Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.
Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.
I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.
Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."
L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.
L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.
Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.
Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).
Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.
Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro.
Dr Antonio Giangrande
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ANNO 2020
L’AMBIENTE
SECONDA PARTE
DI ANTONIO GIANGRANDE
L’ITALIA ALLO SPECCHIO
IL DNA DEGLI ITALIANI
L’APOTEOSI
DI UN POPOLO DIFETTATO
Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2019, consequenziale a quello del 2018. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.
Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.
IL GOVERNO
UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.
UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.
PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.
LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.
LA SOLITA ITALIOPOLI.
SOLITA LADRONIA.
SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.
SOLITA APPALTOPOLI.
SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.
ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.
SOLITO SPRECOPOLI.
SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.
L’AMMINISTRAZIONE
SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.
SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.
IL COGLIONAVIRUS.
L’ACCOGLIENZA
SOLITA ITALIA RAZZISTA.
SOLITI PROFUGHI E FOIBE.
SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.
GLI STATISTI
IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.
IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.
SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.
SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.
IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.
I PARTITI
SOLITI 5 STELLE… CADENTI.
SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.
SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.
IL SOLITO AMICO TERRORISTA.
1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.
LA GIUSTIZIA
SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.
LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.
LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.
SOLITO DELITTO DI PERUGIA.
SOLITA ABUSOPOLI.
SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.
SOLITA GIUSTIZIOPOLI.
SOLITA MANETTOPOLI.
SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.
I SOLITI MISTERI ITALIANI.
BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.
LA MAFIOSITA’
SOLITA MAFIOPOLI.
SOLITE MAFIE IN ITALIA.
SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.
SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.
SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.
LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.
SOLITA CASTOPOLI.
LA SOLITA MASSONERIOPOLI.
CONTRO TUTTE LE MAFIE.
LA CULTURA ED I MEDIA
LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.
SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.
SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.
SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.
SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.
LO SPETTACOLO E LO SPORT
SOLITO SPETTACOLOPOLI.
SOLITO SANREMO.
SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.
LA SOCIETA’
GLI ANNIVERSARI DEL 2019.
I MORTI FAMOSI.
ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.
MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?
L’AMBIENTE
LA SOLITA AGROFRODOPOLI.
SOLITO ANIMALOPOLI.
IL SOLITO TERREMOTO E…
IL SOLITO AMBIENTOPOLI.
IL TERRITORIO
SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.
SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.
SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.
SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.
SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.
SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.
SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.
SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.
SOLITA SIENA.
SOLITA SARDEGNA.
SOLITE MARCHE.
SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.
SOLITA ROMA ED IL LAZIO.
SOLITO ABRUZZO.
SOLITO MOLISE.
SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.
SOLITA BARI.
SOLITA FOGGIA.
SOLITA TARANTO.
SOLITA BRINDISI.
SOLITA LECCE.
SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.
SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.
SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.
LE RELIGIONI
SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.
FEMMINE E LGBTI
SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.
L’AMBIENTE
INDICE PRIMA PARTE
LA SOLITA AGROFRODOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Il Veganesimo è una Religione.
Religioni alternative. Chi sono i Pastafariani.
La Scadenza dei Cibi.
Cibo: i "vizi" che ci fanno bene.
Quello che fa bene,… anzi fa male.
Tutto è Veleno.
Il biologico.
Le truffe alimentari: sofisticazione ed adulterazioni.
La Guerra della Pac.
Come si danneggia la Carne Italiana.
La guerra del Primitivo tra Puglia e Sicilia.
La pasta del Senatore.
SOLITO ANIMALOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Gli animali misteriosi.
Gli animali geniali.
Gli eroi animali.
Le dimensioni contano in amore.
Femmine, campionesse di lunga vita. Anche tra gli animali.
Il Maschio Madre.
Animali a fuoco.
Sofferenza, morte ed estinzione degli animali.
Azioni di tutela degli animali.
L’Orso Papillon.
I Nazi-Animalisti.
Droga Animale.
Cosa non si fa per il foie gras.
Animali da Salotto.
Il Gatto.
I Cani.
Storia di Saturn, l’alligatore americano morto a Mosca a 84 anni.
Storia di Codamozza, la balena mutilata che gira in lungo e largo il Mediterraneo.
Il tonno rosso del Mediterraneo.
La mappa degli volatili in Italia.
L’Ostrica.
Le Vongole.
IL SOLITO TERREMOTO E…(Ho scritto un saggio dedicato)
Il Terremoto dei ricchi.
Assicurazione obbligatoria contro le calamità naturali.
Terremoto e ricostruzione.
Catastrofi naturali: conseguenze inescusabili.
INDICE SECONDA PARTE
IL SOLITO AMBIENTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Il Danno da Smog.
Quelli che…l’Inquinamento Acustico.
Mai dire plastica.
Com'è difficile riciclare.
La retorica ambientalista.
Il Bacino Padano fra le aree inquinate peggiori d'Europa.
Il Progresso. In Bicicletta…anzi, a piedi.
Diesel. L’Ossessione Ambientalista.
Gli ultrà ambientalisti.
La comunità energetica.
I Gretini.
Gli Anti-Gretini.
Lo strapotere delle lobby "green".
Il Costo del Climate Change.
Il clima che cambia e l'inquinamento partigiano.
I Peggiori incendi…
La “Terra dei Fuochi” e la Terra dei Ciechi.
Acqua sporca.
Le tragedie naturali…evitabili.
Chernobyl, verità e bugie sul disastro nucleare che ha cambiato il mondo.
Balcani inquinati.
Giappone Radioattivo.
Sicilia Radioattiva.
Lotta alla Tap.
Lotta alla Cimice Asiatica.
Lotta alla Xylella.
Albero europeo 2020.
L’AMBIENTE
INDICE SECONDA PARTE
IL SOLITO AMBIENTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
· Il Danno da Smog.
Da "Ansa" il 16 dicembre 2020. L'inquinamento atmosferico è stato riconosciuto oggi per la prima volta dalla giustizia britannica come un fattore chiave nella morte di una bambina: Ella Kissi-Debrah, uccisa nel 2013 a nove anni di età dall'asma a Londra, secondo quanto stabilito oggi da un coroner della corte londinese di Southwark. Ella, nata da una famiglia di radici africane residente alla periferia Sud-Est della capitale del Regno, morì dopo essere stata ricoverata 27 volte in ospedale in 3 anni. I genitori hanno dichiarato agli inquirenti di non esser mai stati messi a conoscenza di pericoli rappresentati dall'inquinamento per la salute della piccola. Cresciuta in una casa di South Circular Road, nell'affollato sobborgo di Lewisham, ai margini di Londra, Ella Kissi-Debra si arrese all'ultimo attacco di asma oltre sette anni fa, dopo un calvario ospedaliero di corse al pronto soccorso, ricoveri e dimissioni iniziato almeno nel 2010. Un destino al quale - riconosce oggi il coroner in tribunale - l'inquinamento ambientale diede un tragico "contributo materiale" concreto. La vicenda è stata al centro di una lunga causa giudiziaria, fino all'approdo di fronte alla Southwark Court. In base a una perizia del professor Stephen Holgate, medico legale, la vita di Ella rimase per mesi "sull'orlo del baratro" prima dell'attacco fatale. Mentre per il magistrato inquirente Philip Barlow, coroner aggiunto della corte di Soutwark, il verdetto è ormai chiaro. Dopo due settimane di udienze ad hoc - ha affermato oggi Barlow - "sono giunto alla conclusione che Ella morì di asma", ma che a questo esito "contribuì un'esposizione eccessiva all'inquinamento dell'aria". Fra le cause del decesso, il coroner elenca quindi formalmente, numerandole, "uno scompenso respiratorio acuto; una forma severa di asma; l''esposizione all'inquinamento". La madre della bambina, Rosamund, e due fratelli di Ella hanno assistito alla lettura del verdetto. Commentando la conclusione del procedimento, gli avvocati di Rosamund Kissi-Debrah hanno da parte loro sottolineato come l'inserimento nel certificato di morte dell'inquinamento ambientale come concausa del decesso sia senza precedenti nella storia della giustizia britannica, "e forse mondiale": un precedente destinato a fare giurisprudenza nel diritto anglosassone.
· Quelli che…l’Inquinamento Acustico.
Mariella Bussolati per “Business Insider Italia” il 28 giugno 2020. La goccia che cade è uno dei rumori più fastidiosi, soprattutto se ci tiene svegli la notte. Ma ci sono speranze, e in futuro potremmo non avere più bisogno di prendere a martellate i rubinetti. Scienziati dell’università di Cambridge hanno scoperto qualcosa di poco intuitivo: il suono infatti non è causato dalla goccia in sé o dal suo battere contro una superficie, ma dalla oscillazione delle micro bolle di aria intrappolate nella superficie dell’acqua. E grazie alla scoperta, hanno potuto anche trovare una soluzione. Nonostante il plink plink della goccia abbia rovinato il sonno a generazioni di uomini e donne, finora il motivo per cui faceva rumore non era noto. La ricerca scientifica ha infatti chiarito fino ai dettagli la meccanica del comportamento del fluido: quando la goccia colpisce la superficie, provoca la formazione di una cavità che si ritira velocemente a causa della tensione superficiale dell’acqua, formando una colonna di liquido. Ma proprio a causa della rapidità di quello che accade, una bolla d’acqua rimane intrappolata. Risalgono al 1908 le prime fotografie che ritraggono questo fenomeno. Altri studi hanno dimostrato che per fare rumore la goccia deve avere una dimensione minima. Non era stata però indagata la sorgente del rumore. L’idea di approfondire questo aspetto è venuta a Anurag Agarwal, uno degli autori, ricercatore del dipartimento di ingegneria dell’Università di Cambridge e coordinatore del Laboratorio di Acustica all’Emmanuel College. In visita a un amico, che aveva una piccola perdita sul tetto di casa, gli venne voglia di mettere a punto un esperimento, utilizzando una telecamera ultra veloce, un microfono e un idrofono. Durante le prove sono state registrate centinaia di gocce, capaci di far venire il nervoso anche ai più calmi, ma alla fine è stata trovata la risposta. Il rumore infatti non è, come si pensava finora, causato dall’urto dell’acqua, ma dalla oscillazione della piccola bolla d’acqua intrappolata, che costringe la superficie a vibrare e agendo come un pistone amplifica il suono. Hanno trovato anche la chiave che spiega un altro quesito: non tutte le gocce che cadono danno fastidio. Per far sì che il volume sia alto e quindi udibile, infatti, la bolla deve avere una posizione precisa: deve trovarsi vicino alla base della cavità. Una volta individuata la causa, è stato semplice immaginare una soluzione. Gli studiosi ne hanno trovate due e le hanno sottoposte a una prova. Nella prima hanno provato a sistemare un bastoncino nel punto in cui si forma la cavità. E il risultato è che la bolla non è apparsa e si è ottenuto il silenzio. Nel secondo caso sono intervenuti sulla tensione superficiale dell’acqua, modificandola con l’aggiunta di un sapone. E anche in questo caso, c’è stato silenzio. Gli scienziati non hanno purtroppo fornito un manuale di istruzioni con i dettagli per poter procedere nelle proprie case, quando ci si alza durante la notte nel tentativo di fermare il disturbo. Ma almeno abbiamo qualche idea su cui poter sperimentare.
Il rumore della goccia che arriva dal rubinetto? Ecco perché è fastidioso. Mistero svelato: quello che ci dà fastidio non è il rumore ma l’oscillazione di micro bolle d’aria rinchiuse nella superficie. Valentina Dardari, Lunedì 29/06/2020 su Il Giornale. Chi di noi non ha passato la notte in bianco, o quasi, a causa del rumore fastidioso e irritante della classica goccia d’acqua che esce dal lavandino? Praticamente è successo a tutti. E tutti abbiamo dato la colpa al rumore in sé.
Il rumore fastidioso della goccia d'acqua. Ebbene, un team di ricercatori dell’Università di Cambridge ha scoperto chi è il vero colpevole del nostro sonno agitato, non il rumore provocato dall’acqua contro la superficie o della goccia che fuoriesce, bensì l’oscillazione delle micro bolle di aria rinchiuse nella superficie dell’acqua. Ma il gruppo di studiosi non si è fermato qui. Oltre ad aver trovato la causa, hanno cercato anche il modo per risolvere il problema. Lo studio condotto è entrato fin nei minimi particolari, andando a studiare tutto il meccanismo, da quando la goccia fuoriesce dal rubinetto a quando si schianta sulla superficie sottostante. E proprio nell’ultima fase si racchiude tutto. Quando la goccia tocca la superficie, va a formare una specie di cavità che subito si ritrae per via della tensione superficiale dell’acqua, formando però una colonna di liquido. La velocità del processo fa sì che la bolla d’acqua rimanga rinchiusa.
Lo studio. E pensare che è dal 1908 che hanno iniziato a interessarsi al fenomeno scattando le prime foto. Alcune ricerche precedenti avevano dimostrato che la goccia, per produrre il fastidioso rumore, deve comunque avere una grandezza minima. Fino adesso però nessuno aveva pensato di cercare la vera sorgente del rumore. Ci ha pensato invece Anurag Agarwal, uno degli autori dello studio, ricercatore del dipartimento di ingegneria dell’Università di Cambridge e coordinatore del Laboratorio di Acustica all’Emmanuel College. Tutto è nato perché, andando a visitare un amico che aveva una perdita dal tetto, Agarwal ha voluto fare un esperimento affidandosi a una telecamera ultra veloce, un microfono e un idrofono. Lo studio non è durato pochissimo e centinaia sono state le gocce analizzate. Però l’arcano è stato poi svelato. Non c’entra nulla il rumore provocato dall’urto dell’acqua. La colpevole dei nostri sonni agitati è invece l’oscillazione della piccola bolla d’acqua rinchiusa, che porta la superficie a vibrare e, come un pistone, ne amplifica il suono.
Le soluzioni per dormire sonni tranquilli. Però, non tutte le gocce sono capaci di irritarci. La posizione della bolla è fondamentale: deve infatti trovarsi alla base della cavità. Altrimenti niente. La cosa bella è che, dopo aver trovato la causa, gli studiosi hanno cercato anche il modo di porre fine al problema. Due le soluzioni. Con tanto di esperimenti. Nel primo hanno messo un bastoncino nel punto in cui si forma la cavità. In questo caso la bolla non si è verificata e non è stato prodotto alcun rumore. Nel secondo esperimento gli studiosi sono intervenuti sulla tensione superficiale dell’acqua, l’hanno infatti cambiata aggiungendo del sapone. Anche qui nessun rumore, silenzio assoluto. Trovata la causa, trovato il rimedio.
· Mai dire plastica.
Alberto Abburrà per la Stampa il 30 agosto 2020. Nevica sempre meno. E già questa non è una buona notizia. Ma c'è di più: ora insieme alla poca neve scende dal cielo una grande quantità di plastica. Per avere un'idea del fenomeno basta dare un'occhiata ai risultati dello studio condotto in occasione dell'ultimo Tor des Geants, l'ultra tra il più duro e famoso del mondo che fino al 2019 si è svolto nel mese di settembre in Valle d'Aosta. I numeri mettono i brividi anche d'estate: la stima dei ricercatori è che ogni anno, solo sull'arco alpino valdostano, cadano 200 milioni di generiche particelle di cui 80 milioni sono frammenti di microplastiche. Il che vuol dire 25 chilogrammi di materiale riversato a pioggia su una delle zone più incontaminate d'Italia e d'Europa. «Abbiamo fatto i prelievi in un periodo in cui la neve residua era poca, il nostro timore è questa cifra sia addirittura sottostimata - spiega Roberto Cavallo che insieme alla cooperativa Erica ha ideato e curato la ricerca -. Dobbiamo pensare di vivere in uno smog di plastica. Ci circonda, si degrada e adesso sappiamo anche che si muove». Che la plastica abbia ormai infestato campagne, fiumi, laghi e mari purtroppo non è una novità. Tracce di plastica erano già state trovate anche sulle Alpi nei pressi dello Stelvio, in Svizzera, e più recentemente perfino nelle remotissime isole Svalbard e in Antartide. Ma questa analisi (realizzata dallo European research institute in collaborazione con l'Università di Milano) aiuta a circoscrivere il fenomeno e soprattutto prova a dare una risposta alla grande domanda: come ci arrivano questi frammenti sulla vetta delle nostre montagne? Avendo analizzando campioni di neve accumulata durante una sola stagione invernale, quella 2018/2019, e non accumuli più datati nel tempo, come i ghiacciai, la risposta appare chiara: questi pezzetti di microplastica (che hanno fino a 5 millimetri di diametro) non sono solo il risultato della frammentazione di rifiuti dispersi in zona, ma arrivano dal cielo attraverso le precipitazioni. Lo studio, finanziato dalla Regione Valle d'Aosta, si sofferma anche sulla tipologia di materiale ritrovato. Dagli otto litri di materiale prelevato in quattro siti diversi sono emerse 40 particelle e la metà di queste è risultata plastica. Ci sono diversi tipi di polimero. Il più presente è il polietilene (39%) che probabilmente deriva da sacchi e sacchetti in film. Poi vengono Pet (17%), Hdpe (17%), poliestere (11%), Ldpe (6%), polipropilene (5%) e poliuretano (5%). Più difficile stabilire l'origine e il viaggio di questi pezzetti inquinanti anche se la loro origine non è un mistero. Parliamo di fibre rilasciate dai capi di abbigliamento sintetico, imballaggi, confezioni, residui di cosmetici, dentifrici o creme solari. «Il problema delle microplastiche è ben più vasto di quanto possiamo immaginare e non può che destare preoccupazione», conclude Cavallo. In particolare i timori sono legati ai rischi che queste particelle disperse nell'ambiente potrebbero avere sulla salute dell'uomo. È certo che ormai fanno parte della catena alimentare. Un'indagine della State University di New York sostiene che frammenti plastici siano presenti nel 90% delle acque commercializzate in bottiglia. L'Università di Edimburgo si è spinta oltre stimando che in un pasto ogni persona ingerisca almeno cento di queste particelle. Con quali conseguenze ancora non si sa, ma è difficile immaginare un impatto zero. Uno degli studi su questo tema condotto dall'Arizona State University e pubblicato pochi giorni fa ha confermato tracce di plastica negli organi di alcuni pazienti deceduti. Un'altra notizia che non lascia intendere nulla di buono.
"Le borracce di alluminio rilasciano metalli nell'acqua". Pubblicato sabato, 06 giugno 2020 da La Repubblica.it. Studio della Sapienza di Roma: la quantità di metalli, semimetalli, non metalli, ftalati e bisfenolo. A rilevati non supera i parametri imposti per legge. Il problema però è che queste cessioni si sommano ai metalli spesso presenti nell'acqua potabile di rubinetto. Finisce ai raggi X uno dei simboli dell'utilizzo ecosostenibile dell'acqua: le borracce in alluminio. Si perché, anche se nei limiti di legge, rilascerebbero nell'acqua che beviamo, tracce di metalli e di altri composti chimici. Questo almeno emerge da una ricerca effettuata dal Dipartimento di Sanità Pubblica e Malattie Infettive dell'Università La Sapienza di Roma, commissionata da Fondazione Acqua. Lo studio della Sapienza, che secondo una nota sarebbe il "primo nel suo genere perché incentrato sul rilascio chimico-fisico di elementi dalle borracce, mentre sino ad ora erano stati valutati solo gli aspetti batteriologici", è stato condotto su 20 tipologie di borracce differenti, acquisite tramite i principali rivenditori e sul mercato elettronico, e ha permesso di ottenere più di 24.000 risultati analitici, che "hanno consentito di valutare (mediante simulazione d'uso con un'acqua test demineralizzata) le possibili cessioni di 40 elementi inorganici (metalli, semimetalli e non metalli) e di 7 composti organici (6 ftalati e Bisfenolo A)". I risultati ottenuti, continua la nota "hanno mostrato assenza di cessione di composti organici dalle borracce in plastica e, al contrario, fenomeni di cessione di elementi inorganici da tutte le borracce testate. Si parla di fenomeni molto variabili tra le diverse tipologie di borracce e spesso caratterizzati da cessioni multielemento anche di alluminio, cromo, piombo, nichel, manganese, rame, cobalto, ecc. Va chiarito che la quantità di metalli, semimetalli, non metalli, ftalati e bisfenolo A rilevati non superano i parametri imposti per legge, il problema però è che queste cessioni si sommano ai metalli spesso presenti nell'acqua potabile di rubinetto con il rischio, per chi usa abitualmente le borracce, di oltrepassare facilmente le soglie considerate sicure per la salute". Secondo quanto rilevato dal Dipartimento di Sanità Pubblica e Malattie Infettive dell'Università La Sapienza di Roma, inoltre: "La variabilità riscontrata nella cessione di elementi chimici è con tutta probabilità da attribuire sia alla qualità del materiale di fabbricazione che alle modalità di lavorazione. La presenza di metalli estranei quali Cromo, Bismuto, Manganese, Bario, Rame, Zinco, ecc. nelle cessioni di borracce in Alluminio fanno supporre che il materiale di fabbricazione possa derivare anche da processi di recupero/riciclo, elementi critici se condotti senza le dovute attenzioni necessarie per garantire la conformità a quanto previsto dalla normativa vigente sui materiali destinati al contatto con alimenti (cosiddetti MOCA)". Un altro aspetto emerso dallo studio è dunque la non piena conformità delle borracce analizzate ai regolamenti CE e alle norme nazionali sui MOCA. Infatti, visto che l'acqua destinata al consumo umano è un alimento a tutti gli effetti anche i materiali e gli oggetti destinati al contatto con l'acqua, come appunto le borracce devono rispettare specifici criteri, nell'ottica del mantenimento delle caratteristiche organolettiche e nutrizionali dell'alimento stesso e di sicurezza igienico-sanitaria del consumatore. Tra le borracce esaminate, solo alcune presentavano il simbolo previsto o le indicazioni di impiego ed elementi utili per la loro identificazione ai fini della necessaria rintracciabilità, un fatto che dovrebbe renderle inadatte alla vendita sul mercato. "Nell'ultimo periodo stiamo assistendo ad una campagna di demonizzazione della plastica con particolare riferimento alle bottiglie, a favore delle borracce - commenta il presidente della Fondazione Acqua, Ettore Fortuna - Non solo andrebbe spiegato ai consumatori che le bottiglie in pet sono riciclabili al 100% ritornando ad essere nuove bottiglie dopo il loro recupero e riciclo, ma soprattutto se si parla della salute delle persone è fondamentale dare loro le corrette informazioni per poter scegliere consapevolmente".
Antonio Rossitto per “la Verità” il 4 giugno 2020. Era un anno fa, ma sembra ieri. La giovane Greta Thunberg, in visita a palazzo Madama, tira fuori la sua borraccetta bordeaux. Appena qualche sorso. Ma, da qual momento, nulla è stato come prima. Anche in Italia le bottiglie d' alluminio sono diventate, fra i pii e i caritevoli, un indifferibile accessorio. Adesso però, compagni ecologisti, arriva il contrordine. V' eravate ripromessi di salvare il pianeta da ogni barbarità plastificata? È con rammarico che dobbiamo darvi conto dell' ultima scoperta. Uno studio, basato su 24.000 analisi, demolisce l'ultima moda ambientalista. Le suddette borracce rilascerebbero nell' acqua quantità ai limiti di legge di metalli, ftalati e bisfenolo. Ovvero alluminio, cromo, piombo, nichel, manganese, rame e cobalto. La ricerca, commissionata dalla Fondazione acqua, è stata realizzata dal Dipartimento di sanità pubblica e malattie infettive dell' università Sapienza di Roma. C' è di peggio. I risultati rivelano che le vituperate bottigliette di plastica non cedono «composti organici». Insomma, nessun pericolo. Gli esperti scrivono: «La variabilità riscontrata nella cessione di elementi chimici è con tutta probabilità da attribuire sia alla qualità del materiale di fabbricazione che alle modalità di lavorazione». Chiariamoci: i parametri consentiti non vengono superati. Ma il rilascio si aggiunge ai metalli spesso presenti nell' acqua potabile. Con il conseguente rischio di oltrepassare le soglie considerate sicure per la salute. E adesso come la mettiamo? Molte scuole dell' infanzia e primarie obbligano i genitori a dotare i pargoli di apposite fiaschette ecologiche. Sono l' oggetto green più alla moda tra manager, sportivi e celebrità. Persino la politica le usa per le sue campagne moralizzatrici. All' inizio di questo tormentato anno scolastico pure il sindaco di Milano, Giuseppe Sala, si è scoperto un Achille Lauro ecologista. Beppe però, a differenza del politico napoletano noto per donare pacchi di pasta, ha omaggiato i pargoli di 100.000 borracce d' alluminio, realizzate dalle municipalizzate milanesi, di cui il comune è socio. 40.000 recano il logo A2a, ramo energia e gas, e sono andate ai ragazzini delle medie. Altre 60.000, marchiate Metropolitane milanesi, hanno mandato in visibilio i bimbi delle elementari. Nobilissimo l' intento: «Iniziare sin dall' infanzia a educarli a una vita plastic free». Largo alle borraccette, mostrate orgogliosamente dal sindaco su Instagram. «Servono segnali e, soprattutto, esempi» gongolava Sala con la stampa accorsa per l' imperdibile occasione. Paladino dell' alluminio è ovviamente pure il ministro dell' Ambiente, Sergio Costa, ex generale dei carabinieri e autore delle indagini sulla tossica Terra dei fuochi campana. A gennaio 2019 annuncia la «piccola rivoluzione» del suo dicastero. «Ogni dipendente ha ricevuto una borraccia e abbiamo installato i distributori di acqua alla spina» informa Costa. Insomma, ragguaglia, «il ministero sta producendo una quantità di rifiuti di plastica ridotta all' osso». Ma è solo il primo passo. Il prossimo è la conquista della penisola. «Voglio un paese plastic free», sogna il militare chiamato da Luigi Di Maio. Il ministro invita tutti a liberarsi dagli orrendi inquinanti. Gli hanno dato retta in moltissimi, complici Greta e gli accorati allarmi sul riscaldamento globale. Comuni, regioni, imprese e università. Ma lo studio di quei monellacci della Sapienza ribalta ogni fulgida prospettiva. «Assistiamo ormai a una continua campagna di demonizzazione della plastica, in particolare delle bottiglie», commenta il presidente della Fondazione acqua, Ettore Fortuna, che ha commissionato la ricerca. «Ma andrebbe spiegato ai consumatori, intanto, che quelle in pet sono completamente riciclabili. Mentre, per quelle in alluminio, è fondamentale dare alle persone corrette informazioni per scegliere consapevolmente». Senza considerare che, segnala ancora lo studio, molte delle borracce esaminate non hanno il marchio Ce. Per capirsi: è quello che ha impedito due mesi fa la distribuzione delle mascherine prodotte da un' azienda lombarda, seppur certificata dal Politecnico di Milano. In attesa, nonostante all' epoca la devastante penuria di dispositivi, delle debite autorizzazioni dell' Istituto superiore di sanità. Solo che quei dispositivi erano commissionati dall'«impero del male» padano. Mentre le borraccette che rilascerebbero cromo, piombo, nichel sono entrate a far parte dell' armamentario dei buoni. A dispetto, certifica la ricerca della Sapienza, di possibili rischi per la salute. Per salvare il pianeta, meglio al momento ripiegare sul classico attraversamento pedonale delle vecchiette.
Così la plastic tax ammazza le aziende. Nicola Porro 9 febbraio 2020. Abbiamo scritto più volte della follia fiscale derivante dalla nuova tassa sulla plastica. Essa entrerà in vigore dal primo luglio di quest’anno e sarà pari a 45 centesimi a chilogrammo. Vogliamo rendere la cosa più chiara e parlare di un caso concreto, che dimostra come chi fa le leggi, conosce poco il mercato. Chiuso nella propria stanzetta al ministero, non sa cosa avviene, che so, a Merate in Brianza, dove tre donne portano avanti una bellissima azienda che produce imballaggi. Di plastica, appunto. Ve lo raccontiamo, con la speranza che i nostri politici, prima di imporre un nuovo balzello capiscano quanto esso possa compromettere il funzionamento di quella macchina delicata che si chiama economia produttiva. La nostra media azienda brianzola ha un buon fatturato, di qualche decina di milioni di euro, e margini compressi, come chiunque lavori in un mercato concorrenziale. Produce, tra l’altro, quella pellicola trasparente, azzurrognola, con la quale si imballano gli elettrodomestici. Uno dei suoi clienti (è una storia reale) è la Whirlpool. La stessa multinazionale che tra qualche mese chiuderà il suo impianto produttivo di Napoli, posto che esso perde un paio di milioni al mese. Troppo anche per loro, dicono i manager dell’azienda del bianco. Ma questo è un altro discorso. Torniamo in Brianza. La nostra impresa della plastica ha avuto l’ordine dalla Whirlpool di non fornire più la plastica alla fabbrica napoletana. Non tanto e non solo perché essa è destinata a non produrre più, ma anche perché la multinazionale ha dirottato gli imballaggi italiani tutti alla filiale polacca. È normale, d’altronde. Poniamo che per ogni lavatrice sia necessario un chilo di plastica per proteggerla. Ciò comporta più o meno un costo di un euro. Al quale però dal mese di luglio si dovranno aggiungere 45 centesimi di tassa. Il che vuol dire un incremento rilevantissimo. Se al contrario la nostra ditta brianzola fornisce la medesima imbracatura di plastica alla fabbrica polacca, ebbene il costo resta di un euro. La tassa infatti si paga solo per le produzioni fatte in Italia. Avete capito bene: una roba da pazzi. Si incentivano le imprese italiane e non solo a delocalizzare la produzione: non solo per i vantaggi competitivi su fisco e lavoro che molti Paesi comunitari offrono, ma ora anche per il costo degli imballaggi in plastica. Fino a quando, ovviamente, anche in Polonia non cercheranno di produrre in casa l’imballaggio, grazie a costi inferiori a quelli italiani, compromettendo centinaia di imprese della plastica identiche a quella nostra. Una follia economica, soprattutto per un paese che resta, grazie al Cielo, ma non ai politici, il secondo polo produttivo d’Europa. Se poi parliamo di un imbottigliatore, come quello della Coca Cola, beh, allora l’incentivo a scappare è doppio. Oltre al costo della plastica, si deve aggiungere anche l’aggravio sullo zucchero. È perfettamente razionale che la nostra più importante imbottigliatrice italiana stia pensando di spostare un pezzo della sua produzione in Albania. Quanto costa al sistema Paese, in termini di minori investimenti, più disoccupazione, meno incentivi a produrre, un set di tasse così distorsive? Non c’è una imposta giusta, al livello a cui siamo arrivati. È ovvio. Ma queste imposte su chi produce hanno il micidiale effetto di dispiegare i propri aspetti negativi nei prossimi anni: quando, chi ci governa oggi, si spera non ci sarà più. E coloro che ci governeranno domani, non avranno la forza per cancellarli. Come è avvenuto con la Tobin tax e il superbollo di Monti, solo per fare un esempio di imposte distruttive per la nostra industria. E che sono ancora là.
Una rete piena di gamberi e plastica: ecco cosa si pesca ogni giorno nei nostri mari. Pubblicato mercoledì, 12 febbraio 2020 su Corriere.it da Iacopo Gori. Una giornata con lo stesso peschereccio quattro anni fa e oggi: le immagini impressionanti dei rifiuti raccolti in mare in Salento. «Se continuiamo a inquinare così nel 2050 nuoteremo in un mare fatto dal 50% di pesci e 50% di plastica». Una rete piena di gamberi rossi. E di plastica. Succede nei mari bellissimi del Salento ma è la realtà quotidiana in qualunque altro mare italiano o mediterraneo. I dati del Wwf secondo cui «ogni anno nel mar Mediterraneo sono 570mila le tonnellate di plastica che finiscono in acqua, l’equivalente di 34mila bottigliette al minuto» sono una drammatica realtà documentata in maniera chiara anche con queste immagini. «Ho rifatto a fine gennaio la stessa giornata di pesca sullo stesso peschereccio quattro anni dopo. E ho messo a confronto i video che ho fatto le due volte, sono immagini impressionanti. Il problema della plastica in mare è diventato spaventoso. C’è una ricerca che dice che se continueremo con questo tasso di emissioni di rifiuti in mare entro il 2050 la plastica sarà uguale alla biomassa della fauna ittica: nuoteremo in un mare fatto dal 50% di pesci e 50% di plastica» dice Francesco Sena, 30 anni, apneista salentino che, oltre a raggiungere 50 metri di profondità senza bombole, sa usare bene anche video e social (è un influencer, anche se non vuole essere definito così). Sicuramente un esperto e appassionato di mare che documenta in diretta lo stato dei nostri mari. Un uomo che passa oltre 250 giorni l’anno nel Mediterraneo. «Abbiamo rifatto quattro anni dopo la stessa giornata di pesca a bordo del peschereccio Zeus, a 20 miglia dalla costa tra Gallipoli e Marina di Ugento. I pescatori stanno facendo un lavoro eccezionale: separano il pescato dalla plastica e grazie alla nuova normativa adesso possono riportare in porto la plastica raccolta in mare e mandarla a smaltire. Prima venivano multati se riportavano a terra i rifiuti raccolti durante la pesca perché per la legge diventavano loro stessi produttori di rifiuti». «Sembra incredibile ma era così prima della legge Salvamare dell’ottobre 2019» dice Paolo D’Ambrosio, direttore dell’Area marina protetta di Porto Cesareo in Puglia, assai sensibile al tema dell’inquinamento da plastica e microplastica. «Noi come area marina protetta avevamo già iniziato due anni fa a fare accordi con i 150 pescatori della marineria di Porto Cesareo. Abbiamo realizzato un ecocentro recintato e videosorvegliato dove i pescatori possono e devono smaltire i rifiuti raccolti in mare. La regione Puglia sta facendo i sopralluoghi per creare presto un ecocentro in ogni porto. Stiamo pensando a una serie di incentivi per spingere i pescatori a raccogliere sempre di più la plastica. Ogni anno nel mondo produciamo 300 milioni di tonnellate di plastica: di queste 13 finiscono nel mare. Il 70% dei rifiuti vanno a finire in fondo al mare, quelli che rimangono in superfice sono il 25% circa. Nel Mediterraneo non si formano le isole di rifiuti come in Oceano ma il nostro è il mare più inquinato di plastica di tutti. Il sud dell’Adriatico è un’area predisposta per le correnti marine all’ accumulo di plastica galleggiante».
Quanto possono aiutare davvero i pescatori in questa lotta impari contro la plastica?
«I pescatori possono dare un contributo importantissimo anche se da solo ovviamente non può bastare: occorre cambiare le nostre abitudini e ognuno di noi, a ogni livello, dal diportista al pescatore dilettante al semplice turista in spiaggia, può fare la propria parte. Senza dimenticare il consumo consapevole: quando andiamo a comprare qualcosa siamo attratti dal prodotto meglio confezionato, ce lo dicono ricerche e studi. Ecco, noi dobbiamo essere più consapevoli quado facciamo la spesa: evitare utilizzo di plastica monouso, cercare di comprare prodotti con materiale riciclato, trovare prodotti con confezioni semplici invece di imballaggi complessi più difficili da riciclare. Se adottiamo tutti insieme questo modo di fare, possiamo cambiare anche le produzioni delle multinazionali. Loro fanno i prodotti che noi cerchiamo: se noi tutti da domani cerchiamo prodotti sostenibili, le multinazionali si metteranno a produrli. Non va dimenticato che siamo noi in massima parte che contribuiamo a inquinare».
«L’ultima volta che sono andato all’Isola di Sant’Andrea davanti Gallipoli - prosegue Francesco Sena - ho trovato un fiume di plastica. Sì, si nota anche a vista d’occhio l’aumento esponenziale della plastica e dei rifiuti: chiunque va in mare si trova davanti questa triste realtà. E bisogna fare tutti qualcosa al più presto prima che ci sia tanta plastica quanto pesce».
Sena ha iniziato a fare apnea molto presto. A 18 anni ha iniziato a girare per i centri diving di mezzo mondo: nel Mar Rosso una volta ha incontrato Umberto Pellizzari, atleta straordinario che ha stabilito record mondiali in tutte le discipline dell’apnea. Dopo un paio di anni, Pellizzari ha chiamato Francesco a lavorare con lui: oltre a diventare suo allievo e collaboratore (nonché amico), Sena è diventato lui stesso istruttore di apnea, ha fondato l’Apnea Salento e d’inverno gira il mondo a tenere corsi (l’ultimo a dicembre a Pechino). Francesco è un uomo di mare, da sempre appassionato di apnea e pesca Francesco Sena (Foto Virginia Salzedo) sportiva, di vela e navigazione che ora sta spostando un’altra volta la bussola della sua vita: «Se alcuni anni fa pensavo quasi solo a fare tuffi sempre più profondi e a pescare, poi a studiare e insegnare l’apnea che è una disciplina complessa e affascinante, sia fisica che psicologica, adesso - anche grazie ai video che posto sul mio canale Youtube o alle visite di tante persone sui miei profili social - ho capito che volevo e dovevo allargare l’orizzonte e divulgare quello di cui sento sempre più l’esigenza: l’amore e il rispetto per il mare e per l’ambiente».
Giuliano Aluffi per “il Venerdì - la Repubblica” il 9 febbraio 2020. Mangiare una carta di credito non è un mirabolante trucco da fachiri, ma la normalità – inconsapevole – delle nostre vite: lo facciamo tutti una volta a settimana. Perché in sette giorni ingeriamo, in media, ben cinque grammi di plastica, l’equivalente, appunto, di una carta di credito. Lo dice uno studio che l’Università di Newcastle (Australia) ha realizzato per il Wwf, prendendo in considerazione 50 studi provenienti da vari Paesi del mondo. «Facendo una media globale, ogni settimana assorbiamo 1.769 particelle di plastica dall’acqua, 182 dai frutti di mare, 10 dalla birra e 11 dal sale» spiega il biologo marino Silvio Greco, dirigente di ricerca alla Stazione zoologica Anton Dohrn di Napoli e docente di Produzioni agroalimentari e sostenibilità ambientale all’Università di scienze gastronomiche di Pollenzo, nel Cuneese. Nel suo saggio La plastica nel piatto (Giunti Slow Food) Greco ci ricorda che la plastica ha ormai colonizzato ogni luogo, dai ghiacci dell’Antartide ai fondali marini, all’intestino umano. E non è strano, visto che dal 1950 la produzione è cresciuta di duecento volte, e non si ferma: ai ritmi attuali, nel 2030 si produrrà il 40 per cento in più di plastica rispetto a oggi. «Dobbiamo prestare sempre più attenzione alle nostre tavole» dice Greco. «Le microplastiche che ingeriamo hanno soprattutto la forma di fibre, e si trovano per lo più nell’acqua imbottigliata: provengono dalle stesse bottiglie». Nel 2018, in Germania, è stato misurato il contenuto di microplastiche di 38 acque minerali: 26 con bottiglie in Pet (polietilene tereftalato), di cui 15 a rendere e 11 monouso, 9 in bottiglie di vetro e 3 in contenitori di cartone rivestito. Sono state trovate in media 118 particelle per litro (per l’84 per cento di Pet e per lo più con dimensioni tra 5 e 20 micrometri) nelle bottiglie in Pet multiuso e 14 per litro nelle bottiglie monouso. Nelle bottiglie in vetro i microframmenti di plastica (provenienti dal tappo) erano invece in media 50 per litro e nei contenitori cartonati 11. «I contenitori di plastica multiuso rilasciano più particelle perché si logorano» osserva Greco. «Un altro recente studio, dell’Università di Catania, su dieci 10 marche di acqua minerale di largo consumo in bottiglie di Pet, è stato il primo a valutare – grazie a nuovi strumenti – le particelle al di sotto dei 10 micrometri. È stata trovata plastica – con concentrazione media di 656 microgrammi per litro – in tutti i campioni considerati. E si è notato che la presenza è correlata al pH dell’acqua: maggiore è l’acidità, più plastica si stacca dalla bottiglia. Le plastiche più rigide causano il rilascio di pochi frammenti grandi, quelle più morbide di molti frammenti piccoli». Meglio l’acqua del rubinetto: qui i microframmenti di plastica sono 22 volte di meno, ma comunque ci sono: in una ricerca del 2018 della State University di New York ne sono stati trovati nell’81 per cento dei campioni provenienti da acquedotti di 14 Paesi, tra cui l’Italia. Né è un rimedio rifugiarsi nella birra: studi tedeschi e americani su marche da supermercato hanno trovato fibre di polimeri in tutti i campioni. Nessuna relazione tra la loro quantità e quella nelle fonti d’acqua utilizzate: quindi la plastica nella birra potrebbe essere dovuta soprattutto alla lavorazione. E le fibre non risparmiano neppure il miele: uno studio tedesco le ha rintracciate in molti campioni, dovute agli strumenti usati nella lavorazione, ma anche al trasporto di granuli di plastica nell’alveare da parte delle api. «L’acqua ha un ruolo cruciale nell’assorbimento di microplastiche da parte del 55 per cento delle specie marine di importanza commerciale» spiega Greco. «Tra queste ostriche, vongole, gamberetti, scampi, acciughe, sardine, aringhe, sgombri e merluzzi. Mangiamo plastica – circa 0,5 grammi a settimana – soprattutto attraverso i molluschi, visto che li consumiamo interi, mentre i pesci vengono eviscerati». E l’acqua porta la plastica anche nel sale da cucina: «Diversi studi suggeriscono che le concentrazioni maggiori (550-681 particelle/kg) si trovano nel sale marino» spiega Greco. «Meno contaminati i sali di origine lacustre (43-364 particelle/kg) e rocciosa (7-204 particelle/kg)». Per il cibo che acquistiamo al supermercato in confezioni di plastica contano anche temperatura e tipo di alimento: «Gli alimenti grassi assorbono concentrazioni superiori degli additivi con cui si rende la plastica più resistente o impermeabile» spiega Greco. «Tra i plastificanti più usati ci sono gli ftalati che, non avendo un forte legame chimico con la plastica, migrano dalla confezione all’alimento e possono interferire con il funzionamento degli ormoni, per esempio abbassando il testosterone». Uno studio cinese del 2019 mostra che la migrazione degli ftalati dal packaging al cibo aumenta con la temperatura degli alimenti e con la durata dell’impacchettamento: i cibi più vicini alla data di scadenza mostrano il maggior accumulo. Meglio quindi orientarsi su quelli più freschi. Certo, servirebbero forse delle norme per regolamentare il settore. «Il problema è che non c’è ancora un numero apprezzabile di studi sugli effetti di tutta questa plastica sulla salute» sottolinea Greco. «Ecco perché abbiamo presentato all’Unione Europea un progetto di ricerca che unisce il mio istituto e il Sant’Orsola di Bologna, con l’oncoematologo Pier Luigi Zinzani». Si veriicherà, tra le altre cose, la presenza di microplastiche nel fegato. «I nostri studi sui pesci ci dicono che le microplastiche riescono a superare la barriera ematica e a finire nel fegato: potrebbe accadere anche nell’uomo». «A oggi sappiamo (studio dell’Università di Napoli, 2016) che le nanoparticelle di polistirolo fanno salire la produzione di due proteine infiammatorie associate a patologie gastriche». spiega ancora Greco. «Le particelle più piccole possono essere assorbite dalle cellule e migrare nei polmoni e altri organi, e innescare risposte immunitarie localizzate. Il Pvc poi può anche depolimerizzarsi, rilasciando monomeri di cloruro di vinile, fattore di rischio per i tumori». Soluzioni? «Rinunciare alla plastica è un’utopia. Bisogna ridurla, alzare la percentuale del riciclo e bandire il monouso». Oppure sulla tavola sarà sempre più difficile distinguere un piatto di plastica da quello che ci sta sopra.
L'Italia sta inondando di plastica la Malesia: un traffico illegale da più di mille tonnellate. I materiali che destiniamo al riciclo finiscono ad aziende dall’altra parte del mondo. Che non hanno autorizzazioni di alcun tipo e lavorano senza preoccuparsi dell'ambiente e della salute umana. L’indagine dell’unità investigativa di Greenpeace. Elisa Murgese, Unità Investigativa Greenpeace il 10 febbraio 2020 su L'Espresso. L'Oceano di rifiuti plastici si allunga a perdita d'occhio. Il forte odore non permette a tutti di avvicinarsi. Montagne di spazzatura alte fino a sei metri, dune di immondizia in contrasto con il verde vivido della foresta malese che, da terra incontaminata di Salgari, sta cambiando il suo profilo, diventando un immondezzaio a cielo aperto. Più si cammina in queste trincee di spazzatura, più è facile rendersi conto di quanto ci siano familiari i rifiuti che le compongono. “Cipolle prodotte in Italia”, si legge su un imballaggio in cima a un balla colma di confezioni di articoli di cui sono piene le nostre case; marchi di aziende e supermercati dal sapore più europeo che asiatico. Siamo a Port Klang, vicino Kuala Lumpur, in una delle numerosissime discariche illegali di rifiuti plastici stranieri della Malesia. Ecco che fine fa la plastica: invece di essere riciclata, è abbandonata dall'altra parte del mondo, senza alcuna sicurezza per l'ambiente e la salute umana. Un'inchiesta di oltre un anno, condotta sia in Malesia che sui documenti delle spedizioni dall'Italia, ha permesso all'Unità Investigativa di Greenpeace Italia di svelare un importante traffico illecito di rifiuti con l'aggravante dell'associazione per delinquere transnazionale. Un sistema ben organizzato, che ha permesso a più di 1.300 tonnellate di plastica italiana destinata al riciclo di essere spedite illegalmente ad aziende malesi prive di autorizzazioni. Dati alla mano, tra gennaio e settembre 2019, il 46 per cento dei rifiuti plastici italiani diretti in Malesia (ovvero circa 1.300 tonnellate su 2.880) è uscito dalla filiera legale, alimentando il business illegale dei rifiuti.
Le spedizioni fuorilegge. Tutto è nato da un faldone riservato consegnato nelle mani dell'associazione. Al suo interno, indizi sulle rotte dei rifiuti plastici cosiddetti misti, ovvero contenitori, film, pellicole industriali e residui plastici di ogni sorta largamente utilizzati nella nostra vita quotidiana ma di difficile riciclo (riconducibili al codice HS 3915 ). Si tratta della plastica che, fino a due anni fa, era spedita in Cina, partner privilegiato capace di ricevere il 42 per cento dei rifiuti plastici italiani esportati fuori dai confini europei . Tuttavia, nel 2018, il gigante asiatico ha detto stop all'import di questa plastica poco riciclabile e quindi molto inquinante e pericolosa per la salute. Il problema è che l'Occidente non ha frenato la produzione di questi rifiuti: per capire l'ampiezza del settore, basti pensare che l'Italia è al secondo posto in Europa per domanda di plastica. La nostra domanda annuale è di 7 milioni di tonnellate, un peso pari a 500 volte quello della torre di Pisa, di cui il 40 per cento sono imballaggi. Con queste cifre, inevitabile che i centri di selezione dei rifiuti continuino a riempirsi e i cargo a partire: non più diretti in Cina, ma verso nuove mete dei rifiuti globali.
La norma in Italia: "Esportare solo per riciclo". Ecco quindi spuntare il nome della Malesia, secondo Eurostat primo importatore di rifiuti plastici italiani nel 2018 e, nei primi nove mesi del 2019, al secondo posto con 7mila tonnellate, per un valore di quasi un milione e mezzo di euro. Di queste 7mila tonnellate, documenti confidenziali ottenuti da Greenpeace hanno permesso di capire che, da gennaio a settembre 2019, circa 2.880 tonnellate corrispondevano a rifiuti plastici destinati al riciclo e inviati in Malesia per via diretta (ovvero senza intermediari stranieri). Ma queste navi di immondizia sono state effettivamente spedite ad impianti in grado di riciclarli? Dopo mesi di richieste, Greenpeace ha ottenuto dal governo di Kuala Lumpur l'elenco ufficiale delle sole 68 aziende malesi autorizzate a importare e trattare rifiuti plastici dall'estero. Si tratta di impianti autorizzati perché in grado di rispettare standard minimi che garantiscano la protezione dell'ambiente e della salute umana. Ma da controlli incrociati con i documenti confidenziali, è risultato evidente come nei nei primi nove mesi del 2019 quasi la metà dei rifiuti diretti in Malesia sono stati spediti ad aziende prive dei requisiti obbligatori per legge. «Se quanto documentato fosse confermato dalla autorità, le contestazioni a carattere penale sarebbero elevate - precisa Paola Ficco, giurista ambientale e avvocatessa - e nello specifico saremmo di fronte ad attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti, traffico illecito di rifiuti e associazione per delinquere transnazionale». Ma il percorso che fa la plastica non appena diventa rifiuto è solo uno dei misteri di questa storia. Il secondo è dare un volto alle aziende malesi che - illegalmente - comprano la nostra plastica per riciclarla. Infatti, la norma europea è rigorosa e va di pari passo con quella malese. Il patto è semplice: l'Ue può esportare plastica solo per il riciclo, e la Malesia permette l'import “esclusivamente di plastica pulita e non contaminata”, come ha confermato Zuraida Kamaruddin, ministra malese dell'Edilizia abitativa e del Governo locale. In altre parole, Kuala Lumpur frena l'ingresso alla “spazzatura importata con la scusa del riciclo”, come la definisce la ministra dell'ambiente Yeo Bee Yin. Peccato che la realtà documentata sia ben diversa. Oltre ai controlli documentali, infatti, tra luglio e agosto dello scorso anno un team di Greenpeace ha condotto una spedizione in Malesia per documentare le condizioni delle aziende a cui vengono spediti i nostri rifiuti plastici. «Le immagini delle telecamere nascoste mostrano imprenditori malesi disposti a importare e trattare rifiuti italiani, sia plastica contaminata che rifiuti urbani, pur non comparendo nella lista delle aziende malesi autorizzate», spiega l'Unità Investigativa di Greenpeace Italia. «Visitando impianti di partner commerciali di aziende italiane in diverse aree della Malesia, abbiamo trovato condizioni di lavoro inaccettabili, operai che vivono all'interno delle fabbriche e vicino a cumuli di rifiuti ancora in combustione», continua Greenpeace. Inoltre, l'associazione ambientalista ha documentato, proprio accanto agli impianti di una delle aziende che ha importato rifiuti plastici dal Belpaese, un incendio illegale di materie plastiche nonché un terrapieno composto da rifiuti di plastica anche italiani.
"Malattie respiratorie in aumento”. Un traffico illegale che sta avendo effetti negativi tangibili sulla quotidianità dei cittadini malesi, costretti a vivere in un territorio sempre più inquinato. «Ciò che trasportano i container non corrisponde quasi mai a quanto dichiarato nella documentazione - conferma YB Ng Sze Han, membro del comitato esecutivo dello Stato malese di Selangor - La maggior parte delle volte si tratta di un miscuglio di rifiuti plastici. La parte che può essere riciclata è davvero bassa, forse il 20-30 per cento. Tutto il resto deve essere gettato da qualche parte, e questo provoca enormi problemi e inquinamento». A confermarlo, le analisi di acqua, suolo e frammenti di plastica condotte dall'associazione ambientalista in Malesia in alcuni siti illegali di rifiuti plastici stranieri. I risultati sono allarmanti. «Abbiamo trovato livelli elevati di contaminazione per numerose sostanze chimiche pericolose per l'ambiente e per l'uomo», dichiara Giuseppe Ungherese, campagna inquinamento di Greenpeace. Nel dettaglio, nei campioni di frammenti di plastica presenti nel suolo sono state rilevate elevate concentrazioni di metalli pesanti (come cadmio e piombo) rispetto ai livelli riscontrati in natura e la presenza di composti organici persistenti come i ritardanti di fiamma bromurati e ftalati, noti interferenti endocrini utilizzati nella produzione di alcune materie plastiche. «Abbiamo trovato sostanze chimiche pericolose anche nei campioni di cenere, misti a materie plastiche, raccolti all'interno di uno dei siti illegali di stoccaggio dove sono stati rilevati idrocarburi, tra cui il benzo(a)pirene, noto cancerogeno per l'uomo». Un inquinamento che si traduce in numeri, come quelli dei pazienti del Metro Hospital a Sungai Petani, area a nord ovest del Paese circondata da fabbriche illegali del riciclo. «I pazienti con asma e problemi respiratori sono aumentati del 20-30 per cento rispetto allo scorso anno», precisa Tneoh Shen Jen, primario del Metro Hospital. «Abbiamo inviato esposti e report ufficiali alle autorità competenti - fa eco Santha Devy, avvocatessa che sta seguendo le proteste dei cittadini locali - ma nessuna azione è stata intrapresa».
Controllati solo il 2,5 per cento dei container. «Questi Paesi emergenti - precisa Stefano Vignaroli, presidente della Commissione di inchiesta sulle attività illecite connesse al ciclo dei rifiuti - come la Malesia, non sono preparati a gestire questo flusso di rifiuti ma ne sono attratti dal guadagno che rappresenta”. Di cifre parla anche Zuraida Kamaruddin, ministra malese con delega ai rifiuti: «L'intero settore della plastica in Malesia vale oltre 6 miliardi di euro. È un business pulito che potrebbe dare benefici economici al nostro Paese. Se non proveremo a trarne vantaggio economico noi, lo farà qualcun altro - continua la ministra - D'altronde, perché dovremmo uccidere un settore economicamente rilevante solo perché il nostro sistema di controllo non è abbastanza forte?». E infatti, le spedizioni di rifiuti dall'Occidente non sembrano fermarsi. Ma come è possibile che alcuni imprenditori italiani non rispettino la normativa europea, inviando materiale plastico non adatto al riciclo o peggio ancora verso aziende prive di autorizzazioni? Secondo la Direzione Distrettuale Antimafia, meno del 2,5 per cento dei container che spediamo dai porti italiani è ispezionato con visita merci. Lo conferma la giurista ambientale Paola Ficco: «I controlli soffrono di carenze di organico e di fondi per poter affrontare complesse e costose attività di intelligence, le uniche a poter garantire un intervento mirato sulla esagerata mole di containers che affolla i nostri porti». Una mancanza che, a conti fatti, sembra agevolare il traffico illecito di rifiuti. «La gestione dei rifiuti è il metro del nostro livello di civiltà e di responsabilità e raccoglierli in modo differenziato non basta. Esportare i rifiuti significa affermare la propria incapacità di gestire il problema - chiude la giurista Ficco -. Se è vero che dobbiamo proteggere l'ambiente che ci è più prossimo e la nostra salute, questo non ci autorizza ad offendere quello di chi è lontano da noi e minare la sua salute». Eppure, «la maggior parte degli occidentali non è consapevole di tutto questo», chiude il politico malese YB Ng Sze Han. Infatti, siamo abituati a sbarazzarci del problema della plastica gettandola nel bidone corretto. Un gesto virtuoso ma che, a conti fatti, sembra solo lavarci la coscienza. «Pensate che il vostro Paese stia facendo un ottimo lavoro con la raccolta differenziata e che la percentuale di rifiuti effettivamente riciclati sia molto alta. Peccato che non sia affatto così».
· Com'è difficile riciclare.
Le discariche sono una macchina da soldi (sporchi) che non conosce crisi. In Italia ci sono migliaia di depositi abusivi o semi abusivi che sempre più spesso vanno a fuoco. E un sistema che unisce i clan alla cattiva imprenditoria. Perché tonnellate di monnezza possono diventare oro. Floriana Bulfon su L'Espresso il 15 settembre 2020. Incendio in una discarica abusiva in Emilia-RomagnaCascate di immondizia ingoiate da grandi buchi neri, lì dove da sempre si cementa il patto tra boss e imprenditori senza scrupoli: ancora oggi questo è il business migliore per i colletti bianchi in cerca di soldi sporchi. Si arricchiscono grazie alla grande incertezza che imprigiona l’Italia della spazzatura. La differenziata langue, non si investe in impianti per produrre energia dai rifiuti e nemmeno si costruiscono termovalorizzatori. Così le discariche continuano a proliferare. Quelle legali sono oltre 120 e secondo l’Ispra (l’Istituto superiore per la ricerca e la protezione ambientale) nel 2018 hanno digerito 6,5 milioni di tonnellate di immondizia, oltre il 20 per cento del totale. La Commissione Ue ci impone di dimezzarle entro il 2035 ma non è un obiettivo facile: nonostante sia vietato dalla fine degli anni Novanta, andiamo avanti persino a gettare i rifiuti senza sottoporli ad alcun trattamento. Si prosegue sulla spinta dell’emergenza tra stoccaggi pieni, mancanza di sbocchi e colonne di camion che ogni anno trasferiscono la raccolta delle regioni meridionali. Al Nord si trovano ben 26 dei 38 impianti di incenerimento con recupero di energia, 173 sui 281 centri di compostaggio. Perché dove esiste un ciclo integrato dei rifiuti, l’uso delle discariche è ridotto al minimo: in Lombardia solo il 4 per cento; in Friuli Venezia Giulia il 7; in Trentino Alto-Adige il 9. In queste regioni la differenziata viaggia al 70 per cento: la stessa percentuale che la Sicilia getta in discarica. Una scelta dannosa per l’ambiente ma conveniente per le amministrazioni: seppellire i rifiuti costa in media 110 euro a tonnellata, in Campania addirittura 60 euro. Per questo Legambiente ritiene sia fondamentale un intervento più deciso: «Una nuova ecotassa che premi i comuni più virtuosi, capaci di ridurre il rifiuto indifferenziato avviato allo smaltimento e introduca mille nuovi impianti di riciclo per raggiungere l’obiettivo rifiuti zero in discarica». Il sistema ha un altro punto debole: i soldi sono pubblici, ma lo smaltimento è sempre più in mano ai privati. Che spesso pur di ottenere i profitti scelgono qualsiasi scorciatoia. Il campionario è vasto. Rifiuti trattati da chi ha licenze, accaparrati con triangolazioni e certificati con false fatture e simulazioni di avvenuto recupero. O trasportati con auto di scorta e poi bruciati nel tunnel dello smaltimento illegale che stanno trasformando la pianura padana nella nuova “terra dei fuochi”. In assenza di impianti, ecco gli inceneritori fai-da-te che provocano emissioni di diossina micidiali: decine di capannoni riempiti di scarti e dati alle fiamme. L’alternativa al vecchio metodo di seppellire nel terreno, spesso anche nei parchi, che resta comunque in voga: nel Gargano a inizio anno sono stati trovati scarti dei cantieri edili distribuiti in 11 mila metri quadrati. «Quello dei rifiuti abbandonati è un fenomeno esteso su quasi tutto il territorio nazionale», spiega il numero due del comando per la tutela ambientale dei Carabinieri Giuseppe Cavallari. «A cui si aggiungono gestioni improprie da parte di aziende che sono autorizzate ma trattano più rifiuti del dovuto e non li smaltiscono nel giusto modo, senza tutelare l’ambiente e i cittadini». Da gennaio 2019 a oggi i militari hanno sequestrato oltre 40 discariche non autorizzate e denunciato più di 3.300 persone.
I DANNI CHE NESSUNO PAGA. Incendiare è ancora più conveniente: nell’ultimo anno ci sono stati oltre 250 roghi dolosi di depositi, che rendono velenosa l’aria. Ad Aprilia, sul litorale romano, l’ultimo incendio ad agosto al deposito della Loas Italia, con un titolare già arrestato per aver smaltito illecitamente rifiuti, ha causato un picco di diossina pauroso, che ha battuto il precedente del 2017. Allora a pochi chilometri di distanza era andata in fiamme la Eco X di Pomezia: un’area di stoccaggio con 5 mila tonnellate di plastica in più di quelle autorizzate. La società è fallita, lasciando il conto da pagare per la bonifica. Le regole prevedono che chi chiede la licenza per aprire una discarica vincoli una somma a garanzia di eventuali problemi, ma fidejussioni e assicurazioni si rivelano spesso tarocche. A Brescia la Procura ha scoperto un traffico di polizze false stipulate in Romania e Bulgaria e gestite dal clan camorristico dei Mallardo. A Treviso due funzionari della Provincia hanno accettato fideiussioni rilasciate da intermediari finanziari inadeguati e intanto le società dopo aver inquinato per anni sono fallite. La Commissione parlamentare Ecomafie sta svolgendo un’inchiesta su questi castelli di carte che dovrebbero garantire almeno gli indennizzi: «Il censimento sta portando alla luce molte irregolarità. Si va da polizze false a garanzie emesse da società insolventi o fallite, fino a siti privi di qualsiasi copertura fideiussoria», spiega il presidente Stefano Vignaroli. Della pulizia delle discariche ora si fa carico la struttura guidata dal commissario Giuseppe Vadalà, che ha permesso in tre anni di decurtare le multe inflitte dalla Ue per le infrazioni dei vincoli europei: sono stati risparmiati 16 milioni ed entro dicembre un’altra decina di siti saranno messi a posto, ma ne rimangono ancora quaranta.
MALAGROTTA 2, L’ETERNO RITORNO. Roma resta la città eterna dei rifiuti perduti. Monte Carnevale è una cava esaurita a pochi metri da Malagrotta, l’ex più grande discarica d’Europa chiusa dopo molte battaglie e sei anni di sanzioni milionarie dall’Ue. La grande pattumiera dell’Urbe non è ancora stata bonificata, ma quella cava per la sindaca Virginia Raggi è la soluzione per dare sfogo alle tonnellate d’immondizia prodotte dalla metropoli. La Regione Lazio ha chiuso l’impianto di Colleferro e il Campidoglio deve trovare un’alternativa, anche a costo di spaccare il M5S. Monte Carnevale è a pochi metri dalle case, da una riserva naturale protetta, dall’aeroporto di Fiumicino (con la sicurezza del traffico aereo a rischio per gli stormi di gabbiani richiamati dai rifiuti) e pure da un centro interforze del ministero della Difesa che ha manifestato perplessità per la sicurezza. Il proprietario, Valter Lozza, rischia di prendere il posto del “supremo” Manlio Cerroni trasformandosi nel nuovo “re della monnezza”. Già condannato in primo grado per aver tentato di corrompere un perito del tribunale e accusato dalla procura di Roma per aver smaltito rifiuti pericolosi, gestisce altre due discariche nel Lazio. Precedenti che non imbarazzano gli amministratori pubblici. Per ora il Consiglio di Stato ha sospeso solo l’autorizzazione a ricevere insieme fanghi e inerti, ma - sottolinea la giurista ambientale Paola Ficco - «suscita più d’una perplessità che la Regione Lazio abbia pensato di conferirli alla stessa categoria di discarica. Inoltre la Regione non intende sottoporre il progetto alla valutazione d’impatto ambientale, aggirando la legge». Alla fine, conteranno solo le leggi dell’emergenza: il tempo è poco e l’immondizia è tanta. Lo scorso luglio la Procura ha disposto anche il sequestro dell’impianto di Rocca Cencia, a est della capitale, dopo le denunce dei residenti per i miasmi: smaltiva 700 tonnellate di indifferenziato. L’altro, quello del Salario, è andato a fuoco nel 2018. E non si può sperare nella differenziata: avrebbe dovuto raggiungere il 70 per cento entro il prossimo anno, ma i numeri reali sono un mistero. Così la discarica resta l’unica alternativa all’invasione dei sacchi neri nella capitale.
L’IMPORTANTE È “CUMMIGHIARE”. Il «simbolo della crisi rifiuti in Sicilia», come l’ha definita la Commissione antimafia regionale, è la grande collina di proprietà del Comune che da decenni mastica l’immondizia di Palermo. A Bellolampo, poche settimane fa, un dirigente è stato sorpreso mentre intascava una tangente da 5 mila euro. L’ultimo episodio di un calvario, tra sequestri e dissequestri, danni ai macchinari e incendi e le colonne di Tir che trasportano i rifiuti dall’altra parte dell’isola e li consegnano nelle mani dei privati. In Sicilia non ci sono termovalorizzatori né grandi impianti di compostaggio. Solo discariche. Un affare che nel 30 per cento dei casi passa da affidamenti diretti perché la perenne emergenza non ammette gare. È così che la “munnizza”si trasforma in oro. Qui si dice “cummigghiare”, coprire e far sparire, con tanto di pubblici ufficiali a libro paga pronti a informare dei controlli. «Tieni», dice Leonardi mentre le microspie registrano il rumore dei soldi, «con questo ti fai il Ferragosto». Un sistema organizzato che ha creato veleni con «limiti di contaminazione regolarmente superati, emissioni di biogas, potenziale contaminazione delle acque sotterranee». Accade a Siculiana, nell’impianto della famiglia di Giuseppe Catanzaro, già presidente della Confindustria locale. Se quarant’anni fa Leonardo Sciascia scriveva «l’immondizia arriva alle ginocchia e la mafia alla gola», oggi la Sicilia rischia di esplodere nella bomba creata dalla grande alleanza tra clan, imprenditori e colletti bianchi.
UNA FILIERA DELL’ILLEGALITÀ. Rifiuti che viaggiano, gare al ribasso e cavilli in cui le mafie hanno grandi margini di guadagno attraverso società formalmente in regola, che gestiscono all’apparenza lecitamente i rifiuti. A lanciare l’allarme è la Direzione Investigativa Antimafia: il business dei rifiuti è una testa di ponte per allargare connessioni con il mondo imprenditoriale. E così in provincia di Como un soggetto vicino alle famiglie calabresi si è proposto di trasferire gli scarti in Calabria per smaltirli in cave abusive. E poi vagoni carichi di monnezza diretti in Bulgaria con documenti falsi. Le regole impongono alle aziende certificazioni, ma proliferano mediatori senza scrupoli pronti a un giustificativo su misura. Spostando il problema altrove: all’estero o nei depositi che poi vengono bruciati. Un ottimo affare, il fuoco, perché offre soldi facili e pochi rischi: come ha dimostrato la commissione Ecomafie, nella maggior parte dei casi nessuno risponde.
E LA PANDEMIA AIUTA IL CRIMINE. A fine marzo, nel pieno dell’epidemia di Covid, la differenziata si ferma e le discariche si allargano. Una circolare del ministero dell’Ambiente permette alle regioni di aumentare l’accumulo fino al 20 per cento. Il che crea un grande interesse criminale: «La ‘ndrangheta in particolare sfrutta la pandemia per fare affari con lo smaltimento di rifiuti contaminati, rilevando società attraverso prestanome», rivela Alessandra Dolci, a capo della Direzione Distrettuale Antimafia e anticorruzione di Milano. Secondo l’ex procuratore di Civitavecchia ed esperto in temi ambientali Gianfranco Amendola ormai «si va in totale contrasto con il decreto del 2003 che qualifica come discarica qualsiasi area ove i rifiuti sono sottoposti a deposito temporaneo per più di un anno». Si possono infatti parcheggiare gli scarti nel primo capannone: un permesso provvisorio. Così come erano provvisorie le ecoballe campane, che da vent’anni però continuano a seminare veleni.
Francesco Malfetano per “il Messaggero” il 6 luglio 2020. Almeno 25 anni. È quanto dovrebbe durare la vita di un televisore nelle intenzioni di chi lo progetta. Il più delle volte però, per motivi diversi come incompatibilità o nuovi standard tecnologici, dopo 7 anni il costoso ex oggetto del desiderio finisce nel cassonetto. Lo stesso vale per gli smartphone (pensati per durare in media 5,2 anni ma gettati dopo meno di due) o per computer, frigoriferi, condizionatori e in genere tutta la tecnologia che si trova nelle nostre case. Una montagna di dispositivi che a ritmo serrato entrano dalla porta principale ed escono passando per la spazzatura. Il risultato è che nel 2019 si è raggiunto il record di rifiuti elettronici prodotti arrivando a toccare le 53,6 milioni di tonnellate. Vale a dire circa 7 chilogrammi per abitante. Smartphone più, smartphone meno. Una quantità pari ad almeno 350 navi da crociera che, come se non bastasse il circolo vizioso consumista, hanno nel proprio destino le discariche a cielo aperto di tutto il mondo. Un viaggio lungo che, come spiega il rapporto Global E-waste Monitor 2020 redatto dall'Onu in collaborazione con diverse università e la International Solid Waste Association, nella maggioranza dei casi parte dal Vecchio Continente. Gli europei infatti hanno la maggior produzione di e-waste, 16,2 chili, seguiti da Oceania (16,1), America (13,3), Asia (5,6) e Africa (2,5). Per l'Italia il rapporto stima una produzione di poco più di un milione di tonnellate, superiore a quello della Spagna ma molto inferiore a Gran Bretagna (1,5) e Germania (1,6), con una produzione procapite però tra i 15 e i 20 chilogrammi, tra le più alte. Numeri che peraltro sono destinati a crescere. Entro il 2030 si stima che saranno 74 milioni le tonnellate di rifiuti tech prodotti. Una tendenza che per essere compensata avrebbe bisogno di una crescita altrettanto impetuosa del riciclo di questi materiali. Peccato che nel 2019 siano stati riciclati solo il 17,4% di rifiuti nonostante il 71% della popolazione mondiale viva in Paesi che hanno regolamentazioni specifiche sui cosiddetti Raae (Rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettroniche). Politiche che però evidentemente non funzionano a dovere. Non è un caso se l'Ue sta cercando di intervenire per limitare i cicli di vita brevi dei prodotti e garantire più opzioni per la riparazioni. Una visione che l'ha portata a inizio anno anche scontrarsi con un colosso come Apple. Bruxelles infatti ha votato una risoluzione con cui imporrà ai produttori di adeguarsi allo standard Type-C per la ricarica dei dispositivi. L'obiettivo è fare in modo che i consumatori non debbano acquistare ogni volta nuovi caricabatterie e cavi (nel caso della Apple è diventato uno dei settori più redditizi) e, quindi, ridurre l'impatto tech sul Pianeta. L'Italia dal canto suo, stando al Centro Coordinamento Raae, vanta per il 2019 una raccolta media pro capite di 5,68 chilogrammi, circa il 43% del totale. Un buon risultato che deve migliorare, se non per motivi ambientali almeno per quelli economici. «I Raee rappresentano una fonte di materie prime che potrebbe affrancare il Paese dalle importazioni provenienti da Cina, Africa e Sud America», spiega Danilo Fontana, ricercatore dell'Enea. Secondo le stime dell'Agenzia per l'innovazione infatti, dal trattamento di 1 tonnellata di schede elettroniche è possibile ricavare 129 kg di rame, 43 kg di stagno, 15 kg di piombo, 0,35 kg di argento e 0,24 kg di oro, per un valore complessivo di oltre 10 mila euro. «Ma finora in Italia il settore si ferma al trattamento iniziale, quello meno remunerativo, lasciando ad operatori esteri il compito di recuperare la parte nobile del rifiuto». Un'opportunità che saremmo già pronti a sfruttare. I ricercatori di Enea hanno infatti messo a punto Romeo, il primo impianto pilota in Italia - a Roma - per il recupero di materiali preziosi da vecchi computer e cellulari. Un processo che si sta cercando di trasferire all'industria e che ha una resa del 95%nell'estrazione di oro, argento, platino, palladio, rame, stagno e piombo. Il tutto con il minimo impatto ambientale dato che le emissioni gassose vengono trattate e trasformate in reagenti da impiegare nuovamente nel processo stesso.
Pneumatici ricostruiti: risparmio di 54,8 milioni. Pierluigi Bonora Lunedì 01/06/2020 su Il Giornale. Questi dati di grande interesse per l’economia del Paese e per l’ambiente emergono dal bilancio ecologico ed economico della ricostruzione di pneumatici in Italia nel 2019 redatto da Airp (Associazione Italiana Ricostruttori Pneumatici). Ben 54,8 milioni di euro. È questo il risparmio che è stato possibile ottenere nel 2019 in Italia grazie all’impiego di pneumatici ricostruiti. Non solo: sempre nel 2019 il ricorso alla ricostruzione di pneumatici ha consentito al Paese di ridurre i consumi energetici di ben 23,3 milioni di litri di petrolio ed equivalenti, di risparmiare materie prime per 17.150 tonnellate ed evitare di immettere nell’ambiente 20.580 tonnellate di pneumatici usati e 9.090 tonnellate di CO2. Nonostante i ragguardevoli risultati conseguiti, Airp sottolinea come il settore degli pneumatici ricostruiti stia attraversando una fase di difficoltà e che i benefici economici e ambientali ottenuti grazie all’uso di pneumatici ricostruiti potrebbero essere ancora maggiori se vi fossero adeguate politiche a sostegno del settore. La quota di mercato degli pneumatici ricostruiti, evidenzia Airp, si è ridotta sia in Europa che in Italia e ciò dipende dalla concomitanza di diversi fattori. Un primo motivo è da rintracciare nella rinnovata concorrenza sul mercato europeo degli pneumatici nuovi a basso costo, ma di qualità tale da non poter essere sottoposti a ricostruzione. Per correggere le storture dovute a questo tipo di concorrenza sleale, nel 2018 sono stati introdotti dall’Unione europea dazi antidumping sulle importazioni di pneumatici cinesi nuovi e ricostruiti. Si tratta di una misura che nel breve periodo è stata positiva, ma tuttavia non risolutiva. Il secondo motivo che ha influito sul calo del ricostruito è legato al rallentamento generale del mercato degli pneumatici di ricambio. Infine, un terzo motivo è da ricercare nella situazione delicata in cui versa il settore dell’autotrasporto italiano, che è fortemente penalizzato dalla crisi economica che stiamo vivendo. Va ricordato, infatti, che gli utilizzatori finali di pneumatici ricostruiti sono proprio in gran parte operatori italiani di autotrasporto di merci e persone, in quanto gli pneumatici ricostruiti sono utilizzati oggi soprattutto su flotte di camion e autobus sia private che pubbliche. Viste le grandi valenze positive dell’impiego degli pneumatici ricostruiti e il ruolo altamente strategico giocato da questi ultimi nel campo dell’economia e della sostenibilità ambientale, Airp chiede pertanto maggiore attenzione al settore e auspica che vengano messe in campo misure e strumenti che possano favorirne la crescita, guardando in particolare all’imminente recepimento, da parte del Governo italiano, delle direttive europee sull’economia circolare: un’occasione che si auspica possa essere sfruttata per assumere provvedimenti concreti a favore dei settori che, come la ricostruzione dei pneumatici, si pongono da sempre come un perfetto esempio di economia circolare.
Il business delle gomme dismesse sottratto alle mafie: diventano asfalti per strade più silenziose e resistenti. Pubblicato mercoledì, 20 maggio 2020 su Corriere.it da Alessio Ribaudo. Immaginate di andare da Milano a Viterbo percorrendo oltre 500 chilometri lungo tutto l’Italia. Ora immaginate se questo avvenisse in modo più silenzioso e la strada che scorre sotto i vostri pneumatici fosse tre volte più resistente all’usura e alla formazione di buche o crepe. Ecco, questo non è fantascienza ma solo ciò che è avvenuto, nel nostro Paese, impiegando il polverino di gomma che è stata riciclata dalle gomme esauste cambiate dagli italiani. Dal 2006, infatti, una direttiva dell’Unione Europea vieta l’invio degli pneumatici nelle comuni discariche, riconoscendo alla gomma riciclata qualità e valore meritevoli di un recupero obbligatorio. Eppure fino al settembre del 2011 non esisteva un sistema nazionale che ne gestisse il ciclo completo di raccolta. Prima di questa data ogni anno, ha stimato Legambiente, sparivano nel nulla — o si disperdevano in canali poco chiari — fino a 100 mila tonnellate di pneumatici fuori uso: circa un quarto di tutti quelli venduti. Un «buco» dove si infilavano i tentacoli della criminalità organizzata: dalla mafia alla ‘ndrangheta passando per la camorra. In più, le casse dello Stato perdevano centinaia di milioni di euro d’introiti per il mancato gettito d’Iva prodotto e ne dovevano sborsare altrettanti per bonificare le discariche abusive che le procure sequestravano. Non poche visto che gli inquirenti, dal 2005 al 2010, ne avevano individuate 1.049 con un’estensione complessiva di 6 milioni di metri quadrati. Senza considerare i danni economici ingenti per le imprese «pulite». Legambiente arrivava a concludere che il business complessivo per il malaffare sfiorava i due miliardi di euro. Dopo il 2011, invece, la musica è cambiata e l’intero sistema di recupero e smaltimento è finanziato da un contributo ambientale che ogni acquirente paga comprando un pneumatico nuovo (l’esborso varia a seconda del mezzo e del peso) e che serve esclusivamente ad assicurare la corretta gestione del pneumatico a fine vita. La filiera, coordinata da Ecopneus, ha ritirato in giro per il Paese oltre 220mila tonnellate di pneumatici fuori uso che poi sono serviti anche per realizzare solo lo scorso anno oltre 170mila metri quadri di nuove strade realizzate in tutto il Paese. Sono una tecnologia dalle elevate prestazioni e con più di 50 anni di esperienze internazionali, dagli Usa alla Svezia fino alla Spagna, a cui in Italia si sono già affidate 38 Province. Secondo i dati forniti da Ecopneus, a oggi, sono stati realizzati complessivamente in Italia oltre 520 chilometri di corsie di strade con l’impiego di asfalto modificato. «Monitoriamo alcune strade con asfalto modificato realizzate anche 10 anni fa e le condizioni in cui si trovano così come le prestazioni meccaniche e acustiche sono praticamente inalterate rispetto la messa in esercizio — ha dichiarato il direttore Generale di Ecopneus Giovanni Corbetta — e per il futuro, auspichiamo a breve la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale del nuovo decreto “End Of Waste”, già firmato dal Ministro all’Ambiente Costa, che potrà dare rinnovato slancio e spinta ad una sempre maggiore diffusione di questa tecnologia. I primi risultati di una recente sperimentazione in corso sulla rete stradale Anas hanno confermato le proprietà di questi asfalti ed è emerso che l’impiego di tecnologie e materiali eco-compatibili rappresentano oggi la soluzione tecnica che centra meglio gli obiettivi di riduzione dell’impatto ambientale, assicurando al contempo prestazioni in esercizio ottimali».
Com'è difficile riciclare la carta. Il prezzo della carta da riutilizzare è crollato. Il recupero e la raccolta vanno a rilento e molto città non riescono così a smaltirla. Francesco Bonazzi il 16 gennaio 2020 su Panorama. Ci sono pochi gesti che soddisfano la nostra (cattiva) coscienza ecologica come riciclare la carta. È facile, non ci si sporca le mani come con le scatolette di tonno che grondano olio, ogni tanto si pensa agli alberi salvati e all’Amazzonia che ci ringrazia. E ci sono tutti quei comunicati stampa trionfali dei Comuni, che annunciano percentuali di riciclo svedesi, dal 70 per cento in su. Ma poi succede che negli ultimi mesi sempre più cittadine sono costrette ad ammettere che la raccolta della carta va a rilento, in alcuni casi si blocca, per un motivo che non è nella nostra disponibilità e si potrebbe tranquillamente registrare alla voce «globalizzazione pazza». Come il clima. Perché dopo la guerra commerciale con gli Usa di Donald Trump, la Cina ha magicamente elevato gli standard di qualità della carta riciclata che importa anche dall’Europa e ha iniziato a fare da sola. Peccato che molta carta venisse dall’Italia, che a sua volta ha un’industria che negli ultimi anni ha perso terreno e non può assorbire tutta la materia prima (tecnicamente, sarebbe materia secondaria) che ricicliamo ogni giorno con le migliori intenzioni. Il racconto della favola virtuosa del riciclo della carta comincia a incrinarsi lo scorso autunno, come effetto di un prezzo della materia ritirata che nel giro di un anno crolla da 50 euro la tonnellata a pochi spiccioli. Molti impianti stanno in sostanza lavorando in perdita e in alcune zone d’Italia la raccolta della carta potrebbe presti diventare a rischio. Come in Brianza, area ricca e virtuosa, dove alle abitazioni si aggiungono anche parrocchie, oratori e associazioni di volontariato che si fanno in quattro per non sprecare un singolo cartone. Eppure a fine novembre il Centro Brianza Maceri, il CBM, ha quasi alzato bandiera bianca e ha lanciato l’allarme: «Abbiamo i magazzini stracolmi di carta e non sappiamo proprio come smaltirla» hanno detto al quotidiano Il Giorno i fratelli Alessandro, Mauro e Luca Pellegatta. Ogni anno il CBM riceve oltre 90 mila tonnellate di carta e cartone, che rappresenta quasi il totale dei conferimenti della Brianza. Ma nelle ultime settimane, non potendo rifiutare quanto arriva dai Comuni, alcuni impianti del Nord hanno iniziato a mandare indietro il materiale spedito da associazioni e parrocchie. Certo, la crisi che cova sotto il ciclo della carta mal si concilia con quello che sindaci e amministratori locali sono sempre più ansiosi di far sapere ai cittadini, anche solo per spronarli a comportamenti più ecologici e responsabili. In tutta Italia, dalle Alpi alla Sicilia, non si contano le rassegne stampa di Comuni che annunciano incrementi a doppia cifra del riciclo, anno su anno. E i dati messi a disposizione dall’Istat lo scorso 24 ottobre sono davvero incoraggianti: ormai l’86 per cento della popolazione effettua regolarmente la separazione e il riciclo della carta. Se poi si sente la campana del Comieco, il Consorzio nazionale per il recupero e il riciclo degli imballaggi a base di cellulosa, torna davvero il buon umore. Nel suo rapporto sul 2018, presentato quest’estate, si legge che l’Emilia-Romagna ha raggiunto i 90 chili per abitante, seguita dal Trentino Alto Adige (83 chili) e dalla Valle d’Aosta (79,6 chili). Ormai gli italiani raccolgono in media oltre 56 chili di carta per cittadino, un paio in più del 2017 e secondo quanto ha dichiarato il Comieco a luglio, «tutto il materiale cartaceo è poi interamente riciclato dalle cartiere italiane» e «siamo di fronte a un sistema industriale, quello del riciclo della carta e del cartone, che è tra i primi del Vecchio continente ed è punto di riferimento internazionale». Sarà che quando le cosiddette categorie produttive vanno in Parlamento tendono un po’ tutte alla lagnanza, ma durante i lavori della commissione Ambiente della Camera, che ha in piedi un’indagine conoscitiva su carta e imballaggi, il trionfalismo ha lasciato spazio alle reali preoccupazioni del settore. Nell’audizione del 7 maggio scorso Giuliano Tarallo, presidente di Unirima (l’organizzazione delle aziende che provvedono al recupero e al riciclo e gestisce il 90 per cento del ciclo con 1,2 miliardi di fatturato e 3.500 dipendenti), innanzitutto ha spiegato che le cartiere italiane assorbono circa 4,5 milioni di tonnellate all’anno (nel 2018), ma quasi due milioni di tonnellate finiscono all’estero, in gran parte in Europa ed Estremo Oriente. E ai deputati, Tarallo aveva sottolineato con diversi mesi d’anticipo un concetto che spiega molto delle difficoltà di oggi: «Ogni volta che parliamo del ciclo della carta, del Comieco e dell’accordo con i Comuni, delle cartiere o del sistema industriale cartario italiano, dobbiamo sempre ricordarci che in realtà parliamo di un sistema che, dal punto di vista di un’economia circolare, non è autosufficiente. Noi siamo produttori di fibre in eccesso rispetto a quelle che il nostro sistema industriale riesce effettivamente a riutilizzare». Una tonnellata su tre, dunque, va all’estero. O così dovrebbe per non imballare la macchina del riciclo in un mercato ormai saturo da oltre un anno. Il mese scorso, Unirima ha rotto gli indugi e ha lanciato l’allarme occupazionale per 5 mila lavoratori, indotto compreso. L’Italia sta producendo oltre sei milioni e mezzo di tonnellate di carta pressata, ma le cartiere italiane ne possono accogliere non più di cinque, e adesso Pechino ha alzato le barriere nell’ambito delle sue disfide commerciali con la Casa Bianca. Da noi il prezzo del cartone da riciclare, secondo la Camera di commercio di Milano, è crollato dell’83 per cento nell’ultimo anno. Va detto che tutto questo pessimismo non è condiviso da Assocarta (Confindustria), che rappresenta 117 cartiere per sette miliardi e mezzo di fatturato oltre 19 mila lavoratori. Innanzitutto perché il riciclo non è certo l’unica fonte di approvvigionamento di fibre e poi perché in effetti mancano alcuni impianti di trasformazione. Ma soprattutto, Unirima ha fatto notare già a fine novembre che «l’intenzione cinese di limitare le importazioni di rifiuti e di carta da riciclare, era stata annunciata ampiamente e non può essere considerata una sorpresa. Negli anni passati i commercianti di rifiuti e materiali per il riciclo sono stati “abituati” da attraenti mercati asiatici, con prezzi fissati da soggetti che, spesso, prescindevano dai meccanismi dell’economia di mercato». Gli squilibri del mercato, e il crollo dei prezzi della carta da riciclare, in ogni caso restano. E anche in un comparto che si credeva virtuoso e conveniente per tutti possono arrivare gli effetti imprevisti di una globalizzazione decisamente disordinata. Il rischio è che la raccolta della carta diventi puro volontariato.
Acqua minerale con vetro a rendere: ecco come risparmiare 950.000 euro di petrolio al giorno. Domenico Affinito e Milena Gabanelli su Il Corriere dell sera il 21 gennaio 2020. Emergenza clima, non si parla d’altro, e attendiamo tutti che qualcun altro faccia qualcosa. Intanto nel nostro piccolo possiamo fare tante cose. Prendiamone una: siamo i campioni mondiali di consumo di acqua minerale in bottiglia. Ogni italiano ne beve, stando agli ultimi dati, 224 litri a testa all’anno: 11 miliardi di bottiglie. L’84 è in plastica e solo il 10/15% finisce negli impianti di riciclo, il resto va nei termovalorizzatori, in discarica o disperso nell’ambiente, spesso in mare, dove diventano microplastiche ingoiate dai pesci e che poi ci ritroviamo nel piatto. Considerando che il peso medio di una bottiglia vuota è 40 grammi, produciamo 369,6 mila tonnellate di plastica all’anno solo per l’acqua, che equivalgono a 5,87 milioni di barili di petrolio in un anno (per fare un kg di Pet servono 2 kg di petrolio).
Il vetro sì, ma possiamo fare meglio. Se vogliamo bere acqua minerale dovremmo scegliere quella in vetro, che è più salubre (l’esposizione delle bottiglie di plastica al sole ne altera la qualità) e inoltre questo tipo di vetro viene quasi completamente riciclato. A oggi, invece, solo il 16% degli 11 miliardi di bottiglie è in vetro. Se consideriamo poi che solo l’8/10% è vuoto a rendere (fonte ministero dell’Ambiente), e che la stessa bottiglia lavata e sterilizzata, può essere riutilizzata fino a 30 volte, ha più senso acquistare bottiglie con vuoto a rendere. Un sistema che nel nord Europa rappresenta il 70% del mercato, e che ha un impatto ambientale ancora più basso. Di quanto? Lo abbiamo calcolato.
Il vuoto a rendere costa meno e riduce le emissioni. Prendiamo il vuoto a perdere: depositiamo la nostra bottiglia nella campana del riciclo, un camion la ritira e la porta al centro di raccolta, dove un altro camion la porta all’impianto di frantumazione, e un altro ancora parte poi per la vetreria per la fusione in un forno a 1400 gradi. Da qui esce la bottiglia nuova, che su un camion torna al produttore di acqua per l’imbottigliamento. Totale: 4 passaggi. Col vuoto a rendere la stessa bottiglia passa da casa nostra al deposito e poi al produttore che la sterilizza e la riusa. La metà dei passaggi, che vuol dire migliaia di km in meno con camion che viaggiano sulle strade. E poi c’è il tema dei costi di produzione. Nel 2018 in Italia sono state immesse sul mercato 2.472,2 miliardi di tonnellate di vetro (bottiglie per l’acqua, vino, pomodoro, barattoli ecc), di cui il 76,2% proveniente da riciclo (fonte Coreve). Per produrre un kg di vetro riciclato serve un kg di petrolio, il 75% del quale serve solo al processo di fusione. Se calcoliamo che nel 2018 in Italia, abbiamo riciclato 1,62 miliardi di bottiglie di acqua minerale che equivalgono a circa 1,06 miliardi di kg di vetro, il conto è presto fatto: con il vuoto a rendere non avremmo utilizzato 5,9 milioni di barili di petrolio, che equivalgono a circa 950 mila euro al giorno. In sostanza: meno consumo di petrolio e meno emissioni di CO2.
Perché pochi lo fanno. Minor impatto ambientale quindi, e meno costi per le aziende, alle quali serve solo una lavatrice industriale per sterilizzare le bottiglie. E allora perché solo l’8/10% del mercato delle acque minerali in vetro è a rendere? Perché molti produttori preferiscono pagare di più la bottiglia nuova che fare un investimento e costruire un impianto di lavaggio vicino alla fonte. A questo si aggiungono le necessità dei supermercati che dovrebbero affrontare costi di gestione per l’organizzazione di spazi di raccolta. Il ministero dell’Ambiente aveva anche provato a incentivare il vuoto a rendere. Il 3 luglio del 2017 ha pubblicato un regolamento che avviava la sperimentazione della restituzione delle bottiglie in vetro per uso alimentare e un monitoraggio tramite raccolta dati per valutare la fattibilità tecnico-economica ed ambientale del meccanismo. Una sperimentazione completamente fallita. Non solo i dati non sono mai arrivati al Ministero, ma alla sperimentazione dedicata bar, ristoranti e alberghi hanno aderito poche decine di realtà in tutta Italia. Un fatto che la dice lunga sulla consapevolezza del problema, inclusi molto market che vendono solo biologico, dove trovi le stesse marche che fanno vuoto e rendere, ma loro la bottiglia non la riprendono.
Le nostre scelte cambiano il mondo. La filiera però impiega poco a organizzarsi se noi consumatori decidessimo in massa di acquistare acqua solo in bottiglie con vuoto a rendere, e da una fonte che non sta a 1000 km. Rispetto al vetro a perdere il costo è uguale. È di qualche centesimo più alto rispetto alla bottiglia di plastica? Ne vale la pena. E se è troppo vale anche la pena ricordare che, salvo particolari prescrizioni mediche, l’acqua del rubinetto di casa, in quasi tutto il Paese è di buona qualità ed è controllata: la legge impone controlli temporali più serrati di quelli per le acque minerali. Però secondo Istat il 29% delle famiglie italiane non si fida dell’acqua di casa, ma si tratta di un timore infondato. Uno studio di Legambiente del 2018 ha dimostrato che in una degustazione alla cieca è quasi impossibile distinguere l’acqua imbottigliata da quella del rubinetto. Mentre lo studio condotto con l’Università di Milano Bicocca, ha stabilito che l’acqua cittadina di Genova, Venezia, Milano e Palermo ha una composizione chimica sovrapponibile a quella delle principali acque minerali. In sostanza, le emissioni si riducono anche con la somma di piccole scelte, che dipendono solo da noi e senza fare nemmeno troppa fatica.
· La retorica ambientalista.
Perché in Italia siamo sempre in emergenza. Trombe d'aria, piogge alluvionali, grandinate. Il nostro paese è un hotspot del cambiamento climatico con costi per centinaia di miliardi. Ma il Piano elaborato nel 2017 è rimasto nel cassetto. Stefano Liberti su
L'Espresso il 14 ottobre 2020. I numeri sono impressionanti: 163 trombe d’aria da inizio anno, 204 piogge alluvionali, 459 grandinate con chicchi di diametro superiore ai 2 centimetri. L’incidenza sempre maggiore dei fenomeni meteorologici estremi - misurata dalla banca dati europea European severe weather database - dimostra in modo inequivocabile quello che decine di studiosi ripetono ormai da anni: l’Italia è un hotspot climatico, un luogo dove le conseguenze del surriscaldamento globale sono più evidenti che altrove. Non passa giorno senza che un’area del paese non sia colpita dagli effetti di quello che viene genericamente definito “maltempo”, ma che in realtà è il portato dei mutamenti del clima.
Da "elledecor.com" il 22 giugno 2020. L'evento si chiama Concierto Para al Bioceno ed è lo spettacolo di riapertura, dopo il lockdown, che il Gran Teatro del Liceu di Barcelona ha organizzato per il 22 giugno. Tuttavia, al posto di suonare davanti a un pubblico in carne e ossa, l'Opera House avrà in platea un gruppo di... piante. Distanziamento sociale? Non sarà necessario, così come guanti e mascherine. Perché a sostituirli sarà opportuno che ci siano vasi e acqua a sufficienza per 2.292 piante. L'idea è coordinata dall'artista concettuale Eugenio Ampudia e l'intera serata andrà in diretta online, dalle 17, sulla sito del Gran Teatro, e il Quartetto d'archi UceLi si esibirà in Crisantemi di Puccini. Ovviamente, nessuno è impazzito: secondo il direttore artistico del Liceu, Víctor García de Gomar, il concerto vuole indurre a riflettere sullo stato attuale della condizione umana e su come, in isolamento, siamo diventati "un pubblico privato della possibilità di essere pubblico". Ha continuato affermando che "quando i due violini gemelli, la viola e il violoncello del quartetto di UceLi suoneranno per il regno vegetale, alle 17 di lunedì, gli esseri umani diventeranno gli spettatori della loro stessa cronaca sociale". Il messaggio arriva forte e chiaro. Proprio la Spagna, uno fra i paesi più colpiti dal Coronavirus, si dichiara così, attraverso l'arte, eticamente schierata a favore dell'ambiente, appoggiando nuove idee ed esperienze per riorganizzare gli spazi condivisi in luoghi dove la natura sia l'elemento principe. "In un momento in cui una parte importante dell'umanità si è rinchiusa in spazi chiusi ed è stata costretta a rinunciare al movimento, la natura si è insinuata in avanti per occupare gli spazi che abbiamo ceduto", ha detto Ampudia. "E lo ha fatto al suo ritmo, secondo il suo paziente ciclo biologico. Possiamo allargare la nostra empatia e farla valere su altre specie? Cominciamo usando l'arte e la musica e invitando la natura in una grande sala da concerto".
(LaPresse il 6 febbraio 2020) - "Cosa non si fa per salvare la poltrona! Costa non era il ministro del rifiuto zero e dei no continui agli impianti? Oggi, dopo essersi finalmente reso conto che è impossibile attuare quello che diceva, diventa il promotore numero uno della costruzione di impianti per chiudere il ciclo dei rifiuti. La Lega lo diceva da sempre ma lui solo oggi Costa se n’è accorto. Cosa non fa fare la voglia di mantenere la poltrona". Lo dichiara la deputata della Lega Vannia Gava, già sottosegretario all’ambiente e responsabile dipartimento Ambiente del Carroccio.
Alessandro Farruggia per “QN” il 6 febbraio 2020. Plaude alla riduzione degli sprechi alimentari. Lancia un appello a Regioni e Comuni a darsi una mossa per costruire gli impianti che servono per chiudere il ciclo dei rifiuti. Promette all'Europa che l'Italia sul clima sarà in prima fila. Così il ministro dell'Ambiente Sergio Costa. Ministro Costa, l'Italia, sembra avere molte potenzialità sul fronte della economia circolare.
«Intanto è il Paese con le migliori performance nel settore. Siamo i maestri dell'economia circolare. lo ci credo così tanto che nella riorganizzazione del ministero dell'Ambiente che ho previsto una direzione generale per l'economia circolare».
A novembre è stata approvata la legge sull'end of waste. Che affetti avrà sull'economia circolare e su uno dei temi chiave che è quello dei rifiuti, oggi spesso risorsa sprecata e anzi fonte di inquinamento?
«La legge dice: signore Regioni e Province autonome, siete libere di individuare i vostri end of waste' fatelo, mentre lo Stato interverrà con decreto su alcune materie specifiche: lo abbiamo già fatto per i pannolini, lo faremo per il polverino da pneumatici fuori uso, la carta da macero, i rifiuti da demolizione, il tessile. Noi abbiamo ceduto alle Regioni una nostra potestà perché vogliamo che si sviluppi velocemente l'economia circolare. Abbiamo in buona sostanza liberalizzato il sistema: manteniamo solo il controllo. Adesso è chiaro che c'è una responsabilità politica e gestionale delle Regioni. Ora tocca a loro».
Sui rifiuti in molte Regioni, specie al Sud, non ci siamo proprio. Basti pensare alla mancanza di impianti di riciclo e alla mancanza di sbocchi per le materie prime seconde.
«Il problema è l'impiantistica. I player della gestione dei rifiuti sul territorio italiano sono le Regioni e i Comuni. I Comuni hanno la competenza della raccolta, le Regioni hanno l'obbligo della definizione del piano regionale dei rifiuti. Il piano dei rifiuti, che quasi tutte le Regioni han-no, e già il quasi la dice lunga, prevede un'analisi territoriale dei flussi dei rifiuti e di quanti impianti servono. La scelta è quindi a livello regionale e territoriale. E qui occorrerà dare risposte. Prendiamo il compost. Se non hai gli impianti per il compost stai rinunciando a una filiera del riciclo dell'umido che oscilla tra il 35 e il 45% della raccolta differenziata. Ergo, gli impianti, laddove servono, vanno fatti. Noi la nostra parte la facciamo. Ma non è che le Regioni possono abdicare al loro ruolo. Senza polemiche».
Per la prima volta c'è una tendenza positiva sul fronte degli sprechi alimentari.
«C'è un trend positivo del 25% in un anno, che è tanto. Di questo dobbiamo ringraziare la legge Gadda ma anche alla crescita di consapevolezza dei cittadini grazie alle campagne di sensibilizzazione. Ora dobbiamo arrivare al -50%».
Cambiamenti climatici, è con-vinto che bisogna fare molto di più ?
«Ne sono più che convinto, tan-to è vero che noi ci siamo mossi prima del Green New Deal europeo, stanziando fondi importanti. L'Italia è disponibile a fare uno sforzo supplementare. Rifaremo il Piano nazionale energia e clima e lo renderemo più ambizioso. L'obiettivo di chiudere le centrali a carbone al 2025 è realistico, e forse le aziende potrebbero volontariamente anticipar-ne la chiusura anche al 2023. Quanto ai trasporti, Enel X sta facendo un grosso lavoro sulla rete di colonnine di ricarica, qui adesso il tema è la semplificazione amministrativa. E poi, potenzieremo il più possibile i traspor-ti pubblici sostenibili: ho appena stanziato 180 milioni di euro per le Regioni del bacino padano che potranno essere usati per bus a zero impatto».
L'impatto dell'uomo sulla natura? Una storia che dura da milioni di anni. Giacomo Talignani su La Repubblica il 23 gennaio 2020. Uno studio internazionale su Ecology Letters ricostruisce la nostra avanzata sulla natura risalendo alle origini. Da sempre l'abilità umana è stata concausa della scomparsa di alcune specie animali. Ma solo oggi ne siamo consapevoli. Lo facciamo dalla notte dei tempi, e non abbiamo mai smesso. Mettiamo a rischio la biodiversità, rubiamo spazio e cibo, stravolgiamo gli ecosistemi. Noi, gli uomini, siamo "colpevoli" dell'impatto sulla natura da milioni di anni e soltanto negli ultimi secoli la nostra avanzata sul mondo animale e vegetale è diventata strutturale, costante, di proporzioni gigantesche, inarrestabile grazie a innovazione e tecnologia, ad agricoltura e a un clima cambiato anche a causa nostra. L'impatto umano sulla biodiversità non è dunque, come si è spesso ipotizzato, una questione soltanto della nostra specie, ma sarebbero stati i nostri antenati i primi a far pesare la loro intelligenza e forza nel delicato equilibrio fra specie. Ad affermarlo è lo studioBrain expansion in early hominins predicts carnivore extinctions in East Africa pubblicato sulla rivista Ecology Letters da un team di ricercatori svedesi, svizzeri e britannici che testimonia - attraverso analisi di fossili, reperti, teschi, glaciazioni e altri componenti climatiche - come l'avanzata dell'uomo sulla natura sarebbe stata di gran lunga precedente a quanto creduto finora. I nostri antenati, come l'Australopithecus e Ardipithecus, potrebbero infatti "aver contribuito all'estinzione di alcune specie", magari semplicemente a causa della lotta per il cibo. Il risultati dello studio si basano soprattutto sull'osservazione del declino dei grandi mammiferi osservato nell'Africa orientale: qui i tassi di estinzione hanno iniziato ad aumentare circa quattro milioni di anni fa quando probabilmente i primi australopitechi iniziarono a vivere e predare in alcune aree dove sono stati ritrovati i fossili analizzati. "Adesso, più che mai, stiamo influenzando negativamente il mondo e le specie che lo abitano. Ma questo non significa che in passato vivevamo in vera armonia con la natura" ha affermato uno degli autori principali dello studio, il biologo Søren Faurby dell'Università di Göteborg. "Oggi siamo riusciti a monopolizzare del tutto le risorse, e i nostri risultati mostrano che questo potrebbe essere accaduto fin dai nostri antenati" chiosa il ricercatore. Fra le prove principali dello studio nel sostenere l'impatto dei nostri antenati sulla biodiversità c'è un approfondito esame dei tassi di estinzione di grandi e piccoli carnivori correlati all'aumento delle dimensioni nel cervello umano e ai cambi di vegetazione, più che alle precipitazioni o ai cambiamenti della temperatura. In sostanza, più il cervello dei nostri antenati si sviluppava, più questi riuscivano a prevalere su animali entrando in competizione per il cibo e fino a portare alcune specie verso l'estinzione. E soprattutto, già allora, in Africa orientale i nostri antenati dimostravano di adottare comportamenti che si sono rivelati decisivi per la sopravvivenza o per la scomparsa delle specie: uno di questi era il cleptoparassitismo. Come oggi fanno molti animali, ad esempio iene o avvoltoi, i nostri antenati "rubavano" le prede uccise da altri carnivori. Questo, raccontano alcune prove fossili, portò alla fame alcune specie che finirono per estinguersi. Altre invece si adattarono: come i leopardi che portano le loro conquiste sugli alberi, oppure i leoni che cacciano in gruppo proteggendosi a vicenda. "La monopolizzazione delle risorse è una abilità che noi e i nostri antenati abbiamo da milioni di anni, ma solo ora siamo in grado di comprendere e cambiare il nostro comportamento, lottando per un futuro sostenibile" conclude lo scienziato scandinavo Faurby, ricordandoci per il futuro, come diceva la sua connazionale Astrid Lindgren autrice di Pippicalzelunghe, che "se sei molto forte, devi anche essere molto gentile".
La civiltà non è nata per impulso verso il progresso, ma per salvarci da una catastrofe ambientale provocata da noi. Nick Longrich, Paleontology and Evolutionary Biology, University of Bath. Questo articolo è tradotto da The Conversation e pubblicato su it.businessinsider.com il 21/1/2020. L’agricoltura e la civilizzazione potrebbero essere state inventate non perché erano un miglioramento del nostro stile di vita ancestrale, ma perché non avevamo più scelta. Perché ci abbiamo impiegato cosi tanto a inventare la civilizzazione? I moderni Homo sapiens hanno iniziato a evolversi tra i 250.000 e i 350.000 anni fa. Ma i primi passi verso la civilizzazione – la raccolta, e poi la domesticazione delle piante coltivate – sono iniziati solo 10.000 anni fa circa, mentre le prime civiltà sono apparse 6.400 anni fa. Per il 95% della storia della nostra specie, non abbiamo coltivato, né creato grandi insediamenti o complesse gerarchie politiche. Abbiamo vissuto in gruppi nomadi di cacciatori-raccoglitori. Poi qualcosa è cambiato. Siamo passati da una vita di cacciatori-raccoglitori alla raccolta e poi alla coltivazione delle piante, e infine alle città. Sorprendentemente, questa transizione è iniziata solo dopo la scomparsa della megafauna dell’era glaciale: mammut, i megateri (bradipi giganti), i megaloceri (cervi giganti) e i cavalli selvaggi dello Yukon. Non è ancora chiaro perché noi esseri umani siamo diventati agricoltori, ma la scomparsa degli animali da cui dipendevamo per nutrirci potrebbe aver costretto la nostra cultura all’evoluzione.
In Francia, gli uomini cacciavano bestiame selvatico, cavalli e cervi 17.000 anni fa. Gli uomini primitivi erano abbastanza intelligenti da coltivare e allevare. Tutti i gruppi di uomini moderni hanno livelli di intelligenza simili, cosa che indica come le nostre capacità cognitive si sono evolute prima che queste popolazioni si separassero circa 300.000 anni fa, e in seguito sono cambiate poco. Se i nostri antenati non hanno coltivato piante, non è stato perché non erano abbastanza intelligenti. Qualcosa nell’ambiente glielo impediva, o semplicemente non ne avevano bisogno. Il riscaldamento globale alla fine del periodo dell’ultima glaciazione, 11.700 anni fa, ha probabilmente facilitato la coltivazione. Temperature più elevate, stagioni di crescita più lunghe, aumento delle precipitazioni e stabilità climatica di lungo periodo hanno permesso la coltivazione di superfici più vaste. Ma è improbabile che la coltivazione fosse impossibile ovunque. La Terra ha inoltre assistito a molti periodi di riscaldamento simili – 11.700, 125.000, 200.000 e 325.000 anni fa –, ma i primi riscaldamenti non hanno stimolato esperimenti di coltivazione. Il cambiamento climatico non può essere stato l’unico fattore scatenante.
Probabilmente, anche la migrazione umana ha contribuito. Quando la nostra specie si è diffusa dall’Africa meridionale attraverso il continente africano, in Asia, Europa e poi nelle Americhe, abbiamo scoperto nuovi ambienti e nuove piante commestibili. Ma le persone hanno occupato queste parti del mondo ben prima che iniziasse l’agricoltura. La domesticazione delle piante è arrivato decine di millenni dopo la migrazione umana.
Segale, una delle prime colture. Se le opportunità per creare l’agricoltura erano preesistenti, allora il ritardo nella sua invenzione suggerisce che i nostri antenati non dovevano, o non volevano, coltivare. L’agricoltura comporta svantaggi significativi rispetto alla caccia. Richiede sforzi maggiori e offre meno tempo libero e una dieta di qualità peggiore. Se i cacciatori sono affamati al mattino, possono avere cibo sul fuoco alla sera. L’agricoltura richiede un duro lavoro oggi per produrre cibo dopo mesi – o non produrne affatto. Richiede la conservazione e la gestione delle momentanee eccedenze alimentari per nutrirsi tutto l’anno. Un cacciatore che ha avuto una brutta giornata può tornare a caccia il giorno dopo o cercare altri e più ricchi terreni di caccia; ma gli agricoltori, legati alla terra, sono alla mercé dell’imprevedibilità della natura. Le piogge che arrivano troppo presto o troppo tardi, siccità, gelate, calamità o locuste possono provocare cattivi raccolti e carestie.
L’agricoltura comporta maggiori svantaggi rispetto alla caccia. L’agricoltura presenta anche svantaggi militari. I cacciatori-raccoglitori si muovono e possono percorrere grandi distanze per attaccare o ritirarsi. La continua pratica con lance e archi li ha resi combattenti letali. Gli agricoltori sono radicati ai propri campi e alle scadenze dettate dalle stagioni. Sono bersagli prevedibili e stazionari, le cui scorte di cibo tentano estranei affamati. E se si fossero evoluti con quello stile di vita, gli uomini avrebbero semplicemente preferito essere cacciatori nomadi. Gli indiani Comanche hanno combattuto fino alla morte per conservare il proprio modo di vivere da cacciatori. I boscimani del Kalahari dell’Africa meridionale continuano a resistere alla trasformazione in agricoltori e pastori. Sorprendentemente, quando gli agricoltori polinesiani hanno incontrato i numerosissimi uccelli incapaci di volare della Nuova Zelanda, hanno abbandonato l’agricoltura in massa, creando la cultura Maori dei cacciatori di moa.
Abbandono della caccia. Ma qualcosa cambiò. Da 10.000 anni fa in poi, gli uomini hanno costantemente abbandonato lo stile di vita di cacciatori-raccoglitori a favore dell’agricoltura. Può darsi che in seguito all’estinzione dei mammut e degli altri animali di grandi dimensioni dall’epoca del Pleistocene, e alla caccia eccessiva delle restanti prede, lo stile di vita dei cacciatori-raccoglitori sia diventato meno praticabile, spingendo le persone a raccogliere e poi coltivare piante. La civilizzazione potrebbe non essere nata per un impulso verso il progresso, ma un disastro, una catastrofe ecologica hanno costretto gli uomini ad abbandonare i loro stili di vita tradizionali.
Quando gli uomini hanno abbandonato l’Africa per colonizzare nuovi territori, i grandi mammiferi sono scomparsi ovunque mettessimo piede.
In Europa e Asia, gli animali di grandi dimensioni come i rinoceronti lanosi, i mammut e i cervi giganti sono spariti tra i 40.000 e i 10.000 anni fa.
In Australia, i canguri giganti e i vombati sono spariti 46.000 anni fa.
In Nord America, cavalli, cammelli, armadilli giganti, mammut e i bradipi giganti di terra sono diminuiti e scomparsi tra i 15.000 e i 11.500 anni fa, seguiti dalle estinzioni in Sud America tra i 14.000 e gli 8.000 anni fa.
In seguito alla diffusione degli uomini nelle isole caraibiche, in Madagascar, Nuova Zelanda e Oceania, si è estinta anche la relativa megafauna.
Le estinzioni degli animali di grandi dimensioni seguivano fatalmente gli uomini. Allevare grandi animali come cavalli, cammelli ed elefanti rende meglio che non cacciare piccola selvaggina come i conigli. Ma i grandi animali come gli elefanti si riproducono lentamente, e fanno pochi figlio rispetto ai piccoli animali come i conigli, rendendoli vulnerabili alla caccia eccessiva. E così, ovunque andassimo, la nostra ingegnosità umana – cacciare lanciando le frecce, radunare gli animali con il fuoco, farli precipitare da dirupi – ha fatto sì che catturassimo i grandi animali più velocemente di quanto loro riuscissero a riprodursi. È stata senza dubbio la prima emergenza ambientale.
Con la scomparsa delle nostre prede, siamo stati costretti a inventare la civilizzazione. Non potendo più vivere come una volta, gli uomini sono stati costretti a innovare, concentrandosi maggiormente sulla raccolta e poi sulla coltivazione di piante per sopravvivere. Ciò ha portato alla crescita delle popolazioni umane. Mangiare piante invece di carne rappresenta un uso più efficiente della terra, dato che l’agricoltura può sostenere più persone nella stessa area rispetto alla caccia. Ci si è potuto stabilire permanentemente. Costruendo insediamenti e poi civilizzazioni. I reperti archeologici e fossili ci dicono che i nostri antenati avrebbero potuto esercitare l’agricoltura, ma lo hanno fatto solo quando non hanno avuto che poche alternative. Verosimilmente avremmo cacciato per sempre cavalli e mammut, solo che lo facevamo troppo bene eliminando probabilmente la riserva di cibo. L’agricoltura e la civilizzazione potrebbero essere state inventate non perché erano un miglioramento del nostro stile di vita ancestrale, ma perché non avevamo più scelta. L’agricoltura è stato un disperato tentativo di riparare le cose una volta che avevamo preso più di quanto l’ecosistema avesse potuto sostenere. In questo caso, abbiamo abbandonato la vita di cacciatori dell’era glaciale per creare il mondo moderno, non con lungimiranza e intenzione, ma per caso, a causa di una catastrofe ambientale che abbiamo provocato migliaia di anni fa.
Dal “Corriere della Sera” il 14 gennaio 2020. Parola composta da «hippo», termine greco che significa cavallo, e «bus», a indicare un calesse trainato da un cavallo con l' aiuto di una batteria elettrica. L'hippobus (o equibus) è il mezzo usato già da qualche anno per portare i bambini a scuola in un paesino francese, Vendargues nell' Herault. A Rouen, in Normandia, l' assessore ambientalista ha promesso che in caso venga rieletto a marzo sostituirà lo scuolabus con un analogo servizio di calesse. Meno emissioni di Co2, sfruttando la forza dei cavalli.
Stefano Montefiori per il “Corriere della Sera” il 14 gennaio 2020. L' assessore ambientalista Jean-Michel Bérégovoy è fiero della sua iniziativa e ne fa una ragione in più per essere rieletto, il 15 marzo prossimo, al comune di Rouen, in Normandia: il prossimo anno scolastico i bambini del quartiere Grieu andranno a scuola in «equibus», un calesse trainato da un cavallo con l' aiuto di una batteria elettrica. Tre chilometri e mezzo e una ventina di minuti di percorso per divertire gli allievi e rinunciare all' autobus, riducendo almeno un po' i gas di scarico. A Vendargues nell' Herault, 900 chilometri più a Sud, il servizio di scuolabus a cavallo si chiama «hippobus» e funziona già da qualche anno. Ma a Rouen l' idea del calesse scolastico si scontra con la protesta di due abitanti della vicina Sotteville, Manu Tritz e la sua compagna Stessy, che hanno organizzato una petizione online raccogliendo in pochi giorni 34 mila 500 firme. «Comprendiamo e condividiamo la volontà di proporre un modello alternativo di trasporto per ridurre l' inquinamento - si legge nella petizione - ma c' è un parametro che non è stato minimamente preso in conto: il benessere dell' animale». Manu e Stessy sono due militanti anti-specisti, cioè rifiutano la gerarchia tra le specie, la superiorità di quella umana e la sopraffazione delle altre. Quindi si oppongono al fatto che un cavallo venga fatto marciare sull' asfalto, e sia costretto a trainare un calesse con una ventina di bambini a bordo - sia pure con l' aiuto della batteria elettrica - in mezzo alle auto. L' opposizione degli anti-specisti, e ancora di più il grande appoggio che ha ricevuto, ha sorpreso il signor Bérégovoy, che si è sentito fare una lezione di sensibilità ambientale e animalista, dopo averne impartite tante nella sua carriera di politico locale ecologista. «Non so più cosa dire. Mi preoccupo da sempre del benessere degli animali, mi sono opposto per esempio all' uso degli animali nel circo. Ma qui ci siamo informati, abbiamo fatto attenzione alla qualità e alla leggerezza dei finimenti, abbiamo pensato alla trazione assistita elettricamente, e al percorso dove c' è poco traffico. È vero che il cavallo viene messo al servizio dell' uomo, ma è un modo per farlo entrare nella vita quotidiana degli esseri umani. Se è questo a dare fastidio, finiremo per proibire anche i cani che aiutano i ciechi o quelli che soccorrono gli alpinisti travolti dalle valanghe?». I militanti anti-specisti ricordano che le carrozze trainate dai cavalli sull' asfalto suscitano polemiche da tempo, che una grande metropoli come Montréal, dove venivano usate per i turisti, le ha proibite, e sostengono che l'«equibus è una falsa buona idea, in realtà solo marketing ambientalista a basso prezzo». La disputa locale rivela una frattura filosofica più profonda sull' atteggiamento da tenere nei confronti degli animali, anche presso persone che dicono di avere a cuore il loro benessere. Gli anti-specisti sono contrari a qualsiasi tipo di sfruttamento e quindi di allevamento, e favorevoli per esempio ai numerosi esperimenti in corso in tutto il mondo per arrivare alla carne artificiale ottenuta coltivando in vitro cellule staminali di animali, senza far nascere, crescere e morire essere viventi. Altri, come l' ex allevatrice e oggi ricercatrice agronomica Jocelyne Porcher, nemica degli allevamenti industriali, pensano che la causa animalista portata alle estreme conseguenze possa paradossalmente nuocere all' esistenza stessa di molte specie. «Gli animali sono stati addomesticati dall' uomo migliaia di anni fa, e lavorano per noi da sempre - ha detto Porcher al Figaro -. Se aboliamo il loro lavoro, non saranno più redditizi e scompariranno. Come sta accadendo in Asia, dove la fine progressiva del lavoro degli elefanti sta provocando l' estinzione della specie». L'equibus al posto dello scuolabus a Rouen ha provocato lo scontro tra queste diverse sensibilità. Gli anti-specisti Manu e Stessy non sopportano di vedere un cavallo che fatica per il piacere dei bambini e la buona coscienza degli uomini, convinti così di inquinare un po' meno. L'assessore ambientalista Bérégovoy, e molti con lui, pensano che solo così animali come mucche e cavalli continueranno a esistere.
