene, i comportamenti vanno entro un certo limite raccordati a sintomi che possono avere del patologico, ma la disciplina alimentare e l'esercizio fisico sono parte di un vasto panorama, di un equilibrio che non richiede di essere squilibrato, visto che anche senza ascesi si può eventualmente scrivere la Summa Theologiae e, come fu per l'Autore, vivere una vita vivace senza star fermi più di tre anni in un solo posto, e questo nel Medioevo. Va ricordato inoltre che le diete sono una buona cosa, up to a point, ma fanno venire fame (hanno questo inguaribile difetto negato per gola dai nutrizionisti di professione). Aggiungendo che l'umiliazione può essere un grande bene da perseguire cristianamente, tuttavia non la si deve infliggere a sé stessi per capriccio o per moda o per risentimento verso un mondo che non ti comprende e ti sottovaluta in ragione proporzionale al tuo peso.
· La dieta.
Daniela Mastromattei per “Libero Quotidiano” il 6 luglio 2020. Ha fatto centinaia di migliaia di proseliti in tutto il modo la famosa «dieta del limone», una tendenza fashion che vantava di essere un efficace "bruciagrassi". Che il limone sia una miniera di vitamine, sali minerali e preziosi antiossidanti è indiscutibile, tuttavia la pratica di bere acqua calda con spremuta di limone al mattino, appena svegli, può rivelarsi nel tempo terribilmente dannosa. Anzi, può «comportare la distruzione progressiva e sistematica dell'apparato digerente. È un po' come prendere a pugni il tubo digerente fino a metterlo KO», rivela il naturopata e fasciapulsologo Frank Laporte-Adamski, francese e italiano d'adozione, nel suo ultimo libro Digerisco, il metodo per un intestino felice e un giro vita perfetto (editore Vallardi), appena uscito. Quanti danni e sofferenze potremmo risparmiarci se conoscessimo meglio gli ingredienti dei nostri piatti, tenendo presente che il benessere e la salute sono il frutto di scelte basate sull'importanza di una giusta alimentazione. E anche quando ci buttiamo come capre sull'insalata convinti di degustare un «pasto leggero», non sempre è così. La ciotola di verdure a foglia verde o colorate (crude o cotte e altro ancora), quel mix pieno di allegria e (apparentemente) povero di calorie, potrebbe rivelarsi tutt' altro che light. Il bianco del cetriolo, il rosso di pomodori e peperoni, il rosso-viola di ravanelli e melanzane grigliate, il verde di zucchine, l'arancione delle carote, oltre ad appagare la vista sono garanzia di un piatto "salvalinea" e della presenza di sali minerali e micronutrienti. Infatti, il loro apporto energetico è di circa 15 calorie ogni cento grammi. Riempiono il piatto, saziano lo stomaco e non pesano sulla bilancia. «Poche calorie, tanta acqua, fibre, vitamine e antiossidanti se si scelgono verdure tutte figlie della stessa famiglia, o dello stesso Dna nel caso si aggiungano quelle a colori. Possiamo anche osare, mettendo nell'insalata un po' di frutta fresca, ma soltanto melone e anguria», spiega a Libero Giorgio Calabrese, medico nutrizionista. «Attenzione però a non inserire tonno, mozzarella, formaggi, uova, prosciutto e affettati vari, che oltre a far salire il picco di calorie, hanno tempi di digeribilità diversi», precisa Calabrese. «Se si desidera un apporto di proteine, bisogna orientarsi su quelle vegetali dei legumi, come piselli, fave, fagioli o ceci». D'estate come si fa a rinunciare alla caprese? «Mozzarella e pomodoro, per carità, solo ogni tanto. È un piatto che stimola i succhi gastrici, irritante per chi ha la gastrite già compromessa», informa il nutrizionista. Infatti i formaggi freschi, per quanto magri, non sono affatto light. Sono anzi dei veri traditori perché, sotto il loro aspetto fresco e innocente, nascondono grassi. Un piatto di caprese con 150 grammi di pomodori, 100 gr di mozzarella di bufala e 5 gr di olio extravergine d'oliva, contiene circa 375 calorie. Anche l'insalata di riso, pasto principe di questo periodo, da preparare in abbondanza e tenere in frigorifero per un paio di giorni, si converte al veganismo. «Perfetta con le verdure, i sottoaceti e piselli. È assai più digeribile e dietetica se non aggiungete uova, tonno e formaggi. Alla larga pure dalla maionese. Per condire solo olio extra vergine d'oliva», conclude Calabrese. A proposito di condimenti, al posto del gustosissimo aceto balsamico (contiene molti zuccheri, sconsigliabile se vogliamo tenere le calorie sotto controllo) da preferire l'aceto di mele, perché come ci ricorda Laporte-Adamski, «le sue caratteristiche nutrizionali e organolettiche rendono questo signorino un vero campione di salute. Allevia i fastidiosi dolorini articolari, previene quelli muscolari grazie all'alta carica di potassio e, con il suo concentrato di antiossidanti, rallenta l'invecchiamento. Come se non bastasse regola pure la glicemia (addio zuccheri). Aceto di mele (santo subito) per tutte le insalate. Altro che succo di limone.
Silvia Turin per "corriere.it" il 17 giugno 2020. Capita spesso di raggiungere l’agognato obiettivo di perdere qualche chilo. Dopo una più o meno rapida discesa (dipende dalla dieta e da altri fattori), ci si trova in un momento che pare di stallo: il peso non cala e il reale traguardo (anche psicologico) sembra non arrivare più, dopo tutti i sacrifici.
I due meccanismi alla base. La spiegazione dell’impasse c’è ed è sia fisica che psicologica legata a due fattori: il primo, scrive Peter Rogers, professore di psicologia biologica all’Università di Bristol, è che il dispendio calorico (energetico) diminuisce con la perdita di peso: sono necessarie meno calorie di prima per mantenere e muovere un corpo più leggero e questo varrà anche una volta raggiunto il peso salutare. Il secondo motivo per cui la perdita di peso diventa progressivamente difficile è che è spesso accompagnata da un aumento dell’appetito. L’ormone leptina dice al nostro cervello quanto grasso è immagazzinato nel corpo. Quando abbiamo troppo grasso immagazzinato, la leptina aumenta e riduce l’appetito. Ma quando perdiamo grasso corporeo, la leptina ci rende un po’ più affamati. Quel che domina l’appetito nel corso della giornata è fondamentalmente quanto tempo prima abbiamo mangiato e quanto ci sentiamo ancora pieni. Ma questo ingranaggio è rodato dai millenni per farci immagazzinare cibo.
Retaggio da antenati. Siamo vulnerabili al “cibo spazzatura” e settati per mangiare di più del dovuto, proprio per prevenire i periodi di carestia. Siamo quasi sempre pronti a mangiare e in grado di mangiare oltre il livello di fabbisogno. La pienezza è determinata in parte dal contenuto di grassi, carboidrati e proteine del pasto e in parte dalla sua massa complessiva. Ad esempio, se il pasto contiene più fibre, ci si sente più pieni, motivo per cui è difficile mangiare troppo di cibi voluminosi, come frutta e verdura. Ci sentiremmo più pieni se avessimo mangiato lo stesso numero di calorie dalle mele rispetto alla pizza. Ma alimenti come la pizza, ad alta densità energetica, costituiscono per noi un’attrazione biologica: significa che riusciamo a mangiarne di più. Sono anche solitamente più deliziosi (e piacevoli) da mangiare.
Stallo psicologico. Fin qui la fisiologia: dal punto di vista psicologico e delle abitudini, nel tempo, mangiare meno può essere difficile, come mantenere la vigilanza e la moderazione per resistere ai cibi ricchi di energia (che, tra l’altro, per come sono fatti possiedono un potere “drogante”). Alcune oscillazioni sono inevitabili e nel tempo la motivazione perde mordente. A questo punto il peso si assesta intorno a un punto (di stallo) che bilancia il richiamo degli alimenti, la nuova moderazione alimentare e l’energia che consumiamo nell’attività fisica. In questo caso la scelta migliore saranno cibi a bassa densità energetica (fibre, frutta e verdura). E per mantenere il peso sano, vale la pena ricordare che corpi più leggeri richiedono meno calorie.
Andrea Cuomo per “il Giornale” il 7 marzo 2020. Dieta, un' ossessione nazionale. Un italiano su due, per la precisione il 51 per cento, si è sottoposto a un regime alimentare restrittivo negli ultimi due o tre anni, per perdere peso e ridurre il girovita. Un segnale di grande amor proprio, anche se poi nell' 83 per cento dei casi l' aspirante magro non si fa supportare da un dietolgo o da un nutrizionista ma sceglie di fare da sé. Il che se si seguono regole di buon senso (ridurre il sale, i grassi, aumentare le razioni di frutta e di verdura) non è necessariamente un male. Ma il fatto è che alle volte ci si basa su regimi alimentari abborracciati, estremi, fantasiosi, spesso scaricati da internet o consigliati da amici, che nel migliore dei casi apportano dei vantaggi solo temporanei sul nostro girovita e nel peggiore fanno decisamente male perché sbilanciati o non adatti al nostro stato di salute. È uno dei dati più significativi della ricerca promossa da UniSalute e realizzata da Nomisma, sugli stili di vita, che disegna un quadro tutto sommato piuttosto rassicurante del rapporto tra gli italiani e la prevenzione. Partiamo dal rapporto con il cibo, che è al contempo paradiso e inferno degli italiani. Quando si chiede loro che cosa sia il mangiare in generale, il 68 per cento risponde: soddisfazione, piacere, felicità, mentre il 49 per cento un momento di condivisione e il 20 espressione della cultura nazionale e regionale. Solo il 30 per cento vede nell' alimentazione uno strumento per mantenersi in salute e il 15 per cento si ascrive a quel gruppo piuttosto triste di persone che mangia solo per nutrirsi. Gli italiani sono osservanti seguaci della dieta mediterranea: il 40 per cento mangia regolarmente frutta, il 39 verdura, mentre il 64 per cento non potrebbero mai rinunciare all' olio extravergine d' oliva. Solo il 18 per cento non potrebbe fare a meno di un altro simbolo dell' italianità alimentare, il caffè. Quanto alla cattiva alimentazione, tutti la aborrono ma solo il 32 per cento è preoccupato per la linea. Gli altri temono per la salute: il 20 per cento per l' incidenza sui tumori, il 16 per il colesterolo e l 15 per la circolazione e le malattie cardiovascolari. Strettamente legata all' alimentazione è la pratica dello sport, che spesso permette di compensare qualche piccola trasgressione. Solo il 28 per cento degli italiani sostiene di praticare sport con regolarità, mentre il 47 per cento lo fa solo in modo occasionale mentre 9,4 milioni di persone tra i 18 e i 65 anni sono completamente sedentari. Da queste risposte Nomisma divide gli italiani in due macrocategorie: coloro che hanno uno stile di vita fondamentalmente sano (healthy lifestyle), che raggruppano il 73 per cento del campione, e coloro che invece indulgono all' unhealthy lifestile, e che sono il 27 per cento del totale. Di solito queste due categorie corrispondono in maniera piuttosto fedele a coloro che fanno prevenzione o non la fanno. Chi presta attenzione ad avere abitudini salutari crede nel potere dei controlli continui (38 per cento) oppure rimanda le visite mediche solo per disturbi minori (41). Chi invece ha uno stile di vita poco salutare sembra quasi non voler sapere nulla sulla propria salute. Il 21 per cento fa meno visite mediche possibile. Non sorprende che sia andato nell' ultimo anno dal medico di base almeno due volte il 71 per cento dei «virtuosi» e il 31 per cento dei «viziosi». E quando si parla di cure odontoiatriche (dove subentra anche la paura del dolore) la percentuale di questi ultimi sprofonda al 19 per cento. La ricerca è stata presentata ieri a Milano nel corso dell' evento #VivereinSalute, al quale hanno preso parte Giovanna Gigliotti, amministratore delegato di UniSalute del gruppo Unipol, Silvia Zucconi, responsabile market intelligence di Nomisma, Marco Bianchi, food mentor, Francesco tonelli, professore emerito di Chirurgia generale dell' Università di Firenze e Daniela Turchetti, professoressa associata di Genetica medica dell' Università di Bologna.
Alessandra Dal Monte e Martina Barbero per "corriere.it" il 3 marzo 2020. Purificare il corpo e vivere più a lungo. Perdere peso (nel corpo e nella mente) ma anche aiutare l'organismo a vivere più a lungo. L'impresa è sicuramente ambiziosa ma non impossibile se ci si affida ai suggerimenti dei due guru indiscussi in fatto di alimentazione e corretto stile di vita: Valter Longo, professore di Biogerontologia all’University of Southern California e direttore del programma di Oncologia e longevità dell’Ifom (l’Istituto di oncologia molecolare di Milano), e Franco Berrino, direttore del Dipartimento di Medicina Preventiva e Predittiva dell’Istituto Nazionale dei Tumori di Milano. Entrambi sono convinti che la cura di sé debba necessariamente partire dalla tavola e allora ecco quali sono le loro linee guida per purificare il corpo e vivere più a lungo. Le regole di Valter Longo. Una sola porzione di frutta al giorno per non immagazzinare troppi zuccheri. Non più di 300 minuti di esercizio fisico intenso alla settimana e un’ora di camminata tutti i giorni. Pesce, però non di allevamento, e poi tanta verdura, tanti legumi, tanto olio extra vergine d’oliva. Insomma, una dieta mediterranea alleggerita di pane e pasta e spostata verso le verdure e il pesce. Ecco la ricetta per campare fino a 110 anni secondo Valter Longo, 49enne ricercatore e docente universitario di origine genovese che vive negli Stati Uniti da quando ne ha 16. Da grande voleva fare il musicista rock, poi invece si è specializzato in Biochimica e Neurobiologia e con il libro La dieta della longevità (Vallardi) è diventato un caso editoriale mondiale, tanto che il Time lo ha eletto «guru della lunga vita». Per mettere a punto la sua dieta (riassunto qui sotto in 8 punti) lo studioso si è basato sulle abitudini delle popolazioni più longeve della Terra, dall’Ecuador alla Sardegna, da Okinawa all’Aspromonte.
Digiunare ogni tanto. Cosa mangiare, dunque? Le regole di base, come detto, sono: poche proteine, tanti carboidrati complessi provenienti però preferibilmente dalle verdure, poca frutta, tanti legumi, tanto olio di oliva. E poi c’è il capitolo del digiuno, fondamentale per questo approccio. La dieta della longevità, infatti, si abbina a un particolare approccio al digiuno. Non perché si debba mangiare poco — anzi, i cibi che Longo consiglia vanno consumati senza eccessivi problemi di quantità — ma perché per 5 giorni di fila, una volta ogni uno/sei mesi (in base ai consigli del proprio nutrizionista), si deve seguire una restrizione calorica particolare, la Dmd (dieta mima-digiuno, appunto). Come funziona? Nei cinque giorni prescelti i cibi consentiti sono zuppe, verdure, olive, frutta secca, acqua e tè. Lo scopo di questo regime è ripulire l’organismo: secondo gli studi di Longo la restrizione calorica (si ingeriscono tra le 750 e le mille calorie al giorno) aiuta gli organi a liberarsi delle cellule danneggiate o malate e promuove il rinnovamento cellulare. Longo si è appoggiato a una società, la L-Nutra, per mettere a punto dei kit mima-digiuno che includono anche integratori a base di alghe, crackers e chips al costo di 199 euro l’uno. Non è comunque necessario acquistarli, la dieta mima-digiuno si può anche riprodurre in casa. Ma sempre sotto osservazione medica: la restrizione calorica può avere effetti collaterali, non è detto che tutti la sopportino, è bene farsi consigliare da un nutrizionista.
Mangiare più legumi e selezionare il pesce. Il pesce va mangiato 2-3 volte a settimana, non di più, cercando di fare attenzione a quello ad alto contenuto di metalli pesanti (salmone, tonno, grossi pesci azzurri). Meglio scegliere pesci, crostacei e molluschi con alto contenuto di omega-3/6 e/o vitamina B12 (acciughe, sardine, merluzzo, orate, trota, vongole, gamberi). È consigliato poi consumare fagioli, ceci, piselli e altri legumi come principale fonte di proteine.
Consumare grassi insaturi e carboidrati complessi. La dieta della longevità deve essere ricca di grassi insaturi buoni, come quelli contenuti nel salmone, nelle noci, mandorle e nocciole, nell’olio extravergine d’oliva. Poi ricca di carboidrati complessi come quelli contenuti nel pane integrale e nelle verdure (pomodori, broccoli, carote, legumi), ma povera di pasta e pane normale. I cereali sono preferibili nella versione integrale.
Niente carne in età adulta. Secondo Longo la carne va eliminata nell’età adulta, mentre inserita nella dieta dei bambini, sia rossa che bianca. Poi, man mano, va sostituita dalle proteine vegetali: legumi soprattutto. Le proteine vanno poi reintrodotte mano dopo i 65-70 anni per non perdere massa muscolare. Il rapporto consigliato per un adulto è questo: 0,7 - 0,8 grammi di proteine al giorno per chilo di peso corporeo.
Non mangiare prima di andare a letto. Un altro consiglio è mangiare nell’arco di 12 ore (per esempio iniziare dopo le 8 e finire prima delle 20) e non ingerire niente per almeno 3-4 ore prima di andare a letto.
Due o tre pasti al giorno? Per persone sovrappeso o che tendono a prendere peso è consigliabile fare 2 pasti al giorno: colazione e pranzo oppure cena, più 2 spuntini da 100 calorie con basso contenuto di zuccheri. A chi ha un peso normale e/o tende a dimagrire è consigliabile fare i 3 pasti normali, oltre a uno spuntino da 100 calorie con pochi zuccheri.
Eliminare gli zuccheri aggiunti. Bisogna ridurre al massimo gli zuccheri aggiunti, meglio che arrivino dalla frutta e basta. Inoltre per essere sicuri di ingerire tutti i nutrienti meglio assumere ogni 2-3 giorni integratori vitaminici e minerali in pillole e dell’olio di pesce per gli omega-3.
Esercizio fisico. Trovate un’attività sportiva che riuscite a praticare con continuità. L’ideale sarebbe un’ora di camminata al giorno, oppure bici, corsa, nuoto per 30-40 minuti ogni due giorni e per 2 ore nel weekend.
Le regole di Franco Berrino. Secondo il medico Franco Berrino il modo migliore per liberare energia vitale e raggiunge una condizione esistenziale di leggerezza passa necessariamente attraverso l'alimentazione. «La leggerezza non è solo questione di peso corporeo e di massa grassa – spiega Berrino nel suo ultimo libro La via della leggerezza (Mondadori), scritto insieme allo scrittore Daniel Lumera, riferimento internazionale della meditazione –, si tratta piuttosto di una condizione esistenziale che coinvolge mente, cuore e spirito. Una leggerezza che permette all’entusiasmo, alla passione, alla gioia e all’amore di manifestarsi liberamente». Nel volume viene spiegato come ridare energia al corpo, abbandonando abitudini scorrette e incontrandone di nuove, prime fra tutte quelle che coinvolgono il rapporto con il cibo. Quali sono? Eccone 8.
Dimenticare le diete miracolose. Mettersi a dieta significa inviare dei messaggi precisi al nostro corpo: ogni singola cellula, quando percepisce carenze energetiche, attiva meccanismi biologici potentissimi per risparmiare al massimo e, soprattutto, per conservare al meglio le calorie che ingeriamo. Ecco allora che, come spiega Berrino, iniziamo a consumare massa grassa. Ma, se la dieta è sbilanciata (troppe proteine e pochi carboidrati buoni), consumiamo anche muscoli e acqua e, cosa ben peggiore, il metabolismo rallenta. Il risultato? «Iniziamo con grande carica ed entusiasmo e perdiamo peso con ritmo spedito. Ma dopo qualche mese, ci sentiamo stanchi, di cattivo umore e, soprattutto, cominciamo a sgarrare, con la sensazione di perdere il controllo, mangiando tutti quegli alimenti che la dieta ci proibisce», si legge nel libro.
Imparare a scegliere il cibo. Le domande da porsi davanti a un alimento sono: da dove viene? Chi lo ha prodotto? In che modo? Il consiglio è anche quello di preferire verdure dall’orto o provenienti da coltivazioni biologiche per migliorare la salute del proprio microbiota intestinale (cioè l’insieme di microrganismi che assicurano il funzionamento e la sanità del tratto gastrointestinale): «Anche si ben lavate, le verdure biologiche contengono microbi della terra che alimenteranno la biodiversità dei nostri microbi intestinali. Se mangiamo l’insalata dell’agroindustria già lavata, dobbiamo essere consapevoli che anche gli ultimi pochi microbi buoni sono stati uccisi dal cloro. Se, poi, la verdura è conservata in atmosfera modificata, senza ossigeno, per prolungarne la conservazione dobbiamo sapere che quella verdura ha perso molte delle sue sostanze antiossidanti, diventate inutili in assenza di ossigeno».
Usare il gomasio al posto del sale. La prima domanda è: che cos’è? Si tratta di condimento usato nella tradizione macrobiotica a base di semi di sesamo (goma) e sale marino integrale (shio). Entrambi gli ingredienti vengono tostati e poi uniti e mescolati grazie al mortaio. È un ottimo sostituto salutare e gustoso del sale puro perché ne diminuisce l’assunzione (la ricetta prevede 7 parti di sesamo e 1 di sale).
Mangiare nei momenti giusti. Da alcuni anni la ricerca scientifica ha iniziato ad affrontare il tema degli effetti del cibo assunto in diverse ore del giorno. Gli studi sono ancora agli inizi ma, come spiegato nel libro, la certezza è che è meglio mangiare abbondantemente al mattino e poco alla sera. «Cena leggera e presto – scrivono gli autori de La via della leggerezza – perché altri studi hanno mostrato che anche cenare presto è utile a darci ulteriore benessere: si dorme meglio, senza russare, senza reflusso gastroesofageo, senza bocca cattiva, senza gonfiori di pancia e borborigmi». Per la mattina, invece, il consiglio è di preferire il salato al dolce che, per reazione insulinica, rischierebbe di mandare in ipoglicemia a metà mattina.
Consumare zenzero per ridurre il senso si appetito. Pare che lo zenzero agisca sul sistema metabolico aiutando l’organismo a tenersi in forma. Uno dei principali meccanismi anti-obesità di questa radice è quello di aumentare il consumo di energia, in particolare con la termogenesi. Farebbe, quindi, dimagrire perché fa consumare più calorie, oltre che, come scrivono nel libro, diminuire il senso di sazietà: «Più studi suggeriscono che lo zenzero riduca l’assorbimento dei grassi nell’intestino e che inibisca sia la lipogenesi (la sintesi dei grassi) che la deposizione dei grassi nel tessuto adiposo. Ridurrebbe anche la digestione dei carboidrati, quindi il loro impatto glicemico», scrive Berrino.
Masticare a lungo. Masticare a lungo è essenziale perché si dà il tempo all’apparato digerente di segnalare al cervello che il cibo è arrivato e che non è più il caso di mandare segnali di fame.
Mangiare fibre vegetali. «Rispetto a chi consuma solo 15 g di fibre al giorno, una quantità tipica del mondo occidentale, chi ne assume il doppio (cioè chi mangia integrale) ha una mortalità del 20 per cento inferiore», spiegano i due autori nel libro. Le fibre «buone» da assumere e preferire, poi, sono quelle dei cereali perché più ricche e protettive di quelle di legumi, verdura e frutta. Il loro ruolo? Ridurre l’infiammazione, aumentare il senso di sazietà, aumentare la massa fecale velocizzando il transito intestinale e abbassando il colesterolo.
I cibi da evitare. Tra gli alimenti citati nel libro, questi sono quelli da evitare assolutamente perché favorirebbero l'aumento di peso. E allora, in ordine di importanza, no a: patatine, patate, carni lavorate (salumi), carni rosse, bevande zuccherate, burro, latticini grassi, dolciumi, prodotti con farine raffinate, succhi di frutta.
Maria Rita Montebelli per “il Messaggero” il 26 febbraio 2020. Fare una ricca colazione consente di bruciare molte più calorie che mangiare a cena. È la conclusione alla quale giunge uno studio pubblicato sul Journal of Clinical Endocrinology and Metabolism da Juliane Richter, psiconeurobiologa dell'Università di Lubecca (Germania). La spiegazione sta nella cosiddetta termogenesi indotta dalla dieta (DIT), cioè dalle calorie che si bruciano (letteralmente) per digerire un pasto. I ricercatori tedeschi hanno scoperto attraverso una serie di sofisticati esperimenti che, a parità di calorie ingerite, digerire la colazione fa bruciare due volte e mezzo le calorie che si bruciano per smaltire la cena. Anche i livelli di glucosio e di insulina nel sangue sono risultati più bassi dopo colazione che dopo cena. Una certa quantità dell'energia assunta col cibo viene consumata per consentire l'assorbimento intestinale delle sostanze nutritive e per immagazzinare quelle da mettere da parte. È la cosiddetta termogenesi indotta dalla dieta. Questa ricerca dimostra che la DIT è più elevata al mattino che alla sera. La DIT può inoltre essere influenzata anche dall'attività del sistema nervoso simpatico e dato che i livelli di adrenalina nel sangue sono in generale più elevati al mattino, anche questo contribuisce a far bruciare più calorie. Il suggerimento immediato che scaturisce dai risultati di questa ricerca, come strategia anti-obesità o per mantenere la linea, è dunque quello di spostare la maggior parte delle calorie della giornata sulla colazione, alleggerendo quanto più possibile la cena. Questo sembra vantaggioso anche nell'ottica di evitare picchi di glicemia, meno evidenti dopo colazione. Insomma mangiare di più a colazione e meno a cena potrebbe avere un effetto favorevole non solo sulla bilancia, ma anche sul metabolismo glucidico. Gli autori sottolineano anche che una cena pesante ha degli effetti particolarmente negativi sulla glicemia, fatto questo che le persone con diabete dovrebbero tenere in debita considerazione. Questi risultati dovrebbero inoltre dissuadere coloro che, nel tentativo di dimagrire, decidono di saltare a piè pari al colazione. Una strategia illusoria, visto che le calorie risparmiate al mattino si riprendono nel corso del giorno. E con gli interessi, perché si bruciano meno. Questa ripartizione delle calorie consente anche di resistere in maniera più decisa alla tentazione di mangiare dolci, perché gli attacchi di fame per i dolci sono maggiori nella prima parte del giorno. Fare una buona colazione, consente di evitare il craving (la smania) per i dolci, mentre chi salta la colazione o la fa molto leggera rischia di passare buona parte del giorno a spizzicare. I ricercatori tedeschi infine ricordano un'altra importante variabile: il sonno. Fare le ore piccole manda in panne tutto il delicato equilibrio metabolico dell'organismo, disturbando di fatto il metabolismo basale (cioè le calorie che si bruciano a riposo per far funzionale l'organismo) e la termogenesi indotta dalla dieta. La ricetta per dimagrire insomma è dormire a sufficienza e stare leggeri a tavola la sera. La colazione invece non solo non va saltata ma deve diventare, insieme al pranzo, il pasto più ricco di calorie della giornata.