Alessandro Oppes per “la Repubblica” il 12 gennaio 2020. Basta con l' aereo, molto meglio il treno che non inquina. La decisione finale non spetta a lei, ma la sindaca di Barcellona, Ada Colau, ci prova comunque. Con una proposta provocatoria che ha subito scatenato un polverone di polemiche, ha chiesto ai responsabili dell' aeroporto internazionale El Prat di sopprimere il volo tra la capitale catalana e Madrid. Quello che in Spagna tutti conoscono come "puente aereo", il ponte che collega le due principali metropoli del Paese. Non solo, l' idea è quella di eliminare anche le altre tratte aeree interne per le quali esiste l' alternativa del collegamento ferroviario. Dati alla mano, il ragionamento della sindaca è più che convincente. L' aereo inquina: nello specifico, la contaminazione prodotta dal volo Barcellona-Madrid è in media di 60-80 chili di CO 2 per passeggero, mentre quella del collegamento ferroviario si limita a una media che oscilla tra i 4,9 e 7,25 kg per passeggero. Anzi, da gennaio dello scorso anno, da quando la Adif (la società pubblica che amministra la rete ferroviaria) ha contrattato elettricità esclusivamente rinnovabile, si può anche arrivare alla totale eliminazione delle emissioni contaminanti per i trasferimenti con l' Ave, il treno ad alta velocità con il quale la Spagna ha raggiunto una posizione di avanguardia nel mondo. Dove esiste l' alternativa del treno, ragiona Colau, perché continuare a viaggiare in aereo? Quella della sindaca di Barcellona non è un' iniziativa estemporanea, ma rientra nella battaglia per una città ecologicamente sostenibile culminata con l' avvio, dal 1° gennaio, della Zbe (zona a basse emissioni): il Comune proibisce l' ingresso in città ai veicoli inquinanti. Le auto a benzina immatricolate prima del 2000 e quelle con motore diesel anteriori al 2005. In tutto, almeno cinquantamila vetture che non potranno entrare a Barcellona nei giorni feriali dalle 7 alle 20. In questo modo si calcola che l' inquinamento verrà ridotto del 15 per cento. Il problema è che dal progetto Zbe restano esclusi il porto di Barcellona (la gestione dei porti in Spagna è di competenza del governo centrale) e appunto l' aeroporto, che oltretutto si trova in un altro municipio, El Prat de Llobregat, confinante con la capitale catalana. In realtà, da anni la tendenza dei viaggiatori va nella direzione auspicata da Ada Colau. Se nel 2008, data di inaugurazione della linea Ave tra Madrid e Barcellona, i viaggiatori del "puente aereo" erano 4,9 milioni l' anno, nel 2019 questa cifra era scesa a 2,3 milioni. Il numero di passeggeri dell' alta velocità ha avuto invece una crescita esponenziale: dai 2 milioni del 2008 ai 4,3 attuali. E c' è da giurare che l' incremento subirà presto un' accelerazione, sia perché la compagnia spagnola Renfe (finora monopolista) ha appena deciso di introdurre una versione low cost dell' alta velocità, sia per l' apertura imminente alla concorrenza che provocherà un calo dei prezzi: dal prossimo anno, in Spagna ci saranno anche Trenitalia e i francesi di Sncf. La guerra di Colau agli aerei ha però provocato un' immediata levata di scudi soprattutto nel mondo imprenditoriale. D' accordo gli industriali di Madrid e Barcellona (fatto insolito, hanno redatto un comunicato congiunto) nel sostenere che queste «due città cosmopolite devono disporre di tutti i collegamenti possibili: aerei, marittimi, ferroviari e stradali ». C' è poi chi teme un impatto negativo sul turismo. Ma, se fosse davvero così, questa non sembra essere la principale preoccupazione di Colau, che da anni cerca di affrontare il problema del sovraffollamento della capitale catalana, soffocata da un turismo di massa difficile da gestire.
L’ambiente non è solo una battaglia di sinistra, la destra deve dare un segnale. Cesare Patrone il 3 Gennaio 2020 su Il Riformista. Su queste pagine si è provato a dimostrare che il mondo economico seriamente supportato da una volontà popolare, può rappresentare una vera svolta a favore di un’azione concreta nei confronti della tutela dell’ambiente. Inoltre si è constatato che, in Italia, il contesto politico sovranista-popolare è il riferimento più importante per il mondo produttivo e per vaste fasce della popolazione nazionale. Ne deriva che la destra, nella sua principale identità costruita sul concetto di sovranità nazionale, non può più esimersi dall’esprimere il suo progetto sui cambiamenti climatici. Anche perché già è partito da tempo l’attacco del mondo progressista sulla inadeguatezza del mondo sovranista. Conferma palese del ragionamento progressista sulla vocazione anti ambientalista delle destre, sono le posizioni anche dei sovranisti liberali (Trump) e dei sovranisti autoritari (Putin) che si sono schierati contro i maggiori tagli delle emissioni, facendo fallire clamorosamente la Cop 25 (la Conferenza sul clima di Madrid). La critica alla assenza di vocazione ambientalista delle destre fa una pericolosa ulteriore deduzione che mette in discussione il concetto stesso dello “stato nazionale”. Ad esempio il sociologo Mauro Magatti, ribadendo la natura globale del tema ambientale, ascrive alle forme di sovranità basate sullo “stato nazionale territorialmente delimitato” la difficoltà ad operare per l’ambiente. Insomma la struttura nazionale, per sua natura, non sarebbe adeguata per affrontare il problema ambiente. Poiché le nazioni esprimono interessi particolari potrebbe essere addirittura impossibile che operino per l’ambiente. Insomma «l’organizzazione di vita sociale planetaria(…) non dispone di piani istituzionali adeguati a governare le questioni comuni». Sembra che il presupposto indispensabile per affrontare la crisi climatica sia l’abolizione della forma statuale della nazione. Un tale ragionamento non fa che acuire la contrapposizione tra le culture politiche a favore del concetto di nazione e quelle progressiste-global-universaliste. Soprattutto “giustifica” ancor di più il sospetto di alcuni Stati che, nella causa ambientalista, vedono il cavallo di Troia orscardinante i paradigmi identitari e tradizionali. Le politiche ambientali diventano un’ingerenza per gli Stati nazionali (si pensi, ad esempio, alla reazione di Bolsonaro nei confronti di Macron a proposito dell’Amazzonia). Nel dibattito si inserisce il fenomeno delle Sardine. Tutt’altro che buoni e umili. Figli del ceto medio borghese acculturato. Nella migliore tradizione progressista rivendicano la loro superiorità antropologica e culturale rispetto ai reazionari-conservatori-sovranisti-populisti e, naturalmente, ignoranti. Da un lato ci sono loro: giovani che non odiano, amano il progresso, sperano nel futuro, sono accoglienti e, ovviamente, amano l’ambiente. Dall’altro lato ci sono gli altri: sono i vecchi che odiano, rimpiangono il passato, non vogliono accogliere i migranti e ovviamente, nel migliore dei casi, non credono alla crisi ambientale. Altruisti contro egoisti. Progressisti contro sovranisti. Quando però il mondo “arretrato”, come nel caso italiano sembra essere maggioritario, si palesa una clamorosa contraddizione nel mondo “evoluto” e democratico che nei fatti cessa di essere aperto alle sollecitazioni popolari e della società. Si esorcizzano le elezioni seppure ci si trovi in assenza di un qualsiasi progetto politico o, nel migliore dei casi, in uno stato di indecisionismo esasperato, pur di evitare il giudizio popolare. I cenacoli, politici e istituzionali, hanno sentenziato e aspettano che il popolo rinsavisca. Il passare del tempo, lo sbollimento della rabbia dovrebbero aiutare l’opera di normalizzazione, di restaurazione del buono contro la ribellione retrograda del popolo ignorante. Alle Sardine, ovvero ai figli colti del ceto medio urbano (così li definisce Paolo Franchi) e al pensiero progressista sfugge però una questione centrale che sta alla base della loro incomprensione per le ansie profonde dell’uomo comune. Uno scritto di Jünger afferma, con straordinaria preveggenza, che l’uomo della strada, in virtù di un profondo sapere che in lui sopravvive, riesce a cogliere la situazione meglio dei teorici e dei governi della terra. «Il singolo dispone ancora di organi in cui è depositata più saggezza di quanto non ne possieda l’intera organizzazione: il suo stesso smarrimento e la sua paura ne sono la testimonianza». La cultura e lo spirito, per fortuna, sono una cosa seria. Rinvenibili, rintracciabili, intuibili, depositati piuttosto, nel lavoratore, nel contadino, nell’agricoltore, che rinnova, con la fatica, il patto identitario con il passato e il futuro vivendo sempre nel timore dei mercati o dei fenomeni naturali. Dell’economia e dell’ambiente. Lo smarrimento e la paura diventano dei valori perché obbligano ad affrontare il cuore delle questioni. Non si può non avere paura delle conseguenze dei cambiamenti climatici. Ed è ora di lavorare su progetti a favore dell’ambiente chiari, concreti, realistici che non ostacolino lo sviluppo economico e rassicurino le classi meno abbienti. Proprio alla luce di tutto ciò, la posizione di vantaggio nel consenso elettorale da parte del mondo sovranista deve indurre quest’ultimo ad accelerare sulla sintesi di malintese dicotomie nella narrativa “illuminata” che ha tutto l’interesse ad approfondire lo iato tra l’economia e l’ambiente. Economia ed ambiente non devono essere in contrasto o, meglio, si devono avviare proposte di conciliazione da parte della politica. Lo sviluppo economico deve coniugarsi con la sicurezza, la tutela ambientale deve allearsi con lo sviluppo economico attraverso l’utilizzazione della tecno-scienza. La sicurezza ambientale va nella stessa direzione della sicurezza economica e sociale. La sintesi tra i domini dell’ambiente, dell’economia e della sicurezza, rappresenta la questione cruciale. Il banco di prova dove si esprime in modo compiuto la credibilità della classe politica e la sua rinnovata ed imprescindibile riconoscibilità da parte della comunità nazionale.
Il pianeta siamo noi. Libertà, giustizia, crescita: il nuovo clima si costruisce a partire dalle parole. La crisi ambientale ci costringe a rivedere il significato di molti termini. A partire dai concetti di democrazia e di sovranità. Perché ci sono i diritti umani di chi è costretto a emigrare dal riscaldamento globale. E i diritti civili fioriti in Occidente. Saranno compatibili tra loro? Marco Pacini il 7 gennaio 2020 su L'Espresso. Business as usual. Un paio di giorni dopo il fallimento della Cop25 di Madrid, nel Parlamento italiano ci si scannava per la cannabis light, nei pub britannici la working class ex laburista non aveva ancora finito di brindare alla vittoria della destra isolazionista, e sul sito di El Pais, il più autorevole quotidiano del Paese che aveva appena ospitato la Conferenza sul clima, l’ennesimo fallimento della politica globale sul tema numero uno dell’agenda globale era già sparito, scalzato da notizie come la “raccomandazione” dell’Ue alla Spagna per la valorizzazione delle lingue “co-ufficiali”. Nel frattempo, a New York, il cda della JpMorgan Chase (la più grande banca del mondo) distrattamente avallava il finanziamento di un’altra trivellazione nell’Artico, tanto per aggiungere qualche spicciolo a quei 196 miliardi di dollari destinati all’industria dei combustibili fossili nel periodo trascorso dall’accordo-non accordo sul clima di Parigi (2015) a oggi. Del resto, perché dovrebbe essere una grande banca a fare da apripista alla decarbonizzazione dell’economia se negli ultimi anni i Paesi del G20 - secondo un rapporto dell’Overseas development institute (Odi) - hanno triplicato i sussidi alla produzione energetica basata sul carbone? Business as usual è la musica da organetto che continua a suonare sempre più stridula, assurda, all’orecchio dei ragazzi della generazione Thunberg, che oltre a ricevere in eredità un pianeta deteriorato (se non in prognosi riservata, come nelle previsioni dei climatologi più allarmisti), dovranno anche trovare gli strumenti concettuali, semantici, per costruire il loro futuro nel “Nuovo Regime Climatico” (secondo la definizione di Bruno Latour). Perché le “generazioni del rischio globale” - come ha ricordato nel suo ultimo libro-testamento Urlich Beck - non dovranno semplicemente gestire un cambiamento, ma vivere una metamorfosi la cui potenza è tale da sovvertire non un regime politico, bensì l’idea stessa di politica e di società. A cominciare dalle travi che hanno sorretto la normalità, il mondo, o almeno il nostro “mondo”: le parole. Un mondo febbricitante, sì, ma ancora formalmente democratico, per esempio. Che la democrazia muoia non è certo, e forse nemmeno probabile. Ma c’è chi lo paventa, stilando diagnosi non proprio fauste. E non si tratta di tweet, ma di analisi che ci invitano a riaprire il forziere in cui le società liberali hanno custodito i loro “beni intangibili” sotto forma di parole/valori. Per verificare se hanno bisogno di manutenzione. Parole come democrazia, appunto. Ma anche diritti, libertà, giustizia, uguaglianza, crescita (economica)... E poi giù, fino al lessico che ha caratterizzato maggiormente questo primo tratto di XXI secolo, egemonizzato da parole come globalizzazione, sovranismo, nazionalismo, migrazioni. Mentre ci stiamo ancora chiedendo come l’avvento delle Rete e la pervasività delle tecnologie digitali stiano cambiando la sfera pubblica, fino a trasformare la democrazia in “datacrazia” - o perlomeno fino a interferire pesantemente nelle formazione del consenso/dissenso nelle società democratiche - quelle parole, e noi con loro, potrebbero essere travolte da quella che il filosofo britannico Stephen Gardiner ha chiamato la “tempesta morale perfetta”: il cambiamento climatico. Potrebbero doversi adattare a quel “Nuovo regime climatico” nel quale siamo già entrati senza quasi accorgercene, per la banale ragione che la nostra corteccia frontale si attiva di meno di fronte a scenari negativi. O per la ragione ancora più banale che se ti occupi della goccia nel mare invece che del mare (come provano a fare molti ragazzi di Fridays for future e gli attivisti di Extinction rebellion), farai fatica a trovare la notizia che 11 mila scienziati di 153 Paesi hanno fatto suonare sulla rivista “Bioscience” il terzo campanello d’allarme in pochi anni, preconizzando «immense sofferenze umane in assenza di cambiamenti radicali e duraturi nelle attività antropiche». Mentre tenevano banco i battibecchi e tira-e-molla sugli zerovirgola della plastic tax, colonizzando intere pagine e accendendo dibattiti social. La metamorfosi, ricordava Beck, «travolge tutto in un secondo». Anche la democrazia? Quella democrazia - già da anni ridotta quasi solo al rito del voto - che ha regalato al mondo due “killer” ambientali come Trump e Bolsonaro? «Sul fronte del cambiamento climatico, la democrazia appare sempre di più come l’incantesimo anziché come la cura», osserva amaro David Runciman in “Così finisce la democrazia”. E se «l’arrivo di Trump alla Casa Bianca ha reindirizzato parte dell’energia politica contro gli scettici», continua, «non ha fatto nulla per disperdere i miasmi della sfiducia». E se dentro la “tempesta morale perfetta” la democrazia non costituisse più un riparo adeguato? È la tesi del filosofo statunitense Jason Brennan, che nel 2016 ha fatto molto discutere con “Contro la democrazia”. La tesi è secca: molte delle questioni politiche del XXI secolo (e il climate change è in cima alla lista) sono troppo complesse perché la maggior parte dell’elettorato le comprenda. Non solo, ma gli elettori non sanno di non sapere. La soluzione? Epistocrazia. Potere a chi sa. Il paleoclimatologo Lonnie G. Thomson in un saggio del 2010 raccontava il disagio degli scienziati ambientali nel doversi pronunciare sulla politica. Ma è proprio a loro (o anche a loro) che dovremmo dare il potere - secondo Brennan - dato che sono i custodi dell’episteme sul fronte climatico. «Ma l’ignoranza e la stupidità non sono oppressive come la conoscenza e la saggezza», obietta Runciman: «Proprio perché sono incompetenti: il demos cambia idea di continuo». Il dibattito è aperto. E si tratta di un’apertura che è una voragine - visto che in gioco è la democrazia - se anche studiosi non certo sospettabili di simpatie autoritarie, si interrogano sulla compatibilità tra l’urgenza di risposte e la ritualità democratica. Il saggista ambientalista George Monbiot sul Guardian del 28 maggio scorso osservava che di fronte a una «classe di politici confusionaria, riluttante, lontana dal mondo e strategicamente incapace di affrontare anche una crisi a breve termine, per non parlare di una situazione esistenziale come quella ambientale, la convinzione che il voto sia l’unica azione politica necessaria per cambiare un sistema è ingenua; il voto, pur essendo essenziale, resta uno strumento ottuso e debole». Che oggi si individui nella stagnazione economica la principale minaccia - populista, nazionalista - alla democrazia, potrebbe costituire un errore prospettico, un cortocircuito generato dalla memoria storica, da un residuo di pensiero novecentesco. «La storia insegna che la mancanza di crescita favorisce la rabbia populista», scrive Runciman. Ecco l’antidoto in grado di arrestare l’ondata antidemocratica che percorre l’occidente liberale minacciando la stessa democrazia. Ma nel Nuovo regime climatico l’antidoto-crescita potrebbe rivelarsi un medicinale scaduto, oppure esaurito. Il 23 settembre del 2019 Greta Thunberg, di fronte all’Assemblea delle Nazioni Unite, ha definito “una favola” la promessa della crescita, assestando un colpo a un’altra delle parole-totem a cui i governi e i think-tank globali si aggrappano (dai liberali ai socialisti) per provare ad arginare nazionalismi e populismi. Molti twittatori, postatori e commentatori hanno per lo più aggirato quel passaggio, concentrandosi sulla performance (con tanto di ironie e dietrologie) che sul contenuto. Ma i “gretini” forse sono meno “cretini” e sanno che crescita sarà quasi certamente una delle parole da sottoporre a una profonda revisione semantica. La ragione è spiegata semplice-semplice di Kate Raworth in “L’economia della ciambella”. Prendete due cerchi concentrici, l’interno è la base sociale definita dai nostri bisogni, quello esterno è il “tetto ambientale” definito da ciò che non possiamo oltrepassare. Se il confine esterno viene spinto all’insù (bomba demografica e consumi) e quello esterno rimane fermo si arriva al collasso. «Per rimanere dentro la ciambella dobbiamo moderare le aspettative materiali, ma vallo a spiegare a 7,7 miliardi di persone per buona parte delle quali gli standard di vita occidentale sono ancora una chimera», ha chiosato Antonio Massarutto, economista esperto di sostenibilità ambientale. Ma la “tempesta morale perfetta”, non sembra a destinata solo a sottoporre a una profonda revisione parole come democrazia e crescita. Con la sua forza di «tempeste intergenerazionale e teorica insieme» (Gardiner ), ci obbligherà probabilmente a una rimappatura completa dell’ “universo del discorso” politico-sociale-economico. Avremmo forse bisogno di una “filosofia del cambiamento climatico” come suggerisce il sottotitolo di un recente saggio dei ricercatori statunitensi Geoff Mann e Joel Wainwright (“Il nuovo Leviatano”), che affronta da una prospettiva dichiaratamente “di sinistra” - per la semplice ragione che la destra ha un’altra agenda - il tema numero uno dell’agenda globale. «Le questioni di base che hanno tormentato la sinistra per secoli - i rapporti tra sovranità, democrazia e libertà, le possibilità politiche di riconfigurare la vita umana in modo che produca non valore di scambio ma ricchezza e dignità sociale per tutti - sono ancora cruciali. La caratteristica distintiva della loro odierna pregnanza è che hanno una scadenza ecologica», scrivono gli autori. Una scadenza ravvicinata, come nel caso della parola sovranità, che pure oggi anima il dibattito politico tra sovranisti e liberali più di ogni altra. Quale sovranità potrà essere esercitata in un “nuovo regime climatico” se le decisioni dovranno essere prese nel nome della specie e non di questo o quel popolo “sovrano”? Mann e Wainwright ne individuano solo una: planetaria. Che potrà assumere due forme più probabili (e non certo democratiche), definite come “Leviatano climatico” o “Mao climatico”, a seconda che le azioni di contrasto globale ai mutamenti climatici siano intraprese nel tentativo di salvare il capitalismo o con l’intenzione di superarlo. E del resto, che senso avrà la sovranità su base nazionale quando si svilupperanno le tecnologie Cdr (Carbon dioxide removal) già al centro dell’accordo sul clima di Parigi? Fu il chimico dell’atmosfera (e premio Nobel) Paul Crutzen a suggerire nel 2006 che la comunità globale avrebbe dovuto cominciare a prendere in considerazione l’uso delle tecnologie per mitigare i cambiamenti climatici. E l’ingegneria climatica fa progressi. Ma se raggiungerà i risultati promessi, «a chi sarebbe permesso di regolare il termostato globale?», si chiede Christopher Preston in “L’era sintetica”. Un altro possibile scenario che spazza via l’idea di sovranità nel senso in cui oggi “tiene banco”. Nella centrifuga del Nuovo regime climatico entrano anche parole come diritti, uguaglianza, giustizia. I diritti civili fioriti in Occidente quanto e come subiranno l’impatto dei diritti di specie (e si sopravvivenza) dei migranti climatici? Avremo bisogno di «un robusto linguaggio politico che ci aiuti a difendere il diritto delle persone a migrare in previsione del cambiamento climatico», secondo gli autori de “Il nuovo Leviatano”. E la parola giustizia dovrà essere aggettivata principalmente con “climatica”, posto che - secondo un rapporto di Philip Alston del’Onu - il 10 per cento degli stati dovrà sopportare il 75 per cento degli effetti del cambiamento climatico? «Ogni accordo internazionale significativo sull’adattamento», scrivono ancora Mann e Wainwright, «dovrà indicare con chiarezza chi dovrà pagare chi per adattarsi a un pianeta più caldo». La metamorfosi del mondo è in atto e che le leadership politiche globali se ne siano accorte poco o per nulla non fa che sottolineare una distanza tra la politica e i saperi che forse non ha precedenti. Si tratta allora di “Tracciare la rotta”, suggerisce il titolo del fondamentale saggio del 2018 dell’antropologo e filosofo della scienza Bruno Latour. Una nuova rotta. Lungo la quale, con il clima, cambieranno anche significati, saranno spazzate via prassi e teorie politiche insieme alle parole-valori-interessi che le sorreggono, perderanno di senso le polarizzazioni, come quella tra locale e globale. «L’impressione che la politica si sia svuotata della sua sostanza», scrive Latour, «che non si innesti più su niente, che non abbia più senso né direzione, non ha altra causa che questa progressiva rivelazione: né il Globale né il Locale hanno un’esistenza materiale durevole». Fuori da quell’alternativa il nuovo “attrattore” politico, osserva il filosofo francese, dovrà essere il “Terrestre”. Come sostituto del Globale («Si parla di geopolitica come se il prefisso “geo” indicasse solo la cornice all’interno della quale si sviluppa l’azione politica. Ora, ciò che sta cambiando è che “geo” indica un agente che partecipa adesso a pieno titolo alla vita pubblica». E come sostituto del Locale («L’espressione “appartengo a un territorio” ha cambiato senso: ora l’istanza che prende possesso del proprietario». Bisogna rimappare tutto di nuovo, ammonisce Latour. E con urgenza. «Prima che i sonnambuli finiscano per calpestare nella loro fuga cieca ciò a cui teniamo».
Da I nipotini di Hayek di Società libera il 12 Giugno 2019 di Vincenzo Olita su Il Denaro. Riflettiamoci, al mondo è difficile individuare qualcuno che non si preoccupi per la salvaguardia del Pianeta, del suo ambiente naturale, della potabilità dell’acqua, dell’inquinamento, del consumo del territorio, del cambiamento climatico, insomma, lo spirito francescano sembra aver pervaso e coinvolto l’umanità tutta, d’altronde basta andare sul sito del Ministero dell’ambiente per rendersi conto che sono 77 le Associazioni di protezione ambientale riconosciute. Sommando anche enti, club, fondazioni, associazioni, tutte diramazioni di comuni, province e regioni, preposti alla medesima salvaguardia, il risultato è davvero corposo in termini di cittadini militanti e, ancor più, in termini di risorse economiche necessarie ad un vero e proprio esercito di volontari (?). Purtroppo le condizioni del pianeta, così amato ma contemporaneamente così tradito, non corrispondono alle aspettative, povero Francesco (quello originale) forse si augurava che la sua predicazione avesse maggior fortuna. Certo, se in occasione di ingorghi chilometrici sulle nostre autostrade in pochi avvertono il bisogno di spegnere il motore, se tanti apprensivi genitori in attesa dei pargoli in uscita dagli istituti scolastici, nell’indifferenza di vigili urbani, non avvertono la necessità di mostrare una buona pratica, se a milioni di automobilisti fermi ai semafori nessuno richiede il fermo dei motori qualcosa non torna nella strategia ambientalista. Ma, attenti, non tutto è perduto, con il fenomeno Greta Tintin Eleonora Ernman Thunberg, la Giovanna d’Arco della riscossa ambientalista, definito l’inconsapevole ruolo politico della pulzella svedese, il futuro ambientale del pianeta, affidato anche alla diserzione di massa del venerdì scolastico, incontrerà migliori auspici. Anche la Presidente del Senato, la forzista Elisabetta Alberti Casellati, ricevendola in Senato, con un artificioso ed ovvio discorso ha affidato a Greta le aspettative sul futuro del pianeta. Eppure ad un’autorità come la Casellati basterebbe poco per concretizzare un piccolo, ma significativo, gesto ambientalista. Circumnavighi il palazzo del Senato e gli altri innumerevoli adiacenti edifici di sua competenza e chieda alle decine di autisti di macchine di politici, furgoni e macchine civili delle forze di polizia di spegnere i motori, ininterrottamente in funzione per usufruire del caldo in inverno e del fresco in estate. In accordo con il Presidente della Repubblica avrebbe anche potuto chiedere, in occasione della sfilata militare del 2 giugno, di eliminare il passaggio delle Frecce tricolori, formidabili sperpero di danaro: circa 100mila € il costo per un’ora di volo dei nove vettori. La Rai si sarebbe risparmiata l’ilarità di chi, appena ascoltato il commento sull’impegno ambientalista di alcuni reparti militari, ha visto sfrecciare le frecce con il loro enorme carico d’inquinamento acustico ed ambientale. Ancora un suggerimento, la Rai, che si fregia dell’appellativo di servizio pubblico, d’intesa con l’esercito ambientalista mandi in onda efficaci spot su un più coretto utilizzo delle automobili; non risolveremo il problema ambientale del pianeta, avremo abbassato solo il livello fastidiosamente retorico della nostra dirigenza politica e non.
Contro i sanculotti dell’ambientalismo. La retorica ecologista aveva fatto un balzo in avanti, nutrita dell’ideologia dei ceti dirigenti pronti a spacciarsi come salvatori del pianeta. Ora la fase è molto diversa e il disprezzo sociale si rovescia contro chi lo bandisce e lo pratica. Ecce Greta. Giuliano Ferrara su lfoglio.it il 19 Aprile 2019. Perché le istituzioni somme, dal Papa al Senato, e molte altre in Europa e nel mondo, si piegano con Greta al nuovo mito infantilizzante e profetico della casa che brucia, una nuova ma piccola storia di pulzelle, voci, e miracoli? Le classi dirigenti riunite nel Grande selfie della salvezza ecologica, a vantaggio di telecamere e di folle incantate da treccine e balbettamenti apocalittici, hanno una spiegazione. L’ha trovata il solito Marcel Gauchet, un osservatore indipendente e implacabile della storia del suo paese, la Francia. La riporto com’è, e le connessioni sono a cura di chi scrive. Gauchet in un saggio su Le Débat non parla di Greta ma dei gilet gialli, e non parla della soppressione dell’Ena, la grande scuola dei funzionari e dei tecnocrati, ma si riferisce al suo contesto: uno sviluppo fondato sull’egualitarismo, sul conservatorismo e sullo stato-nazione si è rovesciato nel suo opposto, cioè l’elitismo, il riformismo e il mondo senza frontiere. Gauchet va alla radice del fatto, l’insurrezione di stampo automobilistico che ha sconvolto con i suoi rond-points e la sua rabbia di assalti e blocchi stradali la dinamica del potere nel cuore rivoluzionario dell’Europa, appaiandosi ai fremiti nazional-populisti che percorrono il mondo. Del fatto coglie la sostanza semplice e primaria, che la rivolta dei carburanti è come le rivolte della farina e del pane, e che tutto il resto, la periferia contro il centro, il popolo contro il potere delle élite, ha a che vedere anche con la trappola dell’ecologia. Lo schema è essenziale e secondo me indiscutibile. L’ecologia è diventata un emblema del più tradizionale disprezzo sociale, vecchia inclinazione Ancien régime di una società francese che ha conosciuto i fasti orgogliosi della nobiltà e la risposta che dura nei secoli del sanculottismo, la cui forza di minoranza e radicalmente violenta è sempre stata il sostegno diffidente e aspro dell’opinione pubblica, spesso maggioritaria. La retorica ecologista aveva appena fatto un grande balzo in avanti, nutrita com’era della sovrana ideologia di ceti dirigenti che volevano illustrarsi come salvatori del pianeta, e anche su quello puntavano per vestire di panni ardenti e colorati la globalizzazione di mercato e il progresso tecnologico dei centri urbani ben elettrificati, quando è stata presa d’incontro da popoli e regioni e situazioni sociali che ne hanno denunciato, appunto, il carattere altezzoso, nell’espressione di un nuovo disprezzo sociale. (Una città come Parigi, invasa dalle trottinette, dalle biciclette e dalle ciclabili, e dalla riduzione delle vie di scorrimento sulla Senna in parchi gioco e cammini pedonali, destinata a ristrutturarsi come inferno per le automobili e i trasporti pendolari, è un perfetto rimando e risvolto del quadro socio-politico dipinto da Gauchet). Aerei e cargo della globalizzazione inquinano quaranta volte di più delle automobili e dei “dieselisti di base”, dice la trama dell’osservatore, e sono tassati sette volte di meno. Un mondo di sopra che si muove freneticamente e consuma energia ad altezze stellari impone al mondo di sotto, con i divieti di velocità e la tax carbone, e una forte colpevolizzazione propagandistica che punta alla rete del trasporto casa-lavoro, una dimensione sociale di emarginazione e di spossessamento politico. Pagate di più il carburante o cambiate l’auto, e accettate che per l’energia le grandi città metropolitane siano il faro del consumo, della ristrutturazione rinnovabile, degli investimenti tecnologici, e i piccoli e medi centri si rivelino delle discariche o giù di lì. E non osate disturbare i nostri loisirs, lasciate che orsi e lupi battano le aree selvagge e forestali per il bene della nostra idea di natura incontaminata e delle nostre passeggiate ecologiche nella terra da salvare (in effetti nei dibattiti macroniani la storia dell’orso e del lupo si ripeteva come protesta e rivendicazione di potere delle comunità contro le norme dello stato-ecologista). La tax carbone e il divieto degli ottanta all’ora, mentre nel mondo e in Trumplandia si deregolamenta tutto e si irride il programma green dei democratici neosocialisti, sono state bandiere di insurrezione contro l’impero delle norme, appunto, e della centralizzazione come globalizzazione ecologista. Il capo della lista verde francese ha appena lamentato la difficoltà di trovare altro mezzo che l’aereo per gli spostamenti in campagna elettorale europea. Grottesco, no? Con la colpevolizzazione del jet, per noi italiani associata al divieto di correre in treno da Torino e dal nord nel centro dell’Europa, siamo entrati nella fase in cui il disprezzo sociale si rovescia contro chi lo bandisce e lo pratica. L’avete voluta la scorpacciata ideologica dell’ecologia? Ora pedalate. E lo scalpo dell’Ena ha tutta l’apparenza di un capro espiatorio per le trappole i cui i poteri dominanti sono caduti all’insegna della predicazione ecologista. Ecce Greta. La speranza è che la ripresa possa venire, come avvenne con la riscossa di Giovanna d’Arco, da una bambina senziente che tutti ascoltano anche se non ha nulla da dire se non che la casa brucia, un banale procurato allarme.
L’ambientalismo, la retorica e i falsi miti. Da Non Sprecare il 21.11.2012. Contrordine compagni. La retorica dei green jobs, della nuova consapevolezza verde e dei prodotti biologici che colmano gli scaffali dei supermercati fa male, molto male, all’ambiente e a tutti noi. Non lo dice un iper-liberista, un negazionista del global warming, un cementificatore selvaggio, un petroliere senza scrupoli, un finanziere di Wall Street. La tesi è di Heather Rogers, giovane e bella giornalista vecchio stile, progressista radicale e militante dell’ambientalismo americano che con il suo nuovo libro, Green went wrong, sta diventando la Naomi Klein degli anni Dieci, la nuova eroina globale dell’antiglobalizzazione. L’autrice sostiene che le grandi corporation stanno fermando la rivoluzione ambientalista che negli anni scorsi ha cominciato a prendere piede. Come? Sfruttando slogan verdi e creando il bisogno di nuovi prodotti biologici di cui nessuno avvertiva la mancanza prima della loro introduzione nel mercato. Le perfide multinazionali, scrive Rogers, hanno trovato il modo di fermare l’onda rivoluzionaria. Ci fanno credere che possiamo salvare il pianeta comprando lampadine fluorescenti a basso consumo, guidando automobili ibride, mangiando cibo biologico. In realtà, spiega Rogers, vogliono soltanto continuare a macinare soldi a spese del pianeta. I consumatori abboccano, scrive Rogers, e non si rendono conto che aiutano le grandi aziende che poi ringraziano sradicando le foreste e privando gli orangotango dei loro habitat naturali. Anche la chimera dei biofuel è una bufala, scrive, perchè gli studi dimostrano che per creare i combustibili alternativi serve più energia di quanta riescono a svilupparne. La mistica dell’economia verde, insomma, farebbe danni di ogni tipo alla società. Il più grave e duraturo è aver creato un “ambientalismo pigro”, una militanza da poltrona, una rinuncia al sacrificio. La gente è portata a pensare che acquistando i prodotti giusti, quelli ecologicamente corretti e opportunamente etichettati, riuscirà a salvare la Terra e a far entrare il sistema capitalistico nell’era ambientalista. L’ottimismo della green economy, ha scritto il New York Times recensendo Green went wrong, sarebbe un modo subdolo di addormentare le masse, di far passare l’idea che l’ecosistema si possa salvare senza conflitti, in modo divertente, utile, semplice. Il libro sfata alcuni miti politicamente corretti della nostra società, ma dimostra in modo plastico le conseguenze paradossali cui può giungere il fondamentalismo più esasperato e radicale. Il surriscaldamento terrestre, scrive Rogers, non si può fermare sostituendo i prodotti sporchi con quelli verdi. Non servono neanche i programmi governativi a favore dei “green jobs” o delle energie alternative, quelli su cui punta molto Barack Obama, perchè nè gli uni nè gli altri cambiano il paradigma consumistico della nostra vita quotidiana. Per salvare il pianeta, secondo Rogers, dovremmo ripudiare il libero mercato, il responsabile principale, diretto, unico, del degrado della nostra aria, del nostro suolo, della nostra acqua. La ricetta della Rogers è anti-sviluppo, no global, vetero socialista. Non risparmia nessuno, nè la retorica di Obama, ne’ gli sforzi delle imprese. Non salva nemmeno quella parte di star system che propaganda un ambientalismo mite. I Coldplay, per esempio. Alla Rogers non va giù che il gruppo inglese s’impegni a far piantare alberi ovunque vada a suonare, per compensare l’inquinamento prodotto dal jet che lo trasporta. Il risultato del maestoso attacco di Heather Rogers al movimento ambientalista tradizionale è un esempio classico di eterogenesi dei fini. Le conseguenze del saggio non sono quelle volute, ma opposte. Rogers è così radicalmente alla sinistra del mondo verde da essersi involontariamente sistemata a destra. Chi non ha a cuore l’ambiente e il pianeta non sarebbe riuscito a elaborare un manifesto ideologico più efficace di Green went wrong.
Invettive e soluzioni. Il populismo ambientalista nuova retorica anti-sistema. Alessandro Campi Mercoledì 25 Settembre 2019 su Il Messaggero-Il Mattino. Le vie del populismo non sono infinite, ma certo molteplici e variegate, al punto che talvolta fatichiamo a riconoscerle. Prendiamo ad esempio il movimento politico e d’opinione che si è creato su scala globale intorno alla giovane attivista svedese Greta Thunberg. La causa perorata da quest’ultima è certamente nobile e grandiosa: la salvaguardia del pianeta contro il rischio - dato come imminente - della sua distruzione causata dai cambiamenti climatici. Ma come definire, se non come tipicamente populiste, le modalità attraverso le quali Greta e i suoi seguaci stanno conducendo la loro battaglia? Basta una buona causa per giustificare un modo discutibile (se non in prospettiva pericoloso) di mobilitare le masse? Se il populismo in sé - con la sua miscela di demagogia, culto del leader, manicheismo ideologico, settarismo, appello al popolo ed emotività di massa - rappresenta, come molti sostengono, un modello politico tendenzialmente ostile nei confronti della democrazia (delle sue procedure istituzionali e del suo costume) come è possibile non mostrarsi apertamente critici, o perlomeno criticamente scettici, nei confronti di questa sua variante che potremmo definire “populismo ambientalista”? Gli stilemi tipici del populismo, se si guarda al modo con cui è cresciuto nel mondo il “fenomeno Greta” (sino a diventare qualcosa a metà tra una moda politico-mediatica che si fa forte della nostra cattiva coscienza e un movimento di massa che inclina verso il misticismo para-religioso), sono tutti facilmente riconoscibili. A partire dal più elementare e costitutivo d’ogni populismo: la divisione del mondo in buoni (i molti) e cattivi (i pochi). I primi sono gli abitanti del pianeta (il popolo inteso in questo caso come umanità), i secondi sono i capi di governo e gli esponenti dell’establishment finanziario e industriale mondiale. I primi sono portatori di una visione politica che persegue la tolleranza, il benessere garantito a tutti, la pace e un sistema economico che non sia distruttivo della natura e dei suoi fragili equilibri. I secondi, insensibili ai destini del pianeta e privi di senso morale, rincorrono solo il profitto economico e lo sfruttamento delle risorse. A questi ultimi è concessa un’alternativa secca: pentirsi dinnanzi al mondo delle loro scelte sin qui scellerate (cambiando dunque radicalmente le loro decisioni) oppure sparire dalla scena lasciando il posto ad una nuova classe di politici-sapienti realmente in grado di porre fine al lento degrado dell’ambiente. Si tratterebbe insomma di scegliere tra il bene assoluto (la salvezza dell’umanità) e il male assoluto (la distruzione del mondo): ma chi può ambire coscientemente a quest’ultimo obiettivo se non un nemico dell’umanità altrettanto assoluto per neutralizzare il quale ogni mezzo - dall’invettiva alla messa al bando legale - è dunque consentito? Peraltro a sollecitare la creazione di una nuova coscienza del mondo, in polemica generazionale contro i loro genitori sopraffatti dal mito della carriera e della ricchezza materiale, sono i giovani e giovanissimi: puri e giusti per definizione, non ancora corrotti dai falsi miti di un progresso che non vuole accettare limitazioni, avanguardia priva di colpe della futura umanità. Ma ad accrescere l’impressione che ci troviamo in piena “estasi populista”, come l’ha definita qualche anno fa uno studioso, sono anche altri fattori. Ad esempio la natura stessa della leadership esercitata da Greta. Da lottatrice solitaria e anonima (le foto che la ritraggono seduta dinnanzi al Parlamento svedese mentre sciopera per il clima rinunciando ad andare a scuola) si è trasformata nell’interlocutore politico-morale dei potenti della Terra. Nei suoi confronti, i seguaci - sempre più numerosi - oscillano ormai tra un’incondizionata ammirazione, per la caparbietà con cui ha portato avanti la sua lotta, e una venerazione del tipo che di solito si riserva ai capi religiosi. Ogni sua parola è quasi un editto, che nessuno osa contestare. Tiene discorsi in tutti i consessi politici nazionali e mondiali, senza che nessuno osi pubblicamente replicarle nel timore di attirarsi contumelie o reprimende. In meno di un anno si è trasformata in un capo amato in modo quasi incondizionato, additato come esempio virtuoso e rivoluzionario alle nuove generazioni. Se non fosse per la causa che sostiene, una simile concentrazione di popolarità su scala mondiale dovrebbe persino fare un po’ paura, trattandosi del meccanismo fideistico e carismatico che di solito biasimiamo quando si parla del populismo e delle sue deriva carismatiche e ultra-personalistiche. Ma non bisogna trascurare anche altri elementi, che anch’essi ci portano dalle parti del populismo. Le posizioni che Greta sostiene in materia d’ambientalismo sono intrise, a dir poco, di un allarmismo che sconfina nel millenarismo di marca apocalittica. Se la terra brucia sino all’esito ultimo della sua devastazione, o peggio ancora se l’umanità rischia di estinguersi nel giro di un decennio, c’è davvero poco da stare a ragionare o a controbattere. Ogni discussione o confronto è inibito alla radice. Peraltro questa visione catastrofista e drammatizzante è stata ormai abbracciata in modo quasi acritico dalla gran parte del sistema mediatico mondiale, soprattutto quello che opera nella sfera occidentale, al punto tale da essersi convertito in un mantra propagandistico. Ma il martellamento di poche “verità” ripetute all’infinito, alle quali si può soltanto aderire in modo istintivo, non è esattamente tipico dello stile populista? Si tratta poi di un unanimismo che dovrebbe cominciare a destare qualche sospetto: se le grandi multinazionali giocano ormai a chi più rispetta l’ambiente è per salvarsi l’anima, è perché hanno compreso d’aver sbagliato o è perché in questo cambio del sentimento collettivo hanno già visto un’occasione per accrescere i loro profitti con in più il salvacondotto morale di ergersi a difensori del pianeta? È tipico della retorica populista inveire contro il Sistema, minacciare di sovvertirlo alla radice, per poi diventarne un puntello o una parte integrante. Andiamo oltre. Continuiamo a dire, quando si tratta di criticare i populismi, che la paura alimentata in una chiave irrazionale può ingenerare forme d’azione individuale e collettiva che rischiano di diventare ingovernabili politicamente e socialmente distruttive. La paura non è mai una buona consigliera. Si possono realizzare politiche ambientali razionali ed efficaci, che per essere tali necessitano ovviamente di una accorta pianificazione (oltre a richiedere molto tempo per sortire i loro effetti), sotto l’incalzare della più grande e assoluta delle paure: la scomparsa dell’uomo dalla faccia della Terra? Non parliamo poi della polarizzazione (largamente strumentale e anch’essa pericolosa) che il radicalismo cavalcato da Greta rischia di determinare: anche questo un aspetto che spesso viene rimproverato ai populismi. L’idea che chi non abbraccia la sua visione di un mondo sull’orlo dell’abisso sia ipso facto un nemico dell’umanità, che toglie ai giovani le loro speranze per il futuro, è davvero pericolosa per il fatto di mettere i governanti di tutto il mondo, in quanto tali, sul banco degli imputati (oltre a delegittimarli gli occhi delle rispettive opinioni pubbliche, come se non fossero dei leader democraticamente eletti capaci di perseguire il bene comune, ma degli usurpatori nemici del popolo-umanità). Persino il presidente francese Macron, pure dichiaratamente in prima linea insieme alla Merkel nelle battaglie europee per l’ambiente, ha apertamente polemizzato contro Greta e il suo eccesso di manicheismo, che rischia di aumentare l’antagonismo sociale nel segno di un ambientalismo di stampo fondamentalista. Le invettive, magari con le lacrime agli occhi, possono servire per creare attenzione intorno ad un problema e per creare una mobilitazione collettiva sotto la spinta dell’emozione e della paura. Ma non sono una soluzione politica o una risposta razionale ai problemi che si vorrebbero risolvere. Per chiudere, parafrasando l’indimenticabile Giorgio Gaber, non deve farci paura solo il populismo che è negli altri, ma il populismo che è in noi, spesso inconsapevolmente, anche quando ci si batte per una buona causa.
L’auto elettrica non decolla. Ecco perché. Milena Gabanelli e Fabio Savelli su Il Corriere della Sera il 22 giugno 2020. Lo sappiamo da anni che il futuro della mobilità è l’auto elettrica: zero emissioni, tre volte più efficiente, meno costi in manutenzione, abbattimento delle accise sul carburante. Ma non decolla. Nonostante i livelli di polveri sottili siano quasi sempre fuori controllo, nonostante gli investimenti ogni anno annunciati. Il primo ostacolo è il prezzo: dai 30 mila ai 37 mila euro per un’utilitaria su strada. Troppi per il consumatore medio, che dai dati Federauto può permettersi di spendere 8 mila euro, ovvero auto inquinanti da euro 4 a euro zero. In Italia ce ne sono 15 milioni in circolazione. L’incentivo del governo per rottamare quella vecchia e acquistarne una ibrida o elettrica è minimo: 4mila euro, mentre Francia e Germania ne hanno promessi 14mila. È come dire che aiutiamo i benestanti.
La Cina controlla le materie prime. I produttori, intanto, sono obbligati a incrementare la produzione di elettrico per rispettare il limite di emissioni imposto dalle norme europee (95 grammi a km) ed evitare pesantissime sanzioni. Per metà delle case produttrici in Europa, prima del lockdown, si prospettavano sanzioni di circa 400 milioni di euro per il 2020 e di 3,3 miliardi nel 2021. Sta di fatto che su 80 milioni di auto che ogni anni vengono vendute nel mondo, solo 2,1 milioni sono elettriche e la metà circola in Cina. Dunque per abbassare il prezzo bisogna venderne tante. Il problema è che per farle camminare ci vuole la batteria e occorre fare i conti con il Paese che sta a monte della filiera delle materie prime necessarie a produrla: cobalto, nichel, litio. La Cina ha in concessione quasi il 90% dei giacimenti mondiali e controlla anche il know how del processo industriale. Pechino ha colonizzato il Congo, che è il più grande produttore di cobalto al mondo, e strappato contratti decennali di sfruttamento anche in Sud America. Si è portata avanti con l’elettrico perché non avendo grandi produttori di automobili, e dovendo ridurre l’inquinamento nelle grandi megalopoli cresciute a dismisura per effetto delle transizioni demografiche dalle campagne, ha puntato da subito sullo sviluppo dell’elettrico. Inoltre la Cina da anni investe sulle batterie per la domanda di prodotti di elettronica di largo consumo – smartphone, tablet, pc – di cui è diventata la fabbrica del mondo. La Foxconn, con sede a Shenzhen e 330.000 dipendenti, è lo storico fornitore di Apple, Amazon, Hp, Microsoft, Sony, BlackBerry.
Dove si producono le batterie. Per recuperare il gap che ci lega mani e piedi alla Cina, la ricerca europea sta europea sta correndo e negli Stati Uniti la Ibm sta sperimentando il modo di estrarre metalli rari dell’acqua di mare. Ma poi per trasformare in elettrico 80 milioni di auto che ogni anno si vendono nel mondo servirebbero 240 gigafactory per costruire le batterie, al costo di due miliardi di euro l’una. Oggi i maxi-stabilimenti sono tre: quello di Tesla in Nevada, il secondo è in Cina, il terzo in Svezia con la Northvolt, appena ricapitalizzata da Volkswagen e Bmw in un’operazione che gli esperti hanno qualificato come la prima mossa europea nella battaglia per il litio. Sarebbe già possibile lanciare sul mercato vetture ad un prezzo più contenuto, ma la domanda schizzerebbe verso l’alto esaurendo in poco tempo lo stock attualmente a disposizione. Così i grandi produttori, pur annunciando maxi-investimenti, mettono sul mercato modelli costosi, proprio perché ampliando l’offerta la Cina finirebbe per avvantaggiarsene in una competizione geopolitica amplificata dai dazi commerciali.
I 60 miliardi di investimenti. La Commissione Ue e i costruttori stanno investendo tanti soldi: dai 3 miliardi del 2017 sono passati ai 60 miliardi del 2019 (la Cina ne investe 17). Dentro ci sono anche finanziamenti alle fabbriche di batterie: in tutta Europa ce ne sono in cantiere 16. Nessuna in Italia. Eppure la Fiat (ultima fra i grandi produttori) ha appena lanciato il suo primo modello elettrico con la nuova 500 e ha anche dovuto firmare un accordo con Tesla per non pagare centinaia di milioni di sanzioni. Ha anche chiesto ad Intesa Sanpaolo 6,3 miliardi di euro garantiti dallo Stato per sostenere la filiera dell’auto, ma tra le condizioni richieste dal ministero del Tesoro per dare il via libera non risulta esserci la realizzazione di un impianto per le batterie. Potrebbe imporre ad Fca di ampliare il suo polo dell’elettrico appena creato a Torino.
Gli effetti del Covid sulle previsioni. Secondo gli analisti di Transport&Environment la parità di costo con le vetture a benzina e diesel dovrebbe verificarsi quando le piattaforme più usate sulle linee di montaggio degli stabilimenti non saranno più quelle tradizionali, ma quelle apposite. A quel punto i costi scenderanno del 20%. Non è un caso che Fca abbia scelto la francese Psa (che ne ha due in dotazione) per un’integrazione finita ora sotto la lente Antitrust Ue. Sta di fatto che a trainare restano i tedeschi di Volkswagen: 75 modelli entro il 2029. Le prospettive di produzione nel 2021 di veicoli elettrici piazzano la Germania al primo posto con 870 mila unità, a seguire la Francia con 295 mila veicoli. Ma si tratta di stime stravolte dalla pandemia. A fine gennaio in tutta Europa le vendite di auto elettriche erano in aumento dell’80%, crollate al 6,4% nei mesi di marzo, aprile e maggio. Gli enormi sforzi in ricerca sono incompatibili con la contrazione dei profitti e la crisi di liquidità delle imprese innescata dal covid, che ha azzerato i flussi di cassa lasciando milioni di auto invendute (non certo elettriche) nei parcheggi dei concessionari. Un crollo della domanda di 20 milioni di vetture.
Il nodo dei punti di ricarica. È la prima domanda che si pone chi vuole acquistare un’auto elettrica, e in Italia le colonnine pubbliche installate sono circa 8.500 a fronte di 11 mila veicoli in circolazione. Sono distribuite nelle strade, piazze, parcheggi, e più della metà nelle regioni del Nord. Poche nelle strade extraurbane e autostrade. Ci vogliono 12 ore per una ricarica completa e il luogo più comodo è a casa. È previsto l’ecobonus del 110% per installare i punti di ricarica nelle parti comuni condominiali. Ma il 95% degli stabili non ha una rete elettrica in grado di reggere un pesante assorbimento di potenza, e in più ci sono una serie procedure burocratiche da dover espletare, compresa la comunicazione al Catasto. Sulle costruzioni nuove, tramite un opportuno sistema di incentivi, è possibile spingere le imprese edili ad investire sull’ultimo miglio, ma la complessità dell’operazione sta tutta nella riqualificazione dei vecchi condomini che coinvolge anche la formazione degli amministratori. Infine c’è il tema dello smaltimento: 97 mila tonnellate di batterie nel 2018.
Come si riciclano le batterie. La durata di una batteria è in media 8-10 anni, ma dopo ha ancora una capacità residua che può essere riutilizzata per applicazioni di immagazzinamento. Ad essere cruciale però è il riciclo, perché consente di recuperare i materiali rari fino al 90% e, quindi, di non dipendere completamente dal monopolio cinese. Oggi l’Europa le manda proprio in Cina, leader indiscusso, anche qui, per il quadro normativo che ha creato. Intanto in Norvegia è appena partita la prima la joint venture Hydro Volt per la realizzazione di una fabbrica per il riciclo. Insomma stiamo cercando di recuperare terreno, ma manca sempre un pezzo: il cobalto, che sta a valle del processo, si può recuperare solo per il 5%. L’altro 95% andrà trovato. Dove? In Cina. In sostanza non si decolla senza passare da Pechino. Ma fra dieci anni alcune concessioni scadranno e, a quel punto, potrà avvenire la svolta, a condizione di non perdere più tempo. Il momento è propizio.
Inquinamento, errori e false credenze: come ridurre la nostra impronta ecologica. Pubblicato giovedì, 30 gennaio 2020 su Corriere.it da Paolo Virtuani. Dall’inizio dell’anno molte città del Centro-Nord hanno sforato quasi ogni giorni i limiti europei dell’inquinamento. Sono cinque i parametri che formano l’indice Aqi (Air Quality Index), utilizzato per valutare la qualità dell’aria che respiriamo: ozono, biossido di azoto (NO2), biossido di zolfo (SO2), ossido di carbonio (CO) e particolato (Pm2.5 e Pm10). La Pianura padana, per cause geografiche, climatiche e per la densità abitativa, è la zona con l’indice Aqi peggiore dell’Europa occidentale e viene posizionata in quarta fascia: aria «insalubre». Ad abbassare la qualità dell’aria è soprattutto il particolato fine (Pm2.5), che non dovrebbe superare i 25 microgrammi al metro cubo (40 μg/m³ per il Pm10). Il 27 gennaio nella stazione di rilevamento di via Senato a Milano il Pm2.5 è stato di 75 μg/m³, il Pm10 di 90 μg/m³.
Pm 2.5, quanto pesano tutti gli inquinanti. Molti sindaci hanno decretato il blocco del traffico o di certe categorie di veicoli, in particolare i diesel. Per alcuni studiosi il provvedimento serve a poco, perché la grande parte dell’inquinamento cittadino non è prodotta dal traffico veicolare. Secondo l’Ispra, infatti, il Pm2.5 dipende per il 38% dal riscaldamento, per il 15% dagli allevamenti intensivi di animali, per l’11% della produzione industriale, per il 9% dal traffico di veicoli, per il 7% dal trasporto merci, per il 6,7% dall’agricoltura. A Roma sono coinvolti dai divieti anche i diesel Euro 6, decisione che ha scatenato molte polemiche. Un diesel euro 6D-Temp emette 5 milligrammi di particolato al chilometro, meno dell’usura degli pneumatici, ma il dato è contestato dall’associazione Transport&Environment, secondo la quale non si tiene conto dei cicli automatici di pulizia di filtri per evitare l’intasamento, che fanno aumentare le emissioni oltre i limiti di legge europei. Secondo altri esperti questi cicli di pulizia sono invece già compresi nel computo delle emissioni. Difficile dire chi ha ragione senza approfondite conoscenze tecniche. Un dato però è sicuro: è meglio privilegiare i trasporti pubblici collettivi (se e quando disponibili, ma questo è un altro discorso) e l’auto condivisa (car pooling).
Dieci minuti in bici? Si risparmiano 250 grammi di Co2. Dieci minuti in bicicletta equivalgono in media a 250 grammi di anidride carbonica non emessa rispetto allo stesso percorso fatto in auto (fonte BikeMi). Per piccoli spostamenti è sempre preferibile utilizzare la bici, specie se sono disponibili piste ciclabili che evitano il pericolo di incidenti. Dal 1° gennaio 2021 (doveva essere il 1° gennaio 2020, ma è stato posticipato dall’Ue su forte pressione dei produttori) i veicoli di nuova immatricolazione dovranno emettere meno di 95 grammi di CO2 per chilometro percorso.
L’auto elettrica: vantaggi netti oltre i 45mila km. Un’auto elettrica è più sostenibile di quelle alimentate dai combustibili tradizionali? La risposta è sì, ma vanno tenuti ben presenti alcuni dati. Secondo vari studi, considerando l’intero ciclo di vita dalla produzione allo smaltimento (Lca-Life Cycle Assessment), un’auto elettrica emette in Europa in media il 25-30% di CO2 in meno rispetto a una a motore a combustione interna su una percorrenza complessiva di 150 mila chilometri. La percentuale può arrivare fino al 70%, dipende da come è prodotta l’energia elettrica nel Paese di immatricolazione: in nazioni come la Polonia o la Cina, fortemente dipendenti dal carbone per la produzione di elettricità, l’uso dell’auto elettrica non si traduce in un grande vantaggio ambientale. Le auto elettriche producono vantaggi climatici netti rispetto a quelle tradizionali se percorrono almeno 45-75 mila chilometri (fonte: Qualenergia.it): scontano infatti l’alto costo ambientale delle batterie al litio, che si ammortizza solo dopo una buona percorrenza.
In casa non superare i 18 gradi. Nel complesso le nostre abitazioni sono troppo riscaldate e mancano in gran parte di un «cappotto» per evitare in inverno la dispersione del calore e in estate del fresco (se c’è l’aria condizionata). Tutto ciò si traduce in maggiori consumi energetici, soldi sprecati ed emissioni di gas serra che si potrebbero evitare. Non esiste una temperatura minima da rispettare per i riscaldamenti condominiali. Il decreto del presidente della Repubblica 551 del 1999 indica la temperatura massima: 20 gradi con una tolleranza di +2 °C. Per immobili dove ci sono attività industriali, artigiane, commerciali e simili non si devono superare i 18 gradi. L’ideale sarebbe installare valvole e termostati per la regolazione e mettere infissi a elevate prestazioni termiche (che usufruiscono anche di finanziamenti con l’ecobonus). Secondo Altroconsumo, la riduzione di 1 °C consente un risparmio dell’8% dei consumi.
Il cemento che elimina 30mila tonnellate di biossido di azoto. Da alcuni anni sono stati applicati con successo nuovi tipi di cemento e di calcestruzzo fotocatalitico, che contiene alcuni componenti (biossido di titanio e grafene) in grado di avviare reazioni chimiche che degradano gli inquinanti atmosferici (in particolare il biossido di azoto). A Expo 2015 la superficie esterna di Palazzo Italia è stata realizzata con questo componente. Il cemento fotocatalitico fu inventato e brevettato nel 1996 da un italiano: Luigi Cassar, direttore del settore ricerca e sviluppo di Italcementi. Una superficie di un chilometro quadrato in cemento fotocatalitico potrebbe eliminare 30 mila tonnellate all’anno di biossido di azoto, pari a quelle prodotte da 7 mila auto di media cilindrata. Il costo di questo materiale però è ancora molto elevato: circa mille euro a tonnellata.
Rifiuti, ogni famiglia può ridurre 260 chili di gas serra all’anno. Con il ciclo della raccolta differenziata (dal recupero dei materiali che si possono riutilizzare al compostaggio dei rifiuti organici) le emissioni di gas serra diminuiscono di 260-470 chili per tonnellata di rifiuti rispetto allo smaltimento in discarica. E si pensi che una famiglia composta da 4 persone genera in media circa 2 tonnellate di spazzatura all’anno.
Meno sigarette, meno Pm10. Secondo le conclusioni di un rapporto dell’Imperial College di Londra presentato nel 2018 a Parigi alla Conferenza sulla convenzione per il controllo del tabacco dell’Organizzazione mondiale della sanità, le sigarette sono responsabili dello 0,2% delle emissioni di CO2 globali solo per la coltivazione del tabacco. Ricercatori dell’Istituto per i tumori di Milano nel 2016 hanno evidenziato che fumare una sigaretta significa emettere oltre 700 μg/m³ di polveri sottili Pm10.
Con l’acqua dal rubinetto 80 kg di CO2 in meno a famiglia. In Italia per produrre le bottiglie di plastica dell’acqua minerale viene emesso circa 1 milione di tonnellate di CO2, senza considerare il trasporto e i costi di smaltimento (fonte: Legambiente). Se una famiglia riduce del 70% il consumo di acqua in bottiglia evita di immettere 80 chili di CO2 nell’ambiente. Lasciare aperto il rubinetto per 2 minuti fa consumare 32 litri di acqua potabile. Diminuire il consumo non solo aiuta a non sprecare acqua, ma fa risparmiare energia: quella impiegata per la potabilizzazione e quella utilizzata per portare l’acqua nelle case, specie nei piani più alti.
Auto elettriche, Filippo Facci: l'inganno sulle batterie al litio, perché inquinano più delle altre. Filippo Facci su Libero Quotidiano il 14 ottobre 2020. La vera notizia è che il ministro Sergio Costa (Ambiente) sembra poco intelligente, e non sarebbe una gran novità neppure questa: ma perseverare è grillino, e il fatto che voglia ri-tassare i prodotti petroliferi per far costare il gasolio più della benzina (facendo aumentare anche il petrolio agricolo) dimostra che non solo denota l'ottusità di certo ecologismo, ma anche che è poco aggiornato. Dice che occorre una transizione verso un'economia verde (tutti d'accordo) e tira in ballo la Svizzera, dove appunto il gasolio costa più della benzina: ma, oltre a far incazzare agricoltori e trasportatori, non tiene conto che a ogni progresso segue una reazione. Esisterà sempre, anzitutto, una tecnologia più verde della precedente, e sempre nuovi ambientalisti a pretenderla. Piccola parentesi: come osservò l'osservatorio Nimby nel 2015, le centrali energetiche sono tutte (tutte) contestate indipendentemente dal loro potenziale di inquinamento, anche le più pulite e rinnovabili. Non importa se sono centrali a biomasse o impianti eolici o fotovoltaici, non importa se sono quel genere di progetti, cioè, che potrebbe contribuire ad affrancarci proprio da gas e petrolio. È solo la vicinanza fisica a far scattare la protesta. I comuni attigui a una progettata centrale si oppongono il 50% delle volte, mentre i comuni confinanti nel 90% dei casi. A opporsi sono sindaci eletti con liste civiche nel 60% dei casi, mentre il restante 40% è equamente diviso tra sindaci di destra e di sinistra. Insomma: archiviato il nucleare, prendono finalmente piede torri eoliche e pannelli solari e centrali a biomasse col risultato che gli ambientalisti si sono accorti che dalle energie rinnovabili - tu guarda - derivano svantaggi e non solo vantaggi. In secondo luogo, chi ha già sviluppato energie alternative (che sono costose) spesso ha compensato tornando anche al carbone; dal 2009 il costo dell'energia solare è calato dell'80% (negli Usa) e il prezzo del petrolio è calato cosicché ricominciano a circolare macchinoni inquinanti: a diesel o a benzina fa lo stesso. L'Europa - ancora scottata dal caso Wolkswagen - sta riempendo il continente di auto ibride o elettriche, ma di trattori o mezzi agricoli a emissioni zero non se ne vede l'ombra: si straparla di passare all'idrogeno o a soluzioni sofisticate (biogas) ma siamo ancora all'anno zero. Chissà poi come reagirà il ministro Costa nell'apprendere - notizia Ansa - che la produzione mondiale di litio, fondamentale per produrre le batterie per auto elettriche, rischia di far aumentare la produzione di anidride carbonica (CO2) di almeno sei volte. L'ultimo e autorevole Sustainability Monitor di Roskill (il colosso dell'analisi e della valutazione del mercato dei minerali) spiega infatti che la crescita delle batterie agli ioni di litio comporta varie fasi di estrazione, produzione, trasporto e fabbricazione che triplicherebbero entro il 2025 le emissioni di CO2, e di sei volte entro il 2030. L'estrazione e il trattamento del litio viaggiano verso i 13,5 milioni di tonnellate di CO2 emesse per la sola produzione dell'elemento base delle batterie: questo perché si prediligono le miniere estrattive, mentre se si optasse per lo sfruttamento dei depositi sotterranei di acque salmastre contenenti litio (abbondanti in natura, perlomeno in Cile, Argentina e Usa) il processo sarebbe molto meno inquinante. Insomma, la faccenda è complessa e c'è da lavorare, nonché da operare transizioni senza strappi. Il Ministro Costa, intanto, cerca di incassare tassando il diesel. L'hanno capito anche camionisti e agricoltori: costa, il ministro Costa.
Il Prof. Gianluigi de Gennaro a Striscia la Notizia spiega l'inquinamento domestico. "Signori quando si cucina aprite le finestre o accendete la cappa. Si rischiano livelli di PM 10 ben superiori alle polveri sottili di città come Torino e Milano", è il monito del Professore dell'Università di Bari. Angelo Ciocia su Molfetta Live giovedì 30 gennaio 2020. Alzi la mano chi pensa che lo smog e l'aria inquinata si trovano al di fuori delle nostre case, mentre in casa siamo sicuri. Bene, abbassate le mani. La lezione arriva dal Professore dell'Università di Bari, Gianluigi de Gennaro, a Striscia la Notizia. Il piccolo Leonardo, sindaco dei giovani di Siracusa, si domanda "ma come mai ci dicono di aprire le finestre per far entrare aria pulita se l'aria all'esterno delle nostre case è inquinata?". La risposta è un esperimento tanto simpatico quanto riflessivo. Gianluigi de Gennaro invita Leonardo a tostare del pane, senza usare l'aspirazione della cappa e senza aprire le finestre. Il risultato: il PM 10, indicatore del livello di aria malsana, dal valore ottimo iniziale di 18, arriva a 112. "Praticamente i livelli medi di polveri sottili di Milano e Torino", spiega il professore, che invita il curioso Leonardo a continuare l'esperimento. Friggendo del petto di pollo, sempre nelle condizioni di finestre chiuse e aspirazione della cappa non attivata, si arriva ad un PM 10 di 688,52, mentre cuocendo della pancetta su una piastra si arriva a 1123,50. "Questi livello di PM 10 restano in casa diverse ore. Durante le combustioni si producono diverse sostanze gassose, una di queste è il benzene. Per il benzene il limite tollerato è 5 microgrammi per metro cubo, livello che si raggiunge solo tostando il pane, mentre si arriva a 15 e 142 con la frittura e la pancetta - le parole di Gianluigi de Gennaro, che continua - Con il benzene non si scherza; anche sotto i limiti è dannoso e non è nemmeno così alto a Taranto, per cui Leonardo apri le finestre". Il piccolo Leonardo esegue e il PM 10, nel giro di qualche secondo, scende a 95. "Signori quando cucinate non scherzate, aprite le finestre o accendete le cappe", la spiegazione del professore contro l'inquinamento domestico quando si cucina.
Oli che fumano. Dario Bressanini 28 ottobre 2013 su L'espresso. Se scaldiamo l’acqua sino alla sua temperatura di ebollizione questa si trasforma in vapore. Questo processo fisico è familiare a tutti e sfruttato in cucina in molti processi di cottura. Non tutti i liquidi si comportano in questa maniera però e gli oli sono una eccezione importante. Tutti gli oli alimentari sono composti di miscele di trigliceridi diversi costituiti da una molecola di glicerina legata a tre acidi grassi. Il processo culinario che mette più a dura prova la stabilità di un olio è sicuramente la frittura. Quando riscaldiamo un olio ad alte temperature l’esposizione all’ossigeno dell’aria e la presenza del cibo possono innescare un processo di degradazione ossidandolo e formando delle sostanze nocive. Più la temperatura è alta e più l’ossidazione è veloce. Anche un uso prolungato può degradare notevolmente un olio, e questo è il motivo per cui in una friggitrice l’olio andrebbe cambiato completamente periodicamente, e non rabboccato. Oli con una composizione chimica diversa si ossidano in modo diverso. Quelli ricchi di grassi polinsaturi, come l’olio di mais o quello di soia, si degradano più rapidamente di quelli ricchi di grassi monoinsaturi come gli oli di oliva, di nocciole o di arachidi, in prevalenza composti da acido oleico. In più l’olio extravergine, non essendo stato purificato, contiene delle molecole che agiscono da antiossidanti ritardandone la degradazione. Ancora più stabili sono gli oli contenenti molti grassi saturi, come l’olio di palma o lo strutto. Il loro uso tuttavia andrebbe limitato perché un loro consumo eccessivo può avere conseguenze negative sulla salute. Scaldando un olio ad una certa temperatura comincerà a produrre fumo in modo continuo, ben prima che inizi a bollire. A questa temperatura, chiamata “punto di fumo”, la glicerina si stacca dagli acidi grassi e si producono dei fumi tossici contenenti sostanze nocive come l’acroleina. La temperatura tipica di una frittura è di circa 180 °C. A temperature più basse il cibo si impregna di olio mentre a temperature più alte rischia di bruciare velocemente. È importante quindi che l’olio prescelto abbia un punto di fumo ben superiore alla temperatura di frittura. Spesso si sente dire che l’olio extravergine di oliva ha un punto di fumo alto ma questo non è assolutamente vero. Generalmente più un olio è raffinato, quindi meno sostanze diverse dai trigliceridi contiene, e più è alto il suo punto di fumo. Le impurezze dell’olio che più influenzano il suo punto di fumo sono gli acidi grassi liberi, non legati alla glicerina. La raffinazione a cui sono sottoposti oli come quello di canola–una particolare varietà di colza–riduce la quantità di acidi grassi liberi e di altre impurezze alzando il punto di fumo. L’olio di canola inizia a fumare solo a 240 °C, una temperatura molto superiore a quella di una comune frittura. L’olio di oliva extravergine è ottenuto per estrazione meccanica senza nessuna raffinazione. Per questo motivo contiene una piccola quantità di acidi grassi liberi e una serie di altre impurezze che possono abbassare notevolmente il punto di fumo. È però impossibile definirlo una volta per tutte: due oli prodotti in zone diverse e da varietà di olive diverse possono avere una acidità e un punto di fumo molto diversi. Se l’acidità è bassa il punto di fumo può superare i 190 °C: sufficiente per friggere a temperature non troppo elevate. Se l’acidità è elevata il punto di fumo può crollare sotto i 180 °C e quindi renderlo inadatto alla frittura. (Vi avviso che in rete si trovano tabelle di punti di fumo completamente prive di senso). In altre parole, non conoscendo le caratteristiche dell'olio di oliva extravergine che usate è difficile prevedere come si comporterà in frittura (notate l'etichetta qua sopra ). Purtroppo l’acidità di un olio extravergine non si può percepire al palato e non è da confondere con il tipico “pizzicore” di alcuni oli extravergini, causato dai polifenoli, le preziose molecole antiossidanti che rendono più stabile l’olio in fritture prolungate. In alternativa si può utilizzare l’olio di arachidi il cui punto di fumo supera i 210 °C. Vi ricordo che il giorno 1 novembre tengo una conferenza al Festival della Scienza di Genova sulla scoperta degli atomi, e il giorno 2 novembre presento il libro le bugie nel carrello. Per il giorno 2 vi segnalo anche la conferenza di Pamela Ronald sugli OGM sostenibili. Vi consiglio di prenotare in anticipo gli eventi se vi interessa, anche se un certo numero di posti vengono comunque lasciati disponibili fino all'evento. (Il 31 registro anche una minilezione sulle proteine in cucina che verrà messa online nei giorni successivi) Dario Bressanini
Qui Cassia, così il fiume Paglia travolge la retorica ambientalista. Zeffiro Ciuffoletti il 5 gennaio 2020 su Il Dubbio. Volevo prendermi delle vacanze in pace nel paese natio. Un piccolo borgo sulle pendici dell’Amata, quelle mirabilmente descritte cinque secoli orsono dal grande umanista Enea Silvio Piccolomini nel suo De Itinere amiatino. Senonché nel fare gli auguri ad un caro amico, un imprenditore geniale come Ubaldo Corsini che da figlio di fornaio è diventato un protagonista dell’industria dolciaria italiana nel mondo, mi sono sentito dire con voce grave: ma fai qualcosa tu che scrivi nei giornali. Intendeva dire che l’ennesima interruzione della via Cassia, la grande via di comunicazione romana, che passa fra l’Amiata e Radicofani, il castello da cui Ghino di Tacco calava come un falco per depredare i pellegrini che si recavano a Roma, provoca un grande danno a quel che resta delle attività economiche e turistiche della Montagna. Qualche tempo fa la Cassia rimase interrotta per via di un ponte pericolante perché nessuno aveva mai rimosso i tronchi degli alberi incastrati nei piloni. Ora una nuova interruzione di questa importante arteria perché il fiume Paglia, ingrossato dalle piogge di Novembre, ha eroso l’argine fino a minacciare il manto stradale della Cassia. Si tenga presente che pochi chilometri più a sud c’è un ponte sul fiume Paglia costruito dai romani e poi rifatto nel ‘ 500 da Papa Gregorio XIII che sta lì da secoli. Pensate che in un mese circa, dopo aver messo i soliti cartelli, non si è trovato il modo di frenare con dei semplici gabbioni, come si è sempre fatto quando gli enti di bonifica servivano a qualcosa, la forza del fiume. Poi si parla di mutamento climatico con una retorica assordante, senza capire che le civiltà hanno affrontato da sempre questi mutamenti non con montagne di chiacchiere, ma con i fatti. Non lontano dalla Cassia, proprio dove si è verificata l’interruzione, una “folla enorme” di qualche decina di ambientalisti è riuscita a bloccare il progetto di una nuova centrale geotermica, ma non ha mosso un dito per spingere gli enti competenti ad occuparsi della manutenzione del fiume Paglia e dei suoi affluenti che scendono giù dalle pendici dell’Amiata. Episodi piccoli, direte, rispetto al disastro di Genova e della viabilità interrotta in un’area nevralgica di quello che una volta era chiamato il triangolo industriale, asse portante dell’intera economia Italiana. In realtà si tratta di episodi esemplari di una malattia che da più di un quarto di secolo ha colpito l’intero stato italiano: l’assenza di cura e manutenzione delle infrastrutture materiali. Un’incuria che risulta agli osservatori più attenti e indipendenti speculare alla mancata manutenzione istituzionale e morale della compagine statuale dell’intero paese. Una malattia che riguarda tutte le articolazioni amministrative dello stato comprese le magistrature, la scuola, l’università e la sequela di enti utili e inutili. Se prima o poi usciremo dalla retorica natalizia e da quella ben più fastidiosa del circolo politico mediatico, ci dovremo occupare di questa realtà. Il presidente della repubblica ha esortato la classe politica ad avere fiducia negli italiani, ma la verità è che molti italiani non hanno più alcuna fiducia nelle istituzioni e nell’intera classe politica. E ne hanno motivo.
· Il Bacino Padano fra le aree inquinate peggiori d'Europa.
Tommaso Rodano per “il Fatto quotidiano” il 26 ottobre 2020. Una scomoda verità sul nostro clima: i rutti delle mucche stanno contribuendo al disastro ambientale. Sapevamo già che gli allevamenti intesivi fossero tra i maggiori responsabili dell' aumento della temperatura globale anche per via dei peti dei bovini. Ora scopriamo che pure i rutti hanno effetti devastanti. Lo sostiene con valide argomentazioni un articolo del Ticino online, che se la prende in particolare con le vacche elvetiche: "Le mucche, killer del clima. Ha un tono preoccupato - per non dire allarmato - lo studio diffuso oggi dal Wwf sull' impatto climatico dell' allevamento in Svizzera. L' indagine si sofferma su un particolare curioso: i rutti delle vacche, che immettono metano nell' aria. Ogni giorno - scrive l' organizzazione ambientalista - una vacca emette da 300 a 500 litri di metano durante la ruminazione. Il bilancio ecologico evidenzia come per ogni litro di latte intero vengono rilasciati nell' atmosfera 1,63 kg di gas a effetto serra".
Agricoltura e allevamenti non sono sostenibili: ogni anno "consumano" un'Italia e mezza. Uno studio dell’Università della Tuscia svela per la prima volta il peso ecologico del settore: in Lombardia per il solo bestiame si consumano il 140 per cento delle risorse agricole. E intanto, in Europa si vota se dare un’impronta green ai fondi destinati a questi due settori. L’indagine dell’Unità Investigativa di Greenpeace Italia. Elisa Murgese, Unità Investigativa Greenpeace, su L'Espresso il 19 ottobre 2020. Un’Italia non basta. Stiamo producendo troppo e, così facendo, prosciughiamo le risorse naturali delle generazioni a venire. Allevamenti intensivi e agricoltura stanno consumando una volta e mezza le risorse naturali dei terreni agricoli italiani. A rivelare per la prima volta questo deficit uno studio dell’Università degli Studi della Tuscia che, insieme a Greenpeace Italia, si è interrogata sulla reale sostenibilità degli allevamenti italiani. Uno studio ancora più rilevante perché pubblicato a ridosso della riforma della PAC (Politica Agricola Comune ). Nei prossimi giorni, infatti, il Parlamento europeo voterà se dare un’impronta green ai finanziamenti pubblici ad agricoltura e allevamenti o mantenere il sistema produttivo attuale a favore di allevamenti intensivi e produzione di mangimi. Si tratta di decidere la destinazione del 38% del budget dell’Unione europea. «Ad oggi un terzo dei fondi PAC finisce nelle tasche di appena l'1 per cento delle aziende agricole europee mentre tra il 18 e il 20% del budget annuale dell’Ue è destinato ad allevamenti intensivi e mangimistica - commenta Federica Ferrario, responsabile Campagna Agricoltura e Progetti Speciali di Greenpeace Italia - Chiediamo che il prossimo voto del Parlamento europeo segni un’inversione di rotta: meno fondi agli allevamenti intensivi e più risorse per una riconversione ecologica del settore». Ma al nostro territorio conviene che l’Italia continui ad investire fondi pubblici negli allevamenti intensivi? La nostra agricoltura e la nostra zootecnia sono sostenibili? Le risposte a queste domande si trovano proprio nel lavoro dell’Università della Tuscia che, per la prima volta, ha calcolato se l’Italia possa permettersi il numero di capi allevati o se vacche e suini stanno silenziosamente erodendo le nostre risorse naturali.
Gli allevamenti consumano il 39% delle risorse agricole. «In Italia il sistema agricolo e quello zootecnico sono nel loro insieme insostenibili e creano un deficit fra domanda e offerta di risorse naturali». Non lascia dubbi Silvio Franco, docente del dipartimento di Economia, Ingegneria, Società e Impresa dell’Università della Tuscia e autore dello studio . Infatti, l’impatto ambientale dei due settori «è pari a una volta e mezza le risorse naturali messe a disposizione dai terreni agricoli italiani». Il metodo applicato è quello dell’impronta ecologica, un indicatore che stima l’impatto di un dato settore in rapporto alla capacità del territorio di assorbirne le emissioni (biocapacità). In questo modo, si riesce a calcolare quanto ogni settore sia sostenibile. Nello studio della Tuscia la stima è “conservativa” perché non tiene conto dell’impatto ambientale delle coltivazioni destinate ad alimentare il bestiame né dell’import di mangimi. Eppure, anche prendendo in considerazione le sole emissioni derivate da deiezioni e fermentazione enterica, gli allevamenti utilizzano il 39% delle risorse agricole italiane.
Ci vorrebbe una Lombardia e mezza. Ancora maglia nera alla Lombardia, già denunciata in una precedente inchiesta di Greenpeace . In Lombardia, infatti, la zootecnia sta divorando il 140% della biocapacità agricola della regione. Una battaglia, quella per la sostenibilità degli allevamenti lombardi, persa in partenza, visto che la regione dovrebbe avere una superficie agricola di quasi una volta e mezzo quella attuale per assorbire le sole emissioni degli animali allevati sul suo territorio. «I dati sono emblematici - commenta Silvio Franco – ed evidenziano cosa accade quando si registra un’elevata densità di capi in un territorio con limitata bioproduttività». Tale impatto, si precisa, «risulta oltre un quarto di quello nazionale e contribuisce per oltre il 10% nel determinare l’insostenibilità complessiva dell’agricoltura italiana». Oltre al caso limite della Lombardia spiccano le alte percentuali di Veneto (64%), Piemonte (56%) ed Emilia-Romagna (44%). Qui le cifre sono solo all’apparenza più contenute: l’impatto risulta inferiore solo perché la superficie agricola è molto estesa. Da notare che più della metà dell'impronta ecologica del settore zootecnico dipende quindi dalle regioni del Bacino Padano. Dando uno sguardo al sud, prima per consumo tra le regioni del Mezzogiorno è la Campania (52%).
Risorse rubate alle generazioni future. Com'è possibile che agricoltura e allevamenti consumino più risorse di quelle presenti nel territorio? Da dove le prendono? «Le sottraiamo alle generazioni future - precisa il curatore dello studio - Il processo è semplice: stiamo immettendo nell’ambiente più emissioni e scarti di quello che l’ambiente è in grado assorbire, quindi stiamo regalando a chi verrà dopo di noi una serie di problematiche ambientali senza dare loro le risorse per riuscire a gestirle». Il nostro impatto sull’ambiente potrebbe cambiare se consumassimo meno prodotti di origine animale, come dichiara Adrian Leip, dell'Unità Food Security del Centro comune di ricerca della Commissione europea (JRC) : « Studi fatti finora mostrano come le tecnologie che abbiamo a disposizione nel settore allevamenti non saranno sufficienti per rispondere alle ambizioni di riduzioni di effetto serra». Spiega Riccardo De Lauretis, responsabile dell’area emissioni e prevenzione dell’inquinamento atmosferico dell’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale (ISPRA): «Nell’industria, per esempio, si possono fissare dei limiti e rendere obbligatorie specifiche tecnologie per abbattere le emissioni. Al contrario, è più difficile controllare gli allevamenti». Tra le soluzioni per limitare i danni di un settore che si sta mangiando, è il caso di dirlo, le risorse del territorio, secondo l’esperto di ISPRA sarebbe centrale un cambio del nostro stile di vita: «Una maggiore attenzione a salute e alimentazione può comportare un vero e proprio cambiamento di sistema, che porti a produrre, ma anche, a consumare meno». Questo indispensabile cambiamento di sistema l’Europa lo ha messo in campo attraverso la Long term strategy, il piano strategico che ciascuno degli Stati membri è tenuto a sviluppare per illustrare i propri interventi in merito alla riduzione di emissioni di gas serra entro il 2050. «Le strategie devono essere presentate entro il primo gennaio 2020» è scritto sul sito della Commissione europea dove è possibile leggere le proposte di Germania, Francia, Belgio, Grecia, Olanda e Austria, solo per citarne alcune. Del piano strategico italiano, invece, ancora non c’è traccia. Secondo fonti istituzionali contattate dall’Unità investigativa di Greenpeace, che preferiscono restare anonime, questo ritardo di dieci mesi sta creando tensioni tra i tecnici che dovrebbero scrivere le strategie e i ministeri che queste misure dovrebbero approvare (in tempi rapidi) e portare in Europa.
Bellanova: «Inquinare meno e consumare meno risorse». Non trovando tracce della strategia italiana tra i documenti ufficiali inviati a Bruxelles, per capire il futuro del settore allevamenti ci siamo rivolti direttamente alla ministra delle politiche agricole alimentari e forestali Teresa Bellanova. «Migliorare le condizioni di allevamento e quindi di benessere degli animali è un obiettivo nazionale ed europeo, prova ne sia l’ampio spazio dedicato al tema nella riforma della PAC - precisa la Ministra - il punto non è solo lo spazio a disposizione per ogni animale, da aumentare, ma una visione della politica agricola con al centro: contrasto all’emergenza climatica, lotta al dissesto idrogeologico, salvaguardia della biodiversità. Abbiamo davanti un necessario percorso di transizione ecologica e i nostri allevatori sono già impegnati in questa direzione». «È un processo da assecondare con politiche coerenti senza perdere di vista la tutela del reddito degli allevatori. Difendendoli dalla concorrenza sleale di Paesi dove si fa molta meno attenzione o si deforesta per allevare migliaia di capi. Anche se il patrimonio zootecnico italiano è molto limitato rispetto a Paesi come Olanda o Francia, dobbiamo lavorare per ridurre le emissioni di ammoniaca e di nutrienti nell’ambiente. In questa direzione vogliamo orientare le politiche, sostenendo il miglioramento genetico, l’introduzione delle tecniche dell’agricoltura e dell’allevamento di precisione, migliorando l’assistenza tecnica e la formazione dei nostri allevatori. Ed è quella della norma che abbiamo approvato di recente sull’istituzione di un Sistema di qualità nazionale basato sul benessere animale e sul miglioramento della sostenibilità dell’intero settore zootecnico». Chiude la Ministra: «Le tecnologie e le strategie di miglioramento delle prestazioni ambientali degli allevamenti esistono. La strada non è solo ridurre la produzione: piuttosto produrre meglio e in modo più efficiente, inquinando meno e consumando meno risorse, valorizzando la capacità di assorbimento della CO2 atmosferica e sfruttando la possibilità di produrre energia in sostituzione di quella da combustibili fossili, la vera fonte di aumento della CO2 in atmosfera. Ed è quello su cui siamo impegnati con la Strategia agricola nell’ambito del Piano nazionale per la ripresa e la resilienza». Anche il presidente della Commissione Agricoltura della Camera dei Deputati , Filippo Gallinella, si è espresso sul futuro del settore, commentando uno degli emendamenti al voto europeo nei prossimi giorni, quello che punta a stabilire un limite di densità di animali per le aziende che ricevono i fondi pubblici. «Questo approccio è senz’altro corretto», dichiara Gallinella. Gli fa eco Federica Ferrario di Greenpeace Italia: «È incoraggiante che sia sottolineata l’importanza di un emendamento che in Europa stiamo sostenendo con forza. Ma è necessario che anche nel nostro Paese i decisori politici guardino in faccia la reale sostenibilità del settore zootecnico». Continua Greenpeace: «Come sottolinea anche la ministra Bellanova serve una visione della politica agricola che ponga al centro il contrasto all’emergenza climatica, un percorso verso una transizione ecologica del settore è quindi necessario e urgente. Gli attuali livelli di produzione sono insostenibili per l’ambiente e poco remunerativi per tanti allevatori italiani. Le soluzioni tecnologiche non bastano, è ora di considerare seriamente una riduzione della produzione e del consumo di prodotti di origine animale, a vantaggio della qualità, anche ambientale». L’appello dei gruppi ambientalisti sarà ascoltato nei prossimi giorni a Bruxelles? Nessuna risposta da chi, a breve, si occuperà proprio di votare la nuova PAC. «Vista la complessità e la delicatezza della materia siamo costretti a rinviare l'intervista», precisa il portavoce di Paolo De Castro, europarlamentare del PD, membro della Commissione per l'agricoltura e lo sviluppo rurale ed ex ministro delle politiche agricole. La votazione «segnerà sicuramente un momento di svolta per il futuro della Politica Agricola Comune», anticipa De Castro. Ma di quale svolta si tratti e di che posizione prenderà in nome degli italiani, il politico non vuole parlare. Non resta che aspettare il voto europeo di questi giorni per sapere se vi sarà una svolta green del settore allevamenti. E quindi a cosa sarà destinato il 38% del budget europeo.
Fondi europei in pasto ai maiali: la Lombardia fa il pieno. Anche di inquinamento. Sono 168 i comuni della Regione a rischio ambientale per eccessivi carichi di azoto legati agli allevamenti intensivi. Eppure continua il flusso di denaro pubblico, mentre le piccole aziende che producono in modo ecologico scompaiono in silenzio. L'indagine dell’Unità investigativa di Greenpeace. Elisa Murgese e Diego Gandolfo, Unità Investigativa di Greenpeace, il 09 giugno 2020 su L'Espresso. Un comune su dieci in Lombardia è a rischio di inquinamento a causa degli allevamenti intensivi. Eppure l'Europa continua a finanziare questo settore produttivo, tanto che metà dei fondi europei per la zootecnia destinati alla Lombardia finiscono proprio nelle tasche degli allevamenti che si trovano nei territori a maggiore rischio ambientale. A rivelare questo cortocircuito è l' inchiesta dell'Unità Investigativa di Greenpeace Italia che ha analizzato il flusso di denaro pubblico che dall'Europa arriva in Lombardia, regione capofila della zootecnia in Italia, dove sono allevati il 50 per cento dei suini e il 25 per cento dei bovini del nostro Paese. Tanti animali significa tanti liquami, deiezioni che stanno mettendo a rischio inquinamento il territorio. A dirlo la stessa Regione Lombardia che, alla fine dello scorso anno, ha diffuso una relazione tecnica con una mappa puntellata di rosso : ben evidenziati i 168 comuni dove nel 2018 si è superato il limite legale annuo di azoto per ettaro. Si tratta di un calcolo fatto a tavolino: il Pirellone ha preso in mano l'elenco dei capi allevati in Lombardia e ha calcolato la quantità di azoto prodotta dagli allevamenti. Da notare che il carico di azoto al campo è definito per legge in quanto il suo accumulo eccessivo mette i territori a rischio di inquinamento. Eppure, nell'11 per cento dei comuni lombardi il numero dei capi allevati è talmente alto che il limite di legge non viene rispettato. Non solo. Nei comuni lombardi "fuorilegge" arriva quasi la metà dei soldi pubblici europei destinati alla regione per la zootecnia, ossia ben 120 milioni di euro: lo si scopre confrontando la relazione tecnica con il database dei finanziamenti europei per l'agricoltura (PAC). L'immagine tradizionale è quella del letame come risorsa, distribuito nei campi come fertilizzante. Tuttavia, dobbiamo immaginarci ogni campo agricolo come una vasca da bagno: infatti, ogni terreno - in base alle sue caratteristiche e al tipo di coltivazione - può assorbire un dato quantitativo di deiezioni animali, oltre il quale è come se strabordasse. Ed è proprio quando l'accumulo è eccessivo, che il letame può diventare un pericolo per l'ambiente e per la salute. «Esiste una relazione tra l'esposizione cronica a nitrati (derivati dell'azoto, ndr.) e una maggiore incidenza di cancro negli adulti”, dichiara Carlo Modonesi, membro del Comitato scientifico dell'Associazione Medici per l'Ambiente (ISDE). Tanto che l'Agenzia Internazionale per la Ricerca sul Cancro (IARC), emanazione dell'Organizzazione Mondiale della Sanità, ha inseriti i nitrati nel gruppo dei « probabili cancerogeni per l'uomo». Com'è possibile che i nitrati provenienti dagli allevamenti finiscano a contatto con l'uomo? «Per esempio, se l'acquedotto preposto all'approvvigionamento di acqua potabile di una certa città attinge da falde sotterranee che sono state inquinate», spiega Modenesi. Per scongiurare il rischio di cancro, in realtà, «non esistono limiti minimi di sicurezza perché, nel caso specifico, il rischio zero è associato a concentrazioni pari a zero» chiude l'esperto.
In Lombardia "mezzo maiale" pro capite. Secondo la Commissione europea, nell'ultima Relazione sull'applicazione della Direttiva nitrati , i liquami degli allevamenti, se non correttamente gestiti, possono essere causa di “notevoli rischi per l'ambiente”, soprattutto quando si ha “un numero elevato di capi concentrato in uno stesso luogo”. È il caso della Lombardia, dove si trovano in media quasi un maiale ogni due abitanti e circa 180 suini per chilometro quadrato. Stando alla Commissione europea, un territorio con una così alta densità di animali è esposto a elevati rischi ambientali. «Il problema è la densità molto alta di allevamenti in poche zone circoscritte - spiega Pierluigi Viaroli, docente all'Università di Parma ed esperto di eutrofizzazione e qualità delle acque - Quando si comincia ad avere un allevamento da mille capi bovini o da 5-10 mila capi suini, trovare una modalità sostenibile di spandimento delle deiezioni è difficile». Così lo spandimento di effluenti zootecnici, da risorsa utile al terreno agricolo, rischia di diventare un fattore inquinante.
I comuni lombardi "fuorilegge". Per evitare il rischio di inquinamento, l'Europa ha regolamentato lo spandimento dei liquami con la Direttiva Nitrati (91/676/CEE) , fissando il limite di carico di azoto che ogni terreno può assorbire. Tenendo presenti questi limiti, la relazione tecnica di Regione Lombardia evidenzia che nel 2018 un comune lombardo su dieci ha più capi rispetto alla capacità del suo territorio di assorbire l'azoto derivato dalle loro deiezioni. Un eccesso di effluenti - e quindi di carico di azoto - che aumenterebbe il rischio di inquinamento con conseguenze sulla salute pubblica. Un quadro che non stupisce, visto che l'Italia è già sotto procedura di infrazione da parte della Commissione europea proprio per mancato adeguamento alla Direttiva Nitrati. In particolare Bruxelles contesta carenze nella designazione delle ZVN, nei monitoraggi delle acque e nell'adozione di misure supplementari per contrastare l'inquinamento da nitrati. Infatti "il limite di 170 chili/ettaro di azoto è superato in gran parte delle aree agricole di pianura delle province di Bergamo e Brescia, nella parte sudoccidentale e nordoccidentale (al confine con la provincia di Brescia) della provincia di Mantova, nel settore settentrionale della provincia di Cremona e in alcuni comuni della provincia di Lodi; in alcuni comuni viene frequentemente superato anche il limite di 340 chili/ettaro" si legge nei documenti della Regione. Nei comuni che hanno sforato, dunque, «se l'utilizzo e la gestione dei reflui zootecnici non sono effettuati correttamente, si può incorrere in danni all'ambiente», spiega Sabrina Piacentini, consulente ambientale per diversi comuni lombardi, e precedentemente parte del pool del Nucleo intervento tutela ambientale (NITA). Il rischio, continua Piacentini, è che ci sia «un inquinamento dell'aria e del suolo, dove si possono accumulare elementi minerali poco solubili, metalli pesanti e fosforo», ma si può arrivare anche a una contaminazione «dell'acqua superficiale e della falda con possibile compromissione della potabilità e aumento del grado di eutrofizzazione». Eppure, è proprio in questi comuni che, secondo l'indagine di Greenpeace, finisce la maggior parte dei finanziamenti europei destinati al settore zootecnico della Lombardia.
Fondi Ue, 120 milioni ai comuni fuorisoglia. Oltre ad avere analizzato la mappa degli sforamenti di Regione Lombardia, dopo mesi di richieste e un accesso civico generalizzato (FOIA), l'Unità Investigativa dell'associazione ambientalista è riuscita a ottenere dall'Organismo pagatore di Regione Lombardia il database dei fondi europei della Politica Agricola Comune (PAC) erogati alle aziende lombarde. Dati alla mano, degli oltre 250 milioni di euro che nel 2018 sono stati destinati agli allevamenti della Lombardia, ben 120 milioni (quasi il 45 per cento) sono finiti nei 168 comuni che il Pirellone segnala come territori dove è stato sforato il carico legale di azoto. Nei documenti si scopre anche che i 40 comuni lombardi in cui gli allevamenti hanno ricevuto più fondi rientrano tutti nelle ZVN e più dell'80 per cento di essi ha sforato il limite di carico di azoto. Inoltre, stando al Sistema Informativo Lombardo Silva, tra dicembre 2018 e gennaio 2020, in 33 di questi comuni sono stati approvati almeno dieci progetti di costruzione o di ampliamento di allevamenti. Un dato sottostimato poiché non contempla i progetti minori che non entrano nel sistema di valutazione regionale e provinciale. Insomma: un meccanismo che non sembra destinato a fermarsi nel breve periodo.
Ispezioni quasi nulle. La PAC, e nello specifico i finanziamenti europei alla zootecnia, potrebbe avere un ruolo nella riduzione dell'impatto degli allevamenti. «Per anni, soprattutto dal 1964 al 2004, la Politica Agricola Comune ha finanziato gli allevamenti intensivi; l'ottica era quella di incentivare la produzione poiché era il cibo ad essere scarso. Adesso, invece, la risorsa scarsa è l'ambiente» spiega Angelo Frascarelli, professore di Economia ed Estimo Rurale presso l'Università di Perugia, tra i massimi esperti della PAC. Il meccanismo potrebbe essere corretto se l'accesso ai finanziamenti europei fosse rigidamente subordinato al rispetto di norme ambientali da parte degli allevatori. Invece dobbiamo ancora fare i conti con un sistema di ispezioni particolarmente debole. «Molti controlli sono fatti sulla carta più che sul campo, e spesso risultano inefficaci» prosegue Frascarelli. Sono i dati a confermarlo: in Lombardia, le ispezioni in loco si effettuano solo nel 4 per cento degli allevamenti mentre solo l'1 per cento dei trasporti di refluo è ispezionato. Anche se è proprio la Regione Lombardia a indicare una sovrabbondanza di deiezioni nel suo territorio, il Pirellone lo scorso dicembre ha fatto richiesta di innalzare ulteriormente i limiti dello spandimento di liquami. In poche parole, invece di ridurre l'impatto degli allevamenti, si è chiesto di potere andare in deroga alla Direttiva nitrati e spandere ancora più letame, come conferma l'assessore all'Agricoltura, alimentazione e sistemi verdi Fabio Rolfi. «Abbiamo chiesto all'Unione europea che il limite allo spandimento venga innalzato oltre l'attuale di 250 chili/ettaro concesso fino a oggi per le aziende in deroga» dichiara Rolfi. «Di fronte a una situazione di carichi di azoto già eccessivi, la soluzione non può essere una ulteriore deroga - commenta Federica Ferrario, responsabile Campagna Agricoltura e Progetti Speciali di Greenpeace Italia - La nostra analisi mette chiaramente in luce come l'origine del problema sia l'eccessivo numero di animali allevati, soprattutto se a concentrazioni così elevate come in Pianura Padana. I rischi per l'ambiente e la salute non possono più essere più ignorati». Secondo Greenpeace, parte della soluzione è fermare proprio il flusso di denaro pubblico verso gli allevamenti intensivi, a favore di metodi di produzione ecologici . «Per rispettare l'Accordo di Parigi ed evitare il disastro ambientale e climatico è necessario ridurre drasticamente la produzione e il consumo di carne e latticini». In Italia, questo significherebbe valorizzare le tante produzioni di qualità su piccola scala per renderle ancora più sostenibili e resilienti anche a crisi come quella legata al Covid-19. «È il momento di agire per produrre meno e meglio, in questo modo ne beneficerà sia la qualità dell'ambiente che del cibo e anche le condizioni di lavoro del settore agricolo» conclude Federica Ferrario.
Inquinamento atmosferico, il Bacino Padano fra le aree peggiori d'Europa. Pubblicato mercoledì, 03 giugno 2020 da La Repubblica.it. Il Bacino padano è una delle aree dove l'inquinamento atmosferico è più pesante in Europa. Lo rivela l'Annuario dei dati ambientali 2019 dell'Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra), il centro studi del ministero dell'Ambiente che ha fotografato la situazione in Italia. Guardando ai dati del 2019, il valore limite giornaliero del PM10 è stato superato nel 21% delle stazioni di monitoraggio (50 microgrammi per metro cubo, da non superare più di 35 volte l'anno). Rispettati invece i limiti per i PM2,5 nella maggior parte delle stazioni di rilevamento. Uno degli effetti del lockdown è stata la riduzione del biossido di azoto tra il 40 e 50% nelle regioni del Nord e nella Pianura padana. Ambiente Coronavirus, Crea: in Italia -1.500 morti grazie al calo dello smog.
Inquinamento elettromagnetico. Per quanto riguarda l'inquinamento elettromagnetico, tra luglio 2018 e settembre 2019 i casi di superamento dei limiti di legge sono aumentati (+ 6%) sia per gli impianti radio televisivi (RTV) sia per le SRB - Stazioni Radio Base della telefonia mobile (+4%). Per le sorgenti ELF (a bassa frequenza, cioè elettrodotti ed elettrodomestici) i dati risultano sostanzialmente invariati.
Inquinamento delle acque: allarme pesticidi. Per quanto riguarda le sostanze chimiche, a preoccupare sono soprattutto i pesticidi: nelle acque superficiali il 24,4% dei punti monitorati mostra concentrazioni superiori ai limiti di qualità ambientale. Il 6% nelle acque sotterranee. L'Ue è il secondo produttore mondiale di sostanze chimiche dopo la Cina. L'Italia è il terzo produttore europeo, dopo Germania e Francia, con più di 2.800 imprese attive e 110.000 addetti.
La situazione in Italia. L'Annuario Ispra ci dice anche che le temperature crescono in Italia più che in altre parti del mondo: +1,71 gradi Celsius nel 2018 contro +0,98 globale. Diminuiscono però i gas serra (-17,2% dal 1990 al 2018). Il dossier segnala anche una grave situazione per fauna e flora, minacciate da inquinamento e specie aliene, mentre appare in buono stato solo il 48% dei fiumi e il 20% dei laghi italiani. Bene le aree protette del nostro Paese. Inoltre, con il 18,3% di energie rinnovabili, Italia supera obiettivo 2020 fissato dalla Ue. Quest'anno le informazioni sull'ambiente in Italia si confrontano con i recenti trend europei elaborati dall'Agenzia europea dell'ambiente e illustrati lo scorso dicembre a Bruxelles nel "SOER 2020 - State of the Environment Report". A questi report, si aggiunge un altro documento, il ''Rapporto Ambiente di Sistema'', che propone alcuni focus regionali. Il quadro nazionale e le esperienze regionali vengono delineate nei tre report ambientali. Nonostante le politiche climatiche e ambientali dell'Unione europea abbiano portato vantaggi sostanziali negli ultimi decenni, il nostro continente deve affrontare questioni di grande portata: perdita della biodiversità, uso delle risorse, impatti dei cambiamenti climatici e rischi ambientali per la salute e il benessere. "Presentiamo oggi questi rapporti in un momento in cui la politica italiana ed europea guarda con occhi nuovi allo European Green Deal - ha dichiarato il presidente Ispra ed Snpa Stefano Laporta - un obiettivo ambizioso ma non impossibile, a patto che si attui una profonda trasformazione industriale, ambientale, economica e culturale in Europa. Un'occasione per rilanciare un nuovo modello economico, con una maggiore attenzione all'ambiente e alla biodiversità. Abbiamo tutti compiti importanti e sfide ambiziose per accompagnare il Paese verso quello sviluppo sostenibile che è l'unica strada da percorrere per il rilancio economico e sociale". L'Annuario Ispra esce nel momento in cui il mondo intero è impegnato nella sfida senza precedenti del Covid-19. Dalla contrazione forzata delle attività economiche è venuto un miglioramento delle condizioni ambientali, con un costo sociale altissimo. La sfida oggi è far sì che tali condizioni non siano transitorie, ma socialmente sostenibili. La "ripartenza" riceve un nuovo e ambizioso impulso dalla Commissione europea grazie anche al Green Deal europeo.
Green Deal: gli obiettivi per l'ambiente. Tre le priorità politiche ambientali indicate dall'Ue nel Settimo programma di azione per l'ambiente: proteggere, conservare e migliorare il capitale naturale dell'Unione europea; trasformare l'Unione in un'economia a basse emissioni di carbonio, efficiente nell'impiego delle risorse, verde e competitiva; proteggere i cittadini da pressioni legate all'ambiente e da rischi per la salute e il benessere. Vediamo nel dettaglio come l'Italia risponde alla sfida. In base alle elaborazioni del Soer 2020, solo 2 dei 14 indicatori utilizzati per monitorare il 'capitale naturale' - l'insieme delle risorse naturali essenziali per lo sviluppo del Paese, in termini economici e sociali - mostrano andamenti auspicabili per l'Europa : solo le aree protette sono in buono stato, sia terrestri che marine, mentre va male la tutela della flora, fauna, degli ecosistemi e del suolo.
Un patrimonio di biodiversità. Con le sue 60 mila specie animali e 12 mila vegetali, l'Italia è uno dei Paesi europei più ricchi di biodiversità in Europa e con livelli elevatissimi di endemismo (specie esclusive del nostro territorio). Un patrimonio che vede alti livelli di minaccia per flora e fauna. Forte argine al degrado sono la Rete Natura 2000 e il Sistema delle aree protette italiane: quelle terrestri sono 843 e coprono il 10,5% del territorio nazionale, 29 le aree marine protette, 2.613 i siti della Rete Natura 2000 (19,3% del territorio nazionale). Quanto allo stato di salute della fauna in Italia, tra i vertebrati sono i pesci d'acqua dolce quelli più minacciati (48%), seguiti dagli anfibi (36%) e dai mammiferi (23%). Tra le piante più tutelate dalle norme Ue, il 42% è a rischio. Le minacce più gravi vengono, però, dal costante aumento delle specie esotiche introdotte in Italia - più di 3300 nell'ultimo secolo - dal degrado, dall'inquinamento e dalla frammentazione del territorio.
Fiumi e laghi. Lontana dagli obiettivi europei la salute di fiumi e laghi in Italia. Neanche la metà dei 7.493 corsi d'acqua raggiunge uno "stato ecologico buono o elevato" (43%), ancora più grave la situazione dei laghi (solo il 20%). Va meglio la situazione se si analizza lo stato chimico: è buono per il 75% dei fiumi (anche se il 18% non è ancora classificato), e per il 48% dei laghi. Il consumo di suolo e dissesto idrogeologico.
C'è anche il consumo di suolo a gravare sulla perdita di biodiversità. Sono ormai persi 23.000 km2, con una velocità di trasformazione di quasi 2 m2/sec tra il 2017 e il 2018. Sebbene il fenomeno mostrasse segnali di rallentamento, probabilmente a causa della congiuntura economica, dal 2018 il consumo di suolo ha ripreso a crescere. Nel 2018 è stato sottratto anche il 2% delle aree protette. Il territorio italiano è fortemente esposto al dissesto idrogeologico. La popolazione a rischio frane che risiede in aree a pericolosità elevata e molto elevata ammonta a 1.281.970 abitanti, pari al 2,2% del totale. Rispetto all'Europa, l'Italia cresce molto di più nell'uso circolare dei materiali. E' terza nell'Ue per la cosiddetta "produttività delle risorse", un indice usato in Europa per descrivere il rapporto tra il livello dell'attività economica (prodotto interno lordo) e la quantità di materiali utilizzati dal sistema socio-economico (CMI - consumo di materiale interno).
Brescia, la terra dei veleni che dopo il Covid vuole guarire dal cancro. Fabrizio Gatti il 10 giugno 2020 su L'Espresso. Rifiuti radioattivi, fertilizzanti, scorie di alluminio. Che contaminano terreno, acqua e aria. Causano un record nei casi di tumori e leucemie. E sembrano uccidere anche cani e gatti. È così da anni. Ma ora è il momento di cambiare. La prima medicina che Cristina dà alle sue pazienti è un abbraccio. «Sì, le abbraccio forte», dice lei: «Ma adesso, con il coronavirus ancora in giro, non so come farò». Cristina Furnari, 28 anni, non è un medico. Nel suo studio di estetista, in via Noce 13 nel quartiere Chiesanuova a Brescia, cura l’aspetto delle tante donne giovani e meno giovani che lottano contro il cancro. Ora che il Covid-19 lascia il tempo per riflettere, in Lombardia si torna a fare i conti con l’epidemia di sempre: l’inquinamento del cielo, della terra e dell’acqua. Il virus Sars-CoV-2 nel mondo e in Italia ha colpito soprattutto dove le vie respiratorie di adulti e bambini erano già provate da polveri sottili e diossido di azoto: da Wuhan in Cina alla Pianura Padana d’inverno si respira la stessa aria. Ma a Brescia, come in tutte le zone dove fabbriche e coltivazioni convivono, le sostanze tossiche vanno oltre. Penetrano nel sottosuolo, contaminano la prima falda che alimenta l’irrigazione nei campi. E riappaiono nella catena alimentare. Tutta la provincia bresciana è contemporaneamente assediata dai rifiuti industriali e dai fertilizzanti agricoli. Queste campagne, così verdi e fiorite in primavera con il loro cielo grande e la vista mozzafiato sulle Prealpi, non si fanno mancare nulla: Brescia è anche la provincia dove si concentra il maggior numero di siti inquinati da rifiuti radioattivi. Quando alla fine dell’impero sovietico la Russia ha svenduto i ferri arrugginiti delle sue infrastrutture militari e civili, le acciaierie della città hanno riempito gli altiforni di rottami per trasformarli in barre e tubi. Ma parte di quelle tonnellate di metallo proveniva da installazioni o impieghi a contatto con radionuclidi. Alla disgregazione dell’Urss sono poi seguiti i commerci mondiali della globalizzazione. E il risultato della fusione accidentale di lamiere contaminate o addirittura di sorgenti radioattive è oggi elencato nell’inventario dell’Ispettorato nazionale per la sicurezza nucleare e la radioprotezione. L’ultimo aggiornamento del dicembre 2019 riporta ben nove “eventi incidentali” in provincia di Brescia dal 1990 al 2018 sui diciotto avvenuti in Italia. Una massa totale di circa 85.533 tonnellate di materiali e rifiuti derivanti dalla successiva bonifica: con una radioattività complessiva stimata in 1216 Giga Becquerel. Un Becquerel è il sistema di misura ed equivale all’attività di un radionuclide che ha un decadimento al secondo. A ogni disintegrazione, viene emessa energia. La maggiore radioattività è concentrata in due siti inquinati da cesio 137. Uno è l’ex cava Piccinelli, a ridosso dei laghi del Parco delle cave alla periferia di Brescia, dove 1.800 tonnellate di scorie di fonderia scoperte nel 1998 hanno lasciato una radioattività di 120 Giga Becquerel. L’altro è la discarica Capra, a Capriano del Colle, tra fattorie e campi coltivati nel parco agricolo regionale Monte Netto: dal 1990 qui 82.500 tonnellate di scorie saline, alluminio e terra raggiungono ancora oggi i 1.000 Giga Becquerel, ovvero mille miliardi di decadimenti al secondo. Come paragone: è poco meno della metà dell’attività dei rifiuti e delle sorgenti dismesse inventariate nel 2019 nella centrale nucleare di Caorso. In entrambi i siti bresciani, il terreno di copertura impedisce la dispersione di polvere radioattiva in atmosfera. La preoccupazione riguarda le infiltrazioni di acqua piovana che potrebbe contaminarsi e trascinare il cesio fino alla falda superficiale. La Regione ha smentito che le scorie radioattive possano finire nei rubinetti, poiché l’acqua potabile viene pompata da profondità maggiori, anche se non tutti i geologi sono dello stesso parere. Ma quello della falda superficiale è comunque lo strato a più stretto contatto con la rete di canali irrigui della pianura. A questo si aggiungono i decenni di diossine e policlorobifenili finiti nel suolo di Brescia dagli impianti dell’industria chimica Caffaro, le tonnellate di fertilizzanti disperse nei campi, i vapori del principale inceneritore di rifiuti urbani, le scorie tossiche nascoste nei terrapieni delle nuove tangenziali, i gas di scarico delle autostrade e le grandi discariche autorizzate a cielo aperto intorno all’aeroporto di Montichiari. Un paesaggio, questo, che ha dato alla zona il soprannome di Terra dei buchi, con paure nella popolazione non diverse da quelle provocate in Campania dalla Terra dei fuochi. I primati economici nell’industria pesante e nell’agricoltura intensiva hanno le loro evitabili conseguenze. Cristina Furnari ha cominciato a lavorare giovanissima come estetista. Si è poi specializzata in estetica oncologica per necessità: «Una zia e la mia nonna si sono ammalate insieme», racconta: «Durante la chemio perdevano i capelli e le unghie. Mi sono chiesta cosa potessi fare per loro. Allora avevo una cliente ogni tanto che si ammalava. Ora sono aumentate. Vengono da me e mi dicono: mi hanno trovato un tumore, farò intervento e chemio. All’inizio non sapevo cosa potevo e non potevo fare. Poi ho seguito un corso di specializzazione e mi si è aperto un mondo». Secondo uno studio dell’azienda sanitaria pubblicato nel 2019, “Incidenza tumorale nell’Ats di Brescia: andamento temporale e caratterizzazione territoriale 1999-2015”, l’incidenza è quasi sempre al di sopra della media nazionale e macroregionale, pur nel contesto di una lenta riduzione dei casi dovuta soprattutto alle campagne di prevenzione. Le differenze sono evidenti se si analizza l’andamento per singoli tipi: i tumori della testa e del collo colpiscono tra i bresciani 34,6 uomini e 9,9 donne ogni centomila abitanti contro una media del Nord Italia di 27,8 e 7; i tumori allo stomaco 40,6 e 20,5 contro i 33,7 e 16,7; i tumori al fegato 42,5 e 13,6 contro 31,6 e 10,3; i tumori al pancreas 27,9 e 18,3 contro 24,1 e 18. Sono invece poco meno della media i tumori al polmone con un tasso di 104,6 e 32,9 contro 107 e 35,1 del Nord Italia. Ma per i tumori al seno la differenza torna a essere netta: nel periodo 2010-2015 nella zona di Brescia hanno colpito 170,6 donne ogni centomila, contro la media di 161,9 al Nord, 141,7 al Centro e 124,9 al Sud. Mentre per gli uomini le leucemie salgono a 21,3 casi ogni centomila abitanti contro 16,8 della media al Nord, 17,8 al Centro e 17,1 al Sud. E nelle donne i tumori alla tiroide raggiungono i 35,4 casi, contro 25,6 del Nord, 29,6 del Centro e 27,2 del Sud. «Quando vengono da me e mi fanno vedere che hanno perso i capelli, io me le abbraccio tutte, a volte piangiamo insieme. Subito dopo cominciamo il colloquio, chiedo di cosa hanno bisogno», spiega Cristina Furnari: «Mi consulto con il loro medico per capire cosa si può fare. Collaboro con la Lega italiana per la lotta contro i tumori. Il supporto psicologico che diamo è forte. La cosa che fa più male in una donna è la perdita di capelli. Mi dicono: guarda, si vede che sono malata. Il nostro supporto alleggerisce gli effetti collaterali, aiuta a vedersi belle. Il contatto della mia mano coperta dai guanti sulla loro pelle è un legame intenso. Ho a che fare con la loro speranza e la lotta. Alla fine piangiamo insieme di gioia perché è arrivata la vittoria. Altre volte piangiamo e basta. Ma quello che vedo oggi sono età sempre più basse». Le conseguenze dell’inquinamento in provincia di Brescia si osservano anche negli animali da compagnia, come cani e gatti. «Servirebbero studi mirati per verificare il legame diretto», avverte Anna Basso, 35 anni, veterinaria di Bagnolo Mella, paese a otto chilometri da Capriano del Colle: «Ma la sensazione è che negli ultimi anni siano aumentati nei cani e nei gatti i tumori epatici e polmonari e i linfomi. Anche le forme allergiche sono in crescita e non solo nei cani di razza». Claudio Giacoboni, 38 anni, è un veterinario che si occupa di oncologia negli animali: «La vita più breve di cani e gatti», spiega, «rappresenta un modello per indagare l’accumulo di sostanze potenzialmente tossiche per metalli come cadmio e piombo oppure, negli animali domestici e da reddito, di erbicidi e pesticidi. Notiamo nel tempo un aumento della casistica oncologica. È anche vero che la medicina veterinaria ha aumentato la capacità diagnostica. Per questo servirebbe uno studio specifico, ma finora non esistono pubblicazioni di questo tipo sulla zona di Brescia». Gli animali da compagnia vivono a stretto contatto con il terreno e per questo potrebbero dare il primo allarme sulla qualità dell’ambiente in cui respirano e mangiano i loro padroni. Uomini e donne infatti sviluppano infiammazioni, allergie e tumori in tempi molto più lunghi. Soprattutto se con l’inquinamento si è costretti a convivere. In via Cerca a Brescia, a pochi metri dalla ex cava Piccinelli contaminata da cesio 137, è stato addirittura costruito il parcheggio per i visitatori del Parco delle cave. «Qualche anno fa hanno trasferito i fusti con le scorie radioattive in uno dei depositi dell’Enea», racconta Alessandra Cristini, 60 anni, tra le fondatrici di uno dei comitati che si battono per la bonifica dell’area: «Ma il terreno contaminato è rimasto lì. L’ultima volta i teli sono stati sostituiti nel 2012 dopo la nostra segnalazione al Comune. Da anni denunciamo che i piezometri messi per misurare il livello della falda sono troppo pochi e spesso fuori uso. Ma nessuno ci risponde. La radioattività nell’acqua non viene controllata e quel cesio oggi potrebbe essere arrivato ovunque».
· Il Progresso. In Bicicletta…anzi, a piedi.
Ladri di biciclette. Report Rai PUNTATA DEL 09/11/2020 di Max Brod. Il vandalismo è da sempre nemico del bike sharing e, a differenza di quanto si può pensare, non è un problema solo italiano, ma globale. Nel nostro paese, nonostante questo ostacolo, in molte città il servizio funziona. A Roma il bike sharing è presente, ma non è mai veramente decollato e la Capitale rimane agli ultimi posti nella classifica per numero di bici in rapporto alla popolazione. Eppure una riforma che prevede il finanziamento delle biciclette condivise è in vigore dal 2014. Prevederebbe sia il finanziamento del bike sharing sia il riordino dei cartelloni pubblicitari. A distanza di sei anni, però, non è ancora diventata effettiva e a mettersi di traverso potrebbero essere state, con i loro ricorsi, proprio le ditte di pubblicitari. Intanto nella giungla della cartellonistica si infilano gli abusivi, che con i loro impianti non autorizzati riescono a fare business senza paura di multe o rimozioni.
LADRI DI BICICLETTE di Max Brod MAX BROD FUORI CAMPO Il bike sharing è un modo di spostarsi che fa bene all’ambiente, ma anche alla salute di chi lo utilizza. La flotta italiana conta più di 35mila biciclette, un dato triplicato rispetto al 2015. Ma con alcune anomalie. Al Sud le bici condivise sono molte meno che al Nord. E poi c’è il nemico del bike sharing: il vandalismo. Non solo in Italia, ma anche nel resto del mondo. Tuttavia, in molte città le bici condivise funzionano. Milano è stata eletta capitale italiana del Bike Sharing nel rapporto sulle smart cities 2020 di Ernest e Young. A Roma, invece, si è visto un susseguirsi di operatori senza mai riuscire ad avere un servizio continuo e capillare. E questa volta il nemico della bici potrebbe essere proprio lui, il cartellone pubblicitario.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Cosa c’entra un cartellone pubblicitario con una bici? Buonasera, il meccanismo è semplice e viene adottato in quasi tutte le grandi città del mondo. Chi gestisce un cartellone pubblicitario occupa uno spazio, paga un canone per la concessione e si accolla anche la gestione del servizio Bike Sharing. Così anche questo servizio ha una sua dignità: viene finanziato come tutti gli altri servizi pubblici. A Roma però sono 6 anni che ci provano e non ci riescono. Non è riuscito nel suo intento il sindaco che amava tanto andare in Campidoglio con la bicicletta, non è riuscita l’amministrazione a 5 Stelle, che pure si fregia della bandiera ecologia, ambientalista. Questo perché? Perché hanno a che fare con una coriacea lobby di cartellonisti, tra i quali si nasconde anche qualche abusivo che non contribuisce al bene dello Stato, al bene pubblico. Il nostro Max Brod, è andato in città a fare una pedalata per vedere chi si nasconde dietro il cartellone.
MAX BROD FUORI CAMPO Il danneggiamento delle bici pubbliche è un problema che non si è ancora riusciti a risolvere, lo sanno bene i volontari di Passo Civico.
ANTONIO DE NAPOLI – PASSO CIVICO L’anno scorso abbiamo raccolto 52 OBike in tre-quattro ore.
MAX BROD FUORI CAMPO Le modalità di Bike Sharing sono due: station based, con le rastrelliere e free floating, nel quale la bici si prende e si lascia dove si vuole. É questo il più colpito dal vandalismo. Ecco un video girato a Milano e postato, senza vergogna, su Instagram.
VIDEO VANDALI MILANO Servizi pubblici. Servizi pubblici? Qui non ce ne frega un cazzo (ridono)
MAX BROD FUORI CAMPO Cosa succede dopo? Un gruppo di cittadini si opera per limitare i danni.
MAX BROD E in totale quante biciclette avete recuperato?
SIMONE LUNGHI – ANGELI DEI NAVIGLI Siamo sicuramente oltre le seicento.
SIGNORE DAL PONTE Bravi! Menomale che ci siete voi!
MAX BROD FUORI CAMPO Le bici recuperate tornano nel magazzino del proprietario dove si tenta la riparazione.
DAVIDE LAZZARI – RESPONSABILE SVILUPPO MOVI BY MOBIKE Fate conto che solitamente una bicicletta ha un costo intorno ai 500 euro, noi oggi facciamo dei piani dove la percentuale di gestione di questi atti vandalici varia tra il 9 e il 10 percento.
MAX BROD FUORI CAMPO Per ammortizzare i danni e dare un segnale per far rispettare il bene pubblico, una soluzione ci sarebbe.
DAVIDE LAZZARI – RESPONSABILE SVILUPPO MOVI BY MOBIKE Noi a volte l’abbiamo proposto no: giudice se una persona del genere lo condanni non condannarlo a risarcire così, condannalo a fare due mesi di lavoro qua in officina per voler bene a questo sistema.
MAX BROD FUORI CAMPO A Milano il modello di business che sostiene il servizio prevede l’affidamento a un concessionario degli spazi pubblicitari e lui, con quei proventi, ci finanzia il Bike Sharing.
MARCO GRANELLI – ASSESSORE ALLA MOBILITÀ COMUNE DI MILANO E poi avendo ampliato il numero delle stazioni, noi abbiamo messo la possibilità per la società, di chiedere diciamo un’integrazione all’amministrazione comunale di risorse fino ad un massimo di 800mila euro.
MAX BROD FUORI CAMPO A Roma invece il Bike Sharing non è mai veramente decollato e secondo l’Osservatorio Nazionale Sharing Mobility, la Capitale rimane agli ultimi posti nella classifica per numero di bici ad abitante. Eppure, nel 2014 sotto il sindaco Marino, appassionato di bici, è passata una riforma che avrebbe dovuto ricalcare il modello di Milano.
MARTA LEONORI – ASSESSORE AL COMMERCIO COMUNE DI ROMA 2013-2015 Facemmo anche un lavoro importante con alcuni esponenti del Movimento 5 Stelle. Quando è caduto Marino l’ultima cosa che avrei pensato era che quel percorso si interrompesse.
MAX BROD FUORI CAMPO Il percorso interrotto si chiama PRIP, piano regolatore degli impianti pubblicitari. I cartelloni dovevano essere dimezzati e messi a bando. Parte degli introiti poi, avrebbe dovuto finanziera il Bike Sharing. Ma le gare pubbliche non le hanno mai fatte.
MAX BROD Le ditte dei pubblicitari che ruolo hanno avuto?
MARTA LEONORI – ASSESSORE AL COMMERCIO COMUNE DI ROMA 2013-2015 Ci sono delle ditte che lasciatemi dire, ci hanno provato, a tenere come è adesso. Mettere a bando delle concessioni che venivano tramandate di generazione in generazione comunque espone a un rischio. E poi invece ci sono quelle società che probabilmente hanno fatto il male di questa città e son quelle che hanno più spinto sui ricorsi.
MAX BROD FUORI CAMPO La riforma colpirebbe chi lucra sui cartelloni abusivi, ma anche i monopoli, ovvero chi ha accumulato negli anni potere nel mondo delle affissioni pubblicitarie. Anche per questo non è stata digerita. E fioccano i ricorsi.
MAX BROD Gli oltre 50 ricorsi dal 2013 ad oggi, da parte di aziende e associazioni come la vostra sono un modo per rallentare l’arrivo ai bandi?
DANIELA AGA ROSSI – PRESIDENTE ASSOCIAZIONE IMPRESE PUBBLICITÀ ESTERNA Sono state impugnate il regolamento e anche il PRIP in alcuni punti che contrastavano l’effettiva applicazione. Ciò non significa che non è auspicabile la riforma e l’applicazione.
MAX BROD FUORI CAMPO Per come è scritta la riforma, con i bandi non solo si otterrebbe un servizio di Bike Sharing, ma anche un riordino dei cartelloni pubblicitari di cui Roma sembra avere davvero bisogno.
MAX BROD Qui c’è un assembramento, ma di cartelloni?
RODOLFO BOSI – RESPONSABILE VERDI AMBIENTE E SOCIETÀ - ROMA Dovrebbero stare a 25 metri l’uno dall’altro e distanti 25 o 50 metri dal semaforo, possono restare sul territorio in questa situazione benché irregolare finché non si faranno ripeto i bandi di gara.
MAX BROD Che cosa deve avere un cartello per essere regolare?
RODOLFO BOSI – RESPONSABILE VERDI AMBIENTE E SOCIETÀ - ROMA Una targhetta metallica con indicato il cartello e gli estremi della concessione o autorizzazione. Se non c’è come in questi casi che abbiamo davanti, è oggettivamente un impianto abusivo.
MAX BROD FUORI CAMPO Quando segnaliamo il cartellone ancora libero ai vigili, ci confermano che l’impianto è stato già sanzionato. Eppure la società continua impunemente ad offrire lo spazio abusivo.
DITTA PUBBLICITARIA 1 AL TELEFONO Sì pronto?
MAX BROD Salve è possibile mettere una pubblicità sul vostro cartellone libero, sullo spartitraffico in via XXX?
DITTA PUBBLICITARIA 1 AL TELEFONO Eh sì 900 euro più iva ogni sei mesi.
MAX BROD FUORI CAMPO Li incontriamo allora per trattare il prezzo ed ecco cosa ci rispondono quando facciamo notare la mancanza della targhetta obbligatoria.
DITTA PUBBLICITARIA 1 La multa la fanno eventualmente alla ditta installatrice non al cliente.
MAX BROD Ok. MAX BROD FUORI CAMPO La multa non sembra spaventarli e il perché ce lo spiega una persona da vent’anni nel settore, che ha lavorato anche per aziende che hanno cartelli abusivi.
CONSULENTE AZIENDE PUBBLICITARIE Se c’hai una società srl da 1 euro io posso caricarmi gli impianti, mettere una persona che fa da amministratore, le multe non le pagherò mai dopo tre anni chiudo e ho fatto solo profitto.
MAX BROD Perché in 4 anni non siete riusciti ad arrivare ai bandi?
CARLO CAFAROTTI – ASSESSORE ALLO SVILUPPO ECONOMICO COMUNE DI ROMA C’è un lavoro che è piuttosto lungo e che è la valutazione della sovrintendenza dell’impatto sui singoli siti di impianti che sono ben 10mila. MAX BROD Voi quando avete dato input alle sovrintendenze per avere questo ok?
CARLO CAFAROTTI – ASSESSORE ALLO SVILUPPO ECONOMICO COMUNE DI ROMA Gli incontri operativi sono stati dati nell’ultimo anno.
MAX BROD Perché si è aspettato l’ultimo anno per dare questo input?
CARLO CAFAROTTI – ASSESSORE ALLO SVILUPPO ECONOMICO COMUNE DI ROMA Il perché gli uffici abbiano proceduto in questo modo anziché in un altro non è dato sapere a me.
MAX BROD Lei è a capo dell’assessorato solo lei può saperlo.
CARLO CAFAROTTI – ASSESSORE ALLO SVILUPPO ECONOMICO COMUNE DI ROMA Beh il perché puntuale no.
MAX BROD Lei pensa di riuscire ad arrivare ai bandi entro la fine del mandato?
CARLO CAFAROTTI – ASSESSORE ALLO SVILUPPO ECONOMICO COMUNE DI ROMA Questo è quello che mi sono preposto.
MAX BROD Qui siamo a due passi dalla Rai, a due passi dal tribunale che problemi ha questo cartello?
RODOLFO BOSI – RESPONSABILE VERDI AMBIENTE E SOCIETÀ - ROMA Questo cartello è in totale violazione del codice della strada perché è all’altezza di un incrocio, l’ho segnalato anche più volte e la ditta che l’ha installato e a cui è stato poi rimosso l’ha reinstallato di nuovo.
MAX BROD FUORI CAMPO E la polizia municipale, lo multa un’altra volta. Sono 1618 le rimozioni fatte nel 2019. Ma è un deterrente che non spaventa tutti. Ecco cosa ci dice senza timore questa altra ditta pubblicitaria.
DITTA PUBBLICITARIA 2 Potrebbero toglierlo, quella poi è responsabilità mia rimontarlo…
MAX BROD E non hanno paura di andare a rimontare un cartello che è stato rimosso? CONSULENTE AZIENDE PUBBLICITARIE Roma è questo ormai da vent’anni.
MAX BROD FUORI CAMPO E infatti ecco cosa succede nel decimo municipio, a Ostia. I cartelloni rimossi a dicembre, sono già tornati.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Di cartelli irregolari Max ne ha trovati tanti. Vedremo se partirà la famosa, famigerata ormai, riforma per assegnare i cartelloni; perché, senza di quella, il servizio di Bike Sharing non partirà. L’assessore allo Sviluppo del comune di Roma ha promesso “la farò entro, anzi prima della fine del mio mandato”. Sarà, ma fino a oggi l’amministrazione ha mostrato il suo ventre molle nei confronti degli abusivi e anche per quello che riguarda la rimozione di questi cartelloni. Un anno la fa, l’anno dopo se ne scorda. Insomma: se solo lasci l’impressione che il territorio è abbandonato, arriva l’abusivo, ti piazza il cartellone e te lo tieni per tutta la vita. Roma è così - dice chi la conosce bene - si rassegna presto ai suoi mali cronici. Uno è il disprezzo per la cosa pubblica. Lo abbiamo visto attraverso quegli imbecilli di vandali che buttano la bicicletta nel fiume, lo vediamo anche quando c’è l’abusivo che non contribuisce alle spese di uno Stato quando invece c’è da dare una mano e anche poderosa alla Sanità.
· Diesel. L’Ossessione Ambientalista.
Attilio Barbieri per “Libero quotidiano” il 9 febbraio 2020. Cara auto elettrica, quanto mi costi! Nulla di più azzeccato del vecchio adagio attualizzato all' oggetto di culto del Green new deal in salsa euro-italiana. L' automobile a batteria, appunto. E non parliamo tanto dei costi di acquisto, che sono comunque mediamente doppi rispetto alle vetture a scoppio di potenza e capacità paragonabili. Anche perché è difficile, per ora, valutare la vita media di queste vetture e soprattutto delle batterie con cui sono equipaggiate. Il tema è un altro: il costo della ricarica, che equivale a quello del carburante in un' auto a motore endotermico. In pratica l' energia elettrica necessaria a farla muovere e il relativo costo. Le modalità di ricarica sono sostanzialmente due: si può collegare la batteria alla presa di corrente domestica oppure a una colonnina pubblica. Nel primo caso un «pieno» costa relativamente poco: da 10 euro (per una utilitaria) in su, in relazione alla capacità degli accumulatori istallati a bordo del veicolo. Con una controindicazione di fondo, però: per ottenere una ricarica completa potrebbero volerci fino a 12 ore, che non sono certo poche, se si considera che il veicolo è praticamente inutilizzabile. E non si può escludere a priori che si possa contare sempre e comunque su un tempo di fermo macchina così lungo. In alternativa alla ricarica domestica si può fare il «pieno» di elettroni alle colonnine pubbliche che stanno spuntando come funghi in giro per l' Italia, grazie soprattutto agli investimenti effettuati da Enel, attraverso la controllata Enel X. Con un' avvertenza importante, però, le piazzole adibite ai distributori di elettricità si possono occupare per un periodo massimo stabilito dai comuni che solitamente non va oltre le due ore. Ma se da un lato questa limitazione assicura che gli e-parcking si liberino più volte nell' arco della giornata, impedisce ai possessori di auto elettriche di utilizzarli in alternativa ai parcheggi.
BASTA TARIFFE FLAT. Le tariffe per la ricarica sono molto variabili, al punto che l' Autorità per l' energia ha da tempo acceso un faro nel timore di speculazioni capaci di scoraggiare la diffusione dei veicoli a batteria. Il costo praticato alle colonnine Enel X è di 50 centesimi per kilowattora. Così, ad esempio, per ricaricare una Jaguar J-Pace si spendono 45 euro. Cifra che sale a 71,50 euro se la ricarica viene effettuata presso la rete Ionity, frutto di un accordo fra Bmw, Mercedes, Ford, Volkswagen e Hyundai. Fino al 31 gennaio scorso Ionity praticava una tariffa flat di 8 euro a ricarica, indipendentemente dall' energia assorbita. Dal 1° febbraio si paga quel che si assorbe. Così, ad esempio, un «rifornimento» sulla Hyundai Kona - sempre alle colonnine - costa da 32 a 50,56 euro, sulla Mercedes Eqc da 40 a 63,20 euro e sulla Tesla Model S da 50 a 79 euro. Ma per le vetture che escono dalle fabbriche di Jeff Bezos possono appoggiarsi su una rete di rifornimento dedicata, la Supercharger, accessibile solo ai clienti, con una tariffa base di 0,30 euro per ogni kilowattora erogato, anche se i possessori delle prime Tesla hanno l' accesso gratuito a vita ai Supercharger. Ma sul costo per l' alimentazione pesa poi una grande incognita. La durata della batteria. E se è vero che alcune case la garantiscono «a vita», è consigliabile comunque verificare le eventuali franchigie per la sostituzione legata e accidentali sempre possibili. Cambiare l' accumulatore a una vettura elettrica significa spendere dei gran soldi. Il costo della batteria arriva anche al 50% del costo dell' intera vettura. Quella che equipaggia la Smart Eq da 17,6 kWh si paga circa 9mila euro, quella di una Nissan Leaf da 40 kWh poco meno di 7mila, mentre quella di una Mercedes Eqc da 80 kWh sfiora i 40mila euro. Infine c' è da valutare la capacità di carica dichiarata dal costruttore in relazione all' autonomia. In una recente prova su strada pubblicata dalla rivista Al volante, ad esempio, l' autonomia media rilevata della Jaguar I-Pace è stata di 322 chilometri. Un po' meno rispetto ai 470 dichiarati dal costruttore. E se si pensa che il costo della ricarica può arrivare anche a 71 euro la differenza può non essere trascurabile. Per le e-car il diavolo si nasconde sicuramente nei dettagli.
Le auto elettriche emettono radiazioni nocive? A Ispra c’è un laboratorio dove le misurano dal 2016: i risultati sono sorprendenti. Federico Del Prete su it.businessinsider.com l'8/2/2020. La trazione elettrica dei veicoli, così come le reti 5G, pongono il problema dell’eventuale nocività delle radiazioni. Le auto elettriche funzionano a corrente, esponendo gli occupanti a campi magnetici e radiazioni provenienti da motori e batterie La Ue ha deciso di misurare il rischio allestendo un laboratorio apposito, attivato dal 2016 al JRC di Ispra, in provincia di Varese. Business Insider Italia è andato a scoprire le ultime novità: i risultati sono sorprendenti. In una splendida giornata di sole, Business Insider Italia è entrato nel complesso scientifico del JRC (Joint Research Center) di Ispra (Va), uno dei maggiori aggregati di ricerca scientifica al mondo. Oltre centocinquanta ettari di superficie, trentacinque chilometri di strade interne, quasi duemila persone: un piccolo paese composto da scienziati, che lavorano in grandi laboratori nei pressi del Lago Maggiore e in vista delle Alpi. Qui la Commissione europea ha, tra gli altri suoi poli scientifici di eccellenza, lo European Interoperability Centre for Electric Vehicles and Smart Grids, una rete di laboratori che sperimentano i veicoli elettrici e le reti dati intelligenti che lavora in stretta cooperazione anche con il Department of Energy degli Stati Uniti, in particolare con l’Argonne National Laboratory (ANL), nei pressi di Chicago. In particolare esiste il laboratorio VeLA9 (Vehicle Emissions Laboratory), attivo dal 2016 nella misurazione delle emissioni elettromagnetiche da parte dei veicoli elettrici e delle colonnine di ricarica. Tesla, per fare un esempio, propone auto con batterie da 100 kWh, l’energia sufficiente a tenere un asciugacapelli acceso per quattro giorni di fila – oppure a percorrere circa cinque ore in autostrada. Oltre ai veicoli ibridi ed elettrici, si sperimenta anche l’interoperabilità delle reti, ovvero il modo in cui i dispositivi più diversi dialogheranno tra loro per ottimizzare sia l’energia richiesta e impiegata, sia i dati scambiati. “La mobilità elettrica è una delle tecnologie più promettenti per de-carbonizzare il trasporto su strada,” ha detto a Business Insider Italia Harald Scholz, responsabile di progetto per l’interoperabilità delle reti intelligenti, dei veicoli elettrici e della domotica. “I nostri laboratori sono capaci di accogliere e misurare autovetture e veicoli industriali sia ibridi sia a propulsione completamente elettrica, e anche le auto a celle combustibili alimentate a idrogeno. Il 95% delle richieste di esperimenti da parte delle aziende è però su veicoli che contengono una batteria, oggetti che si ricaricano sia nello spazio pubblico sia in quello privato.” Scholz sostiene come non basti fare ricerca tecnologica sull’automobile elettrica in sé, in vista di una futura normativa che anche l’attività di VeLA9 contribuisce a stabilire, ma bisogna estendere i controlli anche alle strutture di ricarica e all’approvvigionamento di energia elettrica. In previsione, ammonisce Scholz, la transizione all’elettrico di una parte sostanziale del parco veicoli europeo comporterà infatti una sempre maggiore domanda di potenza, in termini di gigawatt (GW) o terawatt (TW). In principio questa domanda sarà gestibile, col passare del tempo si porrà il problema di rendere disponibile molta potenza in uno specifico momento della giornata, un po’ come avviene l’estate per l’uso dei condizionatori. “Se ad esempio, mettiamo il caso nel 2040, con percentuali a due cifre di vetture già elettrificate in circolazione, immaginassimo di lasciare tutti insieme in carica la nostra auto alle 18:00 di sera creeremmo un problema di disponibilità di potenza momentanea,” avverte Scholz.
Un affaccio sul futuro. “Per ricaricare un veicolo è necessario molto meno tempo rispetto a ciò che si pensa – continua Scholz -. La ricarica completa di una vettura effettuata a una colonnina trifase da 22 kW dura tra le quattro e le cinque ore; ma sono già disponibili super-colonne da 350 kW in grado di ricaricare una macchina di categoria media, con una batteria intorno ai 50 kW, in un’ora.” Gli HPC (High Power Charger), dai 150 a oltre 300 kW, progettati sulla base delle auto elettriche più attuali, ma anche per i bus o i furgoni che consegnano gli acquisti di e-commerce, consentono di caricare completamente la batteria di un veicolo in un quarto d’ora. Le batterie devono però essere progettate appositamente per questi tempi di ricarica. “Anzitutto,” prosegue Scholz, “c’è il tema dell’intelligenza della rete. Ogni tipo di edificio avrà una centralina che monitorerà automaticamente tutti i consumi di elettricità, non solo il wall box che carica l’automobile in garage, ma anche la lavatrice e gli altri elettrodomestici. In funzione dell’energia in arrivo dalla rete, il sistema deciderà quando attivare la carica dell’automobile in garage”.
La seconda vita delle batterie. “Siamo abituati a un litio disponibile e a basso costo, estratto in miniere a cielo aperto, in Cina ad esempio. Con il grande fabbisogno futuro di questo metallo, aumenterà il ritmo estrattivo e quello della sua lavorazione. Ciò non desta ancora preoccupazione: almeno per i prossimi dieci anni l’espansione del mercato è garantita, a patto che le diverse industrie sappiano adeguatamente assicurarsi il proprio fabbisogno. Il problema è piuttosto la longevità e la riciclabilità delle batterie,” ha detto Scholz. Le batterie agli ioni di Litio durano più a lungo del previsto. “È un fatto positivo,” afferma Scholz, “siamo già nella durata media per un’autovettura europea. Alcuni esperti credono che in futuro il pacco batterie di un’auto possa durare anche 15 anni e più.” Dopodiché immagineremmo di doverle avviare al riciclo, ma potrebbe andare diversamente. “Piuttosto che affrontare un processo ancora costoso ed energeticamente impegnativo, l’idea è quella di una seconda vita. Il pacco batterie non più adatto per l’uso automobilistico non è del tutto inutilizzabile, avendo perso soltanto un 20%-30% della sua capacità; il rimanente 70%,” ha spiegato Harald Scholz a Business Insider Italia, “può essere ancora utilizzato.” I pacchi batterie “esausti” si potranno usare immagazzinando l’energia prodotta da fonti rinnovabili che non chiedono la velocità e lo spunto indispensabile ai veicoli. Esistono già alcuni esempi di riuso, in Olanda e in Giappone le batteria sono usate per garantire l’illuminazione stradale di alcune cittadine. “In questo modo,” ha detto Scholz, “si avrebbe un secondo periodo di utilizzo di tre-cinque anni, dopodiché debbono essere per forza riciclate.“
Interferenze. Definito lo scenario produttivo e le modalità di utilizzo, la nostra conversazione con lo scienziato ha toccato il tema più scottante: le auto elettriche non hanno scarico, ma emettono ugualmente sia polveri sottili, a causa del rotolamento degli pneumatici sull’asfalto e durante la frenata, sia radiazioni elettromagnetiche, emesse durante il normale funzionamento. Mentre da tempo sappiamo della pericolosità del particolato sottile, esiste un rischio per la salute relativo alle radiazioni elettromagnetiche? Per ciò che riguarda i telefoni portatili iniziamo a vederci chiaro, ma siamo sempre più esposti a nuove fonti di magnetismo e radiofrequenze, classificate dalla International Agency for Research on Cancer (IARC) come “probabilmente cancerogene” già nel 2011, proprio a partire dal rischio associato all’uso dei cellulari. E le auto? “I nostri risultati dicono che le vetture sono schermate o hanno i propri elementi di potenza schermati in modo sufficiente. Abbiamo trovato qualche pecca nelle macchine più piccole e più leggere, monoposto o biposto in plastica. Dobbiamo controllare che questa miniaturizzazione non porti a un’economia tale da ridurre la schermatura interna alle componenti più critiche”. Allo stato attuale nulla da temere, quindi. Se la salute umana sembra viaggiare in una botte di ferro, i problemi di sicurezza sono ben altri: le interferenze con le altre tecnologie. “Stiamo testando tutte le frequenze da 30 a 1000 megahertz, e da 1 gigahertz a 7 gigahertz non perché ci sia un rischio immediato per la salute umana, ma perché le automobili elettriche sono a rischio di interferenza con le altre bande di frequenza dalle quali dipendiamo: la radio, la TV, il wi-fi, la LTE con le sue diverse generazioni, fino al 5G, che arriva fino a oltre 3 gigahertz.” Continua Harald Scholz: “Le radiofrequenze emesse dalle auto elettriche non nuocciono direttamente alla salute dell’essere umano ma possono disturbare la produttività del nostro terzo settore. Si immagini un “canyon” stradale a Milano, a Francoforte o a Stoccolma, città che tra pochi anni vedranno percentuali a due cifre di auto elettriche in transito, con a destra e sinistra edifici pieni di compagnie assicurative, studi legali, agenzie pubblicitarie, tutte connesse con wireless 5G o Bluetooth; immaginiamo poi di introdurre anche le automobili a guida autonoma, ancora più delicate. Cosa accadrebbe se fossero disturbate dal funzionamento dei motori elettrici o dal raddrizzamento della corrente alternata in corrente continua proveniente dalle colonnine di ricarica veloce? Sappiamo esattamente quali saranno i componenti che potrebbero essere sorgenti di queste frequenze potenzialmente fastidiose”.
Magnetismo. Le stesse reti di ricarica potrebbero quindi essere d’impaccio, e anche nocive per la salute: “Altro punto,” continua infatti Scholz, “sono i campi magnetici di bassissima frequenza: poche decine di kilohertz, con rischi confrontabili a quelli derivanti dalla prossimità con i grandi trasformatori presenti nelle elettrostazioni delle compagnie elettriche. È lì che può teoricamente nascere un rischio sanitario, specialmente per i pazienti portatori di pacemaker o di impianto cocleare, o semplicemente con un pezzo di titanio nel ginocchio o altrove. Per questo tipo di rischio facciamo un altro tipo di misure, per vedere se si è entro i limiti accettati a livello internazionale. Si potrebbe dire che il rischio è bassissimo, però ricordiamoci che le infrastrutture di ricarica dovranno essere molto frequenti nello spazio pubblico.”
Sempre in presa. Lo scenario è in continua evoluzione, sia per ciò che riguarda i rischi e le cautele, sia per le ulteriori innovazioni possibili. In questo senso, allo European Interoperability Centre for Electric Vehicles and Smart Grids si guarda ancora più avanti. “Un’altra cosa che abbiamo iniziato a fare nel 2019,” ha rivelato Harald Scholz, “è iniziare a collaudare dei prototipi per la ricarica induttiva da bobina a bobina, come succede per la ricarica senza fili dello smartphone.” Si può fare anche per i veicoli, soprattutto per le vetture molto utilizzate come i taxi o i bus: “Una super-carica wireless molto intensa, in meno di un minuto, ad esempio nelle stazioni di capolinea o addirittura al semaforo rosso,” ha detto Scholz. Grande attenzione è messa anche nell’efficienza energetica, per non sprecare neanche un singolo Watt: “Il mio sogno,” racconta Scholz, “è una legge per cui ogni colonna di ricarica veloce abbia un adesivo dove ci sia la classe di efficienza energetica, come avviene oggi per i frigoriferi.”
Francesco Spini per “la Stampa” il 16 gennaio 2020. Si fa presto a dire "green". In un momento in cui i cambiamenti climatici rendono la tutela dell' ambiente una priorità per tutte le aziende, il colosso petrolifero Eni inciampa sul carburante verde. La pubblicità che ne esalta le doti di ecosostenibilità e ne sottolinea l' efficacia nelle riduzione dei consumi finisce nel mirino dell' Antitrust che la boccia in quanto giudicata «ingannevole»: il gruppo del cane a sei zampe dovrà pagare una multa da 5 milioni, il massimo previsto dal Codice del Consumo. Solo un pizzicotto, forse, per chi fattura ogni anno nell' ordine dei 77 miliardi di euro, ma a San Donato sono decisi a dare battaglia, presentando ricorso al Tar del Lazio. Il prodotto in questione si chiama «Eni Diesel+». Secondo gli spot assicurerebbe «fino al 40%» di riduzione delle emissioni gassose e in media del 5% di anidride carbonica, oltre a una riduzione dei consumi «fino al 4%», aggiungendo frasi come «green/componente green», «rinnovabile» e «aiuta l' ambiente». Questo perché tale carburante è ottenuto miscelando un 85% di gasolio minerale (il cosiddetto petrodiesel) e un 15% di gasolio di origine vegetale, un biodiesel chiamato da Eni, appunto, «green diesel». Si tratta di un carburante ottenuto da olio di palma (per lo più) e da olii esausti lavorati da grassi vegetali attraverso un processo di idrogenazione eseguito nelle raffinerie di Venezia e di Gela. Secondo l' Antitrust la qualificazione del prodotto finale come «green» viene utilizzata «in maniera suggestiva» per «evocare il minore o ridotto impatto ambientale del prodotti». Invece i messaggi «riguardano un gasolio per autotrazione, ovvero un carburante che per sua natura è un prodotto altamente inquinante e che, evidentemente, non può essere considerato "green" né tantomeno attraverso il suo utilizzo è possibile prendersi cura dell' ambiente». Ciò vale anche per la sola componente di biodiesel. Nelle sue risultanze istruttorie l' authority guidata da Roberto Rustichelli non conferma «in quanto parziali» e «non adeguatamente contestualizzate» nemmeno i numeri relativi alla riduzioni di emissioni gassose e ai consumi. Eni ricorrerà al Tar del Lazio. La società esprime «grande sorpresa» per la decisione. Fa notare che l' autorità non mette in discussione le «performance ambientali migliori rispetto ai carburanti tradizionali» ma «si contestano le modalità espressive», in specie «la parola "green"». Argomentazioni «semantiche» che Eni «non ritiene condivisibili» e che finiranno dritte al Tar.
Dall'articolo di Lorenzo De Cicco per ilmessaggero.it il 16 gennaio 2020. Perfino nei corridoi del Campidoglio ormai lo ammettono: «Non servono a molto questi blocchi, ma siamo obbligati per legge». In realtà, come sostengono alcuni esperti, a partire dal Cnr, qualche margine discrezionale per i sindaci c'è, almeno sulla categoria delle auto da mettere al bando. Ma sono soprattutto i numeri a certificare l'ennesima beffa Capitale, stavolta in versione smog: nonostante da due giorni siano ferme quasi 700mila auto diesel, addirittura quelle fresche d'immatricolazione, le Euro 6, gli sforamenti del limite delle polveri sottili aumentano, anziché diminuire.
Diesel: gli Euro 6 sono puliti «Assurdo vietarne l’utilizzo». Pubblicato lunedì, 20 gennaio 2020 su Corriere.it da Alessio Jacona. Onorati (Politecnico di Milano): «I motori più recenti inquinano pochissimo». Lo stop a tutte le auto diesel, anche le più moderne Euro 6, fa discutere. L’innesco della polemica è noto: assediata dallo smog e dall’inquinamento per PM10, a Roma la settimana scorsa l’amministrazione Raggi ha reagito bandendo dalla «Fascia Verde» della città non soltanto le vecchie auto a benzina fino a Euro 2, ma anche quelle equipaggiate con le motorizzazioni a gasolio più evolute. E di un intervento così drastico si parla anche in altre città. Sono i rimbombi più recenti di una vera e propria guerra, quella condotta da diverse amministrazioni pubbliche contro il diesel, che dai tempi del Dieselgate finisce sul banco degli accusati come principale responsabile dell’inquinamento. Una battaglia per ora persa, se è vero che i blocchi decisi nella capitale non hanno prodotto alcuna diminuire di polveri sottili nell’aria, mentre, al contrario, si è rilevato un aumentato. Il tutto mentre, a causa dello stop, molti automobilisti non riuscivano a ritirare il loro veicolo diesel Euro 6 appena acquistato. Danno e beffa. «È assurdo, in questo modo si supera localmente la normativa europea e internazionale, secondo la quale questi veicoli sono invece adatti a circolare». A parlare è Angelo Onorati, professore ordinario al Dipartimento di energia del Politecnico di Milano, dove insegna nei corsi di Macchine e Motori a combustione interna. Secondo Onorati, bloccare il traffico dei veicoli Euro 6 di categoria B, C, D-Temp è un provvedimento «senza alcun impatto, perché hanno emissioni talmente basse che la loro esclusione dalle strade risulta irrilevante e priva di efficacia». E che per di più «crea confusione in chi è pronto ad acquistare una nuova auto, proprio quando bisognerebbe invece incoraggiare il rinnovo di un parco macchine ormai mediamente molto vecchio e inquinante». Se poi prendiamo proprio i recentissimi Euro 6D-Temp, spiega sempre il professor Onorati, «le emissioni di questi nuovi motori sono così basse che altre sorgenti di particolato nel traffico, cioè gli pneumatici che si consumano con il rotolamento, l’usura dell’asfalto e quella dei freni, risultano inquinare molto di più».
Del resto i numeri parlano chiaro: un Euro 6D-Temp emette 5 milligrammi ogni chilometro, mentre «la sola usura dei pneumatici, di milligrammi a chilometro ne produce circa da 20 a 50».Resta però il fatto che una serie di test, commissionati dall’associazione Transport&Environment su una Nissan Qashqai 1.5 dCi e una Opel Astra 1.6 CDTi (entrambe omologate Euro 6d-Temp), avrebbero evidenziato dei picchi di emissioni fuori norma durante la pulizia del Dpf. Come è possibile? «Il ciclo Real Driving Emission, o RDE, dura circa due ore — risponde Onorati —, si effettua montando un vero e proprio laboratorio chimico sulla macchina, per misurare le emissioni, e comprende già l’effetto di una rigenerazione, che porta sì a un picco di emissioni, ma che è già considerato nel calcolo globale, e non deve preoccupare. Anche perché questi cicli di pulizia occupano uno spazio di tempo brevissimo rispetto alla vita intera della macchina». Ma allora il diesel è finito, come dicono i detrattori, o no? «No, il diesel è una tecnologia matura che si evolverà ancora con l’avvento dell’Euro 7 e che, nel medio termine, potrà arrivare insieme ai motori a benzina ad avere emissioni di particolato così piccole da avere un impatto praticamente pari a zero».
Il blocco delle auto: atto illiberale e poco utile. Simone Baldelli, deputato di Forza Italia, Sabato 18/01/2020, su Il Giornale. È di questi giorni la polemica suscitata dal blocco della circolazione delle auto che disposto per ben tre giorni a Roma e, in forme e tempi diversi, anche in altre città del centro-nord. La polemica ha riguardato principalmente i criteri utilizzati nella capitale, poiché lo stop forzato alla circolazione ha riguardato i diesel più recenti, Euro 6, e non, ad esempio, le auto a benzina delle categorie Euro3 ed Euro4. Colgo l'occasione per svolgere una riflessione di carattere più generale sull'argomento, di cui mi sono occupato in Parlamento e che ho toccato anche nel mio recente libro dal titolo Piovono multe!, anche per formulare qualche proposta concreta. Premetto che io sono liberale perché amo la libertà individuale. E trovo francamente insopportabile il fatto che un sindaco possa vietarci di circolare liberamente con la macchina, con la moto, o col motorino, malgrado tutto quello che paghiamo di carburanti, accise, tasse, iva, bollo e assicurazione, senza considerare parcheggi a pagamento ed eventuali permessi di ztl. Alla stessa maniera trovo insopportabile, ogni volta che c'è la cosiddetta «domenica a piedi», vedere nei vari TG le interviste di tizi entusiasti, a spasso con la famiglia in centri storici già normalmente chiusi al traffico, senza che si ascolti mai, almeno per par condicio, la voce di tutti quelli che, bloccati a casa e, magari, incazzati neri, considerano queste iniziative molto illiberali e assai poco utili. È, infatti, opinione diffusa tra molti addetti ai lavori che la disciplina del cosiddetto «blocco della circolazione» abbia un impatto relativo sull'inquinamento ambientale. Secondo l'Ispra, ad esempio, al primo posto per l'inquinamento ambientale ci sono gli impianti di riscaldamento, col 38 percento, al secondo posto gli allevamenti intensivi e la gestione dei reflui, col 15 percento, e al terzo, l'industria con l'11 percento e al quarto, col 9 percento, le automobili e la circolazione stradale. Inoltre, ogni amministrazione comunale si regola per conto proprio, con il paradosso che, durante una giornata di blocco, la stessa macchina potrebbe circolare in una città, ma non in un'altra, che magari si trova solo a poche decine di chilometri di distanza. Oltre a questo c'è da dire che manca un meccanismo di comunicazione certo ed efficace, che garantisca a ciascun cittadino proprietario di ciclomotore o di motociclo o di autoveicolo, di avere informazioni dirette e con un congruo preavviso su criteri, giorni e orari di durata del «blocco». C'è, poi, un aspetto che riguarda il tema delle sanzioni: non tutti sanno che dopo la seconda violazione del «blocco» di circolazione nell'arco di due anni, c'è la sospensione della patente da 15 a 30 giorni. E mi sembra, onestamente, una misura sproporzionata. Forse bisognerebbe prima chiarire bene quali siano le sostanze inquinanti che si vogliono ridurre e, poi, individuare le misure più idonee di contrasto. Inoltre, se non si ha un sistema di trasporto pubblico efficace, tutte le altre forme di mobilità diventano inevitabilmente scelte obbligate. Sarebbe, quindi, il caso che, ed è quello che ho chiesto con una interrogazione parlamentare di circa un anno fa, il governo facesse tre cose: 1. svolgesse un monitoraggio, per quanto di competenza, sull'effettiva efficacia di queste iniziative; 2. promuovesse l'armonizzazione di queste iniziative in modo da renderne omogenei i criteri, almeno per macro-aree; 3. assumesse iniziative per introdurre l'obbligo di adottare un qualche meccanismo di comunicazione-informazione diretta ai cittadini su date, orari e modalità della circolazione. Basterebbe un sms o un messaggio su WhatsApp. Non vi sembrano proposte di buon senso?
Giorgio Ursicino per ilmessaggero.it il 16 gennaio 2020. Finalmente Roma torna ad essere caput mundi. Ha ragione la sindaca Raggi, si era proprio stufata. La capitale del primo impero della storia ridotta nelle zone basse della classifica da tutti i punti di vista, sia quello economico sia di qualità della vita. Ci sarà pure qualcosa in cui essere ancora i migliori, purché se ne parli. Ecco l'anticiclone amico, con l'alta pressione accovacciata sul Bel Paese a ringhiare alla prima nuvoletta all'orizzonte. Così, dopo un novembre amazzonico, la pioggia è diventata solo un ricordo, le polveri sottili hanno pian piano intasato l'atmosfera, mandando fuori di testa le centraline che misurano l'inquinamento. Ecco l'occasione, l'allarme rosso può diventare amico. E la sindaca, per salvare i romani, tira fuori la geniale soluzione che fa della Città Eterna un enclave più avanzato di Palo Alto, il cuore della Silicon Valley. Fermare tutte le auto diesel, anche le Euro 6, quelle appena uscite dal concessionario, alcune delle quali costose più di centomila euro e considerate da tutti lo stato dell'arte della tecnologia, autentici capolavori per quanto riguarda le emissioni nocive. Un'originale soluzione al problema, fermare le auto che non inquinano per migliorare la qualità dell'aria. Come tentare di spegnere gli incendi australiani con lo spray o azzerare il debito pubblico italiano impegnandosi a lavorare di più. Se non fosse una cosa seria, ci sarebbe da ridere. Ma è avvenuto veramente e la geniale idea, oltre a far parlare di noi in mezzo mondo, non ha chiaramente portato il minimo beneficio anche perché possono tranquillamente girare le Euro 3 a benzina che hanno quasi venti anni e, alcune della quali, sono delle vere bombe ecologiche. Paragonare queste vecchie carrette con un Euro 6 diesel è una follia per chi è sobrio, non solo dal punto di vista ambientale, ma anche da quello non meno importante della sicurezza. Provate a pensare a quante vite umane siamo riusciti a risparmiare nel nuovo millennio solo per il progresso delle vetture. Alla prima cittadina, mentre covava il trappolone al diesel, gli è sfuggito che la sua Municipale aveva appena ritirato dagli showroom centinaia di macchine provenienti della fabbrica, manco a dirlo a gasolio. Eppure finora i romani di pazienza ne hanno avuto da vendere, soprattutto in fatto di mobilità. La libertà e il diritto di muoversi, un asset fondamentale nella vita tutti i giorni. Ricordare che le buche hanno preso il posto del Colosseo come simbolo della città è come sparare sulla croce rossa e poi, suvvia, molte voragini (ma non così tante) c'erano anche prima che Virginia salisse il Campidoglio. Più difficile è comprendere perché due fermate strategiche dell'unica vera metropolitana romana siano rimaste chiuse quasi un anno ciascuna per sistemare le scale mobili. Nell'ultimo periodo, prendere l'autobus è diventata un'impresa eroica, come farsi una passeggiata a Baghdad. Prendono fuoco come cerini e, quando funzionano, fumano come ciminiere. Uno addirittura si è incendiato davanti alla Rinascente appena ristrutturata e quando è esploso ha fatto saltare le penne sulle scrivanie del vicino palazzo Chigi. Non è certo possibile dire al proprietario di una diesel Euro 6 costretto a lasciare la sua auto nuova fiammante casa che sono cose che succedono, che serve pazienza, che stanno lavorando per migliorare la situazione. Quando l'inquinamento sale c'è un modo meno cervellotico e più efficace di imporre lo stop alle vetture a gasolio appena immatricolate: durante la notte lavare le strade e rimuovere il particolato, una cosa che a Mosca fanno tutti i giorni. Ma se la sindaca tante cose non le sa, non si riesce a capire perché qualcuno non gli dà una mano, un consiglio, un suggerimento. Eppure si tratta della capitale d'Italia, la città più antica e famosa del mondo. Il premier Conte, fra crisi libica, situazione dell'Ilva, caos Autostrade e rilancio Alitalia, ha il suo bel da fare ma, visto che anche lui vive a Roma, dire a Virginia che non si risolve un problema delicato e complesso riguardante la salute dei cittadini fermando le auto migliori che abbiamo. Forse un po' più di tempo di occuparsi della situazione lo poteva avere Paola De Micheli che per lavoro adesso fa il Ministro dei Trasporti e della Infrastrutture ed è la responsabile della motorizzazione nel nostro paese. Sembra una persona tanto sensata, avrebbe potuto suggerire alle sindaca di evitare di fare un buco nell'acqua. In fondo qualche esperto nel suo ministero ce l'ha a disposizione. Luigi Di Maio, infine, è un po' più coinvolto. Non guida lui il partito di cui fa parte la Raggi? Evitando certe scellerate decisioni forse fermerebbe l'emorragia di parlamentari che affligge il movimento.
Corrado Zunino per repubblica.it il 16 gennaio 2020. Non è il traffico automobilistico la prima causa dell'invasione delle polveri sottili nel Centro-Nord del Paese. È, piuttosto, il riscaldamento residenziale. Il consumo di legna, pellet e carbonella, combustibili minoritari all'interno delle nostre case, incide sull'inquinamento residenziale per oltre il 90 per cento. Lo studio di Life PrepAir, progetto della Regione Emilia su co-finanziamento europeo nato nel febbraio 2017 per trovare in sette anni soluzioni all'inquinamento dell'intero Bacino del Po, porta acqua al mulino dei critici delle misure blocca- traffico. Lo stop alle auto non è solo un provvedimento tampone, che finisce per togliere attenzione politica e risorse economiche a soluzioni di ampio respiro, ma anche le priorità sui pericoli - sostiene il progetto - sono mal scandite e affrontate. L'Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale - Ispra - conferma che anche il 64 per cento delle emissioni di Pm2.5, possiamo chiamarle polveri sottilissime, deriva proprio dal settore residenziale ed è riconducibile in buona parte alla legna. E così la ricerca dei traccianti delle diverse sorgenti, condotti sul campo dalle Agenzie regionali per l'ambiente (Arpa). Uscendo dal bacino padano, il protagonismo negativo delle biomasse resta una certezza. Le massime concentrazioni di Pm10 si registrano nelle stazioni di rilevamento di Frosinone, "area dove la combustione della legna è forte", dice lo studio. I dossier di Arpa Umbria rivelano, ancora, come a Città di Castello il contributo delle biomasse alle concentrazioni di particolato arrivi al 47,8 per cento. In Puglia, regione che non segnala sforamenti delle polveri sottili, le massime concentrazioni di aerosol inquinante si avvistano nel comune di Torchiarolo, dove la prima fonte di emissione è proprio la combustione in stufe e caminetti. Bruciare legna nel suggestivo caminetto non produce solo un pulviscolo insidioso di Pm10, ma anche Benzo(a)pirene, che fornisce alle stesse polveri nuova tossicità. Non esiste combustione casalinga a emissioni zero, ad oggi. Il metano non incide sulla nostra respirazione, ma allarga il buco dell'ozono. E il pellet, in crescita sul mercato visti i prezzi concorrenziali, a lungo è stata indicata come un'energia verde e come tale sovvenzionata.
«I nuovi diesel non inquinano. Assurdo impedirne l’utilizzo». Pubblicato giovedì, 16 gennaio 2020 su Corriere.it da Alessio Jacona. Tre giorni senza diesel. Mentre Roma deve fare i conti con una nuova impennata dell’inquinamento da pm10, l’amministrazione Raggi reagisce bandendo dalla «Fascia Verde» della città non solo le vecchie auto a benzina fino a euro 2, ma a sorpresa anche i recentissimi diesel euro 6. Non è che l’ultimo di una serie di provvedimenti presi da varie e diverse amministrazioni locali contro le vetture a gasolio, la cui stella è in caduta libera dai tempi del Dieselgate, e che per alcuni sembrano essere diventate responsabili di ogni inquinamento. Una settimana amara per molti automobilisti della capitale, al punto che chi ha acquistato un veicolo diesel euro 6, in questi giorni non ha potuto ritirarlo dal concessionario. «È assurdo, in questo modo si supera localmente la normativa europea e internazionale, in accordo alla (secondo la) quale questi veicoli sono invece adatti a circolare». A parlare è Angelo Onorati, professore ordinario presso il Dipartimento di Energia del Politecnico di Milano, dove insegna nei corsi di Macchine e Motori a combustione interna. Secondo Onorati, bloccare il traffico dei veicoli Euro 6 di categoria B, C, D-Temp è un provvedimento «senza alcun impatto, perché hanno emissioni talmente basse che la loro esclusione dalle strade risulta irrilevante e priva di efficacia». Fermare i diesel di ultima generazione, dunque, non solo non servirebbe a migliorare la qualità dell’aria, ma «crea confusione in chi è pronto ad acquistare una nuova auto, e questo proprio quando invece bisognerebbe incoraggiare il rinnovo di un parco macchine ormai mediamente molto vecchio e inquinante». In particolare, spiega il professor Onorati, considerando i più moderni euro 6D-Temp «le emissioni di questi nuovi motori sono così basse che altre sorgenti di particolato nel traffico, cioè gli pneumatici che si consumano con il rotolamento, l’usura dell’asfalto e quella dei freni, risultano inquinare molto di più». Del resto i numeri parlano chiaro: un euro 6D-Temp emette 5 milligrammi ogni chilometro mentre «la sola usura dei pneumatici, senza contare altro, di milligrammi a chilometro ne produce circa da 20 a 50». Nonostante questo, una serie di test commissionati dall’associazione “Transport&Environment” su una Nissan Qashqai 1.5 dCi e una Opel Astra 1.6 CDTi, entrambe omologate Euro 6d-Temp, avrebbero evidenziato dei picchi di emissioni fuori norma durante la pulizia del Dpf. Come è possibile?: «Il ciclo Real Driving Emission, o RDE, dura circa due ore e si effettua montando un vero e proprio laboratorio chimico sulla macchina per misurare le emissioni - spiega ancora Onorati - e comprende già l’effetto di una rigenerazione, che porta sì ad un picco di emissioni, ma che però è già considerato nel calcolo globale, quindi non deve preoccupare. Specie considerato che questi cicli di pulizia occupano uno spazio di tempo brevissimo rispetto alla vita intera della macchina». Ma allora il diesel è finito o no? «No, il diesel è una tecnologia matura che si evolverà ancora con l’avvento dell’euro 7 e che, nel medio termine, potrà arrivare insieme ai motori a benzina ad avere emissioni di particolato così piccole da avere un impatto praticamente pari a zero».
Se l’Italia mette (ancora) l’olio di palma nel motore. Pubblicato giovedì, 16 gennaio 2020 su Corriere.it da Elena Comelli. Fare il pieno dal benzinaio sembra un gesto semplice, per gli automobilisti che ne hanno l’abitudine. In pochi si domandano cosa c’è dentro al carburante che mettono nel serbatoio. E quanti danni può provocare, anche in Paesi lontani dal nostro. Il settore dei trasporti è fra i principali responsabili delle emissioni a effetto serra in Europa, soprattutto per colpa dei trasporti su gomma. Proprio per renderli meno dannosi l’Unione europea impone di rendere i carburanti un po’ più rinnovabili, con una piccola percentuale di biocarburanti. Ma non tutti i biocarburanti sono uguali. A giugno l’Europa ha dichiarato insostenibile l’olio di palma per l’utilizzo come carburante. L’Italia però non si è ancora adeguata. Dall’anno scorso sulla pompa di benzina c’è scritto «E5», per indicare che non contiene più del 5 per cento di biocarburante, ma in realtà lì dentro c’è quasi solo benzina fossile. In base agli ultimi dati del Gestore dei servizi energetici (Gse), ente delegato al monitoraggio ufficiale delle fonti energetiche, su 7 milioni di tonnellate di benzina consumata in Italia nel 2017 c’erano solo 20 tonnellate di bioetanolo di origine non fossile. Come dire niente. Sulla pompa del gasolio, invece, c’è scritto «G7» oppure «G15», per indicare che non contiene più del 7 o del 15 per cento di biodiesel. In media il biodiesel è il 3,5 per cento di tutto il gasolio venduto, ovvero poco più di un milione di tonnellate su 23. Resta da chiedersi: questo biodiesel è davvero rinnovabile? In realtà no, perché la principale componente del biodiesel venduto in Italia è l’olio di palma. Con i suoi derivati, considerati la prima causa della deforestazione internazionale: tanto che invece di ridurre le emissioni a effetto serra le incrementano. Su un totale di 1,1 milioni di tonnellate di biodiesel immesso al commercio nei distributori italiani almeno 446mila tonnellate (il 37,2 per cento) sono olio di palma e acidi grassi derivati dalla sua produzione (Palm Fatty Acid Distillate) di importazione indonesiana, seguiti da 19mila tonnellate (1,6 per cento) di olio di palma malese e da 13mila tonnellate di olio di soia (1,1 per cento), secondo il Gse. «Per coltivare e produrre sempre più palma e soia si deve deforestare: le coltivazioni sorgono dove una volta c’erano torbiere o foreste umide tropicali nel Borneo, in Amazzonia e in Africa», denuncia Andrea Poggio, responsabile della mobilità sostenibile di Legambiente. A causa della deforestazione, ci dicono gli scienziati dell’Intergovernmental Panel on Climate Change, la combustione di un litro di olio di palma provoca il triplo delle emissioni di CO2 del gasolio, mentre la combustione di un litro di olio di soia, il doppio. Il 45 per cento del terreno usato per produrre olio di palma è sottratto a foreste vergini, 9 per cento nel caso della soia. Se l’Amazzonia va in fiamme è anche colpa nostra. E a finanziare la deforestazione siamo noi, a ogni pieno. Il prezzo del biocarburante infatti lo sussidia l’acquirente finale, per legge. Secondo le valutazioni del Gse si tratta di 600 milioni di euro all’anno, in media 16 euro per ognuna delle 38 milioni di auto in circolazione. Un sussidio che invece di aiutare le fonti rinnovabili si ritorce contro l’ambiente. Così paghiamo per distruggere foreste, sterminare specie animali come gli oranghi, ormai al lumicino, e dilaniare le comunità indigene che popolano le ultime foreste vergini del pianeta. Eppure le alternative esistono e ce le abbiamo in casa. Per quanto riguarda le auto a benzina, l’Italia dispone di una capacità installata superiore a 350mila metri cubi (equivalenti a oltre 270mila tonnellate, quasi 4 volte il fabbisogno) di produzione di bioetanolo sostenibile, derivante da scarti a base cellulosica di produzioni alimentari, che non richiederebbe alcun investimento per essere utilizzato nel parco auto circolante, in base ai dati forniti da Assodistil. Per le auto diesel, invece, si tratta di sostituire con produzioni sostenibili il 40 per cento del fabbisogno di biodiesel, pari a circa 500mila tonnellate di biocarburante. L’uso di matrici di scarto, come ad esempio gli olii vegetali di cucina usati, non è enorme ma sta crescendo: tra il 2017 e il 2018 è passato da 13mila a 40mila tonnellate all’anno. E le potenzialità teoriche di recupero, sostiene il consorzio Conoe, sono pari a 280mila tonnellate. Per rendere i sussidi ai biocarburanti davvero utili, quindi, basterebbe escludere quelli dannosi e autorizzare gli incentivi solo per i biocarburanti avanzati, derivanti dai rifiuti o dagli scarti di filiere agroalimentari. Con il doppio vantaggio di finanziare produzioni sostenibili e di salvare gli oranghi.
· Gli ultrà ambientalisti.
Tommaso Lorenzini per “Libero quotidiano” il 16 gennaio 2020. L'ossessione ecologista va in scena anche alle Olimpiadi di Tokyo (24 luglio-9 agosto), dove per seguire la fregola della moda "green", si sono scordati delle necessità basilari degli atleti. Che sì andranno in Giappone per l' appuntamento della vita, ma durante una giornata di 24 ore mica ci si può solo allenare, alimentare e concentrarsi per le gare. Capita infatti che mettendo dentro il Villaggio Olimpico circa 12mila ragazzi tutti insieme, maschi e femmine, anche gli ormoni reclamino la necessità di esprimersi e, dunque, all' attività in pista e nei palazzetti fanno da piacevolissimo corollario le performance fra le lenzuola. Tanto che a Rio 2016 il Comitato Olimpico aveva distribuito 41 preservativi per ogni atleta (totale: circa mezzo milione). Ebbene, con la smania di riciclare tutto, i nerd che si sono occupati degli alloggi del Villaggio hanno previsto per le camere letti particolari: i materassi, in polietilene riutilizzabile, saranno appoggiati su basi di cartone riciclato. «Dovrebbero resistere fino a 200 kg», spiegano i costruttori, avvisando però che «è meglio che quando si fa sesso si sia solamente in due per volta, altrimenti rischiano di rompersi». Insomma, no ai Giochi proibiti, tanto che il cestista australiano Bogut ha commentato su Twitter: «Bell' idea i letti ecologici, finché non si mette il profilattico...». E che sistematicamente gli atleti si concedano notti magiche a cinque cerchi sono loro stessi a confessarlo: «Si fa un sacco di sesso durante le Olimpiadi», ha spiegato Hope Solo, ex sexy portiere della Nazionale Usa di calcio. «Ai Giochi di Barcellona si faceva tanto sport quanto sesso», ha raccontato alcuni anni fa con entusiasmo l' ex campione britannico di ping pong, Matthew Syed, «ho scopato di più in quelle due settimane che in tutto il resto della mia vita».
Tozzi: «L’uomo è poco sapiens, siamo nel “monnezziano”». Franco Insardà Il Dubbio su il 26 febbraio 2020. Il geologo conduce su Rai 3 il programma sul nostro pianeta. «Bisogna sostenere Greta Thunberg nella sua battaglia. Questi ragazzi sono gli unici che amplificano la voce degli scienziati insieme a papa Francesco». Animali in via d’estinzione, ghiacciai che si sciolgono, il deserto che avanza, improvvisi cambiamenti climatici: l’uomo sembra impotente di fronte a tutto questo. In un universo così fragile e vulnerabile arriva anche il Coronavirus che, come ha scritto Mario Tozzi sulla Stampa del 22 febbraio, ribadisce “la supremazia dei microrganismi sul pianeta Terra e la loro straordinaria capacità di indirizzare la Storia”. Insomma il professor Tozzi ricorda che i germi e i batteri non si possono eliminare, ma bisogna trovare il mondo per conviverci. Nella seconda serie di Sapiens, in onda il sabato in prima serata su Rai3, Tozzi continua il suo viaggio nel pianeta.
Venti gradi in Antartide, acqua alta a Venezia, incendi che hanno devastato l’Australia: professor Tozzi cosa sta succedendo?
«Stiamo osservando gli effetti meteorologici di un cambiamento oramai molto accelerato. Ogni anno è sempre più caldo rispetto a quello precedente e tutto questo si sta intensificando anno dopo anno».
L’uomo quindi è ancora sapiens?
«Sembrerebbe di no. Noi ci speriamo ancora, infatti alla fine di questo nuovo ciclo di Sapiens cerchiamo di lasciare una speranza su quelle che potrebbero essere le possibilità per recuperare ai danni che l’uomo ha prodotto negli ultimi decenni. In pratica come continuare a essere sapiens e lo facciamo in una puntata in cui si parla di speranza, di comportamenti significativi da adottare per rinsavire».
Si è polemizzato molto sulla figura di Greta, una ragazza che è riuscita a sensibilizzare sul clima molto di più degli studiosi.
«Sono stato l’unico adulto invitato alle manifestazioni “Fridays for Future”. Greta Thunberg sta svolgendo un’azione molto importante e bisogna sostenerla nella sua battaglia. Questi ragazzi sono gli unici che amplificano la voce degli scienziati insieme a papa Francesco».
Le sue trasmissioni sono sempre seguite: da Gaia a Sapiens. L’interesse per l’ambiente c’è?
«In teoria sì. Il problema è capire se in pratica le persone mettano in atto i suggerimenti che cerchiamo di dare nelle trasmissioni. Purtroppo non sempre è così. Ci vantiamo di essere campioni del riciclaggio e dei comportamenti virtuosi. Se fosse veramente così le cose sarebbero già cambiate».
Lei da anni le tenta tutte. Oltre al suo lavoro di studioso al Cnr è un divulgatore in tanti programmi tv, conduce trasmissioni, ha rubriche radiofoniche come quella su RadioRadio, durante “Un giorno speciale” condotto da Francesco Vergovich. È arrivato a portare i temi del clima e dell’ambiente anche in teatro, con degli spettacoli insieme al cantautore Lorenzo Baglioni.
«Il tentativo è quello di arrivare a quante più persone possibile per sensibilizzarle sui pericoli a cui si va incontro con comportamenti sbagliati e provare a convincerle che si può incidere positivamente partendo dalle proprie case».
Qualche anno fa lei ha scritto “L’Italia intatta”, un viaggio alla scoperta di territori incontaminati. Quindi una speranza ancora c’è?
«Spero che si possano mantenere ancora intatti per realizzare una riserva di ambiente che faccia respirare anche il resto. Ci vuole un po’ di natura selvaggia nei paesi, altrimenti è tutto artificiale».
Il paesologo Franco Arminio è impegnato nella valorizzazione delle aree marginali, dei piccoli borghi. Che cosa ne pensa?
«Arminio è stato ospite di Sapiens proprio per parlare di questo».
L’ambiente può essere il volano per un turismo sostenibile?
«Deve esserlo per forza. La “turistificazione”, come la chiama qualcuno, sta diventando uno dei maggiori fattori di danno ambientale. Assistiamo alla uccisione della identità dei centri storici, pensiamo soprattutto a quelli italiani, dove ci sono soltanto bed& brea kfast, somministra-zione di cibo e souvenir. Non c’è altro. Il turismo, invece, dovrà essere sostenibile anche perché con flussi così consistenti non c’è altra possibilità che gestirlo in maniera ecologica. I turisti vogliono un bollino blu di qualità ambientale. Senza dimenticare che un turismo sostenibile rappresenta anche una grossa opportunità occupazionale per le comunità».
Le discariche sono al collasso e quelle abusive hanno invaso i boschi.
«Le rispondo così: siamo nel “monnezziano”. Così abbiamo ribattezzato questo periodo dell’antropocene, l’era geologica che stiamo vivendo. Anche nell’affrontare questa emergenza si parla tanto, ma si fa davvero poco. Non si riesce a comprendere che il trattamento dei rifiuti può significare trasformare uno scarto in una risorsa».
Plastic free è uno slogan o un obiettivo?
«Penso che sia uno dei pochi obiettivi raggiungibili. Si è capito che usare un elemento che dura per sempre, ma che ha un utilizzo velocissimo è una follia senza senso. Bisogna cominciare dalle piccole realtà».
L’altro obiettivo è non sprecare.
«Sarà la strada per il futuro. I cicli economici non possono essere più lineari, ma debbono essere circolari, recuperando, quindi, quello che una volta si gettava. Questo, necessariamente, passa per il cambiamento dei mezzi di produzione: se si continuano a mettere sul mercato oggetti che risulta meno costoso cambiarli piuttosto che ripararli sarà difficile non sprecare».
Lo scorso anno è stata presentata una proposta di legge di iniziativa popolare dal comitato Rodotà, sostenuta anche dall’avvocatura italiana, per tutelare il diritto all’acqua che punta a regolarizzare le dismissioni.
«Sono battaglie importanti. L’acqua va garantita come un bene di proprietà pubblica, anche se la gestione può essere articolata diversamente. C’è stato un referendum che ha acclarato la volontà della maggioranza degli italiani di non volere la gestione privatizzata dell’acqua».
L’Italia è un paese geologicamente giovane e con un rischio altissimo, saremo sempre costretti a piangere morti e distruzioni?
«È un problema annoso. Probabilmente non si riesce a cogliere i risultati di questi rischi. Si pensa che sia più conveniente quando l’evento catastrofico è accaduto. In realtà potremmo addirittura risparmiare denaro. Un euro in prevenzione ne vale dieci in intervento. Su questo argomento faccio una battaglia da decenni, ma non mi sembra che venga recepita. Lo ripeto da anni. In questo ciclo di trasmissioni ci interesseremo con una puntata sul rischio vulcanico. Siamo andati a documentare dei luoghi dove la gente ha costruito allegramente sotto il cratere di un vulcano attivo e fa finta di niente».
Gli ultrà ambientalisti? Come i gruppi terroristici. Londra inserisce gli attivisti di "Extinction Rebellion" nell'elenco delle ideologie estremiste. Davide Zamberlan, Martedì 14/01/2020, su Il Giornale. Alla stregua di gruppi terroristici e neonazisti. Gli attivisti ambientalisti di Extinction Rebellion sono stati inclusi in una lista di ideologie estremiste redatta dalla polizia antiterrorismo del Sud Est del Regno Unito. L'opuscolo di 12 pagine faceva parte del programma governativo Prevent che obbliga insegnanti, dottori, leader religiosi e altre figure pubbliche a segnalare persone potenzialmente estremiste, affinché siano valutate e seguite da servizi sociali e polizia. L'inserimento di Extinction Rebellion nella lista, rivelato dal Guardian lo scorso venerdì, è stato successivamente definito un errore dall'antiterrorismo nazionale che sta ora procedendo alla revisione del documento. Una marcia indietro che potrebbe non fermare i rappresentanti del movimento dal portare in tribunale la polizia. Il documento, poi ritrattato, suggerisce che Extinction Rebellion si basa su «una filosofia anti sistema che attrae ai suoi eventi scolari e adulti inconsapevoli. Benché non violenta verso le persone, incoraggia altre attività contrarie alla legge». Come centinaia di migliaia di studenti e adulti che hanno marciato e protestato in tutto il Regno Unito nei mesi precedenti contro il cambiamento climatico possano essere equiparati a movimenti terroristici rimane un mistero. Hanno creato disagi, bloccato strade e ferrovie, si sono alienati parte della simpatia delle persone che non protestavano. Ma pensare che siano terroristi richiede una certa sconnessione dalla realtà, specie in un Paese abituato ad attacchi terroristici. Ciononostante, la ministra dell'Interno inglese, Priti Patel, ha ieri preso le distanze dalle critiche alla polizia (che invece ha ammesso l'errore). Alla radio Lbc ha sì confermato che Extinction Rebellion non è un movimento terrorista ma ha aggiunto che un giudizio sulla minaccia di gruppi e associazioni deve essere preso dopo una valutazione complessiva di tutti i diversi rischi connessi. Come dire, prima si analizza e poi si giudica. Una posizione in linea con il profilo legge-e-ordine che Patel sta cercando di ritagliarsi nel nuovo esecutivo ma che le ha attirato le critiche di molti: una decisione «completamente sbagliata e controproducente» è stato il commento rilasciato da uno dei principali esponenti del Labour, Keir Starmer, tra i favoriti alla successione di Corbyn alla guida del partito. «Si deve distinguere tra terrorismo e protesta - ha commentato sir Alex Carlile, ex presidente della commissione di revisione del programma Prevent - altrimenti il rischio è quello di alienare il favore delle comunità locali, su cui si basa il successo dell'iniziativa governativa».
I liberal gretini sono i nuovi sovietici. Corrado Ocone, 14 gennaio 2020 su Nicola Porro.it. Emanuele Felice è un economista diventato ordinario da qualche mese a Pescara, ma che già da un po’ di tempo è stato “lanciato” e fatto conoscere al grosso pubblico da Repubblica. È un meccanismo sperimentato, che il quotidiano fondato da Scalfari ha sempre usato anche se oggi risulta notevolmente depotenziato (i tempi un po’ son cambiati, per fortuna!): si sceglie un intellettuale, lo si pompa mediaticamente, lo si fa divenire noto al grande pubblico della cultura mainstream e in cambio gli si chiede fedeltà e adesione completa alle idee e alla linea politica del giornale. Chi osa contraddire, cioè in sostanza esercitare quello spirito critico che dovrebbe sempre accompagnare l’uomo di cultura, viene semplicemente espulso dal gruppo degli “amici” ed “oscurato” (è il caso di Piergiorgio Odifreddi, che osò criticare nientedimeno il fondatore fulminato sulla via di Bergoglio!). Felice ha scritto sull’ultimo numero de L’Espresso un commento dal titolo: “Hanno tradito il pensiero liberale”, che è un po’ il mantra di tutti coloro che per liberalismo a un certo punto hanno inteso proprio il contrario di quel che esso è: l’ideologia, alquanto autoritaria e perciò illiberale, del politically correct. I “traditori” sono, per Felice, i “neoliberali” (fa i nomi di Hayek, Reagan e Thatcher), il cui pensiero sarebbe in crisi perché “alle prese con tre fallimenti storici: la questione ambientale, l’aumento delle diseguaglianze nel mondo avanzato, il fatto che i nuovi giganti economici, a cominciare dalla Cina, non sembrano interessati a quell’evoluzione democratica da loro auspicata”. Ora, lasciamo stare gli ultimi due punti, che pure meriterebbero di essere affrontati con più cognizione di causa e con un più raffinato armamentario concettuale rispetto a quello messo in campo da Felice. E concentriamoci un attimo sulla sfida ambientale che avrebbe messo definitivamente in crisi il pensiero neo-liberale. Essa, come è noto, non assume per molti autorevoli scienziati quei caratteri catastrofisti a cui ci ha abituato l’ideologia green e che la sinistra mondiale, alla ricerca di surrogati delle vecchie ideologie sconfessate dalla storia, ha fatto propri nell’ottica anticapitalista che da sempre gli è propria.. Basti pensare solo al fatto che la nostra è l’epoca meno inquinata della storia umana, e quella in cui, anche per questo motivo, la vita media della popolazione è aumentata enormemente (servizi igienici in tutte le case, eliminazione delle discariche a cielo aperto, impianti di aspirazione dei fumi, ecc. ecc.). Ma tant’è! E mettiamo pure per ipotesi, o per assurdo, che Felice abbia ragione e che il problema sia reale e grave e che, in questo caso, la sinistra, come scrive Massimo Cacciari poche pagine prima sullo stesso numero de L’Espresso non “cincischi ideologicamente sul nesso sviluppo economico-ambiente, all’inseguimento di cosmopolitiche montature mediatiche”. Cosa fare? Quali soluzioni adottare? Felice non ha dubbi: problema nuovo, ricetta vecchia. E cioè statalismo e dirigismo spinti, affidati a coloro che sanno più degli altri e che paternalisticamente lavorano per il bene di ognuno di noi. “Per evitare che la crescita economica metta a repentaglio la tenuta dell’ecosistema più di quanto non abbia già fatto, e quindi la stessa vita del Pianeta (cioè la nostra stessa vita), è necessario – scrive l’economista abruzzese – l’intervento pubblico: una politica che sappia indirizzare le imprese verso un progresso tecnologico a basso impatto ambientale e anche orientare le scelte dei consumatori”. n poche parole: qualcuno vuole arrogarsi il diritto di dire agli imprenditori ciò che devono produrre e ai consumatori ciò che devono consumare. Più o meno quello che avveniva con le economie di piano (la famigerata NEP) nella vecchia Unione Sovietica. Felice però è consapevole che, “almeno in democrazia” (ove quell’ “almeno” è significativo e sembra dal sen fuggito), sia necessario avere “il sostegno dei cittadini”. Nessun problema però, l’economista del gruppo GEDI ha pensato anche a questo: basta “compensare i perdenti della transizione ambientale” con “politiche espansive”. E qui sembra di essere tornati ai tempi di Maria Antonietta: “loro vogliono la libertà, e voi dategli le brioches!” Corrado Ocone, 14 gennaio 2020
Gli invasati dall’ideologia che bloccano anche i diesel “puliti”. Pierluigi Bonora su Il Giornale il 14 gennaio 2020. “Non era meglio lo stop a tutte le motorizzazioni fino a Euro 4? È stato previsto l’incremento dei servizi di trasporto pubblico locale? Ci saranno i vigili a controllare le temperature nei negozi in centro dove in questi giorni potremmo entrare in costume?”. Il tweet di Fabrizia Vigo, responsabile delle relazioni istituzionali di Anfia, mette il dito nella piaga. E prende di mira il blocco del traffico, allargato alle vetture con motore diesel Euro 6, quelli di ultima generazione, deciso per oggi, 14 dicembre 2020, dal sindaco di Roma, la pentastellata Virginia Raggi. Ancora una volta l’ideologia pura, quella di casa nel Movimento 5 Stelle ma anche, più in generale, nella sinistra, prevale sul buon senso. E Virginia Raggi si rende protagonista dell’ennesimo harakiri. Contarli non è facile, tra “monnezza” che sommerge tante zone della Capitale, accessi alla metropolitana chiusi per le scale mobili che non funzionano, bus urbani che prendono fuoco, divieti ai titolari di bancarelle di lavorare nel centro di Roma (con gli abusivi che si fregano le mani), bivacchi e risse che continuano imperterriti sotto gli occhi dei turisti, tanto per citare i casi più clamorosi. E non contenta, ecco arrivare, il blocco alla circolazione anche per ii veicoli diesel Euro 6, in pratica i motori riconosciuti più puliti rispetto a quelli alimentati con la benzina. Ci sono i dati che parlano chiaro, ma chi se ne frega avranno pensato al Campidoglio. E se all’ideologia si uniscono testardaggine, menefreghismo e ignoranza di fondo, il cocktail diventa esplosivo. Ecco, allora, che le associazioni di categoria, alle quali la brava Fabrizio Vigo, autrice del tweet, fa parte, dovrebbero salire in cattedra, convocando l’Anci, l’Associazione dei comuni italiani, sindaci e amministratori degli enti locali (soprattutto quelli più invasati dall’ideologia) e spiegare per filo e per segno, con tutte le motivazioni scientifiche e dati ben in vista, gli errori che vengono puntualmente commessi a scapito degli automobilisti che hanno investito fior di migliaia di euro in motorizzazioni “pulite”, non necessariamente elettriche, impedendo loro di circolare e rendendo la vita ancora più difficile di quello che è a chi lavora e deve spostarsi con il proprio mezzo diesel Euro 6 per necessità. È ora di finirla.
· La comunità energetica.
La nuova sfida del clima: l'energia nell'era dei cambiamenti climatici. Il forte legame tra l'energia e i cambiamenti climatici e le azioni da intraprendere per affrontare il problema. Così il settore energetico combatte il riscaldamento globale. Francesca Bernasconi, Martedì 13/10/2020 su Il Giornale. Dallo scioglimento dei ghiacciai, all'aumento delle temperature, fino agli eventi estremi, come uragani e allagamenti, che stanno diventando più intensi e frequenti. Sono tutti effetti del cambiamento climatico, che preoccupa gli esperti di tutto il mondo, impegnati a trovare soluzioni che possano rallentare questa tendenza.
Il cambiamento climatico. Il fenomeno è evidente e i dati mostrano una rivoluzione climatica preoccupante. E la causa, per buona parte, è da attribuire all’uomo e, in particolare, come sottolinea l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) all'uso di combustibili fossili, che rilasciano nell'aria un’enorme quantità di anidride carbonica e altri gas serra, in grado di intrappolare calore. Così, secondo l'OMS, "negli ultimi 130 anni, il mondo si è riscaldato di circa 0,85°C e ciascuno degli ultimi 3 decenni è stato successivamente più caldo di qualsiasi decennio precedente dal 1850". La conferma arriva anche dalla NASA, che ha analizzato la variazione della temperatura globale rispetto alle temperature medie 1951-1980. Dal 2001, sono stati registrati 19 dei 20 anni più caldi (l’escluso è il 1998), tra cui il record spetta al 2016. La tendenza, in ogni caso, è in salita. È dalla rivoluzione industriale che l’uomo contribuisce a modificare il fragile equilibrio del globo, alimentando l’aumento dell’effetto serra, condizionato dalle emissioni di gas nell’aria, derivati soprattutto dalle industrie, dai trasporti e dalla produzione di energia. Questo riscaldamento della temperatura della superficie globale porta con sé diverse conseguenze per il clima. Infatti, il caldo provoca lo scioglimento delle calotte polari e dei ghiacciai, che a sua volta contribuisce all’aumento del livello dei mari, provocando alluvioni e fenomeni di erosione nelle zone costiere. Inoltre, si registrano sempre più eventi climatici estremi, che portano a inondazioni, forti venti e alluvioni. Non solo. Secondo l’Unione Europea, infatti, il cambiamento climatico sta "già avendo un impatto sulla salute": negli ultimi anni, alcuni luoghi hanno registrato un aumento delle morti dovute al calore e in altri luoghi è avvenuta la stessa cosa per il freddo. Infine, i cambiamenti climatici rappresentano un costo elevato anche per l’economia, dai danni alle case e alle infrastrutture, causati da eventi estremi, fino alle difficoltà del settore agricolo, che deve sottostare alla quantità di precipitazioni e alle temperature.
Energia e clima. "Tra cambiamento climatico ed energia vi è un legame forte e sempre più allarmante". A sottolinearlo è Energia, ambiente e innovazione (EAI), il magazine dell’Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l'energia e lo sviluppo economico sostenibile (ENEA). Le fonti fossili, infatti, "provocano il riscaldamento del Pianeta e le sue drammatiche conseguenze". Secondo l’Agenzia europea dell’ambiente (AEA), "in tutto il mondo l’uso di energia rappresenta in assoluto la principale fonte di emissioni di gas a effetto serra dovuti all’attività umana". Infatti, circa i due terzi delle emissioni di gas serra globali sono connessi all’uso di combustibili fossili per la produzione di energia, utile per il riscaldamento, l’elettricità, il trasporto e l’industria. I dati del Rapporto statistico risalente a luglio 2020, redatto da IEA, Emissioni di CO₂ dalla combustione di carburante: panoramica, mostrano come la produzione di energia sia rimasta "il principale motore di emissioni". Già nel 2018, le emissioni globali di CO₂ causate dai combustibili fossili avevano raggiunto il massimo storico, arrivando a 33,5 Gt (gigatonnellate) di anidride carbonica, un aumento giustificato dalla crescita della popolazione e dall’attività economica. E, tra tutti i settori, la produzione di energia (riferita alla generazione di elettricità e di calore) era risultata il "principale motore di emissioni". L’energia, infatti, insieme ai trasporti, rappresentava oltre i due terzi delle emissioni totali del 2018, mentre il restante terzo era da attribuire all’industria. Nel 2019, le emissioni globali di combustibili fossili sono state leggermente superiori a quelle del 2018, arrivando a 36,7 Gt di CO₂ . Ma, nonostante il leggero aumento, la crescita è rallentata. Secondo i dati dell’Organizzazione Meteorologica Mondiale (WMO), nell’ultimo decennio si è assistito al rallentamento di circa l’1% all’anno, rispetto alla crescita annuale del 3% degli anni 2000. Il calo è stato trainato dalla diminuzione delle emissioni di carbonio (-1,7%, rispetto al passaggio dal 2018 al 2019) e dalla crescita dell’utilizzo di energie rinnovabili a livello globale. "La crescita prossima allo zero registrata nel 2019 fa sperare che il trend delle emissioni di CO₂ si stia stabilizzando e che un calo sia all'orizzonte", precisano gli autori del report Uniti nella scienza 2020. Si attendono "cambiamenti senza precedenti" dai dati relativi al 2020, a causa della pandemia da nuovo coronavirus, che ha messo in crisi il sistema energetico a livello globale, comprese Italia ed Europa, contribuendo a una riduzione delle emissioni durante il periodo del lockdown. "Durante il picco di confinamento all'inizio di aprile 2020- spiegano gli esperti- stimiamo che le emissioni globali giornaliere di CO₂ fossile siano diminuite del 17% rispetto alle stime giornaliere medie nel 2019". Al momento, le emissioni causate dai combustibili fossili sono superiori del 62%, rispetto al 1990, anno in cui sono iniziati i negoziati internazionali per affrontare il problema del cambiamento climatico. È il segno che c’è ancora molto da fare, per risolvere la questione legata al clima. L’unica via d’uscita sarebbe quella di un cambiamento dei modelli di consumo, con tecnologie in grado di aumentare l’efficienza energetica e con l’utilizzo di fonti rinnovabili, in sostituzione di quelle fossili. Una recente analisi dell’IPCC, il gruppo intergovernativo di ricerca sul cambiamento climatico creato dall’ONU, ha dimostrato l’importanza di attuare immediatamente le azioni necessarie per ridurre l’aumento di emissioni di CO₂ entro i prossimi 10 anni: solo così sarà possibile contenere l’aumento della temperatura media globale, mantenendolo a 1,5°C, come stabilito dall’Accordo di Parigi. Il report analizza gli impatti del riscaldamento di 1,5°C al di sopra dei livelli preindustriali e le differenze con un aumento della temperatura a 2°C. L’IPCC stima che "le attività umane abbiano causato un riscaldamento globale di circa 1,0°C rispetto ai livelli preindustriali, con un intervallo probabile tra 0,8 e 1,2°C. È probabile che il riscaldamento globale raggiungerà 1,5°C tra il 2030 e il 2052 se continuerà ad aumentare al tasso attuale". Le proiezioni mostrano differenze significative sul clima, a seconda che la temperatura raggiunga gli 1,5°C o i 2°C. Per esempio, se il riscaldamento rimanesse a 1,5°C, ogni cinque anni, il 13,8% della popolazione verrebbe raggiunto da ondate di caldo, mentre nello scenario dei 2°C la percentuale salirebbe a 36,9%. Nella tabella seguente sono riassunti alcuni dati contenuti nel report.
Cosa fare per combattere il cambiamento climatico. I primi passi fatti a livello globale, nel tentativo di rallentare il riscaldamento e il cambiamento climatico risalgono al 1922, quando vennero redatti gli Accordi di Rio, un trattato ambientale internazionale prodotto dalla Conferenza sull'Ambiente e sullo Sviluppo delle Nazioni Unite. Poi, si è verificata un'accelerazione in campo ambientale, culminata nell'Accordo di Parigi, un patto comune e giuridicamente vincolante sui cambiamenti climatici, adottato alla conferenza sul clima del dicembre 2015. In quell’occasione, i governi di 195 Paesi si erano accordati per "mantenere l’aumento medio della temperatura mondiale ben al di sotto di 2°C rispetto ai livelli preindustriali come obiettivo a lungo termine" e "puntare a limitare l'aumento a 1,5°C, dato che ciò ridurrebbe in misura significativa i rischi e gli impatti dei cambiamenti climatici". Oltre a questi due obiettivi, fondamentale era considerato anche raggiungere nel più breve tempo possibile “il picco globale delle emissioni di gas serra”, così da raggiungere la "neutralità climatica". Il Rapporto speciale dell’IPCC suggerisce alcune azioni utili a limitare il riscaldamento globale. Innanzi tutto, per limitare il riscaldamento globale a 1,5°C saranno necessarie"transizioni rapide e su vasta scala in fatto di energia, suolo, sistemi urbani e infrastrutture (compresi trasporti ed edifici) e sistemi industriali (confidenza alta)". Queste transizioni implicano riduzioni drastiche delle emissioni di gas serra in tutti i settori. Numerosi Paesi si stanno già impegnando in questa direzione e dei miglioramenti sono già stati registrati, anche se la strada è ancora lunga. Secondo le simulazioni dell’IPCC, per un superamento limitato o nullo degli 1,5°C, entro il 2030, le emissioni di CO₂ dovrebbero diminuire del 45% rispetto ai livelli del 2010: in questo caso, intorno al 2050 verrebbe raggiunto lo "zero netto". In caso di riscaldamento a 2°C, si arriverebbe a zero emissioni solamente nel 2075. Per evitare il superamento del limite è fondamentale agire nel settore energetico, con la drastica riduzione dei combustibili fossili e l’utilizzo sempre più diffuso delle fonti rinnovabili. L’uso di energia eolica, solare e idrica, infatti, permette di ridurre le emissioni di CO₂, aprendo uno spiraglio nella lotta al cambiamento climatico. Ma il legame tra energia e clima è a doppio senso: gli eventi climatici estremi provocano spesso danni ai sistemi energetici, perché le infrastrutture elettriche sono state progettate per condizioni climatiche diverse e meno estreme. Secondo una stima della multinazionale di consulenza strategica McKinsey, nei prossimi 20 anni, un'azienda di medie dimensioni potrebbe perdere fino a 1,7 milioni di dollari tra il mancato guadagno e il costo delle infrastrutture danneggiate dagli eventi climatici. Per questo, diventa fondamentale studiare e pianificare modelli in grado di affrontare i cambiamenti dettati dal clima, rendendo la resilienza climatica parte dello sviluppo infrastrutturale. Per raggiungere questo obiettivo, diventa necessaria la sperimentazione e assume importanza il testing delle strutture, per garantirne l'efficienza e l'affidabilità.
KEMA Labs di CESI. In questo panorama si inserisce CESI, azienda italiana leader mondiale nel campo dell'innovazione tecnologica, della consulenza e del testing per il settore elettrico, in prima linea nella realizzazione di studi mirati all’integrazione efficiente e ottimale delle fonti rinnovabili nelle reti elettriche. Nel numero di dicembre 2019 dell’Energy Journal di CESI si parla di due parole chiave, relative alla lotta contro il cambiamento climatico: mitigazione e adattamento. La prima mira ad implementare le azioni che rallentano l’andamento negativo del cambiamento climatico, mentre il secondo obiettivo può essere raggiunto con "investimenti in infrastrutture, tecnologia e sistemi di prevenzione che ci proteggeranno da eventi climatici estremi". E al centro di questa transizione rivoluzionaria sta prendendo posto il settore energetico, che non ha solamente il compito di spingere per la decarbonizzazione e investire nelle fonti rinnovabili. Altro ruolo fondamentale, infatti, sta "nell’indirizzare, gestire e risolvere problemi di sicurezza energetica, causati dagli effetti del cambiamento climatico". Questo significa che diventeranno figure in prima linea coloro che garantiscono efficienza e affidabilità, dimostrate attraverso test e ispezioni e la certificazione diventerà fondamentale. "Insieme, CESI e KEMA Labs, la Divisione di Testing, Inspection and Certification di CESI, forniscono servizi per tutti i principali componenti dei sistemi di alimentazione - ha specificato l'Amministratore Delegato di CESI, Matteo Codazzi -. Questo nuovo approccio ci consentirà di raggiungere obiettivi che soddisfino in modo efficiente le esigenze dei nostri clienti, utilizzando in tutto il mondo le nostre risorse all’avanguardia e le competenze di alta qualità". Affrontare il problema del cambiamento climatico, in relazione al settore energetico si sta rivelando un’impresa tutt’altro che semplice e veloce, ma numerose innovazioni e modelli di energia rinnovabile stanno prendendo forma in tutto il mondo. Per permettere la transizione a un settore energetico sostenibile è fondamentale il sostegno delle azioni governative dei singoli Paesi, che dovrebbero sostenere le iniziative sostenibili e stanziare fondi per la lotta al cambiamento climatico.
La comunità energetica. Report Rai PUNTATA DEL 08/06/2020. Michele Buono, collaborazione di Simona Peluso e Filippo Proietti. Quale sarebbe l’impatto ambientale ed economico se ci organizzassimo per diventare uno dei punti di riferimento nel mondo di una nuova economia verde? Le parole chiave sono comunità energetica ed economia circolare per riorganizzare la produzione industriale, il trasporto, la generazione e la distribuzione di elettricità, in modo da abbattere l’immissione di anidride carbonica in atmosfera e gli inquinanti che sicuramente ci fanno male. Un cambio di paradigma in cui lo scarto di una fabbrica diventa materia prima per un’altra e dove ogni cittadino da consumatore passivo di energia si trasforma in produttore di energia pulita, la accumula e la scambia con chi ne ha bisogno. La ricerca italiana è avanzata e pure la tecnologia, e ogni cambio di passo dell’economia, si sa, stimola la crescita di un paese e crea nuova ricchezza. E in questo caso creerebbe anche benessere.
LA COMUNITÀ ENERGETICA di Michele Buono collaborazione di Simona Peluso e Filippo Proietti immagini di Tommaso Javidi.
MICHELE BUONO FUORI CAMPO Chissà perché ci siamo messi in testa che noi dobbiamo salvare il pianeta, quando il pianeta non ci calcola proprio. Un giorno è successo che ci siamo fermati tutti, e la Terra è diventata pulita e si è messa a respirare, solo che lei non lo sa. E se sputiamo allora tutti i gas che ci pare? Si surriscalderebbe, si scioglierebbero i ghiacciai, i mari coprirebbero molte terre e i tifoni a sbattere dappertutto. La Terra però – questo è sicuro - continuerebbe a girare come sempre. Può fare a meno di noi. Siamo noi che dobbiamo salvarci, perché la nostra civiltà – così come l’abbiamo conosciuta - è possibile solo se non mandiamo per aria troppi veleni e ce la mettiamo proprio tutta perché la temperatura, alla fine, non dia di matto pure lei.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Abbiamo dovuto aspettare un virus. Per godere di aria un po’ più pulita e anche di acqua un po’ più pulita. Grazie al lockdown, si stima che nel 2020 verranno emessi nell’atmosfera il 5,5% di gas serra in meno. Ma questo non basterà per evitare che il clima del pianeta esca fuori di testa. Bisognerà stringere un nuovo patto con il pianeta. Bisognerà fare una seria riconversione al verde. la green economy, ma vera, non un’effimera bolla finanziaria. Quello che vi proponiamo questa stasera è qualcosa che è un bene per la salute, nostra, del pianeta, e anche quella economico-finanziaria. Ecco, cosa accadrebbe se ci trasformassimo tutti quanti in una comunità energetica, se ognuno di noi si trasformasse in fonte di energia pulita? Se la producessi, l’accumulasse e la distribuisse. Ecco, si innescherebbe un circolo virtuoso grazie al quale ogni cittadino avrebbe anche dei contributi economici, potrebbe usufruire gratis di auto elettriche, di una rete di riscaldamento per locali pubblici e privati gratis. E cosa accadrebbe se ci fosse la possibilità di trasformarci in una democrazia energetica dove la gente, i cittadini decidessero dove e come investire in tema di energia. Questa storia è iniziata grazie al contributo di un signore, il signor Werner Vogt, è un cittadino pacifista, credeva che le guerre cominciassero sempre a causa della ricerca del gas e del petrolio. Ha detto, liberiamoci di queste fonti. Quando poi ha cominciato a montare la prima pala, lui si commosse, gli altri lo deridevano. Gli dicevano “ma dove vuoi andare con questa roba, non funzionerà mai!”. Invece poi quando le pale hanno cominciato a girare non lo deride più nessuno, perché ha cominciato a incassare. Il nostro Michele Buono.
MICHELE BUONO FUORI CAMPO È successo in Germania e questa è una storia di comunità energetiche. Renania Palatinato, strade del circondario Reno Hunsrück. Questa zona aveva due problemi, la popolazione che diminuiva e il debito pubblico. Poi all’improvviso cambia il vento.
MARLON BRÖHR - PRESIDENTE DEL CIRCONDARIO RENO-HUNSRÜCK Grazie agli impianti eolici, nelle casse dei nostri comuni, entrano 8 milioni per l’affitto dei terreni. Questo denaro lo reinvestiamo per l’installazione di pannelli fotovoltaici e la creazione di reti locali di riscaldamento.
MICHELE BUONO FUORI CAMPO Gli impianti producono ogni anno un valore di circa 50 milioni di euro. L’obiettivo è la decarbonizzazione. Per coordinare i progetti c’è un manager per la difesa del clima.
FRANK MICHAEL UHLE - MANAGER DIFESA CLIMA CIRCONDARIO RENOHUNSRÜCK Fornisco consigli ai cittadini, ai comuni e alle imprese. Alla discussione del piano ambientale hanno partecipato 300 abitanti del circondario, chiedevano “come possiamo dimezzare il consumo energetico? Definiti poi i progetti, il mio lavoro è realizzarli.
MICHELE BUONO FUORI CAMPO Neuerkirch e Kulz, due comuni vicini si associano.
VOLKER WICHTER - SINDACO DI NEUERKIRCH Da soli non ce l’avremmo fatta. A Külz c'era una piccola rete di teleriscaldamento che collegava solo dodici case, troppo poco per stare in piedi. Si è aggiunto allora il nostro comune e la rete si è allargata. Abbiamo realizzato questo impianto solare termico e una conduttura di circa 7 chilometri per collegare i due comuni. Le case riscaldate adesso sono 150.
MICHELE BUONO Qual è il modello finanziario?
VOLKER WICHTER - SINDACO DI NEUERKIRCH Ricaviamo le risorse dalle entrate degli impianti eolici, e riusciamo a dare anche un contributo di 4000 euro a ogni cittadino che si allaccia alla rete.
MICHELE BUONO FUORI CAMPO Tra i due comuni il risparmio di CO2 è passato da 1200 a solo 80 tonnellate l’anno.
MARLON BRÖHR - PRESIDENTE DEL CIRCONDARIO RENO-HUNSRÜCK Abbiamo finanziato il car sharing con auto elettriche in tutti i comuni del circondario. Ci costa 60mila euro l’anno, per i cittadini è gratis.
VOLKER WICHTER - SINDACO DI NEUERKIRCH È stata un'idea molto apprezzata. Ci sono famiglie che non hanno nemmeno un’auto. MICHELE BUONO Come sta cambiando la vostra economia?
FRANK MICHAEL UHLE - MANAGER DIFESA CLIMA Una volta la campagna produceva generi alimentari per le città vicine, ora può produrre anche energia. Riforniamo città come Coblenza, Treviri, Magonza.
MICHELE BUONO FUORI CAMPO L’agricoltura è rimasta e sono pure in surplus di energia. Una volta tutta l’elettricità veniva importata dalle centrali a carbone e da quelle nucleari. Ora ci sono 270 impianti eolici, 4500 fotovoltaici e 17 a biomassa. Una volta c’era una discarica sulla collinetta sopra gli impianti, è stata coperta. Ora sorge un campo fotovoltaico comunale che dà elettricità a 500 abitazioni.
FRANK MICHAEL UHLE - MANAGER DIFESA CLIMA All’inizio ridevano tutti, dicevano “siete tutti pazzi, non funzionerà mai!”. Oggi non ride più nessuno. Prendete il signor Werner Vogt, ha costruito il primo impianto eolico. Proveniva dal movimento per la pace, era convinto che le guerre si fanno per il 2 petrolio e per il gas e che bisognasse liberarsi da queste fonti. Quando è stata montata la prima pala eolica si è commosso.
MICHELE BUONO FUORI CAMPO Aveva battuto tutta la regione il signor Vogt per presentare il progetto, riuscì a convincere 150 persone a metterci i soldi e alla fine riuscirono a tirare su due impianti.
MICHELE BUONO Che cosa raccontava alle persone per convincerle?
WERNER VOGT - AMMINISTRATORE DELEGATO HÖHENWIND. Perché devo bruciare petrolio e gas se Dio ci dà sole e vento? E non ci costa nulla! E gli ho detto anche che se tutto va in porto ci guadagneremo. Abbiamo cominciato a crescere e sempre più persone dicevano: “Ehi, funziona!”
MICHELE BUONO FUORI CAMPO Oggi i soci sono 336 e gli impianti 18.
MARLON BRÖHR - PRESIDENTE DEL CIRCONDARIO RENO-HUNSRÜCK Il numero dei disoccupati nella zona è diminuito, oggi abbiamo un tasso intorno al 3,4 per cento. E praticamente non abbiamo più debiti.
MICHELE BUONO FUORI CAMPO Sud ovest della Germania, Assia. A Wolfhagen hanno voluto alzare l’asticella ancora più in alto.
REINHARD SHAAKE - SINDACO DI WOLFHAGEN Le concessioni per le reti elettriche vanno rinnovate ogni vent’anni. E quando è scaduta quella della nostra città, ci siamo chiesti se prolungarla o prendere un’altra strada.
MICHELE BUONO FUORI CAMPO Presero un’altra strada, la rete elettrica fu rilevata dal comune – in Germania è possibile - e gli abitanti di Wolfhagen fecero quello che non avevano mai immaginato: entrare nella gestione della rete elettrica della propria città.
REINHARD SHAAKE - SINDACO DI WOLFHAGEN Costituirono una cooperativa, “cittadini per l’energia” e acquisirono il 25 per cento della municipalizzata. Possono sedere così nel consiglio di sorveglianza e decidere insieme alla dirigenza.
MICHELE BUONO FUORI CAMPO Un esperimento di democrazia elettrica che spinge dal basso la transizione verso l’uso di fonti rinnovabili.
HANS MARTIN - PRESIDENTE DEL CONSIGLIO DI SORVEGLIANZA DELLA COOPERATIVA BÜRGER ENERGIE GENOSSENSCHAFT La cooperativa è il modello più democratico perché ogni socio ha un voto, indipendentemente da quanto denaro abbia investito.
KARL-HEINZ KRAFT - PRESIDENTE DEL CONSIGLIO DIRETTIVO DELLA COOPERATIVA BÜRGER ENERGIE GENOSSENSCHAFT Attualmente siamo più di 900 soci e gestiamo un capitale di 4 milioni e 600mila euro.
REINHARD SHAAKE - SINDACO DI WOLFHAGEN Grazie alla partecipazione civica i cittadini riescono a dare un indirizzo e a controllare gli investimenti della municipalizzata. Ricevono anche un dividendo, non si tratta di speculazione ma di un modo per partecipare al successo economico della propria città.
MICHELE BUONO FUORI CAMPO Poter dire: questa ex caserma non smantelliamola, copriamola di pannelli e trasformiamola in scuola.
MANFRED SCHAUB - AMMINISTATORE DELEGATO ENERGIE 2000 Era un hangar dove parcheggiare carri armati. Con la ristrutturazione stiamo sperimentando anche nuove tecniche di efficienza energetica: il tetto trasparente è completamente fotovoltaico, in modo da sfruttare al massimo, negli interni, la luce del sole.
MICHELE BUONO FUORI CAMPO Sono stati i cittadini a proporre di investire in quest’area: è un terreno non coltivabile, facciamo un campo fotovoltaico.
MARKUS HUNTZINGER - MANAGER PER LA PROTEZIONE DEL CLIMA DI WOLFHAGEN A Wolfhagen oggi con le rinnovabili produciamo circa 55mila megawatt ora di energia elettrica e ne consumiamo meno di 50mila, quindi produciamo più energia pulita di quanta ne consumiamo.
MICHELE BUONO FUORI CAMPO E l’energia che avanza? Ci sarà sempre un vicino che ne avrà bisogno e città dopo città, nazione dopo nazione, è possibile cambiare modello fino a costruire una rete globale di energia rinnovabile. Torino, dipartimento di energia del Politecnico.
ETTORE BOMPARD - DIPARTIMENTO ENERGIA POLITECNICO DI TORINO Il rinnovabile non viene condiviso a livello di città, ma viene condiviso a livello planetario.
MICHELE BUONO FUORI CAMPO Si studia una rete globale che sfrutta la differenza di fuso orario: se nella parte di mondo in cui è notte, l’energia che si produce con il vento non serve tutta, si manda con delle linee a corrente continua dove c’è già il sole.
ETTORE BOMPARD - DIPARTIMENTO ENERGIA POLITECNICO DI TORINO Il nostro laboratorio è collegato con gli Stati Uniti, è collegato con l’Europa, con i laboratori della Commissione Europea, è collegato anche con la Cina, con un laboratorio per studiare l’energy transition a livello globale.
MICHELE BUONO FUORI CAMPO La grande scommessa è: possiamo diventare un punto di riferimento nel mondo di una nuova economia verde. Diventando noi stessi, come hanno fatto in Germania, una comunità energetica? Nella produzione di energia pulita da fonti rinnovabili, per esempio. Gli impianti ce li abbiamo, ma non basta perché diventino protagonisti. Sappiamo però come si fa per sfruttare al massimo le fonti rinnovabili e questo è già 4 un buon punto di partenza. Bisogna mettere in equilibrio produzione e consumo.
LUIGI PELLEGRINO - RICERCATORE RSE Se non è gestito il sistema, è necessario limitare la potenza prodotta dagli impianti a fonte rinnovabile. Questo ovviamente è energeticamente poco conveniente.
MICHELE BUONO Perché, che fine farebbe? Non verrebbe utilizzata…
LUIGI PELLEGRINO - RICERCATORE RSE Non verrebbe utilizzata perché nel sistema elettrico bisogna bilanciare, istante per istante, produzione e carico.
MICHELE BUONO FUORI CAMPO Perchè quando sole e vento arrivano all’improvviso occorre staccare le rinnovabili altrimenti la rete andrebbe in tilt, ma se l’energia in eccesso da fonti rinnovabili si potesse immagazzinare, potrebbe essere immessa in rete quando ce n’è bisogno. Questo è il progetto di Rse, centro di ricerca sul sistema energetico; la regione Lombardia fa un bando per incentivare l’acquisto di batterie.
LUIGI MAZZOCCHI - DIRETTORE DIPARTIMENTO TECNOLOGIE DI GENERAZIONE RSE Attualmente sono oltre 3.000 famiglie lombarde che hanno la batteria in casa abbinata al fotovoltaico.
RENZO CORTIANA Ho accettato di buon cuore, l'unione fa la forza, quindi è sempre il solito discorso: tanti piccoli fanno uno grande.
MICHELE BUONO FUORI CAMPO Fanno una centrale elettrica. Tanti impianti fotovoltaici di piccola taglia che da soli conterebbero poco sono visti dalla rete come una grossa centrale virtuale che l’operatore può manovrare. Enel X aggrega i piccoli impianti della Lombardia Est. Sala di controllo di Roma.
FEDERICA ROFI - ENEL In questo momento il nostro parco sta producendo circa 8.000 megawatt a fronte di una domanda di 48.000 megawatt. La rete ci fa una richiesta e noi dobbiamo coprirla esattamente uguale con la nostra produzione.
MICHELE BUONO FUORI CAMPO L’operatore Evolvere controlla la Lombardia Ovest. Come si fa mettendo in rete tante piccole fonti di energia rinnovabili a ottenere l’effetto di una centrale virtuale?
FRANCESCO CIMINO - RESPONSABILE TECNICO EVOLVERE Questo è in grado di raccogliere tutti i dati energetici e di impartire il comando di carica e scarica del sistema di storage.
FRANCO GIAMPETRUZZI - RESPONSABILE INNOVAZIONE EVOLVERE Siamo in grado, attraverso la tecnologia di dialogare col singolo impianto. Quindi col singolo sistema di storage, col singolo inverter, col singolo meter quindi, cliente per cliente, vedere lo stato in cui si trova l’impianto e poterlo addirittura comandare.
MICHELE BUONO FUORI CAMPO Se nessuno consuma, le batterie che si trovano presso ogni singola famiglia si caricano, quando la rete ne ha bisogno ogni batteria cede quello che può e ce ne sta per tutti. MICHELE BUONO Facciamo una simulazione, questo modello di transizione energetica verde è a regime, quale sarebbe lo scenario?
DAVIDE TABARELLI - PRESIDENTE NOMISMA ENERGIA Avremmo un abbattimento dell’ordine di un 20/30 percento, perciò riduzione del nostro deficit con l’estero da 40 miliardi verso 20 miliardi di euro, un 1 percento di Pil che viene liberato.
MICHELE BUONO Quale sarebbe l’impatto sulla creazione di nuovi posti di lavoro qualificati?
FRANCESCO VENTURINI - AMMINISTRATORE DELEGATO ENEL X Pensiamo soltanto a quel tessuto d’installatori e di gestori poi, le migliaia d’impianti residenziali fotovoltaici che avremo sui tetti.
MICHELE BUONO FUORI CAMPO Se i produttori sono tanti e vicini, possono creare delle comunità, nelle quali l’elettricità prodotta si possa scambiare: quella che mi avanza la do a te e tutti insieme quella che resta la diamo alla rete: una comunità energetica.
FRANCESCO VENTURINI - AMMINISTRATORE DELEGATO ENEL X Per Enel X sarebbe più semplice andare ad aggregare sub aggregatori e quindi appunto comunità energetiche. Per il successo di progetti di questo tipo in particolare a livello nazionale c’è necessità di un forte coinvolgimento della popolazione altrimenti non si riescono a fare.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Se non diventiamo una comunità energetica non lo possiamo fare. Le 3 mila famiglie che si sono messe la batteria in cantina in casa sono poche. Ora la Regione Lombardia ha dato degli incentivi, e la sperimentazione è partita. Perché non lo fanno anche le Regioni? Ecco noi siamo in grado, abbiamo le competenze per trasformarci in una comunità energetica. Sappiamo come governare l’energia che esce dagli impianti di energia pulita, sappiamo convogliarla nelle reti intelligenti. Noi siamo tra i migliori al mondo per ricerca e conoscenza nell’utilizzo e nello sviluppo delle super reti planetaria, quelle che distribuiscono l’energia pulita. E questa è una competenza che potremmo mettere sul piatto anche della geopolitica perché sappiamo valorizzare l’energia che viene da fonti rinnovabili. Gas e petrolio ce ne sono pochi nel mondo, sono in tanti invece quelli che hanno sole e vento. Ce ne sono un po’ ovunque, soprattutto in Africa, un Paese, un continente che deve ancora crescere, che sta crescendo in maniera esponenziale, deve essere ancora illuminato per il 30%. Se continuano ad illuminarsi bruciando gas e gasolio, come fai ad evitare che la temperatura del pianeta continui ad innalzarsi? Ed è per questo motivo che la presidente della commissione europea Ursula Von der Leyen, ha detto, investite in quel continente, portate le vostre conoscenze sull’economia verde e sulla digitalizzazione, mettete subito sul binario della sostenibilità la crescita. Perché è un 6 bene per l’umanità. Ecco, cosa c’è di più sostenibile che fornire la conoscenza dell’energia presa del battito di ali di un infaticabile navigatore di oceani?
MICHELE BUONO FUORI CAMPO Abbiamo tecnologie e conoscenza e le idee in Italia non mancano.
TOMMASO MORBIATO - FONDATORE E AMMINISTRATORE DELEGATO WIND CITY Abbiamo scoperto che l’albatros in effetti è l’uccello che consuma meno energia rispetto alla distanza percorsa con il volo e quindi noi ce lo siamo messi lì come monito che è già scritto tutto sul pianeta basta solo fermarsi con umiltà, guardare la natura e cercare di imparare da lei.
MICHELE BUONO FUORI CAMPO Il risultato è questa turbina eolica portata a termine in Trentino Sviluppo, incubatore d’imprese e startup tecnologiche.
TOMMASO MORBIATO - FONDATORE E AMMINISTRATORE DELEGATO WIND CITY L’intuizione è stata quella di rendere la turbina in grado di auto-adattarsi al vento, cioè praticamente di renderla intelligente dal suo interno come se fosse una barca a vela che deve performare nell’andare controvento.
MICHELE BUONO FUORI CAMPO Una turbina adatta ad affrontare il vento della città, debole e mutevole nella direzione. E allora pale a geometria variabile per rendere al massimo, un po’ albatros un po’ barca a vela.
TOMMASO MORBIATO - FONDATORE E AMMINISTRATORE DELEGATO WIND CITY Stiamo viaggiando a 40-45 giri al minuto per una potenza già sopra ai 120-130 watt. Grazie alle caratteristiche di geometria variabile di questa turbina, lei si è già avviata con poco vento e adesso è già perfettamente a regime.
MICHELE BUONO FUORI CAMPO Intanto ha preso forma un’idea che porta lavoro alle aziende del territorio. Una turbina pensata per stare sui tetti dei palazzi, quanto vento potrebbe trasformare in energia? Di città in città, dall’Italia al resto del mondo.
MAURO CASOTTO - DIRETTORE OPERATIVO TRENTINO SVILUPPO Queste start up, queste imprese lavorano qui, si abbeverano di quello che è il territorio e quindi di tutte le tematiche, i principi di sostenibilità e di green e green technology ma dopo devono guardare al mondo.
MICHELE BUONO FUORI CAMPO Potrebbero guardare al Golfo di Guinea, per esempio. Questa è la Costa d’Avorio. Non l’avevamo messo in conto di essere contattati da un Paese africano. Un architetto insegnante, Riccardo Bertoni, con i suoi studenti lancia un tema per collaborare: architettura, efficienza energetica e sostenibilità.
GOUDIAMY NAFISSA – STUDENTESSA DI ARCHITETTURA Mi chiamo Goudiamy, ho 18 anni e studio alla scuola d’architettura di Abidjan. Credo che non sia possibile immaginare un futuro della Costa d’Avorio senza l’energia del sole e del vento.
LAURENT DJEDJI - STUDENTE DI ARCHITETTURA Con il sole si potrebbero produrre 5 Kw per metro quadrato al giorno, con un’esposizione ottimale di più di 2500 ore l’anno. Per l’eolico, abbiamo vento a sufficienza soprattutto sulle zone costiere.
GOUDIAMY NAFISSA - STUDENTESSA DI ARCHITETTURA Eppure, ci sono regioni in questo paese che sono completamente al buio.
MICHELE BUONO FUORI CAMPO La crescita complessiva del Paese marcia a un tasso dell’otto percento l’anno e l’elettrificazione sarà completata, sennò lo sviluppo si arresta. Cresce la classe media e, come tutte le classi medie, vuole cose nuove e case soprattutto.
RICCARDO BERTONI - ARCHITETTO Sarà quella che aumenterà indubbiamente anche il fabbisogno energetico. Qui ovviamente l’energia non viene generata né con un sistema nucleare né con un sistema fotovoltaico sono generati con carbone o con il gasolio.
ERMES AKAH - STUDENTE DI ARCHITETTURA Vuol dire che abbiamo molto lavoro da fare e vogliamo cominciare subito, fin da quando progettiamo e costruiamo case.
MICHELE BUONO FUORI CAMPO L’occasione è una cooperativa di professori con tutte le famiglie fanno venticinquemila persone: praticamente c’è da costruire un quartiere. E lo stanno pensando come una comunità energetica.
RICCARDO BERTONI - ARCHITETTO Questa è la zona dove sorgeranno i 6000 appartamenti.
MICHELE BUONO FUORI CAMPO Strutture degli edifici ad alta efficienza energetica per non dissipare la temperatura interna e copertura totale con pannelli fotovoltaici. Spazi già previsti per gli accumulatori per trattenere l’energia.
RICCARDO BERTONI - ARCHITETTO Una piccola centrale elettrica autonoma che può produrre energia per sé e contemporaneamente distribuirla anche ai piccoli paesi che possono essere intorno e che non dispongono ancora di energia.
MICHELE BUONO FUORI CAMPO Un sistema che da noi non è a regime perché conviviamo con il vecchio modello; ma in Africa partendo da zero si potrebbe fare direttamente così.
RICCARDO BERTONI - ARCHITETTO La trasposizione di energia tecnologica dall’Italia all’Africa è importantissima, può diventare per noi una grande opportunità.
MICHELE BUONO Che cosa potrebbe fare l’Italia per voi?
GOUDIAMY NAFISSA - STUDENTESSA DI ARCHITETTURA Assistere noi studenti di architettura nella formazione, aiutarci a capire come sfruttare i vantaggi e il potenziale delle energie rinnovabili. Perché siamo noi che costruiremo, nel futuro.
GUIDO SARACCO - RETTORE POLITECNICO DI TORINO È una grandissima opportunità per l’Italia.
MICHELE BUONO Quale sarebbe l’effetto di uno scambio? A noi che cosa ce ne verrebbe?
GUIDO SARACCO - RETTORE POLITECNICO DI TORINO Non c’è solo un’opportunità commerciale per le nostre imprese, ma c’è una grande opportunità per salvare, diciamo così, il clima da un eventuale sviluppo sbagliato di quelle terre.
ETIENNE DIAKITE - STUDENTE DI ARCHITETTURA Ho fatto un progetto per installare dei pannelli fotovoltaici nella laguna, su una piattaforma galleggiante in plastica.