Laura Cuppini per il “Corriere della Sera” il 16 gennaio 2020. Sedici ore a stomaco vuoto, le altre 8 si mangia (senza abbuffarsi). Il momento in cui consumare meno o niente? La sera. Sono i cardini della dieta «8-16» o «9-17»: utile per perdere peso e per la salute in generale, a patto di seguirla con buon senso e, se necessario, con l' aiuto di un medico. Grazie a Fiorello, e all' invidiabile forma fisica di cui fa sfoggio da qualche mese (a 59 anni), si torna a parlare di digiuno intermittente, un regime alimentare di provata efficacia e promosso dagli studi scientifici. Il punto non è tanto «saltare la cena» (dal nome della dieta Dinner-cancelling, inventato dal nutrizionista tedesco Dieter Grabbe), quanto piuttosto far passare del tempo tra un pasto e l' altro e, soprattutto, almeno 2-3 ore tra l' ultimo boccone e il momento in cui si va a dormire. «Se si mangia tardi alla sera, anche solo una tazza di latte con 2 biscotti, il corpo non può mettersi in modalità pulizia perché ha ancora delle sostanze da metabolizzare - dice Stefano Erzegovesi, primario del Centro Disturbi del Comportamento Alimentare dell' Irccs Ospedale San Raffaele di Milano -. Se lo stomaco è in attività, il suo orologio biologico ordina al cervello di tenere tutto acceso e l' operazione buttare la spazzatura e rigenerarsi , tipica della prima fase del sonno, non parte. È importante sapere che, in modalità pulizia , intere aree cerebrali si spengono e questo permette il drenaggio di tossine, proteine anomale e radicali liberi che si sono accumulati nel corso della giornata». Per perdere chili, ma anche stare meglio e, in definitiva, vivere più a lungo. Esistono diversi modelli di digiuno intermittente: la dieta «salta-cena», come la citata «8-16»/«9-17» (ovvero le fasce orarie in cui si può mangiare); il protocollo messo a punto da Valter Longo, professore di Biogerontologia all' University of Southern California di Los Angeles, che prevede per 5 giorni al mese una dieta da 800-1.000 calorie escludendo le proteine animali (dieta «mima-digiuno»); il modello «12-12», in cui si mangia dalle 8 alle 20; il settimanale «giorno di magro», che include solo verdure, noci e olio d' oliva. E il digiuno totale, uno o più giorni senza toccare alcun cibo. «Quest' ultima è una pratica che sconsiglio - sottolinea Erzegovesi, che è psichiatra e nutrizionista -, perché è pesante per l' organismo e aumenta la produzione di cortisolo, l'ormone dello stress». Anche il modello «8-16» non è adatto a tutti. «Assolutamente controindicato per chi è sottopeso o ha disturbi alimentari, bambini e adolescenti, donne in gravidanza o che allattano e persone a rischio malnutrizione, come gli anziani - chiarisce l' esperto -. Inoltre chi prende farmaci di qualunque tipo deve valutare con il proprio medico l' opportunità di seguire un regime di semi digiuno, che può modificare la biodisponibilità dei principi attivi». Perché sia realmente efficace, oltre alla base oraria, la dieta deve comprendere alimenti di elevata qualità nutrizionale.
«A chi vuole cominciare il digiuno intermittente consiglio di praticarlo una o due volte a settimana, ascoltando il proprio corpo: è inutile non mangiare alla sera e poi riempirsi di dolci la mattina successiva perché in questo modo, nella somma algebrica tra cibo risparmiato prima e troppo cibo ingerito dopo, prevarrà sempre il segno più. Nei giorni di pulizia bisogna evitare i cereali raffinati, per evitare di muovere l' insulina, e le proteine animali, che in eccesso sono pro-infiammatorie. Dopo le 17 solo acqua o tisane non zuccherate. Per il resto della settimana massima libertà, ma con buon senso».
Quali sono i benefici del regime alimentare seguito da Fiorello?
«Si riducono i fattori di rischio dello stile di vita cosiddetto occidentale: sindrome metabolica, difficoltà a perdere peso, tendenza ad avere livelli infiammatori alti. Troppi cibi raffinati, grassi saturi, proteine animali e pochissime fibre da frutta, verdura, cereali integrali e legumi. Se si pratica il digiuno intermittente senza cambiare le abitudini quotidiane, i vantaggi per la salute sono solo temporanei».
Digiuno intermittente: benefici e come funziona. Tamara il 26 gennaio 2020 su Notizie.it Il digiuno intermittente è un modo alternativo e salutare di perdere peso e restare in forma. Scopriamo come funziona nei paragrafi che seguono. Scopriamo insieme, nei paragrafi che seguono, quali sono i benefici che il digiuno intermittente ha sul benessere psicofisico dell’organismo, come seguirlo correttamente e come mantenere stabile nel tempo il traguardo raggiunto.
Digiuno intermittente. Diffusosi, molto probabilmente, tantissimi anni fa, il Digiuno Intermittente è un modo di alternare periodi di digiuno a periodi di alimentazione, riscoperto recentemente, per perdere peso e restare in salute. Rispetto a molte altre diete, il Digiuno Intermittente funziona perché non costringe l’organismo a privazioni e restrizioni inutili, ma consente di poter mangiare ogni cosa, negli orari prestabiliti. Come avremo modo di appurare dalla lettura del paragrafo precedente, esistono versioni diverse di Digiuno Intermittente, ma la più popolare è quella del 16/8. Studi scientifici hanno dimostrato che, se questa versione del digiuno è seguita correttamente, si potrebbe verificare:
una migliore funzione metabolica e una perdita di peso repentina ed effettiva
una riduzione probabile del rischio di diabete grazie ad una riduzione dei livelli di insulina nel sangue
un allungamento dei tempi medi di vita (sebbene gli studi scientifici sull’uomo, in questo caso, sono limitati)
Per concludere, il Digiuno Intermittente è un modo alternativo di fare dieta, considerato salutare, flessibile e facile da seguire.
Ma come iniziare? Scopriamolo insieme nel paragrafo che segue. Digiuno Intermittente: come funziona. Si tende erroneamente a credere che il digiuno intermittente equivalga a morire di fame. Tuttavia, le due realtà sono completamente differenti perché il cibo manca quando si muore di fame, è presente quando si sceglie di non mangiare. Nel primo caso, ci si priva del cibo involontariamente, nel secondo volontariamente. Esistono tipologie diverse di digiuno intermittente perché questo regime alimentare, in realtà, non impone un programma specifico, al quale ci si deve attenere obbligatoriamente. Chi decide di seguire il digiuno intermittente stabilisce quali sono gli orari più consoni in cui mangiare e quali sono gli orari più consoni in cui astenersi, in base alle proprie esigenze e necessità. Attualmente, il Digiuno Intermittente più seguito è il 16/8, una finestra temporale specifica, in cui il numero 8 indica le ore in cui si può mangiare e il numero 16 indica le ore in cui si deve digiunare. La durata della dieta può variare da pochi giorni a qualche settimana, anche in questo caso, sulla base delle esigenze e le necessità di chi decide di seguire la dieta. Sebbene nei periodi alternativi al digiuno intermittente sia concesso qualche eccesso, seppur moderato, è preferibile che il Digiuno Intermittente faccia affidamento su un regime alimentare ricco, genuino e diversificato, che include frutta, verdura, ortaggi, carne, pesce e cereali integrali. Onde evitare effetti controproducenti, nel periodo di digiuno in cui si può mangiare, è preferibile mangiare piccole porzioni e regolarmente, così da stabilizzare i livelli degli zuccheri nel sangue e tenere la fame sotto controllo.
Il miglior integratore da abbinare. Sebbene il Digiuno Intermittente, quando è seguito correttamente, garantisca numerosi benefici sul benessere psicofisico dell’organismo, a volte, è necessario integrare nel proprio percorso anche un integratore alimentare, per ottimizzare i benefici che si raggiungono, ma anche per accertarsi che, effettivamente, la salute del nostro organismo non venga compressa. Attualmente, il commercio offre tipologie diverse di integratore alimentare, molte delle quali si rivelano fallimentari e deludenti, al contrario di Piperina & Curcuma Plus che, prodotta sotto forma di compresse, aiuta il soggetto che segue una dieta a:
perdere peso e grasso in eccesso
acquistare l’energia necessaria all’organismo per espletare le sue funzioni di base
acquisire il buon umore per affrontare al meglio ogni giornata
Per chi fosse interessato a saperne di più può cliccare qui o sulla seguente immagine.
Piperina & Curcuma Plus è un integratore alimentare, naturale e biologico, che aiuta a perdere peso stimolando la corretta funzione metabolica, grazie all’azione sinergica dei principi attivi che la compongono e che, nello specifico, risultano essere:
la Piperina, l’alcaloide principale del pepe nero, essenziale per stimolare la produzione dei succhi gastrici all’interno dell’organismo, per favorire la corretta funzione metabolica e iniziare a perdere peso rapidamente;
la Curcuma, essenziale per preparare l’organismo alla perdita di peso, purificandolo e depurandolo da tutte quelle sostanze cattive che un’alimentazione sbagliata ha accumulato al suo interno, nel tempo, e impedire ai succhi gastrici in eccesso di raggiungere e danneggiare l’intestino;
il Silicio Colloidale, essenziale per salvaguardare la salute delle ossa, dei tendini e della pelle, e per potenziare gli effetti benefici che derivano dall’azione sinergica di curcuma e piperina.
Si consiglia di assumere Piperina & Curcuma Plus per due volte al giorno, rigorosamente dopo i pasti principali, due compresse dopo pranzo e due compresse dopo cena. La casa di produzione sconsiglia l’assunzione dell’integratore alimentare nel caso di gravidanza e allattamento, bambini e ragazzi non ancora maggiorenni, soggetti allergici o sensibili agli ingredienti del prodotto, soggetti affetti da patologie renali, epatiche e del tratto gastrointestinale. Diffidate dalle imitazioni e i prodotti non originali. Piperina & Curcuma Plus è un prodotto esclusivo, che si acquista unicamente dal sito della casa ufficiale della casa di produzione del prodotto, raggiungibile dal link che vi segnaliamo. Per prenotare la confezione è sufficiente compilare il modulo di acquisto. Un operatore vi ricontatterà e, dopo aver confermato i dati di acquisto, provvederà ad evadere l’ordine, che perverrà direttamente a casa vostra, con consegna espressa, nel giro di un paio di giorni lavorativi, senza costi aggiuntivi per la spedizione. Attualmente, il prodotto è in promozione e potrete ricevere quattro confezioni a soli 49,00 €. Infine, per quanto riguarda il pagamento, potrete optare per il contrassegno e pagare direttamente in contanti, al corriere, al momento della consegna dell’ordine.
· L'Anoressia.
Da ilmessaggero.it il 22 gennaio 2020. L'anoressia è considerata appannaggio quasi esclusivo delle donne, ma così come per altre malattie che si pensa riguardino solo il genere femminile, di anoressia soffrono anche i maschi: uno ogni quattro donne sui tre milioni complessivi in Italia. Gli uomini che soffrono di disturbi dell'alimentazione vivono una condizione di disagio maggiore rispetto alle pazienti e ricevono diagnosi più tardive. Con il risultato che a causa dei pregiudizi i maschi si vergognano di farsi curare e i medici riconoscono e diagnosticano con più difficoltà. Dell'argomento parlano gli specialisti dell'Associazione medici endocrinologi (Ame) che sottolineano come a sottovalutare il problema siano gli stessi medici, proprio a causa di un pregiudizio diagnostico di genere. L'età in cui si presenta la malattia così come per le ragazze è intorno ai 14-15 anni. Negli ultimi anni, riferiscono gli esperti, sono stati registrati casi anche a partire dai nove anni. Ma per questi giovanissimi non esistono ancora centri o percorsi dedicati poichè l'anoressia è sempre stata considerata una 'malattia da femmine'. «L'anoressia degli uomini ha manifestazioni in parte simili a quelle dell'ambito femminile ma spesso l'ossessione per la forma fisica può esprimersi attraverso una attività sportiva compulsiva, oltre ad un comportamento alimentare dannoso», spiega Simonetta Marucci, endocrinologa esperta dei disturbi del comportamento alimentare. «I ricercatori per anni hanno escluso gli uomini dalla maggior parte degli studi e standardizzato i protocolli clinici e diagnostici solo sulla popolazione femminile - aggiunge - sarebbe invece importante che i professionisti della salute cominciassero a riconoscere i sintomi e comprendessero le emozioni e i vissuti che questi ragazzi sperimentano, per poter intervenire efficacemente con strumenti e strategie adeguate». Altra malattia da sempre 'letta' femminile è la pubertà precoce, che nell'ultimo mezzo secolo si è anticipata sempre di più. E contrariamente a quanto si creda, non riguarda solo le femmine. «I motivi di questo processo sono da ricercare principalmente nel peggioramento delle condizioni ambientali, in particolare negli inquinanti ambientali che si trovano nell'atmosfera, nell'acqua e negli alimenti, i quali hanno la capacità di stimolare le ghiandole endocrine e, soprattutto, la funzione testicolare e ovarica», afferma Vincenzo Toscano, past president dell'Ame. «La presenza di sostanze inquinanti nell'ambiente e nel cibo altera questo processo fisiologico anticipandolo anche di 2-3 anni. La pubertà precoce si può curare, ma la sua terapia va sempre decisa caso per caso da uno specialista e condivisa con i genitori». Altra patologia sempre associata alle donne è l'osteoporosi. In realtà anche gli uomini si ammalano: in misura minore rispetto alle donne, ma con conseguenze più gravi. Ne soffre circa 1 milione di uomini (un uomo su dieci, le donne una su quattro). «Negli uomini si manifesta più tardi, in media dopo i 65 anni (contro i 55 della donna). Anche se l'osteoporosi è una malattia della terza età, ci sono forme che si manifestano in situazioni particolari e che possono colpire anche giovani e addirittura giovanissimi», conclude Alfredo Scillitani, endocrinologo Ame.
Malati di anoressia: 1 su 4 è un uomo. I 9 sintomi e il dramma al maschile. Le Iene News il 22 gennaio 2020. Per l’Associazione dei medici endocrinologi italiani un paziente su 4, che manifesta i primi sintomi di anoressia attorno ai 14-15 anni, è un uomo. Il dato sorprende per un disturbo del comportamento alimentare che è sempre stato ritenuto esclusivamente femminile. Quando Luigi Pelazza era andato a trovare un gruppo di pazienti in cura in una clinica sul Garda, aveva trovato un solo uomo, Michele. “Mi vedevo grasso. Ho iniziato a eliminare certi cibi e poi ho cominciato a non mangiare più niente”. Su quattro persone anoressiche, una è un uomo. Forse non l’avreste mai detto, ma questo grave disturbo del comportamento alimentare e del peso non è un dramma solamente femminile. Oggi più di 3 milioni di persone in Italia soffrono di anoressia: è la terza più comune “malattia cronica” fra i giovani, che per gli studiosi sarebbe dovuta per il 50% del rischio a fattori genetici. E non è solo una patologia femminile, dicevamo. Lo aveva raccontato già una ricerca svedese, quella del “Karolinska Institut di Stoccolma”, che ha mostrato come il 10% di oltre 220 atleti olimpici maschi presi in esame tra il 2012 e il 2014 abbia ammesso di avere sofferto di disordini alimentari, la porta d’ingresso dell’anoressia. Lo hanno confermato nel 2017 i medici francesi della rivista “Annales Médico-Psychologiques”, pubblicando studi dettagliati sui dodici uomini seguiti sin dal 2014. Uomini tra i 18 e i 60 anni, che hanno sfatato anche il “mito” di un disturbo solo adolescenziale. A ribadirlo è ora l’intervento degli specialisti dell'Ame, Associazione medici endocrinologi: l’anoressia colpisce almeno un uomo su 4 pazienti. Un fenomeno, culturalmente sottovalutato, che porta con sé l’inevitabile lato negativo: se una ragazza o una donna arriva a farsi curare dopo una media di 4 anni dall’insorgere dei primi sintomi, per l’uomo questo tempo si allunga fino ai 7 anni. E potrebbe essere già tardi. Gli studiosi, che da decenni monitorano questa patologia, sono riusciti ad individuare i campanelli d’allarme della cosiddetta “anoressia nervosa”:
1. Rilevante perdita di peso, almeno oltre la soglia del 15% del proprio normotipo.
2. Paura fobica di ingrassare, anche se si è realmente sottopeso.
3. Rifiuto categorico di ingerire cibi contenenti grassi e zuccheri.
4. Alterazione nella percezione del modo di vivere il proprio peso e la propria taglia.
5. Attività fisica eccessiva e compulsiva.
6. Iperattività motoria e mentale.
7. Abuso di sostanze lassative o diuretiche.
8. Sintomi depressivi e a volte anche pensieri suicidi.
9. Per le donne, assenza di almeno tre cicli mestruali consecutivi.
Con Luigi Pelazza, nel servizio che potete rivedere qui sopra, eravamo andati a conoscere un gruppo di ragazze (e un unico ragazzo, Michele) in cura per anoressia in una clinica specializzata sul Lago di Garda. Ci avevano raccontato come erano sprofondati nell’incubo dell’anoressia e i tentativi di ritornare alla vita dopo anni di dolore anche fisico e di cure farmacologiche e psicoterapia. Proprio Michele, unico maschio in cura, ci aveva raccontato: “Mi vedevo grasso. Ero alto 1 metro e 76 e pesavo 60 chili. Ho iniziato a restringermi, a eliminare certi cibi e poi ho cominciato a non mangiare più niente. Commenti della gente non ne ho mai avuti, non so come è iniziata…”
Lorenzo, morto di anoressia a 20 anni. I genitori: «Noi, lasciati soli contro la malattia». Pubblicato domenica, 16 febbraio 2020 su Corriere.it da Simona Lorenzetti. «Mamma stai tranquilla, sono magro ma sono in forze». È il 3 febbraio. Lorenzo Seminatore sale in camera e si addormenta. Nel silenzio, il suo cuore smette di combattere e si arrende alla malattia. Quel male silenzioso, che sei anni prima ha infettato i suoi pensieri, prende il sopravvento. A ucciderlo è l'anoressia. «Abbiamo fatto di tutto per aiutarlo, ma non è stato abbastanza», raccontano mamma Francesca e papà Fabio. Lorenzo aveva solo 20 anni, era il più grande di quattro fratelli. E ora che non c’è più, i genitori non vogliono che la sua storia rimanga chiusa nel cassetto dei ricordi. Vogliono raccontarla, «perché ci sono altre famiglie che stanno vivendo il nostro calvario. E sappiamo quanto ci si senta soli. Vogliamo scuotere la coscienza delle istituzioni, perché è inaccettabile che in un Paese come l’Italia non ci siano strutture pubbliche in grado di accogliere e curare ragazzi come nostro figlio. Negli ospedali si limitano a parcheggiarti in un reparto e a somministrare flebo per integrare il potassio. Poi ti rimandano a casa, fino al prossimo ricovero». È un grido di dolore, ma anche una denuncia sociale quella che lanciano Francesca e Fabio. Lorenzo si ammala a 14 anni, quando inizia a frequentare il liceo scientifico. «Ha cominciato a mangiare sempre meno. È stato il campanello d'allarme». Giorno dopo giorno, la situazione peggiora. «Dimagriva, non stava bene». Le visite specialistiche non sembrano servire a nulla. «Non mangio perché so che così primo o poi muoio. Non ho il coraggio di salire le scale fino al terzo piano per buttarmi», confessa il ragazzo al neuropsichiatra. «Eravamo spaventati — racconta la mamma —. A 16 anni abbiamo deciso di ricoverarlo privatamente in un centro terapeutico a Brusson, in Val d’Aosta. Lì sembrava essere rinato. Il preside dell’istituto Majorana di Moncalieri, Gianni Oliva, e gli insegnanti ci sono stati di grande aiuto. Quando è uscito dalla clinica, era di nuovo il nostro Lorenzo: ingrassato di venti chili, felice. Ha ripreso a uscire con gli amici». Il ritorno al liceo e gli esami di maturità, però, lo mettono a dura prova. Si iscrive a Filosofia, ma dopo pochi mesi decide di provare con Scienze della Comunicazione. Non è quella la sua strada. Molla tutto e trova rifugio nella musica trap, una derivazione dell’hip pop. Scrive canzoni, le pubblica su Spotify e You Tube. Si fa chiamare «Once the Killer». I testi parlano di lui: sogni, ansie, desideri, paure. Immagini a tinte forti: «Sono cresciuto con la "para" di morire giovane». «Il crollo è avvenuto dopo la maggiore età — continuano i genitori —. A quel punto Lorenzo poteva decidere per sé e noi siamo diventati impotenti. Non sapevamo più cosa fare. Si mostrava collaborativo con i medici, ma continuava a non curarsi. Quando veniva ricoverato, firmava per essere dimesso: era maggiorenne e libero di decidere». Anche di morire. «La depressione giovanile è in aumento, come l'anoressia tra i ragazzi — denuncia il papà —. E in Italia non ci sono strutture pubbliche adeguate. Quando è stato ricoverato in ospedale, lo scorso maggio, Lorenzo passava le sue giornate a fissare il muro. Questi ragazzi devono essere curati e non tutti possono permettersi centri privati. Le istituzioni devono muoversi: prima con la prevenzione nelle scuole e poi investendo nella sanità. Mancano anche i percorsi di sostegno alle famiglie». «Ho visto morire mio figlio lentamente — conclude Francesca —. Non voglio che succeda ad altre madri. Stiamo studiando un progetto che coinvolga privati e istituzioni e che sia di sostegno a questi ragazzi. Lorenzo aveva un grande cuore, voleva sempre aiutare gli altri. Adesso lo faremo noi per lui».
I genitori di Lorenzo, morto di anoressia a 20 anni: «Lo abbiamo visto spegnersi lentamente». Pubblicato lunedì, 17 febbraio 2020 su Corriere.it da Simona Lorenzetti. Sei anni fa le giornate di Lorenzo Seminatore iniziano a perdere colore. Ogni giorno una tonalità in meno, fino a raggiungere il nero assoluto. La sera del 3 febbraio, Lorenzo muore nel silenzio della sua camera: ucciso dall’anoressia. Aveva 20 anni. «Lo abbiamo visto spegnersi lentamente, senza poter far nulla per salvarlo», raccontano mamma Francesca e papà Fabio, che oggi denunciano la loro impotenza di fronte a una malattia che forse viene sottovalutata. «Ci siamo spesso sentiti soli e spaesati — spiegano —. E ci siamo scontrati contro una dura realtà: non esistono in Italia strutture pubbliche in grado di accogliere e curare i ragazzi che soffrono di queste patologie». Per questo hanno scelto di raccontare la loro storia: «Molte famiglie stanno vivendo lo stesso calvario che abbiamo affrontato noi. Questi ragazzi devono essere curati e non tutti possono permettersi centri privati. Le istituzioni devono muoversi: prima con la prevenzione nelle scuole, poi investendo nella sanità. Mancano anche i percorsi di sostegno alle famiglie. In ospedale si limitano a fare flebo di potassio e poi rispediscono i pazienti a casa». Gli incubi di Lorenzo iniziano all’età di 14 anni, quando si iscrive al Liceo scientifico. «È sempre stato un ragazzino molto esigente, un perfezionista — ricorda la madre —. Poi, all’improvviso, un giorno qualcosa in lui è scattato e ha smesso di mangiare. È stato il primo campanello d’allarme e da quel momento la situazione è andata peggiorando». Il ragazzo passa da uno specialista all’altro, fino a quando si trova faccia a faccia con un neuropsichiatra e confessa: «Non mangio, perché so che così prima o poi muoio. Non ho il coraggio di salire le scale fino al terzo piano per buttarmi». Parole taglienti, che colpiscono al cuore i genitori. «Lorenzo aveva sedici anni e abbiamo deciso di ricoverarlo in una clinica privata a Brusson, in Valle d’Aosta — ricorda Francesca —. Il percorso è stato lungo, ma ne era valsa la pena. Nostro figlio sorrideva di nuovo. Studiava, faceva i compiti che le insegnanti dell’istituto Majorana di Moncalieri gli mandavano via mail. Per aiutarlo, i professori andavano a Brusson a interrogarlo. Così non ha perso l’anno scolastico: la scuola per lui era molto importante». Poi Lorenzo è di nuovo a casa. È ingrassato di venti chili e riprende a frequentare gli amici. Il ritorno sui banchi di scuola lo aiuta, ma l’avvicinarsi degli esami di maturità fa ricomparire vecchi fantasmi. All’università la situazione precipita: si iscrive a Filosofia e poi a Scienze della Comunicazione. Smette di studiare. E imbocca una nuova strada: la musica. Scrive canzoni, le pubblica su Spotify e YouTube. Si fa chiamare «Once the Killer». Nei testi sfoga le sue inquietudini: sogni, ansie, desideri e paure. Immagini a tinte forti: «Sono cresciuto con la “paura” di morire giovane», «forse ho dato troppo e tutto troppo presto». La malattia prende il sopravvento. «Ha smesso di curarsi — spiega papà Fabio —. È diventato maggiorenne e a quel punto poteva decidere per sé. E noi siamo diventati impotenti. Quando veniva ricoverato, firmava per essere dimesso: aveva 18 anni ed era libero di decidere». E Lorenzo decide di morire. Si spegne lentamente. E oggi la sua insegnante di lettere, Elena Alberti, lo ricorda così: «Hai attraversato la vita con il passo lieve di un contrabbandiere. Acrobata sull’acqua, tenuto in scacco dalla sua sensibilità».
«L’anoressia maschile è più insidiosa. Le famiglie? Non sono mai colpevoli». Pubblicato martedì, 18 febbraio 2020 su Corriere.it da Margherita De Bac. «I giovani con anoressia non sono mosche bianche. Sebbene meno numerosi delle ragazze, hanno caratteristiche differenti e una maggiore complessità. Dovremmo occuparcene non soltanto quando vengono denunciate storie come queste». Lancia una pietra nello stagno Stefano Erzegovesi, primario del Centro per i disturbi alimentari dell’ istituto San Raffaele di Milano. Storie «come queste» sono fotocopiate su Lorenzo, ucciso dalla malattia che affama mente e corpo, fino a distruggerli. I suoi genitori hanno denunciato la mancanza di aiuto della sanità pubblica, di sostegno alle famiglie, di accompagnamento anche da parte della scuola. Vogliono che Lorenzo non se ne sia andato invano.
Hanno ragione?
«Sì, i servizi specialistici offerti dal servizio sanitario pubblico sono pochi e sa perché? Costano tanto e sono in perdita economica. Fa male dirlo ma è così. I disturbi del comportamento alimentare (anoressia, bulimia i principali) richiedono un impegno notevole di operatori e organizzazione. Servono équipe multidisciplinari con medico, nutrizionista e psicologo oltre a diversi percorsi: day hospital, posti letto per ricoveri di lunga durata, ambulatori. È un intervento molto impegnativo e “poco redditizio”».
Il 15 marzo è la Giornata del fiocchetto lilla per sensibilizzare sui disturbi alimentari. Cosa denunciare?
«Servono investimenti tenendo conto che le cure durano anni, da 3 a 5 per l’anoressia, da 1 a 3 per la bulimia. Ci vuole un progetto di largo respiro, concetto evidentemente poco congeniale ai nostri politici».
Come intercettare questi disturbi?
«Il campanello deve scattare quando osserviamo un cambiamento di abitudini alimentare persistente. Una dieta sempre più stringente, la ritrosia nel sedersi a tavola, fissazione sul peso, sbalzi d’umore concomitanti al digiuno. Non illudetevi che possa trattarsi di una fase passeggera. I disturbi alimentari tendono a permanere. Se avete il sospetto rivolgetevi a centri specializzati, ce n’è un elenco su disturbialimentarionline.gov.it , sito del ministero della Salute. Non cercate figure poco esperte».
C’è chi invoca lo strumento dei trattamenti sanitari obbligatori, previsti per i disturbi psichiatrici. Costringere i pazienti che rifiutano le cure ad accettarle con un ricovero coatto. Che ne pensa?
«Questo strumento non è stato creato per i disturbi alimentari ma per quelli psichiatrici con fasi acute, come schizofrenia e bipolarismo. Un paziente dei nostri, ritrovandosi in cattività, svilupperebbe rabbia ancora maggiore. È vero anche che con i mezzi oggi a nostra disposizione non possiamo seguire tutti e molti rischiano l’abbandono. Parliamo di giovani che se non avessero questa malattia sarebbero sani e invece rischiano la morte. Ecco perché è urgente pianificare investimenti duraturi almeno per i casi più gravi cui assicurare cure di anni. I disturbi alimentari sono come i tumori, richiedono cure ad altissima intensità e non sempre c’ è la guarigione».
Qual è l’origine?
«Le cause sono distribuite su più livelli. Predisposizione genetica, temperamento, sfera emozionale, influenza della società che da una parte esalta il modello della magrezza come vincente e dall’ altra permette facile accesso al cibo spazzatura. Le vittime della malattia sono ragazzi perfezionisti, ossessionati dai risultati e dal giudizio degli altri, scrupolosi fin da bambini, condizionati dalle prese in giro dei compagni sull’aspetto fisico. La famiglia? Non colpevole. Anzi, è una risorsa essenziale per il successo delle cure».
I casi che riguardano i maschi sono più complessi?
«Nelle donne l’anoressia è quasi sempre correlata a un momento fisiologico, il corpo che cambia con la pubertà. Nel maschio si aggiungono problematiche psicopatologiche ad esempio depressione, disturbi ossessivo-compulsivi o di personalità. I sintomi di esordio sono unisex».
· La canizie.
Melania Rizzoli per “Libero quotidiano” il 3 febbraio 2020. Quando spunta il primo è sempre un piccolo trauma psicologico, ed apparendo chiaro, anzi molto più chiaro degli altri, viene strappato con stizza dal suo proprietario ed esaminato con una lente alla luce del sole, nell' illusione che si tratti di un capello biondo cresciuto chissà come in mezzo alla chioma più scura, mentre invece è bianco e brillante lungo tutto il fusto, e quell' unico pelo spuntato è il primo sintomo che preannuncia la canizie (da canus: grigio in latino), ovvero l' inesorabile sopraggiungere dei capelli bianchi, che dal quel momento inizieranno ad imbiancare più o meno lentamente, ma in maniera inarrestabile. Il fenomeno insorge naturalmente intorno ai 30/40anni, a causa dell' invecchiamento fisiologico delle cellule che conferiscono il colore ai capelli, i melanociti (gli stessi responsabili del colore della pelle, di quello dei nei e dell' abbronzatura), che ad un certo punto della vita, e per motivi molto diversi, smettono di produrre melanina, il pigmento la cui carenza fa virare il colore del capello, qualunque sia quello iniziale, dal grigio perla al candore del bianco. La canizie però, può anche essere precoce, ed interessare giovani tra i 20 e i 25 anni, se non prima, ed in questi casi si tratta prevalentemente di fattori genetici, poiché queste persone dispongono nel loro Dna di un gene che "decide" già prima della maturità fisiologica, di non produrre più la melanina che colora i capelli, e non è detto che tale incanutimento precoce abbia una diretta discendenza dai genitori, perché potrebbe essere stato ereditato da qualche avo di cui è difficile recuperare memoria. Tra le cause patologiche della canizie precoce rientrano invece alcune malattie come l'anemia perniciosa, l'ipotiroidismo, l'omocistinuria, la vitiligine, i bassi livelli di sideremia e la malnutrizione, ma la causa più frequente è lo "stress ossidativo dei melanociti", sempre sulla base di una predisposizione genetica, e nei follicoli piliferi di questi capelli bianchi si riscontrano alti livelli di Perossido di Ossigeno, la sostanza simile all' acqua ossigenata usata comunemente per schiarire i capelli, che favorisce la comparsa di microscopiche bolle d' aria tra le cellule che li compongono, disintegrando il pigmento originale che li fa diventare precocemente bianchi lungo tutto il fusto, senza alcuna possibilità di potersi difendere immunologicamente da tale insulto ossidativo. In ogni modo non ci si deve preoccupare, perché i capelli bianchi precoci in questo caso non sono sintomo di malattia o di invecchiamento della persona, ma bisogna accettare che, qualunque sia la causa, essi non torneranno mai più del colore di prima, poiché, una volta innescato il processo di incanutimento, non esiste nessun rimedio miracoloso, terapeutico o farmacologico, per far ricrescere quel capello del suo colore naturale, in quanto è il suo follicolo pilifero, cioè la sua radice, a non essere più in grado di produrre melanina, per cui quando rispunterà esso sarà sempre bianco.
NELLA STORIA. La canizie però, sebbene sia generalmente un processo fisiologico che dipende dall' età, da motivi genetici o costituzionali, è sempre più spesso anticipata e provocata da un forte stress, sia esso fisico od emotivo, da un grande spavento, da una profonda angoscia o da un terribile shock, come quello, per esempio, subìto da Maria Antonietta, i cui lunghi capelli diventarono bianchi in una sola notte quando venne arrestata e rinchiusa in cella in isolamento durante la Rivoluzione francese, o come la candida frezza sulla chioma di Aldo Moro, anch' essa apparsa in pochi giorni di stress acuto. Ma come è possibile che la paura o il dolore, due sentimenti impalpabili come l' aria, che sicuramente influenzano psicologicamente, siano in grado di far diventare improvvisamente i capelli bianchi? Per la prima volta uno studio dell' Università di Harvard, pubblicato sulla rivista Nature, ha stabilito il nesso tra lo shock subìto dal sistema nervoso e le cellule staminali che rigenerano i pigmenti, evidenziando che sotto stress il nostro cervello attiva il rilascio di grandi quantità di noradrenalina, il neurotrasmettitore che ci consente di agire con rapidità e forza di fronte ad una situazione di pericolo, e tale sostanza però viene assorbita in grandi quantità anche dalle cellule staminali che rigenerano il pigmento responsabile del colore dei capelli, favorendone la rapida riduzione con scomparsa della colorazione. Da tale ricerca viene anche resa nota la rapidità con cui le cellule staminali rigeneranti i pigmenti, che si trovano nel profondo del bulbo pilifero, durante lo shock emotivo vengono perse e distrutte, perché il loro esaurimento avviene in un tempo che varia da poche ore a pochi giorni, ed è sottolineato che, una volta sparite, non è più possibile rigenerarle. Tali risultati confermano inoltre come lo stress influisca non solo sui capelli, imbiancando le chiome, ma su molti altri tessuti ed organi del nostro corpo, il quale, sovrastato dall' affaticamento eccessivo, fisico e psicologico, non riesce più a bloccare i suoi effetti dannosi. Milioni di persone nel mondo hanno sperimentato l' incanutimento precoce da stress, che può avvenire anche sui peli pubici e in tutti gli altri distretti piliferi, ma mai prima d' ora era stato dimostrato scientificamente il meccanismo con cui lo shock potesse condurre in poche ore o in pochi giorni all' esaurimento e alla morte le cellule staminali del bulbo pilifero, con il danno permanente che ne deriva. Ad essere colpito comunque resta solo il colore del capello, perché quel capello, anche se bianco, è sano nella sua struttura e nella sua funzione e continuerà regolarmente a crescere, senza mai più virare la sua nuova tonalità "senile".
ALOPECIA. Lo stress, oltre ad avere un ruolo chiave nella comparsa della canizie, può essere causa anche di fenomeni di alopecia o perdita diffusa dei capelli, come avviene, per esempio, nei periodi di esaurimento nervoso, nei casi di depressione o di carenze alimentari, ma tutti i capelli persi o caduti, se e quando ricominceranno a crescere saranno sempre di colore diverso da quello originale, cioè saranno inesorabilmente argentei. Comunque non bisogna spaventarsi per la comparsa improvvisa di capelli bianchi in età prematura, anche se osservare una ciocca bianca che fiorisce sulla chioma dalla notte alla mattina è sempre uno shock, perché il lato positivo della questione è che la reazione violenta del sistema nervoso alla situazione critica che ha causato l' imbiancamento, è stata soprattutto in grado di fronteggiare la grave urgenza, emergenza, pericolo o dolore acuto, mettendo in atto una battaglia osmotica, chimica, metabolica e psicologica che può aver lasciato sul terreno capelli morti e feriti, salvaguardando però, il più possibile, la morìa di cellule molto più utili, quelle dei principali organi vitali, quale cuore, fegato e cervello, senza i quali nessun capello al mondo sopravviverebbe, non solo al colore, ma al suo intero ciclo di vita.
· L’Alopecia.
M5s, il deputato Iovino vuole il reddito da alopecia: "Aiuti per chi è pelato". Libero Quotidiano il 5 marzo 2020. Sì, va bene, il coronavirus. Ma la vera emergenza, secondo i Cinquestelle, è l' alopecia. È una «malattia invalidante», denuncia il deputato grillino Luigi Iovino. Che ha un' idea in testa, come Cesare Ragazzi. Quella, cioè, di chiedere al governo un sostegno per risolvere il disagio dei pelati. Non le mascherine, ma parrucche gratis. Il tutto è contenuto in una interrogazione a risposta scritta depositata lo scorso 3 marzo. E fa niente se l' esecutivo sta concentrando energie e risorse sul Covid-19. Iovino non è uno sta che a guardare il capello. E chiede al premier Giuseppe Conte di non dimenticare i diversamente pettinati. Che, in questa coda di inverno funestata dal virus, hanno il problema di coprirsi anche il cranio, oltre alle vie aree. Iovino, va detto, non è in conflitto di interesse. Classe '93, è il deputato più giovane della corrente legislatura. E i capelli, malgrado una lieve stempiatura evidenziata nelle foto più recenti, ce li ha ancora. Allora la sua sensibilità risulta essere ancora più nobile. «L' alopecia - che è differente dalla calvizia, - è una delle malattie genetiche e autoimmuni più diffuse, con una incidenza stimata attorno all' 1,7 per cento della popolazione. Circa 145 milioni di persone al mondo soffrono di tale patologia, che può manifestarsi in qualunque età e senza distinzioni di sesso». Iovino fa distinzione tra la «classica perdita dei capelli, comune a molte persone e spesso legata a fattori ambientali e fisici» dall' alopecia che è una patologia vera e propria. Le forme più gravi non sono pericolose per la vita, spiega, ma possono «produrre effetti devastanti sul piano psicologico: senso di frustrazione, disagio personale, perdita dell' autostima, finanche gravi limitazioni in tutti i contesti sociali, compreso quello lavorativo». I pazienti, molto spesso, «per tentare di arginare l' impatto emotivo e psicologico causato dalla malattia, ricorrono a protesi o parrucche, sostenendo ingenti costi non solo per il loro acquisto ma anche per la loro manutenzione: basti pensare che una singola parrucca può costare fino a 3 mila euro (4 mila euro, invece, per le protesi), con una durata approssimativa di circa un anno solare». All' utilizzo di parrucche e protesi si aggiunge, inoltre, «il ricorso alla tecnica della dermopigmentazione, al fine di ridisegnare con metodi innovativi ciglia e sopracciglia: il tutto avviene con costi molto elevati, spesso ripetuti nel tempo a causa dei continui richiami per il trattamento». Insomma, è una roba seria e costosa. Al momento, per tale malattia «totalmente imprevedibile» non è stata trovata «una cura definitiva» ma solo «possibili trattamenti che non funzionano sempre e che possono causare pesanti effetti collaterali». Serve un sostegno statale, allora: «Ad oggi, nel nostro Paese, esistono importanti realtà associative, che mirano a tutelare e dare sostegno ai pazienti affetti da alopecia nonché a promuovere costanti campagne di sensibilizzazione tese al riconoscimento nazionale dell' alopecia areata come malattia rara ed invalidante, con l' ottenimento dei relativi diritti già previsti per le malattie croniche e invalidanti inserite nell' allegato 8-bis del decreto del presidente del Consiglio dei ministri 12 gennaio 2017». La proposta del deputato grillino è proprio questa: chiedere al governo «se non intenda valutare la possibilità di assumere iniziative volte ad inserire la patologia definita "alopecia areata" all' interno dell' elenco delle malattie croniche e invalidanti e a prevedere un' esenzione per l' effettuazione di esami, cure, terapie e acquisizione di dispositivi medici».
Dagospia il 6 marzo 2020. Riceviamo e pubblichiamo: Con riferimento all'articolo di Salvatore Dama sull'alopecia, vorrei proporre qualche riflessione: mia figlia ha iniziato la lotta con l'alopecia verso i 12 anni. La sua adolescenza è trascorsa tra cappellini, bandane e pianti davanti allo specchio. Adesso di anni ne ha 21 ed è bellissima, però sotto la protesi - 5000 euro - il suo cranio è completamente nudo. Potete documentarvi su google immagini: l'aspetto di questi ragazzi - o bambini, anche - è lo stesso della chemioterapia. Per l'alopecia autoimmune non ci sono cure efficaci, i tentativi terapeutici prevedono dosi massicce di cortisone o farmaci epatotossici. Il percorso per il riconoscimento come "malattia" data da molti anni. Non è certo colpa dei ragazzi se è arrivato in Parlamento proprio in questi giorni. Salvatore Dama (che per la sua chioma non disdegna l'uso di gel o fissatori per l'effetto sbarazzino-bagnato) utilizza per i "...diversamente pettinati..." questi termini: "...un sostegno per risolvere il disagio dei pelati...". Non ritengo necessari ulteriori commenti, ma una dichiarazione: preferirei affrontare altre mille volte i problemi suddetti - ma vivere nel mio mondo, che vivere un solo attimo in quello di Salvatore Dama, e di chi se ne ritiene "collega".
· L’Anzianità.
Da "ilmessaggero.it" il 30 marzo 2020. Se non è il mitico elisir di giovinezza, irraggiungibile pietra filosofale di tanti Dorian Gray di tutti i tempi, poco ci manca. Ma non è certo questione di vanità e di immagine, ma di scienza epigenetica e quindi di longetività del genere umano. Un gruppo di scienziati dell'università di Standford guidati dal biologo italiano Vittorio Sebastiano ha infatti raggiunto un traguardo impensabile: cellule umane anziane sono ringiovanite di anni grazie a un cocktail di proteine tipiche dello sviluppo embrionale. La tecnica, che apre nuovi scenari nella lotta alle malattie legate all'età, è pubblicata su Nature Communications . Il professor Sebastiano - uno dei tanti nostri cervelli in fuga, laurea e dottorato a Pavia, 42 anni ,sposato, due figli piccoli, primo incarico al Max Planck Institute di Münster, in Germania- ha sviluppato e brevettato una tecnologia per la riprogrammazione epigenetica, in grado di riparare quei danni a livello di tessuti e organi causati dall’avanzare degli anni. Una tecnologia che apre nuove prospettive nella cura di tutte quelle malattie dovute alla vecchiaia. In sostanza si riprogrammano le cellule adulte (ad esempio quelle della pelle) per farle tornare "bambine" trasformandole in cellule staminali indotte e pluripotenti, capaci cioè di differenziarsi in diversi tipi di tessuti. Per riportare indietro le lancette dell'orologio, le cellule vengono trattate per due settimane con un cocktail di proteine ringiovanenti, che solitamente vengono espresse durante lo sviluppo embrionale. Sulla base di questa esperienza, «ci siamo chiesti se fosse possibile portare indietro l'orologio dell'invecchiamento senza indurre la pluripotenza», spiega Sebastiano. «Ora abbiamo scoperto che controllando rigidamente la durata dell'esposizione alle proteine, possiamo indurre il ringiovanimento in molti tipi di cellule umane». Dopo quattro giorni di trattamento, le cellule sono geneticamente ringiovanite in media da 1,5 a 3,5 anni, con picchi di 3,5 anni per le cellule della pelle e addirittura 7,5 anni per le cellule che rivestono il lume dei vasi sanguigni. Anche il loro metabolismo è migliorato. Forti di questo risultato, i ricercatori hanno provato a ringiovanire perfino le cellule staminali del muscolo, che col passare del tempo vedono calare la loro capacità rigenerativa. Le staminali, prelevate da topi anziani e trattate in provetta, una volta reimpiantate hanno donato agli animali lo stesso vigore dei topi più giovani. La tecnica è stata infine applicata a cellule umane prelevate dalla cartilagine danneggiata dall'osteoartite: il mix di proteine ringiovanenti ha permesso di ridurre la produzione di molecole infiammatorie migliorando la capacità delle cellule di dividersi e funzionare.
Bruna Magi per “Libero quotidiano” il 31 gennaio 2020. Sarà capitato anche a voi di incontrare qualcuno che non vedevate da anni e di non riconoscerlo. Un amico, una compagna di scuola, magari lei era un po' seccata nel constatare che non riuscivate a metterla a fuoco. Le facce cambiano nel corso del tempo e della vita. Bisogna metterlo in preventivo, se si continua a vivere, prima o poi occorre ipotizzare l' arrivo della vecchiaia. Quindi sorridete alla sconosciuta, fingendo di ricordare, mentre lei elenca nomi di comune conoscenza che avevate relegato al cassetto dei ricordi, nel corso della vita se ne sono aggiunti tanti, in certi casi decine e decine, magari per ragioni professionali. Nel frattempo la poverina gode di tutta la vostra comprensione, sino al momento in cui lancia la frase fatale: «So che lavori ancora, scrivi. Ma non sei stanca? Io sono così felice di fare la nonna!». Discorsi del genere mi fanno infuriare. È realtà confermata anche sotto il profilo scientifico, che l' età anagrafica si è abbassata perlomeno di dieci anni. E conta prima di tutto l' età del cervello, cioè la sua efficienza e il nostro modo di vivere. Rilancio la teoria alla malcapitata, che se ne va quasi stupita, trattenendomi a stento dall' aggiungere che certe persone, come lei, non capiscono la situazione, non avendo mai posseduto un cervello neppure da giovani, ai tempi di scuola. Per fortuna ci supporta un libro sull' argomento decisamente interessante, titolo (che parte ironicamente da un concetto obsoleto e fastidioso) Una certa età-Per una nuova idea della vecchiaia (Solferino editore, 202 pagine, euro 17), autore Vittorino Andreoli, 80 anni, psichiatra, scrittore e poeta. Che parte dal concetto secondo il quale corriamo un grave rischio: non comprendere gli aspetti positivi di ogni trasformazione a partire dalla bellezza di invecchiare. E ci racconta la vecchiaia come capitolo originale dell' esistenza e non come un' età malata.
SALUTE E MALATTIA. Dice la presentazione: «Chi ha danzato a lungo con il tempo ha maggiori possibilità di sperimentare la gioia e considerare il piacere. Il piacere si lega alla tenerezza, a una nuova intimità, alla lentezza di un gioco che impegna tutto il corpo e che si fa sempre più creativo». In definitiva, Andreoli sostiene che solo recuperando il ruolo cruciale di quella "certa età", possiamo addirittura iniziare a riparare la società in cui viviamo, e aggiunge un nuovo termine, il "bendessere", per sostituire i concetti meccanici di salute e malattia. Lo inizia con una dedica magistrale «A tutti i giovani perché scoprano quanto è bello diventare vecchi», e lo conclude riferendosi al Nobel Albert Camus con il suo Il mito di Sisifo, dove l' uomo è condannato a spingere il masso della vita dalla valle alla sommità del monte, e ineluttabilmente ogni volta rotola in basso. Dieci anni dopo Camus aveva scritto La rivolta finalizzata a promuovere le condizioni per stare dignitosamente a questo mondo». Andreoli fa suo il concetto, scrivendo che gli piacerebbe che la disciplina del bendessere rappresentasse una rivolta scientifica per sconfiggere una concezione antica del termine "vecchio". Vorrebbe che diventasse «un Sisifo del tempo presente mentre, pur appesantito anche da questo limite (oltre ai limiti della condizione umana), potrebbe vivere "meglio". Naturalmente la disciplina del bendessere potrà portare risultati maggiori e risposte più ampie ai desideri di chi è entrato nel capitolo nuovo, e comunque straordinario, della terza età». A questa grande conclusione, Andreoli giunge dopo aver completato un cerchio intorno al tema, da ogni prospettiva (filosofica, medica, sociale) suddiviso per argomenti: il tempo che passa, l' anatomia della vecchiaia, i rischi di psicopatologia dell' anziano, le differenze di genere, la longevità, la nuova disciplina del "bendessere". Ragion per cui si indigna di fronte ai pensionamenti obbligati: «Ecco perché trovo ridicola una società che vuole definire "vecchia" una persona di 65 anni e decide di cacciarla in pensione come fosse inabile al lavoro anche se non lo è». Infatti ognuno dovrebbe poter andare in pensione quando più gli aggrada, non escludendo di essere anche nonno felice. E ci fa capire quanto può essere diverso, da persona a persona, lo scorrere del tempo: «Esiste un tempo cronologico e uno mentale. Il primo è meccanico: in questa espressione è implicata una monotonia fastidiosa, come il rumore d' estate delle cicale. Uno scorrere ossessivo di lancette Il tempo mentale (o psicologico) si definisce meglio come tempo vissuto Questo è il tempo dell' esistenza, questa è la dimensione della vita». Fondamentale che si parli anche del sesso. Andreoli scrive che ovviamente con il passare anni alcune espressioni della sessualità, che rimane il simbolo della vitalità, mutano. «Ciò significa semplicemente che è il tempo per scoprire e sperimentare una sessualità adeguata alla nuova condizione. Occorre indirizzarsi a una relazione sessuale che tenga conto della realtà e si accorga che l' amore non è legato a una formula, ma può esprimersi in forme, in giochi, in fantasie che realizzano questo bisogno senza riferimenti a modalità passate». Questa, aggiungiamo noi, è una straordinaria analisi dell' esistenza, una magnifica fonte di luce. Lucidissima.
· La Frattura del Femore.
Valentina Arcovio per “il Messaggero” l'8 luglio 2020. Per Ennio Morricone pare sia stata fatale. Ma come lui sono migliaia gli anziani che ogni anno in Italia perdono la vita in seguito alla frattura del femore. Secondo la Società italiana di ortopedia e traumatologia (Siot) sono più di 90 mila gli anziani che ogni anno finiscono in pronto soccorso per una frattura del femore con una percentuale di mortalità del 5 per cento in fase acuta e del 15-25 per cento entro un anno. Ma gli anziani non sono solo più a rischio frattura. Sono anche a maggior rischio complicanze letali. Il femore è l' osso più grande del corpo umano e svolge una funzione chiave per il movimento, visto che su di esso si innestano muscoli fondamentali e che comunica con l'anca e le articolazioni del ginocchio.