MICHELE BUONO FUORI CAMPO È un’isola fatta di bottiglie di plastica recuperate, di fronte alla città di Abidjan.
ETIENNE DIAKITE - STUDENTE DI ARCHITETTURA Potremmo sistemarli su questa piattaforma i pannelli fotovoltaici e alimentare così il fabbisogno elettrico di una parte della popolazione.
MICHELE BUONO FUORI CAMPO Si potrebbe aggiungere il mini-eolico italiano per un buon mix energetico. MICHELE BUONO Sareste pronti a testare questo sistema, così com’è, in Africa?
TOMMASO MORBIATO - FONDATORE E AMMINISTRATORE DELEGATO WIND CITY Diciamo, entro un sei mesi. Possiamo essere pronti.
MICHELE BUONO FUORI CAMPO E per chiudere il cerchio, sistemi di batterie per immagazzinare l’energia.
FRANCESCO VENTURINI - AMMINISTRATORE DELEGATO ENEL X Che tipo di vantaggi si otterrebbe da tutto ciò? Prima di tutto è uno sviluppo del mercato, ci sarebbe più possibilità di vendere i nostri prodotti, l’altro vantaggio sarebbe uno scambio di conoscenze.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO 9 Anche questo ha un senso di comunità energetica. Perché aiuti un continente a non commettere i nostri stessi errori, a non avvelenare l’ambiente. Ecco, è anche la politica migliore, più strategica, per evitare le stragi nel mare, per evitare che i barconi di disperati arrivino sulle nostre coste. È un segnale di pace, di inclusione. E poi quella studentessa di architettura che ci chiede una mano può diventare nel futuro la migliore ambasciatrice delle nostre competenze. In tutto questo alla fine si vince un po’ tutti. Su questo anche Report ha dato molto umilmente un contributo, ha fatto da link tra le necessità e le competenze, ne abbiamo tante, non dobbiamo aspettare che ci in tanti campi. Sfruttiamole. Anche perché non dobbiamo aspettare che ci fermi un maledetto virus, per farci poi riscoprire quello che di meraviglioso abbiamo perso.
MICHELE BUONO FUORI CAMPO È pulito il pianeta in questi giorni. Un ecosistema è fatto di organismi viventi, animali e vegetali, che interagiscono per trarre il meglio dall’ambiente in cui vivono. E se gli ecosistemi aiutano a crescere basta crearli, possono funzionare anche al di fuori della natura. Torino, eccolo un ecosistema: il Politecnico è legato al sistema industriale, insieme partecipano al Parco Scientifico Tecnologico per l’Ambiente e tutti entrano in relazione con l’Istituto Italiano di Tecnologia. In questo laboratorio si studiano materiali per catturare la CO2, l’anidride carbonica, quella emessa dal sistema industriale e quella che c’è già in atmosfera. L’intuizione: trovare qualcuno che ne va matto e fargliela mangiare. Sì proprio così.
FABRIZIO PIRRI - COORDINATORE CENTRO DI TORINO ISTITUTO ITALIANO DI TECNOLOGIA In questa zona si sviluppano i materiali per la cattura della CO2: si chiamano liquidi ionici.
MICHELE BUONO FUORI CAMPO Una volta catturata, intervengono dei microrganismi per finire il lavoro.
FABRIZIO PIRRI - COORDINATORE CENTRO DI TORINO ISTITUTO ITALIANO DI TECNOLOGIA Questi materiali sono in grado di prendere la CO2 intrappolata nei liquidi ionici, strappare le molecole di ossigeno e trasformare la CO2 in molecole ad alto valore aggiunto, ad esempio metano.
MICHELE BUONO FUORI CAMPO Sono loro i ghiottoni di Co2, microrganismi che la mangiano e la digeriscono. Non esistono in natura, vanno creati e istruiti: mangiate l’anidride carbonica, è molto buona!
FABRIZIO PIRRI - COORDINATORE CENTRO DI TORINO ISTITUTO ITALIANO DI TECNOLOGIA Lo sviluppo dei liquidi ionici, e la cosiddetta synthetic biology. Queste due cose sono veramente poco, poco, poco battute nel resto del mondo.
MICHELE BUONO FUORI CAMPO In questo settore ci si alza di scala: si provano i processi su reattori che simulano una piattaforma industriale. È sempre economia circolare, quindi l’anidride carbonica sequestrata non si sotterra ma si riutilizza.
DAVIDE DAMOSSO - DIRETTORE OPERATIVO ENVIRONMENT PARK 10 Per utilizzarla abbiamo bisogno di che cosa? Di un reagente che si combini con la CO2, e l’idrogeno questo può farlo.
MICHELE BUONO FUORI CAMPO L’idrogeno c’è. Qui si produce separandolo dall’ossigeno, nell’acqua, con elettricità generata da fonti rinnovabili; poi si ricombina il tutto con l’anidride carbonica.
MICHELE BUONO E nel momento in cui l’idrogeno si combina con la CO2 che succede?
DAVIDE DAMOSSO - DIRETTORE OPERATIVO ENVIRONMENT PARK Si creano quelli che sono idrocarburi o sostanze chimiche… Nasce, diciamo, una nuova chimica che non è più agganciata soltanto al percorso fossile.
MICHELE BUONO FUORI CAMPO Si potrebbe creare una nuova filiera industriale verde, dalla costruzione dei reattori per la cattura della CO2 a un’industria chimica di processo per la produzione di nuovi idrocarburi.
DAVIDE DAMOSSO - DIRETTORE OPERATIVO ENVIRONMENT PARK E questo determina in effetti una base per un’industria abbastanza innovativa
MICHELE BUONO È replicabile il modello? È scalabile a livello nazionale?
GUIDO SARACCO – RETTORE POLITECNICO DI TORINO Penso assolutamente di sì. MICHELE BUONO Come si fa?
GUIDO SARACCO – RETTORE POLITECNICO DI TORINO Quando tu ti trovi formazione, ricerca applicata, servizi che ti dimostrano le tecnologie e ti insegnano a usarle nello stesso posto, produce posti di lavoro e posti di lavoro qualificati. Quello che serve oggi per uscire dalla crisi economica.
MICHELE BUONO Immaginiamo che questo disegno vada a regime. Quale sarebbe l’effetto paese?
GUIDO SARACCO – RETTORE POLITECNICO DI TORINO Io penso che il paese ripartirebbe.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Siamo tra i pochi al mondo capaci di catturare l’anidride carbonica in atmosfera, di trasformarla combinandola con l’idrogeno prodotto da energia pulita in un idrocarburo non fossile e dunque meno inquinante. Insomma abbiamo trasformato un veleno in una risorsa ambientale e economica. E intorno può crescere una filiera industriale. Ma non è l’unico elemento. Anche un elemento abbinato alla morte e alle malattie, siamo in grado di renderlo circolare e anche ambientale, pensate un po’. Amici dell’Ilva, guardate con attenzione.
MICHELE BUONO FUORI CAMPO 11 Le fabbriche devono essere tutte in rete in modo che lo scarto di una diventi materia prima per un’altra. Lonato del Garda vicino a Brescia, questa è la Feralpi siderurgica: qui entrano rottami ferrosi, scarto di altre fabbriche, e diventano acciai speciali. Poi, anche lo scarto di questa produzione a sua volta va verso altre fabbriche. MICHELE BUONO Niente in discarica.
GIAMPAOLO POGLIO - RESPONSABILE GESTIONE ROTTAMI GRUPPO FERALPI Niente in discarica.
MICHELE BUONO FUORI CAMPO Che succede quando nella produzione combini l’economia circolare con l’alta tecnologia?
COSIMO DI CECCA - RESPONSABILE TECNOLOGIA DI PROCESSO GRUPPO FERALPI Abbiamo equipaggiato direttamente sul bordo del forno uno strumento innovativo che permette la misura della temperatura dell’acciaio nel forno in maniera remota.
MICHELE BUONO FUORI CAMPO Deve rimanere costante la temperatura, se sale non serve a niente, se scende, la devi rialzare sprecando energia e aumentando le emissioni.
COSIMO DI CECCA - RESPONSABILE TECNOLOGIA DI PROCESSO GRUPPO FERALPI Questo procedimento ci consente un risparmio del 30 per cento del consumo di metano all’interno del forno del laminatorio 1. Abbiamo un vantaggio non solo energetico ma anche ambientale.
MICHELE BUONO FUORI CAMPO Ogni macchinario è equipaggiato con sensori in modo da tracciare tutte le fasi di lavorazione e produrre dati.
COSIMO DI CECCA - RESPONSABILE TECNOLOGIA DI PROCESSO GRUPPO FERALPI Più dati noi abbiamo a disposizione, più noi possiamo approfondire i processi.
MICHELE BUONO FUORI CAMPO In modo da aumentare la produttività e, contemporaneamente, abbattere sprechi di materia prima, energia e quindi emissioni nocive.
ERCOLE TOLETTINI - RESPONSABILE GESTIONE AMBIENTALE GRUPPO FERALPI Abbiamo un sistema di campionamento in continuo, venti volte al di sotto dei limiti, sono le nostre emissioni degli ultimi cinque anni Diossine, PCB, microinquinanti in genere… Benzopirene.
MICHELE BUONO FUORI CAMPO In ogni fase del ciclo si recupera materiale il più possibile. Non tutta la materia prima va nei forni per la fusione.
GIAMPAOLO POGLIO – RESPONSABILE GESTIONE ROTTAMI GRUPPO FERALPI Questo è l’unico impianto d’Europa che separa rottami da parti inerti e li rivalorizza mandandoli a impianti di recupero di materiali nobili che ci sono ancora all’interno.
MICHELE BUONO Nemmeno i fumi si buttano via, vengono catturati e diventano altra materia prima.
ERCOLE TOLETTINI - RESPONSABILE GESTIONE AMBIENTALE GRUPPO FERALPI Questi impianti non fanno altro che recuperare l’ossido di zinco all’interno contenuto, e trasformarlo in zinco metallico.
MICHELE BUONO FUORI CAMPO A fine ciclo il prodotto finito è pronto per la partenza e le scorie della lavorazione, la scoria nera che con i metodi tradizionali va in discarica, è recuperata completamente.
PAOLO OTTONELLI - AMMINISTRATORE DELEGATO DIMA Quello che per Feralpi è un rifiuto: noi lo trattiamo, lo lavoriamo, creiamo delle ghiaie artificiali per l’impiego in sostituzione degli inerti naturali. Vengono utilizzati nella produzione dei calcestruzzi, di asfalti o di manufatti prefabbricati in cemento. MICHELE BUONO E l’energia per far funzionare questi impianti?
PAOLO OTTONELLI - AMMINISTRATORE DELEGATO DIMA La acquistiamo da produttori di energia verde da fonti rinnovabili.
MICHELE BUONO FUORI CAMPO Non si disperde nemmeno il calore che l’acciaieria produce.
PAOLO GIACOMUZZI - GRUPPO FERALPI L’acqua calda che viene scaldata dai fumi finisce in degli scambiatori di calore, dove si interfaccia con la rete idraulica del teleriscaldamento per portare il calore fuori, lontano, nella città di Lonato.
MICHELE BUONO FUORI CAMPO La città vicina all’impianto, per riscaldarsi, non deve ricorrere al consumo di fonti fossili.
ROBERTO TARDANI - SINDACO DI LONATO - BRESCIA Ci permette di riscaldare tutte le nostre strutture sportive, il Comune, la fondazione… la nostra casa di riposo, tutti gli istituti scolastici più importanti. Io faccio sempre un esempio importante ai miei ragazzi: è come se avessimo piantato 23.000 alberi.
MICHELE BUONO FUORI CAMPO Il calore prodotto dallo stabilimento di Calvisano, invece, riscalda un impianto di acquacultura di storioni.
MARIO PAZZAGLIA - REFERENTE SCIENTIFICO GRUPPO FERALPI Quindi c’è un risparmio economico importante. Poi c’è l’utilizzo dell’acqua per l’agricoltura.
MICHELE BUONO Questo modello di produzione dell’acciaio è scalabile, nel senso si potrebbe produrre sempre così?
CARLO MAPELLI- DOCENTE DI SIDERURGIA E IMPATTO AMBIENTALE POLITECNICO MILANO Più che una scelta è un obbligo e questa è la via perché rimanga sostenibile.
MICHELE BUONO Quale sarebbe l’effetto sull’ambiente in termini di abbattimento di emissioni nocive e di gas climalteranti?
CARLO MAPELLI- DOCENTE DI SIDERURGIA E IMPATTO AMBIENTALE POLITECNICO MILANO Tra il 45 e il 60 percento a seconda delle soluzioni tecnologiche e ingegneristiche che vengono adottate.
MICHELE BUONO Facciamo che questo modello sia a regime: quale sarebbe l’impatto economico?
CARLO MAPELLI- DOCENTE DI SIDERURGIA E IMPATTO AMBIENTALE POLITECNICO MILANO Un risparmio in termini energetici di circa 3, 3 e mezzo Terawatt h all’anno e un risparmio di almeno 40 milioni di metri cubi di acqua.
MICHELE BUONO Si creerebbero nuovi posti di lavoro?
CARLO MAPELLI- DOCENTE DI SIDERURGIA E IMPATTO AMBIENTALE POLITECNICO MILANO Possiamo stimare circa diecimila posti di lavoro diretti, tra servizi altamente qualificati per l’organizzazione della logistica, dei processi di trattamento di questi materiali da smaltire.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO L’acciaio è un asset fondamentale per la nostra economia, e non dobbiamo per forza rinunciarci o collegarlo alle malattie, o alla morte. Si può lavorare in un altro modo. Perché non ricominciare per esempio dall’Ilva? Ecco in questi giorni, in queste ore il Arcelor Mittal ha presentato il suo nuovo piano industriale, prevede l’esubero di circa, di oltre 3mila operai. E ora? Ecco abbiamo capito che in quel posto non hanno tanta fantasia di lavorarlo l’acciaio. Ecco, intervenga lo Stato, faccia una bonifica e trasformi quella che è una iattura in una risorsa, abbiamo le tecnologie per continuare a lavorare l’acciaio in un altro modo. E per restituire il futuro che abbiamo rubato ai nostri figli.
· I Gretini.
Che tempo che fa, il "risveglio" di Greta Thunberg: "Mi incontravano solo per una foto", presa per i fondelli dai potenti del mondo. Libero Quotidiano il 19 ottobre 2020. Ospite d'onore da Fabio Fazio a Che tempo che fa su Rai 3, nella puntata di domenica 18 ottobre, ecco Greta Thunberg, l'attivista green che da qualche tempo era scomparsa, almeno un poco, dai radar. Un lungo intervento, nel corso del quale si è anche confrontata con Jane Fonda e in cui ha ribadito i suoi cavalli di battaglia nella lotta per l'ambiente. Ma una frase, forse, ha colpito più delle altre. Si parlava dei suoi tour attorno al mondo e degli incontri con leader e capi di stato, tutti pronti a sorridere al suo fianco per poi cambiare poco e nulla nelle loro politiche. E la Thunberg ha una sorta di illuminazione: "Ho avuto delle volte l’impressione che molti avevano voglia di incontrarmi solo per fare una foto. Però è vero a volte le cose sembrano poco reali, sembra strano, molto una messa in scena". Così riferendosi agli incontri con i leader mondiali. E, probabilmente, le cose sono andate proprio come ipotizzava...
Ora Greta fa anche marketing: registra marchio col suo nome. L'attivista svedese corre ai ripari: "Il mio nome ed il movimento #FridaysForFuture vengono costantemente utilizzati per scopi commerciali senza alcun consenso". Roberto Vivaldelli, Giovedì 30/01/2020, su Il Giornale. Ebbene sì: Greta Thunberg e Fridays for future diventeranno dei marchi registrati. Troppi quelli che speculano sul nome di Greta e del School strike for the climate, il movimento internazionale di protesta contro i cambiamenti climatici. Lo ha annunciato la stessa attivista svedese in un post su Instagram: "Il mio nome ed il movimento #FridaysForFuture vengono costantemente utilizzati per scopi commerciali senza alcun consenso. Accade per esempio nel commercio e alcune persone fanno soldi a nome mio e del movimento", ha osservato Greta Thunberg. Quella dell'attivista rappresenta una mossa necessaria per agire per vie legali "contro quelle persone o società che stanno provando ad usare me ed il movimento per scopi non in linea con quello per cui il movimento si batte". Rivolgendosi al suo pubblico e ai suoi sostenitori, l'attivista per il clima invita ad essere "estremamente sospettosi" se si viene contattati da "me" o da "qualcun altro che dice di rappresentarmi. Mi scuso con chiunque sia stato contattato - e persino indotto in errore - da questo tipo di comportamento. Succede ad esempio nel marketing, nella vendita di prodotti e nelle persone che raccolgono denaro in mio nome e nel movimento. Ecco perché ho fatto domanda per registrare il mio nome, Fridays For Future, Skolstrejk för klimatet ecc. come marchi". La giovane attivista precisa, tuttavia che "io e gli altri che scioperano da scuola non abbiamo assolutamente interessi nei marchi registrati. Ma purtroppo deve essere fatto".
Greta ammette: "Io e la mia famiglia abbiamo già creato una fondazione no-profit". Fridays For Future, ha rimarcato nel lungo post pubblicato sui social, "è un movimento globale fondato da me. Appartiene a chiunque vi prenda parte, soprattutto ai giovani. Non può - e non deve - essere utilizzato per scopi individuali o commerciali". Greta Thunberg ammette, insieme alla sua famiglia, "sta creando una fondazione" che è "già registrata ed esiste già" anche se non è ancora attiva e operativa. Sarà una fondazione, dice, "strettamente no-profit", qualcosa di strettamente necessario "per gestire il denaro (royalties, libri, donazioni, premi in denaro" in modo "completamente trasparente". Un'operazione che richiederà "molto tempo". L'obiettivo della fondazione, osserva, "è quello di promuovere la sostenibilità ecologica, climatica e sociale".
Chi c'è dietro Greta. Se, da una parte, l'operazione può essere apparire comprensibile e legittima, dall'altra si palesano sempre di più le contraddizioni che animano il fenomeno Greta e la rete di interessi che la sostiene. In poco più di un anno, infatti, Greta Thunberg ha scalato il mondo. Dal primo sciopero per il clima dell'agosto 2018, la sedicenne svedese attivista per il clima di strada ne ha fatta parecchia: dal Forum Economico di Davos all'Onu passando agli incontri con i leader del pianeta, da Angela Merkel a Barack Obama, Greta è ora il simbolo del nuovo "populismo" ambientalista. La storia di Greta Thunberg inizia il 20 agosto 2018. Ingmar Rentzhog, che è fondatore della start-up We Do not Have Time, incontra la svedese di fronte al Parlamento svedese e pubblica un post commovente sulla sua pagina Facebook. Siamo al primo giorno dello sciopero iniziato dalla giovane studentessa. Per capire chi è Ingmar Rentzhog occorre fare un altro passo indietro. Nel maggio 2018, è stato assunto come presidente e direttore del think tank Global Utmaning, che promuove lo sviluppo sostenibile e si dichiara “politicamente indipendente”. Sarà, ma il suo fondatore è nientemeno che Kristina Persson, figlia del miliardario ed ex ministro socialdemocratico dello sviluppo strategico e della cooperazione tra il 2014 e il 2016.
Greta registra il marchio del suo nome e di “Fridays For Future”: «Così mi difendo dagli impostori». Pubblicato giovedì, 30 gennaio 2020 su Corriere.it da Sara Gandolfi. La decisione della 17enne svedese attivista per il clima: «Usano il mio nome senza consenso». E con la famiglia crea una fondazione per gestire i soldi derivati dai tanti premi ricevuti. «Impostori, marchi, interessi commerciali, royalties e fondazioni»…. Greta Thunberg «si sporca le mani», ufficialmente, con un post su instagram in cui annuncia di voler depositare il marchio #FridaysForFuture, oltre alla versione svedese «Skolstrjk for klimatet» e al suo stesso nome. Nessuno scopo di lucro, garantisce. «Purtroppo ci sono ancora persone che stanno cercando di farsi passare per me o dichiarano falsamente di «rappresentarmi» per poter comunicare con persone di alto profilo, politici, media, artisti, ecc.», denuncia la giovane attivista, diventata una star di tutti i summit di politica internazionale nell’ultimo anno e mezzo. «Il mio nome e il movimento #FridaysForFuture vengono costantemente utilizzati per scopi commerciali senza alcun consenso. Succede ad esempio nel marketing, nella vendita di prodotti…» prosegue Greta, che sottolinea di aver deciso di agire «per proteggere il movimento e le sue attività» e «per intraprendere le azioni legali necessarie contro le persone, le società, ecc. che stanno cercando di usare me e il movimento per scopi non in linea con ciò che il movimento rappresenta… sfortunatamente deve essere fatto». E siccome il «marchio Greta», tra vendita di libri, donazioni e premi vari, già frutta bene, l’adolescente che la rivista «Time» ha proclamato «Persona dell’anno 2019» annuncia anche una fondazione no-profit a suo nome, già registrata ma non ancora funzionante, e «senza interessi filantropici». «L’obiettivo sarà quello di promuovere la sostenibilità ecologica, climatica e sociale e la salute mentale», promette l’attivista che ha portato milioni di giovani nelle piazze di tutto il mondo, dando vita a un movimento globale di protesta, dall’Australia all’Europa. L’annuncio è stato accolto sulla rete con molte parole di elogio, ma anche qualche critica. Al limite dell’ironia, come chi ha scritto, sul profilo Instagram di Greta «Quel sorriso che ti viene quando castighi il mondo sull’impronta di carbonio, mentre indossi una giacca di plastica». Greta è ormai contesa da tutti i grandi organizzatori di eventi del mondo globalizzato, anche solo affinché la diciassettenne possa lanciare strali contro i convenuti, rei di non fare abbastanza per fermare la crisi climatica, e dare quindi maggiore risonanza all’evento. Perché, alla fine, val sempre il detto «Basta che se ne parli». L’ha già fatto due volte a Davos, due volte ai Summit dell’Onu sul clima, e poi all’Assemblea delle Nazioni Unite di New York, al Parlamento europeo, al Senato italiano, ecc. ecc. Il suo volto «buca» lo schermo, la sua voce fustigatrice anima i giovani che vorrebbero un futuro meno inquinato. E per ora la stessa Greta non sembra voler tener fede alla promessa fatta al padre: «Un anno in giro per il mondo, poi torno alla vita normale». Eppure, nel movimento spontaneo al quale ha dato vita, stanno emergendo alcune contraddizioni e qualche voce critica. «Un movimento orizzontale e senza leader», garantiscono i portavoce. Ma sulle chat via whatsapp, che lanciano messaggi da una parte all’altra del pianeta, c’è chi contesta la presenza dominante dei «soliti noti» ai grandi eventi internazionali. Nessuno per ora mette in discussione Greta, ma nessuno perdona chi, a livello nazionale, emerge un po’ sopra gli altri. E anche in Italia, i portavoce cambiano a ritmo vorticoso per evitare che diventino troppo famosi.
Sandro Orlando per il “Corriere della Sera” il 31 gennaio 2020. Va bene per la maglietta, passi per il portachiavi e la tazza: ma lo gnomo da giardino, quello proprio no. Qualche settimana fa ne circolava uno su eBay, con la ragazza nella versione «guerriera vichinga», per 40 euro. In plastica, naturalmente, «non riciclabile, né biodegradabile», come le ha rinfacciato il Times : neanche fosse una sua iniziativa. E per le bamboline con le treccine, e il cartello in svedese Skolstrejk för Klimatet , rigorosamente made in China, apriti cielo: sono divampate nuove polemiche. Greta Thunberg ha dovuto difendersi negli ultimi mesi anche da questo: da un' ondata di gadget che ha invaso i siti di e-commerce, sfruttando la sua immagine e quella del movimento. T-shirt, adesivi, badge, felpe, borse e altri oggetti di merchandising. Ecco perché il giorno prima di Natale ha presentato all' Ufficio dell' Ue per la proprietà intellettuale la domanda di registrazione di un marchio. E se entro la fine di aprile nessuno avrà fatto opposizione, il nome di Fridays for Future (con le sue varianti in altre lingue) sarà finalmente tutelato. Proprietario: una fondazione con sede a Stoccolma, intestata a lei e alla sua sorellina più piccola, Beata Ernman. Greta l' ha spiegato con un post su Instagram: «Ci sono troppe persone che usano il mio nome e quello del movimento a scopi commerciali, senza consenso». La registrazione impedirà questi abusi, consentendo di avviare delle azioni legali contro chi cercherà di sfruttare il marchio. «Vi assicuro che non abbiamo nessun interesse per i marchi - ha detto Greta - ma andava fatto». Sono stati peraltro gli avvocati vicini al movimento a suggerirlo. Ad occuparsene poi è stata Janine O' Keeffe, insegnante australiana trapiantata a Stoccolma, che cura la macchina organizzativa dei Fridays for Future. Il buffo è che nella domanda di registrazione si fa riferimento proprio alla necessità di tutelare il marchio in prodotti come zaini, ombrelli, o cappellini . «Non abbiano intenzione di ricavarne dei soldi, ma era l' unico modo per registrarlo», assicura la O' Keeffe. E insieme alla neonata fondazione della famiglia Thunberg servirà un domani a gestire «in modo completamente trasparente» i diritti di libri, donazioni e premi.
Clima, famiglia Thunberg in un nuovo libro racconta l'infanzia di Greta. "A 11 anni stava sparendo". "La nostra casa è in fiamme" è il nuovo libro dell'attivista per il clima 17enne svedese scritto insieme alla mamma e al papà. La Repubblica il 23 febbraio 2020. "La nostra casa è in fiamme" è il nuovo libro di Greta Thunberg scritto insieme alla mamma Malena, cantante lirica di successo, al papà Svante, attore, e alla sorella più piccola Beata. Racconta la difficile infanzia dell'attivista per il clima 17enne svedese, affetta dalla sindrome di Asperger e da disturbo ossessivo-compulsivo. Nel volume, la mamma Malena Ernman, descrive come Greta ad 11 anni avesse quasi smesso di parlare e di mangiare a scuola e come l'attivismo sia stato fondamentale per superare i disturbi alimentari. "Stava lentamente scomparendo in una qualche oscurità", si legge nel libro di cui l'Observer ha pubblicato alcuni estratti. "Ha smesso di suonare il piano. Ha smesso di ridere. Ha smesso di parlare. Ha smesso di mangiare". Perse 10 chili in un mese. Stava per essere ricoverata in ospedale quando è scattata la svolta: un film visto in classe sulla plastica nell'oceano. "Vide quello che noi non volevamo vedere - spiega la madre - è stato come se potesse vedere le emissioni di Co2 ad occhio nudo". Così nell'estate del 2018 ha iniziato i suoi scioperi per il clima, davanti all'ufficio del premier svedese. A lei si sono uniti altri manifestanti. La madre ricorda come un attivista di Greenpeace le offrì del cibo lei lo mangiò come non aveva mai fatto prima visto che si nutriva solo di riso, avocado e gnocchi. Nel 2019, il Time Magazine l'ha nominata persona dell'anno. Greta andrà nel Regno Unito questa settimana per partecipare ad una protesta per il clima a Bristol.
Malala incontra Greta Thunberg: «L’unica per cui valga la pena di saltare la scuola». Pubblicato martedì, 25 febbraio 2020 su Corriere.it da Viviana Mazza. «L’unica amica per cui valga la pena di saltare la scuola», scrive Malala Yousafzai pubblicando su Twitter una sua foto con Greta Thunberg, scattata all’Università di Oxford. La paladina pachistana del diritto all’istruzione nel mondo e l’attivista svedese che invece da scuola ha “scioperato” per attirare l’attenzione sui cambiamenti climatici hanno più cose in comune di ciò che potrebbe sembrare. Entrambe avevano 15 anni (oggi 22 e 17 rispettivamente) quando sono diventate famose, l’una per aver sfidato i talebani che negavano libertà fondamentali alle ragazze, l’altra contro le corporation e i politici negazionisti sul clima. Tutte e due hanno creato dei movimenti e conquistato milioni di ammiratori, ma le loro battaglie sono state anche ricevute (sui social e non) solo con sospetti, teorie complottiste e minacce personali. Anche Malala la prima volta che fu candidata al Nobel, nel 2013, non fu scelta. Chissà forse la seconda volta sarà quella buona anche per Greta.
Da repubblica.it il 24 febbraio 2020. "Our House is on Fire. Scenes of a Family and a Planet in Crisis" (La nostra casa è in fiamme. Scene di famiglia e di un pianeta in crisi) è il nuovo libro dell'attivista per il clima 17enne svedese scritto insieme alla mamma e al papà. "Our House is on Fire. Scenes of a Family and a Planet in Crisis" (La nostra casa è in fiamme. Scene di famiglia e di un pianeta in crisi) è il nuovo libro di Greta Thunberg scritto insieme alla mamma Malena, cantante lirica di successo, al papà Svante, attore, e alla sorella più piccola Beata. Racconta la difficile infanzia dell'attivista per il clima 17enne svedese, affetta dalla sindrome di Asperger e da disturbo ossessivo-compulsivo. Nel volume, la mamma Malena Ernman, descrive come Greta ad 11 anni avesse quasi smesso di parlare e di mangiare a scuola e come l'attivismo sia stato fondamentale per superare i disturbi alimentari. "Stava lentamente scomparendo in una qualche oscurità", si legge nel libro di cui l'Observer ha pubblicato alcuni estratti. "Ha smesso di suonare il piano. Ha smesso di ridere. Ha smesso di parlare. Ha smesso di mangiare". Perse 10 chili in un mese. Stava per essere ricoverata in ospedale quando è scattata la svolta: un film visto in classe sulla plastica nell'oceano. "Vide quello che noi non volevamo vedere - spiega la madre - è stato come se potesse vedere le emissioni di C02 ad occhio nudo". Così nell'estate del 2018 ha iniziato i suoi scioperi per il clima, davanti all'ufficio del premier svedese. A lei si sono uniti altri manifestanti. La madre ricorda come un attivista di Greenpeace le offrì del cibo lei lo mangiò come non aveva mai fatto prima visto che si nutriva solo di riso, avocado e gnocchi. Nel 2019, il Time Magazine l'ha nominata persona dell'anno. Greta andrà nel Regno Unito questa settimana per partecipare ad una protesta per il clima a Bristol.
Greta Thunberg, la mamma confessa: «A 11 anni aveva smesso di parlare e mangiare». Pubblicato lunedì, 24 febbraio 2020 su Corriere.it da Francesco Tortora. Prima di diventare la paladina dei giovani ecologisti nel mondo, Greta Thunberg ha vissuto un periodo molto buio. A rivelarlo è Malena Ernman, mamma della 17enne svedese nel nuovo libro «Our House Is On Fire: Scenes Of A Family and A Planet In Crisis» (La nostra casa è in fiamme: scene di una famiglia e di un pianeta in crisi). Alcuni estratti del volume, scritto dalla famiglia Thunberg, sono stati pubblicati in anteprima dal Guardian e si soffermano sulle difficoltà di Greta iniziate all'età di 11 anni quando «aveva smesso di parlare e mangiare». Malena Ernman, che è una cantante lirica affermata, ricorda il difficile periodo in cui sua figlia in poco più di due mesi perse oltre 9 kg: «Stava lentamente sprofondando in una sorta di oscurità - dichiara -. Aveva smesso di suonare il piano. Aveva smesso di ridere. Aveva smesso di parlare e di mangiare». Insieme al marito, l'attore Svante Thunberg, Malena inizia una battaglia per capire cosa stia accadendo alla figlia che rifiuta di mangiare tutto tranne riso, avocado e gnocchi. Quando i genitori di Greta sono sul punto di ricoverarla all'ospedale, arriva la svolta. Il padre scopre che la ragazza è vittima di bullismo a scuola e uno psichiatra le diagnostica «un autismo ad alto funzionamento». Più tardi Greta comincia a interessarsi ai problemi climatici e nell'estate del 2018 inizia il suo primo sciopero ecologista a scuola. Un attivista di Greenpeace le offre delle tagliatelle vegane tailandesi: «Dà un piccolo morso - racconta sua madre -. E poi un altro. Nessuno reagisce a ciò che sta accadendo. Perché dovrebbero? Greta continua a mangiare. Non solo pochi bocconi ma quasi l'intera porzione». Da allora tutto cambia. La ragazza riprende peso, abbraccia la battaglia per il clima e diventa un'icona mondiale. Nel dicembre 2019 Time la elegge «persona dell'anno». Il resto della storia è tutto da scrivere. Lo scorso weekend Greta ha annunciato su Twitter che venerdì 28 febbraio parteciperà a uno sciopero scolastico a Bristol, in Inghilterra. Ripartono così i "Fridays for Future", le manifestazioni degli studenti per il clima.
Michela De Biasio per "it.businessinsider.com" il 28 febbraio 2020. L’impegno politico dei giovanissimi sulle grandi questioni mondiali non si ferma, ma non ha solo Greta Thunberg come portavoce. All’ormai famosissima paladina del clima si contrappone oggi su Youtube Naomi Seibt, 19 anni, anche lei bionda, di nazionalità tedesca. Mentre la svedese Greta però invita a una lotta quotidiana all’inquinamento, a partire dalla modifica dei propri stili di vita, Naomi, al contrario, denuncia quello che definisce un “allarmismo climatico”, sostenendo che vi sia oggi un eccesso di “coscienza climatica”. Colei che ormai è stata definita come “l’Anti-Greta” o “l’Antidoto a Greta”, sostiene che le previsioni relative alle conseguenze ambientali, sociali ed economiche dovute all’inquinamento sono sovrastimate.
Due idee contrapposte. Nei suoi famosi discorsi ai grandi del mondo, Greta ha invitato i governi a ridurre la loro produzione di carbonio di almeno la metà nel prossimo decennio, dicendo che se non lo faranno, “allora ci saranno conseguenze orribili”. “Voglio farvi prendere dal panico“, aveva detto ai partecipanti al World Economic Forum di Davos, in Svizzera, l’anno scorso. “Voglio che voi sentiate la paura che provo ogni giorno”. Naomi, dal canto suo, sostiene che queste previsioni di conseguenze terribili sono esagerate. In un video pubblicato da Heartland, ha dichiarato: “Non voglio che voi veniate presi dal panico. Voglio che voi pensiate”, sostenendo che i moventi contro il cambiamento climatico sfruttano la paura delle persone, basandosi su analisi parziali, e proponendo invece uno studio maggiore del tema, che a suo avviso porterebbe a un ridimensionamento del fenomeno. Naomi Seibt è sostenuta dai libertari vicini ad Alternative für Deutschland (AfD), critici nei confronti del governo di Angela Merkel, ed è vista come una possibile icona della Neue Rechte, la nuova destra tedesca. La ragazza diciannovenne si proclama contro le politiche della Merkel, anche in materia di immigrazione, rifiuta quello che lei definisce come il “nuovo marxismo culturale in economia”, dilagante in Germania, così come si contrappone ai movimenti femministi. Naomi è intervenuta in occasione di eventi organizzati dal partito AfD di estrema destra della Germania. Ha tuttavia negato di esserne un membro, ma precedenti rapporti suggeriscono che sia o sia stata un membro dell’ala giovanile del partito. La madre della sig.ra Seibt è un avvocato che in passato avrebbe rappresentato politici dell’AfD.
Dalla poesia all’ambiente. La popolarità di Naomi su Youtube è nata quasi per caso, attraverso un video in cui presentava una poesia con cui ha vinto un concorso. Il tema riguardava l’importanza della coerenza personale che ognuno di noi dovrebbe avere. Il video ha raggiunto in breve 100 mila visualizzazioni, e da lì l’attivista anti-antiinquinamento ha iniziato la sua ascesa. Se da un lato Naomi si pone contro Greta rispetto alle sue idee e al suo pensiero, nei suoi video e nei suoi messaggi sostiene anche che la sua più giovane collega sia stata strumentalizzata per una lotta che in realtà non le appartiene. Naomi ha affermato che il suo attivismo politico è stato innescato alcuni anni fa, quando ha iniziato a scuola a porre questioni relativamente alle politiche di immigrazione liberale della Germania, e che l’atteggiamento degli insegnanti e degli altri studenti ha rafforzato il suo scetticismo sul pensiero tedesco tradizionale. Più recentemente, ha sostenuto che guardare i giovani che si uniscono alle proteste settimanali “Fridays For Future” ispirate da Greta ha contribuito a stimolare la sua opposizione all’attivismo per il cambiamento climatico. Nel 2019 Naomi ha iniziato a caricare su YouTube dei video con titoli quali “I cambiamenti climatici – solo aria calda?” (“Climate change – just hot air?”) e “Messaggio ai media – COME OSATE?” (“Message to the Media – HOW DARE YOU?”), che cita il famosissimo “How dare you?” di Greta. In un video pubblicato dall’Istituto Heartland, intitolato “Naomi Seibt vs Greta Thunberg: di chi dovremmo fidarci?“, Naomi ha dichiarato: “La scienza è interamente basata sull’umiltà intellettuale ed è importante che continuiamo a mettere in discussione la narrazione che ne viene fatta invece di promuoverla, e oggigiorno la scienza dei cambiamenti climatici non è affatto scienza”.
Adesivi vergognosi con Greta Thunberg violentata, bufera su azienda canadese. Pubblicato lunedì, 02 marzo 2020 da Corriere.it. Adesivi con il logo della compagnia petrolifera del Canada X-Site: circolati sul web, mostrano, sotto forma di cartoon, una Greta Thunberg nuda che subisce violenza da parte di un uomo che la tiene per le trecce. L’attivista diciassettenne che si batte per la lotta ai cambiamenti climatici ha commentato la vicenda su Twitter: «Stanno cominciando a diventare sempre e sempre più disperati...Questo dimostra solo che stiamo vincendo». L’adesivo circolato in rete ha provocato una ondata di indignazione. L’idea di un responsabile della compagnia con sede ad Alberta sarebbe stata quella di attaccare l’adesivo ai cappellini dei propri dipendenti. Le forze dell’ordine canadesi hanno affermato di aver sì aperto un’indagine sulla vicenda, «ma senza trovare niente che possa essere definito un atto criminale». Sul sito di Change.org la petizione per chiedere le dimissioni dei vertici di X-Site ha raggiunto in tre giorni 14 mila firme. Il ministro della Provincia di Alberta per le donne, Leela Aheer, ha definito l’adesivo «completamente deplorabile, inaccettabile e degradante, chiunque sia responsabile dovrebbe vergognarsi e scusarsi immediatamente. Io sto insieme agli abitanti di Alberta contro questa orribile immagine», ha scritto su Twitter. Messaggio al quale ha risposto il premier della provincia Jason Kenney, che ringrazia «per aver denunciato questa odiosa immagine ed il messaggio che contiene». Simile, l’affermazione del ministro per l’energia di Alberta, Sonya Savage: si tratta di una vignetta «completamente inaccettabile». Dura anche la reazione di FridaysForFuture Canada: «Misognia, pedofilia e violenza usate come arma. Sì, sono disperati. Il silenzio non creerà cambiamento. Chiedete che i responsabili perdano il loro lavoro e che X-Site rimuova tutti gli adesivi distribuiti e chiede scusa a Greta». Come riferisce il sito Ctv News, le scuse sono arrivate oggi, a quattro giorni dalla prima denuncia: «Riconosciamo che non basta scusarsi per l’immagine associata al logo della nostra compagnia», si legge in una dichiarazione della X-Site Energy Services, secondo cui l’adesivo «non riflette i valori di questa azienda o dei suoi dipendenti. Noi siamo profondamente rammaricati per il dolore che possiamo aver causato». La società aggiunge anche che è in corso la raccolta di tutti gli adesivi in questione «allo scopo di distruggerli».
Muore il nonno di Greta mentre l'attivista incontra Malala a Londra: "Era l'uomo più gentile che abbia conosciuto". Nei giorni in cui l'attivista climatica svedese ha incontrato in Gran Bretagna il premio Nobel per la pace, è morto il nonno 95enne. Ne ha dato notizia lei sui social. La Repubblica il 26 febbraio 2020. "Ieri mio nonno Olof Thunberg è morto. Stava per compiere 95 anni. Era una delle persone più gentili che abbia mai conosciuto. Ci manca terribilmente". Greta Thunberg ha postato la morte del suo nonno sui social corredando il messaggio con le immagini di loro insieme. L'attivista svedese è a Londra per incontrare l'attivista pachistana premio Nobel per la pace, Malala Yousafzai. "È l'unica amica per cui salterei la scuola", ha scritto su Twitter Malala, condividendo una foto nella quale compaiono insieme su una panchina del parco. Thunberg da parte sua ha pubblicato due foto dell'incontro sui social: "Quindi... oggi ho incontrato il mio modello. Che altro posso dire?". Thunberg ha visitato Oxford mentre era diretta a Bristol, dove è attesa per la protesta sul clima di venerdì, e ha parlato anche con gli studenti. "Scienza, voto, limiti della protesta, disinvestimento, zero reale e zero netto e molto altro": gli argomenti affrontati secondo quanto riferito dal preside del College Alan Rusbridger.
È quello che ci aspetta se dilaga il virus Greta. Alessandro Sallusti, martedì 03/03/2020 su Il Giornale. In tutta la Cina i livelli di biossido di azoto che misurano il tasso di inquinamento dell'aria stanno calando sensibilmente, e lo stesso vale, sia pure in misura minore, per quelli rilevati in questi giorni a Milano e in Lombardia. Greta e i suoi sostenitori possono esultare. È la dimostrazione che è possibile «fare qualche cosa subito, non domani» - come la ragazzina urla in faccia ai grandi del mondo per migliorare le condizioni dell'ambiente. Ma ciò che sta accadendo all'aria è anche la prova di quale prezzo si deve pagare per fare scendere subito i livelli di inquinamento, che peraltro sono già oggi accettabili in molte parti del mondo: crisi economica e finanziaria, crollo delle Borse, disoccupazione, immobilità delle persone e delle merci sia che si parli della grande industria che del bar sotto casa. Oggi, in altre parole, sappiamo esattamente, perché lo stiamo vivendo sulla nostra pelle, che cosa significhi, e che conseguenze può portare, inseguire e mettere in pratica alla lettera, le utopie giovanilistiche e ambientaliste. Significa fermare il mondo, anticamera dell'estinzione della società almeno come oggi la conosciamo. Un assaggio dell'utopia al potere l'avevamo già avuto con l'ascesa al governo del movimento Cinque Stelle, che ha proprio nella decrescita felice e nell'ambientalismo sfrenato (non grandi opere, che significa anche non grandi ospedali) il cuore del suo Dna. Alla prova dei fatti il suo programma economico e sociale (dal reddito di cittadinanza al No Tav, fino a sostituire a Taranto l'industria dell'acciaio con quella delle cozze) si è dimostrato fallimentare e pericoloso. Il loro posto, a spiegare a tutti noi come deve funzionare il sistema e come va cambiato, è stato preso dalle sardine, perché loro sono giovani e nuovi. Greta, grillini e sardine: venite in questi giorni a Milano e dintorni e provate a vivere, se ci riuscite, un piccolo anticipo del vostro mondo ideale: aria fresca, ospedali a mò di lazzaretti e la gente barricata in casa perché impossibilitata a muoversi e viaggiare in metrò, bus, aerei e treni. Greta, grillini e sardine sono alla lunga un virus non meno pericoloso del Corona. Per fortuna non siamo ancora completamente in mano loro, in una perpetua assemblea studentesca. Da questa crisi ci salveremo con le multinazionali del farmaco, il progresso della scienza, politici navigati, imprenditori coraggiosi e banchieri esperti. Se fosse per le Greta, i Santori e i Toninelli moriremmo tutti. Sicuro.
Coronavirus, Greta Thunberg all'Europarlamento. "Strasburgo aperta solo per lei". La denuncia della leghista Baldassarre. Libero Quotidiano il 03 marzo 2020. Europarlamento chiuso per coronavirus, aperto solo per Greta Thunberg. A denunciarlo è Simona Baldassarre, europarlamentare della Lega. "A seguito della conferenza stampa che si è tenuta ieri il presidente David Sassoli (del Pd, ndr) ha comunicato la decisione di impedire l’accesso al Parlamento Europeo a tutti i visitatori esterni e di annullare tutti gli eventi fino a data da destinarsi con effetto immediato a causa del rischio di contagio relativo al Covid-19". Non finisce qui. "Senza entrare nel merito dell’efficacia di queste misure - continua la Baldassarre, membro della Commissione per l'Ambiente, la Sanità pubblica e la Sicurezza alimentare -, stamani abbiamo ricevuto notizia del fatto che l’audizione programmata dalla Commissione per l’Ambiente e la Sanità Pubblica per domani, mercoledì 4, con la partecipazione di Greta Thumberg avrà luogo nonostante tutte le misure di restrizione applicate a tutti gli altri. Ritengo assurdo che passi il messaggio che Greta sia al di sopra delle misure cautelative. Chiedo pertanto al Presidente e agli organi predisposti di riconsiderare questa posizione insensata, assicurando un’uniformità di trattamento per la salute di tutti i cittadini europei, nessuno escluso".
Greta Thunberg: "Ue a zero emissioni nel 2050? Non è obiettivo ma resa". L'attivista svedese all'Europarlamento: "Non abbiamo bisogno di obiettivi per il 2030 o il 2050, ma per ogni singolo anno: dobbiamo iniziare a tagliare le emissioni in maniera drastica alla fonte fin da ora". La Repubblica il 04 marzo 2020. "L'Unione europea deve essere capofila: avete l'obbligo morale di farlo, oltre all'opportunità" di essere "il vero leader sul clima". Torna alla carica Greta Thunberg, intervenendo di fronte alla commissione Ambiente (Envi) del Parlamento europeo a Bruxelles, in occasione della presentazione della Climate Law. La seduta l'ha accolta con uno striscione che recita: "Välkommen Greta Thunberg" ("Benvenuta Greta Thunberg"), e Greta ancora una volta non usa mezzi termini per far capire che l'emergenza climatica non permette di esitare e che l'Unione europea ha l'obbligo morale di guidare il cambiamento.
"La nostra casa continua a bruciare". "Per più di un anno e mezzo - ha detto Greta - abbiamo sacrificato il nostro diritto all'istruzione per protestare contro la vostra inazione. A settembre, 7 milioni e mezzo di persone sono scese in strada per chiedervi di unirvi dinanzi ai dati scientifici per offrirci un futuro sicuro; poi, a novembre 2019 il Parlamento Ue ha dichiarato l'emergenza climatica e ambientale. Avete detto che l'Ue sarebbe stata capofila dinanzi alle sfide climatiche: ma quando i vostri figli hanno fatto scattare l'allarme antincendio, voi siete usciti, avete respirato l'aria e vi siete resi conto che la vostra casa stava bruciando e che non era un falso allarme. Poi cosa avete fatto? Avete finito la cena, guardato un film, e siete andati a dormire senza neanche chiamare i pompieri. Questo è un comportamento insensato. Se la casa brucia non si aspetta qualche anno per spegnere l'incendio eppure è questo che ci propone oggi la Commissione".
"Emissioni zero nel 2050? Una resa". Ecco perché, di fronte a questo sfacelo, il 2050 è un traguardo troppo lontano perché sia accettabile. Spiega ancora Greta: "Nel momento in cui l'Ue presenta questa legge sul clima, con le emissioni zero entro 2050, indirettamente ammettete la resa: rinunciate agli accordi di Parigi, alle vostre promesse e alla possibilità di fare tutto il possibile per dare un futuro sicuro per i vostri figli". "Non abbiamo bisogno di obiettivi per il 2030 o il 2050, ma per ogni singolo anno: dobbiamo iniziate a tagliare le emissioni in maniera drastica alla fonte fin da ora. I vostri obiettivi lontani nel tempo non serviranno a nulla se le emissioni continueranno ai livelli odierni, anche solo per qualche altro anno". Un concetto già espresso molte volte, fatto proprio dalla quasi totalità delle ong ambientaliste europee che chiedono all'Unione un taglio della CO2 del 65% al 2030 e zero emissioni già nel al 2040. Altrimenti addio accordo di Parigi. Greta lo ha ribadito stamattina ai commissari Ue e, molto probabilmente, lo farà anche domani al cospetto dei ministri dell'Ambiente che si riuniranno a Bruxelles. Questione di misure, commenta il vicepresidente della commissione Frans Timmermans, convinto che l'Ue stia dando una risposta politica ai movimenti studenteschi che hanno preso Greta a modello e sfileranno ancora a Bruxelles venerdì prossimo. "L'analisi di Greta è basata sull'approccio del bilancio di carbonio, secondo cui gli obiettivi di riduzione dovrebbero essere più alti", ha detto il laburista olandese. "Io ho provato a spiegarle che noi usiamo un altro approccio e siamo più ottimisti di lei sulle tecnologie emergenti. Un fatto è certo: se non ci fosse stata lei probabilmente oggi non staremmo neanche discutendo una legge sul clima". Anche se per ottenere il via libera dei governi sulle emissioni zero ci sono voluti sei mesi di negoziato, con la Polonia che alla fine si è chiamata fuori. La legge sul clima annuncia una prima proposta per aumentare il taglio della CO2 al 2030 entro settembre e prevede ampi poteri alla Commissione per aggiustare la 'traiettoria' di riduzione delle emissioni ogni 5 anni, con proposte di modifica nel 2021 ai regolamenti chiave delle politiche Ue per il clima: dal mercato Ets all'efficienza energetica, dalle rinnovabili alle emissioni in agricoltura e trasporti. L'Italia e altri 11 Paesi hanno già chiarito via lettera che vorrebbero accorciare i tempi, con nuovi target al 2030 già in giugno, e l'Europarlamento è orientato a chiedere più vincoli a livello nazionale. Con il pacchetto presentato oggi la Commissione europea ha fatto partire la procedura per la revisione della direttiva sulla tassazione dell'energia e le valutazioni di impatto sul futuro meccanismo di adeguamento del prezzo del carbonio alle frontiere. Ma Greta ricorda che è tardi per aspettare. "La Natura non scende a patti", ha sottolineato l'attivista svedese. "Non potete fare compromessi con la fisica" e "noi non vi consentiremo di rinunciare al vostro futuro".
L’ambientalista Greta Thunberg evoca Thoureau, ma lui fu molto di più. Francesco Longo de Il Riformista il 4 Marzo 2020. Era apprezzato da Tolstoj e da Proust, che in una lettera a Madame de Noailles le consigliò: «Leggete le pagine ammirevoli di Walden». Ispirò Hannah Arendt, che nel 1970 scrisse Disobbedienza civile, riprendendo il titolo di un suo celebre saggio del 1849. Più di recente, in Italia, Henry David Thoreau ha fatto parte dei punti di riferimento del Movimento Cinque Stelle – ogni epoca fa quello che può – tanto che Gianroberto Casaleggio aveva associato la sua residenza di campagna alla casupola di legno che si era costruito Thoreau nei boschi del lago Walden (ma accessoriato con connessione internet). Oggi, l’atteggiamento che ispira tante pratiche di Greta Thunberg evoca inevitabilmente, ancora, Thoreau, quando combatteva contro i valori e le attività sciagurate della sua epoca, non con armi politiche, ma incarnando un modello alternativo di comportamento virtuoso. Thoreau non amava viaggiare e si rifugiò per due anni in un bosco – coltivando, cacciando e ricucendosi i vestiti da solo – Greta si ritrae da plastica e voli aerei. Thoreau dimostrò che l’uomo è l’artefice della propria felicità, Greta dimostra che l’uomo è l’artefice della propria infelicità. Tra l’uno e l’altra sono evidenti infinite differenze – oltre a essere separati da tutta la costellazione di non violenti, da Gandhi a Luther King – ma sono accomunati da un medesimo slancio verso la natura e la difesa dell’ambiente. Si rischia sempre, certo, di ridurre Thoreau a un profeta dell’ecologismo moderno, a un’icona della non violenza, e il suo testo cruciale, Walden (del 1854), a un vademecum per ambientalisti radicali. Rischio che intravedeva già John Updike quando, nel 2004, scriveva: «Walden è diventato un tale totem della filosofia di vita del ritorno alla natura, dell’opposizione al lavoro e della disobbedienza civile (…) che rischia di essere tanto venerato e poco letto quanto la Bibbia». Oggi, per restituire una tridimensionalità a un personaggio sfaccettato come Thoreau – più complesso e più ricco di interessi e sfumature di quanto non venga raccontato – è possibile leggere parte del suo diario, appena pubblicato da Piano B edizioni, tradotto e curato da Mauro Maraschi e intitolato Io cammino da solo (pp. 406, euro 18).
I diari di Thoreau sono un’opera monumentale, trentanove taccuini scritti nell’arco di ventiquattro anni, dal 22 ottobre 1837 al 13 maggio del 1861 (l’anno prima di morire). Il suo Journal fu pubblicato in quattordici volumi a partire dal 1906. Su quale base quindi selezionare dei brani e altri no? Scrive il curatore: «Alla base di queste scelte c’è stata l’impressione che, nel lungo termine, alcuni autori vengano più snaturati di altri proprio in relazione alla loro citabilità, e che con Thoreau questo fenomeno raggiunga il suo apice». Thoreau infatti è un autore perfetto per essere cannibalizzato e con il tempo l’immagine che abbiamo è quella di un autore di aforismi. La sua scrittura è effettivamente spesso aforistica, con qualcosa di inafferrabile e lirico ideale per essere catapultato nell’epoca delle frasi per i social network. Quanti like prenderebbe la frase del diario: «L’autore deve fare del suo libro una scogliera contro la quale possano infrangersi le onde del silenzio»? Prima di questo volume sono stati pubblicati altri libri con parti di diario preferendo selezioni per temi. Leggendo queste pagine, si ha l’impressione di aggirarsi nel laboratorio dei suoi tre libri principali, Walden, Camminare e Disobbedienza civile. È scrivendo i diari che Thoreau deve aver raffinato il suo filosofare e sono queste riflessioni, di rimando, a chiarirgli il valore della scrittura. Bisogna sempre ricordare che i tre libri che sono sintesi e rilancio della letteratura americana, Foglie d’erba di Walt Whitman, Moby Dick di Melville e Walden di Thoreau escono uno nel 1854 e gli altri due nel 1855. In due anni, questi tre testi sono stati un terremoto tale nella letteratura americana che ancora osserviamo scosse d’assestamento. Insieme, contengono non solo i valori della democrazia americana – al centro anche delle prossime presidenziali americane – ma ne regolano i generi: il romanzo (Moby Dick), la poesia (Foglie d’erba) e la riflessione autobiografica (Walden). Tutti e tre si possono leggere come lettere d’amore che celebrano e mitizzano l’America fisica: territorio, vegetazione, oceano. Contrariamente al peso storico che avranno i suoi libri, sosteneva Thoreau: «Un libro è davvero buono quando si guadagna ben poca attenzione. È talmente stimolante che mi invoglia a fare piuttosto che a leggerlo. Mi fa venire voglia di metterlo giù e cominciare a vivere in base ai suoi consigli». Difficile dire se la lettura del Journal induca più a ritirarsi nella foresta o se invogli di più a continuare a leggere all’infinito i suoi diari. Di fatto queste pagine sono a volte spassose: «Odio i musei, non c’è nulla che mi gravi di più sullo spirito. Sono le catacombe della natura. Un verde germoglio di primavera, un amento di salice, il debole richiamo di un passero migrante basterebbero a rimettere in piedi il mondo intero. La vita contenuta in un singolo ciuffo d’erba verde vale di più di tutta quella morta. I musei sono natura morta collezionata da uomini morti»; a volte irriverenti: «Il solo pensiero della spregevolezza dei politici basta a rovinarmi una passeggiata», a volte sono esattamente ciò che ci si aspetta che siano, imbevuti della sua proverbiale attrazione per alberi e foglie, una devozione per i boschi ricorsiva e senza freni: «L’altro giorno stavo cercando di descrivere il piacere che mi dà passeggiare da solo nei boschi lontano dalla città». Oggi che nel dibattito internazionale si discute tanto di climate fiction – la letteratura che si interroga sui cambiamenti climatici – e di antropocene, Thoreau è destinato ad essere sempre più visto come un anticipatore di temi che saranno all’ordine del giorno: «È sempre più raro che un territorio non mostri ferite fresche o cicatrici indelebili che rivelino il passaggio più o meno recente dell’uomo», scriveva. A giudicare dai diari, questa sua fama postuma, il suo destino di nostro contemporaneo, lo avrebbe lasciato indifferente. Da vero anticonformista, sempre allergico alle formalità, alle “buone maniere”, alle banalità dette e pensate, aveva sempre la testa rivolta verso avvenimenti minuscoli in cui coglieva verità epocali e simboliche, verità che una volta annotate sui diari si trasformavano in rivelazioni potentissime: “Il grano cresce di notte”.
Il disco rotto di Greta. Andrea Indini il 5 marzo 2020 su Il Giornale. In questi giorni in cima alle agende di tutte le cancellerie europee dovrebbero esserci due dossier: uno dovrebbe contenere l’emergenza sanitaria legata al coronavirus e le misure economiche per evitare che la pandemia faccia collassare i Paesi maggiormente colpiti, l’altro il ricatto del premier turco Recep Tayyip Erdoğan e la bomba immigrazione al confine greco. Per molti queste sono le cricità prioritarie da risolvere. Per gli ultrà ecologisti, invece, il clima resta ancora il chiodo fisso. Greta Thunberg, per esempio, arrivando alla riunione dei ministri dell’Ambiente dell’Unione europea, chiamati a discutere della legge sul clima presentata ieri dalla Commissione, si è lamentata del fatto che, a Bruxelles, “non c’è un vero senso di urgenza”. Giusto qualche giorno fa Federico Palmaroli, in arte Le più belle frasi di Osho, ha prodotto una vignetta strepitosa con Greta che, cercando ancora un po’ di attenzione, si sbracciava e diceva “Yu uuuu ve ricordate de me, sì?”. E poi sopra il commento: “Tira più un coronavirus che un surriscaldamento globale”. Anche in questi giorni di difficile corsa a combattere il nuovo virus venuto dalla Cina, gli ecologisti più sfegatati non hanno mai smesso di fare propaganda. E così non è mancato chi ha letto con soddisfazione l’effetto del Covid-19 su Wuhan e dintorni fotografato dai satelliti della Nasa: le mappe mostrano un drastico calo delle concentrazioni di diossido di azoto (NO2), un gas emesso dai motori dei veicoli, centrali elettriche e impianti industriali, in tutta l’area di Wuhan. È l’effetto pressoché immediato delle misure di contenimento decise da Pechino per contenere il contagio. Quello che i seguaci di Greta sembrano non vedere quando plaudono alla chiusura delle fabbriche cinesi, sono gli effetti che l’emergenza sanitaria sta avendo sull’economia mondiale. Interi settori sono già in ginocchio. I Paesi più colpiti stentano a vedere, nell’immediato, l’uscita da questo tunnel. E per molti già si parla di recessione. Per far fronte alla drammatica situazione economica a Roma, come a Bruxelles, stanno facendo davvero poco. Il premier Giuseppe Conte si è limitato a chiedere uno sforamento più corposo del deficit. Per ora si parla di 5 miliardi di euro oltre ai 3,6 già chiesti nei giorni scorsi. Poca roba rispetto alla gravità della situazione. La stessa task force pensata (a scoppio ritardato) dall’Unione europea per fermare i contagi rischia di rivelarsi del tutto inutile. Nei mesi scorsi la Commissione guidata da Ursula von der Leyen ha fatto del Green Deal un vero e proprio cavallo di battaglia. Ora, vista la nuova emergenza, dovrebbe smetterla di inseguire le utopie dei gretini e concentrarsi piuttosto su un piano Marshall a sostegno delle economie azzoppate dal virus. La Thumberg non ne avrà mai abbastanza: andrà avanti a protestare finché l’uomo non sarà tornato all’età della pietra. Ma il prezzo che dovremo pagare per farla contenta è troppo alto. Lo dimostra la decrescita infelice imposta in queste settimane dal contagio. Per questo è necessario invertire la rotta al più presto.
Ve la ricordate Davos? Oggi la star è Greta Thumberg. Il Dubbio il 21 gennaio 2020. Al via nella cittadina svizzera la 50esima edizione del Forum economico mondiale. Fino a qualche anno fa era un appuntamento di grande rilievo, coperto fino all’eccesso da tutti i media planetari, osteggiato dal movimento no-global che nella esclusiva cittadina svizzera ha inscenato importanti manifestazioni di protesta. Oggi il World economic forum di Davos, giunto alla 50esima edizione, sembra una kermesse minore, che non suscita più grande interesse nonostante la partecipazione dei grandi leader del pianeta. E la vera star è la 16enne più celebre del globo: l’attivista svedese Greta Thumberg che è intervenuta nel panel Forging a sustainable path towards a common future per fare un punto sul movimento ambientalista e sulla coscienza globale di un’emergenza che rischia di cambiare la vita sul pianeta delle prossime generazioni: «Da un certo punto di vista è successo molto, qualcosa che nessuno poteva prevedere: si è diffusa una maggiore consapevolezza a livello globale. Ci sono stati tantissimi ragazzi che si sono riuniti per questa alleanza o movimento, è un passo importante. Oggi il clima, l’ambiente è un tema molto sentito». Malgrado l’agenda della politica abbia iniziato a interessarsi al cambiamento climatico e alcuni timidi passi avanti siano stati intrapresi Thumberg accusa le classi dirigenti di non dare seguito alle buone intenzioni. Di restare alle petizioni di principio, di parlare senza poi agire in modo concreto. «Nulla è stato fatto dal punto di vista dell’inquinamento, siamo ancora indietro dal punto di vista delle emissioni Co2: si inizi ad ascoltare la scienza e trattare questa crisi per quella che è, perché questa è una vera e propria crisi». Infine Greta snocciola i numeri che supportano le tesi più allarmiste: «Secondo l’Ipcc report del 2018 se volete avere una possibilità del 67% di limitare l’aumento medio della temperatura globale al di sotto di 1,5 gradi centigradi. Al primo gennaio 2018 avevamo circa 420 giga tonnellate di diossido di carbonio rimaste, questi numeri sono più bassi perchè emettiamo 42 giga tonnellate l’anno. Agli attuali ritmi di emissioni il bugdet di tempo rimasto è dimeno di otto anni prima di mancare l’obiettivo».
Davos, Greta: "Tutti parlano di clima ma non è cambiato niente". Primo giorno della 50esima edizione Forum economico mondiale. L'attivista svedese ha partecipato a un panel di giovani sul clima, il gruppo di discussione più giovane nella storia di Davos. la Repubblica il 21 gennaio 2020. Il gruppo di discussione del Forum a cui partecipa Greta Thunberg è iniziato con un toccante cortometraggio sulle proteste mondiali per il clima in tutto il mondo. "Sono successe molte cose che nessuno avrebbe potuto prevedere, e questo ha dato il via a un movimento - ha detto l'attivista svedese - Non sono solo io, ma tanti giovani ovunque che hanno creato un' alleanza. Le persone sono più consapevoli ora. Grazie alla spinta dei giovani sembra che il clima e l'ambiente ora siano un argomento caldo. Allo stesso tempo, però, non è stato realizzato nulla. Le emissioni globali continuano ad aumentare. Dobbiamo iniziare ad ascoltare la scienza e trattare questa crisi con l'importanza che merita". Al panel partecipano anche Salvador Gómez-Colón, che ha raccolto i fondi per l'uragano Maria che ha devastato Portorico nel 2017, Natasha Mwansa, attivista zambiana per i diritti delle ragazze e delle donne, e Autumn Peltier, la "guerriera dell'acqua" canadese, membro della Prima Nazione di Wikwemikong. "Come gestite tutti gli haters?", ha chiesto il moderatore giornalista del Time ai ragazzi. Greta ha glissato e ha invece chiesto di poter leggere una sua dichiarazione, in cui ha citato il rapporto IPCC, il Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico, a partire dal 2018. Ha spiegato che sono rimasti pochi anni per agire e che c'è una probabilità del 67% di mantenere la temperatura globale al di sotto dell'1,5%: "Con i livelli di emissione odierni, il budget rimanente sparirà in meno di otto anni. Queste non sono le opinioni di nessuno, questa è scienza". Ha concluso bacchettando i media: "Ho ripetuto questi numeri in quasi tutti i discorsi degli ultimi 18 mesi. Voi non ne volete sapere niente di questi dati, ma io continuerò a ripeterli finché non li ascolterete." Gómez-Colón in chiusura ha sottolineato che i giovani del Fridays for Future, il giovane movimento internazionale di protesta contro i cambiamenti climatici non sono il futuro ma "siamo il presente. E agiamo adesso".
Clima, le accuse di Greta da Davos: “Tutti parlano ma nulla è cambiato, le persone stanno morendo”. Redazione de Il Riformista il 21 Gennaio 2020. “Da un certo punto di vista è successo molto, qualcosa che nessuno poteva prevedere: si è diffusa una maggiore consapevolezza a livello globale” sull’ambiente e sul cambiamento climatico. Lo ha detto la giovane attivista svedese per l’ambiente Greta Thunberg, intervenendo al Forum economico mondiale a Davos per il panel ‘Forging a sustainable path towards a common future’. “Ci sono stati tantissimi ragazzi – ha continuato Thunberg – che si sono riuniti per questa alleanza, movimento, è un passo importante. Oggi il clima, l’ambiente è un ‘hot topic'”, ovvero un tema ‘caldo’, sentito, nel mondo. “Nulla però è stato fatto dal punto di vista delle emissioni, siamo ancora indietro dal punto di vista delle emissioni Co2”, ha sottolineato l’attivista, spiegando che “siamo solo all’inizio” e auspicando che “si inizi ad ascoltare la scienza e trattare questa crisi per quella che è, perché questa è una vera e propria crisi”. La giornata di oggi vedrà i due interventi più attesi: prima l’attivista svedese, poi il presidente degli Stati Uniti Donald Trump, che parlerà alle 11 insieme al direttore esecutivo del Wef, Klaus Schwab. Durante il panel, definito dal suo stesso moderatore, giornalista del Time, “il più giovane di Davos”, Greta ha precisato che “non posso sicuramente lamentarmi di non essere ascoltata, vengo ascoltata in continuazione, ma in generale devono essere la scienza e la voce delle giovani generazioni ad essere al centro delle conversazioni, deve essere così”. Per Greta Thunberg la questione del cambiamento climantico “riguarda noi tutti e il nostro futuro, sicuramente ne siamo colpiti. Ma la scienza deve essere più al centro”. La giovane attivista ha quindi attaccato il mondo dei media per la copertura delle tematiche ambientali. “Piuttosto che parlare di come affronto gli haters voglio ribadire qualche dato. Abbiamo il 67% di probabilità di rimanere al di sotto di un aumento della temperatura globale di 1,5 gradi celsius, a dirlo è la scienza”. “Le persone stanno morendo” a causa dei cambiamenti climatici, ha sottolineato Thunberg. “Non credo di aver visto nessun media riprendere questi dati. So che non volete parlarne, ma io continuerò a ripeterli finché non lo farete”, ha aggiunto l’attivista svedese.
Clima, l’appello di fine anno di Greta: “Entro 8 anni esauriremo budget di carbonio”. Redazione de Il Riformista il 29 Dicembre 2019. Un appello di fine anno dal simbolo della protesta per il clima. Greta Thunberg, l’attivista svedese consacrata come “Persona dell’anno” dal settimanale americano Time, al termine di un 2019 segnato dal fallimento della conferenza dell’Onu di Madrid Cop25, torna a ribadire l’importanza di impegnarsi nella lotta ai cambiamenti climatici. Il messaggio è apparso sul profilo Twitter della 16enne: “Questa non può più essere notizia tra le altre notizie, un “argomento importante” tra gli altri argomenti, una “questione politica” tra le altre questioni politiche o una crisi tra le altre crisi. Questa non è politica o opinioni di partito. Questa è un’emergenza esistenziale. E dobbiamo iniziare a trattarla come tale”, ha scritto Greta. Nel tweet l’attivista che ha trascinato nelle piazze di mezzo mondo milioni di giovani con le iniziative dei Fridays for Future mostra un grafico che segnala come le emissioni globali abbiano raggiunto il picco nel 2000, quando sarebbe bastato un calo annuale del 3% per mantenere la temperatura del pianeta sotto gli 1.5 gradi centigradi di innalzamento rispetto alle temperature pre-industriali. Invece le emissioni hanno continuato a salire ogni anno. Ora per rimanere sotto la soglia fondamentale dei 1.5 gradi dovrebbe calare del 15% all’anno mentre, se non caleranno entro 8 anni, avremo esaurito il nostro budget di carbonio.
(ANSA il 21 gennaio 2020) - Il Forum economico mondiale entra nel vivo, e fra i primi interventi di particolare rilievo c'è quello della baby-ambientalista Greta Thunberg, che già alle 8,30 di stamani interviene a un forum intitolato 'Forging a sustainable path towards a common future'. Il cinquantesimo compleanno di Davos avviene all'insegna del cambiamento climatico, con una partecipazione di attivisti senza precedenti. E la giovane svedese, arrivata ieri con una marcia da Landquart accompagnata da ambientalisti locali, è affiancata a Davos da una decina di teenage changemakers, coetanei impegnati sul fronte del clima. Non molto dopo, alle 11,30, sarà il presidente Usa Donald Trump, in arrivo dagli Usa a Zurigo e poi in trasferimento in elicottero, a rivolgersi all'audience globale di Davos con il suo special address.
Marco Bresolin per lastampa.it il 21 gennaio 2020. […] tremila partecipanti al Wolrd Economic Forum, il forum dei potenti apertosi a Davos. Greta Thunberg […] vuole dare la carica ai tremila del summit globale, dir loro che il mondo va male e rischia di andare davvero peggio. Il presidente statunitense difficilmente sarà sulla stessa linea. Dopo aver saltato l’appuntamento dello scorso, e mentre a Washington si discute il su impeachment, anche lui vuol dire “non avete visto ancora nulla” (ore 11): riferendosi alla sua dottrina global nazionalista e al ruolo che vuole conservare più che centrale nell’America sul palcoscenico mondiale. L’intreccio fra il gigante e la “bambina” è il manifesto delle differenze planetarie. E’ l’indice della diversità che il Forum - fondato proprio 50 anni fa dal signore e dalla signora Schwab - vuole tutelare, preoccupandosi allo stesso tempo di mitigarne le conseguenze di in termini di diseguaglianza. Davos vuole essere il motore della lotta al cambiamento climatico, ma anche il garante delle identità. Non è un caso se uno dei Crystal Award assegnati è alla ballerina Jin Xing, coreografa cinese di punta, la prima transgender del suo grande paese. "Quando ero ragazzo mi dicevano di non pensare e fare come gli altri – ha raccontato -. Il mio consiglio è diverso. Non cercate di essere i migliori; provate a essere unici. Siate differenti". Il discorso inaugurale è stato affidato a Ursula Von der Leyen, la prima donna a essere stata eletta alla guida della Commissione Ue. “Davos è un luogo dove sia gli scienziati che i giovani leader possono far sentire la loro voce e lasciare il segno”, ha affermato, ricordando che la Commissione ha sostenuto sin dall’inizio l’opera del Forum. Discorso alto, da cerimonia, più ambientale con un tocco di geopolitico. L’Europa deve diventare una “potere forte” sullo scacchiere diplomatico, è stato il suo messaggio. Buon proposito, anche se i fatti libici di questi giorni provano che la strada è ancora lunga. Fra le defezioni dell’ultimo momento, quella del ministro degli Esteri iraniano Mohammad Javad Zarid. Doveva parlare domani. Invece “a causa di alcune modifiche agli accordi originari" il suo arrivo è stato cancellato. Fonti ufficiali di Teheran rivelano che il viaggio non si svolgerà" perché "hanno cambiato il programma originario che avevano per lui, che era stato concordato, sostituendolo con qualcos'altro". Questo esclude l’ipotesi ventilata di un incontro ai margine del forum con il presidente Trump.
Davos, Greta Thunberg al Forum economico: "Come spiegherete ai vostri figli che vi siete arresi?" "La vostra inazione sta alimentando le fiamme di ora in ora. Noi vi stiamo dicendo di comportarvi come se amaste i vostri figli sopra ogni altra cosa". Katia Riccardi il 21 gennaio 2020 su La Repubblica. DAVOS (Svizzera) - "Mi chiedo cosa direte ai vostri figli, quale motivo gli darete per aver fallito, come gli spiegherete di averli lasciati consapevolmente di fronte a un tale caos climatico? Gli direte che non andava bene per l'economia? Che non era conveniente e che quindi avete deciso di rinunciare all'idea di garantirgli una vita futura senza nemmeno provarci?". Greta Thunberg il primo giorno della 50esima edizione continua a lanciare il suo messaggio anche durante un incontro pomeridiano organizzato dal New York Times. Le sue preghiere, che rendono più preoccupato che severo il suo sguardo. "Dite che i bambini non dovrebbero preoccuparsi. Dite: 'Lasciate fare a noi. Aggiusteremo le cose, promettiamo di non deludervi. Non siate così pessimisti'. E poi niente. Silenzio. O qualcosa di peggio del silenzio. Parole vuote e promesse che danno l'impressione siano state intraprese azioni sufficienti". Il tono questa volta non è arrabbiato, mantiene una dolorosa nota di timore. "Un anno fa sono venuta a Davos e vi ho detto che la nostra casa è in fiamme. Ho detto che volevo vi facesse prendere dal panico. Mi hanno avvertito che dire alla gente di farsi prendere dal panico per la crisi climatica è una cosa molto pericolosa. Ma non preoccupatevi. Va bene. Fidatevi, l'ho già fatto prima e posso assicurarvi che non porta a nulla". Non cambia nulla, continua a dire. Da Madrid, così come da New York. Non cambia perché "lo diciamo noi bambini". Eppure i bambini dicono. "Quando noi bambini vi diciamo di andare nel panico non vi stiamo dicendo di continuare come prima. Non vi stiamo dicendo di fare affidamento su tecnologie che oggi neanche esistono, non su larga scala, e che la scienza sostiene forse non esisteranno mai". "Non vi stiamo dicendo di continuare a parlare su come raggiungere emissioni zero o l'annullamento del carbonio, solo barando e armeggiando con i numeri. Non vi stiamo dicendo di 'compensare le emissioni' semplicemente pagando qualcun altro per piantare alberi in posti tipo l'Africa, mentre allo stesso tempo foreste come l'Amazzonia vengono massacrate a un tasso infinitamente più alto. Piantare alberi è una cosa positiva ovviamente, ma non si avvicina neanche un po' a ciò di cui avremmo bisogno". "Cerchiamo di essere chiari", spiega l'attivista svedese che fra un mese compirà 17 anni, "non abbiamo bisogno di ridurre le emissioni. Le nostre emissioni devono fermarsi se vogliamo rimanere al di sotto dell'obiettivo di 1,5 gradi. E, fino a quando non avremo le tecnologie che su vasta scala possano farlo, dobbiamo dimenticare lo zero netto. Abbiamo bisogno di uno zero reale". E mentre il presidente degli Stati Uniti Donald Trump liquida la questione chiamando gli ambientalisti "profeti di sventura", la ragazzina che ha scosso il mondo dal torpore senza riuscire raffreddare il clima, continua: "Il fatto che gli Stati Uniti lascino l'accordo di Parigi sembra scandalizzare e preoccupare tutti, e dovrebbe. Ma il fatto che state tutti per non rispettare gli impegni sottoscritti nell'accordo di Parigi non sembra infastidire nello stesso modo". "Qualsiasi vostro piano o politica che non includa tagli radicali alle emissioni, alla fonte, a partire da oggi, è completamente insufficiente a rispettare l'impegno di arrivare a quei 1,5-2 gradi centigradi previsti dall'accordo di Parigi". E ancora, non si tratta di destra o sinistra. "Non ci interessano in alcun modo i vostri partiti politici. Dal punto di vista della sostenibilità, la destra, la sinistra e il centro hanno fallito. Nessuna ideologia politica o struttura economica è stata in grado di affrontare l'emergenza climatica e ambientale e creare un mondo coeso e sostenibile. Perché quel mondo, nel caso non l'aveste notato, è attualmente in fiamme". "Ovviamente non ci sono tutte le soluzioni nelle società di oggi. Né abbiamo il tempo di aspettare che nuove soluzioni tecnologiche diventino disponibili per iniziare a ridurre drasticamente le nostre emissioni. Quindi, ovviamente, la transizione non sarà facile. Sarà difficile. E a meno che non iniziamo ad affrontarla ora insieme, con tutte le carte sul tavolo, non saremo in grado di risolverla in tempo. Nei giorni prima il 50° anniversario del World Economic Forum, mi sono unita a un gruppo di attivisti sul clima che chiedono a voi, ai leader più potenti e influenti del mondo, di iniziare ad agire".
Ecco i punti principali: "Chiediamo al World Economic Forum di quest'anno, alla società, a banche, istituzioni e governi: di fermare immediatamente tutti gli investimenti nella ricerca ed estrazione di combustibili fossili. Di bloccare immediatamente i sussidi per i combustibili fossili. Di disinvestire immediatamente e completamente dai combustibili fossili". Non dopo. "Non vogliamo che queste cose vengano fatte entro il 2050, il 2030 o addirittura il 2021. Vogliamo che sia fatto ora. Può sembrare che stiamo chiedendo molto. E ovviamente direte che siamo ingenui. Ma queste richieste sono solo il minimo sforzo necessario. Altrimenti dovrete spiegare ai vostri figli perché avete rinunciato all'obiettivo di 1,5 gradi. Perché vi siete arresi senza nemmeno provarci. Bene, sono qui per dirvi che, a differenza di voi, la mia generazione non si arrenderà senza combattere". "La scorsa settimana ho incontrato minatori di carbone polacchi che hanno perso il lavoro a causa della chiusura della miniera. E anche loro non si erano arresi. Al contrario, sembrano capire il fatto che dobbiamo cambiare le cose più di voi". La nostra casa è ancora in fiamme. "La vostra inazione sta alimentando le fiamme di ora in ora. E noi vi stiamo dicendo di comportarvi come se amaste i vostri figli sopra ogni altra cosa".
Greta Thunberg, l’appello nell’ultimo giorno a Davos: “Situazione clima non viene trattata come crisi”. Redazione de il Riformista il 24 Gennaio 2020. “La situazione non viene trattata come una crisi”. Questa è l’accusa rivolta dall’attivista per il clima Greta Thunberg, a Davos, in Svizzera, dove è stata ospite del World Economic Forum e dove oggi partecipa al Fridays for Future, parlando del riscaldamento globale e del cambiamento climatico. Greta ha parlato con i giornalisti insieme ad altri quattro giovani attivisti per il clima, con cui ha cercato di condividere i riflettori: Vanessa Nakate dell’Uganda, Loukina Tille della Svizzera, Luisa Neubauer della Germania e Isabelle Axelsson della Svezia. Molti sono stati i ragazzi che hanno appoggiato gli attivisti celebri battendosi nell’ultimo giorno dell’evento affinché l’emergenza climatica venga affrontata come un problema serio e globale. Ieri Steven Mnuchin ha respinto l’invito di Greta ai governi e alle aziende per la riduzione drastica del loro uso di combustibili fossili, beffandola. “È lei la capo economista? Chi è lei? Sono confuso”, ha detto, poi precisando dopo una breve pausa che era uno “scherzo”. “Può tornare a spiegarcelo dopo aver studiato economia al college”, ha concluso. La 17enne svedese ha ovviamente risposto alle critiche del segretario al Tesoro americano Mnuchin affermando che i suoi commenti “ovviamente non hanno alcun effetto” su di lei e gli altri attivisti. Inoltre Greta ha sottolineato e riconosciuto che i giovani attivisti “vengono criticati continuamente”. “Non possiamo preoccuparci di questo tipo di cose”, ha rimarcato, insistendo sul fatto che la sua priorità è attirare l’attenzione e l’azione sulle preoccupazioni relative al riscaldamento globale.
Attivista di colore tagliata dalla foto con Greta, è polemica sui social. Redazione de Il Riformista il 27 Gennaio 2020. “Tutti dicevano che posizionarmi nel mezzo è sbagliato! Un attivista africano deve stare in mezzo solo per paura di essere tagliato fuori? Non dovrebbe essere così!”. Così tuona su twitter l’attivista dell’Uganda Vanessa Nakate dopo essersi accorta che la foto che la ritraeva insieme alle attiviste Greta Thunberg, Isabelle Axelsson, Luisa Neubauer e Loukina Tille era stata modificata. L’episodio è avvenuto a Davos, in Svizzera, dove nei giorni scorsi si è tenuto il World Economic Forum che ha ospitato le giovani militanti ambientaliste. Dopo il tweet di Vanessa, i social si sono scatenati dando vita ad una polemica virale tra critiche e solidarietà. Secondo quanto denunciato da Vanessa, l’agenzia di stampa Associated Press ha pubblicato l’istantanea escludendo l’attivista africana. Dopo essersi accorta della modifica, la Nakate ha cominciato una serie di tweet in cui ha accusato l’AP di aver agito in modo razzista. Non avendo avuto immediato riscontro dall’agenzia, ha registrato un video-accusa in cui si è sfogata rivangando il suo sdegno per l’accaduto. Il video di Vanessa ha scatenato un fiume di commenti tra cui anche quello della celebre collega Greta Thunberg, la quale ha espresso la sua solidarietà scrivendo: “Mi dispiace per quello che ti è successo, non lo meriti! Siamo tutti molto grati per quello che stai facendo”. A questo punto, dopo le proteste della Nakate e l’indignazione del web che ha accusato l’agenzia di stampa di razzismo, l’Associated Press ha rimosso la foto ripubblicando quella originale: “Siamo dispiaciuti di aver pubblicato una foto senza Vanessa, l’unica persona di colore nella foto. Come agenzia di stampa ci preoccupiamo di rappresentare accuratamente il mondo che raccontiamo” ha scritto l’Ap sul suo sito.
GLI ATTIVISTI A DAVOS – In occasione del World Economic Forum gli attivisti per il clima si sono riuniti per del riscaldamento globale e del cambiamento climatico. Sono state molte le conferenze rilasciate dalle maggiori esponenti: Vanessa Nakate dell’Uganda, Loukina Tille della Svizzera, Luisa Neubauer della Germania, Isabelle Axelsson della Svezia e la svedese Greta Thunberg. In queste riunioni sono stati molti gli scatti che ritraevano le militanti insieme, anche se il sito Apnews.com ha tagliato la 23enne da una foto mostrando solo le altre. La versione rilasciata da un portavoce di AP ha dichiarato a Buzzfeed News sottolinea che non c’erano cattive intenzioni, che l’agenzia aveva pubblicato l’immagine non appena giunta in redazione e quando ne avevano ricevuto altre avevano sostituito quella ritagliata.
Chi sono i giovani attivisti che partecipano al Forum di Davos insieme a Greta Thunberg. Livia Liberatore il 21 gennaio 2020 su it.mashable.com. Greta Thunberg non è la sola giovane che lotta per cambiare il mondo. Oltre a lei, ci sono tanti under 18 che si battono contro il cambiamento climatico, per i diritti delle donne o per eliminare le discriminazioni. Sono la coscienza dei governi e nessuno di loro ha paura di denunciare le politiche che non vanno. Per la prima volta il World Economic Forum di Davos ha deciso di dare voce a questa generazione, lasciando loro la parola nel prestigioso incontro internazionale a cui partecipano più di tre mila leader del mondo politico e imprenditori da tutto il mondo. Le loro storie sono emozionanti, il loro impegno merita di essere conosciuto. Abbiamo raccolto i profili di nove di loro.
Fionn Ferreira. Originario del West Cork, una regione sul mare nell'Irlanda meridionale, ha 18 anni. Attraverso la sua passione per la vita all'aria aperta, ha assistito agli effetti dell'inquinamento da microplastica sull'ambiente. Quando era al liceo, ha scoperto un processo chimico per eliminare questo tipo di inquinamento dalle acque in una manciata di secondi. Questo nuovo metodo gli è valso un premio di 50 mila dollari (circa 45 mila euro) al Google Science Fair Prize nel 2019.
Ayakha Melithafa. Sudafricana, 17enne, è considerata la Greta Thunberg del suo Paese. Nell'ambito dell'Alleanza africana per il clima e del Progetto 90 dell'iniziativa 2030, Ayakha sta mobilitando il sostegno per lo sviluppo a basse emissioni di carbonio e per la transizione energetica in Sudafrica.
Autumn Peltier. Nata nella regione autoctona del Wikwemikong, in Canada, ha 15 anni, ed è nota come la "guerriera dell'acqua". Ha iniziato la sua lotta quando aveva otto anni e ha appreso che le comunità delle Prime Nazioni, il termine usato per indicare le popolazioni indigene del Canada, non potevano bere l'acqua locale a causa della contaminazione da attività industriali e oleodotti. Nel 2019, Autumn è stata nominata Chief Water Commissioner dalla Anishinabek Nation, in rappresentanza di 40 Prime Nazioni in Ontario, molte delle quali prive di acqua potabile.
Melati Wijsen. Indonesiana di 19 anni, ha fondato nel 2013 insieme a sua sorella il movimento Bye Bye Plastic Bags. Cresciuta sull'isola di Bali, racconta spesso quando nuotando nei mari appena fuori dalla sua spiaggia d'infanzia, le capitava di uscire dalle acque dall'oceano con un sacchetto di plastica avvolto intorno al braccio.
Mohamad Al Jounde. Attivista per i migranti, 17 anni, è un rifugiato siriano in Libano. Come migliaia di altri bambini rifugiati nel Paese, non poteva andare a scuola, quindi ha deciso di sostenere i bambini nella stessa situazione. Insieme alla sua famiglia, ha costruito una scuola in un campo profughi del Libano.
Naomi Wadler. Afroamericana, ha 13 anni ed è impegnata nella difesa dei diritti delle donne. Ha denunciato più volte che le ragazze afroamericane hanno una probabilità maggiore di essere vittime delle armi negli Stati Uniti, come in un discorso del 2018 diventato virale sui social media.
Natasha Mwansa. Natasha è nata e cresciuta in Zambia, dove sostiene la salute e il benessere dei giovani: in particolare si batte contro il matrimonio infantile. Ha 18 anni ed è considerata una delle voci più potenti dell'Africa.
Salvador Gomez-Colon. Quando l'uragano María ha devastato Portorico nel 2017, a Salvador è stato detto che la sua comunità avrebbe dovuto affrontare la prospettiva di mancanza di elettricità per almeno un anno. In risposta, ha creato la campagna di crowdfunding "Light and Hope for Puerto Rico" per distribuire lampade a energia solare e altre forniture a oltre 3.100 famiglie sull'isola. Riuscì in poco tempo a mettere insieme aiuti per 175 mila dollari con cui riusci a riportare acqua ed elettricità nell'isola. Salvador continua a sostenere l'implementazione di sistemi energetici intelligenti a Portorico.
Cruz Erdmann. Fotografo residente in Nuova Zelanda, ma nato e cresciuto a Bali, di 14 anni. Nel 2019 ha vinto il premio Wildlife Photographer of the year della sezione dedicata ai giovani, con l'immagine di un calamaro iridescente fotografato di notte al largo di Sulawesi, in Indonesia (guardatela qui, ne vale la pena). Si innamorò dell'oceano fin da piccolo, grazie ai suoi genitori, che lavorano come ambientalisti marini.
A Davos la sfida Greta-Trump. Il presidente: "Ambientalisti profeti di sventura". Primo giorno della 50esima edizione Forum economico mondiale. L'attivista svedese ha partecipato a un panel di giovani sul clima, il gruppo di discussione più giovane nella storia di Davos, un'ora prima dell'intervento del presidente americano. "Tutti parlano di clima ma non è cambiato niente", ha detto. La Repubblica il 21 gennaio 2020. Davanti al pubblico del World Economic Forum va in scena la sfida sull'ambiente tra Greta Thunberg e Donald Trump. Con la prima che insiste nel mettere in guardia sui pericoli dovuti al cambiamento climatico e l'altro che liquida la questione chiamando gli ambientalisti "profeti di sventura". Due punti di vista, due visioni del mondo. Opposte. Il gruppo di discussione del Forum a cui partecipa Greta Thunberg inizia con un toccante cortometraggio sulle proteste mondiali per il clima in tutto il mondo. "Sono successe molte cose che nessuno avrebbe potuto prevedere, e questo ha dato il via a un movimento - dice l'attivista svedese - Non sono solo io, ma tanti giovani ovunque che hanno creato un'alleanza. Le persone sono più consapevoli ora. Grazie alla spinta dei giovani sembra che il clima e l'ambiente ora siano un argomento caldo. Allo stesso tempo, però, non è stato realizzato nulla. Le emissioni globali continuano ad aumentare. Dobbiamo iniziare ad ascoltare la scienza e trattare questa crisi con l'importanza che merita". Al panel partecipano anche Salvador Gómez-Colón, che ha raccolto i fondi per l'uragano Maria che ha devastato Portorico nel 2017, Natasha Mwansa, attivista zambiana per i diritti delle ragazze e delle donne, e Autumn Peltier, la "guerriera dell'acqua" canadese, membro della Prima Nazione di Wikwemikong. "Come gestite tutti gli haters?", chiede il moderatore giornalista del Time ai ragazzi. Greta glissa e invece chiede di poter leggere una sua dichiarazione, in cui ha citato il rapporto IPCC, il Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico, a partire dal 2018. Spiega che sono rimasti pochi anni per agire e che c'è una probabilità del 67% di mantenere la temperatura globale al di sotto dell'1,5%: "Con i livelli di emissione odierni, il budget rimanente sparirà in meno di otto anni. Queste non sono le opinioni di nessuno, questa è scienza". Conclude bacchettando i media: "Ho ripetuto questi numeri in quasi tutti i discorsi degli ultimi 18 mesi. Voi non ne volete sapere niente di questi dati, ma io continuerò a ripeterli finché non li ascolterete". E' stata poi la volta di Donald Trump, giunto a Davos nel giorno dell'inizio del processo di impeachment al Senato. Il presidente Usa si scaglia contro i "perenni profeti perenni di sventura" che avvertono che il mondo è alle prese con una grave crisi ambientale. "Dobbiamo respingere i profeti perenni di sventura e le loro previsioni sull'apocalisse", dice Trump, poche ore dopo il "non avete fatto nulla" di Greta. Trump annuncia comunque il contributo Usa al clima, confermando la partecipazione all'iniziativa "1 miliardo di alberi contro il cambiamento climatico". "Sono orgoglioso di dire che gli Stati Uniti sono sbocciati. Abbiamo realizzato cose che il mondo non ha mai visto prima. L'America prospera e vince come mai prima d'ora", dice Trump citando gli accordi commerciali storici firmati la scorsa settimana con Cina, Messico e Canada. "Questi accordi sono un modello per il 21esimo secolo". Donald Trump continua sostenendo che che gli Stati Uniti si erano indeboliti quando ha preso il potere, e che il pessimismo dilagava tra i dirigenti d'azienda e altre figure influenti. Ma sotto il suo controllo, le cose stanno migliorando. "Siamo un esempio per il mondo". E giù un elenco di numeri su economia e occupazione. "Abbiamo perso 60.000 fabbriche sotto l'ultima amministrazione. Noi oggi ne abbiamo guadagnate 12.000". Non è mancata una stoccata alla Banca centrale americana: "Il boom economico è avvenuto nonostante la Federal Reserve, che ha alzato i tassi troppo velocemente e li ha tagliati troppo lentamente". E poi la Cina: "Il mio rapporto con Xi Jinping non è mai stato migliore, eccetto che lui con la Cina è indietro rispetto agli Stati Uniti".
Maria Giovanna Maglie per Dagospia il 23 gennaio 2020. "Non è una cattiva ragazza quella Greta, è che sceglie i paesi sbagliati, strano che se la prenda con gli Stati Uniti, le posso fare una lista se vuole dei Paesi che inquinano e che sono pericolosi". E poi: “Questi allarmisti chiedono sempre la stessa cosa, il potere assoluto di dominare, trasformare e controllare ogni aspetto della nostra vita. Non permetteremo mai ai socialisti radicali di distruggere la nostra economia, rovinare il nostro Paese o estirpare la nostra libertà". Davos addio, ma non perché Trump abbia liquidato l'appuntamento, perché lo ha dominato da protagonista dell'economia, perché chiunque in Europa abbia parlato di lui e Greta alla pari sulla scena ha fatto cattiva fiction. Stabilito che Donald Trump del processo di impeachment appena avviato al Senato, con zero possibilità di finire con una sua condanna, se ne infischia altamente, e può darsi che decida di usarlo come One Man show, presentandosi e accettando l'invito di alcuni senatori repubblicani; accertato che già dà interviste sui tagli delle tasse alla classe media che intende applicare appena sarà riconfermato presidente alla fine di quest'anno; assorbiti i 132 tweet che ci ha propinato in un solo giorno; andiamo a vedere la ciccia alla luce del fatto incontrovertibile che se gli inetti governi dell'Unione Europea sperano che sia assediato dai dem al Congresso, e contano di liberarsene con l'impeachment e non con un accordo politico avanzato, hanno veramente sbagliato tutto. È così spaventato Trump che va all'attacco. Prima di tutto l'annuncio che il presidente degli Stati Uniti parteciperà alla marcia per la vita, che è la più grande manifestazione contro l'aborto, e che non aveva mai visto la presenza di un presidente. Poi c'è stato oggi l'altro atteso annuncio, ovvero che l'Amministrazione Trump metterà a punto una norma per eliminare le protezioni ambientali e i controlli anti-inquinamento che riguardano aree con corsi d'acqua e zone umide, e ciao Greta, ma soprattutto ciao Obama. Ora, l'aveva promesso dal primo giorno, anzi l'aveva promesso per tutta la campagna elettorale del 2016 che avrebbe abrogato il regolamento "Waters of the United States", approvato dal presidente Barack Obama, contro il parere di proprietari terrieri e agricoltori, per i i più malevoli soprattutto contro il parere dei proprietari di campi da golf, categoria nella quale Trump è annoverabile alla grande. Pezzo dopo pezzo ha smontato tutta la policy di Barack Obama, e ciò gli porta solo voti oltre che indipendenza energetica. Dicevamo che a Davos il presidente americano ha dominato. Ricordava brillantemente Federico Punzi su Atlantico Quotidiano: " a pochi giorni dall’insediamento di Donald Trump alla Casa Bianca, il gotha finanziario globalista e tutte le principali testate, italiane e internazionali, ancora sotto shock per la sua elezione, incoronavano [a Davos] il presidente cinese Xi Jinping come alfiere della globalizzazione e del libero commercio contro l’America protezionista e isolazionista del nuovo presidente. E in effetti, il presidente Xi sfruttò abilmente l’occasione per strappare applausi con un discorso propagandistico con nessuna corrispondenza alla realtà, come gli sviluppi dei mesi successivi avrebbero dimostrato". Una bella figura da servi di un dittatore comunista. Tre anni dopo la realtà è sotto gli occhi di tutti, i record di Wall Street, l'occupazione piena realizzata negli Stati Uniti, il PIL al 3% ormai ampiamente prevedibile, il successo acclarato dei tagli alla burocrazia, della riduzione drastica delle tasse, del via a grandi opere e infrastrutture. Trump ha preso di petto anche i mali del commercio internazionale, utilizzando da imprenditore abituato alla trattativa estrema il cosiddetto ricatto dei dazi per ottenere accordi più equi. Con Messico e Canada ha fatto gli interessi commerciali degli Stati Uniti, con la Cina ha anche cominciato a frenare l'avanzata del potere politico dei cinesi. Toccherà a noi adesso? Nelle interviste prima e dopo Davos è chiaro che ora l'attenzione si sposta sull'Europa. Trump si è riferito esplicitamente al colloquio avuto con la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen. “Se non otterrò qualcosa – ha spiegato – dovrò prendere provvedimenti, e i provvedimenti saranno dazi molto elevati sulle auto e sui prodotti che entrano nel nostro Paese”. Poi la carota, dopo il bastone minacciato e che resta saldamente dietro la schiena: “Faranno un accordo, perché devono farlo. Non hanno scelta. Sarei molto sorpreso se dovessi adottare i dazi”. O se dovesse adottarli su automobili e altri prodotti dell'Unione Europea per affrontare la battaglia sulla web tax dei colossi digitali che sono prevalentemente americani, da Google ad Amazon a Facebook. Dopo aver molto tuonato, il francese Macron si è spaventato e ha congelato tutto fino a fine anno, lasciando i più zelanti come Giuseppi col cerino acceso in mano. Il segretario al Tesoro statunitense Steven Mnuchin ha già spiegato a tutti, anche all'italiano Gualtieri nelle more, che se l'Europa intende insistere a imporre una tassa sulle nostre società, "considereremo tasse sulle case automobilistiche europee". La verità? L'impeachment non è entrato nell'agenda politica, è lontano dalla vita degli americani, riguarda la fatica dell'opposizione democratica che tenta di trovare candidati per le sue primarie. Sembra un argomento da giornaloni e TV italiane che fingono un processo già iniziato, un pericolo dalle testimonianze, un incertezza dei senatori repubblicani, soprattutto fingono un argomento di fondo, l'Ucrainagate, che semplicemente dal punto di vista costituzionale nessuno è li per dimostrare.
Ora le élite di Davos riconoscono i successi di Trump. Roberto Vivaldelli su Inside Over il 21 gennaio 2020. A Davos, in Svizzera, ha preso il via oggi la 50esima edizione del World Economic Forum, che si concluderà il 24 gennaio. Sono 2.782 i partecipanti registrati, provenienti da 117 paesi. È prevista la partecipazione di rappresentanti di governi di 91 paesi, di cui 53 sono capi di stato o di governo e i rappresentanti di tutte le maggiori società bancarie e di investimento del mondo: Bank of America, BlackRock, Citi, Goldman Sachs, HSBC e Sberbank, oltre a Barclays, Bridgewater Associates, JPMorgan Chase, Lazard, Paypal. Presenti, tra gli altri, il primo ministro finlandese Sanna Marin, il cancelliere tedesco Angela Merkel, il premier Giuseppe Conte, il finanziere George Soros, il presidente ucraino Volodymyr Zelenskiy e l’attivista per il clima Greta Thunberg. L’ospite più atteso, tuttavia, mentre negli Usa si svolge il processo di impeachment al Senato, è il Presidente Donald Trump. Quest’anno, il tema del forum di Davos è “Stakeholder for a Cohesive and Sustainable World” e si concentrerà in gran parte sul tema dei cambiamenti climatici. Anche se il Presidente degli Stati Uniti potrebbe essere messo sotto pressione su questo tema, i “plutocrati di Davos”, come scrive il New York Times, a differenza dello scorso anno, sembrano essere ben disposti ad accogliere The Donald.
Ora le élite accolgono con favore Donald Trump. L’anno scorso, nota il Nyt, a Davos il Presidente Trump era stato accolto con un profondo scetticismo, se non addirittura una certa ostilità. Le élite globali che si riuniscono ogni anno sulle Alpi Svizzere non potevano sopportare la retorica populista e antiglobalista di The Donald e la sua avversione per il multilateralismo e i consessi internazionali. Questa volta è diverso. “Con il mercato azionario ai massimi storici, due accordo commerciali appena annunciati e la possibilità che Trump possa rimanere in carica per quattro anni” è probabile che a Davos Donald Trump venga accettato, se non celebrato “anche se sta affrontando un processo di impeachment”. Un sentimento, quello diffuso fra le élite di Davos, che riconoscono perfino i più ardenti nemici e detrattori del Presidente americano. “Ci stiamo adeguando tutti al suo comportamento anomalo”, ha dichiarato l’investitore Anthony Scaramucci, ex amico e finanziatore del presidente Usa, direttore della comunicazione per soli 11 giorni. “L’atteggiamento della comunità imprenditoriale nei confronti dell’amministrazione Trump sembra piuttosto positivo”, ha spiegato al New York Times Stephen Schwarzman, co-fondatore di Blackstone, uno dei maggiori fondi di investimento del mondo. Ciò che spinge i grandi investitori ad apprezzare Trump, ha affermato, vi sono la forza dell’economia, gli accordi commerciali con Cina, Messico e Canada, il taglio delle tasse.
Il discorso (trionfale) di Trump a Davos. Si attendeva uno show di Donald Trump e così è stato. È lui, piaccia o meno, il Davos Man. Un discorso di mezz’ora, nel quale ha sottolineato i successi della sua amministrazione, dall’economia agli accordi commerciali. “Quando ho parlato due anni fa da questa platea ho detto che avrei lanciato il grande ritorno grande dell’America. Oggi – ha ribadito l’inquilino della Casa Bianca – abbiamo riscoperto la grande macchina dell’America e dell’industria Usa. L’America è tornata a vincere come mai prima d’ora”. The Donald ha poi preso di mira gli ambientalisti e i “perenni profeti di sventura” come Greta Thunberg. “Dobbiamo respingere i profeti perenni di sventura e le loro previsioni sull’apocalisse”. D’altronde, non è un mistero: su questi palcoscenici Donald Trump riesce sempre a dare spettacolo. Una mossa anche strategica: tutti parleranno dell’antagonismo Trump – Greta e non del processo di impeachment che si svolge al Senato, destinato ad apparire in secondo piano.
Nicola Porro per “il Giornale” il 21 gennaio 2020. Il piccolo gossip su Sankt Moritz, una località sciistica dove l' acqua in bottiglietta nei rifugi costa come minimo 5 franchi, vuole che gran parte del suo successo si debba alla famiglia di armatori greci Niarchos. Oltre a salvare alberghi in difficoltà negli anni '50, rilevare impianti dove in pochi risalivano, avrebbero migliorato la pista dell' aeroporto di Samedan, contribuendo ad allungarla e a riscaldarla. Atterrare in quell' aeroporto è davvero un incubo. È molto alto sopra al livello del mare, incastrato tra le montagne, e soggetto a venti pericolosi e che cambiano. Chissà se gli organizzatori dell' annuale incontro di Davos sono a conoscenza del fatto che gran parte anche del loro successo derivi dall' estro di una famiglia di miliardari che ha aperto il portafoglio affinché ai propri amici fosse reso più semplice arrivare in aereo privato ai cocktail party. Chissà se i cerimonieri che da dieci anni ci affliggono sulla disuguaglianza dell' economia mondiale sono a conoscenza del fatto che i loro beniamini, da Bono a Di Caprio, da Xi Jinping a Rouhani, senza quell' aeroporto col cavolo che avrebbero impiegato tre giorni per chiacchierare di futuro in mezzo alle montagne innevate e irraggiungibili della Svizzera. Meglio un video registrato, no? E anche quest' anno, riparte la cinque giorni di Davos. Con un pizzico di ipocrisia in più: prima la ricca platea arrivata con voli privati si sciroppava i danni della disuguaglianza economica, oggi la medesima platea, oltre al mondo dei ricchi sempre più ricchi, si gusta il tema del cambiamento climatico. Davos, per capirci tra di noi, è un gigantesco filtro della cattiva coscienza dei nostri ricconi globali. Un setaccio con il quale depurare il complesso di colpa dell' establishment globalizzato. Davos è il genius loci del pentimento, molto temporaneo, di una classe dirigente che deve spiegare al mondo i propri fallimenti, attribuendoli ovviamente ad altri. Ci spiegano cosa dobbiamo fare, noi che così ricchi non siamo. E dunque si vestono «alla Davos»: prendono una limousine, ovviamente elettrica, dalla propria penthouse in California o New York dotata di riciclo, vanno al terminal dei voli privati, si sdraiano sul loro jet dove la plastica è bandita, arrivano a Samedan, dove vengono forniti di badge color platino che dà accesso a tutti i party e a tutte le sale, e poi en passant vanno sul palco e ci dicono che ci sono troppe disuguaglianze e troppo inquinamento. E uno dovrebbe pensare: ma questi ci stanno a prendere per i fondelli? Uno bello come Brad (Pitt) o Matt e uno ricco come Bill Gates o Sergey Brin che ci parlano di disuguaglianza e magari di inquinare di meno? E invece no, siamo lì che pendiamo dalle loro labbra. Alcuni, in buona fede, vanno a Davos per capire dove va il mondo. Poi alla fine, anche se non lo dicono alle mogli (niente è più sessista, classista e razzista di Davos), l' unica cosa che occorre capire subito è dove si tengono i party migliori. Ma ritornando alle cose serie, si fa per dire, uno pensa di immergersi in un traffico di intelligenze da cui trarre qualche buona idea. Balle. Semmai l' unico traffico che si incontra è di influenze. Se metti Davigo a Davos, li arresta tutti. Negli ultimi dieci anni l' incontro dei superfighetti ha scodellato tante di quelle banalità che Conte, nei suoi discorsi, sembra un brillante innovatore del linguaggio a colpi di calembour. Vediamone una breve carrellata. Anzi, partiamo da quest' anno. Come sempre avviene a Davos, l' idea del convegno non è mai originale: sembra che gli organizzatori vadano sulla pagina di ricerche di Google e cerchino di capire quali sono le parole più digitate dallo stupido della Rete. Il giochino così funziona: un club elitario che si finge democratico. E quasi quasi ti viene voglia di parlare come Lenin e ripensare al trattamento del reietto Kautsky. E vada per il cambiamento climatico, ovviamente nella più perfetta ortodossia. Per fortuna che quest' anno ci sarà Trump, che speriamo dia un po' di brio. Insomma, con Davos non sbagli mai: altro che leadership, è un monumento alla followership. Con qualche anno di ritardo parlano di ciò che a loro è sfuggito e di cui il pensiero più debole discute. Per tre anni, dal 2008 al 2010, abbiamo avuto un Davos piagnucoloso, che non si capacitava di come non avesse previsto la crisi e di come essa avesse fatto male. Era l' epoca del «Luv»: la ripresa in America a forma di U, prima giù, poi pil piatto, poi in risalita; in Europa a L e in Asia, mai vista grande crisi, era a V. In quegli anni non si incontrava un banchiere americano manco a pagarlo: nel 2009 praticamente zero assoluto. E pensare che fino al 2008 erano loro le reginette. Un triennio contraddistinto dal favoloso paradosso per cui si discuteva, in parole povere, del perché a Davos non avessero capito nulla negli anni precedenti. Nel frattempo le aziende e l' economia si attrezzavano: automazione, economia delle piattaforme, industria 4.0, intelligenza artificiale, e Asia che andava alla grande. Anche negli anni a seguire non c' è stata un' idea che sia stata una. La solita infatuazione per l' ultimo disuguaglionista, una spruzzata di verde mollata agli attori: roba che piace tanto al New York Times. Nel frattempo il mondo cambiava e i cosiddetti populisti - da Trump a Bolsonaro - lo conquistavano, sfilandolo ai radical da sotto il naso. Nel 2011 si vede ancora Clinton e soprattutto torna un po' di luce e riprendono i grandi party: i più ambiti quelli di Google e Kpmg: miliardari ed escort (sì avete capito bene, nonostante i badge) a go-go. D' altronde si può lasciare la correttezza politica in America e Trump non è ancora arrivato. Nel 2013 si inventano come titolo la «resilienza dinamica»: gli autori non furono arrestati per aver solo pensato un tema così assurdo, ma immaginate un po' voi l' interesse. L' anno dopo il Papa scrive una non fondamentale lettera che conquisterà le prime pagine di tutti i quotidiani e se la batte con le aperture agli affari del presidente iraniano Rouhani. Davos è così: si riempie la bocca di tutto: inclusività e parità di genere, ma mette sul palco il presidente iraniano; approccio dignitoso al lavoro che chiede il Papa, e palcoscenico per i grandi dell' economia delle piattaforme che cambiano le nostre città. Si tiene tutto, a Davos. Nel 2015 persino Renzi, che in genere diceva qualcosa, contagiato dalla platea e forse da Emma Watson che parlava di equità, fece un discorso da Corazzata Potemkin sulla leadership del cambiamento: traffico da bollino nero su Google per andare a rileggerselo, un po' come per il discorso dello stay foolish di Steve Jobs. Nel 2016 e 2017 Di Caprio e Matt Damon ci spiegano il mondo, ma il clou è il 2019, quando arriva il capo del più importante, diffuso, dittatoriale partito comunista al mondo, cioè Xi da Pechino, il quale ci spiega da Davos perché dobbiamo apprezzare l' economia di mercato. E vabbè, allora vale tutto: lezioni di liberalismo da Xi. E così anche quest' anno ci riprendiamo Davos e le sue banalità. Una rappresentazione teatrale dove la drammaturgia si basa non su cosa si dice, e cioè niente, ma su chi c' è, e cioè tutti.
Da ansa.it il 23 gennaio 2020. Il mondo "è in mezzo a una crisi che tutti spero comprendiamo" e rischia "una catastrofe di cui siamo noi stessi gli artefici". Così il principe Carlo nel lanciare il suo allarme di fronte alla platea del Forum di Davos sull'emergenza "del surriscaldamento globale, del cambiamento climatico, di una devastante perdita di biodiversità che sono le più grandi minacce mai affrontate dall'umanità". Grido d'allarme cui s'affiancano le foto diffuse da Clarence House dell'incontro avuto oggi dall'erede al trono britannico con Greta Thunberg. In un discorso accorato, lontano dall'attacco contro "i perenni profeti di sventura" del presidente americano Donald Trump, il principe di Galles ha invocato un nuovo modello di sviluppo per il pianeta e l'aiuto del business privato per il sostegno a iniziative urgenti. Ambientalista storico, Carlo ha ricordato i suoi sforzi e quelli di tanti attivisti - inclusa la giovane Greta - per spingere il mondo degli affari e quello della politica verso una maggiore responsabilità ecologica come "una battaglia condotta a lungo in salita". "Ora però - ha proseguito - è tempo di passare a un livello successivo: per garantire il nostro futuro e poter prosperare dobbiamo indicare la necessità di evolvere verso un nuovo modello economico". "Dobbiamo rimetterci sulla strada giusta", ha ammonito il futuro re d'Inghilterra, rivolgendo un appello ai vip del Forum di Davos: "C'è bisogno del vostro aiuto, del vostro ingegno, della vostre capacità pratiche per assicurare che il settore privato guidi il mondo fuori da una catastrofe che noi stessi stiamo architettando". Da parte sua, il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha detto a Davos che "gli avrebbe fatto piacere" incontrare l'attivista per il clima Greta Thunberg. Entrambi presenti all'apertura del World economic forum hanno parlato in momenti distinti. Trump, parlando con i giornalisti, ha sottolineato che Greta non dovrebbe concentrare la sua rabbia sulla mancanza di azione sui cambiamenti climatici negli Stati Uniti. "Mi sarebbe piaciuto vederla", ha detto Trump sostenendo che altri Paesi, non gli Usa, sono i peggiori inquinatori e "Greta dovrebbe concentrarsi su quei posti".
Trump: «Ma perché Greta non si concentra su quelle nazioni che inquinano veramente il pianeta?». Antonio Pannullo mercoledì 22 gennaio 2020 su Il Secolo d'Italia. Trump proprio non riesce a capire Greta. E neanche noi. Greta Thunberg dovrebbe rivolgere la sua attenzione a Paesi che stanno veramente inquinando l’ambiente non gli Stati Uniti. Lo ha detto Donald Trump nella conferenza stampa che ha concluso la sua partecipazione al World Economic Forum di Davos. “Credo che Greta debba iniziare a lavorare su questi Paesi”, ha detto, scherzando poi sul fatto che la giovanissima attivista ambientalista “mi ha battuto sulla copertina di Time magazine”, riferendosi al fatto che è stata nominata persona dell’anno 2019. Alla domanda se considera l’allarme sul clima “un falso”, Trump ha risposto che “alcuni aspetti lo sono” ma ha negato che lui non consideri seriamente la questione. Tornando però criticare chi drammatizza la questione. “Alcune persone portano la cosa ad un livello irrealistico al punto che non si potrebbe vivere la propria vita”, ha detto Trump affermando gli sarebbe piaciuto incontrare Greta durante i lavori di Davos. E in effetti di Paesi che inquinano ce ne sono altre decine prima degli Usa. Riguardo alla nuova epidemia proveniente dalla Cina, Trump è ottimista. Non ci sono rischi di un’epidemia negli Stati Uniti per il nuovo coronavirus cinese e la situazione è sotto controllo. Lo ha affermato il presidente Usa, intervistato a Davos dall’emittente Cnbc. “Abbiamo tutto sotto controllo”, ha detto Trump, aggiungendo che “andrà tutto bene”. Il presidente Usa ha anche affermato di fidarsi delle informazioni fornite dalle autorità cinesi. “Mi fido, mi fido”, ha detto, sottolineando il “grande rapporto” instaurato con il presidente cinese Xi Jinping. E a questo proposito, Trump ha aggiunto altro. “Molto presto” gli Stati Uniti e la Cina inizieranno a negoziare la “fase due” del loro nuovo accordo commerciale. Trump ha sostenuto di avere un rapporto “straordinario” con il presidente cinese Xi Jinping e che il rapporto tra Usa e Cina “probabilmente non è mai stato così buono”. Se non vuole andare incontro a una guerra commerciale, l’Unione europea dovrà negoziare un nuovo accordo con gli Stati Uniti. Lo ha detto il presidente Donald Trump in un’intervista all’emittente Cnbc, rilasciata a Davos, dove partecipa al World Economic Forum. “Faranno un accordo, perché devono farlo. Non hanno scelta”, ha detto Trump, riferendo di avere avuto “un’ottima conversazione” con la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen. “Sarei molto sorpreso se dovessi mettere in atto i dazi”, ha aggiunto il presidente Usa. Trump ha spiegato di avere voluto attendere la conclusione della guerra commerciale con la Cina, sfociata nella ‘fase uno’ del nuovo accordo tra Washington e Pechino, e poi il nuovo trattato di libero scambio con Messico e Canada, prima di concentrarsi sull’Unione europea. L’ex presidente della Commissione Ue, ha detto Trump, “era un amico, ma era impossibile trattare con lui”. Ora, ha aggiunto, “ci occuperemo dell’Europa”.
Donald Trump e Greta Thunberg, uniche due persone al mondo che fanno politica davvero. Piero Sansonetti il 22 Gennaio 2020 su Il Riformista. Lui si chiama Donald Trump, 74 anni, newyorchese. Di mestiere fa il Presidente degli Stati Uniti e il miliardario. Dispone di un patrimonio di 3,1 miliardi di dollari. è figlio a sua volta di un miliardario che ha fatto soldi vendendo e comprando immobili. Un grattacielo nel centro di Manhattan porta il suo nome. Lei si chiama Greta Thunberg, è di Stoccolma. Ha 17 anni. è figlia di un modesto e semisconosciuto attore svedese e di una altrettanto sconosciuta cantante. Non ha patrimonio. Di mestiere fa l’attivista ecologista. è affetta dalla sindrome di Asperger, che è – semplifico molto – una leggera forma di autismo. Donald Trump è alto un metro e 87 centimetri, pesa quasi un quintale. Greta Thunberg è alta un metro e 58, pesa meno di 50 chili. Donald Trump, nonostante i suoi 74 anni, ha una chioma bionda bionda. Niente capelli bianchi. E un ciuffo sulla fronte un po’ buffo, ma che gli conferisce grazia e fascino. Greta Thunberg ha i capelli lunghi, sottili sottili, raccolti in una treccia molto esile. Non sembra tenerci molto. Ieri, a Davos, dove si riuniscono tutti gli anni gli economisti di ogni parte del mondo – i più seri, accreditati, sofisticati – e anche i potenti della politica e dell’economia, ieri a Davos, dalle 11 e 49 alle 12 e 30 ha parlato Donald Trump. Mezz’ora dopo, per dieci minuti, ha parlato Greta Thunberg. Trump ha ricevuto moltissimi applausi e ha sollevato moltissimo entusiasmo. Greta ha ricevuto il doppio degli applausi di Trump. Hanno sostenuto idee opposte. Idee: sì, idee. Non si sono citati, come fanno gli avversari veri, ma si sono scambiati sciabolate, fiorettate e colpi d’ascia. Quel che colpisce è che uno può pensare quello che vuole, ma una cosa è certa: questi due signori sono, oggi, quasi le uniche due persone al mondo che fanno politica davvero. Politica totale. Che hanno una idea in testa, che danno l’anima per seguire questa idea, che hanno chiara un’analisi delle cose, un progetto, un modo per comunicare il proprio pensiero. Proprio così: un palazzinaro che ha avuto in passato qualche successo nella più commerciale delle Tv “spazzatura”, come si diceva una volta; e una ragazzina che non ha fatto neanche in tempo, ancora, ad andare all’università. Di tutti i leader mondiali, loro sono gli unici ai quali interessa fare politica e sanno farla. E non identificano la politica solo con il potere ma la concepiscono come un’attività volta a cambiare le cose nel mondo, a spostare ricchezze, relazioni sociali e umane, possibilità di sviluppo, porzioni di benessere. Trump sicuramente è uno al quale il potere interessa, ma i suoi nemici più giurati non possono sostenere che lui sia attratto solo dal potere per il potere. Lui è attratto dal potere come mezzo formidabile per fare politica. Greta è convinta del contrario: che il potere sia l’antipolitica. Sì, c’è una bella differenza tra queste due idee, ma hanno qualcosa in comune, molto grande: il progetto. L’amore per il loro progetto, per il messaggio che portano. Potreste dire la stessa cosa di Macron, di Merkel, di Johnson, di Conte, di Di Maio, di Salvini, di Bolsonaro, di Maduro, di Sanchez, di Putin? Ieri era questo che colpiva. Il miliardario e la bambina. Il gigante e la piccoletta. L’un contro l’altro armati. Lui che gridava le ragioni dello sviluppo senza regole, dell’economia padrona e signora dell’etica, del meccanismo di creazione della ricchezza come deus ex machina della modernità e della felicità, e che malediva gli ecologisti, i frenatori, i profeti di sventura. Lei, con la sua vocina esile e piana, che ammoniva con dolcezza i giganti: ascoltatemi, sospendete l’uso del carbone, smettetela di estrarre, chiudete le miniere, scegliete le emissioni zero. Non tra quarant’anni, o tra dieci, o tra uno, diceva con un sussurro: oggi. Ascoltatemi, perché sennò cosa potrete dire ai vostri figli? Ascoltatemi, la nostra casa, cioè il pianeta, sta bruciando, se non ci muoviamo per spegnere l’incendio non resterà più nulla. Ecco qui: Crescita e decrescita. Lotta alla burocrazia e lotta allo sviluppismo distruttore. Ottimismo e pessimismo. Forza e debolezza. Grinta e dolcezza. Poi ciascuno può scegliere chi vuole. O anche può respingere tutti e due. Ma una cosa così io non l’avevo mai vista. L’unico precedente che mi viene in mente è di tanti tanti anni fa. In Francia. Un ragazzino, di nome Daniele (Daniel Cohn Bendit) sfidò il presidente della Francia. Daniele, che oggi ha esattamente la stessa età di Trump, allora aveva 23 anni. Faceva l’Università. Il presidente della Francia si chiamava Charles de Gaulle, aveva fatto la guerra ai nazisti, aveva 78 anni, era considerato il più autorevole leader politico del mondo, più di Nixon, più di Kurt Kiesinger, più di Harold Wilson, più di Moro. Era un tipo deciso, un militare, autoritario, con una grande visione politica.
E siccome era molto, molto intelligente, capì subito che quel ragazzino ebreo franco tedesco poteva dargli del filo da torcere. Nel mese di maggio del 1968 Daniele mise a ferro e fuoco la Francia. E lo seguirono i suoi coetanei tedeschi, italiani, e persino cecoslovacchi e spagnoli. E lo seguirono i professori, i filosofi, i poeti. De Gaulle non sottovalutò il pericolo, lo sfidò, indisse elezioni e un referendum. Vinse lui. La Francia restò conservatrice. L’Est restò comunista. la Spagna restò fascista. Fu un bene? E stavolta sarà un bene se vincerà Trump, come è probabile? O no?
Da lastampa.it il 2 gennaio 2020. Palau, una piccola repubblica dell'Oceano Pacifico, è diventata il primo Paese al mondo in cui sono bandite le creme solari. Il divieto entrato in vigore con il nuovo anno è stato deciso a novembre e riguarda tutti quei prodotti di difesa dai raggi ultravioletti che sono ritenuti dannosi per il fragile ecosistema che mantiene in vita la barriera corallina. “Dobbiamo vivere e rispettare l’ambiente – ha commentato il presidente dello Stato insulare 500 chilometri a est delle Filippine, Tommy Remengesau – perché l’ambiente è il nido della vita”. A Palau è ora vietata la vendita e l'uso di prodotti che contengono 10 agenti chimici ritenuti altamente tossici per l'ecosistema marino. Chi violerà il divieto potrà essere condannato a pagare una multa fino a 1000 dollari. Nel mirino c’è in particolare l’oxybenzone, un filtro presente in migliaia di creme solari vedute nel mondo e l’octinoxate, un elemento altrettanto comune nelle protezioni, che schermano la pelle, assorbendo la luce ultravioletta, ma rendono il corallo piu' suscettibile allo sbiancamento. Uno studio pubblicato nel 2015 sulla rivista Archives of Environmental Contamination and Toxicology dimostrava già come l’oxybenzone alteri il dna dei coralli agendo da interferente endocrino. Sull’arcipelago di Palau, che è composto da più di 250 isole di origine vulcanica, vige una legislazione ambientale molto restrittiva. Nel 2015 il governo ha dichiarato quasi tutto il territorio zona marina protetta, ed è stato tra i primi ad aderire agli accordi di Parigi sul clima. L’arcipelago è anche uno dei Paesi più efficienti nel contrastare l’inquinamento marino che mette a repentaglio i coralli e altri elementi dell'ecosistema. Divieti e restrizioni sull'uso di creme solari sono in vigore anche in altre zone del mondo, tra cui l'isola di Bonaire, nei Caraibi. All'inizio di quest'anno anche le Hawaii hanno approvato una legge per limitare l'uso dei prodotti solari.
Coro dei bimbi: «Mia nonna è un maiale che inquina». Le scuse. Pubblicato lunedì, 30 dicembre 2019 su Corriere.it da Elena Tebano. In onda sulla tv pubblica la parodia di un classico per bambini: «Mia nonna è un maiale che inquina». Minacce di morte dall’ultradestra, social e tabloid indignati. Domenica a Colonia, in Germania, 150 sedicenti «patrioti» hanno manifestato davanti alla sede della tv pubblica regionale Wdr brandendo cartelli che inneggiavano alla libertà di opinione contro la messa in onda di una canzone satirica ambientalista per bambini. Nessuno dei dimostranti, tra i quali c’erano almeno una ventina di militanti di «Fratellanza tedesca», una formazione dell’estrema destra radicale, sembra aver notato l’ironia insita nel gesto. Anzi: lo scontro sulla canzone si è radicalizzato così tanto che estremisti di destra hanno marciato di fronte alla casa di Danny Hollek, un collaboratore esterno dell’emittente che su Twitter aveva commentato il caso con un riferimento sarcastico al nazismo. Il giornalista ha ricevuto persino minacce di morte. All’origine di tutta la vicenda c’è una canzone cantata dal coro delle voci bianche della Wdr, che ha riscritto un classico per l’infanzia tedesco, «Mia nonna va in moto nel pollaio». Al posto del ritornello originale («Mia nonna è una donna molto intelligente»), il coro ripeteva «Mia nonna è un maiale inquinatore» (quest’ultima espressione in tedesco è Umweltsau e fa rima con Frau, «donna»). Il testo ironizzava sulla «nonna che va dal medico in Suv» e mangia cotolette ogni giorno «perché la carne del discount non costa praticamente niente». Per il direttore del coro era un tentativo di fare satira sulle proteste degli adolescenti attivisti per il clima, sottolineando il carattere generazionale del movimento. Per niente riuscito: in molti sui social hanno criticato il cattivo gusto dell’iniziativa, il tabloid scandalistico Bild ci ha fatto un’intera paginata accusando l’emittente di discriminare gli anziani e Armin Laschet, il governatore del Nord Reno-Westfalia, il Land dove ha sede la Wdr, ha criticato su Twitter coloro che «trasformano il dibattito sulla difesa del clima in conflitto generazionale». A quel punto il video è stato ritirato e il direttore dell’emittente Tom Buhrow si è scusato con i telespettatori, spiegando che la canzone era stata un «errore». La questione è stata subito strumentalizzata dall’estrema destra, che il giorno dopo alla manifestazione convocata da un «privato cittadino» con lo slogan «Mia nonna non è un maiale inquinatore», ha voluto «onorare le nostre nonne» e ha criticato la «mescolanza di culture». L’ultima volta che in Germania qualcuno era sceso in strada per protestare contro la satira era il 2015: si trattava di coloro che i «patrioti» accusano di oscurantismo, musulmani che chiedevano di non pubblicare caricature di Maometto. Come se non bastasse alcuni estremisti di destra hanno marciato di fronte alla casa del giornalista freelance Danny Hollek che su Twitter aveva scritto: «Parliamo dei nonni di quelli che ora si indignano per i maiali inquinatori. Vostra nonna non era un maiale inquinatore. Era un maiale nazista». Hollek in seguito si è scusato dicendo che non voleva insultare persone specifiche. Ma ha denunciato di aver ricevuto minacce di morte. E alla fine è intervenuta l’Associazione dei giornalisti tedeschi che ha chiesto alla dirigenza della Wdr di proteggere l’incolumità del suo collaboratore (il timore è che si ripeta quanto è successo a giugno, quando il prefetto di Kassel Walter Lübcke è stato ucciso da un neonazista). La storia è assurda. Ma se la polemica su un personaggio immaginario come la «nonna in motocicletta» arriva ad avere simili conseguenze è anche perché il dibattito pubblico è degenerato, ostaggio di una polarizzazione che finisce per impedire ogni tipo di discussione sensata.
Il mondo salvato dai ragazzini (tristi e secchioni). La 16enne Thunberg sgrida i potenti E divide il pianeta tra fan e scettici. Andrea Cuomo, Mercoledì 01/01/2020, su Il Giornale. Faccio outing, è il momento: la parola «gretini» l'ho inventata io, in un articolo pubblicato lo scorso 22 febbraio, quando Greta Thunberg stava muovendo i primi passi nel jet set dell'ambientalismo adolescenziale e mi venne chiesto di raccontare questa svedesina con la faccia da secchiona che faceva i primi proseliti. «Potremmo chiamarli gretini, ma forse è meglio di no», scrissi con un sussulto di ritegno che non sfiorò nemmeno chi invece in un secondo momento adottò questo gioco di parole invero sciocchino per delegittimare il millenarismo con le trecce. Vieni avanti, gretino. La parola ha sfrecciato per l'ultimo rettilineo degli anni Dieci e abbiamo voluto sceglierla perché va oltre il fenomeno mediatico di questa ragazzina che striglia il mondo intero, i grandi della Terra, i burocrati del cambiamento climatico, piange, si incacchia, cazzia chiunque, e così facendo - con il broncio di una ragazzina a cui i genitori hanno sequestrato lo smartphone - fa comunque più gazzarra che mille convegni, duemila studi, tremila interrogazioni parlamentari. La parola gretini però si annette anche il meccanismo di proselitismo (da un lato) e delegittimazione (dall'altro) che la svedesina ormai quasi diciassettenne si porta dietro, come è inevitabile che accada con qualsiasi fenomeno globale nei confronti del quale tutti - dal presidente degli Stati Uniti all'ultimo degli ultimi del mondo - ritengono di avere il diritto di possedere un'idea. Che raramente è dotata di sfumature: è tutto nero o tutto bianco. I gretini sono quindi coloro che vedono in Greta una speranza per il futuro del nostro pianeta minacciato dal riscaldamento globale, dall'ossido di carbonio, dalla plastica, dall'appiattimento della biodiversità, dall'esaurimento delle risorse naturali. Ma naturalmente chi li chiama così li schernisce, li tuffa nel calderone della protesta un tanto al chilo, del sempre meglio che studiare. E Greta, va detto, sembra fare di tutto per servire assist ai maestrini della coerenza altrui, sempre pronti a far notare il paradosso di chi rifiuta di prendere l'aereo e poi trascorre venti giorni a bordo di una barca ecochich da crocierista no global; e scettici di fronte a chi, richiesta di ricette, si limita ad ammonire con aria lugubre: «Ascoltate la scienza!». Triste il mondo che ha bisogno di Grete e di gretini.
Greta Thunberg, compleanno sconcertante: come (e dove) ha festeggiato i suoi 17 anni. Libero Quotidiano il 4 Gennaio 2020. L'abbiamo vista girare il mondo in «classe ecologica», invocare capi di Stato ad invertire le proprie politiche per salvare il mondo. Pensavamo, dopo tanto clamore mediatico, che almeno nel giorno del suo compleanno, ieri, se ne stesse tranquilla a casa a festeggiare con mamma e papà. Ma niente. Abituata forse a stare sotto i riflettori, Greta Thunberg ha voluto stupire ancora, ammesso e non concesso che le sue "sortite" stupiscano ancora. C' è da dire che il suo compleanno è arrivato di venerdì, proprio il giorno scelto dall' ambientalista che vuole salvare il mondo con il suo «Friday for Future». E siccome ieri era venerdì, si è palesata davanti al Parlamento svedese. Immancabile la foto da twittare con il classico cartello e la scritta «Sciopero della scuola per il clima», quindi «Sciopero della scuola 72». E che importa se ieri anche in Svezia le scuole erano chiuse per le vacanze di Natale... l' importante è esserci, è il mantra dall' ormai lontano agosto del 2018, da quando cioè, Greta si piazza davanti al parlamento e, quando inizia, marina la scuola ogni fine settimana invitando gli altri studenti del mondo a fare lo stesso. Ma non tutti possono permetterselo. E non tutti possono permettersi di andarsene in giro per quattro mesi, come è successo a lei, per parlare nei luoghi più prestigiosi, a partire dall' Onu, e nei salotti d' America e d' Europa. Ovviamente, per salvaguardare il pianeta Terra, non si è mossa in aereo. Ma in barca a vela per raggiungere gli States, grazie ad un passaggio di Pierre Casiraghi (traversata affatto ecologica, ma questo è un dettaglio), e in treno per andare altrove. Non sappiamo se in futuro salirà mai su un aereo, di certo questa ragazzina che sta diventando donna, incoronata dal Time come persona dell' anno 2019, sembra come "intrappolata" in un ruolo dal quale si fa fatica ad uscire. E chissà che non siano mamma e papà interessati più alla ribalta che a farle vivere una vita come tutti i ragazzi della sua età. In ogni caso, tanti auguri Greta.
Il compleanno di Greta e le trappole del successo. Domani la Thunberg ne fa 17. Ma a chi adolescente ha avuto fama enorme il futuro non sempre sorride. Massimo M. Veronese, Giovedì 02/01/2020, su Il Giornale. La sedicenne più famosa del mondo domani farà 17 anni e in quell'età di mezzo che non è più quattordici e non ancora diciotto, dodici mesi sono una vita. «Per anni aveva smesso di parlare, di andare a scuola, persino di nutrirsi - ha appena rivelato papà Svante - Adesso balla e ride tutto il giorno e alle critiche reagisce incredibilmente bene. Ci ride su, non so come faccia...» Forse per l'incoscienza dell'età che ha anche chi scuote le coscienze altrui. Greta Thunberg per Time è la «Persona dell'anno», la più giovane di sempre, e per Forbes è tra le 100 donne più influenti del mondo, l'unica con quegli anni. La popolarità può esaltare e distruggere, perchè ci sono aspettative e responsabilità che schiacciano, perchè a 16 anni è diventare grande quando, da noi, si è in terza superiore e si ha ancora lo sguardo di un bambino, anche se a volte un po' inquietante. Ci sono sedicenni di successo che il mostro del successo lo hanno addomesticato e trasformato nel genio della lampada che realizza tutti i desideri. Paolo Maldini e Francesco Totti a 16 anni debuttarono in serie A e fino a quaranta hanno tenuto benissimo botta; Gigliola Cinquetti alla stessa età vinse il festival di Sanremo '64 e l'Eurofestival, che fu come vincere nella stessa stagione scudetto e Champions league; l'Ambra di «Non è la Rai» era l'adolescente più popolare d'Italia prima di diventare attrice ricercata e di talento; Federica Pellegrini a 16 anni ha vinto la sua prima medaglia olimpica, adesso 16 anni dopo, cerca l'ultima a Tokyo. E stiamo parlando dei nostri perchè basta spostarsi fuori per registrare che sfolgorante, per esempio, è stato il successo Jodie Foster, oggi 48enne, passata dal ruolo di baby prostituta in Taxi driver a una carriera illuminata da due Oscar. O di Twiggy, all'anagrafe Lesley Hornby, che scatenò anche lei negli anni Sessanta una rivoluzione pari a quella di Greta, con la minigonna simbolo dell'emancipazione femminile prima che della moda prossima ventura, la ribelle chic dalla postura scoordinata, è stata per milioni di donne molto più di un simbolo della sua epoca: oggi a 70 anni si gode una vta piena di successi e soddisfazioni. La popolarità, prima della precocità, può distruggere, soprattutto nel mondo dello spettacolo, dove la vetrina di luce può nascondere un buio retrobottega. Britney Spears, icona ragazzina e globale della musica, modello per milioni di ragazzine della sua età, nella realtà era un anima fragile, con il male di vivere dentro. La «principessa del pop» oggi è quasi irriconoscibile come quando, fuggita da una clinica, si era rasata i capelli a zero, con quello sguardo allucinato che ti fissava da una fotografia. La stessa fine della sua compagna di «Party girls» Lindsay Lohan, ragazzina prodigio e poi condannata per droga ai lavori socialmente utili e al ricovero in una clinica di disintossicazione. E se l'ancora più precoce Pippi Calzelunghe la svedese Inger Nilsson, 52 anni, si ritirò dalle scene per lavorare come segretaria a Stoccolma, River Phoenix, divo a 16 anni fu trovato morto a 23 anni, ucciso da un'overdose di eroina. Sedici anni, quando sei così popolare, possono essere un bivio di vita quando non hai ancora idea di che facoltà universitaria scegliere. Ma noi auguriamo a Greta ogni bene. Come diceva Picasso: «Ci vogliono molti anni per diventare giovani».
Greta contro Federer per la politica della banca svizzera. Sui social scrive: «Roger svegliati». Pubblicato giovedì, 09 gennaio 2020 su Corriere.it da Salvatore Riggio. Greta contro Federer, al grido di «Svegliati Roger», seppur per indiretto tweet. Spieghiamo: il movimento ambientalista in Svizzera prende di mira il divino Federer, in questi giorni in Australia per gli Australian Open, dove tra l’altro sta contribuendo a raccogliere fondi per il Paese flagellato dagli incendi. I suoi concittadini però lo criticano per i suoi rapporti con la banca Credit Suisse, di cui è testimonial, e gli chiedono di convincerla a cambiare politica. Questo perché l’istituto di credito elvetico investe nell’economia fossile. Una scelta contraria alla lotta al cambiamento climatico. La banca ha fatto sapere che in futuro abbandonerà il settore del carbone. Ma è il presente che preoccupa gli attivisti, che non hanno mancato di far notare a Federer l’incompatibilità tra il suo sponsor e le sue azioni (lui è impegnato molto nel sociale). Inoltre, c’è una vicenda che sta scuotendo gli animi in Svizzera: riguarda 12 ragazzi, tutti attivisti per il clima, che l’istituto di credito ha portato a processo perché avevano fatto irruzione nella sede di Losanna. Vestiti da tennisti, racchetta in mano, avevano iniziato a giocare tra i clienti. Anche in quel caso il messaggio era indirizzato a Federer. Come riporta Il Corriere del Ticino, la banca non ha chiuso un occhio sull’episodio e ha chiesto ai ragazzi — che sono difesi gratuitamente da un collettivo di 13 avvocati — un risarcimento. Appuntamento a lunedì 13 gennaio: quel giorno è attesa la sentenza su di loro. E sui social è scoppiata una campagna al grido di «Roger svegliati», a cui ha dato il suo appoggio, ritwittando. «Roger, adesso svegliati e non lasciare che usino la tua immagine per il loro sporco profitto», scrive un utente. Oppure: «Smetti di prestare la tua immagine a Credit Suisse fino a quando questa finanzierà la distruzione del nostro futuro e quello dei tuoi figli».
Greta cambia nome e diventa Sharon (per un giorno). L'attivista svedese lo ha fatto in omaggio alla concorrente di un popolare quiz televisivo, nel Regno Unito, che è caduta dalle nuvole quando le hanno chiesto il nome di "un'attivista svedese" contro il cambiamento climatico. Enrico Franceschini il 04 gennaio 2020 su La Repubblica. Per un giorno si è chiamata Sharon, Greta Thunberg nella giornata di ieri ha cambiato nome sul suo profilo sul social network. Non perché si è stufata di Greta. Bensì per rispondere, con l’umorismo che la distingue, a una gaffe diventata virale nei suoi confronti. L’attrice Amanda Henderson, interrogata su come si chiami “la famosa giovane ambientalista svedese” in un quiz di un reality show su una rete televisiva britannica, dopo una lunga pausa di incertezza ha detto: “Sharon?” Il suo errore è diventato il video più popolare sui social nelle ultime 24 ore, con 5 milioni di visualizzazioni in tutta Europa. Così lo ha visto anche Greta a Stoccolma. Ma invece di irritarsi o offendersi, ha spiritosamente reagito cambiando nome sul suo profilo su Twitter. Non è l’unica modifica che ha fatto alla sua biografia sul social network: ha anche aggiornato l’età, poiché venerdì ha compiuto 17 anni. E non è la prima volta che Greta usa l’ironia davanti agli attacchi o agli episodi che la riguardano. L’altro giorno Donald Trump ha twittato che farebbe meglio a rilassarsi e andare al cinema con un amico, invece di occuparsi sempre di cambiamento climatico. E Greta ha prontamente twittato a sua volta: “Ho festeggiato il compleanno...rilassandomi e andando a vedere un bel film con un amico”. Tanto per dimostrare che neanche il bullismo del presidente degli Stati Uniti le fa perdere la pazienza. Come ha rivelato suo padre di recente alla Bbc: “Incredibilmente non se la prende con chi la critica. Sembra divertirsi. Ci ride perfino su”.
Parla il padre di Greta Thunberg: "Ha sofferto di depressione per anni". La 16enne attivista svedese Greta Thunberg. Svante racconta il passato della giovane attivista, le preoccupazioni per la salute della figlia e per l'esposizione internazionale. Gli scioperi per il clima? "Inizialmente non ero d'accordo". La Repubblica il 30 dicembre 2019. La 16enne Greta Thunberg, attivista svedese che lotta per lo sviluppo sostenibile e contro il cambiamento climatico, è nota in tutto il mondo per i Fridays for Future, scioperi scolastici per il clima iniziati nel 2018. Il padre 50enne di Greta, Svante Thunberg ha raccontato alla Bbc il passato della giovane ambientalista, spiegando che aveva lottato contro la depressione "per tre-quattro anni" prima di iniziare lo sciopero della scuola contro il cambiamento climatico: "Aveva smesso di parlare, aveva smesso di andare a scuola", è "il peggior incubo di un genitore" vedere un figlio smettere di nutrirsi. Così Svante e la moglie Malena Ermann, cantante lirica, hanno deciso di passare più tempo in famiglia, con Greta e la sorella Beata, chiedendo anche aiuto a degli specialisti che hanno diagnosticato la sindrome di Asperger. Una forma di autismo, racconta, che "la aiuta a vedere la realtà fuori dagli schemi". Riguardo i famosi scioperi del venerdì, Svante ha raccontato che inizialmente "Non era d'accordo", ma si è dovuto adattare per "salvare" la figlia. Il signor Thunberg ha anche accompagnato la figlia, che rifiuta di viaggiare in aereo, nelle due spedizioni in barca sull'Atlantico per partecipare ai vertici delle Nazioni Unite sul clima a New York e Madrid: "Ho fatto tutte questo e sapevo che erano le cose giuste da fare. Ma non l'ho fatto per il clima, l'ho fatto per salvare mia figlia". Da quando è diventata un'attivista la figlia è "più felice" ma il padre è preoccupato per "l'odio" che può subire: "Balla e ride tutto il giorno. Ci divertiamo molto". Per ora la giovane attivista reagisce "incredibilmente bene" alle critiche. "Sinceramente, non so come faccia. Il più delle volte ci ride su... Le trova divertentissime".
Parla il papà di Greta Thunberg: “Ha sofferto di depressione. Ora è felice, ma mi preoccupo degli haters”. Roberta Caiano il 30 Dicembre 2019 su Il Riformista. Il 2019 è stato un anno molto impegnativo e intenso per Greta Thunberg. La giovane attivista svedese ha ispirato molti ragazzi a lottare contro i cambiamenti climatici, battendosi sempre in prima linea. Dalla sua scesa in campo migliaia di giovani si sono mobilitati con scioperi scolastici in tutto il mondo, in quelli che conosciamo come ‘Fridays for Future’. Questo ha portato a fars sì che il Time la eleggesse come ‘Persona dell’anno’, la più giovane a ricevere questo riconoscimento. Inoltre, la sedicenne è stata nominata per il premio Nobel per la pace di quest’anno, dopo aver guidato il movimento globale che chiedeva ai leader mondiali di intervenire sull’emergenza climatica.
L’INTERVISTA – Svante Thunberg ha deciso di raccontare alla Bbc la storia di Greta e di come è cominciata la sua esperienza come attivista. Il padre della giovane svedese all’inizio pensava che fosse “una cattiva idea” per la figlia andare in prima linea nella battaglia contro il cambiamento climatico e non sosteneva il fatto che saltasse la scuola per lo sciopero per il clima. Ma in un secondo momento ha riconosciuto che da quando è diventata un’attivista, la sedicenne è molto più felice, anche se lui è preoccupato dall’odio che è costretta ad affrontare. Ha spiegato quanto successo nell’ultimo anno dalla prospettiva di papà: prima di cominciare gli scioperi per il clima, ha raccontato, Greta “ha sofferto di depressione per tre o quattro anni, durante i quali ha smesso di parlare e ha smesso di andare a scuola” e poi aveva cominciato a rifiutarsi di mangiare, quello che il signor Thunberg definisce “il massimo incubo per un genitore”. Il padre racconta che, per aiutarla a stare meglio, ha trascorso più tempo con lei e con la sorella più piccola, Beata, nella loro casa in Svezia e la madre Malena Ernman, cantante dell’opera ed ex partecipante all’Eurovision, ha cancellato dei contratti in modo che tutta la famiglia potesse stare insieme. La famiglia ha cercato inoltre l’aiuto dei medici, che quattro anni fa hanno diagnosticato alla giovane la sindrome di Asperger, una forma di autismo che le permette di “vedere le cose fuori dagli schemi”. Il signor Thunberg ha detto che Greta è cambiata ed è diventata “molto felice” dopo avere intrapreso la strada dell’attivismo. “Voi pensate che lei non sia ordinaria adesso perché è speciale ed è molto famosa e tutte queste cose. Ma per me lei adesso è una bambina normale, riesce a fare tutte le cose come le altre persone”, ha spiegato, raccontando che la figlia “balla, ride tanto e ci divertiamo molto”. Il padre di Greta Thunberg sottolinea però di essere particolarmente preoccupato per “le fake news, tutte le cose che le persone provano a inventare, l’odio che questo genera”, evidenziando che la giovane affronta l’odio di chi non vuole cambiare il proprio stile di vita per salvare l’ambiente. Il papà di Greta ritiene però che la figlia gestisca incredibilmente bene le critiche: “francamente, non so come faccia ma la maggior parte delle volte ride. Lo trova divertentissimo”. Thunberg ha anche accompagnato sua figlia nelle sue spedizioni in barca ai vertici delle Nazioni Unite sul clima a New York e Madrid dichiarando: “Ho fatto tutte queste cose, sapevo che erano le cose giuste da fare ma non l’ho fatto per salvare il clima, l’ho fatto per salvare mia figlia”. Papà Svante ha affermato di sperare che le cose diventino “meno intense” per la sua famiglia in futuro e che pensa che Greta “voglia davvero tornare a scuola”. Ha aggiunto che quando la figlia compirà 17 anni, non avrà più bisogno di essere accompagnata nei suoi viaggi: “Se lei ha bisogno di me lì, proverò a farlo. Ma penso che lo farà sempre di più da sola, il che è grandioso”, conclude.
Filippo Facci per “Libero quotidiano” il 31 dicembre 2019. La vicenda di Greta Thunberg comincia a trasmettere inquietudine. Gli scatti d' ira e lo sguardo severo della ragazzina, infatti, assumono una luce diversa in rapporto a nuovi dettagli biografici che apprendiamo da fonti certe: suo padre Svante, che è stato intervistato dalla Bbc e che ha raccontato, in sintesi, che Greta era una bambina gravemente depressa al punto da smettere di parlare, smettere di mangiare e smettere di andare a scuola: e non certo per scioperi ecologici o cose del genere. Il padre ha detto la bambina era problematica e quindi decise di dedicarle più tempo, mentre la madre, la cantante Malena Ernman, dovette annullare dei contratti per fare lo stesso. Si rivolsero alla medicina, sicché a Greta, 12enne, fu diagnosticata una sindrome di Asperger di cui spesso i media hanno evidenziato aspetti suggestivi (tipo un quoziente d' intelligente anche sopra la media) ma decisamente meno altri aspetti, come certe difficoltà nel condurre una conversazione, nell'interagire con gli altri, il disinteresse medio per il prossimo, l'avere interessi ristretti e comportamenti ripetitivi e stereotipati. Non c'è manuale che non citi una tendenza alla depressione nonché una «resistenza ad adattarsi ai cambiamenti», climatici o meno. L'ecologismo venne dopo, quando Greta cominciò ad accusare i genitori, sostenitori «molto attivi» dei diritti umani, di essere «grandi ipocriti». Le espressioni virgolettate sono del padre. Dal sito della Bbc: «Greta, dal momento che non prendevamo sul serio il problema climatico, disse "di chi difendete i diritti umani?"». Dopodiché i genitori cambiarono, e Greta ne ricavò nuova energia, o così dice Svante Thunberg. Smisero di prendere l'aereo e il padre divenne vegano. Ma non bastava, e quando Greta disse ai genitori che voleva smettere di andare a scuola - lo sciopero per il clima - il padre non era d'accordo manco per niente: tuttavia «ho fatto tutte queste cose», ha detto alla Bbc, «perché sapevo che erano le cose giuste da fare... ma non l'ho fatto per salvare il clima, l'ho fatto per salvare mio figlia. Ho due figlie e voglio solo che siano felici». Più che la storia di una campagna ecologista, insomma, quella di Greta Thunberg sembra la storia di una terapia. Sta di fatto che funzionò. Greta prese a saltare la scuola per lo sciopero del clima, e mise in moto un meccanismo che solo la comunicazione moderna può giustificare. La sindrome di Asperger, parole del padre, le permise di «vedere le cose fuori dagli schemi», come se «vedere le cose fuori dagli schemi» fosse sempre un indizio del genio e non anche un disturbo della percezione. Nota: apprendiamo queste cose a margine di un' intervista peraltro complicata, perché la Bbc, per volare in Svezia dai Thunberg, si è permessa di prendere un aereo da Londra e la cosa ha creato dei problemi. Alla fine si sono accordati così: l' intervistatrice, Mishal Husain, ha preso l' aereo, ma il cameramen l'hanno prelevato in loco (in Svezia) e un altro interlocutore dell' intervista, il 93enne David Attenborough, era collegato via Skype. Si temevano problemi anche per una vecchia polemica ecologista che riguardò Attemborough nel 2011, quando fece da voce narrante nel documentario «Frozen Planet» (girato al Polo Nord) e una scena riprese il parto di una mamma orsa in una grotta di ghiaccio, ma poi venne fuori che la grotta era artificiale e che il parto era stato registrato nell' Ouwehands Animal Park, un tranquillo zoo olandese: ma al pubblico questo non veniva detto. A ogni modo la terapia - la campagna, cioè - ha dato buoni risultati, tanto che il padre ha descritto sua figlia come in seguito «cambiata» e «molto felice» per via del suo attivismo, cosa che può capitare quando ci si ritrovi, a 15 anni, catapultati sui giornali di tutto il mondo. «Per me, ora, è una bambina normale, può fare tutte le cose che possono fare gli altri Balla in giro, ride molto, ci divertiamo molto». Una terapia un po' complessa, ma i genitori per i loro figli farebbero ogni cosa, compresa la registrazione del marchio originale «Thunberg» per la sfida climaticamente corretta e per la lotta al disastro climatico planetario. Il padre si è detto preoccupato per «le notizie false, tutte le cose che la gente cerca di fabbricare, l' odio che ciò genera». Ma Greta tira dritto, e, a quanto racconta il padre, ride molto. Smettere di andare a scuola e ricavarne un premio Nobel, in effetti, può essere divertente. Il padre tuttavia auspica che Greta, a scuola, prima o poi «voglia davvero tornarci», e del resto la ragazza compirà presto 17 anni: «Non avrà più bisogno di essere accompagnata nei suoi viaggi». E siccome la sindrome di Asperger può essere gestibile, probabilmente non sarà accompagnata neanche da un medico. Greta - ha detto ancora il padre - sopporta le critiche «incredibilmente bene non so come faccia, ma ride per la maggior parte del tempo, lo trova divertente». Una risata peraltro contagiosa, visto che - a fronte di milioni di seriosi imbecilli che hanno avuto bisogno di una 16enne per scoprire la questione ambientale - continua a ridere anche qualsiasi ecologista serio.
· Gli Anti-Gretini.
Pietro Senaldi per "Libero Quotidiano" il 9 luglio 2020. Chi più sa, più dubita. La frase è di Enea Silvio Piccolomini, uomo saggio che la pronunciò prima di diventare Papa con il nome di Pio II. L'ultrà ambientalista Greta Thunberg non sa nulla, infatti non ha dubbi, e per evitare che le vengano ha pure deciso di non andare più a scuola. Giocoforza, sull'ambiente dice un sacco di sciocchezze, ma con una rabbia e una determinazione tali da farsi credere da centinaia di milioni di persone, che l'hanno eletta Papessa degli eco-ignoranti. D'altronde, siamo nell'era dell'odio, e chi strilla più forte e fa la faccia più cattiva vince. Se poi la faccia è quella di una bambina, è possibile che essa venga presa a prestito da Stati, multinazionali, lobby e finanzieri per sponsorizzare i loro affari a discapito di quelli altrui. Magari per lanciare monopattini o auto elettriche al posto di ciclomotori e diesel, o per favorire l'economia cinese al posto di quella tedesca. Capita così che chi ha studiato e parla a ragion veduta, venga ignorato, quando non criminalizzato, semplicemente perché canta fuori dal coro o perché il vento ha girato da un'altra parte. Passerà senz' altro inascoltata l'autodenuncia di Michael Shellenberger, ambientalista e attivista del clima, fondatore dell'organizzazione di ricerca e politiche che combatte per l'energia pulita nonché nominato dalla rivista Time "Eroe dell'Ambiente" nell'anno 2008.
FUORI DAL CORO. Il ricercatore si è voluto scusare pubblicamente, a nome di tutti gli ambientalisti, per l'allarmismo climatico che lui e i suoi colleghi hanno alimentato negli ultimi trent'anni. Così si è sfogato Shellemberger in un articolo pubblicato sulla rivista della sua organizzazione: «Fino allo scorso anno, ho evitato di parlare contro l'allarmismo climatico perché mi sentivo in colpa per aver contribuito a fomentarlo, ma soprattutto perché avevo paura di perdere amici e finanziamenti. Le poche volte che ho provato a difendere la climatologia da coloro che la distorcono, ho subito dure conseguenze, quindi ho taciuto mentre i miei colleghi terrorizzavano l'umanità». Lo scienziato ha anche pubblicato un libro, Non ci sarà l'Apocalisse, per spiegare che l'allarmismo ambientale fa male a tutti e che i cambiamenti climatici non sono la fine del mondo e neppure il problema ambientale più grave per l'umanità.
LAVAGGIO DEL CERVELLO. I nostri politici e i nostri media lo ignoreranno non perché in cattiva fede, ma perché ideologizzati e ignoranti, vittime di un lavaggio del cervello che non ha rispettato la loro flora e fauna cerebrale. Shellenberger non si limita a enunciare postulati, ma documenta quel che dice. Spiega che gli incendi nel mondo si sono ridotti del 25% in vent' anni, che i cambiamenti climatici non stanno rendendo peggiori i disastri naturali, che le emissioni di anidride carbonica sono in calo in tutte le nazioni più ricche e che per prevenire future pandemie occorre più agricoltura industriale. Lo scienziato si è deciso a parlare, consapevole di correre il rischio di passare per un negazionista, perché allarmato dai deliri ambientalisti, come quello di Bill McKibben, il più influente giornalista ecologista al mondo, che ha dichiarato che «i cambiamenti climatici distruggeranno la civiltà umana» o quello della parlamentare statunitense Alexandria Ocasio-Cortez, secondo la quale «il mondo, avanti di questo passo, finirà entro dodici anni».
MEGLIO IL PROGRESSO. La realtà invece è opposta e le esagerazioni ambientaliste rischiano di costare al pianeta più dell'industria e della tecnologia. Per esempio, per produrre energia attualmente utilizziamo lo 0,5% della superficie del pianeta, ma se volessimo ricorrere solo a energie rinnovabili dovremmo sfruttarne il 50%. Oppure, nutrirsi unicamente di cibo bio e carne bovina ruspante richiederebbe l'impiego del 20% in più dell'attuale superficie dedicata allo scopo e produrrebbe il 300% in più di emissioni inquinanti. Non solo: più densità di potenza hanno città, centrali e allevamenti, meno si inquina, perché «è di schiacciante evidenza che la nostra civiltà ad alta energia è migliore per le persone e per la natura rispetto alla civiltà a bassa energia a cui gli allarmisti del clima vorrebbero farci tornare». Shellenberger sostiene quello che anche noi di Libero affermiamo da tempo: i media stanno creando un clima d'ansia, depressione e ostilità verso la civiltà moderna che ha frenato lo slancio dell'economia proprio mentre questa stava riducendo la povertà nel mondo, facendo svoltare invece il pianeta verso una nuova era oscurantista e di decrescita. In nome del progresso, stiamo regredendo. «Per salvare quattro gorilla, abbiamo ucciso 250 elefanti» chiosa lo scienziato a proposito della recente battaglia animalista nel Congo.
SENZA ALTERNATIVE. L'eroe dell'Ambiente del 2008 non è il solo pentito. Patrick Moore, uno dei fondatori di Greenpeace, ha lasciato l'associazione e scritto un libro, L'ambientalista ragionevole, dove accusa i suoi ex colleghi di essere «anti-umanità, anti-scienza e anti-industria senza però avere un modello alternativo da proporre». A gennaio, Libero riprese la lettera che ottanta studiosi di tutto il mondo fecero contro i deliri gretini accusando l'ambientalismo di fare affari con la scusa della protezione della Terra e la politica e le Nazioni Unite di dare più ascolto a una bambina che alla maggior parte degli accademici. Intervistammo il geologo Uberto Crescenti, il climatologo Nicola Scafetta e il chimico Francesco Battaglia i quali ci dissero che non sono provabili collegamenti tra l'aumento delle temperature e l'inquinamento e che in tempi anche recenti la terra era molto più calda di oggi, l'Adriatico era più basso di cento metri e in Inghilterra vivevano scimmie e leoni. Denunciarono il tentativo di sfruttare la paura del clima per imporre un nuovo modello economico e dissero chiaramente che gli studi sull'ambiente dell'Onu che prevedono un futuro catastrofico non hanno validità scientifica, rimproverando alla comunità internazionale di finanziare solo progetti tesi a ingigantire l'effetto del comportamento umano sulle temperature.
Luciana Grosso per businessinsider.com l'11 maggio 2020. Ricordate Michael Moore? Regista, negli anni ‘90 di un documentario sugli operai americani, “Roger & me” che è una specie di pietra miliare della cinematografia politica? Regista premio oscar per il (bellissimo) documentario “Bowling at Columbine”, che racconta e ricostruisce una delle peggiori stragi da armi da fuoco successe di recente in America? Oppure ancora il regista di “Fahrenheit 9/11” film che raccontava, con una luce molto critica nei confronti dell’amministrazione Bush la guerra in Iraq? Bene, quel regista lì, che da sempre si colloca nella parte più a sinistra dell’emiciclo della cinematografia, che politicamente si è da sempre speso in prima persona per la campagna elettorale dei candidati democratici e, di recente in particolare, per quella di Bernie Sanders, è da poco entrato nel canone dei beniamini della destra estrema americana. Colpa (o merito) del suo ultimo film, “Planet of the Humans” nel quale, in buona sostanza, dice che non tutto ciò che è green è per forza buono e che non tutto il combustibile fossile vien per nuocere. Un film nel quale, a sorpresa e in modo del tutto discontinuo rispetto alla sua storia cinematografica e politica, Moore sposa le posizioni dei negazionisti ambientali, ossia di chi dice che le attività umane, siano esse inquinanti o meno, non possono in nessun modo essere messe in relazione con i cambiamenti climatici. Sulla scia di questo assunto Moore sostiene che tutte le campagne portate avanti, da decenni, dagli ambientalisti, sono sostanzialmente truffe e non hanno nessuna ricaduta positiva se non per le tasche dei produttori di pannelli solari e turbine eoliche. Il film, come prevedibile, ha provocato un putiferio di polemiche. Non tanto per le posizioni portate avanti dal film, che non sono niente di nuovo ma che, al contrario, esistono da quasi 50 anni, ossia da quando si è iniziato a parlare di allarme ambientale e climatico. E neppure per il fatto che a portarle avanti sia stato uno come Michael Moore. No. a causare la levata di scudi contro il film (che comunque ha già avuto 6 milioni di visualizzazioni) è stato il fatto che buona parte dei dati e dei fatti citati dalla pellicola sono falsi o parziali. Per esempio nel film si sostiene che per produrre elettricità da fonti energetiche rinnovabili, “si usino più combustibili fossili di quanto se ne risparmi”. I dati e le ricerche, però, dicono il contrario: in media un pannello solare genera 26 unità di energia solare per ogni unità di energia fossile necessaria per costruirla e installarla. Per le turbine eoliche il rapporto è di 44 a uno. Ma non è tutto. Tanto che c’è Michael Moore porta avanti anche tesi smaccatamente razziste: in particolare sostiene che il vero problema ambientale sia la sovrappopolazione. Su questo si può anche essere d’accordo. Quel su cui però risulta difficile concordare (a meno che non si sia profondamente di destra e razzisti, allora è un altro paio di maniche) è che laddove si parla di ridurre l’impronta ambientale dell’umanità, se ne additano come responsabili le popolazioni di Africa e Asia perché più numerose. E questo è un errore, oltre che una tesi piuttosto difficile da digerire. Perché è sì vero che in Africa e Asia e America Latina ci sono più persone di quante ce ne siano in Europa e Nord America. Ma è anche vero che la maggior parte dei consumi in termini di energia, rifiuti e sprechi arriva dall’occidente industrializzato e non dall’Asia e dall’Africa. Tesi chi gli hanno inimicato i suoi ex amici della sinistra americana e che, invece, lo hanno reso molto popolare nel gotha della destra trumpiana. Ma che soprattutto sono state più volte e ampiamente smentite dalla scienza, i cui fatti non sono né di destra né di sinistra.
Si può amare l'ambiente senza essere "gretini". Verrebbe da usare quello slogan abusato: "Bisogna educarli da piccoli". Nicola Porro, Domenica 10/05/2020 su Il Giornale. Verrebbe da usare quello slogan abusato: «Bisogna educarli da piccoli». Gianni Fochi lo sa bene, giacché da oltre trent'anni si dedica a divulgare per il pubblico d'ogni età la scienza, che è stata a lungo la sua professione nell'industria, al politecnico di Zurigo e poi professore alla Normale di Pisa: la chimica. Dopo alcuni saggi popolari, ora ha deciso di affidarsi a uno strumento diverso, quello narrativo. La casa editrice Carmignani ha appena pubblicato un suo romanzo breve per i ragazzi di dodici-quindici anni: Il chimico segreto. La trama semplice e gradevole porta i giovani lettori a immedesimarsi nel protagonista: Jordie, un americano, coetaneo di Greta Thunberg, che parte da un'associazione ambientalista, di quelle «arrabbiate», per poi via via accorgersi che la realtà è più complessa di certi slogan, e che anche per difendere l'ambiente occorrono conoscenze scientifiche approfondite. Siamo davanti a qualcosa di nuovo. Questo libro di Fochi può essere, sì, inquadrato nel genere del romanzo di formazione, come segnala uno dei due prefatori; ma, accanto alla maturazione affettiva, si sviluppa una consapevolezza graduale contro corrente rispetto ai mantra del pensiero unico. La chimica è vista come la peste, il nemico, nella congrega in cui all'inizio Jordie s'impegna con una passione dovuta all'amore non solo per l'ambiente, ma anche a quello per Grace dai capelli rossi, una fanciulla ambientalista d'assalto, senza se e senza ma: quasi una gemella di Greta. Ma la «rossina» non lo degna d'uno sguardo: chissà se quella ragazza sotto sotto una femminilità ce l'ha. La fine non la diciamo, ma per i giovani lettori sarà una goduria. Fochi si batte da una vita contro i pregiudizi antiscientifici, e il suo tratto è di non fermarsi alla notizia, ma al contrario di puntare a spargere semi di conoscenza, offrendo al pubblico la possibilità di capire e assimilare idee cui magari a scuola non si è prestata l'attenzione dovuta. A maggior ragione, visto il target di questo suo libretto, è molto probabile che i lettori conoscano le parole pH, osmosi, ossidi-di-carbonio e molte altre cui il linguaggio pubblicitario e politico ci ha abituato, ma che hanno una origine «chimica» che Fochi rivela. Mentre la trama scorre leggera e veloce, concetti come questi capitano qua e là. Per non appesantire e spezzettare la narrazione, vengono affrontati a parte, in riquadri con figure e spiegazioni, ridotte all'osso anche se vanno al cuore degli argomenti. Se avete figli, nipoti o amici con figli sui quali vorreste influire positivamente divertendoli, regalate loro Il chimico segreto: Fochi non vi deluderà neanche stavolta, e i giovani cresceranno con un motivo per ringraziarlo d'averli aiutati a non lasciarsi irretire dai Gretini.
L'anti-Greta sfida i Verdi dalla Germania. I conservatori arruolano una 19enne contro l'ecocatastrofismo. Daniele Mosseri su Libero Quotidiano il 25 Febbraio 2020. Ha tre anni più di Greta ma almeno fino al prossimo agosto compete nella stessa categoria: quella delle teenager impegnate su scala globale. E, al pari della svedese Greta Thunberg, anche la paladina dei negazionisti del cambiamento climatico arriva da un Paese europeo impegnato da anni nella conversione ecologica del proprio sistema energetico: la Germania. Venti anni il prossimo agosto, Naomi Seibt sta diventando un' icona della nuova destra (Neue Rechte) nel suo Paese come all' estero. Biondissima, gentile e bene educata, Naomi sta dando corpo e voce, ma soprattutto video su YouTube, alla battaglia contro l' allarmismo climatico, contro il catastrofismo ambientale a tutti i costi. I suoi messaggi hanno cominciato a fare breccia alla Conferenza di Madrid sul cambiamento climatico dello scorso dicembre. «Sono una scettica che non si occupa solo di ambiente», ha dichiarato la giovane di Münster (Nord Reno-Vestfalia) intervistata da The Heartland Institute, un think tank statunitense libertario e conservatore considerato vicino alla Casa Bianca. «Il mio scetticismo verso Angela Merkel è iniziato con l' emergenza dei profughi, quando la cancelliera ha seguito una politica dell' accoglienza spostata a sinistra anche se lei è stata eletta con il fronte moderato». Da lì a scendere in campo contro «la narrativa socialista imperante in Germania», ha spiegato Naomi, «è stato tutt' uno». Molto eloquente, la giovane si è diplomata a soli 16 anni presso il gymnasium (liceo) "St Mauritz" di Münster, risultando la più Sostenuta dall' istituto Heartland, Naomi sta diventando la Giovanna d' Arco tedesca del fronte conservatore, lanciatissima contro quello che lei definisce «il marxismo culturale in economia e femminismo» dei tedeschi. Il suo scetticismo l' ha poi portata a concentrarsi sulla questione ambientale. «Mi sono preparata: ho guardato video, presentazioni, parlato con professori e mi sono resa conto che c' è un intero mondo di libertari là fuori che la pensa come me». Contestata da sinistra per le sue idee e perché si fa sostenere da organizzazioni che di scientifico avrebbero solo il nome, su un punto Naomi ha ragione: la Germania di Angela Merkel è un Paese apoditticamente a favore delle campagne di Greta Thunberg e nel 2019 le scuole di ogni ordine e grado hanno portato centinaia di bambini in strade a sfilare in occasione dei "Fridays for Future" durante l' orario delle lezioni. Nell' intervista Naomi racconta di essere diventata famosa su YouTube quasi per caso. «Era gennaio 2019 e avevo vinto un concorso con una poesia su come sia necessario restare sempre coerenti con se stessi; ho postato la poesia e di lì a poco ho ricevuto oltre 100mila visualizzazioni». Grazie alla sua notorietà sui social media, la ragazza è stata invitata dall' Istituto Europeo per il Clima e l' Energia di Monaco di Baviera (un pensatoio contrario alla teoria del cambiamento climatico e vicino ad Alternative für Deutschland), la cui conferenza è stata contestata dai movimenti Antifa. «Si definiscono antifascisti ma poi usano la violenza contro noi libertari, che usiamo solo le parole», li ha liquidati Naomi, accusando poi i media di non dare alcun sostegno alla propria parte. Il titolo di anti-Greta, Naomi se l' è guadagnato con le sue uscite antitetiche a quella della giovane svedese: se dal Forum di Davos Greta si è rivolta ai potenti dicendo: «Voglio che abbiate paura e che poi facciate qualcosa», il messaggio di Naomi è più rassicurante: «Voglio che non abbiate paura, e voglio che pensiate». Contro Greta, Naomi sa essere molto dura. «Dà molto fastidio vedere come questa povera ragazza venga strumentalizzata dalla sua parte: è evidente che non ha ricevuto la giusta educazione in materia di clima». Allo stesso tempo, la tedesca rifiuta di essere trascinata nella lotta nel fango e si mostra condiscendente. «Questa giovane viene anche duramente criticata dalla nostra parte: e non credo che se lo meriti. Io non ce l' ho con lei: lo vedo che è giovane, innocente, che usa poco trucco. Io credo che sia anche intelligente: è solo preparata male». Per Naomi, insomma, Greta è solo una che sbaglia, che si presta al gioco di chi terrorizza i bambini «che vorrebbero solo proteggere la natura».
Naomi Seibt, 19 anni, divenuta famosa per i suoi video su Youtube, nei quali contesta i dogmi sulla natura antropica del cambiamento climatico, basandosi su teorie scientifiche. A sostenerla, sono i think tank libertari vicini ad Alternative für Deutschland, critici nei confronti del governo di Angela Merkel, che ha fornito sostegno ai Fridays for Future, consentendo agli studenti di saltare le lezioni per partecipare alle manifestazioni ambientaliste.
E Trump scoprì Naomi, l’anti-Greta che nega il cambiamento climatico. Il Dubbio il 26 febbraio 2020. La giovane tedesca, che sul suo canale youtube accusa la Thumberg di diffondere “una versione apocalittica del climat change”, è stata reclutata dal Heartland Institute, un think tank molto vicino al tycoon. Naomi Seibt ha 19 anni e sul suo canale youtube attacca da diversi mesi gli ambientalisti e tutti coloro che sostengono la consistenza del cambiamento climatico. Centinaia di migliaia di visualizzazioni che hanno attirato l’attenzione del Heartland Institute, un think tank che da anni è in prima linea nella negazione del climat change ed è molto vicino all’entourage di Donald Trump. In particolare a William Harper, fisico, tra i fondatori del think tank, membro del Consiglio di sicurezza nazionale degli Stati Uniti e consigliere del tycoon. L’idea è semplice: trasformare la giovane youtuber tedesca in una specie di anti-Greta Thumberg, la 17enne svedese icona del movimento ambientalista. Così il sito del Heartland Institute ha iniziato a condividere i video di Naomi, accompagnandoli con una eloquente didascalia: “Greta diffonde una visione apocalittica dei cambiamenti climatici, Naomi è una stella nascente che propone un discorso scientifico e ragionato, chi vi sembra la più ragionevole?” Intervistata dal Washington Post, Naomi ha attaccato frontalmente la sua rivale: “Greta diffonde un’ideologia anti-umana che crea panico e allarmismo”.
Gianluca Zappa per startmag.it il 22 gennaio 2020. “Appello alle competenze di molti per un’alternativa realistica alla disneyana narrazione salva-clima”. Su questo manifesto appello è al lavoro in particolare Chicco Testa, già ai vertici di Acea, Enel e Wind, ora presidente di Assoambiente, l’associazione che riunisce imprese private che gestiscono servizi ambientali. In queste ora Testa sta sondando associazioni, imprenditori, manager, professionisti, sindacalisti e intellettuali per organizzare una prima riunione nei primi giorni di febbraio. C’è già una sorta di bozza-dichiarazione di intenti con alcune idee portanti già fissate. ”Abbiamo a cuore la salute dell’ambiente e riconosciamo l’imprescindibile necessità di uno sviluppo sostenibile”, è la premessa della bozza. Ma “la chiave per tenere insieme ambiente, crescita, equità e coesione sociale” è “l’innovazione tecnologica”. Un’impostazione differente rispetto a quella del movimento animato da Greta o da politici americani: “Additare, come fanno i milioni di sinceri idealisti seguaci di Greta o i politicamente più radicali fautori del Green Deal alla Ocasio-Cortez, l’economia di mercato come la causa della fine del pianeta, è ignorare la complessità della questione”, si legge nella mail di invito spedita in queste ore da Testa a una selezionata lista di indirizzi di posta elettronica. Giusto applicare il principio “chi inquina paga” – si argomenta – “ma ancora più efficace è la spinta, al pari di quella che fu la Space Race, di una rincorsa tecnologica esponenziale per affrancare il progresso umano dallo sfruttamento delle risorse naturali”. La “discontinuità con un ambientalismo passatista e dogmaticamente anti-sistema” – secondo Testa – sta “nel produrre di più consumando di meno”, nonostante la popolazione mondiale in crescita, “per fermare ulteriori deforestazioni, emissioni, acidificazione degli oceani e stress climatici”. Le politiche ambientali efficaci non si fanno con semplicistiche sottrazioni, ma con più investimenti in efficienza energetica, è una base dell’appello in fieri. C’è anche un accenno esplicito all’Italia: “Esiste poi una specificità italiana dell’ambientalismo catastrofista e sedicente anticapitalista che consiste nell’opporsi alle opere pubbliche e ad affidarsi al peggiore giustizialismo, demandando alla magistratura scelte tecniche e inondandola di ricorsi allo scopo di bloccare le opere non gradite”.
Da ilmessaggero.it il 19 dicembre 2019. Greta Thunberg ancora bersaglio di critiche e polemiche. La giovane attivista svedese, questa volta, sarebbe «l'immagine più iconica della morte dell'Occidente» e potrebbe essere posseduta da uno «spirito demoniaco». È questo il folle giudizio del pastore evangelico conservatore del Colorado Kevin Swanson, allarmato e indignato dalla decisione del settimanale americano Time di eleggere la giovane attivista ambientalista svedese “Persona dell'Anno”. «Amici, eccolo - ha detto Swanson durante il suo sermone del lunedì trasmesso via podcast su Generations Radio, come riporta Newsweek -. Questo è il disfacimento del mondo occidentale. Ecco come appare». Prendendosi gioco di lei, il pastore ha poi definito Greta «la profetessa della nuova era», affermando che la giovane - che è affetta dalla sindrome di Asperger - è «psicologicamente disturbata». «Il suo viso è contorto in una forma orribile, orribile», ha detto Swanson: «Ma in ogni caso, soffre di questi disturbi psichiatrici e immagino che non sia un segreto, se ne è parlato». Il pastore non ha dubbi: Greta viene usata da «altri spiriti demoniaci» per prendere il controllo del mondo.
Tino Oldani per ''Italia Oggi'' il 17 dicembre 2019. Il fallimento della conferenza Cop 25 di Madrid sul clima non deve stupire più di tanto. Ormai dietro le divisioni tra gli Stati non ci sono soltanto le profonde divergenze di interessi sul divieto progressivo dei combustibili fossili, ma anche il proliferare sul web di studi contrari al mainstream mediatico sulla cosiddetta emergenza climatica. Proprio alla vigilia del vertice di Madrid, sul sito canadese Global Research è stata postata un' inchiesta di William Engdhal, 75 anni, analista geopolitico americano e autore di best seller sulle guerre del petrolio, il quale, citando nomi e fatti precisi, sostiene una tesi clamorosa. Eccola: la grande finanza mondiale, alleata per l' occasione con l' Onu e l' Unione europea, si starebbe servendo in modo cinico di Greta Thunberg come icona mediatica per creare allarmismo sul riscaldamento climatico provocato dall' uomo (una fake news, sostiene Engdhal), e innescare di conseguenza il business più redditizio dei prossimi decenni, il cosiddetto Green new deal, la rivoluzione dell' economia verde. Il tutto con un piano di investimenti di oltre 100 trilioni di dollari, da raccogliere con massicce emissioni di obbligazioni speculative. Fondi da riversare, mediante il credito, sulle nuove imprese climatiche, anche a prescindere dal loro effettivo valore e know-how. Ovviamente a scapito dei settori dell' economia «colpevoli» di inquinare, e con duri sacrifici per milioni di lavoratori e consumatori, ma enormi profitti per gli istituti finanziari che hanno sposato questo business. Due gli uomini chiave di questa «agenda verde mondiale», sostiene Engdhal: il banchiere inglese Mark Carney, 54 anni, capo della Banca d' Inghilterra, e l' ex vicepresidente Usa Al Gore, 71 anni, vice di Bill Clinton (1993-2001), da sempre ambientalista, oggi ricco presidente del gruppo Generation Investment, impegnato negli investimenti a lungo termine sulla sostenibilità ambientale. Carney, sostiene Engdhal, è stato la mente finanziaria dell' intero progetto mondiale. Nel dicembre 2015, il Financial Stability Board della Banca dei regolamenti internazionali (Bri), presieduto da Carney, ha creato una task force sulla divulgazione finanziaria legata al clima (Tcfd) per «consigliare investitori, finanziatori e assicurazioni sui rischi legati al clima». Nel 2016 questa task force, formata da 31 banchieri nominati dalla Bri e presieduta dal finanziere Michael Bloomberg, insieme alla City of London Corporation e al governo del Regno Unito, ha avviato la Green Finance Initiative, con la missione di pilotare trilioni di dollari in investimenti verdi. Tra i primi ad aderire, il principe Carlo, futuro re d' Inghilterra, che insieme alla Bank of England e alla City of London ha promosso i Green Bonds, strumenti finanziari verdi per «reindirizzare piani pensionistici e fondi comuni d' investimento verso progetti verdi». In pratica, la task force ideata da Carney costituisce la cabina di regia e include i rappresentanti dei maggiori operatori finanziari del pianeta: «Ci sono tutti: da Jp Morgan a BlackRock, uno dei più grandi gestori di patrimoni del mondo». Non solo. Goldman Sacks ha appena sfornato il primo indice globale dei titoli ambientali di alto livello quotati a Wall Street, indice condiviso da tutte le maggiori banche d' affari, «per attirare fondi d' investimento e sistemi pensionistici statali». Questa ricostruzione di Engdhal trova conferma nel Libro bianco «Strategia di finanza verde», pubblicato nel luglio scorso da Philip Hammond, ex premier britannico, dove si afferma che l' iniziativa «supportata da Carney e presieduta da Bloomberg è stata approvata dalle istituzioni che rappresentano 118 trilioni di dollari di attività a livello globale». Il piano, sostiene l' analista Usa, consiste nella finanziarizzazione dell' intera economia mondiale «usando la paura di uno scenario da fine di mondo per raggiungere obiettivi arbitrari come le emissioni zero di gas serra». Più avanti: «Gli eventi assumono una svolta cinica quando ci troviamo di fronte ad attivisti climatici molto popolari e fortemente promossi, come Greta Thunberg o la 29enne Alexandra Ocasio-Cortez di New York e il loro Green New Deal. Per quanto sinceri possano essere questi attivisti, c' è una macchina finanziaria ben oliata dietro la loro promozione a scopo di lucro». Quanto al ruolo di Al Gore, ma anche dell' Ue, dovremo tornarci.
· Lo strapotere delle lobby "green".
Aziende green, avanza l’ombra degli speculatori. Cesare Patrone de Il Riformista il 19 Febbraio 2020. Bill Mc Kibben, sul New Yorker, ha espresso con efficace sintesi e chiarezza la soluzione per la crisi climatica: per fermare il flusso di carbonio nell’atmosfera bisogna interrompere il flusso di denaro verso il carbone. Certo la politica può fare molto, ma è timida, debole, rissosa, contraddittoria; spesso non riconosce nemmeno che possa esserci una crisi ambientale. Inoltre i cambiamenti culturali richiedono molto tempo, anche alcune generazioni, e siccome c’è poco tempo non vi è alcun dubbio: le persone che hanno molti soldi hanno un potere enorme anche per quanto riguarda la cosiddetta decarbonizzazione. Ebbene, Black Rock è il più grande investitore al mondo in aziende carbonifere, compagnie petrolifere ecc. e attraverso il suo Ceo, Larry Fink con una lettera aperta evidenzia che il rischio climatico avrà un grande impatto sul sistema mondiale che finanzia la crescita economica. Il suo ragionamento può essere così riassunto. Nel mondo economico e finanziario si è assistito a molte crisi, ma nel caso dei cambiamenti climatici ci si trova di fronte a una crisi molto lunga e di tipo strutturale. Ad esempio cosa succederà ai mutui trentennali se chi li eroga non è capace di stimare l’impatto climatico su un arco di tempo lungo? Allora ecco che gli investitori, cercando i migliori rendimenti, porranno l’attenzione sull’investimento sostenibile perché è quello che permette al portafoglio del cliente di crescere. Si avvierà pertanto un gigantesco spostamento e ricollocamento di capitali da parte dei grandi investitori. E la dinamica accelererà nella misura in cui la prossima generazione prenderà il comando, quando migliaia di miliardi di dollari passeranno nelle mani dei millenial più sensibili alle questioni ambientali. Il rischio climatico, assumendo anche una connotazione economica e finanziaria, diventa il rischio di investimento visto che lo scopo dell’investitore è la redditività a lungo termine. Grande attenzione viene posta sulla diffusione delle informazioni ovvero che una serie di standard per la segnalazione delle informazioni sulla sostenibilità, per la comunicazione e la valutazione dei rischi climatici e per i dati sociali ambientali e di governance. È da evidenziare inoltre che nella misura in cui, sostiene Mc Kibben, il sistema “carbone” entra nel cono d’ombra della inaffidabilità va a decadere la possibilità delle coperture assicurative. Infatti se si vuole costruire una centrale a carbone o un oleodotto è necessario che una compagnia di assicurazioni emetta una polizza: non è fattibile un progetto se non è assicurato. Ancora. Si può ragionare in un modo un po’ diverso per andare più a fondo della questione. Premesso sempre che la finanza è preoccupata per i suoi interessi e non fa certo le cose per bontà, la considerazione principale dell’investitore è la seguente: «I soldi dove li butto? Quali sono i settori buoni e più redditizi?». I combustibili fossili sono sempre meno convenienti, né conviene investire in zone sismiche o a rischio idrogeologico. L’investitore spinge per un miglior contesto ambientale e sociale poiché i costi legati ai cambiamenti climatici possono causare terribili crisi finanziarie. Sempre di più il cliente vorrà mettere i soldi nei green bond, nelle obbligazioni che finanziano i fondi a favore dell’ambiente visto che ormai hanno rendimenti simili alle obbligazioni tradizionali. Naturalmente lo schieramento della grande finanza (anche George Soros, in difesa della società aperta, segue la stessa direzione ambientalista lodando le Sardine) provoca nella cultura politica sovranista e antimondialista feroci critiche. Valgano per tutte le riflessioni di Maurizio Blondet che con forza individua nella finanza internazionale i burattinai interessati dietro la giovane Greta Thunberg. Da Davos arriva la conferma sulla dittatura ambientalista. Il nuovo responsabile Onu per la transizione climatica è Mark Carney appena dimessosi da capo della Banca centrale d’Inghilterra. Così Blondet si pone la domanda centrale: è la finanza speculativa a guidare la transizione energetica o deve essere il popolo? Certo non si può non evidenziare che Mc Kibben, Fink e Soros appartengano al mondo progressista e che la Black Rock abbia contribuito per gran parte al disastro ambientale grazie ai finanziamenti stratosferici alle attività responsabili delle emissioni di carbonio. Il punto essenziale però non è la qualificazione morale di Fink, ma l’espressione della sua forza nella giusta direzione. È importante che la riconversione del mondo finanziario sia concreta, il resto sono chiacchiere. Nel solco di un sano pragmatismo si guardi all’esperienza politica del Cancelliere austriaco Sebastian Kurz. Il più giovane capo del governo del mondo e leader del Partito Popolare. Nella seconda esperienza dopo una vittoria nel settembre scorso sceglie l’opzione più difficile alleandosi con i Verdi aggiungendo alla questione centrale della sicurezza anche la problematica ambientale. Il ragionamento del Cancelliere Kurz è semplice: non si tratta di un accordo al ribasso ma il meglio di due culture politiche dove la riduzione delle tasse e la dura battaglia contro l’immigrazione illegale si sposa con la lotta contro i cambiamenti climatici. L’obiettivo per il governo Kurz e quello di ridurre le emissioni del 50% entro il 2030 e di rendere libera l’Austria dalle emissioni del CO2 entro il 2050. È un bene che in Europa sia proprio un governo popolare e conservatore ad avere attivato un’azione con l’obiettivo dell’azzeramento delle emissioni. Non si vede, allora, perché in Italia la Destra popolare non debba porre attenzione alle ponderose scelte della finanza internazionale, una volta tanto, sagge e lungimiranti.
La finanza verde ha raccolto 581 miliardi di euro. Dove vanno a finire? Pubblicato lunedì, 09 marzo 2020 su Corriere.it da Milena Gabanelli. L’anno scorso c’è stata un’impennata: 170 miliardi, +50% sul 2018. Del totale solo 56 miliardi è emesso dagli Stati, ed è quindi debito pubblico, la stragrande maggioranza è prestito privato. Il primo green bond al mondo è stato emesso nel 2007 dalla Bei, la Banca europea per gli investimenti, che ad oggi è arrivata a raccogliere 26,7 miliardi di euro, impiegati in 256 progetti in 52 Paesi. L’87% è stato speso in Europa, per esempio in Italia sono stati finanziati parchi eolici in Sicilia, Campania, Basilicata, Puglia e Abruzzo, centrali fotovoltaiche ed efficientamento energetico degli edifici. Titoli di Stato green sono già stati emessi da Olanda, Belgio, Irlanda e Francia. Li hanno in cantiere anche Spagna e Germania. L’Italia nella manovra 2020 ha previsto un fondo di 4,24 miliardi in tre anni per mettere in efficienza energetica scuole e edifici pubblici. La crisi causata dal Coronavirus potrebbe accelerare questa strada o forse, al contrario, dirottare altrove le risorse. Si vedrà.Il motore della finanza green sarà l’Europa. Bruxelles punta a mobilitare fino a 1.000 miliardi di investimenti in dieci anni, per accelerare la riduzione delle emissioni di CO2 e fare dell’Europa, entro il 2050, il primo continente a neutralità climatica. Per stimolare i privati a fare la loro parte la Ue mette a disposizione il 25% di tutti i suoi fondi, il 35% del programma InvestEu, nonché il supporto finanziario della Bei. Cento miliardi di quegli investimenti saranno destinati alle regioni e ai settori più colpiti dalla transizione ambientale, in quanto più dipendenti dai combustibili fossili. L’Europa ci mette di suo 7,5 miliardi iniziali; all’Italia andranno 400 milioni, che il governo Conte potrebbe utilizzare anche per l’Ilva e il Sulcis. C’è quindi un enorme spazio per le imprese private per finanziare con bond verdi attività come energie rinnovabili e auto elettrica. Nella finanza privata la diffusione di green bond è stata esponenziale: nel 2013 valevano appena 10 miliardi di euro. Solo in Italia nel 2019 ne sono stati emessi per 5,4 miliardi. Le società emittenti sono Enel, Iren, Hera, Terna, Ferrovie dello Stato, A2A, Erg, Intesa Sanpaolo, Ubi e Generali. Società energetiche o di utilities, poi un colosso dei trasporti – per finanziare la costruzione di treni con materiali riciclabili – mentre le banche investiranno in edifici green, mobilità pulita, gestione dei rifiuti. Ma chi controlla dove vanno davvero a finire i soldi chiesti per finalità «economicamente sostenibili»? Al momento non esiste né una regola né una definizione condivisa su cosa sia «green». Per molti anni ognuno ha fatto da sé. Poi è arrivata la Icma – la più grande associazione internazionale del mercato dei capitali – a fissare alcuni punti: le aziende che vogliono il bollino «green» sui bond devono indicare i «chiari benefici ambientali» che vogliono ottenere. E i soldi raccolti devono essere tracciati: «Hai detto di voler piantare un milione di alberi? Lo hai fatto? E come intendi utilizzare i soldi non ancora spesi»? E poi serve un parere sul progetto da parte di un soggetto indipendente. Oggi ogni società o Stato o si autocertifica su questi criteri o assolda una delle società di rating specializzate: tra queste l’olandese Sustainalytics, la francese Vigeo Eiris, la norvegese Cicero, l’americana ISS-Oekom. Ma resta la domanda: chi controlla effettivamente se poi non si tratti di operazioni di facciata per raccogliere soldi più facilmente? I grandi gestori di fondi come BlackRock, Pimco, Alliance Bernstein, le verifiche se le fanno anche in casa per essere più sicuri di come vengono spesi i soldi dei loro risparmiatori.Il mercato insomma si auto-regolamenta facendo leva sul rischio reputazionale. Gode di ottima reputazione per esempio la ong Climate Bonds Initiative (Cbi), che valuta le aziende secondo criteri molto stringenti. Nel 2017 il colosso petrolifero Repsol, che aveva avuto il bollino «green» da Vigeo Eiris, è stato valutato da Cbi non degno di quella medaglia. Aveva promesso la riduzione di 1,2 milioni di tonnellate di CO2 all’anno, ma poi nei fatti non ha mai modificato il modello di business. Molti fondi hanno considerato più affidabile la valutazione dell’Ong e hanno escluso il bond Repsol dai propri indici green. La verità è che il fenomeno è troppo grande per non essere regolato dalla legge. Commissione europea e Parlamento Ue hanno approvato il 7 febbraio scorso un regolamento che definisce le macroaree nelle quali le imprese possono chiedere soldi sotto il cappello di «bond verdi»: «mitigazione del cambiamento climatico», «protezione e uso sostenibile delle risorse marine e idrologiche», «transizione all’economia circolare», «controllo e prevenzione dell’inquinamento», «protezione e ripristino della biodiversità e degli ecosistemi». Le singole attività saranno però dettagliate entro il 2021 in quella che viene chiamata «tassonomia». La vera battaglia si giocherà proprio qui. Morgan Stanley sottolinea: «È la prima volta che vediamo una cornice che farà chiarezza su che cosa può essere considerato green. Sarà indispensabile per allontanare i sospetti di greenwashing», cioè di operazioni solo di facciata. L’Enel, che deve ancora fare i conti con la sua centrale a carbone di Brindisi (fra le più inquinanti d’Europa), è tra i capofila nelle emissioni di green bond. Quello emesso l’anno scorso è legato non a un progetto specifico ma all’intera strategia aziendale: il gruppo si è impegnato a raggiungere a fine 2021 una percentuale di capacità installata da fonti rinnovabili almeno del 55% del totale; se non rispetterà l’obiettivo, pagherà agli investitori un interesse più alto. Agli investitori è piaciuto molto: sui mercati il green tira e, anzi, non avere una «politica green» potrebbe addirittura comportare un rischio per la liquidità di un’azienda, ha avvertito Larry Fink, ceo di BlackRock. Questo perché i risparmiatori premiano chi promette di costruire un mondo migliore, pur correndo i rischi di sempre (qualora l’azienda fallisse non rivedranno i loro soldi) e nonostante le commissioni applicate siano spesso più alte e i rendimenti più bassi. In conclusione: per non far crollare un sistema che si regge sulla fiducia è meglio per tutti non tradirla.
Lo strapotere delle lobby "green" a Bruxelles. La lobby del clima e dell'ambiente può fare leva su 800 soggetti coinvolti, per 3.120 lobbisti e 2.206 pass al Parlamento europeo. Ma la trasparenza non è il punto forte dell'Unione europea. Roberto Vivaldelli, Lunedì 03/02/2020, su Il Giornale. Dietro la filiera del climaticamente corretto e del fenomeno Greta Thunberg c'è un sottobosco di lobby "green" che condiziona pesantemente le scelte politiche di Bruxelles e dell'Unione europea. Oltre all'approvazione del Green New Deal, infatti, lo scorso novembre Consiglio e il Parlamento europeo hanno raggiunto l'accordo sul bilancio dell'Ue per il 2020 che prevede di investire il 20% delle spese a favore dell'ambiente e al contrasto ai cambiamenti climatici. Come spiega il sito web dell'Ue, il parlamento e il Consiglio hanno deciso "di concentrarsi maggiormente sulle azioni legate al clima in diversi settori come la ricerca e lo sviluppo (Orizzonte 2020)", le "infrastrutture dei trasporti e dell'energia (meccanismo per collegare l'Europa) e l'azione esterna dell'Ue". Ulteriori fondi, si legge, "sono stati inoltre assegnati al programma Life dell'Ue, che riceverà 590 milioni di euro, e all'Agenzia europea dell'ambiente per l'assunzione di nuovo personale (+6) per sostenere la lotta ai cambiamenti climatici". Da dove arrivano tutte queste risorse? Da un'intensa e costante attività di lobbying. Come riporta La Verità, dal primo dicembre 2014 ad oggi, si sono tenuti in media 13 incontri al giorno, più di due all'ora, tra un euroburocrate e un lobbista. Parliamo di 25.000 colloqui nell'arco di poco più di cinque anni. Perché le decisioni che davvero contano vengono prese in queste occasioni, lontano dagli occhi del pubblico: altro che Consiglio europeo. Se pensiamo al clima e all'ambiente, negli ultimi cinque anni, quasi un incontro su 10 (2.400 su 25.000, di cui oltre 600 tenuti dalle Ong) verteva proprio su questo. Complessivamente, la lobby del clima e dell' ambiente può fare leva su 800 soggetti coinvolti, per 3.120 lobbisti e 2.206 pass al Parlamento europeo. Sul podio dei soggetti più attivi, scrive La Verità, troviamo il Wwf (64 meeting), seguito da Greenpeace (46) e dal Climate action network (41). Queste tre organizzazioni, da sole, spendono più di 5 milioni di euro l' anno per attività di lobbying a Bruxelles. Come spiega euronews, i lobbisti si aggirano per i corridoi degli edifici europei per incontrare gli alti funzionari. Oppure possono incontrarli per un drink, per una cena informale o in eleganti hotel. Sono decine i bar che popolano il quartiere euroepo. Qui i professionisti si incontrano, si stringono la mano e fanno affari. Ma la trasparenza non è di casa a Bruxelles, come spiega Raphaël Kergueno di Transparency International. "L'attuale regolamento sulle lobby a Bruxelles è incompleto. Se vogliamo conoscere l'influenza di un'organizzazione come Google sulla legislazione europea possiamo solo fare affidamento sui dati della Commissione e in parte del Parlamento europeo, ma non possiamo avere un'immagine completa della loro attività".
La fitta rete delle lobby green a Bruxelles. La Climate Action Network (Can) è riconosciuta come la principale rete europea che lavora su questioni climatiche ed energetiche. Con oltre 150 organizzazioni aderenti in oltre 35 paesi europei, che rappresentano oltre 1700 Ong e circa 47 milioni di cittadini, Can Europe dal 2009 lavora per imporre la propria agenda sul clima e promuovere politiche sostenibili in materia di energia e ambiente in Europa. Fa parte di uan rete mondiale a cui aderiscono circa 1000 organizzazioni in tutto il mondo. In un solo anno (1° gennaio - 31 dicembre 2018) ha investito in lobbying circa 2.255.005 euro, il doppio rispetto all'anno precedente. Secondo il Corporate Europe Observatory, un "watchdog" che fa campagne per una maggiore trasparenza, ci sono almeno 30mila lobbisti a Bruxelles, quasi corrispondenti ai 31mila dipendenti impiegati dalla Commissione europea e secondi solo a quelli presenti a Washington Dc. I lobbisti firmano un registro per la trasparenza gestito dal parlamento e dalla commissione, sebbene non sia obbligatorio. L'energia, il lavoro e la crescita, l'economia digitale, i mercati finanziari, i trasporti ma sopratutto il clima sono i settori che attraggono di più i lobbisti di Bruxelles. In cima alla lista di questa fitta rete di lobby c'è l'influente Ong European federation for transport and environment (T&E). Di che cosa si occupa? Basta cliccare sul sito: "I trasporti rappresentano il principale problema climatico dell'Europa, rappresentando il 27% delle emissioni di gas serra dell'Unione. I trasporti sono l'unico settore principale in cui le emissioni sono aumentate dal 1990, determinando un aumento delle emissioni complessive dell'UE nel 2017. Se l'Ue vuole mantenere gli impegni climatici assunti con l'accordo di Parigi, l'Europa ha bisogno di politiche dei trasporti più intelligenti e più ambiziose". E ancora: "Riteniamo che l'Europa dovrebbe avere i livelli più bassi di emissioni di gas serra e di inquinamento atmosferico e acustico dei trasporti". Insomma, forse ci sarà anche la volontà di salvare il mondo dall'Apocalisse climatica imminente: certo che, però, i cambiamenti climatici stanno diventando un bell'affare per molti lobbyisti.
· Il Costo del Climate Change.
La crisi dell'auto è colpa dei «gretini». Pier Luigi Del Viscovo, Mercoledì 12/02/2020 su Il Giornale. Fantastica notizia ieri per Greta e seguaci (che detti propriamente potrebbero offendersi, per l'assonanza delle radici Greta e creta). Un bellissimo tonfo della produzione automotive lo scorso anno: meno 19% secondo l'Anfia, associazione delle industrie del settore. Poteva andare anche peggio, meglio per Greta, se non era per il miracolo economico giallo-verde, ma accontentiamoci e godiamoci l'eccezionale risultato. Sicuramente applaudito dai giallorossi tifosi del green deal, la nuova e grandiosa ricetta di politica economica, e dai loro sindaci che fanno a gara a bloccare la circolazione delle macchine, anche di ultima generazione, nella vana illusione che possano diminuire l'inquinamento delle città. Ignorando, o fingendo di ignorare, che le auto ne sono responsabili per appena il 10% e che i riscaldamenti fanno cinque volte tanto. Da un sondaggio promosso da AgitaLab, un think tank sulla mobilità, emerge che, secondo gli esperti del settore, le amministrazioni farebbero meglio a lavare le strade e ad abbassare i riscaldamenti negli uffici pubblici e privati, piuttosto che fermare la circolazione con l'intento dichiarato di scoraggiare l'uso dell'auto. Bene, visto che ci stanno riuscendo, esultino per il risultato industriale e, soprattutto, se lo ascrivano come effetto delle loro campagne ideologiche. Perché la follia non sta tanto nei provvedimenti, pure inutili, quanto nella convinzione che siano gratis, che fermare e danneggiare la vita dei cittadini, per giorni e giorni, non comporti alcun prezzo. Impedire alle persone di portare i figli a scuola e andare a lavorare o a spasso, facendo lavorare negozi e bar, una reazione la produce: diventa difficile entusiasmarsi per un'auto nuova sapendo che l'uso ne sarà inibito. Per qualcuno magari è la strada giusta, ma si sbaglia: si chiama «effetto Cuba». Finito il divieto, i cittadini continuano a girare con le macchine vecchie, meno sicure e più inquinanti, invece di sostituirle con le nuove, che sarebbero la vera soluzione. Per equità, una parte di merito va agli esponenti dell'industria automobilistica, a cominciare da chi fa, o dovrebbe fare, informazione. Si prendano pure la meritata fetta di gloria, per non aver contrastato, bensì avallato, le crociate contro l'auto, status-symbol borghese mai veramente digerito. Salvo alcuni, tutti parlano di macchine ma non hanno il coraggio di sostenere, contro le facili mode, che l'ambiente debba sì essere tutelato e che tuttavia fermare le auto, e segnatamente le nuove, sfortunatamente non sia la soluzione. Viviamo in un'epoca di cambiamenti veloci, che richiedono adattamento costante e generano un disagio diffuso quanto multiforme, al quale dobbiamo fare l'abitudine. Lo smarrimento rende le persone facili prede delle più svariate bufale, su qualsiasi tema offra loro un bersaglio contro cui sfogarsi. L'ancoraggio alla realtà è più fragile del filo con cui il bambino tiene il palloncino. Chi possiede l'informazione e chi per mestiere la diffonde, entrambi portano un fardello critico e pesante. Non possono cedere al canto delle sirene, altrimenti l'intera barca perde la rotta.
European green deal, con i mille miliardi l’ex Ilva potrebbe essere salvata e innovata. Pietro Greco su Il Riformista il 4 Febbraio 2020. L’Ilva di Taranto potrà contare sui fondi dello European green deal per salvare il posto di lavoro a migliaia di persone e nel medesimo tempo smettere di inquinare? La domanda è lecita dopo le dichiarazioni, in apparenza divergenti, del commissario Ue agli Affari economici, l’italiano Paolo Gentiloni, e quelle della vicepresidente della Commissione Ue e responsabile Antitrust, la danese Margrethe Vestager. La domanda non è neppure banale, visto che da qui al 2030 lo European green deal mobiliterà 1.000 miliardi di euro – un quarto del budget gestito a Bruxelles – per riqualificare in senso ambientale l’economia del continente. Chiariamo subito che la risposta alla domanda avrà una natura politica, più che tecnica. Perché il risanamento dell’Ilva di Taranto rientra nel dominio di riferimento dello European green deal. Il grande piano voluto dalla presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, intende raggiungere quattro obiettivi. Il primo è abbattere entro il 2030 le emissioni di anidride carbonica del 40% rispetto al livello di riferimento del 1990 e raggiungere la neutralità (tanta anidride carbonica emessa in atmosfera quanta ne viene sottratta) entro il 2050. Stiamo parlando del contrasto ai cambiamenti climatici: un problema globale alla cui soluzione (parziale) l’Europa intende partecipare con un contributo significativo e, soprattutto, in linea con le indicazioni della comunità scientifica. Il secondo obiettivo è abbattere l’inquinamento per meglio proteggere la vita degli esseri umani, degli altri animali e delle piante. In questo caso siamo difronte a problemi locali, anche se non meno gravi, perché interessano la salute di milioni di cittadini europei. Il terzo obiettivo è quello di aiutare le industrie europee a diventare leader al mondo nel campo della produzione di beni e nell’uso di tecnologie pulite. Quarto obiettivo: assicurare la transizione verso la nuova economia sostenibile in maniera giusta e inclusiva. Il che significa, tra l’altro, salvaguardando i posti di lavoro o assicurando la transizione creando nuovi posti di lavoro. La riqualificazione dell’Ilva di Taranto rientra a pieno titolo in ciascuno di questi ambiti. Nella nuova economia verde non farà certo a meno dell’acciaio: al contrario, si dovrà produrre acciaio nel rispetto degli obiettivi che si è data la nuova Commissione di Bruxelles. È quindi di interesse europeo far sì che la produzione di acciaio dell’Ilva rispetti il primo obiettivo (abbattendo le emissioni di anidride carbonica, eliminando, per primo, l’uso del carbone). Ma anche per raggiungere il secondo obiettivo dell’European green deal e salvaguardare la salute dei cittadini di Taranto un intervento a favore della riqualificazione dell’Ilva è non solo possibile, ma assolutamente necessario. Se questa riqualificazione verrà fatta a regola d’arte, allora l’Ilva può diventare una delle grandi industrie europee leader al mondo nella produzione di beni e nell’uso di tecnologie sostenibili. Ciò consentirebbe di raggiungere anche il quarto obiettivo del piano europeo, una transizione inclusiva. Che non sacrifichi i posti di lavoro ma che, anzi, ne crei di nuovi. In questa cornice diventa chiara e persino scontata la dichiarazione di Paolo Gentiloni: la riqualificazione dell’Ilva potrà contare anche (e quel anche non è buttato lì a caso) sui fondi dell’European green deal. La vicepresidente e responsabile dell’Antitrust Margrethe Vestager non dice cose molto diverse. Anche quando sottolinea che potrebbero esserci della difficoltà a investire soldi pubblici europei per l’Ilva. La principale di queste difficoltà riguarda l’intero European Green Deal: come evitare l’accusa di aiuti di stato alle imprese, nel caso di una sua piane attuazione. Ecco perché la vicenda è politica. L’Unione Europea dovrà trovare il modo di sciogliere questo nodo, altrimenti tutti gli obiettivi del Green deal rischiano di saltare o, almeno, di essere gravemente compromessi. Le autorità politiche italiane dovranno trovare il modo di convincere l’Europa che il salvataggio dell’Ilva (qualsiasi sia la soluzione proprietaria) sarà nel pieno e rapido e trasparente rispetto dei quattro obiettivi dell’European green deal.
Mille miliardi per il Piano Verde Ue. Da dove vengono? Come li useremo? Pubblicato giovedì, 16 gennaio 2020 su Corriere.it da Francesca Basso. Quanti soldi saranno dedicati alla transizione verde europea che trasformerà la nostra economia per raggiungere l’obiettivo della neutralità climatica entro il 2050? La riconversione dell’economia e del nostro stile di vita avrà un costo molto alto, ma non c’è alternativa se si vuole combattere il cambiamento climatico in corso. Per questo l’Unione europea ha lanciato il Green Deal, un piano per il clima che intende muovere mille miliardi nei prossimi dieci anni. Gli esperti dicono che probabilmente ne serviranno molti di più. Questi mille miliardi sono il risultato di più azioni combinate che verranno presentate progressivamente nei prossimi mesi (ne sono state individuate cinquanta). Martedì 14 gennaio la presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen, ha presentato a Strasburgo al Parlamento europeo il Piano per gli investimenti per un’Europa sostenibile e il Meccanismo per la transizione giusta, con il quale Bruxelles prevede di muovere nel periodo 2021-2027 circa 100 miliardi. Il meccanismo è costruito su tre «pilastri» di cui uno è il Fondo per la transizione giusta, che vale 7,5 miliardi. Poi ci sono circa 45 miliardi di finanziamenti per una transizione giusta mobilitati dal programma InvestEU (versione nuova del piano Juncker) e circa 25-30 miliardi attivati da un nuovo schema per i finanziamenti pubblici garantiti dalla Bei provenienti dal bilancio Ue. È previsto anche un intervento per creare un ambiente normativo favorevole agli investimenti verdi, in particolare una revisione in senso più flessibile delle regole sugli aiuti di Stato. Il Fondo che insieme al Meccanismo rientra sotto il cappello della politica di coesione: per ogni euro del Fondo per la «transizione giusta», lo Stato membro dovrà affiancare da 1,5 a 3 euro provenienti dai fondi strutturali per lo sviluppo regionale (Fesr) e sociale (Fse) più il cofinanziamento nazionale. Quindi ad esempio per l’Italia, ai 364 milioni del fondo bisogna aggiungere 1 miliardo e 301 milioni tra fondi e cofinanziamento. Se poi si aggiungono il secondo e terzo «pilastro», in Italia si arriverà a muovere 4,8 miliardi sui 100 miliardi per tutta la Ue ipotizzati dal Meccanismo di transizione giusta. Sono stime della Commissione. Il Meccanismo per la transizione giusta è pensato per sostenere le aree più dipendenti dalle fonti fossili. Per questo noi riceviamo molto meno, ad esempio, della Polonia che incasserà 2 miliardi o della Germania (che ha ancora molto carbone e molta lignite) che prenderà 877 milioni. Quanto al contributo dell’Italia al fondo, pari a circa 900 milioni ovvero al 12% del Reddito nazionale lordo, rientra nelle regole del Bilancio Ue di cui siamo un contributore netto: versiamo più di quanto riceviamo indietro sotto forma di fondi strutturali. Il principio alla base della politica di coesione è aiutare le regioni più arretrate (ad esempio il nostro Sud), ma la nostra è pur sempre la terza economia della Ue e la seconda economia manifatturiera dietro alla Germania.
Enrico Marro per ilsole24ore.com il 14 gennaio 2020. «Siamo sull’orlo di una completa trasformazione della finanza», perché il climate change obbliga gli investitori «a riconsiderare le fondamenta stesse della finanza moderna». Parola di Larry Fink, co-fondatore, ceo e presidente di BlackRock. E se lo dice l’uomo che siede nella poltrona più alta della maggior società di asset management mondiale, con quasi 7mila miliardi di dollari in gestione, qualche motivo per drizzare le antenne c’è.
La finanza cambierà molto prima del clima. Nella sua lettera annuale ai ceo, che Il Sole 24 Ore ha avuto modo di visionare in anteprima, Fink mette nero su bianco come il cambiamento climatico stia portando a una profonda rivalutazione del rischio e del valore degli asset. «E poiché i mercati dei capitali anticipano il rischio futuro, registreremo i cambiamenti nell’allocazione di capitali più rapidamente rispetto a quelli nel clima». Quando? «In un futuro vicino, prima di quanto anticipato da molti», annuncia il ceo del colosso statunitense.
Impatti sul sistema di crescita economica. Nulla sarà come prima, lascia intendere Fink: nel mondo della finanza vedremo cose che fino a ieri non avremmo potuto mai immaginarci. «Il rischio climatico avrà un impatto non solo sul mondo fisico, ma anche sul sistema globale che finanzia la crescita economica», scrive ancora Fink, al quale si aggiunge «l’impatto delle politiche legate al clima sui prezzi, sui costi e sulla domanda dell’economia nel suo complesso». Con le banche centrali che a loro volta stanno diventando sempre più sensibili al tema nella loro asset allocation.
Città, mutui e inflazione nell’era del cambiamento climatico. Ma perché stupirci? Il padre di BlackRock mette in fila alcuni degli interrogativi che stanno tormentando gli investitori di tutto il mondo: le città saranno in grado di far fronte alle nuove necessità infrastrutturali se il rischio climatico ridisegna il mercato obbligazionario degli enti locali? «Cosa succederà ai mutui trentennali - un tassello chiave della finanza - se chi li eroga non è in grado di stimare l’impatto del rischio climatico su un arco di tempo tanto lungo, e se non sussistono opportunità di mercato per le assicurazioni nelle aree interessate»? E ancora: che accadrà all’inflazione, e di conseguenza ai tassi d’interesse, se il costo del cibo aumentasse a causa di siccità e inondazioni? «Come possiamo costruire una crescita economica se i mercati emergenti vedono la propria produttività diminuire a causa di temperature estreme o di altri impatti climatici?»
Il climate change, crisi strutturale senza precedenti. Durante la sua lunga carriera Fink ne ha viste di tutti i colori: dai picchi di inflazione degli anni Settanta alla crisi valutaria asiatica nel 1997, dalla bolla internet di fine millennio alla crisi finanziaria globale del 2008. «Ma anche quando queste situazioni sono durate molti anni, erano tutte, in generale, per loro natura di breve termine - sottolinea il ceo di BlackRock - . Il cambiamento climatico è diverso. Anche se si verificassero solo una parte degli impatti previsti, si tratta di una crisi a lungo termine molto più strutturale. Le aziende, gli investitori e i Governi devono prepararsi per una significativa riallocazione del capitale».
Al via un gigantesco spostamento di capitali. Sempre più clienti stanno cercando di riallocare i propri investimenti in strategie sostenibili, spiega ancora Fink. «Se il dieci per cento degli investitori globali lo facesse - o addirittura il cinque per cento - assisteremmo a massicci spostamenti di capitale». E questa dinamica accelererà man mano che la prossima generazione prenderà il comando, in politica e nel business. «I giovani sono stati in prima linea nel chiedere alle istituzioni - inclusa BlackRock - di affrontare le nuove sfide associate ai cambiamenti climatici. Chiedono alle aziende e ai Governi trasparenza e azione. E mentre migliaia di miliardi di dollari a poco a poco passeranno nei prossimi decenni ai millennial, quando questi diventeranno amministratori delegati e cio, politici e capi di Stato, rimodelleranno ulteriormente l’approccio mondiale alla sostenibilità».
Il capitalismo deve diventare più responsabile. Nell’era del climate change e del conseguente spostamento di capitali, che ruolo deve avere l’asset management? La parola chiave, secondo Fink, è trasparenza. «Tutti gli investitori, insieme alle autorità regolamentari, agli assicuratori e al pubblico, debbono avere un quadro più chiaro di come le aziende gestiscono le questioni legate alla sostenibilità», spiega il ceo del colosso statunitense. «BlackRock ritiene che il Sustainability Accounting Standards Board (SASB) fornisca una serie chiara di standard per la segnalazione di informazioni sulla sostenibilità attraverso una vasta gamma di tematiche, dalle pratiche di lavoro alla privacy dei dati all’etica aziendale», continua il finanziere statunitense. Ma per la valutazione e la comunicazione dei rischi legati al clima, nonché i relativi problemi di governance che sono essenziali per gestirli, Fink definisce «prezioso» pure il quadro fornito dalla Task Force sulle informazioni finanziarie relative al clima (TCFD), fondata tra gli altri dalla stessa BlackRock, anche se riconosce che «rispondere a questi standard richiede tempo, analisi e sforzi significativi».
Gli investimenti sostenibili daranno più soddisfazioni. Fink è comunque convinto che integrare la sostenibilità – in particolare il clima – nei portafogli possa fornire agli investitori i migliori rendimenti corretti per il rischio. «E, in virtù dell'aumento dell'impatto della sostenibilità sui rendimenti degli investimenti, crediamo che l'investimento sostenibile sia il più solido fondamento per permettere al portafoglio dei clienti di crescere».
Se le società sono poco trasparenti. Ma come comportarsi quando le società forniscono informazioni opache, incomplete o addirittura false? Fink ricorda come nel 2019 BlackRock abbia votato contro o negato i voti a 4.800 amministratori di 2.700 società. «Laddove riteniamo che le società e i consigli di amministrazione non stiano producendo informative efficaci sulla sostenibilità o non stiano implementando procedure per la gestione di questi problemi, considereremo i membri del consiglio di amministrazione responsabili», sottolinea il fondatore del colosso della gestione.
Portafogli dall’anima sostenibile. Intanto in una lettera “parallela” a quella ai ceo, diretta ai clienti, il Comitato esecutivo globale di BlackRock annuncia una serie di iniziative che collocano la sostenibilità al centro della filosofia di investimento, dalla costruzione dei portafogli al risk management. Con la possibilità concreta di uscire da investimenti con elevati rischi, «come nel caso di produttori di carbone termico». I vertici del colosso dell’asset management sono peraltro consapevoli del fatto che molti clienti continueranno a preferire le strategie tradizionali, soprattutto quelle che investono negli indici ponderati per capitalizzazione di mercato.
Nino Sunseri per “Libero quotidiano” il 14 gennaio 2020. L'arrivo dell' auto elettrica costerà alla Germania 410mila posti di lavoro entro il 2030. È questa la previsione, decisamente catastrofica avanzata dalla Piattaforma nazionale per il futuro della mobilità (Npm) sulla più importante industria tedesca. Npm è un consiglio consultivo del governo con il compito di studiare i riflessi che avrà sull' occupazione la transizione elettrica. La previsione è decisamente pessimistica considerando che l' auto in Germania occupa direttamente circa un milione di persone, anche se diventano molte di più considerando l' indotto e i settori collegati. Non a caso Handelsblatt che ha pubblicato il rapporto, lo definisce «esplosivo». C' è da chiedersi: quale sistema politico potrà reggere un cambio così pesante di parametro? Già adesso la rivoluzione elettrica sta provocando un bel taglio della crescita in Germania. L' istituto di ricerca di Monaco (Ifo) ha calcolato per il 2019 un impatto negativo dello 0,7%. Brutti numeri che tuttavia contraddicono un dato generale: la domanda mondiale di auto tedesche non è diminuita negli ultimi anni. Anzi aumentata. Del 7,5% nel 2018 e del 2% nel 2019. Ma queste automobili ancora così richieste non vengono più fabbricate negli stabilimenti tedeschi, dove infatti la produzione è calata del 9,3% nel 2018 e dell' 8,9% nel 2019. Anche le automobili vendute in Germania vengono in gran parte prodotte dalle controllate estere. Insomma è solo uno scherzo della statistica. I grandi marchi tedeschi restano i più gettonati del mondo. Anche quando prendono una declinazione italiana: Lamborghini (gruppo Volkswagen) è cresciuta del 43% vendendo lo scorso anno circa 8.500 auto. Non lontano da Ferrari che arriva intorno a diecimila. Insomma che cosa sta succedendo? Semplicemente che con scelta molto determinata i grandi gruppi dell' auto hanno deciso di partire a testa bassa mettendo in gioco immense risorse nonostante margini e liquidità in calo: 50 miliardi nella mobilità elettrica e 25 miliardi nella digitalizzazione nei prossimi cinque anni. Volkswagen, Daimler e Bmw vogliono confermarsi leader della rivoluzione a quattro ruote. Per il 2023 il mercato mondiale delle auto elettriche potrà contare su 150 modelli «made in Germany» dagli attuali 50. Volkswagen cerca il riscatto dal Dieselgate: da un milione di auto elettriche previste entro il 2023 è passata a 1,5 milioni. E non importa se questa marcia comporterà tagli sanguinosi all' occupazione. Un motore a combustione è costituito da 1.200 componenti. Uno elettrico da duecento. Non a caso i tagli si concentreranno in prima battuta sugli ingegneri specializzati nei propulsori tradizionali. Nella seconda ondata, 2025-2030, toccherà alle fabbriche. Per fortuna le previsioni hanno la buona abitudine di non venire mai rispettate. Soprattutto quelle negative. Siccome non esistono crisi annunciate è abbastanza evidente che di fronte al possibile disastro scatteranno gli «air bag» sociali. Tanto più che ci sono da cinque a dieci anni per intervenire. La prima a non essere convinta è l' associazione dei costruttori tedeschi, il Verband der Automobileindustrie (Vda). Giudica le stime di Npm troppo pessimistiche. L' errore consisterebbe nella convinzione che, fino al 2030, non vi sarebbe una rilevante produzione di veicoli elettrici e di batterie in stabilimenti tedeschi e che gli uni e le altre proverrebbero in larghissima parte dall' estero. «Uno scenario estremo e di fatto del tutto irrealistico», ha detto il segretario della Vda Kurt-Christian Scheel, facendo riferimento ai piani annunciati dalle case tedesche, in particolare Volkswagen. Senza contare, ovviamente, che non c' è alcuna certezza sul successo dell' auto elettrica. Almeno nei numeri stimati. Tutto dipende dalla tecnologia. L' auto a guida autonoma è un sogno tramontato. Ci sarà sempre bisogno di un conducente. Poi bisognerà vedere lo sviluppo della domanda di auto elettriche: per ora sono costose e utilizzabili solo in città. Il resto è fantasia.
(ANSA 15 gennaio 2020) - Il nuovo Fondo per la transizione giusta da 7,5 miliardi di euro, presentato ieri dalla Commissione europea, destinerà all'Italia circa 360 milioni di euro. Tuttavia l'Italia, essendo un contributore netto al bilancio europeo, dovrà versarne circa 900 milioni di euro per alimentare il fondo. E' quanto emergerebbe dalle tabelle presentate oggi dall'esecutivo Ue agli ambasciatori degli Stati membri, secondo quanto appreso dall'ANSA. Alla Polonia andranno invece 2 miliardi. Essendo un contributore netto al bilancio Ue come Germania e Francia, l'Italia dovrà versare una quota di risorse maggiore rispetto ai beneficiari netti per alimentare il prossimo bilancio 2021-2027. Da qui discende la stima del contributo di circa 900 milioni per alimentare i 7,5 miliardi di risorse fresche proposte dalla Commissione Ue. La fetta del Fondo di transizione destinata all'Italia, 364 milioni in sette anni, è stata invece calcolata dall'esecutivo comunitario in base a una metodologia che tiene conto di diversi fattori ambientali, occupazionali, e la ricchezza pro capite del Paese. Alla Germania dovrebbero quindi andare 877 milioni di euro, a fronte di un contributo al fondo di circa 1,5 miliardi. La Francia dovrebbe ricevere 402 milioni di euro dal fondo che alimenterebbe con circa 1,1 miliardo. La fetta più alta delle risorse sarebbe invece destinata alla Polonia, beneficiario netto del bilancio, la cui economia dipende ancora fortemente dall'industria del carbone. La Commissione vorrebbe destinare al Paese 2 miliardi (il massimo consentito per un solo Stato membro) dei 7,5 di dotazione. Le varie caratteristiche del fondo, dalla sua dotazione ai criteri di allocazione, dovranno ora essere discusse dagli Stati membri e anche dal Parlamento europeo per trovare un'intesa prima dell'avvio del prossimo periodo di programmazione europea, nel 2021. Dalla discussione sul prossimo bilancio Ue potrebbe anche emergere qualche variazione dei criteri di contribuzione dei vari Paesi al bilancio stesso.
La trappola del Green Deal. Federico Giuliani su Inside Over il 15 gennaio 2020. All’interno del Green Deal si nascondono almeno due trappole clamorose. Breve riassunto sull’oggetto da analizzare: il piano ambientale proposto e approvato dalla Commissione europea guidata da Ursula von der Leyen avrà una potenza di fuoco pari a mille miliardi di euro. Ogni anno, da qui al 2030, sono previsti 10 miliardi di investimenti. Il 10% dell’intera somma sarà destinato a un particolare fondo di transizione energetica (il cosiddetto Just Transition Fund) che avrà il compito di attuare la riconversione economica delle aree europee maggiormente dipendenti dai carburanti fossili. Chi pagherà il conto? La Commissione è stata chiara: “almeno il 25%” del bilancio Ue sarà utilizzato per gli investimenti in settori verdi. I 485 miliardi di euro racimolati in questo modo non sarebbero tuttavia sufficienti per raggiungere gli obiettivi prefissati da Bruxelles, tra cui arrivare a zero emissioni di Co2 entro il 2050. E così altri 115 miliardi di euro arriveranno grazie al cofinanziamento nazionale nell’ambito dei vari programmi collegati ai fondi strutturali europei. Il rimanente arriverà dai finanziamenti messi sul tavolo dalla Banca europea per gli investimenti (Bei) e dai privati, attraverso il piano InvestEu.
L’ennesimo regalo alla Germania. Dopo aver fatto il quadro della situazione è possibile indicare almeno due trappole. La prima riguarda una certa dose di favoritismo rintracciabile nella volontà di Bruxelles di assegnare gli investimenti del Just Transition Fund letteralmente a casaccio. In linea teorica questi soldi dovrebbero aiutare i Paesi europei più poveri. Bene, nella lista dei maggiori beneficiari spicca anche la Germania, uno degli Stati che può contare su un’economia floridissima e che negli anni passati ha avuto tutto il tempo possibile per convertirsi a sistemi più green. Niente da fare: la Commissione farà anche questa volta un favore a Berlino, che quando si tratta di spartirsi benefici è sempre in prima fila.
L’ennesima beffa per l’Italia. Ma la trappola più grande è quella che chiama in causa l’Italia. Restiamo sul Just Transition Fund. Come sottolinea il Corriere della Sera, in base ai criteri spiegati, a rimpinguare le casse del fondo troviamo una percentuale di denari provenienti dal cofinanziamento nazionale. Ogni Stato farà dunque la sua parte: verserà una certa quota e riceverà in cambio determinati benefici. Prendiamo l’Italia. Roma pagherà 900 milioni di euro complessivi, ovvero il 12% del Reddito Nazionale Lordo, per riceverne appena 364. Certo, successivamente si sottolinea che ai 364 milioni bisognerà aggiungere (ovviamente in un secondo momento) i fondi strutturali (Fesr e Fse) e il cofinanziamento nazionale, i quali saranno pari a circa 1 miliardo e 301 milioni. Il ministro per gli Affari Europei, Vincenzo Amendola, ha così riassunto il tutto in una nota: “Le tabelle della Commissione europea, con la previsione di 364 milioni di allocazioni all’Italia a fronte di un contributo pari al 12% del Reddito Nazionale Lordo (vale a dire di circa 900 milioni di euro) sono solo la base per una stima, della Commissione Ue, il cui ammontare potrà salire a circa 1,3 miliardi, crescendo fino a 2 miliardi, una volta aggiunto il cofinanziamento nazionale e trasferite le risorse dai fondi strutturali”. Sarà anche vero, ma al secondo posto della classifica dei maggiori beneficiari (dietro alla Polonia, alla quale andranno 2 miliardi di euro) troviamo la Germania, che intascherà 887 milioni. Meglio dell’Italia andrà anche alla Francia, che porterà a Parigi la bellezza 402 milioni di euro.
Clima, quanto ci costa non fare nulla. Il peso insopportabile delle tasse occulte. Pubblicato mercoledì, 15 gennaio 2020 su Corriere.it da Ferruccio de Bortoli. La nuova commissione europea di Ursula von der Leyen è impegnata nel varo di un ambizioso green deal , di almeno mille miliardi in dieci anni, che dovrebbe portare l’Unione alla neutralità nell’emissione di CO2 nel 2050. Ma come ha fatto notare, in una intervista al Corriere , il vicepresidente Frans Timmermans, tutto dipenderà dalla riforma del bilancio 2021-2027 dell’Unione. Si propone, ma le resistenze dei Paesi nordici sono forti, di applicare agli investimenti verdi una sorta di golden rule che dovrebbe svincolarli dai limiti di bilancio. I capitali, in un mondo sommerso di liquidità, non mancano. I Paesi che godono di tassi negativi (Germania e Olanda ma non solo) potrebbero addirittura far pagare la ripulitura dell’ambiente ai loro creditori. Per l’Italia il discorso è diverso, visto il livello dell’indebitamento, ma le risorse in gioco non sono trascurabili. L’importante è fare presto e bene. È stucchevole parlare sempre di clausole di salvaguardia (che ammontano, ahinoi, a 47 miliardi nei prossimi due anni) e assai poco di lotta al riscaldamento climatico. Anche perché gli strumenti già definiti non sono pochi. Il governo Conte 2 ha già perfezionato alcuni importanti decreti. Si appresta a scriverne altri - soprattutto il Piano nazionale sull’energia e il clima - ma ha comunque stanziato 33 miliardi in 15 anni, cui potrebbero aggiungersi i proventi dell’emissione di obbligazioni verdi e i capitali che potrebbero arrivare da Cassa depositi e prestiti, dalla Banca europea per gli investimenti o dai privati. Si discute sull’acqua, sui limiti al consumo di suolo e su una nuova legge urbanistica (l’ultima è del 1942). Troppe cose per un governo periclitante ma il cantiere è aperto. E sarebbe augurabile che tutte le forze politiche, maggioranza e opposizione, collaborassero al sollecito varo delle leggi sul clima e sull’ambiente. Uno studio di Prometeia indaga sulla incerta rotta europea verso la carbon neutrality nel 2050. Una scommessa comunque necessaria. L’Unione europea però emette solo il 10% della CO2 nell’atmosfera. Gli Stati Uniti - che si sono ritirati dall’Accordo di Parigi del 2015 - il 15%; la Cina il 30%. Dunque, se anche ci riuscissimo, non salveremmo il mondo senza la collaborazione degli altri. Ma come spiega Lorenzo Forni, segretario generale di Prometeia Associazione e docente all’Università di Padova, non abbiamo ragionevoli alternative. Se non quella di affidarci al Fato. Inoltre dev’essere chiaro che la decarbonizzazione ha un costo, anche sociale. Non trascurabile e non suddiviso equamente. Dunque i perdenti della fase di transizione (per esempio gli occupati in settori ad alte emissioni) andranno comunque ricompensati. Anche per non avere forme di rigetto sociale politicamente ingestibili (la rivolta dei gilet jaune insegna). Ed è per questo che il piano europeo prevede un Just transition fund, un fondo per la transizione. Ma è anche vero che gli investimenti verdi creano ricerca, nuove imprese, occupazione qualificata e possono conferire all’Europa un ulteriore vantaggio tecnologico (è già leader) nel controllo delle emissioni e nelle energie alternative. Le politiche per la decarbonizzazione dei Paesi europei sono diverse. La leva fiscale alla produzione (carbon tax) o al consumo (energy tax) è comunque fondamentale. La più alta carbon tax è in Svezia: 120 dollari per tonnellata di CO2 ( anche se copre solo il 40% delle emissioni). Germania e Italia, su questo aspetto, sono le più renitenti. La Commissione europea studia anche l’estensione (per ora è interessato solo il 45% delle emissioni) del sistema dei certificati di inquinamento (European emissions trading system), introdotto nel 2005, e del relativo mercato. Grazie allo sviluppo delle fonti rinnovabili, l’Italia ha un vantaggio stimato in 1,4 miliardi l’anno nella cessione di certificati ad altri Paesi. «Oggi il costo di emettere una tonnellata di CO2, all’interno del sistema dei certificati di inquinamento europeo, è di circa 25 euro - spiega Forni-- per raggiungere la neutralità nelle emissioni si dovrebbe almeno triplicare. L’impatto finale sui prezzi al consumo dipenderebbe da molti fattori, dalla rigidità della domanda, dal livello del risparmio energetico, dall’impatto sulle fonti alternative, comunque sarebbe assai significativo». Lo studio Prometeia, sulle stime del Fondo monetario, indica per l’Italia un possibile rincaro del 134% per il carbone, del 50 per il gas naturale, del 18 per l’elettricità. «Ce lo possiamo permettere? - si chiede Forni -. Ed è chiaro che un simile traguardo non può essere raggiunto con le attuali regole europee sui bilanci degli Stati». L’effetto indotto sulla competitività dei prodotti europei, rispetto a quelli fatti altrove, senza carbon tax, è un altro ostacolo apparentemente insormontabile. La previsione di una carbon border tax, che verrebbe applicata sui prodotti importati nell’Unione, si scontra con oggettive difficoltà di applicazione. «In un quadro generale assai preoccupante un elemento positivo comunque c’è - nota Antonio Navarra, presidente del Centro Euro-Mediterraneo sui Cambiamenti Climatici (Cmcc) -. Negli ultimi anni si è rotta la stretta relazione fra crescita dell’economia e aumento delle emissioni. Queste ultime crescono meno del prodotto mondiale. Ma se smettessimo all’improvviso di aumentare le concentrazioni di CO2 nell’atmosfera, la Terra smetterebbe di riscaldarsi solo tra quindici, vent’anni».
Come ridurre allora lo stock di anidride carbonica già presente nell’atmosfera?
«Si può catturare, mettere sotto terra nei giacimenti vuoti, ma ovviamente tutto ciò non è privo di costi e di problemi di accettabilità sociale. E soprattutto è indispensabile forestare il più possibile, ma anche in questo caso ci sono vincoli e costi opportunità legati al consumo di suolo». La carbon neutrality è un obiettivo, dunque, molto ambizioso. Ma irrinunciabile. Occorrono politiche chiare, rigorose, verifiche puntuali. Solo il piano nazionale italiano per l’adattamento ai cambiamenti climatici, uno dei tanti strumenti di cui si parla poco, prevede circa trecento misure, in larga parte ancora da implementare. Un’Italia più verde è una necessità, un’urgenza, ma anche una straordinaria opportunità di crescita. Basta che sia una priorità, una scelta nazionale, bipartisan. Purtroppo non lo è ancora.