LE CAUSE. La frattura può colpire un punto qualsiasi dell'osso, ma negli anziani interessa principalmente la testa del femore, dove l' osso si congiunge con l'anca, e in genere è conseguente a una caduta accidentale. A rendere fragile l' osso nelle persone di una certa età è generalmente l' osteoporosi, una patologia cronica diffusa che rende le ossa meno dense e più soggette a rottura. «Con il passare degli anni e con il significativo incremento della vita media aumenta la possibilità di incorrere in fratture, in particolare quelle collegate all' osteoporosi», spiega Francesco Falez, presidente della Siot. «Le cadute rappresentano il principale fattore scatenante. Tra le conseguenze delle fratture continua - nelle persone anziane vi è la necessità di un ricovero, spesso lungo, nonché un aumento della mortalità. Oltretutto gli anziani impiegano più tempo a riprendersi da una frattura e in alcuni casi il recupero non è completo; tutto ciò rende le ossa ancora più fragili e favorisce la comparsa di nuove fratture, oltre a causare isolamento sociale, perdita di indipendenza e dolore cronico». La buona notizia è che da una frattura al femore, il più delle volte, si può guarire bene. A patto però che l' intervento chirurgico sia tempestivo e che il paziente riprenda prima possibile la sua vita «normale». Secondo gli specialisti, l' operazione deve essere effettuata entro 48 ore dalla caduta, per evitare che sorgano rischi e complicanze. Il primo obiettivo da raggiungere è quello di permettere al paziente di stare seduto o in piedi nel minor tempo possibile. Il ritorno al movimento, per le persone anziane, deve essere considerato una priorità. Un' immobilità troppo protratta nel tempo può provocare una diminuzione delle forze muscolari che può portare a una perdita permanente di funzioni e una conseguente diminuzione dell' autonomia del paziente.
LA TERAPIA. «Il progresso delle tecniche chirurgiche ed anestesiologiche e la precocità nell' affrontare l' intervento ove necessario consentono di ridurre i tempi di ospedalizzazione e di recupero funzionale», dice Falez. Ma la miglior cura rimane la prevenzione. «Per prevenire e trattare le fratture da fragilità l' ortopedico, insieme ai medici di famiglia, ha il compito di indirizzare i pazienti a rischio ad eseguire opportuni esami strumentali ed avviare così una eventuale terapia preventiva», spiega l' esperto. «Se invece il paziente si presenta già fratturato alla visita, dopo l' opportuno trattamento chirurgico, lo specialista avrà il compito di monitorarlo nei mesi successivi, integrando una terapia preventiva che ha lo scopo di ridurre il rischio di incorrere in nuovi eventi traumatici», conclude Falez.
· La Balbuzie.
Balbettava, adesso parla senza problemi e insegna il metodo. Pubblicato lunedì, 03 febbraio 2020 su Corriere.it da Ornella Sgroi. Considerare i miei desideri tangibili e reali, tanto quanto il mio limite». Giovanni Muscarà lo ha imparato dai suoi genitori, sin da bambino, per fare i conti con una balbuzie «devastante». Ricorda ancora quando, primo giorno di prima elementare, una nuova compagnetta - «Liliana, non dimenticherò mai il suo nome» - sentendolo balbettare un «co…co, co…co» gli chiese se fosse una gallina. «Ho da subito associato il mio modo di parlare alla fatica e al dolore, il viso e il collo mi si contorcevano, ma i miei genitori mi hanno insegnato che non ci si lamenta per come siamo fatti». A sentirlo parlare oggi, che di anni ne ha 37, stenti a crederci tanto è sciolto e rapido di parola. Eppure il percorso è stato lungo e complicato: «La balbuzie è un problema molto sottovalutato per la portata che ha nel vissuto di chi ne soffre, sei tu stesso a ridimensionarla il più possibile, invece è una fatica che ti condiziona in ogni istante della tua vita». Foniatri, logopedia, psicologi. Ore e ore di allenamento, tra iperarticolazione delle labbra e allungamento dei suoni iniziali come un canto, insegnati per rimedio alla balbuzie. Giovanni cresce e con lui «il desiderio di fare qualcosa di grande. Ma come potevo, se già dire il mio nome era tanto difficile? Ci è voluta l’educazione dei miei genitori insieme con il carattere, il temperamento e la sicilianità a farmi considerare reale e concreto il mio desiderio tanto quanto la mia balbuzie. Non ho più smesso di desiderare cose grandi». La maturità classica a Messina, dove è nato, poi la laurea in Economia e Finanza internazionale alla Cattolica di Milano, la gavetta nelle banche d’affari e finalmente il lavoro in un’importante società di consulenza milanese. «Sentivo, però, che non era questa la mia battaglia», confida Giovanni. Si trasferisce allora a Londra, «in inglese balbettavo meno, ma era un inganno: non essendo la mia lingua madre, mascheravo bene i miei tentennamenti, finché non sono arrivati i colloqui nella City. Un disastro! Non credevano che avessi raggiunto davvero quei risultati. Lì ho capito che, non potendo cambiare la percezione altrui della balbuzie, ero io che dovevo migliorare. Ho sentito un crescente senso di rivalsa». L’allenamento incalza fino a 16-17 ore al giorno, «ma al momento del colloquio perdevo subito il controllo del mio corpo. Ero disperato», racconta Giovanni. «Finché mio padre mi ha detto: “Quand’è che inizierai a fare quello che desideri?” e il mio unico desiderio era essere libero di parlare come tutti, senza stare attento a come farlo». Giovanni si guarda allo specchio. E nota che, prima di emettere un suono, il suo corpo si perde in «movimenti istintivi e spasmi che condizionavano la voce». Inizia a fare ricerche, a confrontarsi, a lavorare con un gruppo di fisioterapisti neuro-riabilitativi, perché «parlare è un atto motorio complesso: non serve lavorare sui sintomi della balbuzie, ma sul controllo della motricità delle parti del corpo coinvolte nella fonazione, modificando gli schemi motori di base e creandone dei nuovi, più efficaci di quelli disfunzionali». Giovanni elabora così il metodo Mrm-s (Muscarà Riabilitation Method for Stuttering), torna a Milano e nel 2015 apre Vivavoce, un poliambulatorio specializzato oggi in tutti i problemi legati alla voce, dalla balbuzie ai disturbi di apprendimento e comportamentali. «Un progetto realizzato con l’aiuto di alcuni amici dell’università e di altri amici d’infanzia, che ci hanno creduto vedendone i benefici e i risultati sui tanti ragazzi che seguiamo. Adesso il mio desiderio è portare il nostro servizio anche nelle altre città italiane». Già operativo a Roma, Bologna, Caserta e Catania. Prossima tappa: Udine.
· L’ittiosi epidermolitica.
Ittiosi, la bambina che “si pietrifica” e la storia di Cloe in Italia. Le Iene News l'8 febbraio 2020. Le immagini della bambina indiana Rajeshwari stanno facendo il giro del mondo. Soffre di ittiosi, una malattia rara che colpisce la pelle ricoprendola di vesciche e che nei casi più estremi rende difficoltoso ogni movimento. Un dramma simile a quello vissuto da Cloe: Nina Palmieri ci ha raccontato la sua storia. Rajeshwari come Cloe. La prima in India, l’altra in Italia. Le immagini e il dramma della bambina indiana stanno facendo il giro del mondo. Noi de Le Iene vi abbiamo raccontato, con il servizio che potete vedere qui sopra, il dramma simile e vicinissimo della piccola Cloe. Le due bambine accomunate dalla stessa malattia rara: l’ittiosi. La patologia comporta una perdita di liquidi che fa produrre molte cellule morte: queste vanno a finire nell’ultimo strato della pelle creando delle squame. Rajeshwari vive in India, ha 7 anni e si sta lentamente “pietrificando” a causa dell’ittiosi che le rende difficoltoso ogni movimento. Così piccola ha dovuto imparare a convivere con le vesciche che le hanno ricoperto gambe, braccia e schiena. Nell’area di Dantewada dove vive non esiste un medico in grado di aiutarla. Del resto una cura non esiste. Chi ne soffre, viene lasciato sola con la sua malattia rara: investire per loro non conviene economicamente e nessuno vuole avviare degli studi per i questi bimbi. È lo stesso dramma che sta vivendo Cloe, 9 anni che vive in Italia. “Ho questa malattia rara che colpisce la mia pelle, tre volte al giorno devo mettere la crema perché altrimenti si secca e si squama”, racconta la piccola a Nina Palmieri. “Appena venuta al mondo Cloe, i medici mi hanno detto che l’avrebbero monitorata per 24 ore. Non sapevamo come curarla perché era ignota la malattia”, racconta la mamma. Il nome di quella patologia arriva qualche tempo dopo. Si trattava di ittiosi e dopo qualche giorno conferma la diagnosi. “All’inizio si temeva potesse rimanere sorda”, dice la madre. Dalle analisi capiscono che ha una forma di ittiosi molto grave, ma non la peggiore. “Lei trova molto giovamento con continui bagni perché così la pelle si ammorbidisce”. Avendo una pelle così secca, Cloe suda poco. “Ho una temperatura sempre molto alta, d’estate devo bagnarmi in continuazione”, dice la bambina. Ma quando arriva l’inverno il problema è l’opposto. “Il freddo avanza e può andare in ipotermia”, spiega il papà. Cloe non può indossare vestiti in lana perché le causerebbero prurito che è il suo più grande nemico. “Lei non ha dormito i primi 3 anni di vita. Perché la pelle nuova che spingeva sotto quella vecchia le procurava prurito e arrivava a grattarsi a sangue”, dice la mamma. L’unica cosa che le può dare sollievo sono creme e unguenti perché non esistono cure per lei. “Visto che siamo pochi con questa malattia, nessuno inventa le medicine per noi”, racconta Cloe. L’indifferenza arriva anche dal ministero della Salute: “Abbiamo preso appuntamento, ma a livello istituzionale non abbiamo ricevuto risposte”. Così un gruppo di quattro genitori si è rimboccato le maniche fino ad arrivare al prof tedesco Troupe: “L’idea era quella di sviluppare una crema enzimatica e questo modello ha funzionato”. Tra banchetti, feste e gadget vari hanno raccolto 350mila euro. Ma per finanziare un prototipo che possa interessare le case farmaceutiche sono necessari 2 milioni di euro. E anche solo un euro è importantissimo per Cloe e i bambini come lei che avrebbero una pelle come la nostra.
India, la bimba che si "pietrifica" per colpa dell'ittiosi epidermolitica. In India, una bambina di sette anni si sta "pietrificando": soffre di ittiosi epidermolitica, una malattia incurabile. Pina Francone, Venerdì 07/02/2020 su Il Giornale. Una bambina di sette anni si sta "pietrificando" poco a poco. Per colpa di una rarissima malattia, l'ittiosi epidermolitica, una bimba indiana ha il corpo completamente ricoperto da vesciche che le rendono ormai doloroso qualsiasi movimento. Il nome della bimba, il cui corpicino è sostanzialmente squamato, è Rajeshwari: vive con la famiglia nel distretto di Dantewada, nello stato del Chhattisgarh, in India. La malattia che l'ha colpita è incurabile e la costringe dalla nascita a (con)vivere con ruvide vescicole che le deturpano la pelle. Come riportato in Italia da Il Messaggero, le squame le hanno interamente ricoperto gli arti inferiori e superiori, il torace e anche la schiena. Rajeshwari si sta "pietrificando" poco a poco e ormai le arreca dolore anche camminare o il semplice sedersi. Il quotidiano capitolino scrive che è stato un dermatologo dell’spedale Dantewada, il dottor Yash Upender, a diagnosticare alla bambina l'ittiosi epidermolitica. Una patologia che almeno per il momento non ha una cura e che per questa ragione obbliga chi ne soffre a doverci fare i conti per tutta la vita. "Non c'è stata alcuna grande svolta in termini di ricerca. Attualmente, la scienza non ha alcuna cura per questo disturbo", ha invece dichiarato il dottor Satyaki Ganguly dell All India Institute of Medical Science di Raipur. Chi è affetto da ittiosi epidermolitica soffre di gravi complicazioni: oltre alla sepsi (un'infezione sistemica, di fatto l'invasione di tessuti, fluidi o cavità corporee normalmente sterili da parte di microrganismi patogeni o potenzialmente patogeni) e alla perdita di liquidi, è alto il rischio di soffrire anche di insufficienza renale. Inoltre, i soggetti colpiti da tale patologia non hanno tolleranza verso i raggi del sole, anche per colpa delle difficoltà di avere una normale sudorazione. In aggiunta, anche problematiche dell’udito.
Che cosa è l'ittiosi epidermolitica. L'ittiosi epidermolitica è un'ittiosi cheratinopatica rara, caratterizzata dalla formazione di vescicole alla nascita, che evolvono progressivamente in un fenotipo ipercheratosico. La malattia è causata dalle mutazioni nei geni che codificano per le cheratine epidermiche soprabasali, che compromettono la formazione dei filamenti intermedi di cheratina nei cheratinociti soprabasali. La prevalenza di tutti i tipi di ittiosi cheratinopatica rara è stimata in 1/909.000 in Francia (dunque, un caso su 909mila nascite). La prevalenza esatta dell'ittiosi epidermolitica, invece, non è nota, spiega il portale delle malattie rare e dei farmaci orfani.
· La cura tradizionale alternativa.
Andrea Michelson per "it.businessinsider.com" il 23 agosto 2020. Angela Murray ha provato l’ayahuasca come l’ultima spiaggia. La donna della Florida ha lottato contro il disturbo da stress post-traumatico per anni dopo che suo marito ha ucciso sua figlia e si è tolto la vita nel 2008. Stava progettando di suicidarsi fino a quando non si è imbattuta nell’ayahuasca, una bevanda psichedelica a base di piante con presunte proprietà curative, attraverso un gruppo di supporto dei veterani. Un episodio della nuova docu-serie di Netflix “(Un) Well” segue Murray attraverso la sua seconda esperienza con l’ayahuasca durante un ritiro alla Soul Quest Ayahuasca Church di Orlando, Florida. Il programma tv si sposta anche in Perù, dove le tribù indigene hanno utilizzato la miscela allucinogena nelle pratiche di medicina spirituale per migliaia di anni. La medicina antica si è fatta strada nella cultura occidentale negli ultimi anni. Ritiri come Soul Quest stanno spuntando negli Stati Uniti e in Europa, e decine di turisti affollano i punti chiave dell’ayahuasca come Iquitos, in Perù, in cerca di illuminazione spirituale o benefici terapeutici. Mentre l’uso dell’ayahuasca si fa strada in tutto il mondo, gli utenti inesperti, in particolare i turisti, rischiano di estrapolarla dal contesto, ha detto a Insider l’antropologa culturale Evgenia Fotiou. “È un sistema di guarigione olistico che si rivolge a corpo, mente e spirito, e di solito l’ayahuasca è solo una parte di un sistema più ampio“, ha detto Fotiou. “Quindi non è una panacea. Non è una cosa che da sola aggiusterà tutto.” Storie di dosi letali e abusi sessuali hanno anche mostrato un lato oscuro del boom del turismo dell’ayahuasca. L’episodio descrive l’omicidio di un influente sciamano in Perù e il linciaggio pubblico del suo sospetto assassino, che ha messo a nudo le crepe nella complicata dinamica tra gli stranieri alla ricerca dell’ayahuasca e la gente del posto che la fornisce. L’ayahuasca contiene la sostanza chimica DMT (dimetiltriptamina), che provoca vivide allucinazioni e un alterato senso di sé. Consumare la vite dell’ayahuasca da sola non farà molto, ma quando viene bollita insieme alle foglie della pianta di chacruna, la miscela risultante ha effetti psicoattivi. Le foglie contengono una sostanza chimica chiamata DMT (dimetiltriptamina), che è strutturalmente simile al neurotrasmettitore serotonina che produce la felicità. Normalmente, i tuoi enzimi intestinali distruggerebbero la DMT prima che tu possa sentire i suoi effetti, ma la vite di ayahuasca impedisce che ciò accada (e provoca il caos nel tuo sistema digestivo nel processo). La maggior parte delle persone riferisce di “spurgo” o vomito subito dopo aver consumato l’ayahuasca. Dopo che la nausea si è placata, si manifestano allucinazioni vivide simili a sogni lucidi. I modelli di onde cerebrali associati alle allucinazioni dell’ayahuasca assomigliano a quelli osservati quando le persone aprono gli occhi, ha detto Christopher Timmermann, ricercatore presso il Center for Psychedelic Research dell’Imperial College di Londra. “Solo che in questo caso le persone non sono coinvolte, non aprono gli occhi“, ha detto Timmermann a Insider. “Quindi la componente visiva dell’esperienza coinvolge le persone in modo simile alla “waking reality”, la realtà che sperimentiamo quando siamo coscienti e consapevoli. Quando abbiamo portato la nostra mente nella piena consapevolezza. Inoltre, è stato scoperto che l’ayahuasca riduce l’attività nella rete di strutture neurologiche di default (default mode network), un insieme di regioni del cervello associate al senso di sé, che possono essere correlate ai sentimenti di trasformazione dell’identità segnalati dai consumatori di ayahuasca. Le persone affermano che l’ayahuasca li ha aiutati a superare traumi e malattie non curabili, ma le prove scientifiche sono limitate. In “(Un) Well”, Murray ha detto di aver provato un travolgente senso di amore durante la sua seconda cerimonia di ayahuasca. Ha riferito di aver sentito una voce che diceva “hai perso abbastanza”, il che ha portato a una svolta nell’elaborazione del suo trauma. Mentre alcune persone provano l’ayahuasca in modo ricreativo, molti, come Murray, la vedono come una possibilità per trattare l’incurabile. Altri utenti presenti nella serie tv hanno provato l’ayahuasca per il disturbo da stress post traumatico, depressione resistente al trattamento, dipendenza e malattie fisiche croniche. Le prove scientifiche sul fatto che l’ayahuasca possa aiutare a trattare queste malattie sono limitate. Un piccolo studio con placebo controllato ha concluso che l’ayahuasca, dosata all’interno di un contesto appropriato, si mostra promettente come trattamento per la depressione. Ma avvicinarsi all’ayahuasca come una forma di terapia occidentalizzata può essere in contrasto con le radici della pratica, ha detto Fotiou. “Penso che la cosa più difficile da tradurre per gli occidentali sia l’aspetto spirituale“, ha detto Fotiou a Insider. “Quello che vedo di più con gli occidentali impegnati in questa pratica è un approccio psicologico, quindi pensano che questa sia una modalità terapeutica”. Nella ricerca e nell’esperienza di Fotiou con l’ayahuasca, ha scoperto che i benefici dell’ayahuasca non possono essere ridotti alla sostanza stessa. Ha esortato gli utenti a prendere in considerazione i rituali che circondano l’infusione, così come il più ampio sistema di medicina a base vegetale in cui coesiste, per una visione più olistica della guarigione.
· Ti cura Internet.
Patrizia De Rubertis per il “Fatto quotidiano” il 25 dicembre 2019. Almeno un italiano su tre cerca sulla rete informazioni sulla salute. E di questi, oltre il 90% effettua ricerche su specifiche patologie. Ma sempre più spesso i contenuti che consultano sono contaminati da bufale. Tanto che, secondo un rapporto Agi-Censis, durante il 2019 quasi 9 milioni di italiani hanno ritenuto di essere stati vittima di fake news in materia sanitaria come la dermatologia e, di conseguenza, la cosmetologia e il make-up. Sono, infatti, tra i campi più sfruttati per dire e fare falsa informazione, vendere intrugli e convincere che quello che viene proposto come miracoloso al limite è un prodotto che contiene solo ingredienti di comprovata efficacia. Con il rischio di far passare il fattore prezzo come unica garanzia certificata, anche se nella maggio parte dei casi si tratta solo di marketing. Il prestigio di una marca e la fama dei suoi testimonial vanno di pari passo al costo dei prodotti. E, intanto, gli esempi di una "cattiva informazione" abbondano. Persistono gli allarmi sui cosmetici sperimentati su conigli e topi anche se dal 2013 è vietata in Europa la vendita di prodotti testati sugli animali. Trionfano, poi, la bava di lumaca che rigenera la pelle: risultato, però, impossibile da verificare. Ma i vasetti che la contengono sono venduti a peso d' oro. Poi ci sono le sponsorizzatissime creme al botox. Peccato, però, che la tossina botulinica sia vietata in forma di cosmetico. Non esistono, dunque, vere creme al botulino, ma prodotti che millantano la presenza della tossina solo a scopi pubblicitari. Del resto si contano fino a 31 ingredienti in un balsamo per capelli, 45 sostanze in una crema da giorno, 28 tipologie in un bagnoschiuma, 40 composti chimici in una lacca per capelli. Ingredienti che, messi insieme, vanno sempre d' accordo con la nostra pelle? Come ci si può orientare nella scelta dei prodotti che ci mettiamo sulla cute (non provate a chiamarla pelle, i dermatologi sono assai suscettibili sull' argomento)?
"Il sicuro per legge non esiste. Dobbiamo affidarci al principio di precauzione, così come accade per l'alimentazione e le etichette. Molte sostanze, considerate sicure, poi sono state vietate. Questo a conferma che mancano i dati di sicurezza sulla lunga distanza di utilizzo", spiega la dermatologa Pucci Romano, presidente dell' associazione scientifica di ecodermatologia Skineco. "Per essere efficace - spiega la specialista - un cosmetico deve rispondere alle normative che già lo regolamentano, rispettare la pelle (dermo-compatibilità) e l' ecologia. Anche perché non esiste ancora una legge che preveda di "misurare" cosa e quanto finisce nell' ambiente, in fiumi e mari. In questo settore dovrebbe valere il principio di precauzione, secondo cui non vanno usate quelle sostanze che non si conoscono. Basta pensare che solo tra i perturbatori endocrini, agenti sulle funzionalità ormonali, esistono 197 sostanze non indagate che però vengono ugualmente utilizzate nei cosmetici". Insomma, è tanto facile spalmarsi un prodotto sul corpo quanto rischiare grosso. Ecco delle accortezze elaborate dalla dottoressa Romano per capirci qualcosa di più, ricordando che "la crema dovrebbe mettere la pelle nella condizione di fare il suo lavoro: non sostituirla, ma solo di accudirla".
Inci. è la lista degli ingredienti contenuti nel prodotto, elencati in ordine di percentuale dalla più elevata alla più limitata. Bisogna controllare che tra i primi componenti non figurino sostanze come siliconi e petrolati che, tra le altre cose, se usati in modo continuativo provocano un' azione disidratante che può portare a una reazione paradossa come la comparsa di pori dilatati e pelle grassa. Alcuni di essi sono stati catalogati come cancerogeni. Occhi aperti sugli emulsionanti che corrispondono ai suffissi Peg (6, 20, 75), Eth e Oxynol, come ad esempio il Polyethyleneglycole. Altre sostanze come l' ethylene glycol sono dannose per salute e ambiente. Inoltre, in attesa che si faccia chiarezza, dobbiamo prestare attenzione anche alle eventuali percentuali presenti di parabeni, benzofenone, cinnamati. Creme antismog. Sono tra gli ultimi ritrovati presenti su scaffali di farmacie e supermercati, ma sono veramente pochissime le industrie che hanno eseguito delle indagini per certificare il reale valore del particolato atmosferico sulla nostra pelle.
Filtri solari. Se nei resort del Pacifico, come le Hawaii, sono state messe al bando le creme solari, considerati disturbatori endocrini visto che inquinano dal punto di vista ormonale, alterano i coralli e li rendono ermafroditi, sarebbe meglio anche se l' uomo ne limitasse l' uso. Le creme solari trapassano la pelle, arrivando nel sangue, come un lavoro scientifico recente ha dimostrato. Vanno usate solo lo stretto necessario, l' invecchiamento della pelle è legato al modo sbagliato di esporsi al sole.
Filippo Piva per gqitalia.it il 22 gennaio 2020. Alzi la mano chi non ha mai tentato di auto-diagnosticarsi malattie & co attraverso qualche ricerca più o meno mirata su internet. Per noi italiani, d'altra parte, la salute è una tematica assolutamente centrale, e sì, anche se sappiamo bene che il consulto con il medico è sempre necessario siamo ormai abituati a metterci alla ricerca di informazioni preliminari andando a scandagliare la fitta giungla del www. Lo sa molto bene anche MioDottore, piattaforma online parte del gruppo DocPlanner specializzata nella prenotazione di visite mediche, che a questo proposito stila ogni anno la classifica – se così si può definire – delle malattie più cercate sul proprio portale. E così la graduatoria 2019, resa nota proprio in queste ore, sembra in qualche modo ribadire una verità di fondo: le donne sono più propense a consultare il web alla ricerca di diagnosi e informazioni varie rispetto agli uomini. La parola menopausa, infatti, si è confermata anche lo scorso anno il termine medico più digitato in assoluto, conservando un primato che detiene sin dal 2017. Mentre al secondo posto troviamo l'endometriosi, patologia ginecologica che figurava tra le più ricercate anche nelle scorse edizioni dello studio. Il gradino più basso del podio viene invece occupato dall'alluce valgo, seguito da osteoporosi, ernia inguinale e fibromialgia. Allargando lo sguardo sulla lista delle ricerche, dunque, è possibile notare come la più ampia percentuale di esse sia in qualche modo legata a disturbi della sfera intima-sessuale, tra cui anche la disfunzione erettile, che campeggia al gradino numero 22. Segue la sfera ortopedica, con il sempreverde mal di schiena che si piazza in sedicesima posizione. «I dati di MioDottore evidenziano quanto i pazienti siano sempre più attenti al proprio benessere e facciano affidamento alla tecnologia per informarsi, anche in fatto di salute. Per questo la piattaforma si impegna sempre maggiormente a garantire facile accesso a specialisti e informazioni affidabili, lavorando a stretto contatto con i professionisti del settore e al servizio dei pazienti -, dichiara Luca Puccioni, Ceo di MioDottore. - La funzionalità Chiedi al dottore presente sia sulla piattaforma che sulla app di MioDottore è quindi uno strumento fondamentale, uno spazio anonimo e sicuro dove poter esternare dubbi e preoccupazioni con gli esperti di riferimento e ottenere in maniera gratuita e veloce, entro massimo 48 ore, risposte su perplessità circa il proprio stato di salute».
Ecco allora la classifica completa, sconsigliata – ovviamente - a ipocondriaci e malati immaginari.
1. Menopausa
2. Endometriosi
3. Alluce valgo
4. Osteoporosi
5. Ernia inguinale
6. Fibromialgia
7. Scoliosi
8. Ernia del disco
9. Acufene
10. Lipoma
11. Sindrome dell'ovaio policistico
12. Artrosi
13. Acne
14. Sindrome del tunnel carpale
15. Alopecia
16. Mal di schiena
17. Emorroidi
18. Verruche
19. Glaucoma
20. Malattia di Alzheimer
21. Disturbo bipolare
22. Disfunzione erettile
23. Depressione
24. Cistite
25. Degenerazione maculare
26. Obesità
27. Cefalea
28. Setto nasale deviato
29. Cisti sebacea
30. Epilessia
· Preservare la vista.