Green Deal, ecco le cifre: all’Italia 360 milioni (ma dovrà pagarne 900). Pubblicato mercoledì, 15 gennaio 2020 da Francesca Basso, inviata a Strasburgo, su Corriere.it. I dettagli del «Fondo per la transizione equa». Polonia e Germania fanno il pieno. Nuovi scenari per l’Ilva. Il disequilibrio però non deve stupire, infatti il nostro Paese è un contributore netto al bilancio Ue. Ma il piano messo in campo dall’Ue è più ampio e articolato e prevede di mobilitare mille miliardi di euro in dieci anni tra investimenti pubblici e privati. Inoltre è prevista una maggiore flessibilità sulle regole che riguardano gli aiuti di Stato, fondamentale per alcuni interventi ad esempio a sostegno della decarbonizzazione dell’ex Ilva. Il Just Transition Mechanism e il Fondo, che rientrano sotto il cappello della politica di Coesione, hanno l’obiettivo di non lasciare indietro nessun territorio in questa rivoluzione green dell’economia europea, che punta a far raggiungere all’Ue la neutralità climatica entro il 2040. Il Fondo si concentra quindi su quelle regioni e quei settori che saranno più colpiti dalla transizione perché dipendenti maggiormente dalle fonti fossili, inclusi carbone, torba e shail oil, oppure che usano processi industriali ad alta intensità carbonica ed emettono notevoli gas serra (ad esempio la produzione dell’acciaio). Infatti primo beneficiario del fondo è la Polonia con 2 miliardi, seguita dalla Germania (che ha ancora molto carbone e lignite) e che riceverà 887 milioni - secondo quanto riferisce PoliticoEu -, la Romania 757 milioni, la Repubblica Ceca 581 milioni, la Bulgaria 458 milioni, la Francia 402, la Spagna 307 milioni. Tutti i 27 Stati membri avranno accesso al fondo, alcuni riceveranno poca cosa. Ad esempio il Lussemburgo 4 milioni. La Commissione ha individuato alcuni criteri per individuare le aree bisognose di aiuto e l’ammontare dei fondi: l’intensità delle emissioni di gas serra del settore industriale a livello regionale (l’intensità delle emissioni e il livello di inquinamento devono essere almeno due volte superiore rispetto alla media europea); il numero di addetti nell’industria in queste aree; il numero di addetti nelle attività di estrazione di carbone e lignite, produzione di torba, produzione di shail oil (petrolio di scisto). È stata presa in considerazione anche la prosperità relativa di ogni Stato membro, per cui i Paesi più ricchi vedranno il loro coefficiente rimodulato verso il basso e i più poveri il contrario. Il nostro Paese è un contributore netto al bilancio Ue, ovvero versa più di quanto riceve dalla politica di Coesione sotto forma di fondi strutturali: nel 2017 ad esempio abbiamo ricevuto indietro 9,8 miliardi di euro e ne abbiamo dati 12. Ma non siamo gli unici. Prima di noi ci sono la Germania (corrisposti 19,6 miliardi, ricevuti meno di 11), la Francia (16,2 miliardi contro 13,5) e il Regno Unito (circa 10,6 contro 6,3). Dopo di noi vengono Svezia, Belgio, Danimarca, Austria, Finlandia e Lussemburgo. I beneficiari netti sono invece Spagna, Irlanda, Portogallo, Grecia e i Paesi dell’Europa dell’Est, con in testa la Polonia. La politica di Coesione è alla base del concetto di Unione europea e ha l’obiettivo di aiutare lo sviluppo delle aree europee più arretrate (ad esempio il nostro Sud) che devono confrontarsi con il Mercato unico.
· Il clima che cambia e l'inquinamento partigiano.
Esce metano dal fondo delle acque artiche: perché per il clima è una pessima notizia. Luca Angelini su Il Corriere della Sera l'1 novembre 2020. La (pessima) scoperta l’hanno fatta i ricercatori internazionali, una sessantina, che stanno solcando le acque del Mare di Laptev, al largo delle coste siberiane, a bordo della nave russa Akademik Keldysh: dal «pendio continentale» - la fascia in cui la piattaforma continentale sommersa inizia a inclinarsi decisamente verso il basso - sta fuoriuscendo metano. E, anche se è al momento difficile valutare l’entità del fenomeno, sembrerebbe la prova che uno degli effetti più temuti del riscaldamento globale, la decomposizione degli idrati nei quali il metano, un gas serra 80 volte più potente della Co2 su un periodo di 20 anni, è rimasto finora congelato, è ormai innescato. E potrebbe alimentare la spirale perversa che in gergo viene chiamata positive feedback: più riscaldamento uguale più rilascio di metano, uguale ancora più riscaldamento globale. In sei punti di monitoraggio lungo un fascia lunga 150 chilometri e larga 10, circa 600 chilometri al largo delle coste siberiane, spiega il Guardian che è riuscito a contattare l’equipaggio via telefono satellitare, i ricercatori sono riusciti a vedere nuvole di bolle rilasciate dai sedimenti. In un punto, alla profondità di circa 300 metri, hanno rilevato concentrazioni di metano fino a 1.600 nanomoli per litro, 400 volte più alte di quelle attese. La causa più probabile di «rottura» degli idrati (o clatrati) di metano è l’intrusione di correnti calde atlantiche. Una «atlanticizzazione» imputabile, a sua volta, ai cambiamenti climatici indotti dalle attività umane. «La scoperta di idrati dei pendii continentali che stanno attivamente rilasciando è molto importante e, finora, inosservata - spiega Igor Semiletov dell’Accademia russa delle Scienze, capo delle missione scientifica -. È una nuova pagina. Potenzialmente potrebbero esserci serie conseguenze climatiche, ma ci servono ulteriori studi prima di poterlo confermare». «In questo momento - aggiunge Orjan Gustaffson dell’Università di Stoccolma, anche lui a bordo della Akademik Keldysh - è improbabile ci sia alcun impatto importante sul riscaldamento globale, ma il punto è che il processo è stato innescato, questo sistema di idrati è stato perturbato e il processo andrà avanti». A peggiorare le cose c’è il fatto che un analogo processo sta accadendo anche sulla terraferma, sempre nelle zone più settentrionali del pianeta, per lo scioglimento del permafrost, lo strato di terreno che dovrebbe rimanere permanentemente ghiacciato. Se ne potrà sapere di più quando i ricercatori torneranno dalla missione e potranno analizzare i dati in vista di una pubblicazione. Intanto, però, il Guardian ricorda che, da gennaio a giugno di quest’anno, le temperature in Siberia sono state di 5°C più alte della media, che lo scorso inverno il ghiaccio marino si era sciolto insolitamente presto e, quando siamo ormai a fine ottobre, non ha ancora iniziato a riformarsi, altro record negativo.
Clima, in Italia nell'ultimo anno 1.665 eventi estremi. Nel 1999 erano stati solo ventuno Clima, in Italia nell'ultimo anno 1.665 eventi estremi. Nel 1999 erano stati solo ventuno. Il mare più caldo, i venti furiosi, il territorio fragile. La penisola è diventata il cuore degli sconvolgimenti ambientali nel Mediterraneo. Stefano Liberti il 23 settembre 2020 su L'Espresso. Il paesaggio è livellato, i fianchi della montagna innaturalmente spogli. Dove c’erano alberi, ci sono solo fusti schiantati. Dove spiccava il verde, c’è il marrone rossiccio della terra che si confonde con i cippi anneriti. I boschi sembrano reduci da un bombardamento a tappeto: migliaia di tronchi giacciono al suolo, accatastati senza ordine come stecchi di un gigantesco gioco di Shanghai. Le radici fuoriuscite dal terreno, rivolte al cielo, somigliano a braccia ferite che chiedono pietà. A polverizzare questi boschi non sono stati gli esseri umani, ma la forza della natura. È successo tutto in una notte, quella tra il 29 e il 30 ottobre del 2018, quando la cosiddetta “tempesta Vaia” ha colpito con violenza inusitata: un vortice di venti che ha superato i 200 chilometri orari, travolgendo tutto quello che incontrava, soprattutto in Veneto, ma anche in Trentino, in Alto Adige, nella parte occidentale del Friuli e in quella nord-orientale della Lombardia. Ha sradicato i fusti dalle radici, facendoli letteralmente volare via e ripiegare su se stessi. Il bilancio finale somiglia a un bollettino di guerra: 41 mila ettari di boschi cancellati, 16 milioni di alberi, 8,6 milioni di metri cubi di legname abbattuti in pochi minuti. Rocca Pietore è l’epicentro della tempesta, il comune che ha contato il maggior numero di danni. I monti che circondano questo borgo del bellunese, adagiato su una strada che si inerpica verso il massiccio della Marmolada, sono un’ininterrotta spianata di alberi caduti. Qui il vento e l’acqua hanno colpito con insolita furia, sconvolgendo il paesaggio e compromettendo i luoghi più iconici della zona: il livello del Lago di Alleghe, rinomato per le sue acque luccicanti, si è alzato di 2 metri a causa dei detriti e degli alberi finiti nel bacino. Poco più sopra i serrai di Sottoguda, il celebre canyon patrimonio dell’Unesco, sono spariti sotto un fiume di fango. «Qui in quei giorni sono scesi 700 millimetri d’acqua. Sono esondati ventiquattro torrenti su trenta che abbiamo nel nostro territorio. E sono caduti 600 mila alberi. Se tieni conto che qui abbiamo 1.200 abitanti, fanno 500 alberi a testa, compresi i bambini.» Questi numeri da capogiro me li dà il sindaco Andrea De Bernardin, un uomo sportivo sulla cinquantina, fisico atletico da montanaro, il capello arruffato e lo sguardo cupo che porta ancora stampati i segni del trauma subito. «È stato come un mini Vajont», dice azzardando un paragone che da queste parti non si fa a cuor leggero: siamo a poco più di 50 chilometri dal luogo dove nel 1963 è crollata la famosa diga, trascinando con sé interi villaggi e la vita di quasi duemila persone. Come sottolinea il sindaco, fortunatamente la tempesta Vaia qui non ha provocato morti: le tre vittime sono state in Trentino e nel Feltrino. Ma ha comunque segnato un territorio intero, che ancora fatica a riprendersi. La tempesta Vaia è stata la manifestazione più eclatante di una mega-perturbazione che in quei giorni ha colpito tutto il Nord Italia. Si è trattato di un vero e proprio tifone, generato da una vasta area di bassa pressione, che ha prodotto mareggiate sulle coste della Liguria, distruggendo il porto di Rapallo e isolando a lungo la località di Portofino. Queste tempeste e questi venti eccezionali sono il risultato diretto dei cambiamenti climatici? «È difficile affermarlo con certezza», risponde Antonello Pasini usando la necessaria cautela dello studioso. «Ma è sicuro che il riscaldamento del mar Mediterraneo libera una maggiore quantità di energia nell’atmosfera e aumenta la possibilità che si verifichino eventi di questo tipo». Questo fisico del clima del Cnr mi tiene un’accurata lezione su dinamiche dell’atmosfera, andamento di cicloni e anticicloni, tornadi e super-celle. Il Mediterraneo si sta scaldando più velocemente degli oceani. Sta aumentando di volume e al contempo liberando calore che rende più probabili i fenomeni estremi. Questo spiega la maggiore incidenza di eventi prima rari sui nostri territori: grandinate di dimensioni inusuali, piogge tropicali, venti devastanti, come quello che ha spazzato via i boschi del Nord-Est.
Acqua alta a Venezia lo scorso novembre. La tempesta Vaia dell’ottobre 2018 ha avuto un’eco enorme, così come l’acqua alta a Venezia del novembre 2019. Per il loro impatto, l’entità dei danni, l’alto valore simbolico, questi due episodi hanno attirato l’attenzione dei media e dell’opinione pubblica. Ma sono solo la punta di un iceberg ben più imponente. Il nostro Paese è sempre più soggetto a questo tipo di accadimenti. «Il surplus di energia presente nell’atmosfera non può che scaricarsi con violenza sul territorio: fenomeni che un tempo erano gestibili diventano così più devastanti» mi dice Pasini. «L’Italia e il Mediterraneo sono un “hotspot climatico”, un luogo dove gli effetti del riscaldamento globale si misurano in modo maggiore che altrove». Per verificare quanto siamo effettivamente al centro di un hotspot, mi affido a un database europeo che registra i cosiddetti «eventi estremi»: tornado, piogge torrenziali, grandinate eccezionali, tempeste di neve, valanghe. Si chiama European Severe Weather Database (Eswd), è accessibile a tutti su Internet e consente di fare ricerche avanzate per singole nazioni e per specifici intervalli temporali. Focalizzo la mia attenzione sull’Italia e sull’anno appena trascorso: nel 2019 ci sono stati 1.665 eventi classificati come «estremi», quasi cinque al giorno. Si tratta perlopiù di fenomeni circoscritti ad aree geografiche limitate e che quindi raramente hanno guadagnato rilevanza sulla stampa nazionale.
Il nubifragio su Verona del 23 agosto. Mi sembra comunque un numero enorme. Confronto allora il dato italiano con quello di Paesi simili a noi per estensione, la Spagna e il Regno Unito. Vedo che in tutto il 2019 nella prima si sono verificati 282 eventi estremi, nel secondo 240, l’85 per cento in meno rispetto all’Italia. Provo allora ad allargare la ricerca su una serie temporale più lunga, spalmata su vent’anni. Registrando il numero di fenomeni estremi nei tre Paesi dal 1999 a oggi, noto in tutti i casi una curva ascendente. Con una non trascurabile differenza: rispetto agli altri, da noi questa linea ha una crescita molto più marcata negli ultimi anni. Senza entrare nei dettagli tecnici, citerò qui i risultati di due anni di riferimento, presi come benchmark decennali: il 2009 e il 1999. Il risultato è il seguente: in Italia nel 2009 si sono verificati 328 eventi estremi, in Spagna 310, nel Regno Unito 79. Nel 1999, in Italia se ne sono registrati 21, in Spagna 25, nel Regno Unito 33. Cosa ci raccontano questi numeri? La prima considerazione è che il fenomeno sta crescendo ovunque. La seconda considerazione - che è invece incontrovertibile e in un certo senso inquietante - è la seguente: il nostro Paese, che prima registrava numeri simili a quelli dei suoi omologhi europei, è oggi nettamente in pole position. È letteralmente nell’occhio del ciclone. Quanta consapevolezza c’è nell’opinione pubblica di detenere questo poco invidiabile primato? Tutti questi eventi estremi, con la loro accresciuta incidenza, vengono di norma etichettati come effetto di un generico «maltempo». Il che di per sé non è errato, ma in un certo senso trascura le cause e ignora il contesto in cui tali fenomeni avvengono. Se il vento, la pioggia, il caldo si abbattono in modo sempre più devastante sui nostri territori è perché sono cambiati i modelli climatici. È sempre Pasini a spiegarmi da fisico dell’atmosfera quali sono le principali novità degli ultimi anni. Innanzitutto è praticamente scomparso l’anticiclone delle Azzorre, che portava stabilità sui nostri territori. Quello che una volta era l’eroe delle nostre estati, che garantiva bel tempo e temperature abbastanza fresche, si è spostato più a nord, seguendo l’andamento delle temperature in rialzo degli oceani. E ha lasciato spazio alla risalita di anticicloni africani provenienti dal Sahara, quindi più caldi. Sono loro i responsabili delle estati sempre più roventi, con prolungate ondate di calore a cui ci stiamo abituando negli ultimi anni, ma anche dell’estremizzazione di altri fenomeni, determinata proprio dal maggior differenziale di temperatura e dalla maggiore quantità di energia termica nell’atmosfera. Il tanto decantato «clima mediterraneo» sta insomma perdendo la sua mitezza e i caratteri che lo rendevano unico. E sta assumendo connotati più vicini a quelli di climi tropicali. A questo punto Pasini mi parla dei cosiddetti “Medicane”. Questo termine tecnico è una contrazione delle parole «“Mediterranean” e “Hurricane”, ed è usato per designare i cosiddetti “uragani mediterranei”, tifoni con venti molto sostenuti che si originano sul mare e possono colpire con violenza anche le coste. Quanto siamo attrezzati ad affrontare questa situazione di maggiore intensità dei fenomeni? Se poco si può fare quando arrivano venti distruttivi come quelli di Vaia, è indubbio che i nostri territori saranno chiamati sempre più a adattarsi a un clima che diventa estremo. Cosa che al momento è ancora lungi dall’avvenire, come dimostra la cronaca quasi quotidiana di smottamenti, valanghe, crolli di infrastrutture determinati anche da manifestazioni climatiche fuori dall’ordinario. La sommatoria di tre fattori - l’accresciuta virulenza degli eventi meteoclimatici, la fragilità del territorio italiano e l’esposizione delle nostre case e dei nostri beni - amplifica gli effetti del cambiamento climatico, rendendo il nostro Paese particolarmente vulnerabile, con un conseguente incremento dei costi umani ed economici. Il fatto di trovarsi al centro di un hotspot climatico ci pone di fronte alla necessità di rivedere tutto il modello di gestione del territorio. Ripensare le nostre città e le nostre campagne, il rapporto con l’ambiente, la rete infrastrutturale, nonché gli assiomi del modello produttivo e agricolo è la sfida enorme a cui siamo chiamati. Una sfida difficile ma non impossibile, a cui dovremo concorrere tutti, come cittadini, rappresentanti dei comparti produttivi, forze sociali e soprattutto esponenti politici, con la sollecitudine che richiede l’urgenza della situazione.
Giovanni Sallusti per ''Libero Quotidiano'' il 25 giugno 2020. Il riscaldamento globale è un fenomeno talmente conclamato, oggettivo e scientifico che in questi giorni porta le temperature addirittura ai livelli di... centocinque anni fa. Sì, ormai l' invasamento gretino, questa peculiare forma del fanatismo contemporaneo che misura l' apocalisse a decimali di gradi Celsius, utilizza con disinvoltura anche notizie e cifre che, prese alla lettera, lo smonterebbero alla radice. Ma la lettera non vale più, gli ecocatastrofisti sanno di poter contare sulla compiacenza dello spirito del tempo (e del meteo). Essendo però da queste parti palesemente fuori moda, ci concediamo quel vecchio vizio da cronisti reazionari, andare nel merito. E proviamo a dirvela per com' è: al Circolo Polare Artico, precisamente nel villaggio siberiano di Verkhoiansk, sabato scorso è stato effettivamente raggiunto un picco-record sui termometri, che hanno segnato 38 gradi. Ovvero, è stato eguagliato l' apice già toccato a Fort Yukon, Alaska, nel 1915, con 37,8 gradi (a meno che i talebani del global warming ci dicano che dobbiamo arrestare l' industria, fermare la produzione, cibarci dei vegetali raccattati nell' orto per 0,2 gradi in più in un secolo, in quel caso ci arrendiamo, e la logica con noi). La traduzione normale, ideologica dell' evento è: nel 2020 fa un caldo anomalo e terribile al Circolo Polare Artico, come già avvenuto durante altre annate della storia umana, per esempio nel 1915. La versione riveduta e corretta secondo i canoni del gretinismo, una forma di bis-pensiero evolutissima, che riesce a capovolgere i concetti e ad avere ragione sempre, per sacralità certificata agli aperitivi eco-chic della meglio gioventù globale intenta a bigiare la scuola perché non ci sono più le mezze stagioni, cambia radicalmente. Più o meno, diventa qualcosa come: il pianeta è a rischio estinzione per colpa di quel suo dannato abitante inquinatore, surriscaldatore, perfino frequentatore di aeroplani (l' incarnazione moderna del Diavolo, per gli accoliti della Thunberg) che è l' essere umano. Non importa che la Siberia sia una porzione della Terra nota per le sue abbondanti escursioni termiche, che a luglio contempli una temperatura minima media di +11°C e una temperatura massima media di +22°C (per cui i 38 è ovvio che siano abnormi, ma non da raffrontare con gli scenari ultrainvernali che associamo spontaneamente al luogo), che il precedente record locale fosse di 37,6% (quindi sostanziosamente equivalente) nel 1988, ben prima che suonasse l' allarme global-gretino. Non importa, per l' apparato propagandistico come scriveva George Orwell in 1984 «la storia era un palinsesto che poteva essere raschiato e riscritto tutte le volte che si voleva». Figuriamoci la climatologia. E allora, ovviamente, è stata la Grande Sorella in persona a lanciare l' allarme sui suoi social. «Verkhoiansk a nord del circolo polare artico in Siberia ha registrato oggi + 38 ° C ...», ha twittato Greta, col tono allusivo di chi annuncia la peste nera, non una giornata più calda del solito in una località situata molto a Nord del globo terracqueo. La consegna è passata giù giù lungo la scala gerarchica delle truppe ecologicamente corrette, fino a raggiungere i gradi più bassi, come ad esempio le nostrane Sardine, che fedeli alla linea hanno subito rilanciato. «Oggi in Siberia il nuovo picco di temperature: 38 gradi. NON possiamo più trascurare questo problema, non riguarda un luogo remoto del pianeta, non riguarda solo pochi di noi, riguarda tutto e tutti». A parte che verrebbe da rigettare il sardinese contro chi lo parla, "remoto" rispetto a cosa? Non c' è qui un inaccettabile odore di pregiudizio etnocentrico, filo-occidentale, quasi suprematista, che misura le coordinate dei posti a partire dalle proprie? Amenità buoniste a parte, i pesciolini ringretiniti hanno riassunto perfettamente il dogma dell' attuale fondamentalismo ambientalista. Se in Siberia si pareggia il record di temperature d' inizio Novecento, bisogna subito convocare un' accorata manifestazione antifascista sotto casa. Ora e sempre, resistenza contro l' afa nemica del popolo.
Irene Soave per il “Corriere della Sera” il 23 aprile 2020. La notizia ha guastato la festa ecologista per antonomasia, la giornata mondiale della Terra, che cadeva ieri. È in arrivo presto - entro il 2050 - l' estate fatidica in cui il ghiaccio della regione artica sarà sciolto del tutto. La comunità scientifica è preparata: dal 2013, anno in cui erano state effettuate le ultime rilevazioni complete, si sapeva che il ghiaccio dell' Artide si sarebbe sciolto in una delle prossime estati se le emissioni di anidride carbonica non fossero calate in modo consistente, abbassando quindi la temperatura globale. Un nuovo studio, appena pubblicato sulla rivista scientifica Geophysical Research Letters , dice però di peggio: molto probabilmente capiterà comunque. Il ghiaccio artico sparirà d' estate, cioè, anche se ridurremo le emissioni e quindi il riscaldamento globale, costretti magari a farlo da una pandemia che molti indicano come piaga moralizzatrice dei torti fatti al pianeta. Ridurre le emissioni resta comunque «di importanza vitale», chiariscono i curatori dello studio: se il riscaldamento del pianeta non smetterà di galoppare, la prima inevitabile estate senza ghiaccio sarebbe allora probabilmente seguita da un inverno in cui il ghiaccio non si riformerà, con conseguenze che i ricercatori reputano «catastrofiche». Queste previsioni, che si leggono nell' abstract dell' articolo pubblicato in questi giorni e basato su rilevazioni di 21 centri di ricerca oceanografica di tutto il mondo, sono la traduzione delle proiezioni elaborate da un modello climatologico chiamato Cmip6. Tra i 31 firmatari del paper c'è anche un'italiana, l'oceanografa Dorotea Iovino. Il Cmip6 è l' ultima generazione di una serie di modelli climatologici (il primo è stato messo a punto nel 1995) che sommando dati rilevati sul campo tentano di simulare gli scenari climatici possibili. Le precedenti simulazioni, meno sensibili, erano più ottimiste. Questo modello, scrivono gli scienziati, è «particolarmente sensibile nel predire la variazione della superficie di ghiaccio oceanico rispetto a diverse possibili gradazioni di riscaldamento globale e di emissioni di anidride carbonica». Sono stati simulati 40 modelli. E la maggior parte, spiega Iovino, «prevede che l' Artico si ritroverà libero dai ghiacci a settembre prima del 2050, in tutti gli scenari presi in esame». Compreso quello in cui le emissioni globali fossero ridotte «rapidamente e in maniera sostanziale», ha detto alla stampa il coordinatore dello studio, Dirk Notz dell' università di Amburgo, «riuscendo a rimanere al di sotto dei 2 gradi di riscaldamento rispetto ai livelli pre-industriali. E questa notizia ci ha veramente sorpreso». Lo scioglimento dell' Artico in estate sarebbe «occasionale» in queste condizioni, le migliori possibili; irreversibile se le emissioni non rallentano. Resta imprevedibile, comunque, quando: l' unica indicazione su cui per ora si concorda è che il ghiaccio dell' Artico sparirà entro il 2050. La soglia della «sparizione», per geologi e oceanologi, è fissata al momento in cui la superficie ghiacciata scenderà sotto il milione di km². Oggi è già a un record negativo: le rilevazioni di settembre 2019 hanno misurato 4,15 milioni di km², secondo minimo storico dopo un risultato simile registrato nel 2016. Dal 1979, anno in cui è cominciata la mappatura satellitare della calotta artica, l' estensione del ghiaccio al Polo Nord si è ridotta del 40%, e il suo volume del 70% circa: è il segno più rilevante del global warming. Ma cosa succederà se scompare il ghiaccio al Polo Nord? Non solo innalzamento del livello degli oceani, e danni all' ecosistema di specie già in pericolo, come gli orsi polari. Ma la superficie scura dell' oceano, priva della barriera di ghiaccio, assorbirà più luce e quindi più calore, e il riscaldamento potrebbe crescere in maniera esponenziale.
Greenpeace: lo smog costa al mondo 8 miliardi al giorno. In Italia 56mila morti l’anno per inquinamento. Pubblicato mercoledì, 12 febbraio 2020 su Corriere.it da Antonella de Gregorio. Tra gli effetti evidenziati, l’aumento di patologie croniche, di parti prematuri e di casi di asma, anche tra i bambini. Una situazione critica anche per l’Italia, dove si stima che il costo sia ogni anno di circa 56mila morti premature e 61 miliardi di dollari. Il dato globale sui decessi provocati da questo tipo di inquinamento supera di oltre tre volte il numero di morti causate da incidenti stradali, stando ai dati dell’Organizzazione mondiale della Sanità. Dal dettaglio del rapporto emerge che circa 40mila bambini al di sotto dei 5 anni muoiono ogni anno a causa dell’esposizione a PM2,5 derivato dalla combustione di combustibili fossili, soprattutto nei Paesi a più basso reddito; che ogni anno si registrano 4 milioni di nuovi casi di asma tra bambini, associati all’NO2, prodotto dalla combustione di combustibili fossili nei veicoli, nelle centrali elettriche e nelle industrie; che i bambini nel mondo affetti da sintomi e patologie correlati sono 16 milioni. Che i giorni di assenza dal lavoro per malattia associati all’inquinamento dell’aria sono 1,8 miliardi, con una perdita economica pari a circa 101 miliardi di dollari all’anno. Cina continentale, Stati Uniti e India i Paesi che sostengono i costi più elevati dell’inquinamento, che incide per 900, 600 e 150 miliardi di dollari all’anno. «Ma mentre l’inquinamento atmosferico tossico è una minaccia globale, le soluzioni sono sempre più disponibili e convenienti - si legge nel rapporto -. E molte delle soluzioni all’inquinamento atmosferico sono anche le soluzioni ai cambiamenti climatici». L’organizzazione ambientalista indica energie rinnovabili e sistemi di trasporto di massa alimentati a energia pulita come strategie fondamentali per ridurre l’inquinamento atmosferico tossico e anche per limitare l’aumento della temperatura globale. «È essenziale che il governo italiano non faccia passi indietro sull’abbandono del carbone al 2025, come invece l’ultima versione del Pniec sembrerebbe suggerire», commenta Federico Spadini, della Campagna Trasporti di Greenpeace Italia. «Occorre andare con coraggio e decisione verso le energie rinnovabili, abbandonando false soluzioni come il gas fossile. E anche i grandi attori privati come banche e assicurazioni devono smettere di elargire finanziamenti ai combustibili fossili», conclude Spadini.
Clima, consumo di carne da dimezzare: che fine fa una filiera con milioni di addetti? Pubblicato domenica, 16 febbraio 2020 su Corriere.it da Milena Gabanelli. Secondo la Fao, l’allevamento è l’attività che usa più terra in assoluto: quasi l’80% di tutti i terreni agricoli sono utilizzati nelle coltivazioni per la produzione di mangimi e a pascoli. I professori americani Michael Clark (Università del Minnesota) e David Tilman (Università della California) nel 2017 hanno calcolato quanto suolo è necessario usare per produrre un grammo di proteina animale: per bovini e ovini è necessario 1,02 m2, per il maiale 0,13 e per il pollo 0,08. Per quel che riguarda il consumo di risorse idriche lo studio più approfondito lo ha fatto Water Footprint: un chilo di carne bovina necessita di 15.415 litri d’acqua, che diventano 4.325 per il pollame, 4.055 per i legumi, e 322 per un chilo di verdura. Inoltre i terreni agricoli utilizzati per produrre mangimi stanno eliminando foreste e aree incontaminate, e di conseguenza la biodiversità. Solo la coltivazione di soia ad uso animale, è passata dai 175 milioni di tonnellate del 2000 ai 350 di oggi. Nel 2016 i ricercatori della National Academy Of Science statunitense hanno calcolato l’efficienza energetica della produzione della carne: l’1,9% delle calorie dei mangimi si converte in prodotto animale. Ogni 77 proteine contenute nei mangimi che potrebbero essere usate per l’alimentazione umana, solo 58 finiscono nella bistecca. C’è poi lo spreco. Dai dati Fao oltre il 20% di tutta la produzione annuale viene persa lungo l’intera filiera, a partire dall’azienda agricola, durante il processo di trasformazione e lavorazione, nei negozi, i ristoranti e in ambito domestico. In pratica buttiamo via l’equivalente di quello che oggi mediamente consumano un miliardo e mezzo di persone.Con il miglioramento delle disponibilità economiche, negli ultimi 50 anni il consumo di carne (manzo, pollo, maiale) si è impennato. Negli anni Sessanta il consumo medio a persona in Cina era inferiore a 5 chili all’anno, oggi è salito a 60. In Brasile, invece è raddoppiato dal 1990 a oggi. Fa eccezione l’India dove, pur essendo un Paese in crescita economica e demografica, la mucca rimane sacra: meno di 4 chili all’anno per abitante (ma mangiano più pollo). In Africa centrale e Sud Est asiatico invece non si superano i 10 chili l’anno. Le carni bianche non hanno controindicazioni provate, mentre un’analisi dell’Agenzia Internazionale per la Ricerca sul Cancro basata su 800 studi epidemiologici ha definito le carni rosse come potenzialmente cancerogene (gruppo 2A) e quelle trasformate (affumicate, salate, stagionate) come certamente cancerogene (gruppo 1). L’associazione è stata osservata principalmente per il carcinoma del colon-retto, pancreas, stomaco e prostata, oltre alle malattie cardiovascolari e diabete. In sostanza mangiare drasticamente meno carne rossa protegge la nostra salute e quella del pianeta. Secondo gli esperti si può dare a tutti le proteine che servono aumentando del 20% la produzione di legumi, e l’equivalente valore calorico coltivando più grano, riso, patate, che richiedono anche un minor consumo di risorse (dal 15 al 50%).Il mondo però sta andando da un’altra parte: secondo l’Onu, senza correttivi entro il 2050 il consumo di carne bovina aumenterà del 69%. Parallelamente i forum mondiali si danno degli obiettivi: entro il 2050 bisogna ridurne il consumo del 50%. Ma per invertire la tendenza bisogna fare i conti con l’industria della carne e la sua lunghissima filiera: allevamenti, macelli, trasformazione, confezionamento, trasporti, grande distribuzione, produttori di mangimi, veterinari, farmaci. L’occupazione che ognuno di questi settori garantisce è enorme, ed è impossibile trovare un numero esatto. Esistono solo delle stime fornite da Ismea su dati Eurostat: in Italia gli addetti al comparto bovino sono 257.000, con un mercato da 14 miliardi (Assocarni). Nell’Unione Europea sono 6,9 milioni di occupati. I dati includono anche gli addetti alla lavorazione di carni miste (quindi non solo quelle rosse), ma non contemplano gli occupati del trasporto, grande distribuzione, mangimistica, veterinari, industria dei macchinari e del pellame. A livello globale non esiste nemmeno una stima, se non il valore di mercato: 740 miliardi di dollari. Se per il bene di tutti noi occorre dimezzare gli allevamenti intensivi di bovini, la domanda è: come mantenere l’enorme occupazione dirottandone la metà nella produzione di cibo sostitutivo? Nessuno ha voglia di trovarsi disoccupato per il bene del pianeta, e i Paesi che producono e consumano di più dovrebbero partire da qui con un progetto operativo. Per esempio quanto personale richiede la filiera industriale della produzione di legumi, che andrebbe aumentata del 20%? Per ora ci sono solo i suggerimenti della Fao: rimuovere i sussidi economici statali al settore zootecnico nei paesi più sviluppati, riconvertire i terreni dove le produzioni di mangimi stanno sfigurando il pianeta, e contemporaneamente dare più attrezzature a quelle popolazioni dove c’è un allevamento di sussistenza per renderlo più profittevole. Va detto che l’agricoltura italiana, incluso il settore zootecnico, è una delle più sostenibili in Europa per quel che riguarda le emissioni di gas serra: il 23% in meno rispetto alla Spagna, il 55% della Germania e 61% della Francia. Siamo però lontani dal processo di riconversione. Potrebbe essere innescato dai consumatori: se cominciamo a modificare le nostre abitudini alimentari con una dieta più sana, l’industria di adegua, poiché è noto che il mercato segue sempre la domanda.
Antartide: temperatura sopra i 20 gradi, nuovo record assoluto. Pubblicato giovedì, 13 febbraio 2020 su Corriere.it da Paolo Virtuani. In Antartide fa caldo come in Norvegia, a Bagdad nevica e sulle Alpi sbocciano le primule. Il primato assoluto al Polo Sud è stato registrato con 20,75 gradi alle 13 (ora locale) del 9 febbraio alla base argentina Marambio sull’isola Seymour (64°14’ di latitudine Sud) di fronte alla Penisola Antartica. Il 6 febbraio in un’altra base argentina, quella di Esperanza (63°24’ di latitudine Sud) nella Penisola Antartica, è stata registrata una temperatura di 18,3 gradi, il record per il corpo del continente antartico, battendo il precedente primato di 17,5 °C di cinque anni fa. Questi dati devono ancora essere validati dall’Organizzazione meteorologica mondiale. Il Polo Sud sta vivendo l’estate australe più calda della storia. La base Marambio si trova a oltre 2.800 chilometri dal Polo Sud (la stessa distanza della Finlandia centrale dal Polo Nord), ma geograficamente fa parte dell’Antartide, come tutto ciò che si trova sotto i 60 gradi di latitudine Sud. Il continente più meridionale è tra le zone che stanno subendo i maggiori sconvolgimenti dovuti ai cambiamenti climatici. Dopo due anni e mezzo alla deriva l’iceberg gigante A-68, grande come la Liguria, sta lasciando i limiti del mare ghiacciato. Pochi giorni fa si è staccato un altro grosso iceberg di oltre 310 chilometri quadrati dal ghiacciaio di Pine Island, uno dei due insieme a quello di Thwaites tenuto sotto controllo dagli scienziati per l’accelerazione della fase di scioglimento, che potrebbe provocare l’innalzamento dei mari di diversi metri. In Norvegia il 2 gennaio nella località di Sunndalsøra si sono raggiunti i 19 gradi, superando il record per la temperatura norvegese di gennaio che era di 17,9 °C. Per gli esperti meteo locali l’inverno in Norvegia si sta accorciando di 14-30 giorni. A metà gennaio è nevicato sui monti Madian, in Arabia Saudita. Martedì Bagdad si è svegliata sotto la neve, seconda volta in 112 anni (la prima è stata nel 2008). Lo scorso gennaio è stato il gennaio più caldo mai registrato in Europa con temperature di 3,1 gradi sopra la media di riferimento (1981-2010), con punte di +6 °C. In Russia ritengono che quest’anno «l’inverno non ci sia mai stato».
Macron sul ghiacciaio. «La mia battaglia green». Pubblicato giovedì, 13 febbraio 2020 su Corriere.it da Paolo Virtuani. «Questa è la battaglia del secolo». Di buon mattino, con una giacca a vento con i colori della bandiera francese, Emmanuel Macron si è affacciato giovedì sulla balconata che sovrasta il Mer de Glace, ghiacciaio che scende dal versante nord del Monte Bianco, il più grande di Francia e il secondo delle Alpi. «Qui si possono toccare con mano i cambiamenti climatici. Non immaginavo uno scioglimento così rapido. Ci si rende conto come gli effetti delle mancate decisioni (sul clima, ndr) sono arrivate fin quassù», ha aggiunto guardando le rocce grigie che emergono dall’enorme lingua ghiacciata dopo uno degli inverni con meno neve di sempre sulle Alpi. «Credo molto in questa battaglia, sarà lunga ma darà risultati concreti», ha proseguito. «Dovremo inventarci un nuovo modello di vita per conciliare ambiente, crescita e sviluppo economico». Macron ha annunciato venti nuove riserve naturali nazionali (Monte Bianco compreso), quattro parchi regionali, due parchi nazionali (uno in Guyana), 250 mila ettari di boschi nei prossimi due anni e la nascita dell’Ufficio francese per la biodiversità. Il presidente francese è stato però accolto a Chamonix da 250 manifestanti che gli hanno rinfacciato «la visita da commedia», «la parata per avere una foto da copertina» e per cercare una sponda con il mondo ambientalista alla vigilia delle elezioni municipali di marzo che vedono Les Verts in crescita. Per alcuni sondaggi sarebbero il primo partito di Francia, mentre per altri il loro «trionfo annunciato» non sarebbe così sicuro anche se potrebbero espugnare il municipio di Lione. Una delegazione del governo valdostano avrebbe voluto incontrare Macron, ma da Parigi hanno fatto sapere che il presidente avrebbe incontrato solo rappresentanti francesi. «È venuto a versare lacrime di coccodrillo quando il governo non rispetta gli accordi climatici e le emissioni di CO2 sono aumentate», ha detto l’ambientalista Pierre Delpy. Il presidente della Regione e il sindaco di Chamonix hanno chiesto a Macron di regolamentare i camion nel traforo del Monte Bianco. «Non posso vietare il transito dei camion», ha replicato il presidente. «Mi dispiace che gli annunci non siano stati all’altezza delle questioni in gioco», ha aggiunto Arnauld Gauffier, direttore programmi di Wwf Francia. Il giorno prima Macron aveva infatti annunciato una serie di «misure concrete» che avrebbe lanciato dalle pendici del Monte Bianco. La visita era nata dopo la lettera inviata a settembre dal sindaco di Saint-Gervais-Les-Bains. «Va bene occuparsi dell’Amazzonia, ma non è più tollerabile la mancanza di rispetto di alcuni turisti sul Monte Bianco», scriveva il sindaco. Il 31 agosto un ex Marine inglese aveva cercato di scalare la vetta più alta d’Europa portandosi sulle spalle un vogatore di 26 chili. Dopo aver rischiato la vita, lo aveva abbandonato a 4.300 metri tornando a valle. Poi un tedesco aveva tentato di salire in cima con il suo cane nonostante la Gendarmeria avesse cercato di farlo desistere. Al rientro l’animale aveva le zampe sanguinanti. Macron prima di lasciare la valle non ha tralasciato una stoccata a chi vorrebbe tutto e subito: «L’ambientalismo talvolta si trasforma in impazienza e collera, servono invece azioni concrete ogni giorno». «Ha voluto darsi una mano di verde», ha risposto Julien Bayou, segretario nazionale del Partito ecologista.
L’allarme degli scienziati: «Le foreste pluviali assorbono meno CO2». Pubblicato giovedì, 05 marzo 2020 su Corriere.it da Paolo Virtuani. Anche le foreste tropicali di Africa e America, i polmoni verdi del mondo, sono in affanno. Faticano ad assorbire l’anidride carbonica emessa dalle attività umane: rispetto agli anni Novanta la loro capacità di rimozione della CO2 dall’aria è diminuita di un terzo. Ed è anche per questo motivo che il gas serra si è accumulato e ha superato il 3 marzo i 414 ppm (parti per milione). Lo studio internazionale, al quale hanno contribuito un centinaio di istituzioni — per l’Italia hanno partecipato l’Università di Firenze e il Museo delle scienze (Muse) di Trento —, ha ottenuto la copertina di Nature. Un’indagine colossale, che ha analizzato i dati di accrescimento e mortalità di 300 mila alberi in 565 zone di foresta pluviale africana e amazzonica in 30 anni. «Abbiamo contribuito dalla Tanzania con uno studio di un sito specifico», spiega Francesco Rovero, docente di ecologia all’Università di Firenze e collaboratore di ricerca del Muse. «Si è visto che in Africa i dati sono più incoraggianti rispetto all’Amazzonia, dove risulta già dal 2010 un declino della capacità di assorbimento e un pareggio della quantità di CO2 immagazzinata con quella emessa. In Africa, invece, questa soglia sarà raggiunta nel 2030. Le proiezioni su scala globale mostrano, però, che dal 2040 le foreste non solo non assorbiranno più CO2, ma addirittura inizieranno a emettere a loro volta anidride carbonica». Le foreste pluviali sino al recente passato erano in grado di rimuovere fino al 17 per cento delle emissioni umane di CO2, ma negli ultimi dieci anni la capacità di assorbimento si è ridotta e ora non supera il 6%. Quali le cause? «Innanzitutto la deforestazione e la frammentazione delle foreste pluviali intatte, quindi gli incendi e le concessioni minerarie nelle aree forestali», risponde Rovero. Poi ci sono i due principali nemici delle foreste, ambedue determinati dai cambiamenti climatici in atto: la siccità e l’aumento delle temperature. «È vero che se aumenta la CO2 nell’atmosfera i vegetali incrementano la loro biomassa, cioè crescono di più. Ma a temperatura costante: oltre una certa soglia, soprattutto quando aumentano le temperature minime, la funzionalità di assorbimento inizia ad alterarsi e il risultato è una minore crescita complessiva e una maggiore mortalità degli alberi. In sostanza — conclude Rovero — lo studio indica che si sta riducendo di molto la finestra temporale a nostra disposizione per arrivare a emissioni zero. Altrimenti nemmeno le foreste potranno aiutarci».
«Un quarto delle spiagge del mondo sparirà a causa dei cambiamenti climatici». Pubblicato martedì, 03 marzo 2020 su Corriere.it da Luca Zanini. Dunque, mentre Gran Bretagna e Australia lanciano l’allarme prefigurando un drammatico cambiamento delle loro linee costiere, anche l’Italia non rischia poco: uno studio pubblicato su Nature Scientific Reports sostiene che i porti di Napoli e Salerno, il tratto costiero della Piana del Sele, il porticciolo di Scario sono a rischio inondazione per l’innalzamento del Mediterraneo. L’Osservatorio sui cambiamenti climatici di Legambiente stima in 40 le aree costiere italiane «ad alta vulnerabilità che corrono il rischio più alto di essere inondate». I ricercatori dell’Enea osservano che «rischiano di finire sommersi dal mare, in assenza di interventi di mitigazione e adattamento» ben 5.600 chilometri quadrati (oltre 385 km lineari) di costa italiana: Fabrizio Antonioli (Enea) osserva che in 4 aree della nostra penisola l’innalzamento del livello del mare sarà preoccupante. A rischio Nord Adriatico, golfo di Taranto, golfo di Oristano e Cagliari, dove avremo aumenti da un minimo di 53 centimetri a un massimo di 97 centimetri. Entro il 2100. Intanto, scrive il quotidiano britannico The Guardian, le prime ad essere più pesantemente colpite saranno le spiagge intorno al Mar Egeo: si prevede probabile la perdita di arenili-paradiso (anche non sabbiosi) a Xanthi, Izmir, Rodi, Kos, Creta e nel Peloponneso. Quanto alla Gran Bretagna, «nel migliore dei casi il Regno Unito perderà 1.531 chilometri di spiagge — scrive sul giornale di King’s Cross Stefano Valentino — ovvero il 27,7% della sua costa sabbiosa». Stima che, nelle previsioni più fosche, i sale a 2.415 chilometri di sabbie divorate dal mare (il 43,7%). Dall’altra parte del globo, il sito Western Australia Today scrive che — nel continente già flagellato quest’anno da incendi, inondazioni e repentini mutamenti di temperature — sono oltre 12 mila i chilometri di spiagge sabbiose minacciati dall’innalzamento del livello degli Oceani entro fine secolo (14 mila e 849 secondo The Guardian). Se poi si guarda oltre, al 2100, gli arenili sommersi o distrutti saliranno a 21 mila chilometri, il 40% delle spiagge australi. Tutto questo nello scenario meno grave: ovvero si farà almeno uno «sforzo moderato» per ridurre le emissioni di CO2 — come previsto dai protocolli di Cop21 e successivi — così da aver un inquinamento da anidride carbonica che raggiungerà un picco nel 2040 per poi calare nel decennio successivo. Michalis Vousdoukas, oceanografo e ricercatore membro del team Europeo che ha elaborato il dossier, osserva che i cambiamenti climatici sono già in atto da 25 anni, ma stanno accelerando: «Finora, gran parte dell’aumento dei livelli dei mari era dovuto all’espansione termica delle acque più calde ma, da qui al 2050 e oltre, deriverà molto di più dallo scioglimento delle calotte glaciali».«Le proiezioni elaborate dai ricercatori europei — precisa Peter Hannam su WAToday — hanno utilizzato i dati satellitari che hanno seguito i mutamenti delle linee dei litorali dal 1984 al 2015». Analizzando le variazioni di 30 anni, hanno scoperto «che una “parte sostanziale” della costa sabbiosa del mondo è già erosa: una tendenza che potrebbe peggiorare mano a mano che l’intensificarsi dei cambiamenti climatici farà salire il livello dei mari». Nelle prossime tre decadi, da qui al 2050, anche il Canada perderà 14.425 chilometri di coste sabbiose; seguito da Cile (6.659 km), Messico (5.488 km), Cina (5.440 km) e Stati Uniti (5.530 km). Gambia e Guinea-Bissau hanno una ridotta percentuale di coste fruibili ed entrambe perderanno più del 60% delle loro spiagge. Dicevano che molti di questi calcoli sono legati agli scenari più confortanti. Se invece l’umanità dovesse continuare ad immettere nell’atmosfera CO2 ai ritmi attuali, i livelli di Oceani e mari «aumenteranno di circa 80 centimetri — scrive il Gruppo intergovernativo sui cambiamenti climatici —. E in tal caso finiranno sott’acqua 131.745 chilometri di spiagge, o il 13% della costa libera dai ghiacci del pianeta». Oltre cento metri di litorale saranno coperti dalle acque — scrive nel rapporto Vousdoukas — e la soglia di 100 metri prevista è una stima prudente. Dato che la maggior parte delle spiagge è inferiore a 50 metri — specie vicino agli insediamenti umani e nelle piccole isole di Caraibi e Mediterraneo — il disastro appare quasi inevitabile. Possiamo solo mitigarlo, agendo subito sulla decisa riduzione delle emissioni che potrebbe «impedire il 17% della ritirata del litorale entro il 2050 e il 40% dentro il 2100».
Leonard Berberi per il “Corriere della Sera”l'11 febbraio 2020. Quelli di Virgin Atlantic ammettono la sconfitta. Anche se il distacco è stato di soli sessanta secondi su una distanza di oltre 5.550 chilometri. Ma su Twitter comunque sottolineano come la vittoria dei rivali di British Airways sia stata ottenuta con un velivolo (un Boeing 747) dotato di quattro motori che ha «consumato il doppio del carburante rispetto al nostro nuovo ed efficiente Airbus A350-1000» che di turboventole ne ha due. Quando il volo BA112, partito dall' aeroporto «John Fitzgerald Kennedy» di New York, è atterrato alle 4.43 del mattino (le 5.43 in Italia) a Londra Heathrow domenica scorsa ha battuto un record: coprire le due sponde dell' Atlantico in meno di cinque ore (4 ore e 56 per l' esattezza) e presentandosi nella capitale londinese 102 minuti prima del previsto. Nell' ultimo mese la media è stata di 6 ore e 13 minuti. «Si può dire che è il volo più veloce tra le città», conferma al Corriere via e-mail Ian Petchenik, portavoce di Flightradar24 , ovviamente escludendo il Concorde che impiegava tre ore e mezza. Il Boeing 747 di British Airways ha toccato i 1.328 chilometri orari di velocità in mezzo all' Oceano Atlantico. Com' è stato possibile? In questo periodo invernale si registrano diverse correnti a getto da Occidente e Oriente che spingono i velivoli diretti in Europa. Il velivolo britannico ha realizzato il record sfruttando il flusso d' aria della tempesta Ciara - che ha registrato picchi di 389 chilometri orari - frantumando il primato del gennaio 2018 realizzato dal Boeing 787 di Norwegian Air (con la stessa dinamica) che aveva impiegato 5 ore e 13 minuti. «Diamo sempre priorità alla sicurezza sui record di velocità - chiarisce via e-mail al Corriere un portavoce di British Airways -, ma i nostri piloti altamente qualificati hanno sfruttato al meglio le condizioni meteo per portare i clienti a Londra con largo anticipo». La stessa corrente d' aria ha consentito altri voli velocissimi. Sia sulla rotta New York-Londra: Virgin Atlantic VS4 (4 ore e 57 minuti) e VS46 (4 ore e 59 minuti). Sia tra la «Grande Mela» e l' Italia. L' Alitalia AZ605 per Milano Malpensa ha impiegato 6 ore e 12 minuti con un Airbus A330 (il 9 febbraio) invece di 7 ore e 9 minuti di media, mentre ieri il Norwegian Air DY7024 ha coperto la distanza con Roma Fiumicino in 6 ore e 34 minuti con un Boeing 787-9, due minuti meno della concorrente Alitalia AZ609 con un Boeing 777-200ER. «Non disponiamo di tutto lo storico sull' Italia, ma è probabile che pure questi siano dati record», commenta Petchenik. Il vento forte ha creato problemi negli scali: centinaia di voli sono stati dirottati o hanno dovuto rimandare i tentativi di discesa come hanno potuto vedere gli appassionati in una diretta YouTube durata sei ore su Heathrow. Poi ci sono le tratte Europa-Usa. I velivoli diretti a New York hanno dovuto girare al largo della corrente d' aria - muovendosi più a Nord -, atterrando anche con un' ora di ritardo.
Da leggo.it l'11 febbraio 2020. Meteo, con l'inverno ormai "latitante", mai davvero iniziato sull'Italia, continua l'ondata di clima primaverile anomalo per il mese di febbraio: quella di oggi sarà una giornata decisamente calda su molte regioni italiane, con le temperature che schizzeranno su fino a raggiungere 20 gradi al Nord-Ovest e i 25 gradi in Sicilia, scrive il team del sito ilMeteo.it. Questa ondata di caldo anomalo, una sorta di 'tsunami di caldo', è dovuta sia alla presenza dell'anticiclone che soffia aria mite soprattutto al Centro-Sud e sia ai venti miti occidentali che soffiano sull'Italia. Motivi diversi invece per il Nordovest dove sarà il Föhn a riscaldare il clima con temperature molto vicine ai 20°C (se non anche di più) a Torino, a Cuneo e su molte zone del Piemonte. Di fatto il clima sarà mite e decisamente primaverile anche sul resto d'Italia. Temperature massime tra 15 e 18°C sono attese sul resto delle città come ad esempio a Milano, Firenze, Roma, Bologna, Bari, Palermo, fino a 22°C in Puglia. Il team del sito ilMeteo.it avvisa che già da mercoledì le temperature caleranno di 3-5°C al Nord, ma si manterranno stazionarie sul resto d'Italia. L'anticiclone continuerà a mantenere un tempo pressoché stabile almeno fino al weekend, a parte qualche breve e veloce incursione piovosa tra giovedì sera e venerdì 14.
I giorni della Merla non sono i più freddi dell’anno, ecco perché. Valerio Rossi Albertini su Il Riformista il 6 Febbraio 2020. Perché i giorni di fine gennaio si chiamino della Merla nessuno lo sa con certezza. Facendo un rapido conto, risultano circa a metà dell’inverno. L’inverno dura tre mesi, circa 90 giorni, quindi il centro è circa 45 giorni dopo l’inizio, il 21 dicembre (che astronomicamente corrisponde al solstizio d’inverno). 45 giorni dopo il 21 dicembre… siamo nella prima settimana di febbraio. Il calcolo è facile, sono 35 giorni dopo Capodanno. Tuttavia, a dicembre l’alternanza tra le ore di luce e di buio è irregolare. Pensiamoci. Da una parte, sappiamo che il 21 dicembre è il giorno più breve dell’anno ma, dall’altra, conosciamo anche il vecchio detto “il 13 dicembre, Santa Lucia, il giorno più corto che ci sia”… Perché questa contraddizione? Il motivo è che il 21 dicembre è davvero il giorno più breve, ma il 13 dicembre ha una caratteristica: è il giorno in cui il sole tramonta prima. Però… è anche sorto prima! Ecco i dati. Il 13 dicembre il sole sorge alle 07:50 e tramonta alle 16:27 per un totale di 8:37 ore di luce. Il 21 dicembre il sole sorge alle 07:55 e tramonta alle 16:29 per un totale di 8:34 ore di luce. Perciò il 13 dicembre è il giorno in cui effettivamente il sole tramonta prima, ma il 21 è comunque il più breve, pur se solo di tre minuti. Paradosso risolto. Incidentalmente, questo è anche il motivo per cui si fissa la fine dell’anno al 31 dicembre. L’anno è ciclico, non ha di per sé un inizio e una fine. I cinesi, ad esempio, non fissano il Capodanno una volta per tutte, per loro la data è variabile, come per noi la Pasqua. Il bello è che comunque non cambia niente: l’anno è un rosario con 365 grani (quest’anno 366) e da qualunque punto si comincia a snocciolare, si ritorna allo stesso grano dopo 365 Avemarie. Quindi perché decidere di fissarlo il 31 dicembre? Avrebbe avuto forse più senso fissarlo il 21 dicembre, alla fine dell’autunno, o magari alla fine dell’estate. La scelta del 31 dicembre è probabilmente dovuta a motivi magici o superstiziosi. Le irregolarità di alba e tramonto, a cui si deve l’apparente questione di prima su quale sia il giorno più breve, cessano il 31 dicembre e l’armonia celeste torna a regnare. Il giorno ricomincia ad allungarsi da entrambe le parti: il sole sorge prima e tramonta dopo rispetto al giorno precedente, anziché fare come pare a lui. Quindi sì, statisticamente i giorni della Merla di fine gennaio sono i più freddi dell’anno. O almeno lo erano. È dall’inizio del secolo che le anomalie climatiche hanno spodestato la Merla e sul trono di Frozen si sono seduti giorni lontani dalla fine di gennaio. Prendiamo lo scorso anno. Gennaio mite, maggio da lupi. Alcuni hanno tratto la frettolosa conclusione che un maggio tanto freddo fosse la prova che i cambiamenti climatici sono una bufala. E invece era solo la prova che sono stati graziati agli esami di maturità. Certo, alle scuole superiori non si studia la scienza dei cambiamenti climatici, ma si studia che gli eventi atmosferici sono fenomeni complessi, molto complessi. Il motivo è che l’atmosfera è un sistema fortemente correlato, che in fisica vuol dire che ogni sua parte è influenzata da tutte le altre parti. Un po’ come un castello di carte che, quando fai cascare una carta, viene giù tutto. La caduta di una carta provoca la caduta delle altre carte, anche se molto distanti. Surriscaldamento del pianeta significa che c’è più energia in circolazione e che si possono scatenare fenomeni intensi e contrastanti. Periodi di siccità prolungata, seguiti da piogge torrenziali, ora ribattezzate bombe d’acqua; periodi di caldo anomalo, seguiti da freddo polare. L’origine del surriscaldamento è imputato dagli scienziati dell’ONU, che formano la commissione IPCC, International Panel for Climat Change, all’eccessiva quantità di anidride carbonica rilasciata in atmosfera dalla combustione di materiali organici, primi tra tutti carbone, derivati del petrolio e gas. L’anidride carbonica è quella che produce l’effetto serra (molto più citato, che compreso). Eppure l’effetto serra lo sperimentiamo personalmente, ogni qualvolta parcheggiamo la macchina all’aperto in una giornata fredda, ma assolata. Immaginiamo di avere una berlina e che accanto a noi abbia parcheggiato il proprietario di una cabriolet. I raggi del sole scaldano la tappezzeria della cabriolet, ma il calore così prodotto fugge all’esterno. Quando il proprietario della cabriolet monterà in macchina, non avvertirà una grande differenza di temperatura rispetto all’ambiente circostante. Quando invece noi entreremo nella nostra berlina, sentiremo un calduccio confortevole. Perché? Anche nel nostro caso i raggi del sole, penetrando attraverso il parabrezza e i finestrini, hanno raggiunto la tappezzeria e l’hanno scaldata. Ma stavolta il calore non ha potuto fuoriuscire, perché l’abitacolo è chiuso, ed è quindi rimasto imprigionato all’interno. L’abitacolo si comporta come un thermos. Il fenomeno di surriscaldamento dell’abitacolo dovuto al passaggio dei raggi del sole attraverso i cristalli della macchina, e il conseguente imprigionamento del calore che i raggi producono, è il famigerato “effetto serra”. È chiamato così, proprio perché è questo il meccanismo che viene sfruttato nelle serre e che permette di coltivare piante primaverili in inverno. Lo stesso fenomeno si verifica su scala planetaria. L’anidride carbonica presente in atmosfera, crea uno strato che svolge la stessa funzione del parabrezza: essendo trasparente ai raggi del sole, consente che questi raggiungano la superficie terrestre, dove si convertono in calore, ma il calore non riesce penetrare questo strato e a disperdersi nello spazio esterno alla Terra. In pratica, abbiamo messo una cappotta all’atmosfera, trasformando il pianeta, che era una cabriolet, in una berlina. L’eccesso di calore presente al suolo innesca una serie di processi che coinvolgono tutte le componenti dell’ecosistema, masse d’aria della troposfera e della stratosfera; acque dolci e acque salate; terre emerse coltivate e brulle; ghiacciai terrestri e ghiacciai marini; continenti e isole; latitudini tropicali, fasce temperate e regioni polari. Non si salva nessuno. Però, mentre è facilmente comprensibile che, se c’è molto calore in giro, anche i giorni della Merla possano sembrare giorni di maggio, non è altrettanto evidente il contrario, ovvero che i giorni di maggio possano essere gelidi come (dovrebbero essere) quelli della Merla. Tutto però appare chiaro se si esamina da dove arrivava l’aria gelida che ha assiderato maggio scorso. L’aria proveniva dal Polo Nord ed era scesa alle nostre latitudini riscaldandosi un po’ lungo il tragitto, ma restando sensibilmente più fredda dell’aria primaverile presente prima del suo arrivo. La causa di questa discesa è un fenomeno chiamato “stratwarming”, riscaldamento stratosferico. Sopra il circolo polare esiste una corrente di aria che gira intorno al polo nord, formando come una ciambella rotante intorno all’asse terrestre. Questa corrente è solitamente confinata nella regione polare. Disgraziatamente, a causa del surriscaldamento del pianeta, negli strati alti dell’atmosfera polare si genera a volte una bolla di aria calda. Aria calda in alta quota al Polo Nord! E non parliamo di aumenti di temperatura di qualche grado, ma di decine e decine di gradi. Si sono registrati picchi di aumento di temperatura di oltre 50 gradi in pochi giorni! Questa bolla di aria calda interferisce con la corrente di aria gelida che circola intorno al polo e la scaccia dalla sua sede naturale. Ma siccome siamo al Polo Nord, che per definizione è il punto più a Nord del pianeta, l’unica via di fuga per queste masse di aria polare è verso Sud, alle nostre latitudini. Ed è così che il caldo… può anche produrre il gelo! Nessuna contraddizione, anzi una riprova ulteriore, se si studia bene la fisica.
Paolo Virtuani per il “Corriere della Sera” il 29 gennaio 2020. Non solo non ci sono più le mezze stagioni, ma bisogna aggiornare anche i proverbi. «I tre giorni della merla sono i più freddi dell' anno» deve essere cambiato così: «sono» va sostituito con «una volta erano». Il 29, 30 e 31 gennaio vengono chiamati giorni della merla perché, secondo una delle tante leggende sull' argomento, i merli erano bianchi ma, per ripararsi dal freddo, in quei giorni glaciali una merla e i suoi pulcini si rifugiarono in un comignolo e le loro piume divennero nere per la cenere, tramandando il colore ai propri discendenti. A parte che sono i maschi ad avere piumaggio nero carbone, mentre le femmine di Turdus merula hanno colore nocciola scuro e depongono uova di colore azzurro, sempre più spesso le temperature degli ultimi tre giorni di gennaio smentiscono il proverbio. Quest' anno, poi, con un inverno asciutto e sopra le medie che ha influito sui tassi di inquinamento oltre i limiti in quasi tutte le città del Centro-Nord, la Coldiretti avverte che le mimose sono già in fiore in Liguria e i mandorli in Sicilia. «L' eccezionalità degli eventi atmosferici è ormai la norma anche in Italia, siamo di fronte a un' evidente tendenza alla tropicalizzazione con più elevate frequenze di fenomeni estremi, sfasamenti stagionali, precipitazioni brevi e intense e il rapido passaggio dal maltempo alla siccità», afferma l' associazione degli agricoltori, che oggi manifesterà con i trattori a Verona all' apertura di Fieragricola «contro i ritardi Ue di fronte ai cambiamenti climatici». Ieri la massima è stata di 17 gradi in Sardegna e Sicilia e sulla costa adriatica dalle Marche in giù, ma anche nella fredda Pianura padana non si è scesi sotto gli 8 °C, con minime appena sopra lo zero. Non proprio primavera, ma nemmeno pieno inverno. Ma è proprio vero che i giorni della merla sono i più freddi dell' anno? Il Centro geofisico prealpino di Varese ha compilato un' interessante statistica considerando gli ultimi tre giorni di gennaio. Tra il 1967 e il 2015 la temperatura media è stata di 3,6 gradi, più alta della media del mese che invece è di 2,9 °C. «Statisticamente dopo il 10 gennaio la temperatura tende ad aumentare», segnalano gli esperti. Il 28 gennaio 1982 si raggiunsero addirittura 23,5 gradi, mentre la minima (-8 °C) si toccò nel 1987 e nel 2005. Nel 2016 ci fu un' ondata di caldo anomalo: il 29 gennaio a Milano si registrarono 15 gradi, lo zero termico fu posto a 3.800 metri di altezza. Nel 2018 a causa dell' alta pressione i canali minori di Venezia diventarono un dedalo di fango con una bassa marea di 60 centimetri sotto lo zero del medio mare. Il 30 gennaio dell' anno scorso caddero 10 centimetri di neve sulle pianure di Piemonte e Lombardia. In sostanza, i giorni della merla negli ultimi decenni si sono allontanati (di molto) dalla definizione di simboli delle giornate gelide e ora sono caratterizzati da ampie variazioni di temperature e precipitazioni all' interno di una tendenza al rialzo delle temperature e alla diminuzione delle piogge e delle nevicate. I prossimi giorni saranno soleggiati, con deboli precipitazioni locali, almeno fino a domenica. «Dal 2 febbraio le temperature inizieranno a diminuire», avverte Edoardo Ferrara, meteorologo di 3bmeteo. Il 2 febbraio però è anche il giorno della Candelora e, sempre stando ai proverbi, a Candelora dall' inverno siamo fora. «Di solito quando dicembre e gennaio sono miti, la seconda parte di febbraio e la prima di marzo sono instabili», dice Ferrara. «Ma non è detto che la tradizione venga rispettata ed è prematuro pensare che subito dopo andremo dritti verso la primavera». Infatti, continua il proverbio, se a Candelora piove o tira vento in inverno siamo ancora dentro . Oppure dobbiamo aggiornare anche questo proverbio.
Michele Ainis per “il Venerdì - la Repubblica”l'11 febbraio 2020. Fumus persecutionis è un brocardo che risale al Medioevo. Indica un sospetto di persecuzione, ed è l' ombrello con cui i parlamentari si proteggono dalle inchieste giudiziarie. Invece la persecuzione dei fumatori non è un sospetto, bensì piuttosto una certezza. Che dura almeno dal Seicento, quando il fumo era considerato un rito demoniaco, e dunque per i fumatori in Russia c' erano scudisciate sulla schiena, in India tagliavano loro le labbra, in Cina finivano con la testa mozzata, in Iran gli si versava piombo fuso in gola. Non siamo ancora a questo (e meno male); ma a quanto pare ci avviamo sulla stessa strada. Multe, divieti, immagini horror sui pacchetti di sigarette, castighi della più varia risma. Perfino Erdogan, nel dicembre 2018, ha firmato una legge che introduce la tolleranza zero; dunque nemmeno i turchi possono più fumare come un turco. Alle nostre latitudini, in questa crociata si è recentemente distinto il sindaco di Milano, Giuseppe Sala. Con un annuncio perentorio: a marzo scatterà la proibizione d' accendersi una "bionda" alla fermata dell' autobus o del tram. Dopodiché sarà la volta dello stadio, degli altri spazi pubblici, fino al cortile di casa (entro il 2030). Causa giustificativa dell' editto: l' inquinamento. Non tanto i danni da fumo passivo, non tanto il tappeto di mozziconi spenti che copre i marciapiedi, no: la guerra al fumo è un capitolo della lotta contro le polveri sottili, tant' è che s' iscrive nel nuovo regolamento comunale "Aria-clima". Argomento forse vincente, ma non del tutto convincente. S' espone all' obiezione di Paolo Del Debbio (Libero, 22 gennaio): se è per questo, inquinano di più le flatulenze. Dati alla mano (quelli offerti dall' Human Gastrointestinal Physiology and Nutrition Department di Sheffield), ogni peto contiene il 59 per cento d' azoto, oltre a metano, ossido di carbonio, idrogeno e varie altre sostanze. A Milano, significa 2 milioni di litri di gas al giorno, un' emergenza atmosferica. Insomma, toni incarogniti, da una parte e dall' altra. I fumatori, tuttavia, possono accampare una scusante: ogni limite ha una pazienza, direbbe il buon Totò. E loro sono stati provocati, vessati, bersagliati con rinnovata lena fin dagli anni Novanta, quando prende corpo il nuovo pensiero igienico globale. Una raffica di misure normative che immediatamente si diffonde in lungo e in largo: con le leggi del 1991 e del 1992 in Francia; con il Protection from Tobacco Act del 1991 e con il Libro bianco del 1998 in Gran Bretagna; con la legge generale sul tabacco del 1995 in Austria; con l' Executive Order 13058 del 1997 negli Stati Uniti; con la risoluzione approvata nel 1997 dal Parlamento europeo; con la legge del 1998 in Germania; con il Real Decreto 1293 del 1999 in Spagna; o infine con i 15 provvedimenti normativi, via via più rigidi e severi, approvati in Canada fra il 1986 e il 1999. E in Italia? Ha fatto da battistrada l' ex ministro Girolamo Sirchia, con la legge antifumo del 2003: divieto assoluto in tutti i luoghi chiusi, ad eccezione dei locali riservati ai fumatori. Che peraltro devono poggiare su una superficie minore, più angusta e circoscritta; chissà mai perché, chissà quale ragione superiore impedisca d' aprire un ristorante per soli fumatori. Lui, del resto, avrebbe fatto anche di peggio, chiudendo per sempre i distributori automatici di sigarette, dettando moniti e censure nei film, accompagnando con un sottotitolo le vecchie pellicole di Humphrey Bogart, dove il fumo creava un' atmosfera irripetibile. Proposte estreme, come quella formulata - sempre nel 2003 - da Lancet, autorevolissima rivista medica inglese: mettere il tabacco fuorilegge, trasformando il possesso di sigari e sigarette in un vero e proprio reato. Sarà stato per questo, sarà per le colpe dell' accanimento salutista, che i fumatori hanno smesso d' arrendersi ai propri sensi di colpa. Sicché si ribellano, a partire dai più illustri. In un' intervista del 2006 al Corriere della sera, Andrea Camilleri e Alda Merini risposero all' unisono: «Adesso basta, non ne possiamo più. L' alcol fa più danni del fumo, però nessuno va alla gogna per aver bevuto una grappa dopo cena». Numeri alla mano, avevano ragione: una ricerca Enpam-Eurispes (ottobre 2018) stima 435 mila vittime dell' alcol in un decennio, ben più di quante in Italia ne abbia procurato il consumo di tabacco e droghe. Senza contare la pigrizia: secondo l' Organizzazione mondiale della sanità, uccide quanto il fumo. O tutte le altre abitudini insalubri, come la pastasciutta, che a lungo andare provoca il colesterolo. Dovremmo mettere all' indice anche quella? Per scongiurare questi paradossi non resta che chiedere soccorso alla Costituzione, la regola più alta. Perché il fumo fa male, su questo non ci piove. Tuttavia la nostra Carta (articolo 32) declina la salute come un diritto, non già come un dovere. Significa che ciascuno ha la libertà di farsi male, purché non rechi danno agli altri. Proibire di fumare dentro casa, pena l' obbligo di vendere il proprio appartamento (come stabilì, nel 2002, il consiglio d' amministrazione di un lussuoso condominio di Manhattan), non è solo crudele, è pure incostituzionale. Quanto al fumo all' aria aperta, il dibattito è per l' appunto aperto. Ricordiamoci, però, che tocca oltre dieci milioni di italiani, avranno anche loro dei diritti. E ricordiamo quanto incassa lo Stato italiano dalle accise sulle sigarette: 11 miliardi l' anno, la finanziaria del vizio. Ma è un vizio pure l' ipocrisia di Stato, di chi con una mano ti bastona mentre con l' altra ti incoraggia, giacché altrimenti farebbe bancarotta. E allora, in tempi di proibizionismo forsennato, non c' è che una soluzione: vietiamo di fumare anche allo Stato.
Il governo moralizzatore toglie la libertà del fumo. La maggioranza giallorossa imita Sala e adesso vuole bloccare le sigarette in tutti gli spazi aperti da Nord a Sud: cosa cambia. Ignazio Stagno, Giovedì 23/01/2020, su Il Giornale. I giallorossi non perdono tempo e cavalcano subito la folle idea di Beppe Sala che vuole vietare ai fumatori di godersi una bionda negli spazi aperti e alle fermate dei bus. E così i Cinque Stelle insieme ai renziani hanno già presentato un disegno di legge per estendere il divieto in tutta Italia. E occhio: il divieto riguarda parecchi spazi pubblici. Ecco qui un esempio: vietato fumare negli spazi esterni di bar, pub, ristoranti, spiagge, lidi, parchi, aree di gioco, giardini pubblici, stadi, campi sportivi. Vietato fumare nelle piazze dove si tengono manifestazioni e concerti, nelle banchine di attesa dei treni e alle fermate degli autobus, nei pressi di monumenti pubblici di valore storico ed artistico. Praticamente ovunque. Il disegno di legge è a prima firma del senatore pentastellato Auddino e sottoscritto da quasi l’intero gruppo M5s e da diversi esponenti della maggioranza come i renziani Parente e Nannicini, il senatore Laus e l’ex grillino Buccarella, punta ad anticipare le misure che il sindaco di Milano. Insomma chi fuma verrà ghettizzato e potrà godersi il suo sacrosanto vizio solo (e forse nemmeno lì) tra le mura di casa. Il tutto nel nome della sfrenata rincorsa al buonismo ambientale in salsa "gretina". Una misura simile è già presente in diverse zone d'Italia: Veneto (Bibbione), Lazio (Anzio, Ladispoli, Ponza), Abruzzo (Alba Adriatica), Marche (Pesaro, San Benedetto del Tronto, Sirolo), Sardegna (Olbia, Sassari, Stintino), Liguria (Lerici, Sanremo, Savona), Emilia Romagna (Ravenna e Rimini), Puglia (Manduria e Porto Cesareo), Sicilia (Capaci, Lampedusa, Linosa). E nel disegno di legge viene anche data una descrizione piuttosto forte del fumatore di questi tempi, colpevole di inquinare l'aria. Leggete qui: "È risaputo - si legge nel testo del ddl - come nelle stazioni italiane, all’interno delle quali è già da tempo vietato fumare, molti viaggiatori fumatori approfittino degli spazi esterni, in particolare dei marciapiedi lungo i binari, per accendersi una sigaretta, sia prima di salire che appena scesi dai convogli. Questo comporta indubbiamente una diminuzione della qualità dell’aria, data l’elevata concentrazione di fumatori in uno spazio ristretto seppur all’aperto. Inoltre, la maggior parte dei mozziconi finisce sui binari comportando un evidente stato di degrado e sporcizia delle stazioni". Insomma i moralizzatori al governo adesso hanno trovato un nuovo nemico: il fumatore. Con questo disegno di legge cade l'ultimo baluardo probabilmente della libertà individuale davanti ad uno Stato che adesso posa gli occhi non solo sulle tasche e sui conti correnti, ma anche nel posacenere...
Polveri sottili: primato italiano di morti. A cosa siamo disposti a rinunciare per fermare la strage? Le Iene News il 28 gennaio 2020. L’esposizione alle polveri sottili pm2,5 ha causato nel 2016 la morte di 45mila persone in Italia, con un danno economico per oltre 20 milioni di euro. Siamo il paese peggiore d’Europa, l’undicesimo al mondo. Ognuno di noi a cosa è pronto a rinunciare per fermare questa vergognosa strage? Quarantacinquemila morti per polveri sottili in un anno. Provate a immaginare se una città come Ercolano, oppure come Rovigo, sparisse all’improvviso insieme ai suoi abitanti. Saremmo tutti pronti a impedirlo, giusto? Eppure in Italia, nel 2016, 45mila persone hanno perso la vita a causa dell’esposizione alle polveri sottili pm2,5. Nel silenzio generale e soprattutto delle nostre coscienze. L’aria inquinata uccide decine di migliaia di persone ogni anno nel nostro Paese. A dirlo è un nuovo rapporto di The Lancet presentato presso l’Istituto superiore di sanità, che certifica come l’Italia sia il peggior paese d’Europa e l’undicesimo al mondo. A correre i rischi maggiori sono i neonati e i bambini: e noi cosa siamo disposti a fare per evitare che i nostri figli perdano la vita? Siamo pronti a rinunciare a mezzo grado in più in casa, oppure a prendere la macchina anziché andare a piedi o con la metro? Siamo pronti a informarci di più sui prodotti che acquistiamo ogni giorno, così da scegliere quelli che provocano un impatto ambientale minore? Siamo disposti a cambiare qualcosa nel nostro stile di vita per respirare aria migliore? La colpa di questa drammatica crisi climatica, intendiamoci, non è solo nostra. È soprattutto di chi ha il potere di prendere decisioni importanti e investire denaro che dovrebbe attivarsi per contrastare il grande dramma del nostro tempo. La verità però è che ogni nostra singola azione ha un impatto importante sull’aria che respiriamo, e la somma di tante piccole scelte può fare una differenza enorme tra l’inquinamento e l’aria pulita: in definitiva, tra la vita e la morte di decine di migliaia di persone. Il report presentato all’Iss, intanto, ha già fornito alcune proposte per contrastare questa terribile deriva che ha portato l’Italia a essere fanalino di coda in Europa e nel mondo. Sono quattro le direttrici su cui l’istituto chiede di muoversi: stop all’energia a carbone, finanziamenti per gli investimenti “green”, migliori sistemi di trasporto pubblico e a piedi o in bicicletta, grandi investimenti sanitari. Noi de Le Iene lottiamo da tempo per sensibilizzare quanto più possibile le persone sulla crisi climatica e l’impatto che ha nella vita di tutti i giorni. Solo pochi giorni fa abbiamo intervistato Giovanni Mori, ingegnere, esperto di lotta all’inquinamento e coordinatore del Fridays for Future di Brescia. Con lui abbiamo affrontato la specificità della pianura padana, una delle zone più inquinate del mondo. “La pianura padana purtroppo è in una situazione critica a livello mondiale, è tra le aree più inquinate e il tasso di morti per inquinamento atmosferico è tra i più alti al mondo”, ci ha detto. E a Milano in particolare la situazione è drammatica, tanto che per il 2 febbraio il sindaco Sala ha predisposto lo stop alla circolazione di tutte le auto. “Servono interventi strutturali, ma adesso devo agire”, ha detto il primo cittadino. “Manca una programmazione a lungo termine per affrontare il problema”, ci ha confermato Giovanni Mori. Quali sono questi interventi a lungo termine? “Uno degli aspetti più importanti è il riscaldamento dei palazzi, che contribuisce in modo importante all’inquinamento: non è un caso che questi momenti di massima emergenza avvengano quasi sempre d’inverno quando fa più freddo. L’obiettivo dovrebbe essere quello dell’efficientamento energetico e dell'isolamento termico, che è ancora più efficace”. E tenere banalmente più bassa la temperatura delle case è una responsabilità che ricade su ognuno di noi. “Le misure emergenziali come lo stop alla circolazione sono ben accette ma non risolvono il problema”, ci ha detto Mori. “Il traffico contribuisce in modo innegabile all’inquinamento locale, ma d’altra parte se non ho un sistema in grado di accogliere chi vuole entrare in città senza poter usare la macchina rischio di generare ulteriori problemi”. In attesa di questi interventi strutturali, siamo noi a poter usare di meno la macchina e di più la bici oppure andare a piedi. In conclusione, resta una sola cosa da chiedersi: noi cosa siamo disposti a fare per ripulire l’aria che ogni giorno, in ogni momento, i nostri figli respirano? Il loro e nostro futuro passa anche da questo.
Lega incastra Sala sul blocco delle auto: "È fasullo ambientalista". Mozione della Lega in consiglio regionale della Lombardia per annullare lo stop al traffico deciso dal sindaco di Milano. E Senna lo attacca. Alberto Giorgi, Martedì 28/01/2020, su Il Giornale. "Serve a poco, ma male non fa…". Nonostante abbia ammesso gli effetti risibili nell'ottica di combattere l'inquinamento a Milano, il sindaco Beppe Sala ha comunque annunciato l'intenzione di bloccare il traffico delle automobili sotto la Madonnina. Con il risultato di non abbattere neanche un po' lo smog e di mandare invece in tilt l'intera città, a rischio paralisi per colpo di una misura che si è rivelata ormai essere solo propagandistica e per nulla efficiente contro l'inquinamento dell'aria. E così quella di domenica 2 febbraio sarà la prima domenica senz'auto per i milanesi dal 2015 a oggi. Ai microfoni di Radio Deejay, il primo cittadino ha dichiarato:"Non è che una giornata di blocco totale, tra l'altro bloccheremo il traffico solo dalle 10 alle 18, cambi la situazione…". Ecco, ciò nonostante la su giunta ha optato per lo stop della circolazione. A tirare le orecchie all'inquilino di Palazzo Marino, raccogliendo le istanze di tanti milanesi, ci ha pensato la Lega che oltre a contestare la scelta dell'amministrazione di centrosinistra è riuscita a depositare una mozione urgente in Consiglio regionale contro il blocco del traffico. Gianmarco Senna, consiglio regionale del Carroccio, ha così parlato: "I milanesi sono ormai in balia della pioggia per sapere se il blocco delle auto domenica 2 febbraio ci sarà oppure no, e questa situazione è insostenibile perché sottolinea la totale mancanza di progettualità in tema ambientale". Il presidente Commissione attività produttive di Regione Lombardia ha aggiunto: "Politiche vecchie, fatte di blocchi e divieti, si sono rivelate inutili e dannose. Chiediamo al sindaco Sala di gettare la sua maschera da fasullo ambientalista e di impegnarsi realmente perché Milano diventi una città green, tenendo però conto delle esigenze di chi lavora". Dunque, Senna chiosa: "Il tempo delle promesse (mai mantenute) e delle iniziative di facciata è finito. Ne va della salute dei cittadini…". Duro anche il compagno di partito Andrea Monti, "Il sindaco Sala pensa di poter decidere per tutti gli altri, senza coordinarsi con nessuno, ma soprattutto attuando misure spot, che non risolvono nulla ma servono soltanto ad andare sui giornali…". Nel mentre i valori del Pm10 sono tornati sopra i livelli di guardia e le previsioni del meteo per i prossimi giorni – in cui la pioggia non arriverà – non lasciano scampo alla speranza di potere vedere una sensibile diminuzione delle polveri sottili nell'aria di Milano. E di sicuro costringere i milanesi a tenere nel box o parcheggiate per strada le proprie vetture non è certo il modo per agire in modo sensato e ficcante contro lo smog...
Francesca Bernasconi per ilgiornale.it il 15 Gennaio 2020. La neve cade sulle montagne dell'Arabia Saudita e intanto a Londra fioriscono i mandorli e le rose. Il clima, nell'inverno del 2020, va alla rovescia e il termometro sembra impazzito, portando i fiocchi di neve a ricoprire le gobbe del deserto del Sinai e il sole in Europa che, nelle ore centrali della giornata, rende mite la temperatura. Lo scorso venerdì sui monti Madian, nel Nord-Ovest del territorio saudita, è caduta la neve. Un fenomeno particolarmente raro, nonostante la vetta più alta, il Jabal Al-Lawz (oltre 2.500 metri di altezza), sia sempre ricoperta da una coltre bianca d'inverno. La stessa cosa, però, non accade a bassa quota e l'episodio verificatosi quest'anno è un evento fuori dal comune. Secondo quanto riporta il Corriere della Sera, l'Ufficio meteorologico dell'Arabia Saudita avrebbe consigliato ai cittadini di non avventurarsi in zone isolate e di rifugiarsi al caldo. Il maltempo ha colpito anche Turchia, Iran, dove in inverno le temperature scendono di diversi gradi sotto lo zero, ma anche Afghanistan e Pakistan, dove l'ondata di maltempo, con forti nevicate, piogge e allagamenti, ha causato 48 morti, tra cui diversi bambini. A Kabul, le temperature sono scese fino a -15 gradi Celsius. E se in Arabia Saudita arriva la neve, in Spagna, Francia e Inghilterra fioriscono peschi, mandorli e meli. Ma, a destare stupore sono le rose, che sono sbocciate a Seaford, nell'Est del Sussex, sulle coste della Manica, e anche in molti giardini di Londra e dei dintorni. Secondo quanto riportano gli esperti di 3bMeteo, l'anomalia che ha interessato l'inizio del 2020 "è dovuta a un vortice polare particolarmente forte che sta accentrando tutto il gelo alle latitudini artiche". Il vortice polare è la zona di bassa pressione che si forma al Polo Nord e, girando da Ovest a Est, permette all'aria atlantica di mitigare il clima europeo. Ma, quando la circolazione inverte il senso, "le fredde correnti artiche scendono a Sud".
Marta Bravi per “il Giornale” il 30 gennaio 2020. Norme ridicole, obblighi kafkiani e regole folli ecco il bestiario che i consiglieri comunali di opposizione stanno cercando di «normalizzare» a colpi di buon senso ed emendamenti in consiglio comunale. Tra le prescrizioni più paradossali del «Regolamento per il benessere e la tutela degli animali domestici» varato il 3 agosto dalla giunta guidata dal sindaco di centrosinistra Beppe Sala spiccano «l' obbligo, sancito dall' articolo 10, di assicurare agli uccelli da affezione in cattività la presenza di uno o più compagni, salvo i casi di accertata incompatibilità» o al contrario il divieto di «tenere animali in acquari sferoidali» (pena una multa da 100 a 450 euro)». Gli acquari devono avere una lunghezza pari ad almeno «10 volte la misura della specie più lunga ospitata», mentre ai rettili nei terrari va garantita «al minimo una superficie di 100 centimetri quadrati per ogni centimetro di lunghezza dell' animale». Ma chi controlla? La discussione sulla liceità della norma ha tenuto banco per almeno mezz' ora in consiglio comunale ieri pomeriggio: fatta salva l' inviolabilità del domicilio, secondo il parere della segreteria generale, starà al vigile dotato di mandato di perquisizione, o inviato a controllare i lavori all' interno di un' abitazione o accertare l' istanza di residenza controllare le forme e o le dimensioni di eventuali acquari o terrari. Siete padroni di razze canine considerate «pericolose»? Allora dovrete conseguire un patentino dopo aver frequentato un corso di 3 giorni, obbligatorio anche per imparare a portare a spasso il cane. Come la mettiamo con razze come il pitbull? Non è riconosciuta in Italia...Così se il Comune stila la «black list» per certe razze, vieta allo stesso tempo l' utilizzo del collare a strozzo per i cani perché doloroso e nocivo per la salute dell' animale. Merito della tenacia di Forza Italia, con Gianluca Comazzi se il divieto ora prevede delle deroghe dando la possibilità ai cittadini di scegliere se utilizzarlo o meno per l' incolumità e la pubblica sicurezza. Tradotto: in certi casi deve esserci un modo per il padrone per contenere il proprio animale. Altra norma dal sapore kafkiano è quella che prevede per anziani che vengono ricoverati per lungo tempo o soli, o persone poco abbienti o in difficoltà la possibilità di affidare il proprio animale di compagnia al canile o al gattile comunale, non potendo più occuparsene, previo pagamento della «diaria» per l'animale. Una tassa pari a 3/6 euro al giorno, o una somma tra i 200 e i 500 euro per la cessione dell' animale. Così tra le richieste di modifica del regolamento l' introduzione dell' obbligo per i mendicanti di iscrivere i propri compagni di strada in un registro, pena la multa o il sequestro dell' animale. Obiettivo: limitare lo sfruttamento dei cani per l' accattonaggio. Ancora da discutere la proposta di introduzione del divieto di fumo, dopo quello annunciato dal sindaco Beppe Sala alle fermate dei mezzi, nelle aree cani per «tutelare i bronchi degli animali dai danni del fumo passivo e per una questione di decoro e di igiene: i cani e i proprietari vanno rispettati e oggi non è affatto così. Basta mozziconi, che rischiano di essere ingeriti dai cani con enormi rischi per la loro incolumità». «Più che una discussione sul regolamento, oggi la sinistra ha messo in scena un capolavoro da teatro dell' assurdo. Qualcuno dovrebbe spiegare al Pd che i cittadini non necessitano di essere rieducati con obblighi, divieti e inutili bizantinismi. Chi possiede un animale - commenta Comazzi - sa bene come prendersene cura».
Clima, un secolo di riscaldamento globale in time-lapse. Il video della Nasa. Pubblicato venerdì, 17 gennaio 2020 su Corriere.it da Carlotta Lombardo. È impressionante vedere la spaventosa accelerazione del riscaldamento globale del Pianeta. La mostra, in un video, la Nasa in una mappa che inizialmente non subisce variazioni particolarmente sensibili e verso la fine si colora di arancione e rosso con rapidità estrema confrontando le temperature registrate nel 2016, 4° anno più caldo (ma il più caldo in assoluto in Italia) con quelle degli ultimi decenni a partire dal 19esimo secolo (da quando cioè è iniziata la moderna registrazione), periodo utile a valutare le condizioni climatiche preindustriali. Le analisi della temperatura della Nasa incorporano misurazioni della temperatura superficiale da oltre 20.000 stazioni meteorologiche. La temperatura media globale della superficie è, dal 1880, ora più di 2 gradi Fahrenheit (un po’ più di 1°C) al di sopra di quella della fine del 19° secolo. Secondo analisi indipendenti della NASA e della National Oceanic and Atmospheric Administration(NOAA), la temperatura media globale della superficie terrestre nel 2019 è stata la seconda più calda dal 1880. A livello globale, la temperatura media del 2019 è stata seconda solo a quella del 2016 e ha continuato la tendenza al riscaldamento a lungo termine del pianeta: gli ultimi cinque anni sono stati i più caldi degli ultimi 140 anni. L’anno scorso è stato 0,98°C più caldo rispetto alla media del 1951-1980, secondo gli scienziati del Goddard Institute for Space Studies (GISS) della NASA a New York. «Un problema vero – spiega Luca Mercalli, meteorologo, climatologo e divulgatore scientifico -. L’organizzazione metereologica mondiale dice che abbiamo vissuto il decennio più caldo della storia. Un fatto che ormai dovrebbe essere nel Dna della politica e dell’informazione e che invece è un fallimento continuo. Lo dimostra anche il fallimento della Conferenza sul clima di Madrid che, alla fine, non ha portato a nulla. Dobbiamo consumare e sprecate di meno, in tutti i settori, e passare dalle energie fossili a quelle rinnovabili il primo possibile».
Lo scioglimento dei ghiacci risveglierà i virus di 15mila anni fa? Le Iene News il 17 gennaio 2020. Un gruppo di scienziati cinesi e statunitensi ha rilevato due campioni di ghiaccio nell’Altopiano del Tibet con dentro 33 virus. Questi agenti patogeni pericolosissimi potrebbero essere rilasciati a seguito del riscaldamento globale e dello scioglimento del ghiaccio, mettendo a rischio la nostra vita. Allarme scioglimento ghiacci: un gruppo di scienziati cinesi e statunitensi ha scoperto che a causa del riscaldamento globale potrebbero essere rilasciati 33 virus che risalgono addirittura a 15mila anni fa. Alcuni di questi, addirittura, non erano mai stati catalogati prima. Gli scienziati sono arrivati a questa terrificante scoperta campionando ghiaccio tibetano risalente appunto a 15mila anni fa. “Come minimo, tutto questo potrebbe portare alla perdita di archivi microbici e virali, ma nel peggiore dei casi, lo scioglimento del ghiaccio potrebbe rilasciare agenti patogeni nell'ambiente", dicono gli scienziati all’AGI. Non è però la prima volta che l’umanità si trova di fronte a un problema simile: nel 2016 in Siberia lo scioglimento dei ghiacciai ha rilasciato il microbo dell’antrace. Un’infezione batterica molto rara ma fatale, che ha contagiato 8 persone durante il periodo di attività del focolaio. Noi de Le Iene ci siamo occupati dei pericoli legati al riscaldamento globale nel servizio che potete vedere qui sopra. “Il modo in cui abbiamo affrontato i cambiamenti climatici è particolarmente stupido, perché abbiamo un problema enorme, ma non ce ne stiamo occupando”, ci ha spiegato l’esperto Simone Molteni. I gas come la Co2, l’anidride carbonica, intrappolano il calore del sole, trasformando il nostro pianeta in una sorta di gigantesca pentola a pressione. Non solo, noi abbiamo approfondito anche il tema dello scioglimento dei ghiacciai, anche in Italia: “Sulle Alpi hanno perso il 50% della loro superficie nell’ultimo secolo ed entro i prossimi 20-30 anni, diciamo entro il 2050, potrebbero scomparire sotto i 3.500 metri”, dice Renato Colucci, glaciologo del Cnr, Consiglio Nazionale delle Ricerche. Simone Molteni, direttore scientifico di LifeGate, ci aveva già avvertito nell’ottobre scorso di questi rischi, nel servizio che potete vedere qui sopra: “Le Alpi hanno sempre avuto un gran numero di ghiacciai: scompariranno tutti quelli sotto i 3.600 metri. Per farla semplice, i posti dove io andavo a sciare da piccolo non ci saranno più e non ci potrò portare i miei figli”.
Il riscaldamento globale renderà più frequenti le morti tra i giovani. Le Iene News il 15 gennaio 2020. Secondo una ricerca pubblicata su Nature Medicine, un aumento di 1,5 gradi della temperatura globale avrebbe un pesante impatto sulle morti tra i giovani, soprattutto uomini. Noi de Le Iene ci occupiamo da tempo di tutti i danni che il riscaldamento rischia di provocare a noi e al pianeta. L’aumento costante delle temperature causato dal cambiamento climatico rischia di provocare un aumento delle morti dovute a infortuni mortali, in particolare tra i giovani uomini. La conclusione è contenuta in uno studio pubblicato sulla rivista Nature Medicine, che potete leggere cliccando qui. Gli studiosi hanno preso in esame i dati sulla mortalità e le variazioni di temperatura negli Stati Uniti tra il 1980 e il 2017, e i risultati a cui sono arrivati sembrano in qualche modo curiosi. L’obiettivo era infatti quello di capire se all’aumento della temperatura causato dal riscaldamento globale corrispondesse un aumento delle morti. E la risposta è stata positiva: se la temperatura del pianeta aumenterà di un grado e mezzo, come previsto dalla Cop21 di Parigi, ci saranno 1.601 morti in più. I ricercatori però non si fermano qui, ma si spingono perfino a quantificare quali tipi di morte aumenterebbero: scopriamo così che l’84% dei decessi aggiuntivi riguarderebbe solamente uomini tra l’adolescenza e la prima età adulta. Questi potrebbero, sempre secondo i ricercatori, affogare più spesso, avere più incidenti stradali e persino essere più soggetti ad aggressioni e ai suicidi. Ma quali sarebbero le cause dietro a tutto questo? Sembra esistere una correlazione diretta tra l’aumento delle temperature e maggiore propensione a tenere comportamenti a rischio: bere di più, guidare in modo imprudente, avere più frequentemente scatti d’ira. "Dobbiamo rispondere a questa minaccia con una migliore preparazione in termini di servizi di emergenza, supporto sociale e avvertenze sanitarie. La comunità della salute pubblica tende a dimenticare che i decessi per infortunio sono in realtà un fattore piuttosto importante nella mortalità generale" ha affermato il prof. Ezzati al Guardian. Un altro problema dunque, seppure a primo impatto possa apparire curioso, causato dal surriscaldamento globale e dall’azione dissennata dell’uomo contro il pianeta Terra. Un tema, questo, di cui noi de Le Iene ci siamo occupati spesso come potete vedere nel servizio qui sopra della nostra Nadia Toffa.
Da ilmessaggero.it il 28 gennaio 2020. Locuste, è emergenza: il flagello biblico sull'Africa orientale. L'invasione delle locuste, nell'immaginario collettivo occidentale, è relegata alla Bibbia e alle «dieci piaghe d'Egitto». Ma si tratta di un ricorrente flagello reale in Africa e stavolta sta colpendo quella orientale nella maniera più grave degli ultimi decenni con pesanti rischi per l'approvvigionamento di cibo dell'intera area. Allarmi sulle « locuste del deserto» stanno venendo in questi giorni dalla Fao, l'Organizzazione delle Nazioni Unite per l'alimentazione e l'agricoltura, che chiede al mondo 70 milioni di dollari di aiuti per combattere con pesticidi l'invasione in corso di ampie zone di Etiopia, Somalia e Kenya. Gli sciami sono composti da milioni e a volta addirittura miliardi di questi grossi insetti e ne è stato visto uno grande come la superficie di Mosca, riferisce il Financial Times. Il flagello minaccia di devastare anche Uganda e Sudan del Sud, Paese già piagato da sei anni di guerra civile. Si tratta della peggiore invasione di locuste in Kenya degli ultimi 70 anni e senza precedenti da un quarto di secolo in Etiopia e Somalia. Un primo allarme della Fao era scattato già a novembre a causa di piogge insolitamente intense cadute l'anno scorso sui terreni semi-desertici in cui si annidano le locuste, insetti che vivono solitari ma in determinate condizioni formano enormi sciami migratori di diversi colori (questa volta il loro colore è rosa). Questi insetti divorano cibo per il peso del proprio corpo, ossia circa due grammi, ogni giorno, ricorda il sito Locust Watch della Fao. Sembra poco, ma uno sciame delle dimensioni di Parigi può mangiare quotidianamente la metà del cibo consumato dall'intera popolazione francese. Uno sciame di un chilometro quadrato comprende circa 40 milioni di locuste. Distruggendo i raccolti esse «minacciano la sicurezza alimentare della intera subregione», ha avvertito la Fao mettendo in guardia che, senza interventi, il numero delle locuste potrebbe esplodere di 500 volte entro giugno, quando poi la siccità dovrebbe limitare la loro diffusione. In Africa peraltro tutto è più complicato: il ministro dell'Agricoltura ugandese, Aggrey Bagiire, ha segnalato che la situazione è fuori controllo e gli interventi antiparassitari sono difficili nel confinante Kenya a causa dei problemi di sicurezza sulla frontiera della Somalia, Paese con zone infestate da un altro flagello: i jihadisti al-Shabaab.
Irene Soave per corriere.it il 27 gennaio 2020. Nell’anno del clima impazzito, con l’Australia e l’Amazzonia in fiamme, sembrano arrivare come un’altra piaga biblica: milioni di locuste, a sciami grandi come città, stanno divorando alberi e coltivazioni del Kenya, della Somalia, dell’Etiopia. È l’invasione peggiore degli ultimi 70 anni in Kenya, e degli ultimi 25 negli altri due Paesi, già messi in ginocchio dalla fame: il numero spropositato di insetti, spiega la Fao che ha istituito un «Osservatorio Locuste», è direttamente legato alle temperature record di quest’anno e alle piogge, altrettanto inusitate, della fine del 2019. Insomma, al cambiamento climatico. «La situazione è estremamente allarmante», ammonisce la Fao, «ed è una minaccia senza precedenti alla sicurezza alimentare dell’area». Servono «almeno 70 milioni di dollari» per nuovi aerei in grado di sorvolare la zona colpita spruzzando pesticidi, unico mezzo noto per combattere gli sciami. Ma si teme che l’emergenza che non potrà che aumentare: quando le piogge arriveranno e la vegetazione si farà rigogliosa, prevede l’agenzia delle Nazioni Unite, gli sciami già fuori controllo potrebbero aumentare di 500 volte. Per la Ong Save the Children, 4 milioni di bambini rischiano la vita.
I danni delle locuste. A differenza delle cavallette, le più grandi locuste sono animali migratori, capaci di percorrere grandi distanze (anche 150 km al giorno). Si muovono a sciami: uno sciame piccolo misura circa un km quadrato, ma ce ne sono di grandi centinaia di km quadrati, come una città: per ogni km quadrato ci sono fra i 40 e gli 80 milioni di locuste. Ognuna può mangiare quotidianamente una quantità di cibo equivalente al proprio peso, circa due grammi: uno sciame piccolo può mangiare in un giorno il cibo di 35 mila persone, e uno delle dimensioni di Parigi — ne esistono — può mangiare il cibo di metà della popolazione della Francia.
Tentativi di contenere il danno. «La velocità della diffusione dei parassiti e la dimensione delle infestazioni sono così oltre la norma che hanno portato al limite le capacità delle autorità locali e nazionali», si legge sul sito dell’Osservatorio della Fao. Reti giganti per proteggere il raccolto, pompe d’aria e addirittura lanciafiamme sono tra le soluzioni proposte per affrontare l’emergenza, scrive l’agenzia. Ma l’unica veramente efficace, e per cui servono soldi, è il «controllo aereo», cioè spruzzare insetticidi dall’alto. Il Kenya dispone di una flotta di quattro aerei per tutto il Paese; lo stesso per l’Etiopia; naturalmente sono mezzi insufficienti per l’emergenza scoppiata quest’anno.
Da dove arrivano gli sciami. Gli sciami si sono diffusi dallo Yemen attraverso il Mar Rosso. Le piogge alla fine del 2019 hanno creato le condizioni ideali per far prosperare i parassiti e il problema potrebbe peggiorare. Oltre al crescente numero in Africa orientale, infatti, le locuste si sono riprodotte anche in India, Iran e Pakistan, e in primavera potrebbero trasformarsi in nuovi sciami. A rischio sono anche Sud Sudan e Uganda.
Riscaldamento globale, Nicola Scafetta: "Dietro la mano dell'alta finanza, mira a far soldi con l'emergenza". Pietro Senaldi su Libero Quotidiano il 28 Gennaio 2020.
Professor Scafetta, perché fa caldo?
«La verità è che non lo sa nessuno. Caldo e freddo si sono sempre alternati nella storia del pianeta».
A causa dell' uomo?
«L' uomo fa parte del sistema ma non c' è accordo tra gli scienziati su quanto egli contribuisca al cambiamento climatico. Periodi caldi e freddi si sono alternati pure quando l' uomo non esisteva ancora o quando comunque non c' erano problemi di emissioni di anidride carbonica da combustibili fossili. Settemila anni fa, sulle Alpi, i ghiacciai erano molto ridotti e sono stati trovati alberi cresciuti ad altitudini di 100 o 200 metri superiori a quelle dove crescono oggi».
Ma qual è il principale responsabile dei cambiamenti climatici?
«Il Sole. Quando c'è un'attività solare intensa, arrivano sulla Terra più luce e più raggi cosmici e polveri, i quali provocano una diminuzione delle nubi e un conseguente aumento della temperatura. La copertura nuvolosa dal 1980 a oggi è diminuita del 5% e le temperature si sono un po' alzate».
L'uomo che ruolo ha?
«I catastrofisti sostengono che l' aumento di anidride carbonica possa far salire la temperatura anche di cinque gradi, ma i loro studi si basano su modelli elaborati solo dai computer e sovrastimano l' effetto uomo. Noi scettici invece basiamo i nostri studi sui dati e l' analisi diretta della natura e riteniamo che l' impatto dell' anidride carbonica sulla temperatura terrestre sia minimo. Tutto questo è pubblicato nella letteratura scientifica».
Che idea ha dell' allarme clima nel mondo?
«Non ha senso la proposta di azzerare le emissioni di C02 entro il 2050 in Occidente, come si vorrebbe fare, anche perché molti Paesi le aumenteranno e l' anidride carbonica non è dannosa per la salute umana. Perché rinunciare ai benefici della fonte di energia più economica se l' allarmismo climatico non è credibile o prioritario?».
L'allarmismo è troppo?
«Il sospetto è che sia in corso un tentativo di sfruttare la paura del clima per generare un catastrofismo che agevoli un cambiamento di modello economico e sociale nella direzione in cui hanno investito alta finanza e multinazionali. Si è creata una esigenza per farci i soldi sopra: bisogna far accettare politiche costose e svantaggiose per la gente e però redditizie per alcuni investitori. Il catastrofismo è un affare economico più che ambientale».
Perché molti scienizati vi trattano come eretici?
«Anche noi non catastrofisti siamo parte delle comunità scientifica e non siamo pochi. Chiediamo solo un confronto franco con chi la pensa diversamente, ma la volontà di ascoltarci scarseggia. È l' antitesi della scienza, la quale dev' essere per definizione aperta al dibattito».
Che cosa pensa di Greta Thumberg?
«Ho il sospetto che Greta sia pilotata e suggerisco di starci attenti e studiare bene i fatti. Credo che sia un atto di presunzione per l' uomo pensare di essere determinante ai fini climatici. E poi, se la Ue diminuisce l' anidride carbonica ma il resto del mondo l' aumenta, alla fine avremo solo un' Europa più povera e debole. Vogliamo questo per i nostri nipoti?».
Pietro Senaldi
Riscaldamento climatico, il geologo Uberto Crescenti: "L'Onu manipola i dati, ma è vietato dirlo". Pietro Senaldi il 28 Gennaio 2020 su Libero Quotidiano. L' anno scorso 15 professori universitari italiani hanno sottoscritto una petizione che invitava a non cadere nella trappola dei deliri ambientalisti, in base ai quali il surriscaldamento del pianeta dipenderebbe soprattutto dall' inquinamento creato dall' uomo. In pochi mesi la petizione ha raccolto oltre ottocento adesioni di scienziati di 18 Paesi. Essa è stata inviata al Quirinale, al governo e al Vaticano, ma nessuno ha voluto ricevere i suoi autori. La politica preferisce parlare di ambiente con Greta, che non va più neppure a scuola e si atteggia da santona, piuttosto che con chi da decenni studia il clima. E poi magari a Roma c' è chi ha il coraggio di dire che investiamo poco nell' Istruzione. Abbiamo parlato con tre professori firmatari della petizione. Il geologo Uberto Crescenti, già magnifico rettore a Chieti e Pescara, il climatologo Nicola Scafetta, dell' Università di Napoli, e Francesco Battaglia, chimico dell' Università di Modena. Sono da anni impegnati a riportare il dibattito sull' ambiente su un piano scientifico, libero dalle isterie di massa sollecitate da alta finanza e multinazionali, che cavalcano il tema del surriscaldamento del pianeta per monetizzarlo.
Lo schema è chiaro: diffondere il panico sul cambiamento climatico, legarlo all' azione umana con studi finanziati allo scopo, far delegittimare dai media gli scienziati che la pensano diversamente e poi cavalcare i timori del popolo bue, facendoci affari sopra e mettendogli le mani in tasca.
Professor Crescenti, perché ha firmato la petizione contro il catastrofismo ambientale?
«Negli ultimi decenni i mass media in tema di clima hanno dato ampio risalto alle opinioni dei catastrofisti, secondo i quali il mondo è destinato alla distruzione se non si attueranno politiche per limitare l' aumento della temperatura terrestre.
Nel 1999 la Repubblica titolava che a causa del surriscaldamento il nostro pianeta aveva dieci anni di vita. Ebbene, siamo ancora qui».
Eppure il catastrofismo ha molti seguaci. Perché?
«Lo ha spiegato l' economista Enzo Gerelli: è freudiano, la gente crede al catastrofismo perché l' idea cementa e produce solidarietà».
A lei invece agita?
«I catastrofisti sostengono che l' aumento della temperatura vada limitato al massimo a due gradi, per evitare l' immane catastrofe, ma in passato ci sono state fasi più calde dell' attuale senza che si sia verificata la fine del mondo. Centomila anni fa in Inghilterra vivevano ippopotami, elefanti, leoni e scimmie. Nel Medioevo la temperatura era superiore di almeno 2-3 gradi rispetto a oggi. Questi dati storici sono sistematicamente ignorati dai catastrofisti».
Da cosa è causato il riscaldamento del pianeta?
«Non si hanno dati certi. Il sole è la causa principale mentre non lo è la anidride carbonica. Non c' è correlazione tra l' aumento di questo gas nell' atmosfera causato dall' uomo e la variazione di temperatura».
Il catastrofismo però ha tra i suoi adepti anche molti scienziati. Perché?
«L' economia verde è un business mondiale. L' alta finanza ci ha scommesso e se sei un ricercatore allineato ottieni finanziamenti, altrimenti è difficile anche diffondere le tue opinioni. Gli ambientalisti cercano di impedire i nostri congressi. A volte ci è voluta perfino la polizia per allontanarli».
Sono accuse pesanti...
«Legga il libro di Mario Giaccio "Climatismo, una nuova ideologia", è essenziale per capire gli enormi interessi che ruotano attorno al cambiamento climatico».
Come è stata accolta la vostra petizione?
«Nel mondo ci sono ottocento scienziati che l' hanno sottoscritta ed è diventata la Petizione dell' Europa sul Clima dal titolo: "Non c' è emergenza climatica". L' abbiamo indirizzata pure al Quirinale e a vari ministri».
Avete avuto risposta?
«Solo il Colle ha risposto, dicendo che per i troppi impegni non poteva riceverci. Non ho potuto fare a meno di replicare che il presidente aveva avuto il tempo per incontrare Greta, non esperta di clima, mentre non trovava il tempo di ricevere professori universitari».
Che morale ne trae?
«Non si tiene conto della scienza ma di iniziative legate a ideologie senza fondamenti scientifici. Suggestioni e politica pesano più di dati e statistiche. Si vuol far credere che il 99% degli scienziati attribuiscono all' uomo la responsabilità del cambiamento climatico, ma in realtà non sono più del 40%».
Davvero?
«È stato provato che ricercatori collegati all'Onu taroccavano i dati per renderli utili alle loro idee. Il Climagate è stato lo scandalo scientifico più grave del secolo».
Pietro Senaldi
Gli scienziati sfidano i gretini: così si smonta la favola green. I docenti promotori della petizione contro i catastrofisti del clima raccontano: "Gli interessi dietro la favola dell'emergenza climatica sono enormi". Roberto Vivaldelli, Lunedì 27/01/2020, su Il Giornale. Quanti interessi dietro la favola dell'emergenza climatica. La scorsa estate, i professori Uberto Crescenti, Giuliano Panza, Alberto Prestininzi, Franco Prodi, Franco Battaglia, Mario Giaccio, Enrico Miccadei, Nicola Scafetta e numerosi altri cittadini hanno inviato una petizione al Presidente della Repubblica chiedendo l'adozione di misure di protezione dell'ambiente coerenti con le conoscenze scientifiche, evitando di aderire a politiche di riduzione acritica della immissione di anidride carbonica in atmosfera. In buona sostanza: benissimo adottare misure ecosostenibili e green, ma senza scadere nel catastrofismo gretino. Come ricordano i docenti nella petizione, secondo la tesi prevalente, a partire dal 1900, ci troveremmo in presenza di un riscaldamento globale del pianeta causato quasi esclusivamente dalle attività antropiche. Questa è la tesi del “riscaldamento globale antropico” promossa dall’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC) delle Nazione Unite. Quella del riscaldamento globale causato dalla CO2 antropica è però, spiegavano già la scorsa estate, "solo una congettura non dimostrata, ma dedotta da alcuni modelli climatici che sono complessi programmi al computer chiamati General Circulation Models". Al contrario, la letteratura scientifica ha messo sempre più in evidenza l’esistenza di una variabilità climatica naturale che questi stessi modelli non sono in grado di riprodurre. Una variabilità naturale che spiega una parte consistente del riscaldamento globale osservato nell’ultimo secolo. Le tesi allarmistiche, osservavano, proposte come fatti scientifici, si basano solo sui suddetti modelli che interpretano il riscaldamento globale di circa + 0.9°C, osservato dal 1900, come dovuto quasi unicamente alle emissioni antropiche. Ora gli stessi docenti promotori dell'iniziativa, intervistati da Libero, spiega perché quella petizione ha scatenato la reazione dei climaticamente corretti. "Gli interessi dietro la favola dell'emergenza climatica sono enormi" osserva il professor Franco Battaglia. "Abbiamo sfidato i nostri detrattori a un confronto pubblico, si sono rifiutati. I modelli climatici non hanno ricostruito il clima caldo del passato né l'arresto del riscaldamento degli anni 1940-75 e neppure hanno previsto il clima degli anni 2000-2019. La nostra petizione nega che sia stato dimostrato che l'attuale riscaldamento globale sia dovuto alle emissioni antropiche". Battaglia ricorda inoltre che "non c'è prova che l'uomo abbia mai influito sul clima in modo misurabile. La CO2 è un gas serra ma dire che riscalda il pianeta sarebbe come sostenere che chi mette un cent al giorno nei forzieri di Paperone può influire sulla sua ricchezza". Sulla presunta origina antropica dei cambiamenti climatici, cavallo di battaglia dei climaticamente corretti e e dei sostenitori dell'emergenza climatica provocata dall'uomo, il professor Nicola Staffetta spiega, sempre su Libero, che "l'uomo fa parte del sistema ma non c'è accordo tra gli scienziati su quanto egli contribuisca al cambiamento climatico. Periodi caldi e freddi si sono alternati pure quando l'uomo non esisteva ancora o quando comunque non c'erano problemi di emissioni di anidride carbonica da combustibili fossili. Settemila anni fa, sulle Alpi, i ghiacciai erano molto ridotti e sono stati trovati alberi cresciuti ad altitudini di 100 o 200 metri superiori a quelle dove crescono oggi". La verità è che, come osserva il professor Uberto Crescenti, i catastrofisti del clima continuano a ignorare la storia. I catastrofisti, sottolinea il professore, "sostengono che l'aumento della temperatura vada limitato al massimo a due gradi, per evitare l'immane catastrofe", ma in passato ci sono state fasi "più calde dell'attuale senza che si sia verificata la fine del mondo". Centomila anni fa, in Inghilterra, ricorda, "vivevano ippopotami, elefanti, leoni e scimmie. Nel Medioevo la temperatura era superiore di almeno 2-3 gradi rispetto a oggi". Dati storici sistematicamente ignorati dai catastrofisti: e chi osa ricordarli, diventa immediatamente un negazionista del clima. Più che scienza, però, quella del climaticamente corretto sembra una fede.
Allarme smog in pianura padana: “La gente muore a migliaia, intervenire adesso”. Le Iene News il 24 gennaio 2020. Giovanni Mori, 26enne ingegnere, esperto di lotta all’inquinamento e coordinatore del Fridays for Future di Brescia, parla a Iene.it dopo i dati allarmanti di Legambiente sullo smog in Italia: “La pianura padana è in condizioni critiche, tra le aree più inquinate del mondo”. Ad aprile ci sarà la nuova manifestazione globale per il clima. “La pianura padana è in una situazione critica a livello mondiale: è tra le aree più inquinate e il tasso di morti per inquinamento atmosferico è tra i più alti al mondo. Qualche settimana fa Milano era nella top 10 delle città più inquinate al mondo”. A parlare a Iene.it è Giovanni Mori (sopra nella foto di Giovanni Cioli), ingegnere, esperto di lotta all’inquinamento e coordinatore del Fridays for Future di Brescia. "Manca una programmazione a lungo termine per affrontare il problema". Il tema, purtroppo, è ormai noto: città strette nella morsa dello smog, livelli di inquinamento disastrosi e migliaia di morti ogni anno. Parliamo del drammatico quadro che l’Italia si trova ad affrontare in questi giorni, con l’aria peggiore in particolare a Milano e Torino. Dopo i dati pubblicati dall’Oms nel 2019, secondo cui nel nostro Paese ci sarebbero 80mila morti ogni anno causate dalle polveri sottili, adesso è Legambiente a lanciare l’allarme sulle condizioni dell’aria in Italia: molte città hanno superato con regolarità i limiti di smog imposti dalla legge, e tanti di questi centri urbani si trovano in pianura padana. La grande spianata creata nel corso dei millenni dal fiume Po detiene la non invidiabile maglia nera per essere la zona più inquinata d’Europa, tra le peggiori dell’intero pianeta. Con Mori abbiamo analizzato la situazione attuale del nostro Paese. “Sono combattuto tra i miei due lati, quello di ingegnere e quello di attivista”, ci dice. “Il primo mi impone di guardare i numeri, il secondo è quello che poi si incazza. Come ingegnere registro che negli ultimi anni i limiti di emissioni si stanno giustamente abbassando: ci stiamo finalmente rendendo conto che le persone muoiono a migliaia a causa dello smog”. Come si è arrivati a questo punto? “Manca una programmazione a lungo termine, una visione d’insieme e strutturale per il futuro. L’abbassamento dei limiti contribuisce in qualche misura al numero di sforamenti, ma ciò non toglie che la qualità dell’aria sia allarmante in particolare nel Nord Italia: “La pianura padana purtroppo è in una situazione critica a livello mondiale, è tra le aree più inquinate e il tasso di morti per inquinamento atmosferico è tra i più alti al mondo. Qualche settimana fa Milano era nella top 10 delle città più inquinate al mondo”. Come si è arrivati a questo punto? “Manca una programmazione a lungo termine, una visione d’insieme e strutturale per il futuro. Le misure emergenziali come lo stop alla circolazione sono ben accette ma non risolvono il problema”. Qualche speranza per il futuro comunque c’è: “Sembra che adesso stia iniziando una forma di programmazione, speriamo che le parole si traducano in fatti: servono interventi coordinati a livello locale, regionale e nazionale. Come Fridays for Future Brescia e Lombardia abbiamo chiesto l’adozione di alcune misure, speriamo si proceda in quella direzione”. In questi ultimi giorni si è deciso, per fare fronte all’emergenza, di procedere proprio con il blocco del traffico per i veicoli più inquinanti: serve davvero? “È difficile rispondere a questa domanda: il traffico contribuisce in modo innegabile all’inquinamento locale, ma d’altra parte se non ho un sistema in grado di accogliere chi vuole entrare in città senza poter usare la macchina rischio di generare ulteriori problemi. Il blocco del traffico è molto simbolico, salta agli occhi di tutti: può essere una soluzione di emergenza ma, per fare una battuta, a volte sembra quasi più utile fare una danza della pioggia. Più seriamente, la soluzione non può essere una sola ma ci devono essere vari interventi applicati tutti insieme, a livello personale e istituzionale”. Quali sono però gli interventi a lungo termine che si possono mettere in campo? “Uno degli aspetti più importanti è il riscaldamento dei palazzi, che contribuisce in modo importante all’inquinamento: non è un caso che questi momenti di massima emergenza avvengano quasi sempre d’inverno quando fa più freddo. L’obiettivo dovrebbe essere quello dell’efficientamento energetico e dell'isolamento termico, che è ancora più efficace. Per esempio si possono cambiare i serramenti in casa così da disperdere meno il calore e usare meno il riscaldamento. Ovviamente non è una strada semplice, perché farlo ha un costo nonostante esistano già degli incentivi. Quello che può fare lo Stato è dare il buon esempio, facendolo per le proprie strutture”. E oltre al riscaldamento? “Si potrebbe intervenire in maniera strutturale sul trasporto pubblico: mezzi capillari ed efficienti farebbero usare di meno le auto private e automaticamente diminuirebbe l’inquinamento. Però non basta: oltre a realizzare questi mezzi pubblici, per i quali servono veri investimenti, bisogna poi incentivare le persone a usarli”. Le soluzioni, prosegue Giovanni Mori, sono complesse e richiedono interventi decisi da parte dello Stato: è anche per questo che ad aprile ci sarà un nuovo evento di protesta e sensibilizzazione degli attivisti del Fridays for Future a livello globale: “Sarà la quinta manifestazione globale, aprile sarà un intero mese di mobilitazioni che culmineranno il 24 con una grande manifestazione a livello mondiale. A Brescia stiamo lavorando non solo per una marcia locale ma anche per presentare alle istituzioni proposte concrete, anche grazie all’aiuto di esperti”. Speriamo davvero che abbiano successo: ora più che mai ne abbiamo bisogno: “I problemi del clima riguardano tutti, e il 99% della popolazione ha interesse che questa transizione climatica abbia successo”.