Valentina Arcovio per “il Messaggero” il 15 aprile 2020. Dalle abbuffate di cartoni animati e videogiochi alle ore trascorse davanti al pc per lo smart-schooling, fino alle interminabili videoconferenze di lavoro o alle lunghe giornate passate attaccati a un schermo in modalità smart-working. Mai come in questo periodo i nostri occhi, da quelli dei più piccoli a quelli degli adulti, sono messi a dura prova. Con conseguenze più o meno gravi sulla vista. «L'esposizione prolungata a schermi digitali può creare diversi problemi alla salute della nostra vista, più o meno gravi», conferma Stefano Barabino, responsabile del Centro Superficie Oculare e Occhio Secco dell'Ospedale Sacco di Milano e docente all'Università degli Studi di Milano. «Tra i più frequenti disturbi che possono insorgere ci sono quelli conseguenti a uno sforzo eccessivo per la messa a fuoco delle immagini. Stare davanti al pc per troppo tempo aumenta lo sforzo muscolare necessario per vedere bene immagini così da vicino. Questo alla lunga può causare mal di testa, vista annebbiata, difficoltà a concentrarsi». Lunghe ore davanti a uno schermo può anche acuire problemi già preesistenti. «In presenza di disturbi visivi, questi possono essere esaltati l'astigmatismo o la presbiopia - ricorda l'esperto - L'esposizione prolungata agli schermi determina una più rapida evaporazione del film lacrimale, quel sottile strato di liquido che riveste la superficie oculare. Il motivo risiede nello scarso o incompleto ammiccamento: gli occhi vengono strizzati meno di frequente e questo rallenta la diffusione del film lacrimale sulla superficie dell'occhio con conseguenze che vanno dall'affaticamento al bruciore, dall'irritazione al dolore. Se lo stimolo persiste a lungo questo provoca una infiammazione che può diventare cronica». Dinanzi a questi rischi è possibile adottare una serie di utili accorgimenti che possono consentirci di continuare a svolgere attività a distanza, ma con meno rischi per la salute degli occhi. «Il primo consiglio è quello di posizionare lo schermo alla giusta distanza, in modo da mettere a fuoco le immagini con il minor sforzo possibile», dice Barabino. Allo stesso tempo è opportuno mettere lo schermo in una posizione leggermente più bassa rispetto al nostro sguardo in modo da guardarlo più facilmente senza dover aprire troppo gli occhi. Contro la secchezza gli esperti internazionali della Società scientifica americana Tfos (Tear Film & Ocular Surface Society) raccomandano di seguire la regola 20/20/20. «Ogni 20 minuti di visione da vicino - spiega Barabino - fissa un punto lontano 20 piedi (6.096 metri) per almeno 20 secondi. E ogni 20 minuti chiudi le palpebre e poi strizzale leggermente per 2 secondi svolgendo un ammiccamento. Questa semplice azione ripristina il film lacrimale, riattiva la vista a distanza e riposa gli occhi». Secondo l'esperto, è inoltre importante prendersi del tempo per guardare fuori da una finestra o per chiudere semplicemente gli occhi e dar loro un po' di riposo. Infine, contro la secchezza oculare è buona norma utilizzare sostituti lacrimali, le cosiddette lacrime artificiali.
Daniele Banfi per “la Stampa” il 14 aprile 2020. Complice la quarantena forzata a causa del coronavirus, il tempo medio passato davanti allo schermo di televisioni, computer, tablet e smartphone ha subito un' impennata. Gli occhi dei più piccoli che passano più tempo a guardare cartoni animati, degli studenti che affrontano le lezioni in modalità online e dell' esercito di persone che lavora da casa alle ore più improbabili sono messi a dura prova. Ecco perché, in attesa di un graduale ritorno alla normalità, è di fondamentale importanza preservare la vista attraverso tanti piccoli ma importanti accorgimenti quotidiani.
Rilassare i muscoli. «Quando si lavora davanti allo schermo di un computer oppure si legge dallo smarphone - spiega Lucio Buratto, oculista e direttore scientifico del Centro Ambrosiano Oftalmico (Camo)- la muscolatura dell' occhio è continuamente sollecitata per mettere a fuoco l' immagine nello schermo. Si tratta di un meccanismo autonomo, che noi addetti ai lavori chiamiamo "accomodazione", in cui la contrazione della muscolatura causa l' aumento della curvatura della superficie anteriore del cristallino e permette di creare sulla retina immagini a fuoco di oggetti posti a distanza ravvicinata». Un vero e proprio «lavoro», che, se protratto nel tempo, porta ad un affaticamento oculare che si può manifestare come bruciore oculare, stanchezza, senso di peso, dolore e mal di testa. «Per evitare questa situazione è importante concedersi delle pause che possono variare a seconda della sensibilità di ciascuno. Per rilassare al meglio la muscolatura dell' occhio un esercizio utile, ad esempio, è quello di mettersi alla finestra, osservando oggetti in lontananza per qualche minuto». Sì a lubrificare Un altro problema tipico di chi è costretto a passare molto tempo allo schermo è la scarsa lubrificazione della superficie oculare. A differenza di chi legge un libro, infatti, l' effetto dello schermo è quello di ridurre notevolmente la produzione del liquido lacrimale. « In questi frangenti -spiega Buratto - ciò si verifica perché riduciamo notevolmente l' ammiccamento, ovvero la chiusura e la riapertura involontaria delle palpebre. Tale fenomeno è molto importante per la vista perché permette di tenere la superficie oculare liscia e lubrificata, condizione necessaria per una corretta visione». Ammiccare frequentemente, dunque, rappresenta una strategia utile per evitare l' affaticamento oculare. Ma per mantenere una corretta idratazione dell' occhio può essere utile anche ricorrere alle lacrime artificiali: «Il mio consiglio - spiega Buratto - è di tenere accanto al computer un flaconcino di collirio in modo tale da detergere l' occhio al bisogno. Non solo: per evitare la secchezza consiglio di soggiornare in stanze che siano ben umidificate. I caloriferi, in questo, non aiutano. Ecco perché avere un umidificatore in casa può essere un' ottima soluzione».
Luci e distanza. Un capitolo a parte è dedicato alle condizioni ambientali relative alla luce. L' illuminazione infatti gioca un ruolo cruciale nella messa a fuoco dello schermo. Una quantità eccessiva così come una scarsa illuminazione portano l' occhio ad affaticarsi. «La luce ambientale deve essere omogenea con la luce dello schermo del computer. Guai dunque a lavorare al buio. Occorre regolare bene luminosità e intensità dello schermo per avere una percezione di visibilità massima senza avere però la percezione di un disturbo visivo da abbagliamento», dice lo specialista. Non solo. Un' altra condizione importante per una buona visione è la postura: tra occhi e schermo devono esserci almeno 60 centimetri. Pause per tutti. Tutte queste regole valgono anche per i più piccoli. «Ciò a cui dobbiamo prestare attenzione è il tempo. Per i bambini meglio frammentare ulteriormente il tempo davanti ad uno schermo. Il mio consiglio è di consentire loro di guardare gli schermi per 30 minuti e poi passare ad un' altra attività in attesa dei successivi 30 minuti. Questo è utile sia per la salute dell' occhio sia per il loro livello di attenzione e divertimento».
· Ipoacusia: deficit uditivo.
Ipoacusia, i sintomi che fanno preoccupare. Si ritiene che i principali fattori che contribuiscono alla perdita dell'udito nel corso del tempo siano l'eredità e l'esposizione prolungata a rumori intensi. Maria Girardi, Sabato 03/10/2020 su Il Giornale. Con il termine ipoacusia si indica l'incapacità, parziale o totale, di percepire un suono in una o in entrambe le orecchie. Alcuni soggetti nascono con un deficit uditivo (ipoacusia congenita), altri, invece, possono svilupparlo in maniera graduale con l'avanzare dell'età (presbiacusia) o come conseguenza di traumi fisici e/o patologie. Si crede che i principali fattori che contribuiscono alla perdita dell'udito nel corso del tempo siano l'eredità e l'esposizione prolungata a rumori intensi. Da non sottovalutare, altresì, la presenza di un tappo di cerume o di corpi estranei nel condotto uditivo. Il suono è caratterizzato da onde sonore che si propagano attraverso l'aria o l'acqua. L'orecchio, anatomicamente distinto in esterno, medio e interno, trasforma tali onde in impulsi nervosi uditivi che a loro volta vengono trasmessi al cervello. Esistono tre tipi di ipoacusia: trasmissiva, neurosensoriale e mista. La prima si verifica quando, spesso a causa di un'ostruzione determinata da un tappo di cerume o da un accumulo di liquido esito di un'infezione, il suono non è condotto in modo efficiente dall'orecchio esterno a quello interno. Ciò comporta una riduzione del livello sonoro. La seconda, invece, si osserva quando le cellule ciliate nell'orecchio interno o le vie nervose subiscono un danneggiamento e si manifesta con una minore sensibilità verso i suoni deboli. Infine la terza è un misto fra le tipologie sopra descritte. Possono dunque coesistere danni nell'orecchio medio o interno o a livello del nervo uditivo. Il livello di ipoacusia (lieve, moderato, grave, profondo) è determinato dall'esecuzione di un test dell'udito misurato in decibel. Se lieve, la perdita dell'udito può rendere difficile seguire un discorso soprattutto in situazioni rumorose. Se moderata, il paziente può avere problemi a seguire una conversazione senza utilizzare un apparecchio acustico. Gli individui gravemente sordi necessitano di forme di comunicazione alternative, ad esempio leggono il labiale o si affidano al linguaggio dei segni. I soggetti con un livello di sordità profondo, quindi completamente incapaci di sentire alcun suono, possono trarre beneficio da un impianto cocleare. Oltre a un'ostruzione che blocca il condotto uditivo, varie sono le cause dell'ipoacusia trasmissiva: presenza di fluido nell'orecchio medio, otite media o esterna, accumulo di cerume, tumori benigni, allergie. Ancora rottura del timpano, assenza o malformazione del padiglione auricolare, del condotto uditivo o dell'orecchio medio, otosclerosi. L'ipoacusia neurosensoriale, invece, è l'esito di: trauma acustico e/o cranico, otite cronica, presbiacusia, sindrome di Ménière, ictus, sclerosi multipla, neurinoma acustico, malattie infettive dell'orecchio interno o del nervo uditivo. Da non sottovalutare l'uso di farmaci ototossici (antibiotici, antimalarici, diuretici, chemioterapici). I sintomi dell'ipoacusia variano a seconda della causa. Segni clinici tipici includono: difficoltà a capire le parole e a seguire le conversazioni specialmente quando c'è un rumore di fondo, necessità di alzare il volume della tv o della radio e di chiedere agli altri di parlare in maniera lenta e chiara. Certi suoni, infatti, sembrano ovattati. Il paziente può, altresì, manifestare: tinnito, pressione nell'orecchio, vertigini o sensazione di equilibrio precario. Nel bambino si può ipotizzare il disturbo qualora esso non è spaventato da rumori forti, non si gira in maniera spontanea verso una sorgente sonora entro i quattro mesi di vita, tarda a pronunciare le prime parole o queste non sono comprensibili.
· Le Puzzette.
Da focus.it il 18 gennaio 2020. Trattenere una puzzetta più o meno rumorosa e maleodorante, di quelle che capitano, spesso con poco preavviso, è ovviamente un'abitudine di buona educazione. Eppure non tutti sanno che farlo frequentemente può anche comportare dei rischi per la salute. La flatulenza, infatti, è una miscela di gas che si forma a livello gastrointestinale per l'aria ingerita e per i gas generati dalla fermentazione dei cibi da parte di batteri simbiotici e lieviti nel tratto gastrointestinale. Viene quindi espulsa sotto pressione, insieme a particelle di feci aerosolizzate.
COSÌ L'INTESTINO FUNZIONA. Nonostante siano generalmente associate al loro rumore particolare e al cattivo odore, le puzze rappresentano un segnale del corretto funzionamento dell'intestino, poiché permettono alla pancia di sgonfiarsi, specialmente dopo un pasto pesante.
SPASMI NELL'ADDOME. In queste situazioni, infatti, l'organismo blocca i liquidi in eccesso, come l'acqua, causando una produzione eccedente di gas da parte dell'intestino; questi andrebbero subito espulsi per sgonfiare e rilassare lo stomaco. Bloccare spesso le flatulenze lasciando accumulare i gas può quindi alterare il funzionamento dell'intestino, provocando anche dolorosi spasmi nell'addome a causa delle sacche d'aria nel tratto intestinale. Inoltre, per chi espelle tanto gas per problemi di salute, trattenere le puzze rischierebbe di causare una distensione patologica dell'intestino o anche forme di stipsi.
Questo articolo di Roberto Mammi è tratto da Focus D&R 61
· La puzza e le Ascelle.
Cristina Marrone per "corriere.it" il 2 settembre 2020. In questa calda estate facciamo di tutto per combattere il sudore ed eliminare quel l’anestetico e puzzolente alone sotto le ascelle. Un tempo forse questi odori servivano per comunicare con i propri simili ma oggi vorremmo essere sempre freschi e profumati. Ma da dove nasce questa puzza? I ricercatori dell’Università di York hanno scoperto chi è il vero responsabile dell’odore corporeo: si tratta di un enzima chiamato Bo (Bo, acronimo di body odour), un particolare batterio che vive sotto le nostre ascelle capace di trasformare una molecola indore in un composto dall’odore sgradevole. La ricerca è appena stata pubblicata su Scientific Report.
I batteri sotto le ascelle. Gli stessi ricercatori già in passato avevano individuato nel microbioma delle ascelle un gruppo di batteri coinvolti nella produzione dei tioalcoli – composti organici contenenti zolfo che danno quell’intenso odore sgradevole al sudore ascellare ospitando una variegata comunità di batteri che fa parte del microbioma naturale della pelle. Ma il nuovo studio ha compiuto un ulteriore passo in avanti: dalle analisi è emerso che lo Staphylococcus hominis è uno dei principali microbi responsabili dell’odore del corpo. E’ in grado di sopravvivere all’ambiente delle ascelle dove, hanno ora scoperto i ricercatori, grazie all’enzima Bo consuma un composto inodore (Cys-Gly-3M3SH) rilasciato dalle ghiandole sudoripare trasformandolo in un sottoprodotto tioacolico, il vero responsabile dell’odore pungente del sudore.
Le ricerche future. «Trovare questo enzima Bo ci ha permesso di ricostruire il meccanismo all’interno di alcuni batteri che produce le molecole dell’odore», spiega Michelle Rudden, prima autrice dello studio. «Questo è un progresso chiave per comprendere come funziona l’odore corporeo e consentirà lo sviluppo di inibitori mirati che blocchino all’origine la produzione dell’enzima Bo, lasciando intatto il microbioma delle ascelle».
· La stipsi: La stitichezza.
Elena Meli per il “Corriere della Sera - Salute” il 13 febbraio 2020. C' è da sperare che a nessuno venga in mente di provare a risolvere la stitichezza come un operaio cinese che è stato operato d' urgenza all' ospedale provinciale di Jiangsu: aveva messo in pratica un rimedio tradizionale, ingoiando due piccole anguille vive, sperando così di liberarsi. Una mossa disperata che, al netto delle usanze di un' altra cultura, rende l' idea di quanto possa essere insopportabile una costipazione che non si risolve: anche per questo periodicamente i gastroenterologi aggiornano le indicazioni sui possibili rimedi per un problema che riguarda come minimo il 15% della popolazione. Una dato verosimilmente sottostimato perché quasi tutti provano con i fai da te più disparati prima di parlarne al medico. La stipsi si vive spesso con imbarazzo, eppure dovremmo imparare a discuterne senza vergogna. E non è un evento così banale, come spiega Domenico Alvaro, presidente della Società Italiana di Gastroenterologia: «Alla corretta evacuazione concorrono decine di variabili che vanno da fattori psicologici a errori connessi all' alimentazione, a problemi nella motilità dell' intestino, a conseguenze di altre patologie. Il medico perciò è necessario per inquadrare la natura della stipsi e le sue cause». Non c' è da preoccuparsi troppo di una stipsi transitoria, per esempio se si è in viaggio e si cambiano le abitudini o dopo un intervento chirurgico; deve però essere esaminata una stitichezza cronica, ovvero con meno di 3 evacuazioni alla settimana per almeno 6 mesi ma anche se in almeno un' evacuazione su 4 si avvertono fastidi come feci dure e caprine, sforzo eccessivo, sensazione di svuotarsi in modo incompleto o impressione di ostruzione e pesantezza all' addome solo in parte risolta dalla defecazione. «Il primo passo è valutare che la costipazione non sia secondaria ad altre malattie: il diabete, le demenze o patologie neurologiche come Parkinson e Alzheimer provocano spesso stipsi», dice Alvaro. «Anche l' ipotiroidismo, l' ipercalcemia o alcuni farmaci, come beta-bloccanti o calcio-antagonisti (i primi usati spesso per aritmie o insufficienza cardiaca, i secondi come anti-ipertensivi, ndr ), possono dare stitichezza. Intervenire dove possibile sulle cause del problema è quindi fondamentale. In altri casi la stipsi è funzionale , cioè non dipende da altri problemi ma da errori nello stile di vita, anomalie nei movimenti intestinali, fattori psicologici; talvolta questo tipo di stitichezza si sovrappone al colon irritabile, in cui si associa al dolore addominale. Sia nella stipsi funzionale sia nel colon irritabile a impronta stitica si possono avere nausea, meteorismo, mancanza di appetito». Dopo l' esame clinico, il medico in casi particolari può prescrivere accertamenti per capire la natura della costipazione: oltre alla colonscopia può essere necessaria la manometria anorettale, con cui si misura la pressione nel canale anale a riposo o durante la spinta e poi, attraverso un palloncino gonfiato all' interno del retto, si stima la soglia di percezione della necessità di evacuare, per capire se ci siano alterazioni della sensibilità nervosa locale. Altri test sono lo studio dei tempi di transito intestinale, che consiste nel «seguire» il passaggio nel tratto digerente di marcatori opachi ai raggi X per misurare la velocità con cui il materiale intestinale viene sospinto avanti, e la defecografia , che attraverso l' opacizzazione con il bario delle ultime porzioni del colon ne studia le condizioni per capire se ci sia una buona «tenuta» e una spinta sufficiente. «Una volta stabilito che la stitichezza è funzionale il primo intervento è sullo stile di vita», prosegue Alvaro. «In alcuni la colpa è del colon "pigro", che si svuota male e lentamente, oppure di una scarsa capacità di sforzo perché i muscoli rettali o della parete addominale sono poco tonici; nella maggioranza dei casi però la stipsi dipende da uno stile di vita scorretto. Uno degli errori più comuni è bere poco: serve almeno un litro e mezzo d' acqua in inverno, uno in più in estate perché le feci possano essere morbide e facili da espellere. Altrettanto importante mangiare fibre a sufficienza per "fare massa", grazie a un buon consumo di frutta e verdura, legumi e cereali integrali. I cibi industriali e molto raffinati (ricchi di grassi che rallentano il transito peggiorando le cose, ndr ) lasciano una minor quantità di residuo intestinale, per cui al colon serve più forza per contrarsi e sospingere feci che sono in minor quantità: a lungo andare può comparire stitichezza anche per questo». Fibre e acqua peraltro devono andare a braccetto: se ci si riempie di fibre senza bere a sufficienza si può perfino favorire la stitichezza perché il volume facilita la peristalsi, ma se le feci non sono morbide e idratate il transito resta difficile. Non a caso si stima che il solo incremento delle fibre sia davvero risolutivo in appena 1 paziente su 5: se l' intestino lavora a rilento una massa che non passa bene può ingolfarlo di più, fermentando, irritando il colon e aumentando il senso di gonfiore e pesantezza. È altrettanto indispensabile poi fare regolarmente movimento, perché stimola il transito intestinale: se il colon è pigro i residui alimentari ristagnano, l' acqua viene riassorbita più del dovuto e le feci si induriscono, diventando più difficili da espellere. Serve anche darsi tempo per andare in bagno e cercare di trovarsi sempre nelle condizioni ottimali per farlo, senza prenderci però una fissazione come puntualizza Alvaro: «L' elemento psicologico conta molto e tanti, se non sono a casa propria, non riescono a evacuare. Ciò può diventare un problema se si passa molto tempo fuori e l' ufficio non è "confortevole" o se si viaggia molto, alimentando un circolo vizioso che può favorire la costipazione perché se tutto non è come vorremmo non ci si prova neanche». Secondo l' esperto molti stitici, se si rivolgessero presto al medico, potrebbero risolvere il problema facilmente cambiando le abitudini, senza correre i rischi da fai da te coi lassativi. Certo la stipsi va risolta, perché ,come conclude Alvaro «Peggiora molto la qualità di vita: oltre a sentirsi gonfi e a dover combattere col meteorismo, si è spesso sonnolenti e fiacchi. Succede anche perché il malessere intestinale interferisce con la normale trasmissione nervosa, a livello locale ma anche nel sistema nervoso centrale». Perfino l' umore può risentirne perché nell' intestino viene prodotta la maggior parte della serotonina, molecola che regola i movimenti peristaltici che sospingono avanti le feci ma che nel cervello si comporta da «neurotrasmettitore della felicità»: assicurarsi che tutto «scorra» bene, laggiù, è anche un antidoto alla tristezza.
Elena Meli per "corriere.it" il 21 febbraio 2020. Riguarda molti. È un problema che riguarda come minimo il 15% della popolazione. Una dato verosimilmente sottostimato perché quasi tutti provano con i fai da te più disparati prima di parlarne al medico. La stipsi si vive spesso con imbarazzo, eppure dovremmo imparare a discuterne senza vergogna. E non è un evento così banale, come spiega Domenico Alvaro, presidente della Società Italiana di Gastroenterologia: «Alla corretta evacuazione concorrono decine di variabili che vanno da fattori psicologici a errori connessi all’alimentazione, a problemi nella motilità dell’intestino, a conseguenze di altre patologie. Il medico perciò è necessario per inquadrare la natura della stipsi e le sue cause».
Diagnosi e cause. Non c’è da preoccuparsi troppo di una stipsi transitoria, per esempio se si è in viaggio e si cambiano le abitudini o dopo un intervento chirurgico; deve però essere esaminata una stitichezza cronica, ovvero con meno di 3 evacuazioni alla settimana per almeno 6 mesi ma anche se in almeno un’evacuazione su 4 si avvertono fastidi come feci dure e caprine, sforzo eccessivo, sensazione di svuotarsi in modo incompleto o impressione di ostruzione e pesantezza all’addome solo in parte risolta dalla defecazione. «Il primo passo è valutare che la costipazione non sia secondaria ad altre malattie: il diabete, le demenze o patologie neurologiche come Parkinson e Alzheimer provocano spesso stipsi», dice Alvaro. «Anche l’ipotiroidismo, l’ipercalcemia o alcuni farmaci, come beta-bloccanti o calcio-antagonisti (i primi usati spesso per aritmie o insufficienza cardiaca, i secondi come anti-ipertensivi, ndr), possono dare stitichezza».
Gli esami da fare. «Intervenire dove possibile sulle cause del problema è fondamentale. In altri casi la stipsi è funzionale, cioè non dipende da altri problemi ma da errori nello stile di vita, anomalie nei movimenti intestinali, fattori psicologici; talvolta questo tipo di stitichezza si sovrappone al colon irritabile, in cui si associa al dolore addominale. Sia nella stipsi funzionale sia nel colon irritabile a impronta stitica si possono avere nausea, meteorismo, mancanza di appetito». Dopo l’esame clinico, il medico in casi particolari può prescrivere accertamenti per capire la natura della costipazione: oltre alla colonscopia può essere necessaria la manometria anorettale, con cui si misura la pressione nel canale anale a riposo o durante la spinta e poi, attraverso un palloncino gonfiato all’interno del retto, si stima la soglia di percezione della necessità di evacuare, per capire se ci siano alterazioni della sensibilità nervosa locale. Altri test sono lo studio dei tempi di transito intestinale, che consiste nel «seguire» il passaggio nel tratto digerente di marcatori opachi ai raggi X per misurare la velocità con cui il materiale intestinale viene sospinto avanti, e la defecografia, che attraverso l’opacizzazione con il bario delle ultime porzioni del colon ne studia le condizioni per capire se ci sia una buona «tenuta» e una spinta sufficiente.
Provvedimenti. «Una volta stabilito che la stitichezza è funzionale il primo intervento è sullo stile di vita», prosegue Alvaro. «In alcuni la colpa è del colon “pigro”, che si svuota male e lentamente, oppure di una scarsa capacità di sforzo perché i muscoli rettali o della parete addominale sono poco tonici; nella maggioranza dei casi però la stipsi dipende da uno stile di vita scorretto. Uno degli errori più comuni è bere poco: serve almeno un litro e mezzo d’acqua in inverno, uno in più in estate perché le feci possano essere morbide e facili da espellere. Altrettanto importante mangiare fibre a sufficienza per “fare massa”, grazie a un buon consumo di frutta e verdura, legumi e cereali integrali. I cibi industriali e molto raffinati (ricchi di grassi che rallentano il transito peggiorando le cose, ndr) lasciano una minor quantità di residuo intestinale, per cui al colon serve più forza per contrarsi e sospingere feci che sono in minor quantità: a lungo andare può comparire stitichezza anche per questo». Fibre e acqua peraltro devono andare a braccetto: se ci si riempie di fibre senza bere a sufficienza si può perfino favorire la stitichezza perché il volume facilita la peristalsi, ma se le feci non sono morbide e idratate il transito resta difficile. Non a caso si stima che il solo incremento delle fibre sia davvero risolutivo in appena 1 paziente su 5: se l’intestino lavora a rilento una massa che non passa bene può ingolfarlo di più, fermentando, irritando il colon e aumentando il senso di gonfiore e pesantezza. È altrettanto indispensabile poi fare regolarmente movimento, perché stimola il transito intestinale: se il colon è pigro i residui alimentari ristagnano, l’acqua viene riassorbita più del dovuto e le feci si induriscono, diventando più difficili da espellere.
Tempestività. Serve anche darsi tempo per andare in bagno e cercare di trovarsi sempre nelle condizioni ottimali per farlo, senza prenderci però una fissazione come puntualizza Alvaro: «L’elemento psicologico conta molto e tanti, se non sono a casa propria, non riescono a evacuare. Ciò può diventare un problema se si passa molto tempo fuori e l’ufficio non è “confortevole” o se si viaggia molto, alimentando un circolo vizioso che può favorire la costipazione perché se tutto non è come vorremmo non ci si prova neanche». Secondo l’esperto molti stitici, se si rivolgessero presto al medico, potrebbero risolvere il problema facilmente cambiando le abitudini, senza correre i rischi da fai da te coi lassativi. Certo la stipsi va risolta, perché ,come conclude Alvaro «Peggiora molto la qualità di vita: oltre a sentirsi gonfi e a dover combattere col meteorismo, si è spesso sonnolenti e fiacchi. Succede anche perché il malessere intestinale interferisce con la normale trasmissione nervosa, a livello locale ma anche nel sistema nervoso centrale». Perfino l’umore può risentirne perché nell’intestino viene prodotta la maggior parte della serotonina, molecola che regola i movimenti peristaltici che sospingono avanti le feci ma che nel cervello si comporta da «neurotrasmettitore della felicità»: assicurarsi che tutto «scorra» bene, laggiù, è anche un antidoto alla tristezza.
Le donne. Nell’80 per cento dei casi a soffrire di costipazione cronica sono le donne, in media signore di cinquant’anni che fanno i conti con le loro difficoltà da oltre quindici anni. Motivi biologici spiegano la maggior suscettibilità femminile alla stipsi: per esempio le fluttuazioni ormonali del ciclo si associano a modifiche della produzione di serotonina intestinale, che regola la peristalsi, e così soprattutto se si è particolarmente sensibili i movimenti del colon rallentano nelle fasi in cui gli estrogeni calano e aumenta il progesterone. Questo ormone, che serve a rilasciare i muscoli delle tube ovariche, rende l’intestino «pigro», meno capace di contrarsi nei movimenti peristaltici necessari a sospingere le feci. Le gravidanze possono poi favorire la comparsa di stipsi, perché soprattutto se si viene sottoposte a episiotomia possono comportare una perdita di tono ed elasticità del pavimento pelvico, la zona dove tutti i muscoli devono funzionare alla perfezione perché l’atto della defecazione fili liscio. Anche i fattori psicologici hanno un peso: stress, ansia e depressione, tutti più frequenti nel sesso femminile, peggiorano il modo in cui i sintomi vengono percepiti. Un malessere che porta tante a tentare pure di «ripulirsi» periodicamente con l’idrocolonterapia, un lavaggio dell’intestino che viene considerato preventivo ma su cui non esistono prove di efficacia (e che essendo abbastanza invasivo in mani poco esperte può essere rischioso).
Bambini e anziani. Non sono però solo le donne a essere più a rischio di stipsi, anche bambini e anziani sono due categorie «fragili»: i più piccoli per esempio possono avere una stitichezza indotta da un’alimentazione povera di frutta e verdura, oppure nei più grandicelli si può sviluppare la stipsi «da ritenzione» in cui si smette di andare in bagno per colpa di disagi che derivano da contrasti in famiglia o difficoltà scolastiche. Gli anziani invece hanno spesso difficoltà ad andare in bagno con regolarità in parte perché con l’andare degli anni la motilità intestinale peggiora, in parte perché cresce la probabilità di patologie che provocano la costipazione come sintomo collaterale, come il diabete di tipo 2 o problemi neurologici, dal Parkinson alle demenze. Quando il problema è solo funzionale, per bambini e anziani valgono le stesse regole degli adulti: avere uno stile di vita il più possibile attivo e sano, mangiare fibre e bere acqua. Un consiglio, quest’ultimo, che non è scontato in chi ha un’età avanzata perché col tempo si perde la sensibilità allo stimolo della sete: chi è anziano perciò farebbe bene a tenere la bottiglia d’acqua in vista, bevendo spesso un bel bicchiere anche in assenza di una vera e propria sete. Per venire a capo di situazioni più «dure» a risolversi, come spiega il gastroenterologo Domenico Alvaro, «Nei bambini i lassativi di massa sono i più efficaci, mentre è meglio non fare clisteri per non abituare il piccolo ad andare in bagno con questa modalità. Negli anziani, soprattutto se fragili allettati o che non riescono a fare attività motoria a sufficienza, spesso il ricorso ai clisteri è inevitabile».
Lassativi: rispettare le dosi, evitare di abituarsi. Elena Meli per il “Corriere della Sera - Salute” il 13 febbraio 2020. Il primo passo è cambiare lo stile di vita. Ma se non funziona e i passaggi in bagno continuano a essere troppo sporadici? Purtroppo la maggioranza tenta col fai da te, affidandosi ai lassativi più disparati (in proposito si veda anche alla pagina seguente, ndr ). «Sono farmaci relativamente innocui, ma l' uso sconsiderato può dare qualche problema», fa notare Domenico Alvaro, gastroenterologo dell' Università La Sapienza di Roma e presidente Sige. «La tossicità per esempio può essere un rischio se si scelgono prodotti non controllati come i mix di erbe; i lassativi irritanti possono peggiorare le condizioni di chi ha patologie ano-rettali come ragadi ed emorroidi o in caso di diverticoli; quelli più potenti possono portare a perdite ingenti di potassio». Gli stimolanti, con principi attivi isolati da erbe come senna, cascara o rabarbaro, «irritano» le pareti dell' intestino aumentando la peristalsi e inducendolo così a svuotarsi abbastanza rapidamente: vanno usati con cautela e sporadicamente, per pochi giorni, perché ad alte dosi potrebbero danneggiare il sistema nervoso enterico, la complessa rete di nervi che circonda l' intestino. Uno stimolo continuo infatti porta alla riduzione della funzionalità normale, in altre parole se ci si abitua ai lassativi irritanti poi l' intestino non riesce più a fare il suo lavoro neanche se si trova in condizioni ottimali, con feci voluminose e morbide. Più sicuri i lassativi osmotici, che richiamano acqua nell' intestino e sono a base di composti come il polietilenglicole, i sali di magnesio, il sorbitolo o il lattulosio: tutt' al più possono aumentare il senso di gonfiore o dare diarrea, effetto collaterale che non si può mai escludere. Vanno comunque presi alle dosi e nei tempi consigliati: c' è chi assume anche dieci o venti volte la quantità opportuna, invece se il lassativo non funziona bisogna cambiare approccio e non prenderne di più, anche se è difficilmente tossico. Sono sicuri, se presi in modo corretto, anche gli emollienti come l' olio di vaselina o la glicerina, che lubrificano le feci aiutandone il transito, e quelli di massa come i semi di lino, lo psillio, l' agar-agar, la crusca, la cellulosa. «Agiscono aumentando la massa fecale, che quindi stende meglio il colon e stimola la peristalsi», dice Alvaro. «Si possono introdurre anche attraverso gli alimenti che li contengono; tra i cibi che sono naturalmente lassativi grazie a fibre che fanno molta massa troviamo i kiwi, il mango, le prugne. È una buona abitudine che favorisce l' evacuazione anche bere acque ricche di solfato di magnesio al mattino appena svegli, per l' effetto idratante delle feci indotto dal magnesio». I lassativi possono servire per evitare di bloccarsi per diversi giorni consecutivi ma non bisogna dimenticare che possono dare crampi, gonfiore, feci liquide o fare effetto in momenti imprevedibili; insomma non devono diventare un' abitudine. Men che meno possono esserlo le supposte, che lubrificano le feci, o i clisteri, che portano liquidi aumentando così la massa e portando immediatamente le pareti intestinali a muoversi: «Non stimolano il meccanismo fisiologico della peristalsi e dell' evacuazione, perciò possono essere diseducativi per la funzione intestinale. Chi li usa per anni si abitua all' idea di non riuscire a liberarsi da solo, è mentalmente certo di non farcela. E quindi guarisce a fatica dalla stitichezza». Senza contare i rischi perché la mucosa del retto assorbe moltissimo ciò con cui viene in contatto, così se dentro al clistere non c' è solo acqua a temperatura ambiente ma qualche intruglio casalingo si può rischiare grosso: c' è stato perfino un caso documentato di morte per un clistere a base di caffè.
· Le Urine svelatrici.
Jenny Cheng e Kevin Loria per "it.businessinsider.com" il 16 febbraio 2020. Il colore della tua pipì ti dice molto della vostra salute. Le urine cambiano colore a seconda di quanto siete idratati e a causa di determinate condizioni mediche. Se avete dei dubbi o siete preoccupati per il colore delle vostre urine, parlate con un dottore. Se vedete del rosso nella vostra toilette dopo che vi siete alleggeriti, forse dovreste chiamare un dottore. Le urine rosse potrebbero essere segno di sangue nella pipì, o che avete un’infezione delle vie urinarie, problemi di prostata, malattie renali, un tumore o qualche altra patologia. Ma potrebbe essere del tutto normale se avete mangiato da poco, barbabietole, mirtilli o rabarbaro. Il colore delle vostre urine vi può fornire una quantità sorprendente di informazioni sulla vostra salute. A un livello base, può dirvi quanto siete idratati, anche se la maggior parte delle persone può fare affidamento sulla sete per sapere se deve o no bere acqua. Ma anche alcune altre condizioni di salute posso influire sul colore dell’urina. Quando i nostro corpo trasforma il cibo ed elimina le tossine dal nostro organismo, ci sbarazziamo di sostanze minerali e chimiche tramite le nostre urine. A seconda di quanto essa è concentrata – cioè, in base a quanto siamo idratati – sarà più scura o più chiara. Ma, come spiegato dalla Mayo Clinic, molti farmaci possono dare alla vostra pipì colori vivaci. E alcune patologie possono fare altrettanto. La Cleveland Clinic ha analizzato alcune potenziali influenze del colore delle urine. Ma ricordate, molte variazioni potrebbero essere troppo lievi da notare semplicemente osservando la toilette. Ecco perché un medico professionista vi chiede di fare pipì in un contenitore quando fate un esame. In ogni caso, dovreste parlare sempre con un dottore se siete preoccupati per il colore delle vostre urine o per altri problemi di salute osservati.
· La Demenza. La Sindrome di Korsakoff.
Sindrome di Korsakoff, cos'è e come si manifesta. Generalmente si tratta di una condizione reversibile, seppur i tempi di recupero sono davvero molto lunghi. Maria Girardi, Giovedì 06/08/2020 su Il Giornale. Secondo recenti statistiche interesserebbe lo 0,8-3% della popolazione. Ad esserne maggiormente colpiti gli uomini di età compresa fra i 45 e i 65 anni con una storia di alcolismo cronico. Nelle donne, invece, è un fenomeno raro. La sindrome di Korsakoff, nota anche come sindrome amnesico-confabulatoria o psicosi di Korsakoff, è una malattia neurologica reversibile che solitamente insorge negli alcolisti cronici e nei soggetti affetti da una grave carenza di vitamina B1. Poiché è caratterizzata da disturbi della memoria, la patologia viene considerata una forma di demenza ed è così definita in onore di Sergei Korsakoff, il neuropischiatra russo che nel tardo diciannovesimo secolo ne descrisse per primo i caratteri generali. A causare la sindrome di Korsakoff è una grave carenza di vitamina B1 o tiamina. Presente soprattutto nelle carni, nelle uova, nei cereali e nei legumi secchi, riveste un ruolo fondamentale nei processi metabolici energetici, in particolare quelli riguardanti i glucidi. Due sono le principali condizioni in grado di determinare una sua carenza: l'alcolismo cronico e uno stato di malnutrizione. Molti alcolisti non si alimentano in maniera corretta, inoltre in essi è ridotto il processo di assimilazione della tiamina. L'alcol, infine, infiamma la parete interna dello stomaco e il conseguente vomito ricorrente provoca una riduzione dell'assorbimento dei nutrienti ingeriti. Altri fattori di rischio che possono favorire la carenza di vitamina B1 sono: effetti collaterali della chemioterapia, avvelenamento da mercurio, dialisi renale, iperemesi gravidica, encefalopatia di Wernicke. Tra le manifestazioni tipiche della sindrome di Korsakoff vi sono i disturbi della memoria che consistono in amnesie causate da lesioni cerebrali e atrofia a livello dei nuclei dorsali del talamo, dei corpi mammilari del diencefalo e dell'ipotalamo. Le amnesie possono essere di due tipi: anteretrograde e retrograde. Le prime sono deficit neurologici che rendono arduo l'immagazzinamento di nuove informazioni. Le seconde, invece, sono caratterizzate dalla perdita dei ricordi precedenti l'insorgenza della patologia. Sebbene siano stati confermati, come già accennato, i danni a livello della struttura cerebrale, il sistema intellettivo dei pazienti risulterebbe inalterato. Altri sintomi importanti della sindrome di Korsakoff includono: confusione mentale, repentini cambiamenti di personalità, apatia, scarsa partecipazione durante le conversazioni e confabulazione. Quest'ultimo è un disturbo psichiatrico per cui chi ne soffre dà vita a falsi ricordi per riempire i vuoti di memoria. In circa l'80% degli alcolisti cronici, la psicosi è associata all'encefalopatia di Wernicke. Si tratta di una malattia neurologica caratterizzata da oftalmoplegia, atassia, depressione, irritabilità, problematiche cardiocircolatorie, epilessia, apnee notturne e confusione mentale. Generalmente la sindrome di Korsakoff è reversibile, nonostante i tempi di recupero siano lunghi. La guarigione, infatti, non avviene prima che siano trascorsi due anni dall'inizio delle cure.
· La distimia e la Depressione.
Melania Rizzoli per "liberoquotidiano.it" il 22 settembre 2020. La nostra anima è la rappresentazione della nostra autentica essenza, in quanto nasce, vive e cresce insieme a noi, accompagnandoci per tutta la nostra esistenza. È un'entità essenziale, invisibile e impalpabile, molto sensibile, fragile e vulnerabile, che domina e regola il nostro comportamento, i nostri sentimenti e la nostra emotività, e che quando viene ferita è capace di risentirne a tal punto da tradurre il trauma subìto in un dolore somatico (ovvero spostato sul piano corporeo) di diversa natura e gravità. In medicina oggi disponiamo di potentissimi farmaci antidolorifici (analgesici oppioidi) in grado di ridurre e addirittura eliminare in pochi minuti i dolori più violenti e crudeli, come per esempio quelli dei traumi fisici, dell'infarto o delle metastasi oncologiche, ma non abbiamo un solo medicinale in grado di controllare il dolore dell'anima, quello che quando insorge si fa sentire, permane, ammutolisce e mozza il respiro, invade il nostro io interiore coinvolgendo cuore e psiche, infligge, pulsa e non scompare in nessun modo finché non viene spazzata via e risolta la causa emotiva che lo ha generato. Oriana Fallaci nel suo libro "Insciallah" (Rizzoli 1990, Milano) scriveva: " È incredibile come il dolore dell'anima non venga capito. Se ti becchi una pallottola te la estraggono subito, se ti rompi una gamba te la ingessano, se hai la gola infiammata ti danno le medicine. Se hai il cuore a pezzi e sei così disperato che non ti riesce aprir bocca, invece, non se ne accorgono neanche. Eppure il dolore dell'anima è una malattia molto più grave della gamba rotta o della gola infiammata, le sue ferite sono assai più profonde e pericolose di quelle procurate da una pallottola. Sono ferite che non guariscono, e che ad ogni pretesto ricominciano a sanguinare".
Malessere fisico. In realtà non tutta la psichiatria riconosce l'esistenza dell'anima come essenza, la scienza fatica a classificare e curare i suoi dolori e non riesce a diagnosticare correttamente il malessere fisico, seppure importante, che da loro deriva, non potendo individuarne la causa effettiva, ma la ricerca clinica conferma sempre più spesso come le tensioni emotive si riflettano nei problemi del corpo. È noto che la nostra psiche ha un ruolo determinante in ogni patologia medica, ed in alcune condizioni assume una valenza particolare, rispetto sia alla genesi del disturbo, sia alla sua evoluzione, come se il trauma emotivo che cova dentro si trasformasse in una forza maligna o infettiva che invade e fa ammalare l'intero organismo. Nell'elenco dei disturbi derivati dal malessere dell'anima, gli stati affettivi o sentimentali alterati risultano tra le principali concause di malattia, poiché la nostra mente ha un ruolo centrale nel determinare la percezione dei sentimenti e del dolore interiore , quello non fisico, non tangibile e non riconducibile ad un particolare evento patogeno, perché elaborato dall'insorgere di emozioni negative, violente e incontrollabili, e per il quale spesso non esiste una cura adeguata né tantomeno una prognosi. Corpo e mente infatti non sono entità separate, si influenzano reciprocamente tutti i giorni, mattina, sera e notte, sempre e in molti modi, sia in salute che in malattia. Questo inscindibile legame spiega molte malattie 'misteriose' ed altrettante guarigioni apparentemente 'miracolose' , come quando un contenuto psichico negativo viene rimosso risolvendo un conflitto inconscio doloroso che non aveva trovato altra via di risoluzione se non nel malessere dell'anima, simbolizzato nello scontro tra autonomia e dipendenza tra corpo e mente. Le tensioni emotive infatti, che emergono dopo lunghi periodi di sofferenza, dopo profondi lutti, dopo perdite radicali di fiducia, dopo sconfitte pesanti o tradimenti che hanno lacerato il cuore, influiscono su un sistema immunitario fino ad allora efficiente indebolendolo e sregolandolo nelle sue funzioni cellulari, riducendolo ad un esercito in rotta che non controlla più il nemico invasore e non è più in grado di difendere in maniera corretta i diversi territori del corpo. Quando il dolore dell'anima è intenso diventa un peso interiore costante, un macigno sul cuore insopportabile e incontrollabile, che invade il cervello e si fissa nella memoria, ed essendo impossibile da ignorare si riflette in molte funzioni, per cui si comincia a mangiare meno, ad essere irritabili, a dormire poco e male, e la carenza di sonno è un potentissimo fattore di stress biologico che scatena l'aumento degli ormoni d'allarme, l'adrenalina e il cortisolo, i quali indeboliscono le capacità di difesa. Tale effetto, chiamato "nocebo", potenzialmente può aumentare la vulnerabilità di fronte ad agenti patogeni virali e batterici, (quando si è "emotivamente a terra" stanchi e stressati anche i virus della banale influenza colpiscono di più), sia di fronte a fattori cancerogeni genetici od acquisiti, come per esempio il Papillomavirus.
Le emozioni negative. In verità la scienza sa ancora troppo poco su quanto le emozioni negative possono far ammalare, ma moltissimi studi scientifici dimostrano come invece le emozioni positive possono addirittura favorire una guarigione, interrompendo bruscamente il circolo vizioso del danno immunitario, al pari di quello che succede durante l'innamoramento o una relazione sentimentale importante e travolgente, considerate ambedue potenti fattori di prevenzione e di cura, alleati preziosi anche se non onnipotenti. Ma come fa uno stato psichico a trasformarsi in un sintomo corporeo? Per quanto possa sembrare misterioso questo 'salto' dalla mente agli organi è stato spiegato dalla neuroscienza, e si verifica attraverso i neurotrasmettitori (serotonina, dopamina, adrenalina, endorfina, ecc.) che hanno un ruolo centrale nel nostro equilibrio psicofisico, regolando tra l'altro il tono dell'umore, i livelli di energia e la percezione del dolore. Inoltre, durante un'emozione violenta, è colpita anche la via neurovegetativa, quella che regola le funzioni corporee involontarie, quella che determina per esempio, durante un allarme emotivo, i sintomi di costrizione al petto, di peso sul cuore, di sbalzi di pressione, di dolore allo stomaco o disturbi intestinali, tutti avvisi di acuzie che insorgono in seguito ad eventi negativi, e tale sistema nervoso autonomo è anche in grado di dialogare e confliggere con quello endocrino e immunitario che presiedono alla difesa dell'organismo.
Gli ipocondriaci. Molte malattie quindi sono legate a stati affettivi disturbati, a sentimenti importanti perduti e non elaborati, all'amore conflittuale o non ricambiato, e sono espressione di tensioni emotive bruscamente scaricate sul corpo che imboccano la via somatica trasformandosi in sintomi e disturbi multiformi, che variano da persona a persona, e che non sono facili non solo da curare ma anche da diagnosticare. E l'impossibilità medica di individuare in tali soggetti una causa patologica precisa, può in molti casi provocare l'insorgenza della temibile sindrome di 'ipocondria' , ovvero l'instaurarsi nella mente del paziente della paura e della convinzione incrollabile di avere una malattia, pur essendo fisicamente e strumentalmente perfettamente sani, e sentirsi ammalati senza esserlo rovina la vita futura, familiare, affettiva, sociale e professionale, di chi ne resta affetto. Il fatto è che il dolore dell'anima, e la sofferenza interiore che ne deriva, non si riesce a fotografare con una radiografia, non si riesce ad afferrare con un endoscopio, a confermare con una analisi del sangue, né ad eliminare con un bisturi, ed è impossibile curarlo con un antibiotico o un analgesico, per cui se non viene elaborato o risolto dalla stessa mente che lo ha generato, esso è in grado di innescare disturbi organici che si traducono in malattie psico-somatiche, quelle che dipendono cioè dai problemi psicologici e dagli stati emotivi-affettivi alterati e non risolti. Insomma, da quel dolore dell'anima tuttora incurabile.
IRMA D'ARIA per repubblica.it il 15 settembre 2020. IL CUORE come “biomarcatore” della depressione. Per la prima volta i medici hanno rilevato che la misurazione dei cambiamenti nella frequenza cardiaca nell’arco di 24 ore può indicare in modo affidabile se una persona è depressa o meno. Una scoperta che può fornire ai medici un'indicazione rapida sull’efficacia della terapia seguita. Il nesso tra depressione e frequenza cardiaca è emerso da uno studio pilota presentato al Congresso europeo di neuropsicofarmacologia in corso in modalità virtuale dal 12 al 15 settembre. Presentando i risultati di questo studio, la ricercatrice Carmen Schiweck della Goethe University ha dichiarato: "In parole povere, il nostro studio pilota suggerisce che misurando semplicemente la frequenza cardiaca per 24 ore, possiamo dire con il 90% accuratezza se una persona è attualmente depressa o no". Già da tempo è noto che la frequenza cardiaca è collegata alla depressione, ma fino ad ora non si è capito esattamente come l'una sia correlata all'altra. In parte ciò è dovuto al fatto che mentre la frequenza cardiaca può fluttuare rapidamente, la depressione arriva e scompare per un periodo più lungo e la maggior parte dei trattamenti richiedono mesi per avere effetto. Per questo è difficile capire se i cambiamenti nello stato depressivo sono effettivamente correlati alla frequenza cardiaca. “Due elementi innovativi in questo studio - spiega Carmen Schiweck, del Dipartimento di psichiatria presso la Goethe University di Francoforte e principale ricercatrice - sono stati la registrazione continua della frequenza cardiaca per diversi giorni e notti e l'uso della nuova ketamina antidepressiva, che può alleviare la depressione più o meno istantaneamente. Questo ci ha permesso di osservare che la frequenza cardiaca media a riposo può cambiare improvvisamente e riflettere il cambiamento di umore”.
L’evoluzione della ketamina. La ketamina ha una storia sia come anestetico che come ‘drug party’, uno stupefacente molto diffuso nelle discoteche e tra i giovani. A dicembre dello scorso anno, però, è stata autorizzata anche come farmaco per curare la depressione maggiore in Europa, dopo essere stata introdotta negli Stati Uniti pochi mesi prima. Gli antidepressivi tradizionali possono richiedere settimane per mostrare un effetto, al contrario la ketamina agisce rapidamente, con risultati spesso visibili in pochi minuti. “In passato i ricercatori avevano dimostrato che i pazienti depressi avevano una frequenza cardiaca costantemente più alta e meno variabile, ma a causa del tempo necessario per curare la depressione era stato difficile seguire e correlare qualsiasi miglioramento alla frequenza cardiaca”, spiega Schiweck. “Ma quando abbiamo visto che la ketamina porta a un rapido miglioramento dell'umore, ci siamo resi conto che potevamo usarla per capire il legame tra depressione e battito cardiaco”.
La ricerca. Il team di ricercatori ha lavorato su un piccolo campione di 16 pazienti con disturbo depressivo maggiore, nessuno dei quali aveva risposto al trattamento abituale, e su 16 soggetti sani. Hanno misurato i loro battiti cardiaci per 4 giorni e 3 notti, quindi ai volontari con depressione è stato somministrato un trattamento con ketamina o un placebo. "Abbiamo scoperto - racconta la ricercatrice - che quelli con depressione avevano sia una frequenza cardiaca di base più alta, sia una sua minor variazione. In media abbiamo visto che i pazienti depressi avevano una frequenza cardiaca che era di circa 10-15 battiti al minuto più alta rispetto al gruppo di controllo. Dopo il trattamento, abbiamo nuovamente misurato le frequenze cardiache e scoperto che sia la frequenza che la fluttuazione del battito cardiaco dei pazienti precedentemente depressi erano cambiate ed erano più vicine a quelle riscontrate negli altri”.
Frequenza cardiaca come marker della depressione. La scoperta più sorprendente è stata che gli scienziati sono stati in grado di utilizzare la frequenza cardiaca nelle 24 ore come ‘biomarcatore’ per la depressione. La frequenza cardiaca è stata misurata utilizzando un mini-Ecg indossabile. I dati sono stati inviati a un software di intelligenza artificiale che è stato in grado di classificare correttamente quasi tutti i controlli e i pazienti come depressi o sani. “Normalmente la frequenza cardiaca è più alta durante il giorno e più bassa durante la notte. È interessante notare che il calo della frequenza cardiaca durante la notte sembri compromesso nei soggetti con depressione. Questo sembra essere un modo per identificare i pazienti che sono a rischio di sviluppare depressione o ricadute", spiega Carmen Schiweck. Il team ha anche scoperto che i pazienti con una frequenza cardiaca a riposo più elevata hanno risposto meglio al trattamento con ketamina, il che può aiutare a identificare meglio i pazienti più adatti ai vari trattamenti.