Il clima che cambia e l'inquinamento partigiano. Milano, smog alle stelle: Pm10 oltre i limiti, da domani scatta il blocco del traffico. Milano, inquinamento alle stelle: Pm10 da incubo, scatta il blocco traffico di 1 livello. Da venerdì scattano le misure previste dal protocollo Aria. Pm10 oltre i limiti da 6 giorni. Redazione Milano Today il 2 gennaio 2020. Milano ripiomba nell'incubo inquinamento. E scattano, come da prassi, le misure previste dall'accordo Aria sottoscritto da Apa, comuni e regione Lombardia, tra blocco del traffico e altre limitazioni. Da ormai sei giorni, infatti, i valori di Pm10 nell'aria hanno superato la soglia massima prevista, che è di 50 microgrammi per metro cubo. Si parte dai 53.3 del 27 dicembre, si prosegue con i 57.9 del 28 e i 66 del 29 dicembre e si va avanti con i 56.3 del giorno successivo a cui si "accompagnano" i 61.5 dell'ultimo giorno del 2019. Ancora peggio fa invece il 1 gennaio 2020, con un impressionante 145.6 di Pm10, aiutato anche dai tanti fuochi d'artificio esplosi per festeggiare il nuovo anno. Così, dal 3 gennaio entrano in vigore tutte le limitazioni previste dal primo livello del protocollo. Tra le misure più severe quelle sulla circolazione delle auto, che imporranno una sorta di blocco del traffico. I veicoli Diesel euro 4 non potranno camminare tutti i giorni dalle 8.30 alle 18.30, mentre gli Euro 0, 1, 2 e 3 dovranno stare fermi dalle 7.30 alle 19.30 da lunedì a venerdì e dalle 8.30 alle 18.30 nei sabati e nei festivi per le auto private e dalle 8.30 alle 12.30 per quelle commerciali. Stop alle benzina Euro 0 dalle 7.30 alle 19.30 nei giorni da lunedì al venerdì. Inoltre, scatta il divieto di "sosta con il motore acceso per tutti i veicoli, di riscaldamento domestico a legna non efficiente, di accensione fuochi" e di avere una "temperatura superiore ai 19 gradi nelle abitazioni e negli esercizi commerciali". Le limitazioni saranno attive in tutti i comuni superiori ai 30mila abitanti e in quelli che volontariamente hanno firmato il protocollo. È il sito della regione a fornire l'elenco completo delle città: Milano, Paderno Dugnano, Rozzano, Cernusco sul Naviglio, Pioltello, Cologno Monzese, Bollate, Cinisello Balsamo, Corsico, Legnano, San Donato Milanese, Rho, Segrate, Sesto San Giovanni, San Giuliano Milanese, Abbiategrasso, Cormano. Le limitazioni saranno disattivate dopo due giorni consecutivi con livelli di Pm10 sotto la soglia massima.
I veri dati sulla produzione globale di CO2. Articolo di Marco Moretti tratto dal quotidiano LA STAMPA del 10 Gennaio 2020. Negli ultimi cinquant’anni i maggiori inquinatori sono stati in gran parte gli abitanti dei Paesi europei e nordamericani ora all’avanguardia nella difesa dell’ambiente. Così come è vero che come dato assoluto oggi la Cina produce più emissioni totali degli Stati Uniti ma con oltre quattro volte gli abitanti. “Perché Greta Thunberg non va a protestare a Pechino o a New Delhi, i Paesi che inquinano di più?“. Quante volte lo abbiamo sentito dire nei mesi scorsi o lo abbiamo letto sui profili social di detrattori di Friday for future preoccupati non per il destino del Pianeta ma per quello dei loro business. “Bisogna bloccare Cina e India, stanno soffocando il globo” hanno sbraitato da New York a Francoforte via Sydney, banchieri e industriali occidentali, tinti di una patina verde, che più delle emissioni di CO2 sembrano preoccupati soprattutto dalla concorrenza che soffia da Oriente. Queste frasi sono solo alcuni esempi del continuo scaricabarile di responsabilità a cui assistiamo nell’informazione sui Paesi con le emissioni di CO2 più elevate. Ma cosa c’è di vero in queste affermazioni? Poco e nulla. Analizzando i dati storici sulle emissioni di CO2 scopriamo il contrario. Negli ultimi cinquant’anni i maggiori inquinatori sono stati in gran parte gli abitanti dei Paesi europei e nordamericani oggi all’avanguardia nella difesa dell’ambiente. E che la produzione petrolifera ha fornito il maggiore e peggiore contributo al surriscaldamento del Pianeta. Oggi è vero che come dato assoluto la Cina produce più emissioni totali degli Stati Uniti: 9.481 milioni di tonnellate contro 4.888, cioè il doppio ma con oltre quattro volte gli abitanti, in pratica gli Statunitensi sono singolarmente responsabili di oltre il doppio delle emissioni dei Cinesi. Se poi andiamo al quadro storico degli ultimi cinquanta anni, scopriamo che gli Stati Uniti hanno prodotto dieci volte più emissioni della Cina in termini assoluti: 1200 tonnellate pro-capite contro le 120 tonnellate a testa della Cina, includendo i trent’anni di boom economico di Pechino, che – nonostante sia la seconda potenza industriale del mondo – è solo al 17° posto per le emissioni storiche individuali, ovvero è ancora un Paese a consumi contenuti rispetto a Europa e soprattutto Nord America. E nell’ultimo biennio (2017-2018), in termini globali, la Cina ha aumentano le emissioni meno degli Stati Uniti: 2,5 per cento contro il 3,1 per cento, senza contare che la Cina ha margini potenziali di sviluppo (popolazione rurale, indice di povertà, tenore di vita, ecc.) molto superiori a quelli degli Usa, altamente industrializzati e inurbati. In questo senso nel 2018 è stata più virtuosa l’Europa con un calo delle emissioni dell’1,3 per cento. Chi è allora ad avere le maggiori responsabilità del disastro a cui andiamo incontro? Dal 1969 a oggi, a livello pro-capite i maggiori inquinatori sono gli Stati Uniti, seguiti in ordine da Canada, Arabia Saudita (è qui incide fortemente l’industria petrolifera, oltre all’uso massiccio di aria condizionata), Germania, Olanda, Gran Bretagna, Finlandia, Norvegia, Giappone, Svezia, Israele, Francia, Italia, Svizzera e Spagna. Ovvero i Paesi più industrializzati. Quelli in via di sviluppo seguono a grande distanza. L’India è oggi il Paese più inquinato del mondo (aria irrespirabile nelle città, enormi problemi nella gestione di acque e rifiuti, gigantesca quantità di metano prodotta dal maggiore parco bovino del Pianeta) e maggiore aumento di emissioni di CO2 nell’ultimo biennio (più 4,8 per cento contro una media mondiale di più 1,7 per cento). Ma sul dato globale del 2018 di 33.143 milioni di tonnellate di emissioni, l’India contribuisce solo per 2.299 milioni di tonnellate, cioè meno del 7 per cento, con poco meno di un quinto della popolazione mondiale. E in termini storici (dal 1969 al 2019) ha prodotto appena 40 tonnellate per abitante contro le 1200 degli Stati Uniti, le 750 dell’Arabia Saudita e le 350 dell’Italia. Europei e Nordamericani hanno più mezzi a motore alimentati da combustibili fossili che abitanti, da tre generazioni mangiano più del necessario, trascorrono l’inverno in case riscaldate oltre ogni ragionevole misura, l’estate vivono rinfrescati dall’aria condizionata, e passano la vita spostandosi in massa in aereo. Che diritto hanno di dire a Cinesi, Indiani, Thailandesi e Indonesiani – da poco usciti (solo in parte) dalla miseria – di ridurre i consumi e le emissioni e tornare a una vita spartana? Vista la nostra storia recente, nessuno.
Smog, smentiti i catastrofisti. L'aria mai stata così pulita. In Lombardia il 2019 è l'anno migliore per le polveri sottili. Rispettato ovunque il "tetto" medio del Pm 10. Alberto Giannoni, Giovedì 02/01/2020, su Il Giornale. Sorpresa: dai dati di fine anno arrivano brutte notizie per i catastrofisti e ottime novità sulla qualità dell'aria lombarda: lo smog cala e il 2019 è l'anno meno inquinato di sempre nelle nostre città. Che in Lombardia, negli ultimi anni, si sia registrato un andamento positivo lo attesta la prima analisi dei dati 2019 di Arpa, l'Agenzia regionale per la protezione ambientale. Per la Regione, questi dati sono la conferma che le politiche adottate dalla Lombardia e dalle Regioni del Bacino Padano sono efficaci. «In particolare - ha commentato l'assessore regionale all'Ambiente Raffaele Cattaneo - confermano la validità dei nostri provvedimenti e l'obiettivo di rientrare sotto i limiti stabiliti dall'Unione Europea entro il 2025». L'assessore sottolinea come le concentrazioni annuali di PM10 in Lombardia abbiano rispettato in tutte le stazioni il limite medio annuale di 40 µg/m³. Ancora da centrare l'obiettivo dei giorni di superamento del valore limite giornaliero di PM10, ma anche questi sono in diminuzione. «Per il PM10 - spiega Cattaneo - il 2019 risulta essere l'anno migliore di sempre o comunque uno degli anni migliori dall'inizio delle misure. Anche il numero di giorni di superamento del valore limite giornaliero (50 µg/m³), benché in buona parte della regione ancora sopra al limite dei 35 giorni, ha confermato un trend in diminuzione». Per i giorni, considerando la stazione peggiore di ogni capoluogo, si è registrato il rispetto del limite in 5 capoluoghi di provincia (nel 2018 erano 4): a Sondrio (9 superamenti), Varese (17), Lecco (19), Como (27) e, per la prima volta, a Bergamo (29). Risultano invece ancora superiori al limite Milano (72 superamenti), Monza (44), Brescia (52), Pavia (65), Lodi (55), Cremona (64) e Mantova (57). Nella maggior parte si tratta del miglior risultato dall'inizio delle misure, negli altri casi è comunque uno degli anni migliori. Buoni risultati anche peril livello del PM2.5. «Per il 2019 si conferma in diminuzione - ha aggiunto l'assessore - con dati in generale meno elevati che nel 2017 e, in buona parte delle stazioni, inferiori anche a quelli del 2018». Nel 2019 il valore limite annuale pari a 25 µg/m³ è stato infatti rispettato in tutte le stazioni di monitoraggio del programma di valutazione regionale, con la sola eccezione di Cremona, Soresina e Spinadesco dove la media annua è risultata pari a 26 µg/m³». Per quanto riguarda il biossido di azoto (NO2), sebbene i superamenti del valore limite sulla media annua (pari a 40 µg/m³) siano ancora presenti in alcune stazioni degli agglomerati urbani, il 2019 ha fatto registrare un andamento complessivamente in miglioramento su base pluriennale. Nel 2018 il valore limite sulla media annua è stato rispettato in 7 capoluoghi di provincia su 12 (Cremona, Lecco, Lodi, Mantova, Pavia, Sondrio e Varese), e nel 2019 in 9 capoluoghi, aggiungendosi anche Como e Bergamo. Per il biossido di azoto si conferma inoltre anche per il 2019 il rispetto del limite sulla media oraria in tutte le stazioni lombarde. A differenza degli altri inquinanti, l'ozono non va bene. «Non mostra un andamento evidente negli anni - dicono dalla Regione - Anche durante l'anno 2019 si sono registrati diffusi superamenti del valore obiettivo per la protezione della salute e di quello per la protezione della vegetazione. «Negli ultimi decenni - ha proseguito Cattaneo - abbiamo vinto inquinanti come il benzene, il monossido di carbonio, l'anidride solforosa, rientrati sotto i limiti in tutta la regione e ora stiamo vincendo la battaglia contro PM10 e il biossido di azoto (NO2)». «I recenti provvedimenti per migliorare la qualità dell'aria come MoveIn ha continuato Cattaneo - i 26,5 milioni di euro di incentivi per la sostituzione dei veicoli e delle autovetture inquinati, i 15 milioni per favorire l'efficientamento energetico delle case popolari, consentono di migliorare progressivamente la qualità dell'aria senza penalizzare eccessivamente quelle persone che rischiano di essere emarginate dai provvedimenti. Limitiamo le emissioni, senza impedire la mobilità dei cittadini. Inoltre, il 42% dei consumi di energia e delle emissioni in Lombardia deriva dal riscaldamento degli edifici civili. Pertanto, nel breve periodo, la politica più efficace per il contrasto alle emissioni inquinanti e climalteranti è l'efficientamento energetico. L'energia più pulita è infatti quella che non consumiamo». «Migliorare la qualità dell'aria è una priorità - ha concluso Cattaneo - In questi anni abbiamo messo in campo politiche per la riduzione degli inquinanti e i risultati si vedono». I risultati, per l'assessore, sono «molto positivi» e adesso l'impegno è «proseguire questo lavoro nel futuro».
Milano bella, senza il gelo non sei più tu. In trent'anni la temperatura media è salita di tre gradi. Risultato: sulle montagne dove Alberto Tomba ha conquistato i primi trofei oggi si coltivano i pomodori. E aironi, cicogne e rondini cedono il posto a cinghiali e scorpioni. Fabrizio Gatti il 03 gennaio 2020 su L'Espresso. La scomparsa del grande freddo la vedi già a sessanta chilometri da Milano. Oltre i 1.100 metri di quota della Colma di Sormano, dal davanzale mozzafiato che si affaccia sulla Pianura Padana, il sole di inizio dicembre colora i prati di erba primaverile. E giù, ai mille metri di Pian del Tivano, hanno costruito un grande impianto fotovoltaico. Da queste parti, da due anni, nelle case entrano scorpioni che nessuno aveva mai visto prima. Mentre più a oriente, al di là di Lecco, del lago e delle Grigne, sui 1.450 metri di Alpe Paglio perfino la pista Cuccher, dove il grande Alberto Tomba ancora adolescente conquistò il suo primo podio in uno slalom internazionale, oggi ti guarda dall’alto deserta e immobile. Un po’ di neve quest’anno è arrivata. Ma lo skilift è fermo dal 2003: i troppi inverni secchi, oppure il caldo che fonde la ripida discesa già a inizio febbraio, sconsigliano finora qualunque rilancio. Queste erano le mete domenicali della Milano popolare. La borghesia ricca andava in vacanza a Courmayeur, Cortina, Madonna di Campiglio. Operai e impiegati invece portavano i figli del boom demografico quassù. Poco più di un’ora di macchina dalla città, sci da autunno a metà marzo, la scuola per i bambini, i genitori seduti a bordo pista ad ammirarli. E poi le sfide tra i futuri campioni: il Trofeo Topolino a Pian del Tivano, la Coppa Europa ad Alpe Paglio. Di quell’epopea, nata poco meno di cinquant’anni fa, oggi restano i piloni nel bosco che ha riconquistato la sua vita ovunque: ferri, carrucole, cavi in mezzo a betulle, noccioli e abeti fischiano sinistri nelle nottate di vento, come monumenti a un turismo meccanizzato ormai arrugginito. La crescita delle temperature medie taglia in due anche la società urbana: chi se lo può permettere continua a frequentare le località più costose delle Alpi, gli altri hanno smesso di sciare. Il 2019 si chiude con nuovi record climatici ancor più accentuati nel Nord Italia: la scorsa estate è stata la terza più calda di tutti i tempi. L’Arpa Lombardia, l’Agenzia regionale protezione ambiente, ha rilevato anomalie nella media delle temperature minime giornaliere di +3,6 gradi e per le temperature massime di +3,9 gradi, rispetto al periodo di riferimento 1981-2010. Una crescita di circa un grado ogni dieci anni, con un’apparente accelerazione sopra i due gradi dal 2015 a oggi. La pianura lombarda sta così crescendo la sua prima generazione di bambini che non hanno mai giocato con la neve davanti a casa. Anche chi è nato nel 2010 era troppo piccolo per ricordare l’ultimo inverno freddo del 2012. Qualche volta nevica ancora. Perfino a Milano. Ma tranne le eccezioni, che possono sempre capitare, l’inverno non scende più di molti gradi sotto zero. Così i fiocchi, quando arrivano, cadono su un terreno bagnato e mite. Avviene proprio questo durante la misera nevicata in pianura, la mattina di venerdì 13 dicembre. Una gioia di poche ore per i più piccoli. Già nel pomeriggio, il sole rimuove ogni traccia di bianco. Sabato la temperatura risale e sfiora i dieci gradi. Domenica supera i sei. Lunedì otto e pioggia. Invece di nevicare, piove anche in montagna. Sia ai mille metri di Pian del Tivano, con quattro gradi alle sette e mezzo del mattino. Sia all’Alpe Paglio, con massime fino a cinque gradi, sopra gli oltre mille e quattrocento metri di quota della pista Cuccher. È la settimana prima di Natale e dovrebbe essere una delle più fredde dell’anno. Natale Bellieni, 85 anni, con il fratello Pietro, 82, è il pioniere che ha portato gli impianti di risalita a Pian del Tivano: «Sì, quello che manca oggi è il freddo. Magari gela qualche giorno, poi torna il caldo. Magari mette giù cinquanta centimetri. Poi soffia un vento mite e tira via tutto. Gli inverni più freddi sono quelli tra il 1977 e il 1985», racconta Bellieni: «La temperatura allora era costante e fino al 1987 abbiamo avuto tanta neve. Oggi se fa un po’ di freddo, quando poi arrivano le nuvole l’aria si riscalda. E piove. Un clima così è troppo instabile. Non si possono più fare progetti». Bellieni aveva cominciato con lo sci nautico. Un campione: «Facevo velocità. Da Pavia a Venezia attraverso il Po in cinque ore», ricorda con un sorriso: «Il primo impianto a Pian del Tivano lo portò nostro padre. Era segretario comunale a Ballabio, vicino a Lecco. Ai Piani di Bobbio smontarono la vecchia manovia e la ritirò lui. Abbiamo cominciato con quel cavo a motore. Dal 1973 abbiamo poi aperto l’albergo del Dosso, gli skilift e la pista di fondo. Quell’anno ho conosciuto Iolanda e ci siamo sposati». Lei maestra elementare, arrivata da Bisaccia in provincia di Avellino, accompagnava a Pian del Tivano i suoi alunni per il corso pomeridiano di sci. Lui maestro di discesa, bell’uomo, imprenditore turistico. «Io non ho mai sciato», ride ora la moglie, Iolanda Fratianni, 71 anni, «ma è stato amore a prima vista». La scomparsa della neve però presenta il conto anche qui, a mille metri. Vent’anni fa chiudono gli skilift. Ma per un altro decennio il figlio di Natale e Iolanda, Stefano, che oggi ha 37 anni, e lo zio Pietro non si arrendono: «Abbiamo continuato con il decespugliatore a pulire le piste dalla ricrescita del bosco. Non si sa mai, ci dicevamo. Prima o poi l’inverno ritornerà come prima». Oggi rimane aperto, se c’è abbastanza neve, soltanto il tracciato di fondo gestito dal piccolo sci club. Il clima intanto rimescola temperature e destini familiari. E sei anni fa i Bellieni devono chiudere il loro albergo e mettere in vendita i muri. Alla vigilia della prima nevicata dell’inverno 2019-2020, sul versante opposto della piana accanto alla distesa di pannelli della centrale solare, cresce una mediterranea rassegna di ginestre ancora verdi a dicembre, ultime immigrate floreali a queste altitudini. Cento asini sono tuttora al pascolo da maggio. E risuona nell’aria il motore di un tagliaerba. Il sole obbliga Nicola Casalino, 61 anni, a curare il prato come fosse primavera. Ha da poco rilevato l’ “Antica locanda Fuin” e prepara il giardino per i clienti del fine settimana. Scomparso lo sci, arrivano escursionisti e amanti della cucina tradizionale. «Vengono in treno per il weekend da Milano, Venezia, Parma», dice il proprietario mentre spegne per un attimo il tagliaerba: «Scendono alla stazione di Como e salgono con la funicolare a Brunate, sopra il lago. Poi camminano fin qui. Certo, dover tagliare il prato a dicembre spiega meglio di tanti discorsi cosa stia succedendo al nostro clima». Davanti al “Ministro”, l’altro ristorante lungo la strada che collega la montagna con il lago di Como, il pullman della linea C32 è fermo al capolinea. L’autista, Mario Carugo, 49 anni, beve un caffè al bar e rivela che sono cinque anni che non deve mettere le catene per salire a Pian del Tivano: «Anche quando nevica, non gela come prima e le strade restano pulite». Qualche agricoltore accanto a lui gli ricorda che a inizio maggio 2018 le catene hanno dovuto montarle, eccome. Ma non per la neve: per venti centimetri di grandine. Quarantacinque minuti di bombardamento che ha danneggiato tetti, alberi, auto. «Un temporale pazzesco, come ai tropici», racconta Imerio Invernizzi, 57 anni, proprietario del ristorante “Ministro” e discendente di una famiglia che da quattro generazioni è la memoria storica di queste montagne lombarde: «Prima un palo non lo piantavi d’inverno, tanto il terreno era gelato, duro come cemento. Due anni fa invece stavamo fuori in maniche corte a gennaio. Da noi crescevano solo broccoli, verze e insalata. Oggi coltiviamo pomodori, cetrioli, peperoncino piccante. Oltre ai caprioli, nei nostri boschi sono risaliti cinghiali e mufloni. Sono invece scomparsi aironi, cicogne, anatre, viscarde, tordi e le rondini, che un tempo ti entravano in casa. Il cambiamento è diventato evidente dalla fine degli anni Novanta. Lo scorsa estate alle undici di sera c’erano ancora 29 gradi a mille metri. E da due anni abbiamo scorpioni ovunque, mai visti da queste parti». La sera del 9 dicembre ne scopre uno il figlio, Francesco Invernizzi, 31 anni. Diffonde la notizia su Whatsapp: «Appena trovato a casa mia», scrive sotto la foto di un Euscorpius italicus di quattro centimetri, il cui veleno è comunque paragonabile a quello di una vespa. Tanta energia nell’atmosfera si scarica con piogge sempre più violente e concentrate nel tempo. Nel giro di poche settimane due alluvioni hanno investito nel 2019 le Prealpi lecchesi intorno ai paesi di Premana e Casargo: 209,2 millimetri di pioggia in diciotto ore l’11 giugno, 108,8 millimetri in un’ora il 6 agosto. Un record per gran parte del Nord Italia, con massi e tronchi sparati come proiettili dentro i canaloni dei torrenti. Alpe Paglio e la sua pista Cuccher, che nel 1984 portò al secondo posto sul podio il diciassettenne Alberto Tomba, sono proprio sopra Casargo. L’unico residente del piccolo agglomerato di case è Giovanni Acerboni, l’artefice di quegli anni di neve, sport e ottimismo a un’ora e mezzo da Milano. Gli apripista delle gare internazionali qui erano campioni della Valanga azzurra come Gustav Thoeni e Fausto Radici. Il Signor Giovanni, così lo chiamavano i bambini che venivano a sciare dalla valle, oggi ha 90 anni. Curava e pettinava quell’unica sua pista di due chilometri come un giardiniere tiene un’aiuola di fiori: «Lo skilift l’abbiamo fermato nel 2003 dopo trent’anni, poiché era terminata la vita tecnica dell’impianto», racconta: «Avremmo dovuto sostituirlo con una seggiovia, ma costava troppo. Poi le nevicate hanno cominciato ad arrivare tardi, anche a febbraio. E le temperature a risalire presto, a marzo. È successo anche di peggio: quando dovevo pagare l’acquisto dell’ultimo gatto delle nevi, non è nevicato per due inverni di fila. Ho avuto davvero paura di non farcela con le rate». «Guardi qua», dice adesso Giovanni Acerboni e indica le eriche del suo giardino a millequattrocento metri che stanno fiorendo con oltre un mese di anticipo. La pista, verticale come il collo di un cobra, ci guarda dall’alto. Lì accanto, la prima neve copre la rotaia del bob estivo, la nuova attrazione per i turisti: «Me l’ha suggerito un amico di Vigo di Fassa. Un giorno mi dice: non hai capito che con l’inverno non si campa più? Ma io spero nelle Olimpiadi invernali a Milano. I nuovi impianti di innevamento a cinquanta atmosfere non hanno bisogno di temperature particolarmente basse. La pista è esposta a Nord, è il luogo ideale dove allenare una squadra. Chissà», sogna ancora Giovanni Acerboni. Quando ha messo gli sci l’ultima volta? «L’inverno scorso», risponde lui, piuttosto piccato per la domanda. Alle sette di sera la temperatura è ancora tre gradi sopra lo zero. Illuminati dalle stelle e da una luna meravigliosa, piccoli gruppi di escursionisti affrontano al contrario la storica pista. Spingono in salita i loro sci d’alpinismo sui pochi centimetri di neve. Mentre le torce di quelli già arrivati in cima tracciano movimenti silenziosi nel buio della discesa. Brilla così lo spettacolo di una generazione che si è già adattata al nuovo clima.
Il mare si sta mangiando il Po. E la colpa è dell'uomo. Il cuneo salino penetra sempre di più modificando tutto l’ecosistema del delta. Perché mentre il Mediterraneo si alza, il corso d’acqua dolce ha sempre meno forza a causa dell'attività umana. Francesca Sironi il 3 gennaio 2020 su L'Espresso. Gli “scanni” sono isole mobili, terre precarie di confine fra il suolo e il mare. Formate dai detriti, possono crescere fino a ospitare strade, per poi scomparire erose dal vento. Nel Delta del Po queste Parche della laguna sono paesaggio comune, con le loro dune mutevoli di conchiglie, tronchi e sabbia, a cui la corrente aggiunge da tempo altri tipi di scheletri: boe, scarpe, eliche, sedie, carcasse di animali compongono il nuovo humus di queste isole. Ma la vita provvisoria della palude riesce a crescervi sopra, comunque. A minacciarla è piuttosto un’altra invasione. Il nemico sottile si chiama cuneo salino, ovvero la progressiva e implacabile risalita dell’acqua salata lungo i rami d’acqua dolce del Po, dell’Adige e del Brenta. Fra il 1950 e il 1960 poteva accadere di intercettare la presenza di sale a cinque chilometri dalla costa; fra il ‘70 e l’80 il mare riusciva già a spingersi a 15 chilometri verso l’interno. L’aumento causò allarme, portando alla costruzione di barriere mobili su due rami della foce del Po. Ma i parametri in base ai quali erano state calcolate le paratie sono stati presto superati in peggio. Così dal Duemila a oggi i tecnici hanno rilevato eccessi di salinità fino a 30 chilometri dal mare. Il sale si sta infiltrando in tutta la regione del Delta, arrivando a superare la Romea, la statale che corre lungo gli argini e serve da collegamento e confine per fabbriche e paesi. L’equilibrio fra acqua dolce e salata sul limite del Po è sempre stato garantito dalla spinta del fiume, capace di respingere l’Adriatico grazie alla propria portate. Nelle estati dal duemila in poi però la forza del fiume è diminuita drasticamente. Più volte il Po è sceso sotto i 450 metri cubi al secondo: una magra considerata improbabile o catastrofica negli anni ‘80. È stata misurata già 302 giorni dal Duemila ad oggi. La realtà ha superato la scienza. Il momento peggiore è stato nel luglio del 2006, quando a Pontelagoscuro, in provincia di Ferrara, il Po scivolò lento sotto i 189 metri cubi al secondo. «Per sette giorni il cuneo salino risalì così oltre Cà Vendramin, dove si trova il depuratore dell’acqua potabile che viene distribuita nelle case», racconta Giancarlo mantovani, direttore del Consorzio di Bonifica del Delta del Po: «I cittadini si trovarono a bere acqua salata dal rubinetto». Le principali cause dell’infiltrazione sono note. La prima è il livello del Mediterraneo, che si sta alzando, come avviene per gli oceani. I climatologi prevedono un innalzamento che potrebbe andare da 19 a 58 centimetri entro il 2100. Buona parte dei paesi affacciati sul golfo di Venezia rischiano di scivolare sott’acqua, seguendo la lunga parte già sommersa del Delta, che si estende per dieci chilometri oltre il bordo visibile del suolo. Il mare rivuole queste terre basse. E se il fiume è debole, riesce a farlo più agevolmente. Come per ogni aspetto del climate change, anche in questo caso le ragioni che stancano il Po sono legate all’attività umana più che al fatalismo della natura. L’indebolimento del fiume dolce più lungo d’Italia è dovuto infatti all’aumento generale delle temperature, certo, e alla siccità, ma anche e soprattutto allo sfruttamento eccessivo delle sue acque. Lungo tutto il bacino, dal Monviso a Rovigo, il Po viene fermato e prelevato per irrigare, produrre energia, far funzionare macchinari e imprese. Ma non solo agricoltura e industria hanno bisogno di lui ormai. Anche il turismo incide, segnalano i documenti del Consorzio di Bonifica. Il turismo, sì, «perché d’estate i laghi hanno bisogno di essere pieni per consentire le gite in barca e gli approdi a buona altezza vicino alle spiagge», spiega Mantovani: «Per cui gli invasi rilasciano meno acqua a valle». Dopo l’emergenza del 2006, il Consorzio ha chiamato a raccolta amministratori e istituti, per trovare un equilibrio fra i diversi interessi. Qualche risultato c’è stato. Chiudendo alcuni rami della foce nei periodi più caldi, gli ingegneri del Delta stanno riuscendo a aumentare la pressione negli altri, ricacciando così il sale. Da tempo è invece ferma una nuova barriera, progettata per essere più dinamica e meno costosa da mantenere delle presenti. Andrebbe installata, spiega Mantovani, alla foce del Po di Pila. Realizzarla costa 25 milioni. Per ora non sono che disegni. L’urgenza intanto resta: l’avanzata del cuneo salino equivale all’abbandono dei campi. «Avevamo tremila ettari coltivati a risaia, un’economia rilevante e di enorme valore per la zona», spiega il direttore: «Ora sono meno di 700». Pochi vogliono rischiare di investire in un territorio dove il sale può entrare e intaccare foglie e radici, bruciando le piante. Anche se non c’è proprietà privata che possa fondarsi in eterno, in laguna, i campi prossimi al Delta sono abitati e coltivati da secoli. Il risanamento della palude - pescosa, protetta, malsana – inizia nel 600 d.C. all’abbazia di Pomposa, in provincia di Ferrara. Grazie al lavoro dei monaci degli appezzamenti si fanno fertili. È gli affreschi di Pomposa tra l’altro che intorno all’anno mille cresce Fra Guido D’Arezzo, l’inventore delle sei note come ancora le conosciamo. Nel 1575 un nuovo priore inizia una stagione di bonifiche più estesa. Poco dopo però la periferia pontificia interrompe le opere. I campi tornano salmastri, gli abitanti smettono di coltivare e diventano pescatori o cacciatori di selvaggina. È solo con l’Unità d’Italia, come racconta l’Atlante lagunare del Delta del Po, che le opere di bonifica diventano stabili, portando all’emersione di oltre 56 mila ettari coltivabili. «Le bonifiche richiedevano l’impiego di molta manodopera, attirando migliaia di persone», scrivono Emiliano Verza e Luisa Cattozzo: «Nacquero così numerosi villaggi tra i canneti o sulle sabbie degli scanni, affiancati da numerose abitazioni singole ed isolate, solitamente in canna. Questo fenomeno fu di tale portata che è possibile parlare di un popolo dei canneti e degli scanni, celato all’interno delle immense paludi del Delta». Lo Stato colonizza la laguna. Caccia il mare, porta tecnologia, progresso. Tanto progresso, troppo: le estrazioni di metano avviate fra gli anni ‘50 e il 1961 causano una prima, pericolosa, anticipazione della minaccia che sta vivendo la foce adesso. Lo sfruttamento dei giacimenti di metano porta infatti a un abbassamento molto rapido dei territori bonificati. le onde iniziano a erodere gli scanni. Dopo anni di avanzata dell’uomo sul mare, la prospettiva si ribalta. Dal 1951 al 1966 alluvioni devastanti annegano il Polesine, costringono all’esodo i suoi abitanti. L’acqua salata spacca gli argini, invade le stanze. Quando Sergio Zavoli visita per la Rai il villaggio di Goro nel 1963 commenta: «Anche il progresso li troverà rassegnati». Il progresso arriva a Goro il 1983, con l’introduzione delle vongole filippine. Mentre le specie adriatiche non reggevano la carenza d’ossigeno durante le secche d’estate, i molluschi asiatici reagiscono benissimo all’allevamento in laguna. Oggi l’Italia ne è il primo produttore in Europa. Il 98 per cento dei vivai è concentrato nei bassi fondali nell’alto Adriatico. Solo nel Delta veneto se ne raccolgono 10.500 tonnellate all’anno. La ricchezza e la fatica delle vongole sono il principale motivo d’abbandono scolastico. L’isolamento resta diffidenza: Goro fu caso nazionale tre anni fa per le barricate lungo la strada contro l’arrivo di alcuni richiedenti asilo. Maria Chiara Tosi insegna urbanistica all’università Iuav di Venezia. Per quattro anni ha portato ricercatori e studenti nel Delta per studiare la fragilità dell’ambiente, analizzandone cause e conseguenze, con l’obiettivo di proporre scenari possibili da qui al 2100. I risultati sono raccolti in una serie di pubblicazioni intitolate “Delta landscapes”. «Abbiamo tracciato due direttrici estreme, provando a immaginare il futuro staccandoci dalle convenzioni del qui e ora», racconta Tosi. La prima direzione è l’adattamento. La seconda la resistenza. «Adattamento significa accettare che il mare entri per cinque chilometri dalla costa, preparandosi a una diversa transizione fra acqua e terra. Bisogna lasciare che la linea di costa arretri. E che buona parte dei terreni oggi coltivati torni palude», spiega la professoressa: «Gli alti consumi energetici di alcune idrovore non servirebbero di più. L’acqua prelevata dalle altre andrebbe salvata. Sarebbero piantate foreste per fermare l’erosione. Alcuni insediamenti, paesi, andrebbero abbandonati, accentrando popolazione e servizi». Significherebbe abbandonare la colonizzazione della laguna, il progresso di Stato che ha asciugato il pantano portando l’economia e il paesaggio che conosciamo, «ma che è una forma artificiale», ribadisce Tosi, resa possibile dalle bonifiche. Vorrebbe dire anche convincere centinaia di persone a lasciar sommergere le proprie case. Le proprie radici, per quanto transitorie. «La modernità ha cambiato il nostro rapporto con la natura. Rendendoci meno disponibili ad adattarci. La restituzione al mare di parte del territorio è troppo difficile da accettare culturalmente», riflette Tosi: «Per cui anche se ritengo il primo scenario migliore, da un punto di vista ambientale e sociale, il più probabile è il secondo. Ovvero il contrasto: rafforzare e estendere gli argini, alzare barriere contro l’erosione e il cuneo salino. La nostra proposta è che almeno avvenga contando il più possibile su strumenti naturali come le barene, le dune, gli ambienti intermedi, che sono più resilienti agli eventi estremi». Gli scanni saranno presto un nuovo confine fra i regni.
Si chiama Majuli. È un'isola. E tra qualche anno non esisterà più. Una terra emersa di 500 chilometri quadrati nell’immenso fiume Brahmaputra. Cinquant’anni fa era grande il doppio e ora sta sparendo. Per sopravvivere i contadini hanno costruito palafitte. Ma i campi coltivabili diminuiscono. Francesca Marino il 6 gennaio 2020 su L'Espresso. Arrivi dopo un viaggio tra acqua e cielo immobili, color della cenere. I banchi di sabbia pallida si confondono con l’acqua e con un cielo dietro cui si affanna un sole velato. L’isola di Majuli, nello stato indiano dell’Assam, si annuncia piano, in sordina. Poi appare il pontile, quindi la strada che porta all’interno e che si nota appena, persa com’è tra canali placidi, confusi tra la vegetazione. Immobili. Majuli è la più grande isola fluviale abitata del mondo, nel mezzo del Brahmaputra, stato dell’Assam, nordest dell’India. Ma la sua posizione geografica particolare, quello che la rende unica, è anche ciò che minaccia da vicino la sua stessa esistenza. Le immagini satellitari mostrano chiaramente che la superficie dell’isola si è ridotta da 1.250 chilometri quadrati, nel 1971, a meno di 500 oggi. Più che dimezzata. E l’acqua continua a ricoprire ogni anno qualche metro di terra in più. L’esistenza di Majuli è minacciata da una combinazione di fattori: alcuni naturali, altri che dipendono dalle politiche ambientali degli anni scorsi. Nel 2017, ad esempio, l’isola ha subito una delle peggiori alluvioni della sua storia, causata da una rottura degli argini della diga di Dhonarighat, in Arunachal Pradesh, che fa parte del progetto Ranganadi Hydropower. I danni si sarebbero potuti almeno limitare se ci fosse stata una comunicazione tempestiva da parte delle autorità preposte al controllo della diga, ma nessuno ha pensato ad avvertire la popolazione di Majuli. Risultato, metà dell’isola è finita sott’acqua. E Majuli, se va avanti così, rischia di scomparire per sempre nel giro di una ventina d’anni. Così come la sua gente, costretta ormai a una vita seminomade dominata dalla paura dell’acqua. Molti sono già andati via, molti se ne andranno tra poco perché non hanno più una casa o terra da coltivare. Sull’isola, il tempo sembra essersi fermato. E non soltanto perché Majuli vanta un ecosistema quasi intatto e una delle atmosfere meno inquinate del mondo, ma anche perché in questo mondo sospeso tra cielo e fiume la vita scorre con ritmi e gesti perduti altrove. Correnti e pioggia rendono difficili le comunicazioni che sono limitate, in pratica, a una vecchia chiatta piena all’inverosimile di uomini, animali e mezzi. Sull’isola ci sono una sessantina di piccoli villaggi, per un totale di circa 150 mila persone. Villaggi in prevalenza di capanne fatte di bambù intrecciato e costruite su palafitte perché, durante la stagione dei monsoni finiscono nell’acqua. E se è vero che i suoi abitanti sono da sempre abituati a vivere accordando le loro esigenze ai ritmi del territorio, è vero anche che l’opera degli uomini sta accelerando l’opera di fiumi e correnti. La deforestazione selvaggia in alcune aree dell’Arunachal Pradesh e la creazione di argini artificiali lungo il corso del fiume, oltre alle dighe, ha non soltanto innalzato il letto del Brahmaputra ma ne ha parzialmente deviato il corso: e tutto questo, secondo i membri della locale Rural Economic Development Society, ha avuto un impatto devastante sull’isola. Nonostante Majuli sia stata dichiarata patrimonio dell’umanità dall’Unesco, proprio nella speranza che si riesca, in qualche modo, a non farla scomparire per sempre con tutto il suo patrimonio culturale ed ecologico. Majuli, difatti, è uno degli ultimi paradisi incontaminati, e ancora relativamente poco conosciuti, per i birdwatchers. Le strade sterrate che percorrono l’isola si snodano tra canali e laghetti immobili ricoperti di fiori di loto. I pesci guizzano a fior d’acqua e uccelli di ogni colore, forma e dimensione vagano tra i campi, nei boschi e ai bordi degli stagni. Dappertutto si sentono uccelli cantare. Dappertutto, uccelli di ogni colore e di specie rarissime vagano tra i campi, nei boschi, ai bordi degli stagni e nei laghetti in cui i pescatori gettano le reti. Le macchine sono poche, pochi i motorini, ancora più rari i mezzi di trasporto pubblico: la gente si muove in genere in bicicletta, o cammina. Negli ultimi anni qualcuno di buona volontà ha messo in piedi due-tre guest house ecosostenibili, pensando e sperando di incrementare un turismo consapevole e responsabile. Ma è difficile, quando sei costretto per la maggior parte dell’anno a lottare contro l’acqua e il vento. Nella maggior parte dell’isola la vita sembra essersi fermata a qualche secolo fa, come se anche il tempo fosse rimasto incagliato tra le anse del fiume e le baie, perso nel grigio soffice che confonde terra e cielo. Nei villaggi abitati in prevalenza dai tribali Mishing, le donne macinano il grano o il riso, fabbricano liquore di palma, tessono e ricamano abiti dagli intricati disegni. La gente offre all’ospite inatteso sorrisi, domande e noci di betel da masticare. Ci sono pescatori, e vasai che fabbricano la loro merce con una tecnica identica, pare, a quella degli antichi egizi. Le comunità indigene vivono tradizionalmente di pesca e di agricoltura, coltivano la senape e il bhao-dan, una varietà locale di riso. La terra, resa fertile dal limo, è sempre stata generosa con i contadini. Ma adesso, anno dopo anno, basta appena per vivere. «Le misure prese dal governo, che ha piazzato sacchetti di sabbia sulla maggior parte degli argini, non servono praticamente a nulla. Vanno sott’acqua con la terra, è uno spreco di denaro pubblico e niente più», dice uno dei contadini che ogni anno è costretto ad abbandonare casa e campi da coltivare per rifugiarsi verso l’interno. «Farebbero meglio a dare direttamente a noi quel denaro per vivere da un’altra parte». Strano ma vero, infatti, l’erosione e le alluvioni di Majuli, secondo la legge, non sono considerate calamità naturali e quindi le vittime dell’annuale flagello causato dall’acqua non ricevono alcuna compensazione. Eppure Majuli è stata e per certi versi è ancora, depositaria dell’antica cultura dell’Assam. Sull’isola ci sono i satra, ventidue monasteri (prima erano cinquantasei) a ricordo del tempo glorioso in cui Majuli era la capitale culturale della regione, che funzionano anche da centri di propagazione e conservazione della arti tradizionali: danza, fabbricazione di maschere rituali di cartapesta e di gioielli, canto. Alcuni monasteri sono ormai quasi in rovina, con monaci poveri e ospitali che ti offrono il chai (il the indiano) preparato, in onore dell’ospite, con tutto il latte che avrebbero consumato durante la giornata. Alcuni sono più ricchi, e chiudono le porte a mendicanti e gente comune. Accanto al satra in cui si dipingono le maschere, dentro a un tempio che è poco più di una enorme veranda, gruppi di donne vestite di bianco cantano bhajan (canti religiosi) sedute sotto a enormi statute di cartapesta degli dei sospese al soffitto come se volassero. Nel tempio di Kamalabari, il più grande dei satra, alla sera, alla luce di due-tre candele che illuminano a stento un grande stanzone semivuoto, i giovani studenti suonano grandi tamburi, danzando e cantando in onore del dio Krishna. Il premier Narendra Modi, in tempo di elezioni, aveva solennemente promesso di proteggere l’isola e la sua cultura, invece poco o nulla è stato fatto. Il Brahmaputra Board vanta una serie di misure contenitive delle alluvioni e dell’erosione e il governo dell’Assam ha un piano per il mantenimento della biodiversità. Ma, secondo i locali, nulla di tutto ciò funziona o potrà funzionare. Il cambiamento climatico, secondo gli esperti, ha avuto e avrà nel futuro un impatto devastante sul Brahmaputra e quindi su Majuli. «Non ci sono vere soluzioni», ci duce Zishaan Latif, un fotografo locale, «Bisogna accettare, come fanno i tribali, il fatto che non si può combattere questo fenomeno. L’erosione non si fermerà. Il mio contributo a tutto ciò è documentare la vita sull’isola per conservarne almeno la memoria». Prima che Majuli scompaia per sempre, tra nebbia e acqua.
Con il cambiamento climatico le locuste arrivano anche in inverno. Ed è una tragedia. Nell'Africa sudorientale la stagione secca è diventata lunghissima. Gli insetti divorano i raccolti e poi arrivano devastanti cicloni. I contadini non sanno più come fare, ma una Ong italiana, l’Avsi, sta insegnando le tecniche di adattamento climatico. E non solo. Alessandro Gilioli il 02 gennaio 2020 su L'Espresso. Il maestro elementare Manuel ride alla mia domanda, che in effetti era sciocca. Gli avevo chiesto se in tutta la sua vita avesse mai visto un suo ex alunno arrivare all’università. Zero, su migliaia di ragazzini passati tra suoi banchi. Un 5 per cento circa, dice, tenta il ciclo secondario: tutti gli altri vanno subito nei campi, a lavorare. Anche perché le femmine a 13-14 anni vengono fatte sposare, quindi l’ipotesi di proseguire gli studi, per loro, è proprio lunare. Anche da mogli, peraltro, continueranno a chinarsi in campagna per il resto della vita. Il Mozambico, secondo le classifiche internazionali, è il settimo paese più povero del mondo. È la miseria di una nazione rimasta quasi del tutto agricola, è un medioevo europeo trascinato nel XXI secolo prima dal colonialismo portoghese poi dalla lunga guerra civile tra i “marxisti” del Frelimo e i “liberisti” della Renamo: entrambi fra virgolette perché dopo la fine dell’Urss (che appoggiava una parte) e del regime razzista in Sudafrica (che sosteneva quella opposta) nel 1992 i due schieramenti hanno firmato la pace e oggi anche i loro confini ideologici si sono sfarinati: tanto che anche il Frelimo, sempre vittorioso alle elezioni, esegue fedelmente economie di mercato e ordini del Fmi. Nonostante questo, di industria in giro se ne vede pochissima: l’83 per cento dei mozambicani lavora in campagna e la loro vita dipende da quella. È sempre stato così, s’intende, e durante il colonialismo si stava anche peggio: gli anziani ricordano quando erano schiavi dei latifondisti portoghesi per i quali bisognava lavorare sette giorni su sette dall’alba al tramonto, e tutto il raccolto poi andava al padrone che arbitrariamente decideva quanto lasciarne ai contadini per sopravvivere. Dopo la cacciata dei portoghesi le terre sono state redistribuite, oggi ciascuno campa di quel che coltiva. Ma in quelle stesse terre, intanto, un altro problema è scoppiato, nuovo, imprevisto, pauroso: la stagione delle piogge che ogni anno arriva un po’ più tardi. Fino a una ventina d’anni fa l’acqua iniziava a cadere dal cielo a ottobre, quieta e tiepida, per poi bagnare i campi fino a primavera; adesso la terra resta secca fino a dicembre, quando il diluvio scroscia d’improvviso e «tudo de uma vez», tutto insieme. In pratica, a lunghe carestie succedono devastanti cicloni, e ciò che non viene seccato dalle prime, è marcito dai secondi. Nel 2019 di cicloni ne sono arrivati due, uno dopo l’altro: il primo, a marzo, ha fatto centinaia di morti e sommerso migliaia di villaggi, con 700 mila ettari di campi da buttare; un mese dopo ecco il secondo a finire il lavoro di devastazione. E “ciclone”, qui non vuol dire solo decine di migliaia di profughi e raccolti da buttare: significa anche che le strade non asfaltate (cioè quasi tutte, in campagna) si riempiono di voragini che le rendono impercorribili per mesi, con l’effetto di azzerare i commerci, quindi rinchiudendo ancora di più ogni villaggio nel suo feudalesimo. Poi ricomincia il sole feroce e a picco che prosciuga i fiumi in cui pescare e nei villaggi i tetti di lamiera - un lusso, quando bisogna difendersi dalle piogge torrenziali - trasformano le capanne in prigioni a cinquanta gradi. Finché non arrivano i “gafanhotos”, spaventose locuste verdastre che divorano tutto quello che cresce e che i contadini combattono avvelenando la terra con enormi quantità di pesticidi, quando hanno abbastanza soldi per procurarseli. Altri invece abbandonano i campi sterili per trasformarsi in minatori fai-da-te: una vanga e via, sulle colline di Capo Delgado, a nord del Paese, per ammazzarsi sotto il sole cercando polvere d’oro dentro rudimentali buche e cunicoli. Ne consegue ampio uso di mercurio (che purifica i frammenti d’oro dal terreno molto più velocemente del vecchio setacciamento), con danni enormi per chi vi espone e per tutti le coltivazioni dell’area, dato che il mercurio poi finisce nei rigagnoli che i contadini usano per irrigare. Il tutto per un reddito calcolato dai minatori stessi attorno ai trenta-quarantamila meticais all’anno, insomma un paio di euro al giorno. Di questo “day after” climatico quotidiano i contadini sono tutti consapevoli: dicono che tutto è iniziato a cambiare nei primi anni Novanta - proprio mentre stava finendo la guerra che aveva fatto un milione di morti - ma pochissimi sanno a cosa è dovuto. Paradossalmente, i concetti di “climate change” e di “riscaldamento globale” sono vissuti sulla pelle ma ignorati nelle loro cause: anzi, molti sperano che questo caos di torridezze e uragani presto finisca così come era arrivato, per incantesimo o per grazia - «estamos nas mãos de Deus», come dicono i più anziani. Molti giovani, invece, si sono rimboccati le maniche per reagire, in qualche modo, alla catastrofe meteorologica. Si parla quindi di “adattamento climatico”, cioè di coltivare di specie diverse, sconfinando a volte nei discussi Ogm: ad esempio, i vecchi anacardi portati dai portoghesi sono stati sostituiti da nuovi, geneticamente modificati per resistere a siccità e tempeste. Prima della guerra civile, il Mozambico era il primo esportatore di anacardi al mondo e ora il governo di Maputo punta molto sul rilancio di questa coltura. Ma la lotta agli effetti del “climate change” avviene anche in modo più sociale e collettivo, in particolare grazie all’idea di una Ngo italiana, l’Avsi, presente nel Paese dal 2011. Da qualche mese infatti quelli di Avsi hanno affiancato ai loro tradizionali programmi di cooperazione (perlopiù educativi e di sostegno diretto) anche un progetto partecipato di mappatura e identificazione delle aree climaticamente più vulnerabili, una cosa semplice a cui però nessun aveva pensato. In pratica, attraverso una rete di volontari nei villaggi l’Avsi raccoglie informazioni e identifica i problemi, intrecciando poi questi dati trasmessi oralmente con le fotografie satellitari. Questo lavoro consente quindi di definire le priorità d’intervento: dove c’è una buca da sistemare per riaprire una strada sterrata, dove i pozzi si sono seccati, dove bisogna scavare un canale di drenaggio per consentire alle acque di defluire quando arrivano le piogge, dove l’acqua da bere non è più potabile e occorre quindi un’azione immediata per prevenire epidemie - e così via. Nella regione interna di Namuno, a nord del Paese, il progetto-pioniere è stato implementato su nove diverse aree dove questi “gruppi di accompagnamento” locali riportano poi le informazioni al coordinamento di Avsi che si trova a Pemba, città costiera capoluogo della provincia. Ed è proprio qui, a Pemba, col suo mare corallino e le sue isole tropicali, che potrebbe giocarsi tutto il futuro di questo disgraziato Paese. Al largo della città è stato infatti trovato un colossale giacimento di gas naturale che una volta sfruttato potrebbe fare del Mozambico, fino a ieri fuori dalla mappa degli idrocarburi, il secondo produttore di Gnl al mondo, superato soltanto dal Qatar. È una cosa che vale attorno ai 150 miliardi di euro e su cui naturalmente si sono subito buttati i giganti del settore, da Anadarko a Exxon fino alla nostra Eni. Per il Paese africano potrebbe essere una mano santa, dal punto di vista economico, oppure una tragedia: le esperienze del passato dimostrano che questi ritrovamenti sono spesso detonatori di spaventosi conflitti d’accaparramento, come per esempio è accaduto in Sud Sudan dopo che è stato trovato il petrolio. Già qualche segnale in questo senso arriva: appena scoperto il gas, sono iniziati misteriosi attacchi armati ai villaggi del nord, vere e proprie mattanze di contadini innocenti - comprese decapitazioni di donne e bambini - da parte di uomini incappucciati e con i mitragliatori al collo. La versione ufficiale è che si tratti di estremisti islamici legati ai somali di Al-Shabaab, quella ufficiosa è che si tratti invece di stragi legate in qualche modo alla gigantesca trasformazione che vivrà tutta l’area, da spiaggia sonnacchiosa a Eldorado del gas liquefatto. E c’è addirittura chi pensa che dietro alle stragi ci sia il business della sicurezza, cioè le società di contractors che garantiscono l’incolumità degli stranieri e creando terrore vedrebbero decollare il loro business. Solo voci, naturalmente, ma intanto l’impennata della violenza brutale nel nord del Paese è un fatto assodato. E di tutto avrebbe bisogno il Mozambico, oggi, tranne che di una nuova guerra civile.
· I Peggiori incendi…
Incendi in California, la stagione si allunga: il 2020 è fra i peggiori degli ultimi 50 anni. Il bilancio delle vittime nella West Coast sale a 34. Le fiamme hanno distrutto più di un milione di ettari. I cittadini sono pronti al peggio, ma Donald Trump sminuisce il pericolo. Chiara manetti su L'Espresso il 18 settembre 2020. Uno strato di fumo copre il cielo di Sacramento, la capitale della California. Arianna ed Ereich, che ci vivono da più di un anno, non hanno visto il sole per una settimana. «Ci siamo trasferiti in questo Stato quasi sette anni fa e sappiamo che a settembre e ottobre, come fosse una ricorrenza, accadrà qualcosa » raccontano dal loro appartamento, dove lavorano in smartworking dall’inizio della pandemia. E qualcosa è accaduto anche quest’anno, perché gli incendi devastano la West Coast da settimane. Come mai prima d’ora. In tutto i roghi sparsi per la California sono 37 . E bruciano contemporaneamente. Per fermarli, più di 17mila pompieri lavorano senza sosta. Secondo i dati registrati dal governo locale, dall’inizio dell’anno il fuoco ha distrutto un’area più grande dello stato del Connecticut. Le vittime sono 34 e 60 mila persone sono state costrette ad abbandonare la propria abitazione. Per ora Arianna e suo marito non sono a rischio evacuazione, ma controllano le comunicazioni che il governo locale pubblica su Twitter ogni giorno: «Noi ci teniamo pronti con valigie e documenti, nel caso in cui la situazione fosse fuori controllo». Non lontano da casa loro, il 17 agosto, una tempesta di migliaia di fulmini ha generato più di 30 incendi, dando vita all’August Complex Fire. Con una furia mai registrata prima, ha bruciato 305 mila ettari: è come se più della metà delle foreste in Piemonte fosse stata ridotta in cenere in pochi giorni. E così August si è guadagnato il primo posto nella classifica dei 20 incendi più grandi nella storia della California. Non è la prima volta che Arianna ed Ereich assistono a fenomeni del genere: «Nel 2018 l’incendio di Los Angeles, diventato celebre perché distrusse le ville dei personaggi famosi a Malibù. C’era stato molto fumo nell’aria, ma mai come quest’anno» raccontano. L’8 novembre toccò alla cittadina di Paradise, a un’ora di viaggio da Sacramento. Morirono 56 persone, intrappolate in quello che sembrava un paradiso terrestre. Qui, negli anni Settanta, sorsero numerosi impianti per trattare il legno privi di sistemi antisismici o antincendio. Molte abitazioni vennero costruite in zone che avrebbero dovuto rimanere libere per la deforestazione e la costruzione di barriere anti-fiamme. E quando la Pacific Gas and Electric Company - azienda che oggi fornisce gas naturale ed elettricità a due terzi della California settentrionale - posizionò in modo sconsiderato i propri tralicci in mezzo alla foresta, quella divenne una bomba a orologeria. Sulla ricostruzione della città, Ron Howard ha realizzato un documentario, Rebuilding Paradise, con il sostegno di National Geographic. Il primato di rogo più grave di sempre guadagnato l’8 novembre 2018 dal Camp Fire, a Paradise appunto, sembra ora tendere verso August. «La stagione 2020 è tra le peggiori degli ultimi 50 anni» spiega Davide Ascoli, ricercatore presso il Dipartimento di Scienze Agrarie, Forestali e Alimentari dell’Università degli studi di Torino e coordinatore del gruppo incendi Sisef - Società italiana di selvicoltura ed ecologia forestale-. La California è un territorio ricco di vegetazione infiammabile, venti forti e «In uno scenario di surriscaldamento globale, i fenomeni atmosferici si intensificano notevolmente» racconta Ascoli, che ha collaborato a uno studio sulle tecniche di prevenzione degli incendi. Una si chiama “fuoco prescritto” e funziona così: bruciando la vegetazione più infiammabile in maniera scientifica e pianificata nelle stagioni più umide, si toglie l’innesco al fuoco. «In America hanno formalizzato l’uso dei roghi per mitigare il comportamento di quelli più estremi. Nella sola California ogni anno trattano in questo modo 50mila ettari. Noi, in tutta Europa, 10mila». Il dibattito per capire se e come utilizzare questi metodi nel nostro continente è ancora in corso. Certo è che nei territori intorno a Sacramento hanno escogitato numerosi piani per far fronte a questi fenomeni ogni anno più violenti. «L’innalzamento delle temperature crea maggiore energia nell’aria, di conseguenza le tempeste di fulmini tipiche della zona si rafforzano – spiega Davide Ascoli -. E se prima erano concentrate in certe settimane di luglio e agosto, da anni le troviamo anche a giugno e settembre. Così anche la stagione dei roghi si sta allargando: ora li chiamiamo “incendi non caratteristici” perché escono dalla loro stagione storica. Sono processi naturali, senza alcuna intenzione umana, politica o criminale alle spalle». Secondo il Presidente americano Donald Trump, di recente a Sacramento per un briefing sugli incendi, le cose si risolveranno perché «Il clima si raffredderà, vedrete». Ed è vero, le temperature si sono abbassate e Arianna lo può confermare: «Da più di una settimana ci sono 25 gradi, prima eravamo intorno ai 40». Sembra un paradosso, ma è questo quello che succede quando gli incendi si moltiplicano. E quando il sole della California rimane coperto per giorni da fumo e cenere.
Altro che Trump: l'America brucia (anche) per colpa degli ecologisti. Secondo i democratici i roghi sono frutto esclusivo dei cambiamenti climatici, ma gli esperti li smentiscono. Pur di attaccare Donald Trump, i dem dimenticano le colpe degli ecologisti. Roberto Vivaldelli, Lunedì 14/09/2020 su Il Giornale. Tutta colpa di Donald Trump? L'America continua a bruciare, devastata dai roghi. In particolare, come riportato dall'agenzia LaPresse, le fiamme da giorni non danno tregua a California, Oregon e Stato di Washington: in tutto sono morte almeno 15 persone e milioni di acri di terra sono andati distrutti. Nei giorni scorsi, più di 100 incendi in 12 stati hanno inghiottito oltre 4,3 milioni di acri, secondo l'agenzia governativa per la gestione dei roghi: l'equivalente di un territorio grande quasi quanto lo Stato del New Jersey. Tra gli incendi, quello divampato nel nord California ha assunto dimensioni tali da renderlo il più grande della storia dello Stato: causato da un fulmine lo scorso 17 agosto, è costato la vita ad almeno 10 persone, ha inghiottito da solo circa 470mila acri di terreni ed è stato contenuto solo per il 24% della sua estensione. Le foto satellitari pubblicate da Fox News sono impressionanti: l'immagine, twittata dal National Weather Service Weather Prediction Center, mostra il fumo che si estende dalla California fino al Michigan, passando per l'Oregon. Per i seguaci del climaticamente corretto e per i democratici, che vogliono strumentalizzare il divampare dei roghi per attaccare il "negazionista" Donald Trump, è tutta colpa dei cambiamenti climatici. "Quella che stiamo vivendo è una crisi climatica esistenziale" ha sottolineato su Instagram il governatore della California, Gavin Newsom. "Se non credi ai cambiamenti climatici" ha osservato in un altro post, allora "vieni in California". Il New York Times attacca a viso aperto il Presidente Usa, sottolineando che quando lunedì il presidente Trump volerà in California per l'emergenza roghi, si troverà faccia a faccia con le "tristi conseguenze di una realtà che ha ostinatamente rifiutato di accettare: gli effetti devastanti del riscaldamento del pianeta". Il Presidente, scrive il Nyt, ha usato ha usato la sua carica in modo aggressivo a favore della combustione di combustibili fossili, principalmente "annullando o indebolendo ogni importante politica federale intesa a combattere le emissioni pericolose". Allo stesso tempo, Trump ei suoi alti funzionari ambientali hanno regolarmente "preso in giro, negato o minimizzato" la scienza e la tesi sui cambiamenti climatici causati dall'uomo. Ma è davvero tutta colpa dei cambiamenti climatici? Gli esperti sono più divisi di quanto non dica il New York Times. E la causa di un fenomeno come questo non è mai una sola. Lo scorso gennaio, intervenendo alla conferenza annuale del Consiglio nazionale per la scienza e l'ambiente a Washington Dc, Scott Stephens, professore di scienze presso l'Università della California, Berkeley, ha affermato che forse il 20-25% dei danni causati dagli incendi è derivato dal cambiamento climatico, mentre "il 75 per cento è derivato dal modo in cui gestiamo le terre e sviluppiamo il nostro paesaggio". Stephens ha notato che nei secoli passati gli incendi erano molto più diffusi di quanto non lo siano oggi e hanno svolto un ruolo vitale nell'ecosistema della California aiutando a diradare le foreste. Nel XVIII secolo, ad esempio, quando la California era occupata da comunità indigene, gli incendi avrebbero bruciato circa 4,5 milioni di acri all'anno, ha rimarcato Stephens, mentre dal 2013 al 2019 gli incendi hanno bruciato una media di appena 935.000 acri all'anno in California. Anche nel 2018, l'anno peggiore per gli incendi in California, i roghi hanno consumato solo 2 milioni di acri. "Il fuoco era importante quasi quanto la pioggia per gli ecosistemi", ha detto Stephens. Jennifer Montgomery, direttore della California Forest Management Task Force, ha affermato che il cambiamento climatico non ha causato incendi, ma li ha "accelerati" creando un clima più caldo e secco che ha aggravato gli incendi naturali. "Il cambiamento climatico è un amplificatore per i sistemi naturali e gli eventi naturali", ha detto Montgomery. Importanti responsabilità del divampare dei roghi le hanno più che altro proprio gli ecologisti e i loro "amici" democratici. Come riporta Libero, un'inchiesta del 1999 dell'Associated Press spiegava come al tempo gli esperti di silvicoltura, gli ambientalisti e l'industria del legname concordarono sul fatto che, per prevenire i roghi, fosse necessario bruciare il sottobosco con incendi controllati, come si era fatto anche in passato, e autorizzare una raccolta contingentata del legname. Nulla di tutto questo, però, è stato fatto negli ultimi vent'anni, proprio a causa degli ambientalisti, contrari a qualsiasi intervento dell'uomo e alle politiche del partito democratico nella sua roccaforte. Con i risultati che tutti oggi vediamo non solo in California ma anche negli altri Stati americani colpiti dai roghi.
Antonello Guerrera per “la Repubblica” il 2 gennaio 2020. L'altra sera a Malua Bay, nel sud-est del Paese, oltre mille persone, impanate di cenere e afflitte da un fumo mortale, sono scese in spiaggia e hanno dormito lì, a pochi metri dal mare. Era la loro ultima speranza per salvarsi dai roghi apocalittici che da settimane devastano l' Australia. «Non riesco più a respirare" » ha scritto Mark Mordue sul Sydney Morning Herald , «mi sembra di essere nel film Blade Runner 2049 . Il futuro morto di Sydney è arrivato». L'ultima furia di incendi in Australia, soprattutto nelle aree del Nuovo Galles del Sud, di Sydney e della capitale Canberra, da settembre ha già provocato 18 morti, 8 dei quali solo nelle ultime 48 ore (e ci sono due dispersi). Fiamme di oltre 70 metri, più alte dell' iconica Sydney Opera House, 3 milioni di ettari rasi al suolo nel solo Nuovo Galles del Sud dal 1 luglio scorso. Un'ecatombe naturale, se pensiamo che gli incendi in California nel 2018 spazzarono via 1,8 milioni di ettari e i recenti in Amazzonia 900mila. Case incenerite, vite spezzate, boschi e più di 500 milioni di piante e animali (molti koala e canguri) arsi vivi. Una civiltà annientata. «Il sole non si vede più», ha twittato Annie Pappalardo di Christchurch, come spesso non si vede in Cina e in India causa inquinamento. In compenso si vede il fumo dalla Nuova Zelanda, a 2mila chilometri di distanza. Gli incendi in Australia in questo periodo non sono purtroppo una novità: nel febbraio del 2009 un "sabato nero" fece 180 vittime. Ma stavolta le fiamme si sono diffuse un po' ovunque nel Paese, come un virus inarrestabile, aizzato da temperature record (fino a 46 gradi), siccità e forti venti. Ieri c' è stata una piccola tregua climatica e, tragica ironia della sorte, i pompieri - diversi i volontari uccisi - hanno fatto ricorso al back burning , bruciando di loro sponte alcune aree per bloccare, paradossalmente, la propagazione dei roghi. «Gli incendi segneranno il nostro futuro», scriveva Edward Struzik nel suo fondamentale Firestorm . Alla vigilia di Capodanno, in Regno Unito, il principe William ha lanciato un disperato allarme sull' ambiente mentre annunciava l' Earthshot Prize, un nuovo fondo di milioni di sterline contro il global warming: «Abbiamo soltanto dieci anni per salvare la Terra». Una scomoda verità, come scriveva anni fa Al Gore. E sempre più tremenda.
Australia, oltre 180 persone denunciate e 24 arrestate per incendio doloso. Wwf: un miliardo di animali uccisi da fiamme. Da settembre le fiamme hanno causato almeno 25 vittime. Canberra ha registrato la peggiore qualità dell'aria al mondo: cittadini dotati di 100mila maschere per la respirazione. Autorità ordinano abbattimento di 10mila cammelli. La Repubblica il 07 gennaio 2020. Le autorità australiane hanno identificato e denunciato oltre 180 persone sospettate di aver appiccato deliberatamente incendi boschivi. E tra queste 24 sono state arrestate. I provvedimenti sono stati assunti dal mese di novembre a oggi. In particolare 29 incendi sono stati deliberatamente causati nella regione di Shoalhaven, nel sud-est del Nuovo Galles del Sud, in soli tre mesi. Gli arresti sono stati effettuati in relazione a incendi dolosi appiccati nel Nuovo Galles del Sud, a Queensland, Victoria, nell'Australia Meridionale e in Tasmania.
Vittime e case distrutte. Da settembre le fiamme che devastano l'Australia hanno causato almeno 25 vittime. Ora il timore è che due enormi incendi negli altopiani meridionali possano unirsi per diventare un "mega incendio". Sono stati già distrutti oltre 10 milioni di ettari di terreno, pari all'estensione dell'Islanda. I due stati federali maggiormente colpiti sono il Nuovo Galles del Sud e Victoria: nel primo si contano 1.588 case distrutte e 653 danneggiate, nel secondo almeno 450 abitazioni incenerite. I dati sono ancora incompleti.
Wwf: un miliardo di animali uccisi. Secondo le ultime stime del Wwf Australia oltre un miliardo di animali potrebbero essere stati uccisi direttamente o indirettamente dagli incendi: "Un bilancio che può essere descritto con una sola parola: apocalisse. Si tratta di una perdita straziante, che comprende migliaia di preziosi koala della costa centro-nord del New South Wales, insieme ad altre specie iconiche come canguri, wallaby, petauri, cacatua, potoroo e uccelli melifagi".
La strage dei cammelli. Dai 5 ai 10mila cammelli selvatici nell'Australia Meridionale saranno abbattuti dai tiratori professionisti in elicotteri già da domani su ordine del capo della comunità degli aborigeni di Anangu Pitjantjatjara Yankunytjatjara per impedire agli animali di consumare l'acqua nella regione devastata dalla siccità. L'abbattimento dovrebbe durare cinque giorni, la comunità si lamenta che gli animali invadono le proprietà in cerca di acqua.
Il clima migliora. Qualche temporale sta dando sollievo ai vigili del fuoco. Ma le condizioni atmosferiche non sono stabili e potrebbero peggiorare nel corso della settimana.
Critiche al primo ministro. Il primo ministro Scott Morrison è stato travolto dalle critiche per la sua tardiva risposta nel mettere insieme le risorse nazionali contro gli incendi. Ma ha anche dichiarato che il suo governo conservatore non rafforzerà le politiche per combattere i cambiamenti climatici. Morrison è stato accusato anche di voler politicizzare la crisi piagandola a suo vantaggio dopo aver pubblicato uno spot pubblicitario di 50 secondi sul dispiegamento di forze. È l'ennesimo passo falso dopo le polemiche causate per la sua vacanza senza preavviso prima delle feste natalizie alle Hawaii nel mezzo della crisi. Una volta tornato, Morrison è stato anche filmato mentre voltava le spalle a una donna incinta che chiedeva più risorse per affrontare gli incendi durante una visita in una comunità devastata dai roghi.
A Canberra aria irrespirabile. La capitale, che ha circa 500mila abitanti, è stata una delle più colpite dal fumo che ha avvolto l'Australia sudorientale per settimane. Lunedì Canberra ha registrato la peggiore qualità dell'aria al mondo, durante il fine settimana sono state consegnate ai cittadini circa 100mila maschere con filtri protettivi per la respirazione. Decine di voli e servizi postali sono stati cancellati. Lunedì sono stati chiusi i centri di assistenza all'infanzia, negozi e musei. Il Dipartimento degli Affari interni ha chiuso i suoi uffici almeno fino a mercoledì, consentendo al personale non essenziale di restare a casa.
Il fumo raggiunge il Sud America. Il fumo degli incendi ha viaggiato più di 12.000 chilometri ed è arrivato, ben visibile, nei cieli di Cile e Argentina, senza però mettere a rischio la salute degli abitanti dei due Paesi sudamericani. E secondo gli esperti sta per raggiungere anche il Brasile.
Turisti bloccati a Melbourne. La coltre di fumo tossico ieri ha raggiunto Melbourne, la più grande città del Victoria. La marina australiana è stata dispiegata per salvare centinaia di turisti bloccati da un incendio e costretti a rifugiarsi sulla spiaggia di Mallacoota.
Danni e donazioni. Il conto per gli incendi che dovranno pagare le società australiane di assicurazione è arrivato a 700 milioni di dollari australiani (485 milioni di dollari Usa). Lo ha reso noto l'Insurance Council of Australia, precisando che da settembre sono state presentate 9mila richieste di risarcimento. Il numero delle richieste potrebbe tuttavia aumentare significativamente nei prossimi giorni. Sono stati distrutti quasi 12,3 milioni di acri nel solo Nuovo Galles del Sud. Milioni di dollari di donazioni e sostegno stanno arrivando da celebrità internazionali, star dello sport e dalla famiglia reale britannica.
Incendi in Australia, non solo climat change: 183 persone arrestate per incendio doloso. Pubblicato martedì, 07 gennaio 2020 su Corriere.it da Antonella De Gregorio. Le autorità australiane hanno arrestato 183 persone con l’accusa di aver appiccato deliberatamente incendi boschivi negli ultimi mesi. In particolare, gli incendi dolosi sarebbero stati appiccati nel Nuovo Galles del Sud (qui le foto), a Queensland, Victoria, nell’Australia Meridionale e in Tasmania. Dal mese di settembre, almeno 25 persone hanno perso la vita a causa delle fiamme che devastano il Paese. Nello Stato del Nuovo Galles del Sud, più di 180 persone sono state accusate di reati relativi agli incendi boschivi, mentre 24 sono state arrestate per aver provocato deliberatamente incendi. Nello Stato di Victoria, 43 sono le persone accusate di incendi dolosi nel 2019, mentre nel Queensland 101 persone sono state arrestate; il 70 per cento di loro è minorenne. Nei giorni scorsi ha fatto il giro del mondo un video in cui si vede il primo ministro conservatore, Scott Morrison, in visita a Cobargo, cittadina pesantemente colpita dagli incendi, contestato dagli abitanti per aver fatto troppo poco contro l’emergenza. Morrison, accusato di voler politicizzare la crisi, ha anche dichiarato che il suo governo conservatore non rafforzerà le politiche per combattere i cambiamenti climatici. L’ennesimo passo falso dopo le polemiche causate per la sua vacanza senza preavviso prima delle feste natalizie alle Hawaii nel mezzo della crisi. Da 4 mesi le fiamme stanno divorando il Paese: 25 persone sono morte dall’inizio degli incendi ad agosto, 14 solo nel 2020. E ancora, 500 milioni di animali hanno perso la vita e oltre 5 milioni di ettari di sono andati in fumo. Si calcola che almeno 1.800 abitazioni siano state ridotte in cenere. I vigili del fuoco e volontari stanno lottando da mesi per domare le dozzine di incendi, ancora fuori controllo nella parte orientale dell’enorme continente insulare. Le precipitazioni di lunedì hanno offerto una tregua relativa, ma sono state insufficienti per spegnere gli incendi. In alcune zone hanno persino complicato le operazioni di soccorso. Nella giornata di martedì hanno intensificato gli sforzi, approfittando del clima meno sfavorevole, prima della nuova ondata di calore prevista nei prossimi giorni. Un’ulteriore misura della portata della drammatica stagione degli incendi, è stata fornita dai meteorologi cileni e argentini, che hanno annunciato che il fumo dei fuochi australiani è stato individuato nei cieli di questi due paesi, a oltre 12mila chilometri di distanza dall’Australia. Non è ancora noto quale sarà il costo finanziario dell’emergenza: il Consiglio degli assicuratori australiani ha calcolato che le richieste di risarcimento ricevute dalle società ammontano già a 700 milioni di dollari australiani (433 milioni di euro), importo destinato ad aumentare. Il primo ministro si è impegnato a donare due miliardi di dollari australiani in due anni (1,2 miliardi di euro) di entrate fiscali provenienti da un fondo nazionale per l’assistenza alle vittime di incendi.
L’Australia continua a bruciare: la ricostruzione in 3D è terrificante. Redazione de Il Riformista il 6 Gennaio 2020. Un’area grande quanto l’Irlanda è stata trasformata in paesaggi infernali, dove le fiamme hanno distrutto tutto, rendendo l’aria irrespirabile e uccidente quasi 500 milioni tra uccelli, rettili e mammiferi. La scia di incendi che ha messo in ginocchio l’Australia è senza eguali. La foto è una ricostruzione in 3D e rende l’idea di come sarebbe l’Australi in questo momento vista dall’alto. Il governo, aspramente criticato per la sua reazione mite, ha impegnato due miliardi di dollari australiani, pari a un miliardo e 250 milioni di euro, in due anni per sostenere le comunità colpite a riprendersi dalla catastrofe. Ma l’emergenza non è destinata a placarsi: secondo le autorità locali andrà avanti per settimane o addirittura mesi. Il premier Scott Morrison, criticato per la sua lenta risposta all’emergenza, ha impegnato 1,4 miliardi di dollari di denaro dei contribuenti per un fondo nazionale di ricostruzione. “E’ una lunga strada da percorrere e saremo con queste comunità in ogni fase del processo di ricostruzione”, ha dichiarato Morrison.
STRAGE DI ANIMALI – Gli esperti dell’Università di Sydney stimano che ne siano morti quasi 500 milioni, tra uccelli, rettili e mammiferi. LE strade si sono trasformate in un vero e proprio cimitero con carcasse di koala e canguri, animali simbolo del Paese.
25 VITTIME – La polizia del New South Wales ha confermato oggi la morte di un uomo di 71 anni. Si tratta della 25esima vittima di questa devastante stagione degli incendi, iniziata a settembre, nella quale sono già andate distrutte oltre duemila abitazioni. L’uomo era stato avvistato l’ultima volta il 31 dicembre. Il suo corpo è stato ritrovato a Nerrigundah, nell’Eurobodalla Shire. Nonostante la pioggia, gli incendi attivi nel New South Wales rimangono oltre 140, tutti al livello di allerta più basso. Nello stato di Victoria, i focolai sono 39, nessuno dei quali a livello di emergenza. La pioggia ha però consentito un po’ di sollievo ai vigili del fuoco e a quanti sono impegnati nella battaglia contro le fiamme e ha permesso ai soccorritori di portare gli aiuti anche alle comunità più isolate. Nella città costiera di Mallacoota, rimangono in attesa di evacuazione circa 300 persone, dopo che il fumo ha costretto gli aerei di soccorso a rimanere a terra. A Canberra, uffici pubblici, musei, parchi, attività commerciali e università rimangono chiusi e le autorità hanno chiesto alla popolazione di rimanere in casa, a causa dell’aria resa irrespirabile dal fumo.
I SOCCORSI – Un video realizzato dalla Royal Australian Air Force mostra le condizioni proibitive nelle quali sono costretti a operare i piloti impegnati nei soccorsi alle aree devastate dagli incendi. “Il nostro personale è altamente addestrato e professionale, ma non sempre si resce a completare la missione al primo tentativo”, scrivono su Twitter. Nonostante nelle ultime ore l’arrivo della pioggia abbia concesso un po’ di sollievo, il livello di emergenza per i roghi resta altissimo e il bilancio pesantissimo.
LE PREVISIONI – Gli incendi che stanno distruggendo i due Stati australiani del Nuovo Galles del Sud e del Victoria sono per ora tenuti a bada dalla pioggia che cade su entrambi gli Stati. Ma c’è poco da rallegrarsi perché il servizio meteorologico nazionale ha allertato che da giovedì le temperature ricominceranno ad alzarsi e gli incendi potrebbero divampare nuovamente. Due giorni fa il caldo ha raggiunto i 49°. Il fumo degli incendi boschivi intanto si è spostato per migliaia di chilometri attraverso il Mare di Tasmania, colorando di arancione il cielo sopra Auckland, a duemila chilometri da Sydney (Nuovo Galles del Sud). Stamattina 10 km separavano un incendio nel Victoria’s Corryong e altri due nel Kosciuszko National Park nel Nuovo Galles del Sud. Il timore è che i tre si sincontrino per creare un gigantesco rogo. “Questa è una situazione mutevole e dinamica”, hanno detto i ricercatori, avvertendo che era “inevitabile” che gli incendi si sarebbero uniti oltre il confine. L’aria di Canberra è stata recentemente qualificata come la peggiore del mondo. Il premier non sta facendo una bella figura e rischia la poltrona. A cominciare da quando se n’è andato in vacanza alle Hawaii, proprio mentre il suo Paese stava affrontando quella che in molti hanno definito “un’apocalisse”.
Chi è Scott Morrison, l’uomo del carbone che (adesso) l’Australia odia. Pubblicato martedì, 07 gennaio 2020 su Corriere.it da Antonella De Gregorio. Cinquantun anni, figlio di un commissario di polizia e dall’agosto 2018 Primo Ministro australiano (settimo negli ultimi dieci anni), Scott Morrison - o «ScoMo», com’è soprannominato - è già negli annali della politica del Paese per una doppia acrobazia: aver offerto un pezzo di carbone al Parlamento federale, ed essersi attirato le ire dei concittadini per una vacanza alle Hawaii nel pieno dell’emergenza incendi. Nel primo caso, un’immagine diventata virale addita il premier conservatore come il «negazionista» che antepone alla realtà gli interessi delle compagnie minerarie. Lui, che nel 2017 si presentò in Parlamento con un pezzo di carbone tra le mani, dicendo «non dovete aver paura, non vi farà male», dichiarò poi che «la priorità del governo è di assicurare che i prezzi dell’elettricità siano più bassi per le famiglie e per le aziende»; mentre il governo di Canberra e l’industria mineraria australiana respingevano il rapporto del Comitato dell’Onu per il clima. Documento che chiede l’eliminazione graduale di tutte le centrali a carbone entro la metà del secolo, e di lasciare inutilizzate la maggior parte delle riserve di combustibile fossile, per evitare un riscaldamento globale deleterio. Quello che, con ogni evidenza, sta consumando l’Australia, dove da ormai tre mesi, proprio per via del caldo anomalo, gli incendi devastanti (non i soliti incendi boschivi stagionali, che si sono sempre verificati) hanno bruciato più di sei milioni di ettari di terra, causato la morte di 25 persone, bruciato migliaia di case. La colpa, secondo gli esperti, è da attribuire soprattutto ai cambiamenti climatici: le condizioni più calde e più secche dovute al riscaldamento globale hanno aumentato la frequenza e l’intensità dei roghi. Nonostante la situazione catastrofica, il premier è rientrato con riluttanza e in ritardo, a metà dicembre, dalle vacanze natalizie alle Hawaii. Un fatto che ha suscitato non poche polemiche: ha fatto il giro del mondo un video in cui si vede il primo ministro, in visita a Cobargo, cittadina pesantemente colpita dagli incendi, contestato dagli abitanti per aver fatto troppo poco contro l’emergenza. In una conferenza stampa, il primo ministro ha chiesto pubblicamente scusa per essere partito «non proprio al momento giusto», ma ha subito aggiunto che in questa fase serve unità, e non discordia. In un’intervista tv, Morrison ha poi ammesso il collegamento tra incendi e cambiamenti climatici, ma ha anche ribadito che non modificherà le politiche del governo riguardo alle emissioni di gas serra. «Affronteremo responsabilmente i cambiamenti climatici, ma non cancelleremo il lavoro di migliaia di australiani allontanandoci dalle industrie tradizionali», ha affermato. Tradotto, via libera all’uso di combustibili fossili, in particolare il carbone. «Il governo ed io abbiamo sempre riconosciuto la connessione tra eventi meteorologici e incendi con l’impatto dei cambiamenti climatici globali», aveva spiegato Morrison. Tuttavia, aveva sottolineato che il cambiamento climatico è solo uno dei fattori che hanno causato gli incendi insieme alla siccità, ai fuochi controllati, a quelli intenzionali e aveva respinto le richieste al governo di modificare le sue politiche. Ora il premier, aspramente criticato per la sua reazione lenta all’emergenza, ha impegnato due miliardi di dollari australiani (circa 1,4 miliardi di dollari Usa) di denaro dei contribuenti per un fondo nazionale di ricostruzione. «ScoMo», che da giovane ha avuto una breve carriera da attore e ha lavorato nel settore della promozione turistica dell’Australia, è un fervente cristiano e fa parte di una Chiesa pentacostale, dove ha incontrato la moglie, Jenny, con cui è sposato da quando aveva 21 anni. Nella politica federale ha debuttato nel 2007, vincendo un seggio a sud di Sidney. Nel decennio trascorso in Parlamento ha ottenuto tre ministeri. Da ministro dell’Immigrazione e della Protezione dei confini, nel 2013, ha avviato la politica «stop the boats» (fermiamo le barche), la dura strategia guidata dai militari per fermare le barche non autorizzate in partenza per l’Australia. Morrison è poi passato al ministero dei Servizi sociali ed è poi diventato Tesoriere. Dopo più di un decennio in Parlamento, ha ottenuto lo scranno più alto: Primo Ministro.
Australia, il ministro dei Trasporti: "Questa non è un'emergenza, ma una bomba atomica". Lo ha detto Andrew Bega, in un post sui social. I morti, dall'inizio degli incendi a settembre, sono saliti a 21. Intanto sono scesi in campo sportivi e star per una raccolta fondi, da Naomi Watts a Russel Crowe. La Repubblica il 4 gennaio 2020. "Questo non è un incendio boschivo, è una bomba atomica", lo ha detto alla Abc Radio Sydney Andrew Constance, ministro dei trasporti del Nuovo Galles del Sud, paragonando gli incendi della Costa meridionale a "una deflagrazione atomica. È indescrivibile l'inferno e la devastazione che ha causato." Le autorità si stanno preparando per una nuova pericolosa fase degli incendi che stannao devastando l'Australia da settembre. In questi giorni le operazioni di soccorso sono ostacolate da alte temperature e forti venti destinati ad aggravare le già devastanti condizioni di fuoco in tutto il Paese. Si teme che un certo numero di incendi ancora infuriati possano fondersi per creare "mostri infernali" nel Victoria e nel Nuovo Galles del Sud. Le previsioni di oggi diffuse dal Nuovo Galles del Sud. L'incendio più grande che si vede nella mappa, dicono gli esperti, è grande come Manhattan. Avvisi di emergenza sono stati diramati nel Victoria e nel Nuovo Galles del Sud, con temperature torride e venti imprevedibili in arrivo, fino a oltre 100 km/h che alimentano centinaia di incendi che continuano a bruciare la gran parte dell'Australia orientale. Sono stati schierati migliaia di vigili del fuoco, ma si teme che le fiamme possano diffondersi in regioni incontaminate. Nel frattempo, un'immagine di devastazione sta emergendo sull'isola Kangaroo Island, nel Sud dell'Australia - metà delle abitazioni è stata rasa al suolo da un incendio fuori controllo che ha ucciso almeno due persone. Oggi il primo Ministro Scott Morris, che sta rischiando la poltrona seriamente, ha annunciato il dispiegamento di 3000 riservisti delle forze di difesa. La marina australiana è salpata da Sydney per assistere alle evacuazioni degli incendi nel Nuovo Galles del Sud e anche nel Victoria. Numerose celebrità hanno condiviso il loro cuore spezzato durante la crisi degli incendi in Australia, affollandosi sui social media per esprimere la loro devastazione mentre le temperature nel Nuovo Galles del Sud salgono e migliaia di persone fuggono. Le superstar nazionali e internazionali sono scese in campo per raccogliere i fondi e aiutare nel domare gli incendi. La cantante Pink ha dichiarato su Twitter che donerà 500 mila dollari "direttamente ai vigili del fuoco locali che stanno combattendo così duramente in prima linea". La cantautrice ha scritto di essere stata "totalmente devastata". L'attrice Naomi Watts ha pubblicato su Instagram un video di una sua recente vacanza a Byron Bay, nel Nuovo Galles del Sud: "Questa crisi è sconvolgente e preoccupante. Questa è stata la mia ultima vigilia a Byron, Per avere un'idea dei suoni regolari della fauna selvatica, per favore, alza il volume. Gli incendi sono stati davvero orrendi. Il mio cuore va a coloro che hanno perso le persone care e le case. Grande gratitudine per i coraggiosi pompieri che non si sono mai fermati durante le vacanze. Cuore spezzato per tutti gli animali, le piante e la terra ... prega per la pioggia." Il tennista Nick Kyrgios, che ha promesso in lacrime di donare 200 dollari per ogni punto fatto questa estate, venerdì ne ha già fatti 20 contro il tedesco Jan-Lennard Struff, portando il suo totale a 4 mila dollari. Dopo che la sua proprietà di Coffs Harbour è stata colpita dalle fiamme a fine anno, Russell Crowe ha denunciato gli incendi su Twitter e Instagram. Pubblicando una serie di immagini scattate vicino a casa sua, l'attore scrisse a novembre: "Brucia ancora ... dicono che un cambiamento del vento potrebbe far ripartire la vita nella valle. Spero che ovunque tu sia, in Australia, in California o in qualsiasi altro luogo affetto dagli incendi boschivi, possiate essere al sicuro".
L’Australia si sta suicidando: gli incendi saranno la sua Chernobyl? Pubblicato sabato, 04 gennaio 2020 su Corriere.it da Gianluca Mercuri. Quattro mesi di incendi devastanti, un’area grande quanto il Belgio incenerita, la Grande Barriera Corallina agonizzante, le foreste pluviali in fiamme, quelle di alghe kelp in gran parte svanite, la fauna sterminata. «L’Australia si sta suicidando», è il grido di dolore dello scrittore Richard Flanagan sul Nyt, ed è un «suicidio climatico» guidato da un classe politica irresponsabile, «la cui risposta a questa crisi senza precedenti non è stata difendere il paese, ma difendere l’industria del carbone, grande sovvenzionatrice di entrambi i maggiori partiti». Bisogna dunque capire la politica e l’economia australiane, per capire questo suicidio. Dal 1996, scrive Flanagan, i governi conservatori si impegnano a non rispettare gli accordi sul clima. Perché l’Australia è il massimo esportatore mondiale di carbone e gas. E anche uno dei peggiori inquinatori pro capite e il 57° paese — su 57 — in una recente classifica sulla lotta al cambiamento climatico. Anziché avviare un dibattito su come mantenere il benessere economico senza suicidarsi, la classe dirigente si è impegnata nel negazionismo climatico. Due nomi chiave. Uno ignoto: Clive Palmer, oligarca delle miniere del carbone, che ha fondato un partito-fantoccio con l’unico scopo di tenere lontani dal potere i laburisti, che proponevano interventi ecologisti limitati ma concreti. L’altro è stranoto: Rupert Murdoch, il moloch dei media planetari che nel suo paese controlla il 58% della stampa, tutta negazionista climatica. In questo quadro non poteva che emergere un leader vergognoso come Scott Morrison, una caricatura di Trump mal riuscita, uno «che si è fatto un nome come ministro dell’Immigrazione, perfezionando la crudeltà di una politica che interna i profughi in campi infernali nelle isole del Pacifico, e sembra indifferente alla sofferenza umana», scrive il romanziere con una prosa indignata il cui contenuto sarà opinabile ma che l’ottusità del primo ministro sembra far di tutto per motivare. A Natale, mentre il Paese bruciava, ha annunciato che se ne andava in vacanza alle Hawaii. Tornato precipitosamente, si è affannato a minimizzare la tragedia, a dire che era il solito incendio che capita tutti gli anni, e che gli australiani sono abituati ad affrontare «catastrofi naturali, inondazioni, guerre mondiali, malattie e siccità». Ma forse gli australiani hanno smesso di bersi queste boiate patriottiche. La patria hanno cominciato a difenderla giovedì, quando Morrison, in visita a una città in fiamme, ha ignorato una donna che gli chiedeva aiuto e una folla indignata l’ha costretto a scappare. «Morrison può avere una macchina della propaganda massiccia nella stampa di Murdoch ed è senza opposizione, ma la sua autorità morale sbiadisce di ora in ora», scrive Flanagan. Che paragona l’Australia di oggi all’Unione Sovietica degli anni ‘80, «quando l’apparato dominante era onnipotente ma perdeva la fondamentale autorità morale per governare». Allo stesso modo, l’establishment australiano, «reso folle dalle sue stesse fantasie, si trova davanti a una realtà mostruosa che non ha né la capacità né la volontà di affrontare». Mikhail Gorbaciov, ricorda Flanagan, scrisse nel 2006 che il collasso dell’Urss era cominciato con il disastro di Chernobyl. «Che la tragedia australiana sia la Chernobyl della crisi climatica?».
Piromani, negazionisti e animali: tutte le fake news sugli incendi in Australia. Pubblicato domenica, 12 gennaio 2020 su Corriere.it da Marta Serafini. La prima questione riguarda i piromani. Nei giorni scorsi la stampa australiana ha parlato di 40 minorenni che non hanno esitato ad appiccare il fuoco consapevolmente in piena emergenza incendi, forse per gioco o magari perché suggestionati dalle notizie viste in televisione. A confermare la notizia è la polizia australiana, che ha reso noto di aver arrestato oltre 180 sospetti nel New South Wales, tre solo nell’ultimo fine settimana. Si tratta però — sottolineano i portavoce delle forze dell’ordine — di fermi che non sono stati tutti convalidati e tra i quali rientrano anche i casi di incuria. Nonostante la prudenza degli agenti, la notizia ha fatto la gioia di quanti in queste ore negano che vi sia una correlazione tra l’aumento dei roghi e il cambiamento climatico. In testa a tutti, il deputato liberale Craig Kelly che, intervenendo all’Abc ha tuonato «come è possibile che incendi dolosi siano causati dai cambiamenti climatici?», salvo poi insultare una meteorologa definendola «un’ignorante ragazza del tempo», mentre lei snocciolava il suo curriculum ricco di anni di studi.
Cosa è vero, e cosa no, di ciò che abbiamo letto sugli incendi in Australia. Agi il 10 gennaio 2020. Dai piromani agli animali uccisi. Sui social e sui media tradizionali hanno iniziato a circolare in poco tempo diverse storie e immagini sui roghi australiani, ma non tutte sono vere. Da settimane l’Australia è devastata da centinaia di incendi, una notizia tra le più commentate degli ultimi giorni, come già era accaduto per i roghi in Amazzonia dell’agosto 2019. Ad oggi si stima che le fiamme abbiano bruciato un’area grande oltre 84 mila chilometri quadrati, una superficie superiore a quella di Piemonte, Lombardia, Liguria e Valle d’Aosta messe insieme. Sui social e sui media tradizionali hanno iniziato a circolare in poco tempo diverse storie e immagini sui roghi australiani, ma non tutte sono vere. Dall’arresto di decine di «piromani» alla morte di «un miliardo di animali», cerchiamo di fare un po’ di chiarezza su uno dei disastri ambientali più gravi degli ultimi anni.
No, non sono stati arrestati circa 200 piromani. Nelle ultime ore, in Italia è circolata molto una notizia – che si è poi rivelata essere falsa – sull’arresto da parte della polizia australiana di circa 200 piromani, accusati di aver appiccato deliberatamente incendi boschivi. Questa, secondo i negazionisti climatici, sarebbe stata una prova che il riscaldamento globale non c’entra con i roghi (cosa anche questa non vera, come vedremo meglio più avanti). Il 7 gennaio il sito di fact-checking statunitense Snopes ha spiegato che cosa non torna in questa storia dei circa 200 piromani arrestati. La notizia corretta è che il 6 gennaio 2020 la polizia del Nuovo Galles del Sud – una delle aree maggiormente colpite dalle fiamme – ha pubblicato un comunicato in cui dice che «da venerdì 8 novembre 2019 sono state intraprese azioni legali (che vanno da diffide a imputazioni di carattere penale) nei confronti di 183 persone (tra cui 40 minorenni) in relazione a 205 incendi boschivi». Nello specifico, 24 persone sono state accusate (e non arrestate) di aver acceso deliberatamente delle fiamme, mentre le rimanenti 159 di non avere rispettato alcune misure di sicurezza, per esempio per aver buttato al suolo delle sigarette non spente. Dunque non si tratta di 200 piromani, ma di una ventina di sospetti piromani e di centinaia di persone che potrebbero aver causato incendi in maniera del tutto accidentale. Negli Stati Uniti, il comunicato della polizia del Nuovo Galles del Sud è stato ripreso in maniera sbagliata da alcuni siti vicini all’estrema destra, come Infowars e Breitbart, famosi per diffondere contenuti falsi e a favore del negazionismo climatico.
È morto davvero un miliardo di animali? Un’altra delle notizie più lette riguarda il numero di animali uccisi dagli incendi, che secondo alcune stime avrebbe superato il miliardo. Ma da dove viene questa cifra? Il 7 gennaio 2020 il Wwf Australia ha pubblicato un comunicato stampa in cui stima che «oltre 1 miliardo e 250 milioni di animali potrebbero essere stati uccisi direttamente o indirettamente dalle fiamme che hanno bruciato 8,4 milioni di ettari in Australia». Il dato – spiega il Wwf – proviene da alcuni calcoli fatti da Chris Dickman, professore di Biologia alla University of Sydney, che già il 3 gennaio 2020 aveva chiarito sul sito ufficiale della sua università il metodo di calcolo utilizzato per elaborare una precedente stima, più bassa, del numero di animali colpiti dalle fiamme («480 milioni»). In sostanza – sulla base di alcune stime contenute in un report del 2007 di cui è stato co-autore – Dickman è partito dalla premessa che in un ettaro di terreno del Nuovo Galles del Sud, uno degli Stati australiani, vivano in media 17,5 mammiferi, 20,7 uccelli e 129,5 rettili (sono esclusi dunque dal conto gli invertebrati). Dickman ha così moltiplicato la somma di questi numeri per l’area del Nuovo Galles del Sud bruciata in questi giorni ottenendo così il numero di circa 500 milioni di animali (una stima molto «prudente», secondo Dickman). Il 6 gennaio il professore ha chiarito in un’intervista all’Huffington Post statunitense che questa stima andava aggiornata, sia estendendo i calcoli agli altri Stati australiani coinvolti, sia inserendo stime sulla presenza degli invertebrati (tra cui gli insetti). Si è così ottenuto il numero superiore al miliardo. Questi dati vanno però sempre presi con le pinze, per una serie di motivi, come hanno spiegato il 4 gennaio anche i nostri colleghi fact-checker del Reality check team della Bbc. Per esempio, bisogna specificare che il numero – sia esso oltre un miliardo o mezzo miliardo – fa riferimento agli animali coinvolti dagli incendi, e non necessariamente a quelli «uccisi». Esistono infatti diverse specie, soprattutto tra i mammiferi e gli uccelli, che possono fuggire dalle fiamme, anche se è vero che potrebbero aver subito ferite letali nel medio-lungo periodo. Resta dunque molto difficile capire con precisione quali e quante siano ad oggi le vittime degli incendi tra le specie viventi in Australia, ma le stime che parlano di centinaia di milioni di possibili morti non sono prive di fondamento.
Cammelli abbattuti e koala estinti? Sempre per quanto riguarda le storie relative alla fauna australiana, due animali hanno ricevuto particolare attenzione: i cammelli e i koala. Per quanto riguarda i primi, è vero che nell’area di Anangu Pitjantjatjara Yankunytjatjara (Apy) – regione che si trova nell’Australia Meridionale, ha una superficie grande un terzo dell’Italia e conta meno di 3 mila abitanti – è iniziato l’abbattimento di migliaia di camelidi selvatici (per lo più dromedari), accusati di mettere a rischio le riserve d’acqua della zona. Gli aborigeni che amministrano l’Apy hanno motivato la loro decisione dicendo anche che i camelidi invadono i centri abitati, mettendo a rischio l’incolumità delle persone. Questa notizia non è però una novità. A fine 2013, per esempio, il governo federale australiano aveva pubblicato i risultati ottenuti dall’Australian Feral Camel Management Project, un progetto (finanziato con circa 19 milioni di dollari) che dal 2009 aveva portato all’uccisione di circa 160 mila camelidi selvatici. In Australia, cammelli e dromedari sono ormai considerati animali invasivi. Portati sull’isola nell’Ottocento, nel 2010 si stimava che la loro popolazione superasse il milione di individui. A novembre 2019, invece, era circolata la notizia che gli incendi australiani avessero di fatto estinto funzionalmente i koala (in parole semplici, rendendo quest’ultimi non più in grado di svolgere un ruolo attivo nell’ecosistema). All’epoca il Wwf e diversi esperti avevano detto che questo scenario è ancora lontano dal realizzarsi, anche se il koala rimane un animale in pericolo. Se le condizioni di vita dovessero restare le stesse di quelle vissute dalle ultime tre generazioni, è molto probabile che entro il 2050 i koala si estinguano nell’Australia Orientale ed entro il 2100 nell’intero Paese.
Le foto e i video fuorvianti sugli incendi. Come era già successo per gli incendi in Amazzonia, nelle ultime settimane stanno circolando numerose foto e video sui roghi in Australia, ma non tutte sono veritiere. Per esempio, il 6 gennaio 2020 il debunker David Puente ha ricostruito su Open come è stata creata l’immagine di una bambina con una maschera che tiene in braccio un koala, salvato dagli incendi sullo sfondo. Si tratta di un fotomontaggio, diffuso con il messaggio: «Pray for Australia» (in italiano, «prega per l’Australia). La foto del koala è stata aggiunta sopra quella della bambina, mentre anche i roghi sono stati duplicati, per rendere più vivida l’immagine delle fiamme. Una questione più articolata riguarda invece un altro contenuto, che ha trovato ampia condivisione sui social negli ultimi giorni e che mostrerebbe una foto dell’Australia vista dallo spazio e ricoperta per buona parte dai roghi. In realtà la foto in questione non è davvero una foto. Come hanno spiegato il 7 gennaio i nostri colleghi fact-checker dell’agenzia stampa Afp, l’immagine è un’elaborazione grafica 3D realizzata dal fotografo australiano Anthony Hearsey, che utilizzando il programma Cinema 4D (un software usato per l’animazione e la modellazione tridimensionale) ha rielaborato i dati satellitari della Nasa sugli incendi che hanno colpito l’Australia tra il 5 dicembre 2019 e il 5 gennaio 2020. Esistono comunque vere immagini satellitari della Nasa che mostrano gli incendi dall’altro. L’effetto visivo è diverso da quello della rielaborazione 3D, ma se si guarda agli scatti della Stazione spaziale internazionale (Iss) o dell’Agenzia spaziale europea (Esa), l’effetto è comunque molto forte. I nostri colleghi fact-checker di Maldita hanno invece raccolto un paio di esempi di video fuorvianti che stanno circolando sui social ma che non sono collegabili agli incendi in Australia. Per esempio, spiega Maldita, «è diventato virale un video di un canguro abbracciato da una persona con un messaggio che dice che questa è una volontaria che ha salvato la vita dell’animale dagli incendi». In realtà, la donna nel video è la giornalista Laura Brown, che l’8 gennaio 2020 ha spiegato sul suo profilo Instagram che il canguro – del The Kangaroo Sanctuary di Alice Springs, nello Stato del Territorio del Nord – non è stato salvato dalle fiamme. Un altro video molto condiviso sui social mostra invece tre ragazze appiccare un incendio, ma le immagini sono vecchie, del 2018.
Che cosa c’entrano le politiche dell’Australia. Oggetto delle critiche negli ultimi giorni è stato il governo australiano, a cui capo c’è il conservatore Scott Morrison del Liberal Party, accusato di essere un «negazionista climatico». In effetti, nonostante a fine dicembre 2019 il ministro dell’Energia australiano Angus Taylor abbia difeso le politiche ambientali del suo Paese, l’Australia sta facendo ancora troppo poco per limitare gli effetti del riscaldamento globale, che sta creando condizioni sempre più favorevoli per il verificarsi di eventi estremi come i roghi degli ultimi giorni. Secondo uno studio pubblicato nel 2019 da Climate Analytics, un’organizzazione che fa ricerca sui cambiamenti climatici di origine antropogenica, nel 2017 l’Australia è stata responsabile dell’1,4 per cento delle emissioni di CO2 nel mondo (una cifra bassa dunque, anche se va considerato che la popolazione australiana pesa per lo 0,3 per cento circa sulla popolazione mondiale). Un dato che oltretutto sale al 5 per cento se si considerano le esportazioni di fonti fossili (una percentuale pari a quella della Russia, quinto Paese al mondo per emissioni). A fine 2019, il Climate Change Performance Index (Ccpi) – una delle ricerche più autorevoli che periodicamente valuta le politiche dei singoli Paesi al mondo per contrastare l’emergenza climatica – ha messo l’Australia nelle ultime posizioni in classifica. Peggio dell’Australia fanno solo la Corea del Sud, Iran, Taiwan, Arabia Saudita e Stati Uniti. Il Climate Action Tracker – un sito che permette di monitorare quanto un Paese sta rispettando gli impegni presi con l’Accordo di Parigi nel 2015 – certifica invece come siano «insufficienti» gli sforzi fatti fino ad oggi dall’Australia per ridurre il proprio contributo al riscaldamento globale. Sempre il Climate Action Tracker spiega che le politiche approvate nel 2019 dal Paese sono del tutto inconsistenti con gli obiettivi indicati dalla comunità scientifica, anche per quanto riguarda la riduzione del sostegno governativo all’industria del carbone.
I peggiori incendi del 2019: devastazione dalla Siberia all’Amazzonia. Jacopo Bongini il 20/12/2019 su Notizie.it. Il 2019 verrà ricordato come un anno particolarmente nefasto dal punto di vista ambientale: ecco i peggiori incendi di questi ultimi 12 mesi. Il 2019 che sta per chiudersi sarà forse purtroppo tristemente ricordato anche per i numerosi incendi che hanno devastato il pianeta su ogni continente. Secondo il Copernicus Atmosphere Monitoring Service tra il primo gennaio e il 30 novembre di quest’anno i roghi divampati ai quattro angoli del globo hanno contribuito a rilasciare nell’atmosfera terrestre circa 6.735 miliardi di tonnellate di anidride carbonica. Un dato che contribuisce in maniera preoccupante agli effetti del riscaldamento climatico e che consente ai ricercatori del Cams di definire il 2019 “anno di fuoco”.
I peggiori incendi del 2019. Le analisi del Cams sono state effettuate tramite rilevazioni quotidiane di tutti gli incendi attivi nel mondo, utilizzando il Global Fire Assimilation System per stimare la percentuale di emissioni di CO2. Secondo i ricercatori del Cams gli episodi avvenuti durante l’anno ancora in corso comportano importanti ripercussioni sulla biosfera: “Gli incendi possono essere responsabili di un inquinamento atmosferico maggiore delle emissioni industriali e produrre una combinazione di particelle, monossido di carbonio e altri inquinanti, che possono essere pericolosi per la salute di tutta la vita sul Pianeta”. Stando a quanto riportato dal Senior Scientist Mark Parrington, tra le eccezionalità del 2019 vi è anche la notevole intensità di alcuni incendi registrati in specifiche parti del mondo, seppur all’interno di un contesto sostanzialmente nella media rispetto alle annate precedenti. Il riferimento di Parrington va ovviamente ai roghi che hanno colpito l’Amazzonia e la Siberia durante l’estate, con questi ultimi che hanno provocato il rilascio di 182 miliardi di tonnellate di anidride carbonica in un periodo in cui è insolito vedere così tanti incendi nelle foreste boreali del circolo polare artico.
Gli incendi in Amazzonia. Parlando invece degli incendi nella foresta amazzonica, gli scienziati del Cams riportano la loro preoccupazione non tanto sulle emissioni di CO2 quanto sull’aumento della deforestazione nella zona: “Pur essendo la più alta emissione stimata per agosto di tutti gli Stati brasiliani che compongono la cosiddetta ‘Amazzonia legale’ (25 miliardi di tonnellate di anidride carbonica ndr), è ancora relativamente coerente con i valori totali di agosto precedenti per l’intero Brasile da quando le stime Gfas hanno avuto inizio nel 2003. Una delle principali preoccupazioni degli incendi di questa portata nella regione è l’impatto sul ciclo del carbonio a causa della perdita della foresta pluviale e di un cambiamento nella vegetazione”.
Indonesia e Australia. Andando invece nell’emisfero australe, dove la stagione calda arriva quando da noi siamo in autunno/inverno, risultano senza dubbio degni di nota gli incendi che hanno colpito l’Indonesia fino allo scorso novembre e che hanno rilasciato 708 miliardi di tonnellate di CO2 nell’atmosfera. I roghi indonesiani hanno purtroppo causato inoltre grosse perdite nella fauna locale e nelle foreste naturali mettendo a serio rischio la vita degli abitanti. Una situazione non dissimile dagli incendi boschivi australiani, che hanno avuto inizio nel mese di settembre per poi concludersi nel mese di dicembre e che in alcuni casi hanno frantumato record regionali che duravano da ben 16 anni.
Il resto del mondo. Al di la dei fenomeni eccezionali avvenuti in Amazzonia, Siberia, Indonesia e Australia, numerosi altri incendi si sono propagati anche in Messico, Colombia Venezuela e Siria. Proprio in Siria i roghi divampati tra la primavera e l’estate hanno distrutto vaste aree coltivate danneggiando seriamente la sicurezza alimentare degli abitanti già duramente provati dai postumi della guerra civile.
Amazzonia, prostituzione e miniere illegali. Michele Bertelli su Inside Over il 17 gennaio 2020. Prima del moltiplicarsi delle attività minerarie illegali, la regione amazzonica di Madre de Dios custodiva uno dei maggiori gradi di biodiversità del Perù. Ma oggi quello che rimane in alcune zone sono solo crateri di terra ripieni di mercurio e cianuro. Dal 2008, l’impennata dei prezzi dell’oro ha attratto i minatori illegali alla ricerca del prezioso metallo. I minatori illegali hanno portato i bar. E i bar hanno dato la spinta a una fiorente industria della prostituzione e della tratta. “Ci sono pochi altri lavori per una donna qui a Puerto Maldonado (la capitale del distretto di Madre de Dios ndr) che non siano lavorare nei bar. È triste vederle che aspettano fuori dai locali, ma hanno bisogno di soldi,” ha raccontato Claudia, 19 anni, alla giornalista Anastasia Moloney della Thomson Reuters Foundation. Claudia aveva solo 14 anni quando i trafficanti l’hanno portata qui, obbligandola a lavorare in uno delle dozzine di postriboli che sorgevano ai lati della miniere e lungo le strade principali.
Il business delle miniere illegali. Secondo il quotidiano La República, il 70% delle attività minerarie presenti in zona fino a febbraio scorso era illegale. Si stima che, nelle zone di Madre de Dios, Cusco e Puno, le attività estrattive abbiano fatto tabula rasa di 18mila ettari di foresta. Un business particolarmente remunerativo, se si pensa che nel 2015 il portale di giornalismo investigativo Ojo-Publico identificò la svizzera Metalor Technologies, una delle maggiori raffinerie al mondo, come un cliente delle compagnie della zona. Metalor ha successivamente chiuso i contratti di provvigione con i minatori artigianali dell’America Latina proprio a causa delle “complessità della catena della somministrazione”. Per dare un taglio netto a queste attività illegali, lo scorso febbraio il governo di Martin Vizcarra ha dato il via all’“Operazione Mercurio”. 1.200 poliziotti e 300 soldati sono stati distaccati nella baraccopoli di La Pampa, punto di ingresso per la zona delle miniere illegali, con l’obiettivo di espellere i cercatori d’oro. Secondo il Ministero della Difesa, dall’inizio dell’intervento a ottobre 2019 sono stati distrutti 323 accampamenti e sequestrati 1806 motori e 91 veicoli di dimensioni maggiori. “I minatori di La Pampa che vogliono inserirsi nell’economia legale si potranno muovere in un corridoio minerario più a ovest” – aveva dichiarato il ministro per l’Ambiente Fabiola Muñoz al Guardian durante una visita al villaggio – “Ma solo a tre condizioni: niente mercurio, niente lavoro minorile e niente tratta”. Le operazioni di polizia hanno recuperato 69 donne e 51 minorenni che lavoravano nei bar e nei bordelli. Si sperava che il connubio di miniere illegali e tratta illegale subisse così un colpo mortale. Ma, nonostante gli indiscutibili successi, le cose sono andate diversamente. I residenti locali hanno denunciato che le operazioni illegali si sono semplicemente spostate più in profondità nella foresta, seguite dalle prostitute e dai bar. Il quotidiano El Comercio riporta infatti che quattro draghe usate per l’estrazione di oro sono stati ritrovate nei fiumi del dipartimento di Loreto, nel nord del paese, a conferma di una espansione dei minatori in zone ancora intoccate. “È come l’effetto che fa un palloncino gonfiabile,” ha dichiarato il governatore regionale Luis Hidalgo a TRF, riferendosi al fatto che se si esercita pressione in un punto di un pallone, questo semplicemente si gonfia da un’altra parte.
Giovani, povere e indigene. Le vittime di tratta provengono spesso da comunità contadine indigene dell’altipiano andino, a centinaia di chilometri da queste terre. Povere e con poca educazione, costituiscono una facile preda per i trafficanti. “Le donne e le ragazze sono reclutate con false promesse di lavoro e poi obbligate a fare sesso con i minatori. Più sono giovani, più soldi vengono chiesti ai loro clienti,” ha spiegato a Moloney Mercedes Arce, coordinatore dell’organizzazione contro la tratta CHS Alternativo. Senza altre opportunità, le donne recuperate si trovano a vivere in condizioni di povertà estrema, e spesso sono loro stesse a ritornare a vendersi nei bar. La prostituzione tra donne maggiorenni è infatti legale in Perù, e può portare a guadagni medi di 600 dollari al mese – più del doppio del salario minimo. Così, a un’ora di auto da Puerto Maldonado, nel distretto di Laberinto, è già sorto un nuovo agglomerato di locali. Secondo il ministero della Donna, poche delle 120 vittime incontrate durante i raid dell’anno scorso hanno trovato un nuovo impiego, e diverse delle ragazze vivono ancora in rifugi pubblici. Virginia Rojas, coordinatore regionale del ministero a Puerto Maldonado, ha raccontato a Trf che molte di loro non vogliono né tornare nelle loro case, né testimoniare contro i trafficanti. “Queste donne hanno sofferto un sacco di violenza…ma non si percepiscono come vittime,” ha dichiarato a Moloney. Anche per questo, i provvedimenti giudiziari a Madre de Dios sono stati finora difficili: dal 2017 solo 22 persone sono state condannate per tratta, nella maggior parte dei casi per sfruttamento sessuale di bambini. Claudia è una delle poche che ha cooperato con le autorità, mandando i suoi trafficanti in prigione per sfruttamento sessuale. Ma lei stessa prova sentimenti controversi per le sue azioni: “Mi spiace per loro. Si sono presi un periodo lungo, uno starà vent’anni in prigione,” ha dichiarato Claudia a Moloney. Finché non verranno garantite a queste donne prospettive migliori, sarà difficile che non ritornino sui propri passi.