Studi più ampi. Gli stessi autori fanno notare che si tratta di una piccola ricerca appartenente alla categoria dei “proof-of-concept”, ovvero uno studio pilota su pochi soggetti : “Sei dei nostri 16 pazienti iniziali - chiarisce Schiweck - hanno risposto al trattamento con una riduzione di almeno il 30% sulla scala Hamilton Rating per la depressione, quindi dobbiamo ripetere il lavoro con un campione più grande. Il nostro prossimo passo è seguire i pazienti depressi e quelli in remissione, per confermare che i cambiamenti che vediamo possono essere usati come sistema di allerta precoce”. Ribadisce la necessità di ampliare la ricerca anche Brenda Penninx del Dipartimento di Psichiatria presso il Centro medico dell'Università di Amsterdam (e che non ha partecipato a questo studio): “Il mio gruppo aveva precedentemente studiato la variabilità della frequenza cardiaca a breve termine in oltre un migliaio di pazienti depressi e in un gruppo di controllo, ma non abbiamo rilevato una differenziazione coerente e abbiamo scoperto che gli antidepressivi hanno un impatto maggiore dello stato depressivo stesso. Tuttavia, questo studio ha monitorato la variabilità della frequenza cardiaca in ambiente ambulatoriale per diversi giorni e notti, fornendo delle informazioni uniche nelle 24 ore sul sistema nervoso autonomo. Ora bisogna verificare se questi interessanti risultati valgono in contesti di trattamento più ampi e diversificati”.
Mariella Bussolati per "it.businessinsider.com" il 28 agosto 2020. Ai tempi della Germania nazista, rispettabili cittadini tedeschi, che fino a quel momento non avevano torto un capello a nessuno, hanno denunciato i loro vicini ebrei pur sapendo che fine avrebbero fatto. Nella sanguinosa battaglia tra Hutu e Tutsi in Ruanda, perfino i contadini hanno imbracciato le armi contro chi fino a quel momento aveva lavorato insieme a loro. Gli esempi possono continuare con persone più direttamente coinvolte, come soldati di bassa leva che hanno fatto stragi, o personale delle carceri che si è trasformato in aguzzino. Come mai gente apparentemente normale si può trovare a un certo punto a commettere crimini orrendi? L’empatia, la caratteristica che ci permette di condividere il dolore e di attivare un comportamento altruistico, è fortemente impressa nella nostra biologia umana, ed è servita a farci evolvere. Tanto che è visibile nel nostro cervello: quando vediamo che qualcuno soffre si attiva la parte anteriore e la corteccia cingolata che ci portano ad agire per il bene degli altri. In pratica mappiamo il loro disagio nel nostro stesso sistema di riconoscimento del male grazie ai neuroni a specchio. Quindi in pratica non procuriamo esperienze negative perché non le vogliamo provare a nostra volta. Anche gli altri mammiferi, come i roditori o i primati, hanno lo stesso meccanismo. Chi invece riesce a ignorare questo impulso e a impartire sofferenza evidentemente deve seguire tutt’altro processo. Un gruppo di ricercatori dell’Istituto olandese di Neuroscienze è andato dunque a indagare il motivo per cui tutto questo possa avvenire. E hanno scoperto che il motore che permette di ignorare le proprie pulsioni biologiche è l’obbedienza a ordini, impartiti in modo violento. Stiamo parlando di un’obbedienza particolare, quella che corrisponde a una gerarchia di poteri, in cui la persona che impartisce l’ordine ha uno stato più alto di chi lo riceve. Per capire come mai in questo caso basti un comando per spingere a essere immorali hanno utilizzato coppie di partecipanti, uno con il ruolo di agente, l’altro di vittima. Poi hanno scambiato i ruoli, facendo si che le vittime diventassero agenti. Agli agenti veniva effettuata nel frattempo un risonanza magnetica che permette di studiare le reazioni del cervello. Gli veniva chiesto di decidere, schiacciando un bottone, se infliggere o no uno shock alla vittima. In caso positivo ricevevano anche 0,05 euro. Ma si trattava di una libera scelta. In un momento successivo gli sono stati imposti ordini autoritari e il comando di procurare un supplizio. In questo caso gli agenti hanno schiacciato più spesso il bottone per impartire danni alla vittima. Il loro cervello dimostrava che a causa di questa situazione le regioni dell’empatia erano meno attive, erano inibite anche le zone che mostrano un riconoscimento di quanto fatto e quindi il senso di responsabilità. Erano anche inibite le aree relative al senso di colpa. Inoltre pensavano di fare meno male rispetto a quando potevano decidere liberamente. Non a caso, quando alla fine dell’esperimento veniva chiesto quanto si sentivano cattivi o se provavano dispiacere, i partecipanti rivelavano che avevano provato un maggiore senso di disagio quando avevano potuto decidere da soli. Adolf Eichmann, giustiziato nel 1962 per aver organizzato l’Olocausto e aver pianificato lo sterminio degli ebrei, nel processo aveva espresso sorpresa nel sapere che lo odiavano, rivelando di aver solo obbedito. Nel suo diario aveva anche scritto che gli ordini erano per lui una delle cose di più alto livello nella sua vita, e eseguirli era senza discussione. Eppure gli psichiatri lo avevano dichiarato sano di mente, e veniva da un normalissima famiglia. La storia di Eichmann aveva interessato Stanley Milgram, uno dei primi psicologi che ha effettuato esperimenti sull’obbedienza. Aveva ottenuto gli stessi risultati del team olandese, ma non ne conosceva le cause. La risonanza magnetica invece evidenzia chiaramente questo processo: la corteccia anteriore cingolata, il putamen caudato, un gruppo di nuclei che sono interconnessi con la corteccia cerebrale, il lobo parietale inferiore, la giunzione temporoparietale in cui i lobi temporale e parietale si incontrano, la circonvoluzione frontale inferiore apparivano come disattivate in seguito agli ordini. In pratica quando si eseguono comandi perentori la risposta neurale dimostra chiaramente un modo di interagire con il prossimo completamente differente da quanto la nostra evoluzione ci porterebbe naturalmente a fare. Il potere e l’autorità dunque hanno un’enorme responsabilità sul comportamento umano e gli studiosi ritengono che per evitare che in futuro si possano ripresentare le situazioni che in passato hanno permesso di sterminare intere popolazioni, sia necessario prevenire queste modalità di governo. I ricercatori hanno fatto anche notare che uno dei partecipanti all’esperimento non ha mai inflitto shock neppure quando gli veniva ordinato. Per questo motivo non è stato considerato nello studio. Ma può essere considerata una speranza.
Siete sempre tristi? Può essere distimia. Sentirsi continuamente tristi è un campanello d'allarme, soprattutto se questo stato d'animo non è motivato da eventi difficili come lutti e separazioni. Maria Girardi, Lunedì 24/08/2020 su Il Giornale. Secondo recenti dati statistici ogni anno vengono colpite 105 milioni di persone di qualsiasi età (ovvero l'1,5% della popolazione mondiale). Sono le donne i soggetti che si ammalano più frequentemente. La distimia è un disturbo dell'umore simile alla depressione, ma di gravità inferiore e con tendenza a perdurare nel tempo. Il termine fu coniato nel 1970 dal medico Robert Spitzer e prese il posto di "personalità depressiva" usato in precedenza. A partire dal 2013 il Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM), che include la malattia nel capitolo dedicato alla depressione, parla della stessa come di disturbo depressivo persistente (Persistent Depressive Disorder). Nonostante la minore severità, la problematica è cronica. Ciò significa che la sintomatologia si ripresenta ogni giorno per un determinato lasso temporale, nello specifico almeno due anni. Non sono ancora note le cause della distimia, esistono però fattori di rischio biologici, genetici e ambientali in grado di favorirne la comparsa. In riferimento ai primi, alcuni studiosi ritengono che il cervello dei soggetti distimici subisca importanti cambiamenti neurologici, ad esempio la carenza o la scarsa attività di neurotrasmettitori come la serotonina. Tuttavia queste ricerche lasciano aperti molti interrogativi. Uno fra questi è il fatto che i malati non presentano alcuna alterazione dell'attività cerebrale. L'ipotesi di una componente genetica alla base della patologia si basa sulla constatazione che spesso i pazienti hanno dei consanguinei affetti dalla stessa problematica o dalla depressione. Al pari di quest'ultima, anche la distimia è legata a situazioni di vita difficili (lutti, stress intenso, difficoltà economiche e/o di salute). Come già accennato il disturbo è cronico. Il soggetto alterna fasi in cui è sofferente ad altre in cui sembra guarito anche se non lo è. Negli adulti i principali sintomi sono: tristezza, perdita di interesse per qualsiasi attività quotidiana, insonnia o ipersonnia, scarsa autostima, irritabilità, poca concentrazione, senso di colpa, appetito eccessivo o mancanza dello stesso, visione pessimistica dell'esistenza. La distimia può colpire anche i bambini e si manifesta con: problemi comportamentali, cattivo rendimento scolastico, mancanza di autostima, tendenza alla solitudine, nervosismo. Spesso nei piccoli è associata alla sindrome da deficit di attenzione e iperattività (ADHD) e all'ansia generalizzata. Le complicazioni della patologia possono rivelarsi anche gravi. Tra queste si ricordino: depressione vera e propria, isolamento sociale, totale inoperosità, disturbi alimentari, uso e abuso di sostanze tossiche, tendenze suicide. Sentirsi temporaneamente tristi è normale e comprensibile, soprattutto in seguito a eventi sfavorevoli della vita. Se tuttavia questo stato d'animo persiste e interferisce con la propria quotidianità, è bene rivolgersi al proprio medico. Il trattamento della distimia si basa su un'adeguata terapia psicologica e sulla somministrazione di farmaci antidepressivi (triciclici, inibitori della ricapatazione della serotonina e della norepinefrina).
· L’ictus cerebrale.
Ictus cerebrale, come prevenirlo. L’ictus cerebrale è una malattia grave che ogni anno nel mondo colpisce circa 15 milioni di persone. Prevenirlo con uno stile di vita sano è importante come non sottovalutare i suoi sintomi. Mariangela Cutrone, Venerdì 30/10/2020 su Il Giornale. L'ictus cerebrale è una malattia grave invalidante. Ogni anno nel mondo miete 15 milioni di vittime. Rappresenta la terza causa di morte, la prima di invalidità e la seconda di demenza. La parola “ictus” ha origini latine e significa “colpo”. Sii verifica quando uno scarso afflusso sanguigno al cervello provoca la morte delle cellule. Vi sono due tipi principali di ictus, quello ischemico chiamato comunemente ischemia cerebrale e quello emorragico. La prima tipologia è dovuta alla mancanza del flusso di sangue nel cervello. Invece quello emorragico è causato da un sanguinamento o nei casi gravi da una vera e propria emorragia cerebrale. Il primo tipo di ictus può anche seguire l'altro. Entrambi portano come risultato una porzione del cervello incapace di funzionare adeguatamente. In Italia sono circa 150mila i soggetti colpiti e quelli che sono sopravvissuti, con esiti più o meno invalidanti, sono oggi circa 1 milione. Ogni anno un medico di famiglia assiste dai 4 ai 7 pazienti colpiti da ictus e deve seguirne almeno 20 sopravvissuti. L'incidenza dell'ictus è di 13 casi per 1.000 abitanti 65-84enni l'anno. La prevalenza in Italia nella popolazione 65-84enne è pari a 7,4% negli uomini e 5,9% nelle donne. La spesa annuale per l'assistenza all'ictus cerebrale in Italia è stimata intorno ai 3,5 miliardi di euro. “Per questa ragione, non si devono sottovalutare i sintomi, che in tempi non sospetti facevano correre al Pronto Soccorso, anche a rischio di sovraffollamento, perché questi non passano da soli” - spiega il prof Francesco Setacci, Direttore dell’U.O complessa di Chirurgia Vascolare dell’IRCCS -non bisogna mai, sottostimare tutti i sintomi che in condizioni non pandemiche metterebbero in allarme. Infine si sappia che le attività ambulatoriali sono garantite, quindi attualmente le diagnosi vengono fatte tempestivamente. Gli interventi chirurgici con rischio imminente di vita al momento vengono garantiti, piuttosto si tende a procrastinare le patologie differibili. E questo è il vero elemento che richiederà una seria riflessione sulle conseguenze che questo determinerà nel medio periodo”. Questa patologia si può prevenire cambiando il proprio stile di vita. Secondo uno studio internazionale condotto dai ricercatori della McMaster University di Hamilton in Canada e pubblicato su Lancet, l’ictus è prevenibile in ben nove casi su dieci. È possibile ciò agendo e correggendo determinati fattori legati allo stile di vita. Nel corso della ricerca è stato calcolato quanto l’eliminazione di uno specifico fattore ridurrebbe i pericoli di ictus. Tra i fattori analizzati al primo posto vi è l’ipertensione arteriosa, ossia la pressione alta. Segue l’inattività fisica, i grassi nel sangue, il fumo, le cardiopatie, lo stress, l’alcol e il diabete.
L'amministrazione di sostegno: dall'ictus alle difficoltà cognitive, quando interviene. Marzia Coppola su Libero Quotidiano il 30 ottobre 2020.
Marzia Coppola. Avvocato matrimonialista, educata alla resilienza e alla libertà. Laureata in Italia e in Francia, ho continuato gli studi per diventare anche avvocato della Sacra Rota. Lavoro con l'Avv. Annamaria Bernardini de Pace e mi occupo di diritto di famiglia a 360 gradi (e più!). Convinta che anche dalla relazione peggiore si possa imparare qualcosa.
La nostra legge prevede alcuni istituti volti a tutelare le persone non pienamente capaci di assumere le migliori decisioni nel loro interesse e, in generale, di prendersi cura di sé. A seconda dell’istituto, la possibilità di agire è più o meno ridotta. L’amministrazione di sostegno, in particolare, ha l’obiettivo di lasciare alla persona “amministrata” la più ampia capacità di agire possibile. Può essere beneficiario dell’amministrazione di sostegno una persona con una menomazione fisica o un’infermità o una menomazione psichica che, per una di queste ragioni, si trovi nell’impossibilità (anche solo temporanea) di provvedere ai propri interessi. L’impossibilità alla quale si riferisce la legge parlando di amministrazione di sostegno, non deve essere necessariamente permanente. Quindi, per fare un esempio, l’amministrato di sostegno potrà essere un uomo che abbia avuto un ictus e che, solo per un certo periodo, abbia difficoltà cognitive oppure sensitive. È il giudice tutelare a essere competente per decidere quando e se sia necessario nominare un amministratore di sostegno e chi debba essere l’amministratore. La domanda può essere presentata dal beneficiario stesso, dal coniuge, dalla persona stabilmente convivente, dai parenti entro il quarto grado, dagli affini entro il secondo grado, dal tutore o dal curatore del beneficiario oppure dal pubblico ministero. Nell’istanza con la quale si chiede al giudice tutelare di nominare un amministratore di sostegno, può essere indicato e suggerito il soggetto che potrebbe ricoprire questo ruolo così delicato e, al contempo, complesso. Verrà preferito il coniuge oppure il convivente e, in subordine, si verificherà la possibilità di nominare un prossimo congiunto, un parente entro il quarto grado oppure anche il soggetto indicato dalla persona interessata in una scrittura privata autenticata/ atto pubblico. In ogni caso, il giudice tutelare dovrà motivare la ragione per la quale la scelta è ricaduta su un soggetto oppure su un altro e, naturalmente, l’amministratore di sostegno dovrà essere individuato tenuto conto esclusivamente di quali siano gli interessi del beneficiario. Da quel momento in poi, l’amministratore di sostegno avrà il compito di assistere il beneficiario e rappresentarlo per tutti gli atti previsti nel decreto di nomina. Per tutti gli atti non elencati nel decreto, invece, il beneficiario conserverà la piena capacità di agire. Questa è proprio la particolarità dell’amministrazione di sostegno: l’amministrato avrà capacità di agire per tutto, salvo quanto espressamente e specificamente indicato nel decreto di nomina. In generale, comunque, sarà il giudice discrezionalmente a dover individuare fino a che punto il beneficiario potrà agire in autonomia (ossia gli atti che il beneficiario potrà continuare a fare in autonomia, quelli che richiedono la rappresentanza esclusiva dell’amministratore di sostegno e quelli che richiedono la mera assistenza dell’amministratore). Il tutto da valutarsi caso per caso e secondo le necessità e l’effettivo stato del beneficiario che, comunque, potrà compiere gli atti necessari a soddisfare le esigenze della propria vita quotidiana. Sarà libero, quindi, di andare al ristorante, consumare e pagare, acquistare l’abbonamento in palestra, comprare il biglietto del treno e così via. L’amministrazione di sostegno, infine, può essere revocata su domanda dell’interessato, dell’amministratore o dei prossimi congiunti. Il giudice tutelare, quindi, dovrà valutare le circostanze del caso e, se lo ritiene, provvedere con decreto motivato. Per esempio, potrà essere revocata l’amministrazione di sostegno di colui che, solo per un certo periodo, ha avuto un limite fisico tale da impedirgli di provvedere ai propri interessi. Quest’ultima possibilità è certamente espressione del fondamento dell’amministrazione di sostegno: ossia come detto un istituto con il compito di tutelare le persone prive - in tutto o in parte - di autonomia, ma limitandone meno possibile la loro capacità di agire.
· Mente sana in Corpo sano.
Il segreto della palestra di Platone: così ci insegna a lottare. Per il filosofo greco anima e corpo erano legate. Per questo chiedeva che venissero allenate entrambe. In uno slancio ascetico. Matteo Carnieletto, Lunedì 09/11/2020 su Il Giornale. I corpi si contorcono sotto il caldo sole di Grecia. Un giovane cade, atterrato da un colpo tremendo, e la sabbia - finissima - gli resta incollata addosso. Il ragazzo si rialza, barcollando un po'. Alza lo sguardo e pianta i piedi a terra. Ruota il proprio corpo e sferra un pugno micidiale. Il suo avversario crolla. Immobile. Poco distante, sotto un colonnato, un uomo guarda soddisfatto quei ragazzi allenarsi. E' Platone, il fondatore dell'Accademia. E' stato lui, qualche anno prima, a coniare il termine philosophia (amore per il sapere), dando così un nome a coloro che, mossi da un desiderio ardente, cercavano di comprendere prima il mondo e poi l'uomo. Per forgiare questo termine, Platone parte da philoponia (l'amore per la fatica), un concetto che aveva imparato e messo in pratica grazie al suo maestro di lotta. L'Accademia di Platone era questo: un luogo in cui chiunque lo volesse poteva migliorare se stesso. Nell'anima e nel corpo. L'amore per il sapere era mosso (e forse lo dovrebbe essere ancora) dal desiderio di essere sempre migliori. In poche parole, era una questione di ascesi, come spiega Simone Regazzoni in La palestra di Platone. Filosofia come allenamento (Ponte alle Grazie): "La filosofia come askesis, cura e allenamento integrale di sé, come trasformazione della vita (...). Askesis (da cui deriverà il termine "ascesi") significa, in greco antico, 'allenamento', in particolare fisico, 'esercizio ginnico' e anche, con riferimento a una forma di vita, 'vita dei lottatori'". I filosofi non sono persone che se ne stanno sedute a ragionare dei massimi sistemi, ma coloro che sono disposti a sacrificare se stessi per scoprirsi. A provare fatica, sofferenza e dolore, certi che tutto questo darà frutto. Sono loro a porsi una legge e a sottomettersi ad essa per un bene più grande. Come scrive Ortega y Gasset ne La ribellione delle masse: "Sono gli uomini selezionati, i nobili, gli unici attivi, e non solo reattivi, per i quali vivere è una perpetua tensione, un'incessante disciplina. Disciplina - askesis. Sono gli asceti". Il filosofo, ma potremmo anche dire l'uomo che vuol migliorare se stesso, si pone davanti alla vita come un soldato davanti a una battaglia o, se preferite, come un pugile sul ring. Gli stessi dialoghi scritti da Platone sono una forma di lotta. Aristocle (questo il vero nome del filosofo greco) vuole sconfiggere i suoi rivali e lo fa con la dialettica. I suoi Dialoghi sono pugni sferrati. La sua vita un'eterna lotta. Come lui anche Marco Aurelio, l'imperatore filosofo, che, nei Pensieri, scrive: "Vivere è un'arte che assomiglia più alla lotta che alla danza, perché bisogna sempre tenersi pronti e saldi contro i colpi che ci arrivano imprevisti". Come nota H. L. Reid, "il Ginnasio platonico era pensato per allenare anime belle in forti corpi atletici". Lì, le anime e i corpi potevano sfinirsi e ascendere: "Sfinir-si significa fare esperienza della fine come superamento di sé, trasformazione del limite in un passaggio ad altro da sé", scrive Regazzoni. Ogni prova rappresentava una sfida, della mente e del corpo. L'asticella si alzava ogni giorno di più. Perché, forse, è proprio questa l'essenza della filosofia: essere oggi migliore di ieri. Un po' come in Rocky: "Qui c'è ciò che conta:" - scrive Regazzoni - "scoprire il limite, incontrare la paura, sentire lo sforzo fino a cedere, e continuare a mettere un piede davanti all'altro. Lavorare da sé, su di sé, per elevare se stessi ed essere, così degni di ciò che accade". In Platone, Sparta e Atene si fondono. I filosofi diventano guerrieri. Le loro anime sono templi, i loro corpi mura altissime. Sono questi i segreti dell'Accademia di Platone. Chiusa agli ignavi, aperta a chiunque voglia migliorarsi.
· Il cervello è l’ultimo a morire.
Bloccare l’invecchiamento del cervello? Forse si può…L'Arno-il Giornale l'8 ottobre 2020. Il tempo di reazione a uno stimolo è più veloce nei bambini e adolescenti e, mano a mano che si va avanti con l’età, aumenta sensibilmente. Questa normalissima dilatazione dei tempi è determinata dal cervello che diventa, per così dire, più lento e macchinoso, quasi fosse un vecchio pc che fatica a elaborare i dati dei nuovi programmi. Ora grazie a un gruppo di ricercatori del Laboratorio Bio@Sns della Scuola Normale di Pisa e del Dipartimento Neurofarba dell’Università di Firenze potrebbero aprirsi nuove frontiere in grado, forse, di rallentare o bloccare questo invecchiamento. Lo studio che individua come responsabile della perdita di plasticità del cervello una molecola di microRNA (miR-29). Se si blocca/inibisce la presenza di questa molecola nel soggetto adulto il cervello torna a mostrare la plasticità del giovane. Questa molecola, che può essere descritta a forma a forcina, si trova nelle cellule dei tessuti come cervello, cuore, muscolo, vasi, non solo nell’uomo ma anche in diversi animali, come ad esempio i topi e i pesci. Nel cervello dell’uomo, o meglio nella corteccia cerebrale, quando il bambino diventa adulto la concentrazione di miR-29 aumenta di 30 volte. Non c’è un’altra molecola, nella corteccia cerebrale, che presenti un incremento così elevato. “I nostri dati ci hanno suggerito che miR-29 controlla la maturazione della corteccia cerebrale – spiega il professor Tommaso Pizzorusso (Università di Firenze) -. Inibendone l’azione abbiamo effettivamente verificato un aumento della plasticità neurale”. A questo il professor Alessandro Cellerino (Normale di Pisa) aggiunge che “una analisi molecolare approfondita condotta in collaborazione con l’Università della California a Irvine e con l’Istituto Leibniz di Jena per gli studi sull’invecchiamento ha dimostrato come i meccanismi di questa plasticità indotta siano identici a quelli che si osservano durante il periodo adolescenziale”. In altre parole riuscire a “comprendere i meccanismi che inducono la comparsa di questi freni molecolari potrebbe avere molteplici implicazioni: facilitando, ad esempio, il recupero delle funzioni cerebrali dopo traumi”. Per cercare di dimostrare la correttezza dell’ipotesi formulata i ricercatori hanno trattato dei topi adulti con una molecola che agisce da inibitore del miR-29. Lo studio vede come responsabile sperimentale la dottoressa Debora Napoli, perfezionanda in Neuroscienze della Scuola Normale Superiore, coaudiuvata dai perfezionandi Leonardo Lupori e Sara Bagnoli. Il team di ricerca, a livello internazionale, è stato coordinato dal professor Tommaso Pizzorusso del dipartimento Neurofarba dell’Università di Firenze e dal professor Alessandro Cellerino del Laboratorio di Biologia Bio@Sns della Scuola Normale di Pisa. La ricerca ha coinvolto anche il Dipartimento di Ricerca Traslazionale dell’Università di Pisa, l’Istituto di Neuroscienze del CNR e l’Università di Leeds, ed è stato pubblicato sulla prestigiosa rivista EMBO Reports.
Il cervello non smette di "sentire": cosa succede in punto di morte. Lo studio, pubblicato sulla rivista "Scientific Reports", è stato condotto dai ricercatori dell'università della British Columbia. Maria Girardi, Giovedì 09/07/2020 su Il Giornale. Per gli antichi Greci l'uomo era un essere mortale e, in quanto tale, doveva vivere la morte. Il concetto di limite si sgretolava per accogliere in sé una nuova concezione. Non più impedimento, dunque, ma riscoperta delle proprie potenzialità. Non a caso Socrate consigliava di non perdere tempo in vani passatempi, era bene invece indirizzare la concentrazione verso tutto ciò che si era realmente in grado di compiere. Per i Romani la dipartita veniva considerata impura, al momento del decesso di un congiunto i familiari si occupavano della sepoltura e della purificazione della famiglia stessa. Da sempre il pensiero del trapasso si è acquattato in penombra nell'animo degli esseri umani, suscitando curiosità e al contempo angoscia. Cosa accade al cervello negli ultimi istanti che precedono la morte? A questa domanda hanno cercato di rispondere alcuni ricercatori (guidati da Elizabeth Blundon) dell'università della British Columbia, giungendo alla conclusione che anche quando la fine è prossima e non si risponde più ad alcuno stimolo, il cervello continua a sentire le parole e i suoni che giungono dall'esterno. L'udito sarebbe così l'ultimo dei cinque sensi a spegnersi. Lo studio, pubblicato sulla rivista “Scientific Reports”, è stato condotto sui malati di un hospice di Vancouver sia nel momento in cui erano ancora coscienti, sia quando non lo erano più. Tramite elettroencefalogramma, gli scienziati hanno confrontato i dati di questi pazienti con quelli di soggetti sani. Dagli stessi è emerso che un cervello morente possiede la capacità di rispondere al suono, anche in uno stato di incoscienza, fino alle ultime ore di vita. Ciò ha dell'incredibile se si pensa che nel breve periodo che precede la dipartita, molti individui entrano in una fase di non responsività. La risposta del cervello monitorata con l'elettroencefalogramma ha rivelato che alcuni soggetti, anche a poche ore dal trapasso, rispondevano in maniera simile a quelli giovani e sani. Secondo uno dei ricercatori, Lawrence Ward, si sono potuti identificare degli specifici processi cognitivi in entrambi i gruppi sottoposti a sperimentazione. La scoperta avvalora quanto è stato già rilevato nell'esperienza professionale di medici e infermieri di hospice, ovvero che i suoni e le voci delle persone amate offrono conforto a chi sta esalando gli ultimi respiri. Tuttavia gli studiosi sono cauti. Non sono stati, infatti, in grado di confermare se i morenti comprendono ciò che sentono. Conclude Gallagher, un altro ricercatore: "Non possiamo sapere se stanno ricordando, identificando la voce o capendo il linguaggio pur rispondendo allo stimolo uditivo. L'idea però è che dobbiamo continuare a parlare alla gente quando sta morendo perché qualcosa accade nel loro cervello".
· La Ludopatia.
Mi ci gioco la pelle! Chi è affetto da ludopatia spende spesso oltre le sue possibilità economiche e ha comportamenti compulsivi dovuti allo stress e all’ansia da gioco. Un fenomeno in crescita, che porta con sé un giro d’affari miliardario. Franco Schipani il 6 settembre 2020 su Il Quotidiano del Sud. È una ragazza sui trent’anni. La sua bellezza non viene offuscata neanche dall’abbigliamento dismesso e dal sorriso spento sul volto. Spinge una carrozzina, dove un piccolo di pochi mesi cerca di afferrare invano una piccola luna colorata di peluche attaccata sul copri sole. Entra in un tabaccaio, apre un borsellino in plastica marrone e cambia 20 euro in gettoni. Poi, con il piccolo accanto, li inserisce in una slot machine. Un gesto che ha fatto tante volte. Perde, vince e perde per meno di quindici minuti. Poi attraversa la strada ed entra in un alimentari dove vendono prodotti discount, dopo aver recuperato dal borsellino una banconota da 10 euro ed un mazzetto di piccoli talloncini colorati con le offerte della settimana. In Italia abbiamo una slot machine ogni 151 abitanti, e siamo in cima alla classifica europea: in pochi anni abbiamo doppiato Spagna e Germania. Gli ultimi dati sulla ludopatia sono un vero e proprio bollettino di guerra. I giocatori in cura in Italia sono attualmente poco meno di 15.000 mentre quasi 900.000 sono a rischio di diventarlo nei prossimi tre anni. Di questi, la metà sono disoccupati, il resto è rappresentato da pensionati e casalinghe. Un fenomeno allarmante, se consideriamo che un milione di giovani tra i 15 ed i 19 anni ha già iniziato a giocare. Una ulteriore preoccupazione è data dai giovanissimi tra i 7 ed i 9 anni che sono già stati iniziati almeno una volta al gioco da genitori, parenti o amici. «I legislatori hanno tentato recentemente di occuparsi del problema», mi dice Alex, volontario presso uno dei centri di assistenza per Giocatori Compulsivi di Roma, «ma si sono trovati tra l’incudine ed il martello. Da una parte desiderano salvaguardare la salute dei cittadini, dall’altra si vedrebbero costretti a rinunciare ad entrate importanti per l’erario». Nel 2017 gli italiani hanno giocato per 101,8 miliardi di euro, facendo registrare una crescita di 5 miliardi rispetto al 2016. Con la legge di stabilità 2018 è stato previsto un aumento dell’1,25% del prelievo sulle giocate di slot machine e video lotterie, che dovrebbe permettere allo Stato di incassare 600 milioni di euro. L’obiettivo era quello di aumentare il costo delle giocate per scoraggiare gli italiani in generale a giocare, invece i giocatori non sono affatto diminuiti. Parallelamente, con il Decreto Dignità, lo Stato ha varato una serie di accorgimenti per arginare il fenomeno del gioco. Ha vietato qualsiasi forma di pubblicità, anche indiretta, relativa a giochi, scommesse e al gioco d’azzardo. E poi introdotto norme relative alle avvertenze sul rischio dipendenza sui tagliandi delle lotterie istantanee, negli apparecchi da intrattenimento e nei locali dove sono installati. Disposto inoltre che l’accesso a slot machine e video lotterie venga consentito solo ai maggiorenni in possesso di tessera sanitaria, escludendo quindi i minori. E gli apparecchi privi di meccanismi per impedire agli under 18 di giocare devono essere rimossi. L’Istituto Superiore di Sanità ha attivato il Telefono Verde Nazionale per le problematiche legate al Gioco d’Azzardo (800 558822). I giocatori che stanno acquisendo una maggiore consapevolezza della loro problematicità, ed i loro familiari che avvertono il bisogno di aiuto, possono trovare sostegno. «Durante il confinamento domestico dovuto al Covid», continua Alex, «i giocatori d’azzardo hanno iniziato a soffrire di stress, manifestando poi aggressività e perdita del sonno. Molti rapporti familiari si sono inaspriti, specialmente in quei casi dove i ludopatici erano abituati a nascondere la dipendenza ai loro cari. Le telefonate al Centro si sono moltiplicate, con una durata media per conversazione che si è addirittura triplicata. Alcune chiamate si sono protratte per oltre un’ora». «Ma mentre i bar, le sale Bingo le video lotterie erano chiuse», afferma Paolo Jarre, Direttore del Dipartimento Patologia delle Dipendenze della Asl 3 di Torino, «molti ludopatici hanno risolto il problema passando dal gioco fisico a quello online. Sul web il denaro dura più a lungo perchè le vincite sono il 95% della somma spesa contro il 75% di slot & C. Con tanto tempo a disposizione alcuni giocatori se ne sono stati davanti allo schermo del computer anche per 20 ore di fila. Altri invece hanno battuto la strada dell’illegalità e delle sale clandestine in mano alla criminalità organizzata». «A beneficiare di più dello stop al gioco sono stati i ludopatici lievi», continua, «quelli condizionati dall’offerta, che giocavano perché al bar del caffè c’era una slot accesa. È stato un vantaggio anche per chi era in cura. Molti dei pazienti sono commercianti o lavoratori indebitatissimi, che hanno studiato piani di ammortamento con le banche nell’ambito della terapia. Gente che non incassava più una lira ed era devastata dal timore che una rata non pagata bloccasse il loro percorso di riscatto. Un problema in più che il mondo del credito dovrebbe aiutare a risolvere». D’altra parte la Federazione Italiana Esercenti Gioco Legale ha evidenziato che alcune misure contenute nel Decreto Rilancio stanno mettendo in ginocchio il loro settore. La mancata immediata riapertura di molte strutture nella seconda fase dell’emergenza Covid, ha messo in forse l’attività di oltre 12.000 esercizi, per una perdita stimata di oltre 60.000 posti di lavoro. Un danno devastante dal punto di vista sociale ed economico per tutto il Paese, oltre che un assist insperato per le organizzazioni criminali, che lucrano sul gioco illegale non autorizzato dallo Stato. Resta il fatto che chi ha un reddito meno elevato spende oggi più soldi nel gioco d’azzardo che in passato. In quelle regioni italiane del Sud dove il tasso di disoccupazione è al di sopra della media nazionale, molti cittadini tentano quotidianamente la sorte.
Giulia Villoresi per “il Venerdì di Repubblica” il 14 luglio 2020. Nel 2019 gli italiani hanno speso oltre 110 miliardi di euro nel gioco d' azzardo. Di questa somma (pari a circa quattro manovre finanziarie) la quota più importante viene da "apparecchi e congegni da intrattenimento", circonlocuzione un po' vintage con cui l'Agenzia dei Monopoli definisce slot machine e videolottery. Parole tabù. Che rimandano ad ambienti oscuri - le sale slot - dove si presume abbia luogo buona parte di quel dramma che è stato definito «azzardo di massa». Il settore conta 87 mila esercenti in tutta Italia. Molti, per regolamento comunale, devono rispettare una distanza minima di 500 metri dai «luoghi sensibili», come scuole e luoghi di culto. È opinione condivisa che le slot machine siano più pericolose dell' insieme dei giochi d' azzardo, ed è su questa base che diverse associazioni chiedono la chiusura delle sale slot/vlt. Ma le parti in causa - società civile, filiera del gambling, Stato - stentano a trovare un dialogo. Un libro appena pubblicato da Meltemi potrebbe offrire a questo scopo spunti preziosi: I giocatori. Etnografia nelle sale slot della provincia italiana è l' inchiesta di una giovane antropologa, Manuela Vinai, che ha trascorso quasi un anno come osservatrice nelle sale da gioco del Piemonte. Una ricerca nata su commissione delle Asl di Biella e Vercelli che si è trasformata nella prima vera indagine etnografica sull' Italia delle slot machine. Com' è noto, il lavoro sul campo spesso riserva al ricercatore un piccolo shock: Vinai non ha trovato in questi luoghi l'alienazione che si aspettava. Il che solleva una questione interessante: chi si occupa di contrasto al gioco d' azzardo conosce davvero le sale da gioco? In Italia i locali slot/vlt fanno capo a un circuito di concessionari che riproduce in serie un design quasi invariabile: vetri oscurati all' esterno, illuminazione esclusivamente artificiale all' interno, moquette, area fumatori, un bar e un office per cambiare i soldi. Ordine e pulizia sono quasi ossessivi, a dissimulare la centralità dell' elemento sporco: il denaro. Ogni macchinetta ha un corollario di accessori - sgabello, cambiamonete, segnaposto, tavolino, posacenere - che crea una dimensione ergonomica, progettata per ridurre al minimo azioni superflue al gioco. Il codice di comportamento è rigido: si parla poco e a bassa voce; non si guarda lo schermo altrui; non si fanno commenti, soprattutto a chi sta vincendo. «Ma i giocatori sono molto attenti a ciò che accade intorno a loro» spiega Vinai. «Hanno i sensi allenati e sanno sempre cosa succede al vicino. Alcuni dicono di saper riconoscere il giocatore patologico dal suo modo di "stare dentro la macchina". A volte ci sono riuscita anche io: è una fissità, una proiezione verso lo schermo che ti rende un tutt' uno con la macchina». La relazione tra giocatori presenta alcuni tasti delicati. Per esempio, una slot machine che è stata alimentata a lungo senza dare grandi vincite è molto ambita (non in base al calcolo delle probabilità, ma a credenze sui meccanismi della fortuna) e certi giocatori sono sempre pronti a occuparla. I cosiddetti avvoltoi, secondo la tipologia proposta dallo svedese Philip Lalander. Per ridurre le tensioni si usano i segnaposto, ma in genere una macchina vuota non si può tenere bloccata per più di mezz' ora. Capita anche che un avvoltoio fortunato regali del denaro al giocatore precedente - che ha lasciato la macchina senza segnaposto - in segno di gratitudine. «L'ambiente è molto variegato» spiega Vinai. «In una sola giornata si può incontrare il pensionato, il ragazzo, la donna in carriera in pausa pranzo, il genitore col figlio, la coppia di fidanzati o di amici». Non sono rari gli habitué che spariscono per lunghi periodi perché hanno giocato troppo. O perché hanno vinto troppo. «Questa è una regola che ha messo d' accordo tutti i miei interlocutori: la vincita di una grossa somma spesso coincide con i problemi di dipendenza». Quando si vince troppo Il giocatore convive con questo spettro, ne sente l' alito, elabora strategie per tenerlo sotto controllo. Racconta la signora L.: «Mio figlio ogni tanto gioca. Una volta ha preso 2.900 euro; mi ha chiamato: "Vieni mamma, così me li tieni e non li gioco". Li ha dati a me perché è quando prendi le botte grosse che ti frega». E qui veniamo a uno dei punti chiave messi a fuoco da Vinai: «La maggior parte delle ricerche sul gambling tratta solo la sua declinazione patologica. Anche la società civile ha fatto propria l' idea del gioco d' azzardo come malattia tout court. Ma i giocatori non sono tutti malati. Anzi. E trattarli come tali non sembra una strategia efficace». Più i clienti, i gestori e gli impiegati delle sale slot assorbono l' idea di essere in un contesto riprovevole e malato, più la vergogna e il senso di colpa inibiscono la disponibilità al dialogo. C' è poi una questione più sottile, ma molto significativa: «Con grande sorpresa, come antropologa, ho scoperto che si instaurano relazioni. Anche relazioni intime. Non solo tra clienti, ma tra clienti e personale. Spesso sono i gestori e gli assistenti di sala a intervenire sui clienti più problematici. Perché li conoscono. Sanno come comunicare con loro». Da qui, una delle proposte di Vinai a chi si occupa di prevenzione: investire nella formazione dei gestori e del personale delle sale slot. Sfruttarne le competenze. Responsabilizzare la filiera, invece di demonizzarla.
· Il Mancinismo.
Da “Ansa” il 13 agosto 2020. Tutto l'anno si destreggiano in disposizioni di case e uffici progettati per il comfort di chi usa la destra come mano dominante. 'Sopportano' porte, cucine, lavelli, mouse, tastiere e scrivanie per lo più a misura di destrimani. Ma il 13 agosto è il giorno della “riscossa” per i mancini: una giornata internazionale a loro dedicata, per celebrare una particolarità che non è più considerata un difetto da correggere come in passato e che interessa oggi circa il 10% della popolazione mondiale. Come riporta un articolo dello scorso anno sul Washington Post, nel 1860 solo il 2% della popolazione preferiva l'utilizzo della mano sinistra. La percentuale nel 1920 è salita al 4% per poi arrivare al 10% nei giorni nostri. La giornata dei mancini è stata istituita nel 1992 dal Left Handers Club, nel Regno Unito e le specificità non mancano per i mancini, in positivo e in negativo secondo la scienza. Ricordano meglio gli eventi, secondo una ricerca del 2001, perché i loro emisferi cerebrali sono più strettamente connessi, sono più abili in matematica, nella risoluzione dei problemi complessi più che nell'aritmetica semplice, secondo uno studio del 2017 che ha coinvolto 2314 studenti italiani. Secondo un altro studio del 2017 hanno un vantaggio anche negli sport interattivi, come ping-pong o baseball, che richiedono reattività. Sono forti nel pugilato. Dal punto di vista della salute, se è vero che hanno un maggiore rischio di tumore al seno, dall'altro hanno un vantaggio ad esempio per il recupero post-ictus. Tanti sono i mancini famosi: dall'ex presidente Usa Barack Obama, al bassista dei Beatles Paul McCartney, fino al fondatore di Microsoft Bill Gates, il principe William e l'attrice Angelina Jolie. Ma anche Marie Curie, Albert Einstein, Leonardo Da Vinci.
Stefania Zaccagnini per "vanityfair.it" il 13 agosto 2020. Per tanti anni sono stati discriminati perché utilizzavano la mano sinistra, considerata quella del diavolo. Whaaat? Esatto, parliamo di un’assurda convinzione popolare che, però, è rimasta anche nella lingua di oggi. Fateci caso. Un sinonimo di incidente? Sinistro. Un danno nei confronti di qualcuno che non se lo aspetta? Un tiro mancino. Wait, passiamo all’inglese: left è il contrario di right (giusto, corretto, diritto), ma è anche il participio passato di leave: quindi qualcosa che, per definizione, manca ed è incompleto. Ok, mai una gioia. Ma per fortuna, a tutelare la loro particolarità, ci pensa la giornata mondiale dei mancini, istituita il 13 agosto del 1992 per celebrare tutti coloro la cui esistenza viene scandita dall’emisfero destro del cervello. Forse non lo sapevate, ma la parte del corpo dominante che utilizzate per compiere le azioni della vostra vita quotidiana dipende proprio dall’asimmetria laterale che esiste tra i due emisferi. Chi usa la mano destra, viene dominato da quello sinistro, più orientato verso i numeri e la logica. Chi usa la mano sinistra, invece, da quello destro. Tutto chiaro? Bene. Il fatto che siano considerati più geniali, creativi e curiosi è legato proprio a questo. I motivi per festeggiare questa particolarità, quindi, sono tanti. Perché? Una volta, il mancinismo non solo veniva considerato un difetto, ma una vera e propria diversità da eliminare: i mancini, infatti, venivano anche forzati a usare la mano destra (arrivate più sotto per scoprire di chi stiamo parlando). Oggi, invece, anche se il mondo è pensato per lo più per i destrimani (dall’impugnatura delle forbici al mouse, sempre rigorosamente a destra), la loro vita è un po’ più facile e la lista di coloro che si sono distinti nelle arti, nello sport e nello spettacolo è davvero lunga. Vi viene in mente qualcuno in particolare? A noi sì! A dimostrazione del fatto che mancinismo fa rima con talento, ecco tutte le celebs che (forse) non sapevi utilizzassero la mano sinistra.
JUSTIN BIEBER. Il microfono è sempre nella mano giusta. Milioni di autografi firmati, singoli di successo e una carriera in ascesa ancora tutta da scrivere. Sempre con la sinistra, ovviamente.
LADY GAGA. Chi poteva esserlo più di lei? Estro, creatività, talento e genialità. La regina del pop, ovviamente, è mancina.
JENNIFER LAWRENCE. Anche nel cinema, stringere l’Oscar con la mano sinistra, ha tutto un altro sapore.
CAITLYN JENNER. L’ex medaglia d’oro olimpica e padre di Kendall e Kylie è una stella (mancina) nello sport e nella vita.
ASHLEY TISDALE. We’re all in this together? Of course. Anche la diva di High School Musical appartiene al club dei left handed.
NIALL HORAN. È l’unico mancino degli One Direction, però ha imparato a suonare la chitarra con la destra (così da non dover invertire tutte le corde).
MARY-KATE OLSEN. Un trucco per distinguere le gemelle Olsen? Allora sappiate Mary-Kate è mancina, Ashley invece è destrimana. Pazzesco, vero?
IGGY AZALEA. Un trucco per distinguere le gemelle Olsen? Allora sappiate Mary-Kate è mancina, Ashley invece è destrimana. Pazzesco, vero? L’attrice e popstar è nata mancina, ma quello che non tutti sanno è che per scrivere, suo papà l’ha costretta a utilizzare la mano destra. Perché? Per evitare di vivere il mondo al contrario. Fa tutto il resto con la sinistra e perciò incolpa Billy Ray per la sua pessima grafia.
BARACK OBAMA. Arte, sport e…politica. I mancini eccellono in tutto. Non a caso Obama, il primo presidente afroamericano degli USA, è mancino.
· L’Evoluzione del naso.
Fabrizio Barbuto per “Libero quotidiano” l'1 novembre 2020. Provate a confrontare una fotografia di vostro nonno anziano con una in cui, appena ragazzino, si affacciava alla vita. Quali differenze notate? Lasciate stare i solchi di cui, lo scorrere del tempo, si rende artefice e volgete l' attenzione a tutto il resto Notato niente? Il suo naso e le sue orecchie appaiono decisamente più grandi nello scatto recente: queste parti del corpo crescerebbero per tutta la vita, almeno così risulta ad un primo sguardo; le loro dimensioni, invero, rimangono uguali, ma sembrano estendersi per via di un progressivo rilassamento della cartilagine e di un suo cedimento alla forza di gravità; padiglione auricolare e narici, per di più, negli anni tendono ad allargarsi esasperando l' effetto. Parecchi portali indagano sul fenomeno attraverso le comparazioni fotografiche di personaggi noti al grande pubblico, quali Mike Bongiorno, Raimondo Vianello, Leslie Nielsen e Pippo Baudo. Osservando questi mattatori, da fanciulli e da uomini maturi, l'"inganno" è sorprendente. E se non fosse solo un' illusione ottica? Stando ad alcuni studi, queste sporgenze del viso, col tempo che passa, si dilaterebbero davvero: dai 18 agli 80 anni le orecchie crescerebbero di circa 12 millimetri nell' uomo ed 8 nella donna. Quanto al naso, si stimano circa 2 millimetri di esubero per entrambi i sessi, nel medesimo arco temporale (dai 18 agli 80). Altre indagini sostengono che le orecchie, in terza età, subiscono addirittura un ingigantimento pari a 22 millimetri l' anno, come a significare che, quanto più a lungo vivi, tante più possibilità hai di librarti in volo in sella ai tuoi organi uditivi. Ma reggetevi forte: l' espansione a carico delle orecchie, nelle fanciulle, può essere accelerata e incrementata dall' uso di orecchini pesanti: questo tipo di monile favorisce un allungamento del lobo che, sommato ai processi succitati, promette di volgere le donzelle in dei veri e propri "Dumbo" di disneiana memoria. Qualunque sia la verità, una cosa abbiamo buone ragioni di supporla: ad oggi sappiamo molte più cose sul cosmo di quante non ne conosciamo sul corpo umano, il quale non smette mai di sorprendere Sapevate che la vagina non è un' esclusiva femminile? Ce l' hanno anche gli uomini e si trova nella prostata. E che dire del naso? Al di là della sua già sviscerata prerogativa di espandersi nel tempo, funge da vero e proprio archivio di odori e può immagazzinare fino a 50mila fragranze; ecco perché, un semplice profumo, ha il potere di portare con sé la magia di un ricordo smarrito nel tempo. E se pensate che le strade urbane siano lunghe e tortuose, confrontatele con i 95mila chilometri di vasi sanguigni che attraversano il vostro corpo... C' è dell' altro: quando arrossiamo dall' imbarazzo, arrossisce anche il rivestimento del nostro stomaco. E sul cuore quanto siete eruditi? Forse non abbastanza da sapere che, nel corso della vita, pompa circa 200 milioni di litri di sangue e batte 2,5 miliardi di volte. Se tutto ciò vi commuove, lasciatevi pure andare a quest' emozione, sapendo che costituisce un' esclusiva della nostra specie: l' uomo è l' unico animale a versare lacrime. Che l' auto dei vostri sogni sia una Porsche, una Ferrari o una Lamborghini, fareste bene a rendervi consapevoli di come, la macchina più affascinante del mondo, la stiate già guidando: il vostro corpo.
· Benessere e Calzature.
G. V. per “il Messaggero” il 30 agosto 2020. Le scarpe troppo basse, tipiche dell'estate, possono mettere in difficoltà le donne. Infatti, non tutte possono portare le infradito e, chi le calza, dovrebbe farlo per un periodo non troppo lungo. Gli anziani stiano attenti invece alle ciabatte, mentre vengono promossi gli uomini: generalmente le loro calzature danno un numero minore di problemi rispetto a quelli che sono costretti a subire le donne. Le infradito (le classiche ciabatte con la stringa a forma di Y), vanno usate con accortezza. «Prima che i danni alla schiena, possono causarli al piede. Ciò vale specie per le donne che sono abituate a usare, in inverno, scarpe con il tacco. Una ciabatta infradito, piatta, può essere la causa di un sovraccarico al tallone spiega Maria Grazia Benedetti, direttrice della Medicina fisica e riabilitativa dell'Istituto ortopedico Rizzoli di Bologna - Le infradito annullano l'arco plantare: se si ha un piede normale e una buona mobilità possono anche andare, ma se si ha un piede piatto, in linea generale, sono controindicate». Oltre a sovraccaricare il tallone, spostano il baricentro indietro e la schiena potrebbe sostenere un eccessivo sovraccarico. È tollerabile il loro uso per 2 o 3 ore: per andare in spiaggia, dunque, rimangono una soluzione da seguire. Più comode, invece, sono le ciabatte che hanno il plantare anatomico. «Non devono essere semplici ciabattine di plastica o di gomma prosegue Benedetti ma prodotti che siano ben studiati». E soprattutto per gli anziani non vale la regola qualsiasi calzatura va bene. Per Benedetti, che tra l'altro è docente di Medicina fisica dell'Università di Bologna, è sempre meglio che non usino le ciabatte perché possono aumentare la probabilità di cadere e di doversi trovare a gestire fratture e tutti i problemi che ne seguono. «Il rischio nelle persone anziane è quello della caduta: la ciabatta aumenta il rischio di inciampare. Dunque, è meglio portare scarpe chiuse, in grado di tenere il piede ben fermo, e con una pianta larga», aggiunge. Anche l'uso delle scarpe estive può causare problemi ai piedi, come vesciche e danni da sfregamento. Questo accade anche perché si tende a proteggere meno il piede e, dunque, a non avere quello scudo in grado di difenderlo, magari mentre si fa una lunga camminata. I calzini o le calze possono aiutare a evitare gli arrossamenti causati dal continuo sfregamento. Ma la vescica sul piede, appena si forma, va trattata. Il rimedio suggerito è di usare i cerotti specifici che si trovano in libera vendita, abbandonando tutte quelle soluzioni basate sul passaparola e che possono avere effetti solo in parte. «Bisogna curarla perché è pericolosa, specie per alcune persone, come quelle diabetiche», aggiunge Benedetti. I dolori dei piedi sono però in buona compagnia: quelli della schiena possono essere frequenti ed avere (anche loro) tra le cause le calzature scorrette. L'uso per troppo tempo di un tacco alto può essere la causa di nuovi acciacchi. «Nessuno vieta di andare a una festa con le scarpe tacco 12, tenendole per qualche ora. Però il tacco ideale è tra i 3 e i 4 centimetri prosegue Un tacco più grande, infatti, favorisce l'iperlordosi e una postura scorretta». E le scarpe con la zeppa alta, molto di moda tra chi è più giovane? Anche davanti a queste, il medico storce il naso. «La zeppa non favorisce il pre-rotolamento del piede durante il passo». Promosse, invece, le scarpe degli uomini. «Sono calzature più giuste. Hanno un tacchetto che va bene».