Disastri. La guerra di Bolsonaro agli ambientalisti dell'Amazzonia. Minacciati. Diffamati. Incarcerati. Il regime brasiliano ha una nuova strategia: distruggere gli attivisti delle Ong ecologiste e pro Indios. Mentre il numero degli incendi dolosi sale vorticosamente. Janaina Cesar per L’Espresso il 2 gennaio 2020. L’agricoltura è pop. È questo il messaggio che l’élite bianca e agroalimentare del Brasile fa passare ogni giorno sul più grande canale televisivo del paese. L’agro è pop, bisogna coltivare, estendere i campi, allevare più bestiame. Un messaggio in piena sintonia con le politiche del presidente Jair Bolsonaro (che a quell’élite appartiene) e del suo ministro dell’ambiente Ricardo Salles. Anche se la verità è che l’agro non è affatto pop, l’agro distrugge la foresta e - oltre a rappresentare una minaccia ai popoli della foresta - mette a rischio il futuro dell’Amazzonia e del pianeta intero. Quando era ancora in corsa elettorale per la presidenza della Repubblica, Bolsonaro diceva che se avesse vinto lui in Brasile non ci sarebbero state più demarcazioni della terra indigena. Promessa mantenuta, purtroppo: il presidente non solo ha eliminato i confini di protezione di quelle aree ma ha anche iniziato a mettere in pratica la sua politica di annientamento delle associazioni e degli enti di appoggio ai popoli tribali, come l’Istituto brasiliano dell’ambiente e delle risorse naturali rinnovabili (Ibama) e la Fondazione nazionale dell’Indio (Funai). E ha istigato di fatto la violenza nelle campagne e nella foresta promulgando una legge fatta a pennello per gli agricoltori che autorizza l’uso di armi nell’intera estensione delle proprietà non solo nella propria casa. La sua idea di sviluppo è lo sfruttamento insostenibile dell’Amazzonia, aprendo spazi all’agricoltura intensiva e allo sfruttamento delle miniere. Recentemente il sito The Intercept Brasil diretto dal premio pulitzer Glenn Greenwald, ha rivelato il piano «paranoico» del presidente per lo sviluppo dell’Amazzonia: prevede lavori infrastrutturali come dighe e centrali idroelettriche. Ma anche incentivi per grandi lavori pubblici che attraggano popolazioni non indigene di altre regioni del Paese, perché si stabiliscano in Amazzonia e «aumentino il contributo del Nord del paese al pil nazionale». L’Amazzonia oggi è un campo di battaglia. Da una parte c’è questa élite bianca, molto eccitata al pensiero di poter sfruttare economicamente cinque milioni di chilometri quadrati. Dall’altra ci sono i popoli delle foreste, le Ong e gli attivisti che combattono per i diritti umani e per la tutela ecologica. Ma è una battaglia impari: i primi sono miliardari e siedono al governo; ai secondi viene riservata la persecuzione e spesso il carcere, anche senza avere commesso alcun reato. È quello che è capitato ad esempio ai quattro ragazzi volontari dell’Ong Projeto Saude e Alegria, che opera a Alter de Chão, nella regione del Pará. Arrestati dalla polizia senza alcuna formale motivazione, hanno trascorso tre giorni in prigione. Qui hanno rasato i loro capelli come se fossero già stati condannati. Poi li hanno accusati senza prove di aver dato fuoco alla foresta per raccogliere più donazioni a favore della loro Ong. È passato del tempo prima che la magistratura accertasse che l’imputazione era del tutto falsa. Intanto però Bolsonaro li ha abbondantemente diffamati con un video sui social network sostenendo che giravano le foto dei quattro volontari, che lui le aveva viste. E poi: «Quei ragazzi vivono nel lusso. Come fanno ad avere i soldi? Dando fuoco nell’Amazzonia!», ha detto sui social il presidente. Era tutto falso e costruito ad arte. Intanto l’ultimo report dell’Istituto nazionale per la ricerca spaziale (Inpe) mostra che dal 1 al 30 novembre scorso la distruzione della foresta ha raggiunto 563,03 km², un incremento del 104 per cento rispetto allo stesso mese dell’anno precedente. Sempre secondo l’Inpe, questo tasso di sitruzione è il più alto mai registrato nel mese di novembre dal 2015, quando sono iniziate queste misurazioni satellitari. Di fronte a questi dati il governo di Brasilia fa spallucce e insinua che si tratta di fake news. Non è strano: il ministro dell’Ambiente Ricardo Salles, grande amico dell’agrobusiness e in piena sintonia con Bolsonaro, non ha mai messo i piedi in Amazzonia e in un un programma tivù ha sostenuto che Chico Mendes «era solo uno approfittatore che usava i raccoglitori di caucciù». Chico Mendes, il sindacalista e ambientalista che lottava contro il disboscamento della foresta amazzonica e contro l’arroganza dei “rancheros”, da cui fu infine assassinato nel dicembre del 1988. Il ministro Salles sostiene anche che il cambiamento climatico «è un tema accademico» e «una preoccupazione che si potrà avere tra 500 anni». Naturalmente difende le piantagioni transgeniche di soia e vuole una la riduzione sui controlli dei pesticidi. Alla conferenza sul clima organizzata dalle Nazioni Unite - la Cop25, di Madrid, dal 2 al 15 dicembre - Salles è andato a chiedere soldi per finanziare un fondo per l’Amazzonia, senza però presentare alcun progetto. La situazione è stata così assurda che il Brasile ha ricevuto il “Premio Fossile”, una provocazione degli ambientalisti ai paesi considerati più dannosi per l’ambiente. Del resto l’incontro sul clima avrebbe dovuto svolgersi proprio in Brasile, ma poco dopo la sua elezione Bolsonaro ha detto che che lo avrebbe cancellato e per qusto è stato spostato in Spagna. Il giorno dopo la chiusura del vertice, il presidente ha puntato tutto sulla retorica sovranista: «Vogliono dare fastidio solo al Brasile!». Nonostante le continue bugie del governo, i popoli autoctoni - assieme ad attivisti, giornalisti e ricercatori - combattono e talvolta danno anche la vita in difesa della foresta. Grazie al loro impegno non può più essere nascosta la verità: la deforestazione è in aumento ed è crescente lo scontro tra i disboscatori e indigeni. Non ci sono solo le fotografie dei satelliti. Secondo il Conselho Indigenista Missionário (Cimi), da gennaio a settembre di quest’anno sono state registrate 160 intrusioni dei taglialegna illegali, con un aumento del 44 per cento rispetto al totale del 2018. La Commissione Pastorale della Terra, un organismo collegato alla Conferenza episcopale brasiliana, ha rivelato che dal 2008 questo è stato l’anno più violento contro le comunità indigene. Solo nell’ultimo mese sono stati uccisi quattro indigeni dell’etnia Guajajara. L’ultima vittima è un 15enne, Erisvan Soares Guajajara, ucciso a coltellate. La leader indigena Sonia Guajajara ha twittato: «Tutti coloro ai quali noi non piacciamo oggi si sentono autorizzati a ucciderci anche perché sanno che non saranno puniti». Per il suo disprezzo verso le popolazioni indigene, Bolsonaro è stato perfino denunciato al Tribunale dell’Aia per crimini contro l’umanità. Un mese fa ad Altamira, nello Stato del Pará, si è svolto l’evento “Amazzonia Centro del Mondo” e qui, per giorni, si è discusso, si sono fatte proposte e hanno parlato i testimoni diretti di chi nella foresta ci vive. Una fazione filo-Bolsonaro ha cercato di bloccare il meeting e di interrompere le attività. Altamira, con la costruzione della centrale idroelettrica di Belo Monte, è diventata una delle città più violente del paese. L’idroelettrica è un mostro di cemento del valore di circa 40 miliardi di reais (9 miliardi di euro circa). La città ha visto crescere la popolazione senza che i servizi pubblici, compresa la sicurezza, ne accompagnassero il cambiamento. Voluta da allora presidente Lula e realizzata dal successore Dilma Rousseff, l’opera è sempre stata messa in discussione per quanto riguarda l’impatto ambientale e il problema del basso livello dell’acqua nel fiume Xingu. Ora Norte Energia, società proprietaria dell’impianto, vuole anche l’autorizzazione alla costruzione di strutture termoelettriche per compensare i cinque mesi all’anno in cui la diga principale, che rappresenta oltre il 98 per cento della capacità di generazione, viene chiusa a causa della scarsità d’acqua Biviany Rojas, avvocato dell’Istituto Socioambientale (ISA), ha dichiarato al quotidiano O Estado de S. Paulo che «la richiesta per la costruzione dell’impianto, conferma che Belo Monte è un danno socio-ambientale e anche un crimine. Se doveva produrre energia termoelettrica, non c’era bisogno di bloccare il fiume Xingu». Altamira è oggi lo specchio di quello che può diventare tutta l’Amazzonia domani. Eliane Brum, una delle giornaliste più impegnate nella difesa dell’Amazzonia. nel suo libro “Brasil, Construtor de Ruínas - Um Olhar Sobre o País, de Lula a Bolsonaro” ha messo in chiaro cosa ci aspetta nel futuro prossimo: «Dovremo affrontare i conflitti anche quando sappiamo che perderemo. O combattere anche quando si è già perso. Fare, come un imperativo morale».
Jair Bolsonaro e il suo governo sono un flagello per il Brasile. Smantella i diritti, devasta l’ambiente, perseguita gli indios, aumenta i privilegi. Dopo sette mesi la luna di miele sembra già finita. Daniele Mastrogiacomo il 25 luglio 2019 su L'Espresso. «Non sono nato per fare il presidente sono nato per fare il soldato». Davanti alle critiche e alla crescente delusione dei suoi stessi fan, Jair Messias Bolsonaro allarga le braccia e si rifugia nel destino che «lassù», dice alzando gli occhi al cielo, «Lui mi ha affidato». Si sa che il presidente del Brasile è molto religioso e che ammanta il suo successo strepitoso alle elezioni dell’ottobre 2018 di un valore spirituale. Ma la sua è anche una fuga dalle responsabilità che si è assunto quando ha raccolto il 55,13 per cento dei voti. Sei mesi dopo la conquista di Planalto la luna di miele con un Brasile scosso da una profonda crisi economica, sociale e morale sembra finita. Si è interrotto quel ciclo fortunato che dalle passeggiate sul lungomare di Copacabana la domenica mattina assieme a qualche decina di ufficiali dell’esercito si era poi disteso nelle piazze debordanti di uomini e donne fino a invadere la rete, con i social, e soprattutto la messaggeria di WhatsApp, su cui le fake si mischiavano a mezze verità in una girandola di veleni e di odio contagiosi. Guidare l’opposizione, anche con un insignificante 3 per cento, era facile. Bastava gridare semplici parole d’ordine, invocare ordine e tolleranza zero sulla corruzione, mimare con le mani una pistola, per ottenere un consenso che nasceva dalla frustrazione di vedere tutto finire in malora. I brasiliani rispondevano con entusiasmo, si affacciavano alle finestre battendo i mestoli sulle pentole, per strada e nei negozi si continuava a indignarsi per la raffica di ruberie e di frodi che le cronache offrivano tutti i giorni. La rabbia, compressa da 15 anni di governo Pt, di lulismo imperante, di acquiescenza verso i corrotti, la rassegnazione per la violenza che infuriava in tutto il paese, con il Capitano trovava finalmente il suo sfogo. Jair Bolsonaro lo aveva capito bene. Coglieva quell’umore che saliva dalle rovine di un Brasile che aveva ostentato quasi con supponenza la sua ascesa nel tempio dei Grandi, i famosi Brics, e che adesso si trovava a leccarsi le ferite di un dissesto risaputo, immaginato ma mai prima dimostrato con tanto clamore. Il vento della destra soffiava anche in America Latina. Bastava mettersi sulla sua scia per lanciarsi verso il potere. Ma era opposizione. Persino le frasi scioccanti, gli attacchi alle diversità di genere, alle donne, alle associazioni di solidarietà, alle minoranze di colore, finivano per essere accolte con favore. Compreso il diritto alla difesa: sparare per uccidere prima di essere uccisi. Occhio per occhio. Basta tolleranza, basta assistere impotenti alle rapine e agli assalti, al coprifuoco autoimposto. Andarono a votare in massa. Mai come prima. E tutti, almeno una stragrande maggioranza, misero il segno su quell’ex militare ribelle che parlava un linguaggio semplice, diretto, su cose concrete e che prometteva la rinascita. Fino alla coltellata, inflitta alla vigilia del voto, che ha fatto impennare i consensi. Anche tra chi aveva sempre votato Pt. Poi è arrivato il potere. Quello vero. Bisognava governare. Sono iniziati i primi problemi, gli scontri tra le diverse personalità, le gelosie e le rivalità. Hanno bussato tutti perché tutti, dai militari ai grossi industriali, agli agrari e proprietari terrieri, agli evangelici, alla lobby delle armi, passavano all’incasso. Avevano contribuito alla vittoria e adesso volevano godersela. I primi ad essere accontentati sono stati i vecchi compagni d’armi. Ben sette generali ed ex generali hanno occupato posizioni nei ministeri. Anche la vice presidenza è toccata ad un uomo con le stellette. Quindi, i ministeri importanti. Quello dell’Economia a Paulo Guedes, esponente di spicco della scuola dei Chicago boys, il fautore delle misure liberiste scioccanti che aveva già sperimentato con successo nel Cile di Pinochet. Quello degli Esteri a Ernesto Araújo, ex ambasciatore con nessuna esperienza di governo ma teorico del complottismo e ossessionato dalla lotta al comunismo; infine, la casella più importante, quella della Giustizia. Nominare Sergio Moro, l’ex giudice di Lava Jato, l’eroe che aveva messo in galera decine di politici e imprenditori accusati di corruzione, era una scelta quasi obbligata. Tutti e tre hanno accettato, lusingati da tanto onore. Per Moro, adorato e odiato in egual misura dai brasiliani, fu come rompere un tabù. «Mai in politica», aveva giurato neanche due mesi prima quando il suo nome cominciava a girare nel totonomine. Accolse l’invito senza battere ciglio. Anzi, rilanciò la posta: chiese al presidente di restare solo un anno, il tempo di mandare in pensione il consigliere anziano del Tribunale Superiore Federale e prendere il suo posto. La sorpresa è arrivata nell’ultimo mese: migliaia di file delle conversazioni tra il giudice e i pm della mega inchiesta, pubblicata dal sito d’inchiesta on line The Intercept Brasil, hanno scalfito la sua imparzialità. Sono emerse le sue interferenze nelle indagini, i suoi consigli ai pm dell’accusa, l’invito continuo a trovare prove per fare condannare e arrestare Lula. Si è confermato, almeno sul piano morale, l’atteggiamento persecutorio nei confronti del padre della sinistra brasiliana. I veri guai, neanche poi così imprevedibili, sono giunti dai figli di Bolsonaro. Irrequieti, ambiziosi, irruenti. Tutti e tre candidati ed eletti. Flavio, 38 anni, senatore, Carlos, 37, consigliere a Rio ed Eduardo 35, deputato, hanno iniziato la loro campagna personale contando sulle debolezze del padre e le simpatie particolari che nutre nei confronti del secondo. Carlos, regista della potentissima macchina dei social, ha attaccato gli alleati e alcuni membri del governo. Il presidente non lo ha smentito e chi è caduto nel cono d’ombra alla fine ha dovuto dimettersi. Tre nel giro di tre mesi. Flavio, accusato di corruzione, è finito nell’occhio del ciclone per le sue strette relazioni con le milizie dei paramilitari che governano le favela e in modo particolare con quella accusata ufficialmente di aver assassinato l’attivista e parlamentare Marielle Franco. Grandi critiche e polemiche per la decisione paterna di indicare Eduardo come ambasciatore a Washington. Carlos deve fare i conti con un’inchiesta su finanziamenti illeciti ottenuti grazie a tessere del partito taroccate. La famiglia resta intoccabile. È un clan familiare e i clan, in politica, non si battono. A dirimere i contrasti e a dettare la linea del governo più a destra di tutto il Continente è un personaggio che sembra ancorato al Brasile del passato. Si chiama Olavo de Carvalho, scrittore conservatore, feroce anticomunista. Diffonde le sue tesi via Internet chiuso nella sua casa in Virginia. Bolsonaro lo ammira e pende dalle sue labbra. Una devozione che crea molti malumori nel governo dove i militari, paradossalmente, rappresentano l’ala più moderata e spesso intervengono per rettificare le intemperanze del Messia. Carvalho arriva a sostenere che la Pepsi è addolcita da cellule di feti abortiti, che la legalizzazione del matrimonio tra gay porta alla legalizzazione della pedofilia, che i disastri naturali come l’uragano Katrina e il terremoto di Haiti sono punizioni divine per le pratiche religiose degli africani discendenti dagli schiavi. L’ossessione su omosessuali e transgender, sulla ideologia di genere, sulla liberalizzazione delle armi si affaccia regolarmente con proposte e iniziative che scatenano polemiche e sollevano forti dubbi tra gli stessi ministri del governo. Più di uno si chiede oggi se Jair Bolsonaro sia l’uomo adatto a risollevare il Brasile. Sei mesi dopo, il bilancio è negativo. La destra mostra i suoi limiti di governo. Le critiche si fanno sentire. Ai detrattori, il Messia risponde indicando nuovi nemici. Due in particolare: il Tribunale Superiore Federale, garante della Costituzione, e il Parlamento, colpevole di boicottarlo. L’economia non decolla, la crescita langue, aumenta il numero dei disoccupati, scuola e sanità pubbliche subiscono profondi tagli. Per non parlare dell’ambiente: l’agenzia statale che sovrintende ad una materia così importante per il Brasile, è stata sciolta. Le squadre di ispettori incaricati di vigilare sull’Amazzonia ridotte all’osso. Stessa sorte è toccata al Funai, la Fondazione a tutela degli indigeni. La grande foresta pluviale è presa d’assalto dai garimperos che disboscano e scavano alla ricerca di oro e materiali preziosi. Preme la classe agraria che assieme agli industriali delle armi e agli evangelici forma il blocco delle “Tre B”, maggioritario in Parlamento. Impongono la revisione dei confini delle aree protette e delle 690 terre destinate alle oltre 400 tribù indigene. Secondo l’Inpe, l’istituto nazionale di ricerca spaziale, il tasso di deforestazione registrato il mese scorso è stato il più alto dal 2016. È cresciuto del 60 per cento rispetto allo stesso periodo del 2018: 762,3 chilometri quadrati di area disboscata contro i 488 del giugno dell’anno scorso. Sono l’equivalente di 106 mila campi di calcio. Mai come in questo momento l’Amazzonia è a rischio. Jair Bolsonaro attende, smentisce, accusa i media di dire il falso. «L’Amazzonia è del Brasile e il Brasile decide cosa farne», replica stizzito. La sua anima sovranista resta intatta. Deve pensare alle due riforme strutturali che gli chiedono i mercati. Pensioni e fisco. Ma per farle passare in Parlamento dove il suo partito ha solo 58 deputati su 594 è costretto al compromesso. Al ribasso. La riforma previdenziale passerà. C’è voluto un mese di dibattito e di trattative. La gente andrà in pensione non più a 50 anni ma a 65 (uomini) e 62 (donne). Tranne militari e poliziotti. I privilegi restano invariati, il risparmio per lo Stato dimezzato.
La deforestazione in Sud America e la pelle che arriva in Europa. Francesco De Augustinis su Il Corriere della Sera il 14/10/2020. Un rapporto dell’ong Earthsight mette in relazione la perdita di foresta tra Paraguay, Argentina e Bolivia e le esportazioni di pellami verso il nostro continente. La pelle italiana è finita al centro di una diatriba internazionale che ha coinvolto case automobilistiche e il governo paraguaiano, dopo che un dossier di una ong inglese ha accusato alcune concerie di comprare pelli provenienti da aree deforestate del Gran Chaco in Paraguay. Il dossier che ha innescato la miccia si chiama Grand Theft Chaco ed è stato pubblicato nei giorni scorsi dall’organizzazione non governativa inglese Earthsight. Ma già nelle ultime settimane il documento ha creato reazioni a catena nelle industrie della pelle e dell’automobile, a cui è stato sottoposto per dare possibilità di replica. «I principali produttori europei di automobili, tra cui Bmw e Jaguar Land Rover, stanno usando della pelle collegata alla distruzione di un’area protetta di foresta sudamericana, abitata da uno degli ultimi popoli indigeni che non hanno contatti con la civiltà», è l’accusa dell’ong, sostenuta da un rapporto di oltre 40 pagine.
La deforestazione del Chaco. Il Gran Chaco è la seconda foresta del Sud America dopo l’Amazzonia. Si estende per 800 mila km quadrati tra Argentina, Bolivia e Paraguay e ospita migliaia di specie di animali e piante, oltre a una popolazione di 250 mila indigeni. Negli ultimi anni è stato vittima di una delle deforestazioni più rapide della storia: secondo la Nasa tra il 1985 e il 2016 circa un quinto del Gran Chaco è stato convertito in terreni agricoli e pascoli. In Argentina la foresta ha lasciato spazio soprattutto ai campi di soia mentre in Paraguay le diverse caratteristiche del territorio hanno favorito l’espansione di pascoli di bovini. Secondo Global Forest Watch ancora nel 2019 il Paraguay ha perso 50mila ettari di foresta primaria, in particolare nelle regioni del Chaco.
L’analisi di Earthsight. «Di 255 mila ettari deforestati nel Chaco paraguaiano tra agosto 2017 e agosto 2018, solo 94 mila erano autorizzati», scrive Earthsight citando un rapporto dell’agenzia governativa per l’ambiente Infona. L’ong, raccontando una lunga serie di interviste sul campo con funzionari ed ex funzionari governativi, intermediari e «mercanti di terre», denuncia un sistema diffuso di corruzione fin dentro i ministeri, di concessioni a deforestare molto semplici da ottenere, di impunità per le violazioni commesse. «Almeno il 20 per cento della deforestazione del Chaco in Paraguay è illegale, ma non c’è una sola persona in galera per questo», afferma l’avvocato argentino Ezequiel Santaganda nel dossier. Earthsight si concentra in particolare in un’area protetta del Gran Chaco (Pncat, in Alto Paraguay) dove vive una delle ultime tribù indigene al mondo che non hanno contatti con il resto della civiltà, i Totobiegosode. Attraverso immagini satellitari il dossier documenta fino al 2019 la deforestazione in quest’area; poi usando registri e informazioni acquisite sul campo, il documento traccia i capi bovini allevati fino ai principali macelli del Paraguay, FrigoAthena, Frigomerc e Frigorifico Concepcion. Da qui l’Ong continua a seguire il percorso delle pelli verso due concerie paraguaiane, Cencoprod e Lecom, e tira in ballo l’industria della pelle italiana: «Ogni anno il Paraguay esporta oltre un miliardo di dollari di carne e pellame. Mentre la maggior parte della carne è destinata a Cile e Russia, il 60 per cento del pellame raggiunge un unico Paese: l’Italia», si legge nel rapporto. «Vendiamo anche in altri Paesi, ma la maggior parte della pelle va in Italia. L’Italia è una specie di porta di accesso per l’Europa», afferma Ferdinand Kehler, direttore della conceria paraguaiana Cencoprod, in una conversazione registrata che abbiamo visionato integralmente. «Vendiamo in Italia quasi l’80 per cento, ma il dato racchiude anche Germania, Francia e altri. Va in Italia ma poi finisce in altri Paesi». Secondo i dati Eurostat, nel 2019 l’Europa ha importato 24,2 mila tonnellate di «wet blue», ovvero pelli semilavorate, dalle concerie paraguaiane. Quasi la totalità, 24,1 mila tonnellate (per un valore di 20 milioni di euro), erano destinate all’Italia. Secondo un database commerciale, tra il 2014 e il 2017 il 39 per cento delle pelli esportate dal Paraguay sono state comprate dall’italiana Pasubio, seguita da altre concerie come Gruppo Mastrotto, Nuti Ivo e Rino Mastrotto Group.
L’industria dell’auto. La Pasubio è una delle principali concerie in Italia: 307 milioni di euro di ricavi nel 2019, appartiene a un fondo di Cvc Capital Partners attraverso una società basata in Lussemburgo. Situata nel distretto Veneto di Arzignano, Pasubio è il principale produttore in Europa di pelli per il settore auto, che rappresenta il 90 per cento del suo giro d’affari. Pasubio ha una presenza strutturata in tutto il panorama dei marchi automobilistici, in particolare nella fascia lusso, dove si concentra una maggiore domanda di pelli. I dati commerciali indicano che la conceria ha comprato pelli semilavorate da tutte le concerie citate nel rapporto Earthsight: ecco perché il dossier, finito sul tavolo di tutti i gruppi automobilistici, ha innescato una serie di reazioni in molte aziende. «Prendiamo molto sul serio le accuse di comportamenti illegali o non etici nella nostra filiera e ci siamo subito attivati per indagare i punti sollevati dal rapporto con i nostri fornitori», ha detto Steven Slocket, responsabile per la sostenibilità di Jaguar Land Rover in Regno Unito. Dello stesso tono il gruppo Bmw: «Finora non abbiamo informazioni che la filiera del Gruppo Bmw in Sud America sia legata ai problemi sollevati”, ha detto Kai Zoebelein, responsabile sostenibilità del Gruppo, che però ha annunciato la sospensione provvisoria delle forniture dal Sud America e la messa a punto di un migliore sistema di tracciabilità.
La garanzia del governo. «Il Paraguay rappresenta una fonte marginale sul totale di acquisti di pellame che facciamo», afferma Luca Pretto, amministratore delegato di Pasubio. «D’altra parte leggere informazioni che non fanno onore al vero ci infastidisce e danneggia per l’insieme di richieste e di rassicurazioni che ci arrivano dai nostri clienti». Raggiunta da una serie di richieste di chiarimenti da parte dei propri clienti nel settore auto, l’azienda si è attivata a sua volta verso i fornitori in Paraguay: «Tutti i nostri fornitori ci hanno garantito che operano conformi alla legge paraguaiana», ha detto Pretto. «Per aver la garanzia che questo corrispondesse al vero, siamo entrati in contatto con il governo paraguaiano». Sollecitato dall’azienda, il ministro dell’Industria e del commercio del Paraguay Liz Rossanna Cramer Campos ha scritto una lettera a Pasubio in cui ha assicurato che «il settore produttivo e l’industria nazionale di prodotti e sottoprodotti legati ai pascoli hanno lavorato per decenni a fianco allo Stato nel rispetto delle normative». Secondo Pretto, la lettera ha dato all’azienda «ampia assicurazione che gli operatori nel mercato che rappresentano parte delle nostre forniture di materia prima stanno operando e hanno operato in perfetta conformità alla legge paraguaiana. Con questo noi ci siamo sentiti tutelati». «Non abbiamo né il potere né possiamo avere l’onere di dover mettere in discussione il governo di un Paese che ci garantisce questo — ha aggiunto Pretto —. Il governo paraguaiano ha confermato che il loro operato è in piena regola rispetto alle leggi paraguaiane: non devono seguire le leggi italiane o tedesche o francesi, sono in Paraguay, seguono le leggi paraguaiane».
Il nodo della tracciabilità. Proprio il tema dell’onere della tracciabilità per i produttori di pelle è il nodo che contrappone il rapporto di Earthsight con l’atteggiamento dell’industria conciaria. «Ricordiamo che la lavorazione delle pelli è l’utilizzo di uno scarto dell’industria alimentare. Non esistono bovini uccisi per le pelli, esistono bovini uccisi per l’alimentazione», sostiene Pretto. Per questo motivo, secondo Maurizia Contu del dipartimento economico dell’Unione nazionale industria conciaria, «esiste una normativa molto stretta per quanto riguarda la tracciabilità, ma solo per la catena alimentare. Lo stesso non si può dire per quanto riguarda la pelle». Anche i principali sistemi di certificazione del settore pelle, Icec e Lwg, oltre ad essere volontari per le aziende, tracciano le materie prime soltanto fino al macello, non verificando quindi se i capi provengono da aree deforestate. Dopo il dibattito su pelle e deforestazione sollevato nel 2017, l’industria conciaria ha avviato in Brasile un programma pilota per provare a tracciare le pelli fino agli allevamenti: «Bisogna iniziare a ragionare sui temi dell’animal welfare o della deforestazione per fare delle integrazioni o delle analisi di rischio su queste tematiche della tracciabilità», ha detto Sabrina Frontini, direttrice di Icec, in un convegno. Dello stesso avviso il suo omologo Rafael Andreade di Cicb, organismo brasiliano di certificazione della sostenibilità della pelle: «Dobbiamo fare di più, dobbiamo andare oltre il concetto di legalità. Tutte le concerie sono legali, tutte fanno i loro compiti per casa».
· La “Terra dei Fuochi” e la Terra dei Ciechi.
“TRA NAPOLI E CASERTA: LA TERRA DEI CIECHI” di Bernardo Iovene, collaborazione Alessia Marzi Immagini Alfredo Farina. Report Rai il 23 dicembre 2019.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Bentornati. Siamo sotto le feste natalizie, ci sono terre benedette, altre invece che sono condannate a una maledizione cronica. Parliamo dell’area tra Napoli e Caserta, le Terre dei Fuochi: ci vivono tre milioni di persone. Un quarto di secolo fa lo Stato ha dichiarato guerra a chi avvelenava la terra, l’acqua, l’aria bruciando i rifiuti.
ANGELO FERRILLO - PRESIDENTE ASSOCIAZIONE "LA TERRA DEI FUOCHI" Questi grandi luridi, questi grandi luridi. Guardate che disastro ambientale sta in corso. Sono le ore 20.40 di lunedì 5 agosto 2019. Benvenuto nella terra dei fuochi, presidente. Benvenuto nella terra dei fuochi. Come mai la terra dei fuochi continua a bruciare? Lo sapete che ci sono oltre cento roghi al giorno? Governatore, cento roghi al giorno! Cento roghi al giorno! Gli voglio dare le fotografie! Scusate. Non ce la facciamo più. Lo volete capire o no? La sera dobbiamo chiuderci dentro, non possiamo respirare! Lo capite o no! Dove sta l’ordine di polizia che non posso entrare. Non venite a vedere la terra dei fuochi, no? Questa gente ha i figli e si deve chiudere in casa, tutti i santi giorni! Dove stanno le istituzioni? Dove state? Guarda qua, noi non possiamo entrare, noi non possiamo entrare, noi. Funziona così: quando viene a fare le sceneggiate, non possono essere disturbati.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Angelo Ferrillo è la faccia esasperata della terra dei fuochi. Da dieci anni è una sentinella integerrima di tutti gli sversamenti e degli incendi dei rifiuti. Giriamo tra discariche di rifiuti urbani e speciali, percorriamo la zona Asi di Giugliano presidiata da una pattuglia dell’esercito e duecento metri più avanti, la prima sosta.
ANGELO FERRILLO - PRESIDENTE ASSOCIAZIONE "LA TERRA DEI FUOCHI" Scarichi di amianto.
BERNARDO IOVENE Questo è amianto? Questa è una montagna di amianto.
ANGELO FERRILLO - PRESIDENTE ASSOCIAZIONE "LA TERRA DEI FUOCHI" Questa è una montagna. Ma ce ne sono tante di queste montagne.
BERNARDO IOVENE Qua bruciano poi?
ANGELO FERRILLO - PRESIDENTE ASSOCIAZIONE "LA TERRA DEI FUOCHI" E certo che bruciano. Guarda là, ci sono le prove: se vai a vedere, questi sono tutti scarti anche di fabbriche, lavorazioni. Per esempio vedi: l’amianto non prende fuoco perché è ignifugo, però che cosa succede? Se bruciano nelle immediate vicinanze, vedete, si sbriciola, si sgretola e tutte queste particelle poi vanno nell’aria.
BERNARDO IOVENE Perché qua c’è vento, guarda qua, c’è vento.
ANGELO FERRILLO - PRESIDENTE ASSOCIAZIONE "LA TERRA DEI FUOCHI" Va dappertutto. La cosa grave è che hai visto ci sta l’esercito.
BERNARDO IOVENE L’esercito è là.
ANGELO FERRILLO - PRESIDENTE ASSOCIAZIONE "LA TERRA DEI FUOCHI" L’esercito sta là. 250 uomini senza poteri di polizia giudiziaria, stanno a fare gli spaventapasseri.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Poco più avanti ci sono carcasse di auto carbonizzate.
ANGELO FERRILLO - PRESIDENTE ASSOCIAZIONE "LA TERRA DEI FUOCHI" Questa è la zona delle auto rubate, qui fanno le auto rubate. Poi più avanti fanno gli scarti tessili, più avanti ancora anno le scorie di fonderia.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Proseguendo sempre sulla stessa strada dove c’era la pattuglia dell’esercito si arriva a questo spettacolo.
ANGELO FERRILLO - PRESIDENTE ASSOCIAZIONE "LA TERRA DEI FUOCHI" C’è il business delle macchine, il business delle carcasse di frigoriferi, il business del rame, il business degli scarti tessili, scarti di pellame. A settori: qua si fa una cosa, là se ne fa un’altra.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO È un pugno nello stomaco quello che vediamo. Ed è difficilmente documentabile lo stato d’animo di chi si trova in mezzo a questo scempio.
BERNARDO IOVENE Ma chi è che tollera tutta questa situazione qua? Chi la tollera questa situazione? È impossibile! Impossibile proprio tollerarla!
ANGELO FERRILLO - PRESIDENTE ASSOCIAZIONE "LA TERRA DEI FUOCHI" Noi ce lo domandiamo da vent’anni. Non uno, vent’anni.
BERNARDO IOVENE Di chi è questa terra?
ANGELO FERRILLO - PRESIDENTE ASSOCIAZIONE "LA TERRA DEI FUOCHI" Giugliano, comune di Giugliano.
BERNARDO IOVENE Si ma di chi è? Di chi è? Di chi è?
ANGELO FERRILLO - PRESIDENTE ASSOCIAZIONE "LA TERRA DEI FUOCHI" Non si sa. Questa è la zona Asi, siamo dentro il consorzio Asi.
BERNARDO IOVENE Qua bruciano tutto, bruciano? Ma è impossibile, io non ci credo.
ANGELO FERRILLO - PRESIDENTE ASSOCIAZIONE "LA TERRA DEI FUOCHI" Qua montagne di frigoriferi, sono tutti sventrati, vedete, solo le carcasse. E quindi questi qua verranno tutti bruciati. Noi ci stiamo respirando questa roba da vent’anni!
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Ferrillo ormai è un personaggio: sul suo profilo Facebook, “La terra dei fuochi”, c’è un archivio infinito di foto e filmati che fa direttamente dai roghi che documenta. Noi tornando da questo posto infernale abbiamo raggiunto il sindaco di Giugliano in una piazza dove si è aperta un voragine che ha quasi ingoiato una spazzatrice. Piove sul bagnato.
BERNARDO IOVENE Ci sono chilometri e chilometri e chilometri di rifiuti abbandonati e bruciati.
ANTONIO POZIELLO - SINDACO DI GIUGLIANO (NA) E noi abbiamo chilometri, chilometri e chilometri di rifiuti che vengono abbandonati, rimossi, bruciati.
BERNARDO IOVENE Visto che sono là, qual è il problema? Perché restano là?
ANTONIO POZIELLO - SINDACO DI GIUGLIANO (NA) Restano lì nella misura in cui non siamo veloci a rimuoverli. Chi è che porta qui i frigoriferi? I rom? Continuiamo a correre dietro al camioncino dei rom? E che abbiamo concluso? Facciamo la multa e gli sequestriamo il camioncino? Il giorno dopo ce ne è un altro. Ma i frigoriferi chi glieli porta? Qual è la filiera che sta alle spalle? Chi è che deve fare un’indagine che va oltre l’ordinario: io vado a rimuovere i rifiuti, dieci minuti dopo ce li ho di nuovo. Mettiamo le telecamere? Si spostano venti metri più in là. Adesso stiamo continuando con delle foto esca, ma è una battaglia persa. Se la guerra alla terra dei fuochi la debbono fare…
BERNARDO IOVENE Ma hanno fatto un commissario alla terra dei fuochi? Hanno preso i droni, hanno mandato l’esercito…
ANTONIO POZIELLO - SINDACO DI GIUGLIANO (NA) E mi son distratto.
BERNARDO IOVENE Hanno fatto una cabina di regia. Che vuol dire cabina di regia? Il patto d’azione per la terra dei fuochi, piano d’azione per la terra dei fuochi, che vuol dire?
ANTONIO POZIELLO - SINDACO DI GIUGLIANO (NA) Lei ha avuto modo di vedere questa azione di contrasto così forte? A noi serve la forza bruta dello Stato. Serve qualcuno che va a dare un calcio nei denti a quelli che pensano di poter fare il cavolo che gli pare. Ma chi è che deve metterci la faccia?
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO La faccia ce l’hanno messa. Forse anche troppo. Qui sarebbero servite invece le braccia perché bisognava tirarsi su le maniche, ed essere operativi; anche i piedi sarebbero serviti per dare qualche calcio sui denti come ha detto il sindaco di Giugliano, anche a qualche amministratore dei novanta comuni che non è stato proprio all’altezza. Tornando alle facce, però, va detto che nel 2013 è stato siglato il “Patto per la terra dei fuochi” : c’erano il Ministero dell’Interno, la Regione Campania, i comuni di Napoli e Caserta con province e le prefetture, L’Arpa, le Asl, l’Anas, il Fai (il fondo Ambiente Italiano). Nel patto c’erano pure le guardie ambientali, Legaambiente e Medici per l’ambiente. Tutti erano coordinati dal delegato del ministro dell’Interno, un delegato proprio “per i roghi”. Però dopo cinque anni si sono resi conto che questa task force non ha prodotto i risultati dovuti e hanno creato un altro piano, “Il piano di azione per il contrasto dei roghi dei rifiuti”, questo nel 2018. Hanno aderito ben sette ministeri: Ambiente, Interno, Sviluppo economico, Difesa, Salute, Giustizia, il Ministro per il sud, ci si è infilata anche dentro logicamente la Regione Campania. Questo gruppo era coordinato da una cabina di regia che è a palazzo Chigi e l’“Incaricato del Governo” è il dottor Fabrizio Curcio. Poi c’è un’altra cabina di regia, che deve coordinare le interforze, le forze dell’ordine, ed è coordinata dal vice prefetto Gerlando Iorio ed è composta da questure di Napoli e Caserta, carabinieri di Napoli e Caserta. Guardia di Finanza delle due province. Vigili del Fuoco. Esercito. Polizia provinciale. Polizia locale dei comuni. Questo è un piano che avrebbe dovuto tutelare la salute dei cittadini, l’ambiente, avrebbe dovuto mettere in atto azioni anche per prevenire gli incendi. Siccome sembra uno schieramento e un piano per una guerra, “Chi è che la sta vincendo questa guerra?”. Il nostro Bernardo Iovene.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Ma a Giugliano nessuno si è accorto di nulla, questa strada porta al confine con Villa Literno e Parete ad esempio, ed è una strada che non ha niente da invidiare a quella vista precedentemente.
GIOVANNI PAPADIMITRA - COMITATO “BASTA ROGHI PARETE” (CE) Tutti i giorni e tutte le sere si appiccano i roghi. Ed è facilmente individuabile, basta presidiare all’inizio e alla fine perché dai lati non si viene.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Giovanni presidia con il suo comitato “Basta roghi di Parete” il confine tra Villa Literno e Giugliano. L’altro giorno sono stati loro a scoprire uno sversamento enorme di pneumatici e come sempre l’hanno segnalato e denunciato e, sorpresa, proprio oggi le aziende del comune sono qui a rimuoverli.
BERNARDO IOVENE Voi siete dipendenti comunali?
ANIELLO DI FRATTA - GPN SERVIZI AMBIENTALI Sì, io sono responsabile della Gpn, azienda Gpn.
GIOVANNI PAPADIMITRA - COMITATO “BASTA ROGHI PARETE” (CE) Abbiamo chiamato i carabinieri, da Parete li abbiamo chiamati.
BERNARDO IOVENE Ah, quindi ha funzionato?
GIOVANNI PAPADIMITRA - COMITATO “BASTA ROGHI PARETE” (CE) Ha funzionato, sempre che per stasera non appiccano. BERNARDO IOVENE Questi qua sono sempre pneumatici?
ANIELLO DI FRATTA - GPN SERVIZI AMBIENTALI Sì. BERNARDO IOVENE Questi sono quelli bruciati? Ogni giro di questo è un pneumatico bruciato?
ANIELLO DI FRATTA - GPN SERVIZI AMBIENTALI Sì, sì, sì.
BERNARDO IOVENE Ma porca miseria.
GIOVANNI PAPADIMITRA - COMITATO “BASTA ROGHI PARETE” (CE) Questo è stato praticamente, è un inceneritore non autorizzato. Vedi che sotto a questa combustione c’è un’altra combustione. Poi ce n’è ancora un’altra, vedi? E tutto questo noi lo respiriamo.
BERNARDO IOVENE È la prima volta che venite qua?
ANIELLO DI FRATTA - GPN SERVIZI AMBIENTALI Questa è la prima volta. Ci hanno chiamato e…
UOMO Buongiorno.
BERNARDO IOVENE È arrivato un altro mezzo, complimenti! Voi di dove siete?
UOMO Villa Literno.
BERNARDO IOVENE Sempre Villa Literno anche voi? È la prima volta che viene qua lei?
UOMO Sì, è la prima volta.
BERNARDO IOVENE In questo posto non ci è mai stato?
UOMO No, è la prima volta.
BERNARDO IOVENE È la prima volta, non lo conosceva proprio questo posto?
UOMO No, no.
BERNARDO IOVENE Da quanti anni fa questo lavoro?
UOMO Dal ’96.
BERNARDO IOVENE Dal ‘96 e qua non ci è mai stato lei?
UOMO No.
BERNARDO IOVENE Anche lei fa parte della ditta?
UOMO 2 No, lui fa parte del comune.
BERNARDO IOVENE È la prima volta che viene in questo posto lei?
UOMO 2 Questa è la prima volta.
BERNARDO IOVENE Prima volta? Non ci è mai stato?
UOMO 2 Mai.
BERNARDO IOVENE Siamo innocenti.
UOMINI Sì. BERNARDO IOVENE Anche voi è la prima volta che venite qua? Non siete mai stati qua? UOMINI Mai!
BERNARDO IOVENE Avete visto dietro che c’è? Da quanti anni bruciano là dietro?
UOMINI No, no! BERNARDO IOVENE Eh, andate a vedere!
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO E questo è il filmato di questa estate, quando sono andati in fumo i pneumatici nello stesso posto.
DA FACEBOOK – TERRA NOSTRUM TRENTOLA DUCENTA Stanno bruciando una montagna praticamente di rifiuti tossici e rifiuti speciali. E i vigili del fuoco non sono arrivati ancora, sono le ore 21.10. Li abbiamo chiamati tantissime volte, ma le linee sono occupate.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Un incendio che non si sa come è passato inosservato. Questa volta si è riusciti a scongiurare un altro disastro, i pneumatici sono stati portati nell’isola ecologica dove il consorzio Ecopneus verrà a ritirarli gratuitamente. Siamo a fine novembre e anche il sindaco nulla sapeva di quella discarica.
BERNARDO IOVENE Ma voi non avete messo neanche una telecamera là.
NICOLA TAMBURRINO - SINDACO DI VILLA LITERNO (CE) No, guardate. Quattro giorni fa ci hanno comunicato questa cosa. BERNARDO IOVENE Ma erano stati già bruciati là.
NICOLA TAMBURRINO - SINDACO DI VILLA LITERNO (CE) Sì, ma noi abbiamo saputo una settimana fa.
BERNARDO IOVENE Io ho visto il rogo, ho visto il rogo di quando sono stati bruciati. Una roba impressionante.
NICOLA TAMBURRINO - SINDACO DI VILLA LITERNO (CE) Allora, quatto giorno fa ci hanno avvisato.
BERNARDO IOVENE C’è un tappeto di pneumatici bruciati. Un aerosol. Li bruciano e poi ci tornano ancora, poi mentre voi li state togliendo ci tornano ancora. Dico, che territorio è?
NICOLA TAMBURRINO - SINDACO DI VILLA LITERNO (CE) Non siamo in grado di garantire il controllo su tutto il territorio comunale.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Questo l’avevamo intuito. Sono vent’anni che lo Stato fa leggi per contrastare il fenomeno, tuttavia la situazione peggiora. A Villa Literno c’è un altro posto sulla stessa strada dove bruciano sistematicamente.
BIAGIO D’ALESSANDRO - TERRA NOSTRUM TRENTOLA DUCENTA Guarda. È uno dei tanti video fatti nel periodo estivo. Quando stava bruciando. Vedete come si può vedere è proprio questo posto, vedi?
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Decine di video pubblicati, decine di segnalazioni, con ora giorno e luogo. DA FACEBOOK – TERRA NOSTRUM TRENTOLA DUCENTA Ecco cosa è successo: siamo sulla provinciale Trentola-Ischitella, siamo all’altezza della nuova rotonda. È sabato 3 agosto 2019, sono le ore 20.45 e siamo sulla provinciale Trentola- Ischitella. Sono le ore 20.40 di lunedì 5 agosto 2019. Sono le ore 18.40-18.45 di martedì 22 ottobre.
BERNARDO IOVENE Alla Sma l’avete segnalato?
BIAGIO D’ALESSANDRO - TERRA NOSTRUM TRENTOLA DUCENTA È stato segnalato sia alle autorità competenti, alla Sma Campania. Però come si può vedere si continua a scaricare e si continua a incendiare.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Anche questo posto è sconosciuto al nostro sindaco.
NICOLA TAMBURRINO - SINDACO VILLA LITERNO (CE) Di questi posti, vi posso accompagnare anche io, su un’altra trentina, quarantina. Il problema è intervenire. Quindi per questo occorre un intervento importante. Un intervento del ministero dell’Interno. Se bisogna affrontare la situazione in maniera seria.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Era il 20 novembre, e ironia della sorte le forze dell’ordine sono intervenute, il 10 dicembre e il sindaco è stato arrestato. È accusato di corruzione e falso in atto pubblico. Speriamo risolva i suoi problemi. Ma sicuramente la corruzione nella pubblica amministrazione è l’altra causa della devastazione di questi territori, e purtroppo si inserisce anche nelle forze dell’ordine. La polizia municipale è quella più esposta, ad esempio ad Arzano ci sono nove vigili urbani sospesi.
LUIGI MAIELLO - COMANDANTE POLIZIA MUNICIPALE ARZANO (NA) Un comando che attualmente ha nove agenti sospesi, tra ufficiali e sottoufficiali.
BERNARDO IOVENE Sospesi?
LUIGI MAIELLO - COMANDANTE POLIZIA MUNICIPALE ARZANO (NA) Sospesi dal servizio per reati contro la pubblica amministrazione. Dal falso, l’abuso di ufficio, la truffa. C’è un po’ di tutto. Però questa non deve essere una scusa.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Il comandante Maiello viene definito sceriffo acchiappa piromani, il meglio che ha trovato sono due agenti dedicati agli sversamenti e ai roghi. Si coordinano con altri corpi dello Stato, e proprio oggi hanno sequestrato e chiuso un’officina meccanica abusiva.
CORPO POLIZIA MUNICIPALE ARZANO Questa.
BERNARDO IOVENE Una bella officina.
CORPO POLIZIA MUNICIPALE ARZANO Un’officina importante.
BERNARDO IOVENE Era completamente illegale?
CORPO POLIZIA MUNICIPALE ARZANO Sì.
BERNARDO IOVENE Cioè, non era proprio registrata?
CORPO POLIZIA MUNICIPALE ARZANO Assolutamente, assolutamente no.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO E poi organizza appostamenti in borghese per gli sversamenti. Ma Anche qui ad Arzano la situazione dei rifiuti abbandonati, bruciati e non rimossi è drammatica.
BERNARDO IOVENE Qua siamo in città?
LUIGI MAIELLO - COMANDANTE POLIZIA MUNICIPALE ARZANO Qua siamo in pieno centro, volendo.
BERNARDO IOVENE In pieno centro e bruciano comunque.
LUIGI MAIELLO - COMANDANTE POLIZIA MUNICIPALE ARZANO Qui sono anni di accumulo dei rifiuti, anni. Penso per lo meno una decina d’anni.
BERNARDO IOVENE Quindi questo è sotto sequestro adesso no?
LUIGI MAIELLO - COMANDANTE POLIZIA MUNICIPALE ARZANO Sì. Tutta la strada.
BERNARDO IOVENE Tutta la strada. Qui il comune, il sindaco?
LUIGI MAIELLO - COMANDANTE POLIZIA MUNICIPALE ARZANO Il sindaco qui… Abbiamo una commissione straordinaria. Questo è uno dei tanti comuni sciolti per infiltrazione mafiosa.
BERNARDO IOVENE Pure Arzano?
LUIGI MAIELLO - COMANDANTE POLIZIA MUNICIPALE ARZANO Arzano, sì, tra l’altro è stato sciolto due volte in tre anni.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Ma anche in quelli che attualmente non sono sciolti per infiltrazioni la situazione non cambia. Qui siamo ad Afragola.
BERNARDO IOVENE Quanti chilometri ci sono qua?
VOLONTARIO 1 ANTIROGHI ACERRA Saranno…
VOLONTARIO 2 ANTIROGHI ACERRA Questa è una strada di un paio di chilometri almeno.
BERNARDO IOVENE Un paio di chilometri, sotto tutti i rifiuti.
VOLONTARI ANTIROGHI ACERRA Sì.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Qui ad Acerra, fabbriche tessili che sistematicamente smaltiscono gli scarti, bruciandoli per non lasciare tracce.
BERNARDO IOVENE Di solito li bruciano subito no? Quando arrivano?
VOLONTARIO 2 ANTIROGHI ACERRA Bastano pochi giorni dopo lo sversamento e si incendia. Abbiamo avuto la fortuna, come dire, di trovare ancora questo cumulo, perché c’è stata una settimana, dieci giorni di pioggia.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO La chiamano fortuna perché l’alternativa è respirare fumi tossici. Ci sono anche i privati cittadini che abbandonano gli ingombranti, sono quelli che non possono usufruire delle oasi ecologiche perché non pagano la bolletta dei rifiuti. Ad Aversa, sede del tribunale Napoli Nord, li lasciano intorno all’azienda di raccolta e pure qui puntualmente vengono bruciati, anche davanti ai loro occhi.
BERNARDO IOVENE Buonasera! Il responsabile è lui? Raccogliete i rifiuti diciamo?
UOMO Sì.
BERNARDO IOVENE È un paradosso che sta là fuori tutta quella roba là.
UOMO Noi glielo diciamo pure, però come vediamo che loro ci minacciano, giustamente noi alziamo le mani.
BERNARDO IOVENE Perché vi minacciano?
UOMO Eh come no.
BERNARDO IOVENE Però potete segnalare a qualcuno
UOMO Sì, ma noi li segnaliamo, i vigili urbani…
BERNARDO IOVENE A chi avete segnalato?
UOMO Allora l’altro ieri i vigili urbani hanno sequestrato una macchina qua fuori. Ma ora l’abbiamo levato, ora l’ho tolto io con il bobcat.
BERNARDO IOVENE Quindi la togliete?
UOMO Eh come no, e come non lo togliamo!
BERNARDO IOVENE Volendo si toglie?
UOMO Come no.
BERNARDO IOVENE Qua intorno, lei lo sa cosa ci sta qua dietro, dietro di voi qua?
UOMO Io non ci vado qua dietro, io sto qua. BERNARDO IOVENE Però ogni tanto lo vede che bruciano, perché ho visto che è tutto bruciato qua dietro UOMO Sicuramente, ma mica lo vedo solo io.
BERNARDO IOVENE Lo respirate pure voi.
UOMO Ma sicuramente, noi respiriamo tutto, come respirate anche voi. Perché voi non respirate?
BERNARDO IOVENE Assurdo: intorno al centro di raccolta ci sta pieno di spazzatura e dietro vengono a bruciare.
UOMO Perché non mettete i carabinieri o vigili urbani fermi tutti i giorni qua, e vedete cosa succede. Me lo venite a dire a me che sono un dipendente, che non prendo lo stipendio? Che vi devo dire? Considerate il 27 si prende lo stipendio regolarmente, oggi è il 12 e ancora dobbiamo prendere un euro. Voglio dire, di che dobbiamo parlare?
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Alla fine un piccolo risultato riusciamo ad ottenerlo con il responsabile che ci raggiunge a telefono.
BERNARDO IOVENE Non c’è possibilità di toglierlo questo? Non c’è possibilità di toglierlo? RESPONSABILE CENTRO RACCOLTA RIFIUTI Domani mattina, domani mattina lo togliamo.
BERNARDO IOVENE Domani mattina lo togliamo?
RESPONSABILE CENTRO RACCOLTA RIFIUTI Domani mattina lo togliamo.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Forse in un posto così potrebbe bastare una telecamera, eppure nel 2013 una legge regionale ha stanziato 7 milioni di euro per i comuni che presentavano progetti per la videosorveglianza e riqualificazione, ma dopo 6 anni sono stati spesi solo 3 milioni. Soltanto 34 comuni sui 90 della terra dei fuochi hanno presentato i progetti, forse perché li considerano soldi sprecati. Qui siamo a Orta di Atella.
ENZO TOSTI - RETE CITTADINANZA E COMUNITÀ STOP-BIOCIDIO Vedete che qua continuano a sversare e anche a bruciare.
BERNARDO IOVENE Proprio sotto?
ENZO TOSTI - RETE CITTADINANZA E COMUNITÀ STOP-BIOCIDIO Sì. In effetti diciamo, innanzitutto non c’è chi controlla queste immagini. I vigili urbani dovrebbero venire qua ogni settimana con un portatile e con un bluetooth: scaricare le immagini praticamente, ma non lo fanno. Questo è andato a fuoco qualche settimana fa, non tanto tempo fa. Qua sono intervenuti diverse volte i vigili del fuoco.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Intorno rifiuti di artigiani, meccanici, gommisti, e industrie della zona. Il tutto condito con un bell’arcobaleno, praticamente un quadro d’autore.
ENZO TOSTI - RETE CITTADINANZA E COMUNITÀ STOP-BIOCIDIO Tutto questo, ecco, questi sono i tanti segnali che la natura ci lancia.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Cerchiamo di non abituarci a questo scenario e proviamo a contattare il sindaco. Per lui oggi è un giorno speciale: è l’8 novembre, ha appena ricevuto il decreto di scioglimento del consiglio comunale per infiltrazioni camorristiche. Non è in comune e ci invita ad andare a casa sua. ANDREA VILLANO - SINDACO DI ORTA DI ATELLA (CE) Così vi offro il caffè.
BERNARDO IOVENE Se uno pensa comune sciolto da infiltrazione camorristica, pensa subito il sindaco è un camorrista.
ANDREA VILLANO - SINDACO DI ORTA DI ATELLA (CE) Il primo pensiero che uno fa è proprio questo. Però io penso di essermi sempre comportato con linearità e trasparenza.
BERNARDO IOVENE Parliamo da oggi ad andare indietro. Qua lo sanno tutti: terra dei fuochi. Siamo stati in due, tre aree allucinanti: addirittura telecamere sopra, no, e rifiuti sotto. Cioè, quella telecamera è collegata con chi? Nell’area Pip?
ANDREA VILLANO - SINDACO DI ORTA DI ATELLA (CE) Lo sversamento dei rifiuti nelle zone periferiche è una delle piaghe, ma la piaga più importate è lo stato in cui versano le strutture scolastiche.
BERNARDO IOVENE Ma io le sto continuando a chiedere dei rifiuti. Lei mi dice: “Non ci siamo occupati dei rifiuti, mi sono occupato della scuola”.
ANDREA VILLANO - SINDACO DI ORTA DI ATELLA (CE) Ci arrivo subito. Abbiamo fatto la pulizia di via Ciardulli con chiusura delle sbarre.
BERNARDO IOVENE No però lei mi deve dire quello che non ha fatto, non quello che ha fatto. Perché quello che ha fatto, l’ha fatto, lo doveva fare. È quello che non ha fatto…
ANDREA VILLANO - SINDACO DI ORTA DI ATELLA (CE) Certo, però quando si deve fare una pulizia e una bonifica straordinaria, un comune in dissesto deve fare un cronoprogramma; con quel ribasso noi abbiamo fatto le bonifiche. BERNARDO IOVENE No, io però voglio parlare di una cosa elementare: voi avete messo una telecamera…
ANDREA VILLANO - SINDACO DI ORTA DI ATELLA (CE) Sì.
BERNARDO IOVENE Poi il comune deve andare lì prendere le immagini e eventualmente individuare. Ogni quante volte andavate a prendere queste immagini? Se ci andavate…
ANDREA VILLANO - SINDACO DI ORTA DI ATELLA (CE) In quel posto mai. Ci sono gli altri cinque posti, gli altri cinque posti dove siamo…
BERNARDO IOVENE Ma cos’è una presa in giro?
ANDREA VILLANO - SINDACO DI ORTA DI ATELLA (CE) No, perché Orta, ve l’ho detto, Orta è 11 chilometri quadrati. Ci siamo preoccupati prima delle aree più a ridosso del centro abitato.
BERNARDO IOVENE Eh, quello è vicinissimo al centro abitato.
ANDREA VILLANO - SINDACO DI ORTA DI ATELLA (CE) E poi arrivavamo all’area Pip. Ci saremmo arrivati nei prossimi mesi, diciamo così.
BERNARDO IOVENE Comunque questo è il suo ultimo giorno, quindi insomma, chi si è visto si è visto. ANDREA VILLANO - SINDACO DI ORTA DI ATELLA (CE) Adesso diamo il testimone alla terna commissariale.
BERNARDO IOVENE Terna? Tre commissari?
ANDREA VILLANO - SINDACO DI ORTA DI ATELLA (CE) Alla quale auguriamo un buon lavoro nell’interesse della nostra comunità.
BERNARDO IOVENE Però io la vedo sereno. Nel senso che se oggi arriva il decreto che dice: “Il suo comune, dove lei è il sindaco, è sciolto per infiltrazione camorristica”, io la vedo sereno e sorridente.
ANDREA VILLANO - SINDACO DI ORTA DI ATELLA (CE) È un fardello, un peso enorme.
BERNARDO IOVENE Se io faccio il sindaco e mi sciolgono per infiltrazione camorristica, qualche domanda me la faccio anche io.
ANDREA VILLANO - SINDACO DI ORTA DI ATELLA (CE) Certo, infatti io adesso sto andando dall’avvocato per preparare il ricorso.
BERNARDO IOVENE Senta ma il fatto in sé lei non lo conosce neanche, perché è stato, è stato sciolto? ANDREA VILLANO - SINDACO DI ORTA DI ATELLA (CE) No, adesso bisogna chiedere una copia della relazione.
BERNARDO IOVENE Non lo immagina neanche?
ANDREA VILLANO - SINDACO DI ORTA DI ATELLA (CE) No.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Era l’8 novembre, quattro giorni dopo, il 12 novembre a Sant’Arpino, paese vicino, due persone con volto coperto e un bastone picchiano sull’auto e schiaffeggiano il giornalista Mario De Michele, direttore di Campania Notizie. Lo accusano di aver provocato lo scioglimento del consiglio comunale di Orta, poi dopo tre giorni, il 15 novembre altro agguato: questa volta sparano sette colpi di pistola ad altezza d’uomo, De Michele riesce a scappare con l’auto tra gli spari.
MARIO DE MICHELE – DIRETTORE CAMPANIA NOTIZIE Hanno detto: “è stata colpa tua lo scioglimento per camorra del consiglio comunale di Orta di Atella, ci hai inguaiato”.
BERNARDO IOVENE Ti volevano ammazzare praticamente? Cioè, hanno colpito il parabrezza, tu che hai fatto?
MARIO DE MICHELE - DIRETTORE CAMPANIA NOTIZIE Hanno sparato ad altezza uomo. Ci siamo ritrovati ad Orta di Atella, dopo una devastazione che è unica in Italia, personaggi che avevano contribuito, ma fortemente, a ridurre il territorio in questo modo.
BERNARDO IOVENE Il sindaco era al corrente che dentro la sua amministrazione…
MARIO DE MICHELE - DIRETTORE CAMPANIA NOTIZIE Assolutamente.
BERNARDO IOVENE Vabbè, noi vi abbracciamo, tutta la redazione di Report
MARIO DE MICHELE - DIRETTORE CAMPANIA NOTIZIE Lo sappiamo, lo sappiamo. Anzi, ci vorrebbero più trasmissioni come Report, e più giornalisti come voi perché – lo dico in modo anche egoistico – così chi fa inchiesta è più tutelato. Perché colpire una persona è facile, colpirne dieci o cento è molto più difficile. Grazie assai.
BERNARDO IOVENE Tanti auguri.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Grazie a tutti quelli che continuano a svolgere il loro ruolo di cane da guardia della democrazia in quei territori complicati. Dove lo stato nonostante piani e patti, dà la percezione ai cittadini di essere latitante. I vigilantes implacabili sono quello sceriffo acchiappa incendiari, i comitati, i singoli cittadini. Perché è sulla loro pelle che si scontano i fumi velenosi. Sono loro che scovano le discariche -improvvisati bruciatorinon bonificate, e sconosciute anche agli stessi amministratori. Non abbiamo ancora ben capito se si tratta di indifferenza, rassegnazione, o peggio ancora complicità. Perché i rifiuti non li raccolgono neppure quelli che sono addetti a farlo. Neppure se glieli sversano e glieli bruciano sotto il naso. Ostentano come giustificazione il fatto che non gli vengono pagati gli stipendi. Ma qui ci troviamo di fronte morso del serpente alla propria coda. Perché se tu non obblighi a pagare le aziende, illegali spesso, la tassa sui rifiuti, ai cittadini, come paghi quelli che dovrebbero raccoglierli quei rifiuti? È la continua, estenuante rincorsa della guardia al ladro. Dove non si capisce però neppure bene chi è la guardia e chi il ladro perché quei rifiuti sono frutto dell’illegalità, di quel gruppo di piccoli artigiani, almeno per lo più che operano nell’illegalità, che si avvalgono della filiera nera per smaltire le scorie dei loro rifiuti. Poi c’è il cittadino, con la cultura deformata, sprezzante della cultura dell’ambiente, che abbandona il rifiuto dove capita. Eppure lo stato aveva investito sette milioni di euro in telecamere, ma gli amministratori hanno ritenuto giusto spenderne la metà. Perché non le ritengono utili o o perché vogliono stare con gli occhi chiusi. Visto che anche quando le mettono quelle telecamere gli lasciano i rifiuti sotto neppure vanno a vedere cosa hanno registrato. Il responsabile della cabina di regia interforze, il vice prefetto Gerlando Iorio ci scrive esaltando l’intervento dell’esercito, 255 militari, che sono presenti h24 sulla Terra dei Fuochi. Ci segnala anche che sono aumentate le sanzioni, i sequestri alle aziende illegali, 411 nel 2019, 165 i veicoli sequestrati, 36 gli arresti. Bene, questo è un impegno che non può che farci piacere. Tuttavia, visto che sono stati investiti 6 milioni di euro per i droni per controllare il territorio della Terra dei Fuochi, e che sono stati dotati, esercito e i cittadini di un app per segnalare i rifiuti prima che vengano bruciati ad una società, la SMA, che si occupa di ambiente e per cui la Regione ha stanziato ad hoc proprio per raccogliere i rifiuti circa dieci milioni di euro. Ecco, visto tutto questo scenario, il nostro Bernardo Iovene immaginava di scendere giù e trovarsi di fronte a una piccola Svizzera.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Qui al confine tra Giugliano e Villa Literno a ridosso del lago Patria con vista sull’isola di Ischia e Procida, ci sono stoccate complessivamente quattro milioni di tonnellate di ecoballe, nel cronoprogramma della Regione era prevista la rimozione entro il 2019. Ma sono ancora qui. E ogni tanto come d’incanto, vanno a fuoco.
BERNARDO IOVENE Quante volte è successo che sono andate a fuoco queste ecoballe?
SALVATORE LONGOBARDO - VICEDIRIGENTE VIGILI DEL FUOCO CASERTA È successo tre volte.
BERNARDO IOVENE Perché oltre a tutti i rifiuti abbandonati, qui vanno a fuoco anche gli Stir.
ANNA FABOZZI - COMITATO “FERMIAMO I ROGHI TOSSICI SANTA MARIA CAPUA VETERE” Anche gli Stir, quindi anche rifiuti statali. Qui due volte, l’ultimo è stato il 17 ottobre.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO A luglio del 2018 va fuoco il centro di stoccaggio di Caivano, nello stesso mese un sito di stoccaggio di ecoballe a San Vitaliano, a ottobre un centro di rifiuti pericolosi già sotto sequestro a Marcianise, a gennaio una ditta di stoccaggio di Bellona.
GAETANO RIVEZZI – PRESIDENTE REGIONALE ISDE MEDICI PER L’AMBIENTE Il rischio di salute che aggrava questa situazione ambientale si perpetua per almeno sette, otto anni. Perché queste sostanze sono sostanze che si accumulano nel nostro organismo.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Ormai questo dei roghi ai centri di trattamento dei rifiuti è anche un fenomeno nazionale, ed è per questo che da un anno questi siti sono presidiati dall’esercito, solo che in terra dei fuochi li hanno spostati dal pattugliamento dinamico, che prima facevano sul territorio.
GIROLAMO STASI – TENENTE 152 REGGIMENTO FANTERIA SASSARI Sette pattuglie che presidiano h24. Quindi contiamo ovviamente più di un centinaio di persone sul terreno, ovviamente solo per la mia compagnia.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO L’operazione strade sicure in terra dei fuochi ha dislocato 255 militari, 155 ci dicono dalla cabina di regia sono in presidio fisso. La sala operativa è a Caserta e la parola d’ordine ricorrente è h24.
NICOLA LAREZZA – CAPOSALA OPERATIVA RAGGRUPPAMENTO CAMPANIA La sala operativa è funzionante h24. BERNARDO IOVENE E siete in collegamento con chi?
NICOLA LAREZZA – CAPOSALA OPERATIVA RAGGRUPPAMENTO CAMPANIA Noi siamo in collegamento con tutte le pattuglie sul terreno, siamo 255 unità.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO In realtà ci sono soltanto sei pattuglie dinamiche che devono vigliare su 90 comuni. I due terzi della forza armata invece è in presidio ai siti sensibili, le compagnie ruotano ogni sei mesi e adesso tocca al reggimento di Sassari.
BERNARDO IOVENE In questi sei mesi che è successo qua fuori?
GIROLAMO STASI – TENENTE 152 REGGIMENTO FANTERIA SASSARI In questi sei mesi non abbiamo eventi particolarmente significativi, intesi come…
BERNARDO IOVENE Avete presidiato, siete stati qua.
GIROLAMO STASI – TENENTE 152 REGGIMENTO FANTERIA SASSARI Abbiamo presidiato. BERNARDO IOVENE A far niente diciamo.
GIROLAMO STASI – TENENTE 152 REGGIMENTO FANTERIA SASSARI No. Non direi. Non la porrei proprio così. La nostra presenza ha fatto sì, di un’assenza di eventi significativi quali incendi, roghi, sversamenti di rifiuti nelle immediate vicinanze del sito.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Non è proprio così, se pensiamo che lo Stir di Santa Maria Capua Vetere a ottobre era presidiato dall’esercito quando è andato in fumo. Per non parlare delle zone intorno ai siti di stoccaggio delle ecoballe di villa Literno o Giugliano, dove nonostante il presidio dell’esercito avviene di tutto.
BERNARDO IOVENE Vuol dire che quel presidio non serve a niente?
NICOLA LAREZZA – CAPOSALA OPERATIVA RAGGRUPPAMENTO CAMPANIA Dove a poca distanza dal personale vede dei rifiuti, quell’area con quel sistema di cui le ho fatto vedere prima, è stata già censita. E ovviamente da qual momento in poi è stata censita, ci sono tutte quelle attività volte alla risoluzione del problema, che non competono alla forza armata.
BERNARDO IOVENE Aspetti, però non è che adesso noi…
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Magari! Purtroppo attività risolutive non se ne vedono, il sistema di censimento dei siti di abbandono dei rifiuti è stato messo in campo dalla regione attraverso la società in house SMA. Quindi i militari, quando individuano uno sversamento, segnalano alla SMA, attraverso un’applicazione, così come possono fare tutti i cittadini.
BERNARDO IOVENE Qua dove siamo? VINCENZO FORINO – COMITATO “STOP BIOCIDIO” Qui siamo a via Bosco Fangone, a Nola. Questa diciamo è una delle discariche del territorio che abbiamo già segnalato con l’App di Sma Campania due anni fa.
BERNARDO IOVENE Alla Sma Campania.
VINCENZO FORINO – COMITATO “STOP BIOCIDIO” Sì, due anni fa l’abbiamo segnalato, poi abbiamo smesso.
BERNARDO IOVENE Riproviamo a segnalarlo e vediamo che succede, questo è il mio cellulare.
VINCENZO FORINO – COMITATO “STOP BIOCIDIO” Va bene. Allora, discarica…
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Il problema è quello che succede dopo, cioè niente. La Sma fa monitoraggio, ci mostrano i quattro grafici che sintetizzano il loro lavoro. Ogni puntino verde è una discarica: queste sono le segnalazioni dei cittadini, ad oggi 3162, queste quelle dell’esercito 1551, la metà, e poi quelle del pattugliamento Sma, 2357. In tutto hanno censito 3500 siti di rifiuti abbandonati e bruciati, la maggior parte segnalati dai cittadini. Tutti concentrati a Napoli nord nella terra dei fuochi.
BERNARDO IOVENE Di questi quanti non c’è più niente adesso là?
GIUSEPPE ESPOSITO - AMMINISTRATORE UNICO SMA Su quelli dove non c’è più niente, io temo che siano veramente pochi. Però noi le segnalazioni che abbiamo poi le giriamo all’esercito se deve intervenire l’esercito, le giriamo ai vigili del fuoco.
BERNARDO IOVENE E l’esercito le gira a voi.
GIUSEPPE ESPOSITO - AMMINISTRATORE UNICO SMA Solo alcune.
BERNARDO IOVENE Solo alcune.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Tutti segnalano, ma nessuno rimuove. La Regione Campania aveva stanziato dieci milioni per la rimozione dei rifiuti abbandonati, ma poi ci ha ripensato. Giampiero Zinzi è all’opposizione e presiede la commissione speciale per la terra dei fuochi.
GIANPIERO ZINZI - PRESIDENTE COMMISSIONE TERRA DEI FUOCHI Quando siamo andati a verificare le cifre stanziate, ci siamo resi conto che dieci milioni appostati come fondo rotativo sulla rimozione dei rifiuti, sono stati poi spostati su altre voci e otto milioni e cento sul monitoraggio, cioè su Sma Campania. Quindi facendo venire a mancare proprio la voce più importante.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Dei 17 milioni di euro arrivati a Sma Campania, sei milioni sono stati spesi per sette droni, che finora si sono visti solo in cerimonie pubbliche, perché sono ancora in collaudo. Un po’ di preoccupazione c’è perché il vecchio CDA della Sma ha portato la società sull’orlo del fallimento.
FABIO PAVESI - GIORNALISTA FINANZIARIO Il collegio sindacale dice che va fatta un’azione di responsabilità cioè sulla cattiva gestione verso la vecchia amministrazione per uso delle auto di servizio non compatibile con l’espletamento del servizio stesso – cioè le macchine venivano usate a uso privato – creazione e gestione di fondi extracontabili, grave per una società, uso improprio di…
BERNARDO IOVENE Che vuol dire?
FABIO PAVESI - GIORNALISTA FINANZIARIO Che c’erano dei fondi che venivano messi fuori bilancio di cui non c’era contabilità. Uso improprio di carte di credito prepagate. Quando arriva il nuovo Cda nel 2018 si accorge che questa società non ha mai fatto i bilanci negli ultimi cinque anni, ha sempre operato in perdita, ha accumulato 15 milioni di patrimonio netto negativo. I costi che superano i ricavi, mille dipendenti, non si capisce per fare che cosa, e con il revisore contabile che dice: “Io non posso approvare il bilancio perché ho chiesto le informazioni alla Regione, non sono mai arrivate, cioè non ho un quadro che mi fa capire che cosa fa questa società”. Adesso tuttora la Regione è impegnata a ricapitalizzare la Sma per 28 milioni di euro, per poterla far operare, perché senza capitale non può farlo.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Un ruolo determinate in piena terra dei fuochi ce l’ha il nuovo tribunale di Napoli Nord, costituito nel 2013 ad Aversa, in un territorio considerato ad alto tasso criminale che va da Casal di Principe a Giugliano, ma nato con carenza di organico.
DOMENICO AIROMA - PROCURATORE AGGIUNTO TRIBUNALE NAPOLI NORD Un solo esempio: la polizia giudiziale. A noi spetterebbero 60 unità di polizia giudiziale, per legge. Ne abbiamo 26.
BERNARDO IOVENE Senta ma c’è qualcuno in galera per aver appiccato un rogo, un rogo tossico?
PROCURATORE Qualche arresto c’è stato. Non siamo…
BERNARDO IOVENE Qualche? Qualche?
DOMENICO AIROMA - PROCURATORE AGGIUNTO TRIBUNALE NAPOLI NORD Qualche, pochi. Dopo i roghi i siti andrebbero bonificati. Ma questo non accade, le uniche bonifiche che sono state fatte in questo territorio sono quelle che hanno fatto seguito a interventi dell’autorità giudiziaria. E non ne sono soddisfatto. Dico che questa non è tanto e non solo la terra dei fuochi, ma anche un po’ la terra dei ciechi.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO La terra dei ciechi! Il procuratore è anche polemico con i vari piani di azione che non hanno dato risultato.
DOMENICO AIROMA - PROCURATORE AGGIUNTO TRIBUNALE NAPOLI NORD Oggi noi festeggiamo i dieci anni da quando è stata decretata per legge la fine dell’emergenza. Lei se ne è accorto?
BERNARDO IOVENE No.
DOMENICO AIROMA - PROCURATORE AGGIUNTO TRIBUNALE NAPOLI NORD Ecco.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO La stagione delle piogge ha dato una tregua a questi territori, ma prima che l’aria torni a friggere, i cittadini e i comitati nati ormai sull’esasperazione in ogni angolo dei 90 comuni vogliono e chiedono azioni concrete; il 23 novembre sono stati convocati a Roma dal ministro dell’ambiente Costa.
MIRIAM CORONGIU – COMITATO RETE CITTADINANZA E COMUNITÀ Continuiamo a portare a spalla bare bianche, piccole, e veramente non ne possiamo proprio più.
RANIERO MADONNA - COMITATO STOP BIOCIDIO Abbiamo chiesto che venga azzerato, annullato, il piano d’azione sulla Terra dei fuochi che riteniamo assolutamente fallimentare.
ENZO TOSTI - RETE CITTADINANZA E COMUNITÀ STOP-BIOCIDIO Ha istituito questo tavolo permanente, con lo scopo di interloquire con le comunità. Noi siamo quelli della protesta, l’abbiamo sempre detto, ma siamo anche quelli della proposta.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO La rete dei comitati ha consegnato al ministro un documento sull’intero ciclo dei rifiuti, per una mappatura delle zone contaminate, sulla correlazione inquinamento-salute, e le bonifiche. Poi hanno fissato un nuovo appuntamento a gennaio, così era successo anche ai 21 sindaci della terra dei fuochi convocati al ministero il 5 settembre ma poi non hanno saputo più nulla.
BERNARDO IOVENE Quindi Costa, il ministro, uomo d’azione prima nella terra dei fuochi, arrivato ministro…
ANTONIO POZIELLO - SINDACO DI GIUGLIANO IN CAMPANIA (NA) Assolutamente no. Un dirigente del ministero mi dice il 5 settembre: “Ma se io le mando mille carabinieri, lei ha risolto il problema?” E certo che ho risolto il problema, ma pure se me ne mandi 100, 20, pure se me ne mandi cinque. Perché sono cinque in più che sono dedicati. In questa terra noi siamo stati abbandonati a noi stessi. Io mi aspettavo dal ministro Costa, dal ministro dell’ambiente che è stato Generale e che conosce bene questa cosa, un qualcosa in più. Ero fiducioso e sono particolarmente deluso, perché non ho visto niente. Però siamo soli con uno che ogni tanto ci dice: “Però io dirò, farò, vedrò”, ma quelli di prima avevano parlato lo stesso linguaggio.
BERNARDO IOVENE Le vostre proposte quali sono, sono Iovene di Report, salve. SERGIO COSTA - MINISTRO DELL’AMBIENTE Adesso l’abbiamo detto.
BERNARDO IOVENE Lei non ha detto le sue proposte, ha detto le proposte dei comitati. Ma le vostre proposte come ministero quali sono? Sono fuori dal piano d’azione: vuol dire che questo piano è fallito?
SERGIO COSTA - MINISTRO DELL’AMBIENTE No, non sto dicendo che il piano è fallito. Alcune cose hanno funzionato, altre cose non hanno funzionato bene.
BERNARDO IOVENE Per esempio che cosa? Per esempio che cosa?
SERGIO COSTA - MINISTRO DELL’AMBIENTE Intanto tutta l’interministerialità ha funzionato, finalmente si incomincia a mettere al centro dell’azione la vicenda di terra dei fuochi. Oggi noi stiamo proponendo un patto con tutti i comuni di terra dei fuochi – parlo di ministero a questo punto – un patto con tutti i comuni di terra dei fuochi per fare determinate cose. Le faccio un esempio: io ministro, ministero dell’ambiente ti do per esempio delle telecamere, però tu mi dai con i tuoi vigili urbani il controllo del territorio. Perché altrimenti io le telecamere te le do ma non serve a nulla.
BERNARDO IOVENE Quindi esercito… SERGIO COSTA - MINISTRO DELL’AMBIENTE Ho parlato di vigili urbani adesso.
BERNARDO IOVENE No, dico: tutto questo non è servito a niente, fino adesso? SERGIO COSTA - MINISTRO DELL’AMBIENTE No, non abbiamo detto che non è servito a niente.
BERNARDO IOVENE Quest’anno sono aumentati i roghi. SERGIO COSTA - MINISTRO DELL’AMBIENTE Ma non si discute che ci sia stato un anno difficile.
BERNARDO IOVENE Quindi ci sarà un altro piano? Ci sarà un altro piano?
SERGIO COSTA - MINISTRO DELL’AMBIENTE No, stiamo integrando…
BERNARDO IOVENE Interministeriale, a livello di cabina di regia, al livello di unità di coordinamento.
SERGIO COSTA - MINISTRO DELL’AMBIENTE Mi fai rispondere! Ci sarà quello che è la cabina di regia che è della presidenza del consiglio perché è interministeriale, e ammanta un po’ tutto ed è giusto che sia così. Poi ci sarà un piano operativo, che è qualcosa di un po’ più solido che rimane – io auspico – in capo al ministero dell’Ambiente.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO I roghi sono aumentati, il ministro Costa ha una sua idea: ha in mente un nuovo patto, insomma per quei territori ha già mandato in cantina forse nella sua testa il piano di azione del 2018. Tra le sue idee c’è quella di dare più telecamere alle amministrazioni, ma in cambio vuole un maggiore impegno dei vigili urbani. È una bella idea, ma abbiamo visto che non funziona perché neppure vanno a vedere le immagini che hanno già registrato. Dopo dieci anni che hanno dichiarato la fine dell’emergenza rifiuti, sono andati invece avanti con piani e patti, quando forse sarebbe stato sufficiente applicarne uno: mettere in piedi una task force dedicata a sconfiggere l’illegalità di quei territori. Eliminare quelle aziende che lavorano in nero e smaltiscono in nero, costringere alla tracciabilità dello smaltimento dei rifiuti. Il Sistri, il sistema che doveva tracciare il percorso dei rifiuti dalle aziende allo smaltimento, alla discarica, i rifiuti speciali ma è morto prima di entrare in funzione. Adesso siamo in attesa del Sistri 2.0, quello in versione digitale. Vedremo quando entrerà. E poi bisognerà costringere le aziende e i cittadini a pagare le tasse sui rifiuti. Sanzionare gli amministratori pigri, i vigili che non fanno il loro dovere, dotare il tribunale di maggiore personale per sconfiggere e contrastare l’illegalità. Ma tutto questo comporterebbe prendere scelte che forse in quelle terre farebbero perdere consensi, farebbero perdere i voti. Preferiscono rischiare di perdere le vite umane. L’unica istituzione che si è occupata, preoccupata della salute è la magistratura. Il procuratore aggiunto Domenico Airoma, ha chiesto uno studio all’Istituto Superiore di Sanità. Che ha accertato un aumento di mortalità e di patologie tumorali tra la popolazione che vive su quelle terre, sulle terre dei fuochi, in prossimità di quelle discariche. Il dato è drammatico. Tuttavia pare che nessuno l’abbia preso sul serio. È la terra dei ciechi, ha sentenziato il magistrato Airoma; noi aggiungiamo che è anche la terra dei muti! Perché il governatore De Luca con noi non ha voluto parlare, come non ha voluto parlare l’assessore all’Ambiente, e neppure il responsabile della cabina di regia del piano di azione di Palazzo Chigi, il dottor Fabrizio Curcio. Bernardo voleva solo far vedere loro quello che aveva trovato sul territorio, che è una realtà completamente diversa da quella che ci appare sulle veline che ci hanno girato. Hanno preferito sbattere la porta in faccia a Report, che poi significa sbatterla in faccia ai cittadini e a quel territorio che ha anche altre ricchezze rispetto alle mozzarelle. Dalle mele annurche, alle melanzane, al miele, alla cicoria. Sono tanti i prodotti d’eccellenza di quei territori. Sbattere la porta a tutto questo, significa anche sbattere soprattutto una porta in faccia al seme della speranza.
· Acqua sporca.
Acque luride. Report Rai PUNTATA DEL 14/12/2020 di Giulia Presutti, collaborazione di Marzia Amico. Le navi producono rifiuti proprio come case, alberghi, piccoli centri abitati. Le acque nere e grigie sono i liquidi che provengono dagli scarichi dei WC, dalle docce, dai lavandini. Vanno depurate e smaltite con attenzione: per questo nei porti esistono gli impianti di raccolta, ai quali le navi devono conferire pagando una tassa per lo smaltimento. C'è però una scorciatoia: le imbarcazioni possono scaricare in mare quando si trovano a più di 12 miglia dalla costa e, se hanno a bordo un impianto di trattamento dei rifiuti, persino entro le 12 miglia. Ma chi controlla gli impianti di bordo? E la manutenzione che deve essere fatta regolarmente? Con l'arrivo della pandemia di Covid-19 alcune grandi navi sono state messe in quarantena. Dove hanno scaricato le loro acque nere? E le istituzioni italiane cosa hanno fatto per proteggere il mare e i bagnanti?
ACQUE LURIDE Di Giulia Presutti Collaborazione Marzia Amico Immagini Chiara D'Ambros, Giovanni De Faveri, Dario D'India Montaggio Andrea Masella e Lorenzo Sellari.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Bentornati. Allora c’è un ambito dove ognuno fa di testa sua anche se parliamo di un bene comune, il mare, l’ambiente, che ha anche una ricaduta sulla salute. Come smaltiscono le navi che hanno pazienti a bordo malati di Covid le proprie acque reflue? Ecco, la convenzione Marpol che regolamenta l’inquinamento in mare stabilisce che se tu scarichi a 12 miglia dalla costa, puoi anche scaricare i rifiuti nella loro interezza. Se vai invece a tre miglia, devi sminuzzarli e disinfettarli. Ora invece che cosa accade? Che gli armatori vorrebbero scaricare direttamente in porto. Eppure, ci sono delle società che sono preposte proprio al conferimento di questi liquidi che sono altamente inquinanti. Tecnicamente si chiamano sewage, che significa acque luride, ma evidentemente non lo sono per tutti. La nostra Giulia Presutti.
GIULIA PRESUTTI FUORI CAMPO Venezia, porto turistico. La Carinthia VII, uno yacht di 120 metri, è ferma in banchina. Aspetta che la raggiunga una barchetta, la Ecolaguna, incaricata di raccogliere i rifiuti prodotti a bordo.
NICOLA CESTARO - GUARDIE AI FUOCHI PORTO DI VENEZIA Per poter arrivare direttamente alla connessione dell’imbarcazione in estrema sicurezza il passaggio deve essere direttamente al nostro collegamento senza aperture verso l’esterno.
GIULIA PRESUTTI Per evitare di disperdere in mare?
NICOLA CESTARO - GUARDIE AI FUOCHI PORTO DI VENEZIA Esattamente, non ci deve essere pericolo di sversamento in mare.
GIULIA PRESUTTI FUORI CAMPO Oggi è il giorno di consegna delle acque nere. La Carinthia ne produce 90 metri cubi al mese.
NICOLA CESTARO - GUARDIE AI FUOCHI PORTO DI VENEZIA Sono le acque prodotte nei bagni, dai water, che comunemente noi a casa scarichiamo attraverso lo sciacquone.
GIULIA PRESUTTI FUORI CAMPO Ecolaguna ha riempito le cisterne e prende il mare, direzione porto commerciale di Marghera, dove si trova il depuratore del comune di Venezia. Le acque reflue delle barche vengono prima analizzate e poi trattate insieme a quelle degli scarichi urbani.
GIUSEPPE VECCHIATO - RESPONSABILE TECNICO IMPIANTO DI DEPURAZIONE VERITAS Assolutamente nello stesso modo, perché la tipologia di matrice è la stessa.
GIULIA PRESUTTI Sono già depurate o le dovete depurare voi?
GIUSEPPE VECCHIATO - RESPONSABILE TECNICO IMPIANTO DI DEPURAZIONE VERITAS No, noi le dobbiamo depurare.
GIULIA PRESUTTI FUORI CAMPO I reflui delle navi vanno depurati perché sono pieni di batteri. La legge italiana parla chiaro: le navi che entrano in porto devono conferire agli impianti di raccolta, società concessionarie per conto dell’autorità portuale. Non tutti i porti sono uguali. Alcuni si trovano in mezzo a parchi marini e aree turistiche protette. Come Talamone, provincia di Grosseto, nel cosiddetto santuario dei cetacei. Antonio Orlandi ha una concessione demaniale per il ritiro dei rifiuti delle navi.
ANTONIO ORLANDI - C.N. TALAMONE SAS Nessuno ha mai conferito negli ultimi anni.
GIULIA PRESUTTI Cioè a lei non gliele hanno mai conferite queste acque.
ANTONIO ORLANDI - C.N. TALAMONE SAS A me mai.
GIULIA PRESUTTI Ma secondo lei perché negli anni non gliel’hanno conferito il sewage?
ANTONIO ORLANDI - C.N. TALAMONE SAS C’è un costo diverso dal fatto che se uno per esempio, non so, lo butta in mare. E poi non ci sono, sostanzialmente non ci sono controlli.
GIULIA PRESUTTI FUORI CAMPO In questo mare casa di balenottere protette, già nel 2010 Greenpeace aveva trovato una pesante contaminazione da coliformi e streptococchi fecali. Come quelli delle fogne. Provenivano, secondo l’associazione, dalle navi passeggeri che scaricano le acque reflue mentre fanno la spola tra le località turistiche. Orlandi dovrebbe operare tra Talamone, Porto Santo Stefano, Porto Ercole e l’Isola del Giglio. Ma se le navi non gli notificano la presenza di rifiuti a bordo, la sua società non riesce a lavorare.
GIULIA PRESUTTI Quanto ha perso la sua azienda in termini economici per questo problema?
ANTONIO ORLANDI - C.N. TALAMONE SAS Non lo sa nessuno, qui la notifica non la faceva nessuno, cioè a noi la capitaneria ci ha consegnato delle notifiche dove questi producono solo plastica e lattine. Cioè non hanno mai prodotto nient’altro.
GIULIA PRESUTTI FUORI CAMPO Smaltire i rifiuti ha un costo. E quelli liquidi sono facili da disperdere in mare. La convenzione Marpol del 1978 sull’inquinamento marino in alcuni casi lo permette. A dicembre 2018 Confitarma, la confederazione degli armatori, invia una lettera al ministero dell’Ambiente e a quello dei Trasporti. Le grandi navi vogliono sapere come regolarsi entro le tre miglia e chiedono di poter sversare “anche in ambito portuale”.
LUCA SISTO - DIRETTORE GENERALE CONFITARMA Perché la nave viene trattata come una mucca da mungere? Come se lei fosse costretta ogni giorno a mettere un sacchetto di rifiuti alimentari nel cassonetto, ogni giorno qualcuno viene e le dice “conferisca, a me, io le faccio pagare per questo conferimento”.
GIULIA PRESUTTI Vuol dire che le navi non si possono permettere di pagare per lo smaltimento delle acque?
LUCA SISTO - DIRETTORE GENERALE CONFITARMA No, non è questo. Il conferimento della nave si può fare seguendo regole che sono internazionalmente uguali per tutti vengono italianizzate in maniera un po’ particolare, noi facciamo sentire la nostra voce semplicemente.
GIULIA PRESUTTI FUORI CAMPO E il governo li ascolta. Il ministero dell’Ambiente guidato da Sergio Costa, che qualche settimana dopo è presente all’assemblea 2019 di Confitarma, esprime un parere positivo.
SIMONA GIOVAGNONI – ASSOCIAZIONE NAZIONALE SERVIZI ECOLOGICI PORTUALI Il ministero fornisce la propria interpretazione dicendo che sì, effettivamente se la nave era dotata di un impianto avrebbe potuto scaricare, poteva anzi scaricare le proprie acque all’interno degli specchi portuali, senza alcun tipo di restrizione.
GIULIA PRESUTTI FUORI CAMPO Simona Giovagnoni rappresenta l’associazione degli impianti di raccolta portuale. Ha scoperto per caso la lettera del Ministero e l’ha contestata, ma era troppo tardi. Quella lettera privata era già diventata una circolare, a firma del RAM, il reparto ambiente marino della Guardia Costiera.
SIMONA GIOVAGNONI – ASSOCIAZIONE NAZIONALE SERVIZI ECOLOGICI PORTUALI Suggeriva un po’ ai comandanti dei porti in collaborazione anche della autorità di sistema portuale di osservare le indicazioni superiori.
GIULIA PRESUTTI Quindi un effetto domino?
SIMONA GIOVAGNONI – ASSOCIAZIONE NAZIONALE SERVIZI ECOLOGICI PORTUALI Che ha reso sostanzialmente esecutiva una…nota. Però non abbiamo avuto certezza che la circolare abbia avuto tutto l’iter perché altrimenti l’avrei impugnata insomma.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO L’hanno fatta passare sotto silenzio. È una comunicazione che è intercorsa tra armatori e due ministeri, poi è diventata poi una circolare operativa. Ora, è un’interlocuzione normale, ci scrive il ministro dell’Ambiente Costa, quando avviene in questa maniera che è in fase di recepimento delle normative. Insomma, sta di fatto che però è stata scoperta per caso. E dunque le navi che hanno un impianto di depurazione a bordo possono scaricare in porto. Ora, ma c’è un problema: chi è che controlla se l’impianto di depurazione funziona e chi controlla la qualità delle acque? Si è creata una situazione per cui ogni capitaneria di porto fa di testa sua. A Civitavecchia una nave con 600 passeggeri a bordo, alcuni malati di Covid, gli è stato consentito di scaricare in porto.
GIULIA PRESUTTI FUORI CAMPO Civitavecchia, marzo 2020, pieno lockdown. Due navi da crociera vengono bloccate in porto. Hanno a bordo centinaia di passeggeri e alcuni sono risultati positivi al Covid-19. Le navi restano in quarantena per mesi, senza mai uscire in mare.
MONICA TOMMASI - PRESIDENTE AMICI DELLA TERRA Una nave da crociera, la MSC, sversava i propri liquami nel porto di Civitavecchia con il permesso della capitaneria di porto. Aveva circa 600 passeggeri a bordo. Sversava qualche centinaio di metri cubi di liquame nel porto al giorno.
GIULIA PRESUTTI FUORI CAMPO Monica Tommasi ha scoperto che a Civitavecchia c’è un’ordinanza della Capitaneria che recepisce le indicazioni del ministero dell’Ambiente e di quello dei Trasporti e permette lo sversamento dei liquami in porto.
MONICA TOMMASI - PRESIDENTE AMICI DELLA TERRA Veramente non pensavamo neanche possibile che una capitaneria desse l’autorizzazione a sversare contro ogni legge scientifica, proprio perché il porto è chiuso per cui non c’è capacità di autodepurazione delle acque.
GIULIA PRESUTTI Considerando che era una nave dove c’erano persone positive al Covid in quarantena, perché non avete fatto le analisi in quel momento prima di farla sversare?
VINCENZO ZAGAROLA - CAPITANERIA DI PORTO DI CIVITAVECCHIA È esattamente quello che ha indicato l’istituto superiore di sanità. Un normale ciclo di depurazione inattiva il virus. Nelle ultime due settimane l’Usmaf ci ha dato anche un altro tipo di indicazione cioè l’indicazione di effettuare un trattamento con una quantità aggiuntiva di cloro nelle acque di bordo.
GIULIA PRESUTTI L’Usmaf in corsa ha deciso che serviva più disinfettante per queste acque.
VINCENZO ZAGAROLA - CAPITANERIA DI PORTO DI CIVITAVECCHIA In realtà lo ha indicato in via di ulteriore precauzione.
GIULIA PRESUTTI Quindi evidentemente l’Usmaf stesso non sapeva esattamente come trattare quelle acque.
VINCENZO ZAGAROLA - CAPITANERIA DI PORTO DI CIVITAVECCHIA Mi fa una domanda adesso su cui non sono in grado di dare una risposta.
GIULIA PRESUTTI Noi come facciamo a sapere che queste acque sono depurate?
VINCENZO ZAGAROLA - CAPITANERIA DI PORTO DI CIVITAVECCHIA Accertiamo innanzitutto che l’impianto sia a norma, a regola, e lo fai sulla base di una certificazione.
GIULIA PRESUTTI FUORI CAMPO Quindi controllano su carta. Nessuno ha analizzato i liquami sversati in porto durante il lockdown. Per l’Ufficio di sanità marittima non serviva. Basta che la nave prima di sversare tratti le acque reflue a bordo. Tanto l’impianto è certificato. Quest’uomo fa l’ispettore navale. Sale a bordo delle imbarcazioni e controlla che tutto sia a posto.
INGEGNERE Quando io vado su una nave verifico soltanto che l’impianto ci sia e sia montato correttamente. Nessuno chiede di fare un’ulteriore verifica all’effettivo funzionamento.
MARZIA AMICO Sì ma questi impianti sono in grado di depurare?
INGEGNERE Se le acque devono avere certi parametri l’impianto originariamente li rispetta. Però poi come con la sua macchina se lei non cambia l’olio per quindici anni poi il motore funziona male.
GIULIA PRESUTTI FUORI CAMPO Il Rina è l’ente certificatore delle navi in Italia. Senza il suo lasciapassare, un’imbarcazione non può stare in mare. I controlli vengono fatti su tutti gli impianti, anche su quello dei rifiuti. Ma solo una volta e prima che venga montato sulla nave.
GIULIA PRESUTTI Quindi voi diciamo l’analisi sull’effluente la fate sul prototipo?
PAOLO MORETTI - AMMINISTRATORE DELEGATO RINA SERVICES Esattamente sì, sul prototipo. Ci preoccupiamo ovviamente del collegamento dell’impianto a tutto il resto della nave, che ci siano ovviamente tutte le istruzioni, i manuali… E poi per la parte sewage andiamo una volta ogni cinque anni. E gli armatori si fanno dei loro controlli periodici.
GIULIA PRESUTTI E quindi diciamo è tutto demandato al buon senso, alla responsabilità degli armatori delle navi stesse?
PAOLO MORETTI - AMMINISTRATORE DELEGATO RINA SERVICES Assolutamente sì.
GIULIA PRESUTTI FUORI CAMPO Peccato che nessuno controlli. Queste sono le acque nere che provengono dalla nave Costa Diadema. Le ha correttamente conferite in porto a Piombino lo scorso aprile. Dal livello basso di escherichia coli si capisce che sono acque trattate a bordo.
GIULIA PRESUTTI Cosa ci dicono questi indicatori?
GIOVANNI BARCA - EX DIRETTORE GENERALE ARPAT TOSCANA Che ci vuole un ricambio d’acqua maggiore per potere pulire queste acque nere.
GIULIA PRESUTTI E quindi queste non sono acque depurate?
GIOVANNI BARCA - EX DIRETTORE GENERALE ARPAT TOSCANA Non sono acque a tabella. Un’acqua si dice depurata laddove i parametri che vengono previsti dal codice ambientale sono rispettati. Non rientriamo nei parametri per quello che riguarda l’azoto ammoniacale. Non rientriamo come ho detto nei solidi sospesi totali il cui limite è 80. E non rientriamo per quello che riguarda la COD quindi la Chemical oxygen demand superiore di circa quattro volte rispetto a quello che è il limite di legge.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Costa crociere ci scrive che loro non sversano in porto, non appartiene alla policy dell’azienda. Fanno bene forse anche perché sanno che i depuratori poi forse qualche problemino potrebbero avercelo in generale. Perché il Rina, per esempio, che controlla, certifica le navi quando vanno in mare, ha certificato l’impianto di depurazione solo sulla carta e solo sul prototipo iniziale, poi sale sulla nave ogni cinque anni. Ma i controlli sono solo sulla carta. Insomma, dobbiamo affidarci al buonsenso degli armatori. Ecco, incrociamo le dita. Poi, a Palermo non si sa bene invece che cosa accade. Chi dovrebbe ricevere, raccogliere le acque reflue delle navi “a me non le consegnano” dice. Ecco, è molto probabile che sversino nella rada il sewage, le acque luride con il Covid. Mentre invece ad Augusta guai a versare in mare. Ma chi è che c’ha ragione alla fine? Non s’è capito.
GIULIA PRESUTTI Se una nave arriva in porto ad Augusta e non vuole conferire le acque nere cosa succede?
ANTONIO CATINO - COMANDANTE DELLA CAPITANERIA DI PORTO DI AUGUSTA (SR) Non vuole, la volontà è relativa. Se non conferisce naturalmente ci sono le sanzioni nei confronti di chi non effettua la notifica e di chi non conferisce.
GIULIA PRESUTTI FUORI CAMPO La legge che obbliga a conferire le acque c’era già, ma l’ordinanza la rafforza. A scriverla nel 2018 è stato lui, il comandante Attilio Montalto.
ATTILIO MONTALTO – AUTORITA’ DI SISTEMA PORTUALE DI CATANIA E AUGUSTA (SR) Nel momento in cui si conferisce tutto agli impianti di raccolta si tutela l’ambiente marino che è lo scopo primario, peraltro.
GIULIA PRESUTTI FUORI CAMPO In rada nel porto ci sono le navi quarantena. Due traghetti GNV con a bordo 1200 migranti che insieme producono 245 metri cubi di acque nere a settimana, quasi mille metri cubi al mese. Alcuni dei passeggeri sono risultati positivi al Covid 19 e le navi sono blindate.
GIUSEPPE PASSANISI - COMANDANTE La pompa è giù in macchina, poi c’è una linea che sale fino a qua, al punto di imbarco.
GIULIA PRESUTTI FUORI CAMPO La nave pompa i reflui nei tubi, che li scaricano nelle cisterne della bettolina.
GIULIA PRESUTTI Mamma mia ragazzi che odore. Se queste acque vengono buttate in mare che succede?
GIUSEPPE PASSANISI - COMANDANTE Sono degli scarichi dei bagni a tutti gli effetti, vengono buttati in mare e fanno inquinamento. Poi, oltretutto loro li trattano pure, c’è una grossa percentuale di cloro là in mezzo.
GIULIA PRESUTTI E il cloro nell’acqua del mare?
GIUSEPPE PASSANISI - COMANDANTE In piccole quantità si può buttare, però questo è un piccolo paese, è una piccola città, è come se scarica tutto a mare e non si può più.
GIULIA PRESUTTI FUORI CAMPO E quindi si porta tutto all’inceneritore. Le acque vengono vaporizzate e la carica batterica ridotta a zero.
GIUSEPPINA DI GIACOMO - UFFICIO SANITÀ MARITTIMA DI AUGUSTA (SR) Anche una nave normale, una nave, una petroliera che viene al porto di Augusta di provenienza extra UE ha l’obbligo di incenerire tutti i rifiuti che produce a bordo.
GIULIA PRESUTTI C’è un rischio di infezione?
GIUSEPPINA DI GIACOMO - UFFICIO SANITÀ MARITTIMA DI AUGUSTA (SR) Potenziale. E a scopo cautelativo noi facciamo smaltire tutto e inceneriamo.
GIULIA PRESUTTI FUORI CAMPO L’inceneritore ad Augusta è proprio dentro al porto. Ma si tratta di un caso unico in tutta la Sicilia, che comunque conta solo due inceneritori. Anche Palermo ne ha uno, ma non viene coinvolto. Qui, in rada, le navi quarantena GNV hanno sostato per due mesi con 1300 migranti a bordo.
GESTORE RIFIUTI (CAMERA NASCOSTA) Le navi non hanno fatto nessuna richiesta per sbarcare le acque nere.
GIULIA PRESUTTI Quindi comunque a lei non lo consegnano il sewage.
GESTORE RIFIUTI (CAMERA NASCOSTA) No no.
GIULIA PRESUTTI FUORI CAMPO Se non le hanno consegnate, dove le hanno messe le acque nere con i liquami prodotti in due mesi? Quest’uomo gestisce i rifiuti nel porto di Palermo. Ha paura a parlare, teme le reazioni degli armatori.
GIULIA PRESUTTI Cioè lei ha una remora anche nei confronti della nave.
GESTORE RIFIUTI (CAMERA NASCOSTA) Io potrei avere un problema con il mio cliente che dice ma come, io ti do altri rifiuti
GIULIA PRESUTTI FUORI CAMPO La GNV consegna i rifiuti solidi. Ma quelli liquidi no. Le acque nere vengono buttate in mare.
ROBERTO ISIDORI - COMANDANTE CAPITANERIA DI PORTO DI PALERMO La normativa gli dà questa facoltà o in rada direttamente o anche all’interno delle acque portuali.
GIULIA PRESUTTI Cioè questa possibilità ha creato una situazione nella quale le navi preferiscono, perché non devono spendere soldi.
ROBERTO ISIDORI - COMANDANTE CAPITANERIA DI PORTO DI PALERMO Il vulnus sicuramente c’è. È ovvio però che si tratta di un problema diciamo di politica nazionale.
GIULIA PRESUTTI FUORI CAMPO La circolare del ministero dell’Ambiente vale anche per queste navi blindate a causa di passeggeri Covid positivi. La Capitaneria ha chiesto all’Ufficio Sanitario Marittimo se fossero necessarie misure di precauzione straordinaria.
ROBERTO ISIDORI - COMANDANTE CAPITANERIA DI PORTO DI PALERMO Ci ha risposto dicendo che non sono necessari ulteriori trattamenti delle acque che escono.
GIULIA PRESUTTI Cioè è l’autorità sanitaria che ha deciso?
ROBERTO ISIDORI - COMANDANTE CAPITANERIA DI PORTO DI PALERMO È l’autorità sanitaria. A me risulta che ad Ancona per esempio l’Usmaf locale ha chiesto un’ulteriore clorazione delle acque però poi non possono più essere scaricate in mare secondo un parere dato dalla locale Arpa.
GIULIA PRESUTTI Quindi ognuno fa un po’ come gli pare.
ROBERTO ISIDORI - COMANDANTE CAPITANERIA DI PORTO DI PALERMO Effettivamente al momento esiste una, come posso dire, una diversità di vedute.
GIULIA PRESUTTI Però i parametri da rispettare per buttare qualcosa in mare dovrebbero essere gli stessi.
ROBERTO ISIDORI - COMANDANTE CAPITANERIA DI PORTO DI PALERMO Ma io concordo con lei.
GIULIA PRESUTTI FUORI CAMPO I parametri chimici dovrebbero valere per tutti, ma tanto le analisi sulle acque - ce lo dice proprio il comandante - non vengono fatte.
GIULIA PRESUTTI Come mai diciamo avete preso questa decisione di far buttare le acque, pur se pretrattate, in mare?
CLAUDIO PULVIRENTI - DIRETTORE UFFICIO SANITÀ MARITTIMA - SICILIA Le ripeto, ogni nave ha una tipologia di sanificazione. Noi esigiamo che i sistemi funzionano.
GIULIA PRESUTTI Allora perché ad Augusta avete ritenuto che dovessero essere vaporizzate perché erano pericolose queste acque?
CLAUDIO PULVIRENTI - DIRETTORE UFFICIO SANITÀ MARITTIMA SICILIA Sono pericolose perché sono batteriologicamente pericolose, chiaramente
GIULIA PRESUTTI E allora perché a Palermo le fate buttare in mare? Come fa a sapere se non ha mai fatto un’analisi su queste acque di queste navi quarantena che sono acque pulite, che non ci sono batteri, che non c’è il Covid?
CLAUDIO PULVIRENTI - DIRETTORE UFFICIO SANITÀ MARITTIMA SICILIA Scusi ma qual è il problema? Perché voi fate questa domanda, perché?
GIULIA PRESUTTI Mi sembra una domanda di interesse pubblico, no? Cioè, io voglio capire come fate a essere certi…
CLAUDIO PULVIRENTI - DIRETTORE UFFICIO SANITÀ MARITTIMA SICILIA Ma non c’entra. Non c’è contaminazione di Covid a mare.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Coviddi non ce ne è a Palermo. Però invece la precauzione forse ci vorrebbe perché è lo stesso Istituto Superiore di Sanità a parlare della presenza del virus nelle feci anche di una possibilità, seppur rara, di contaminazione. Ecco, noi abbiamo sottoposto la questione al ministro dicendo guardate che qui scaricano e ogni capitaneria fa di testa propria, non c’è un controllo sulle acque scaricate. Il ministro ci ha risposto dicendo che nessun paese ha istituito zone di divieto di scarico delle acque trattate con gli impianti a bordo. Ecco, però tuttavia ha ascoltato il nostro appello e ha detto che alla luce proprio dell’emergenza epidemiologica ha dato mandato al Reparto ambiente marino della guardia costiera e all'Ispra di fare una istruttoria perché venga monitorata la situazione e anche la qualità delle acque che vengono scaricate. Ecco, questo grazie proprio alla sollecitazione che ha fatto una trasmissione del servizio pubblico come Report.
· Le tragedie naturali…evitabili.
Da nuovavenezia.gelocal.it il 9 gennaio 2020. Uno dei fenomeni consueti per questa stagione a Venezia sono le "seche dea Befana", cioè le basse maree eccezionali d'inizio gennaio. S'inizia con mezzo metro sotto il medio mare, ma si può arrivare ancora più in basso, con problemi per la navigazione nei canali interni. Certo che dopo l'alta marea eccezionale di due mesi fa queste immagini sono un bel contrasto
Guglielmo Allochis per biopianeta.it il 14 gennaio 2020. Sembra assurdo, solo pochi giorni fa continuavamo a segnalare il livello molto alto rispetto alle medie del periodo dell’acqua nella città lagunare di Venezia. Durante i primi giorni dell’anno la tendenza si è completamente invertita. Storicamente questo è un periodo di bassa marea, tantoché nel capoluogo veneto, quello di gennaio è soprannominato il periodo delle “secche della befana“. Nei mesi di novembre e dicembre si sono raggiunti livelli di acqua alta impressionanti. Per moltissimi giorni l’allerta è stata al livello massimo possibile, quello rosso, vista la situazione pericolosa. È impressionante come le cose possano cambiare nel giro di pochissimi giorni, ma la bassa pressione comporta anche questi “scherzi”.
Il paradosso del MOSE. Come detto, in questi giorni il livello dell’acqua è spaventosamente basso. Vi basterà vedere qualche foto dei canali per capire la portata di questo evento. Moltissime gondole sono arenate, in attesa che possano tornare a navigare. Durante la scorsa settimana il livello dell’acqua era a – 50 cm rispetto alla media, un numero per nulla da sottovalutare. Il paradosso è che in questi giorni è in svolgimento il summit sul MOSE, ovvero il sistema di controllo delle maree artificiale. L’infrastruttura non è mai stata realmente completata e messa in funzione, poiché i costi di realizzazione sono stati e saranno molto più alti del previsto. Dopo lo spavento occorso negli scorsi mesi però, è ancora più importante definire la conclusione del progetto per una messa in sicurezza del capoluogo veneto. In questo periodo inoltre si stanno svolgendo i preparativi per uno degli eventi più caratteristici dell’anno nella città di Venezia: il carnevale. I festeggiamenti avranno luogo dall’8 al 25 febbraio 2020.
Il Mose a Venezia pronto tra 6 mesi? Ecco come sono ridotte la paratie. Le Iene l'8 gennaio 2020. Schegge, sabbia e una paratoia piegata. Era questa l’immagine del Mose di Venezia che vi abbiamo mostrato nell’ultimo servizio di Giulio Golia. Tutto per un totale di 5 miliardi e mezzo per difendere dall’acqua alta Venezia e che potrebbe funzionare (in caso di emergenza) tra sei mesi. “Entro sei mesi tutte le paratoie del Mose saranno in grado di funzionare per le emergenze”. Lo ha annunciato ieri Luigi Brugnato, il sindaco di Venezia: in caso di pericolo il Mose potrebbe essere pronto a proteggere la laguna. L’annuncio è arrivato dopo l’incontro in Prefettura con tutti i rappresentanti delle autorità di salvaguardia della città e della Laguna. Ora il sindaco di Venezia sottolinea che a breve il commissario Elisabetta Spitz del Consorzio Venezia Nuova renderà noto “il cronoprogramma per il completamento dell'opera”. Rimane però un mistero: chi metterà in funzione e chi si occuperà della gestione di un’opera di cui si parla da decenni e che ci è già costata più di cinque miliardi di euro? Nella stessa riunione in Prefettura, alla presenza anche dei sindaci della gronda lagunare e dei rappresentanti della Capitaneria di Porto, è stato ricordato che resta aperta la partita complessiva sulla Legge speciale per Venezia e rimane la richiesta di un contributo di 150 milioni di euro l’anno per dieci anni per la manutenzione dell’opera. Con Giulio Golia vi abbiamo parlato nel servizio che potete vedere qui sopra delle condizioni dell’opera in occasione del disastro di novembre a Venezia, dove l’acqua alta ha raggiunto i 187 centimetri e causato la morte di due persone oltre a danni economici per miliardi di euro. Secondo le ultime stime il Mose sarebbe pronto al 94%. “Forse la parte strutturale, ma quella elettronica che comanda ed è più delicata? Nessuno lo sa”, ci ha detto il professore Giuseppe Gambolati. Inoltre nel servizio vi abbiamo mostrato le condizioni dell’opera sott’acqua: sul fondo appaiono le paratoie colorate di giallo. E lì sembra esserci sabbia ovunque e c’è addirittura un pezzo d’acciaio piegato, come se fosse danneggiato. Ci sono detriti, incrostazioni. C’è una paratoia sollevata dal fondo. Immagini forti, tanto che il Provveditorato delle Opere pubbliche del Triveneto ha chiesto di fare alcune verifiche al consorzio Venezia Nuova. Devono capire se le immagini che avete visto corrispondono allo stato attuale delle paratoie. Tanti sono i punti interrogativi, ma una cosa è certa: “L’opera resta a carico dello Stato e solo ad esso, oltre che i costi, spettano le decisioni”, ha detto il Sindaco. Chissà se davvero dopo tutto questo tempo e tutti questi soldi le paratie del Mose saranno finalmente pronte a vedere la luce del sole. A vedere le nostre immagini, sembra esserci motivo di dubitarne.
La sabbia blocca il Mose: a rischio i nuovi test sull'opera. Le Iene News il 14 gennaio 2020. Oggi al via nuovi test alle dighe mobili che dovranno proteggere Venezia: nelle ultime prove la sabbia si insinuava sotto le paratie e ne impediva la chiusura. Funzionerà mai un’opera che ci è già costata più di cinque miliardi di euro? Il nostro Giulio Golia è andato di persona a controllare l’avanzamento dei lavori. La sabbia rischia di impedire al Mose di funzionare: la ciclopica opera che dovrebbe proteggere Venezia dall’acqua alta ha un nuovo problema. Negli ultimi test di funzionamento si è visto che, dopo il sollevamento delle immense paratoie che dovrebbero arginare il mare, la sabbia si insinua sotto gli alloggiamenti vuoti e impedisce così alle dighe mobili di ritornare alla posizione di partenza. Non è ancora chiaro se si tratti di un problema isolato o se invece sarà un problema ricorrente: per questo oggi partiranno dei nuovi test per verificare il comportamento di altre paratoie che compongono il Mose. L’opera, secondo quanto detto dalle stesse autorità, dovrebbe diventare operativa nel 2022. Già da questo autunno, però, dovrebbe essere possibile attivare le dighe in caso di eventi eccezionali come quello che ha colpito Venezia l’anno scorso: due persone sono morte a causa dell’alta marea straordinaria e si sono registrati danni per miliardi di euro. Cifre esorbitanti insomma, come quelle che è già costato il Mose finora: quasi 5,5 miliardi di euro di fondi pubblici e lavori che vanno avanti da quasi vent’anni, intervallati da inchieste giudiziarie che hanno portato in carcere varie persone e rallentato il completamento dell’opera. La promessa è che adesso il Mose sia finalmente quasi pronto: oltre il 90% della struttura è completata. Ci sono però ancora tanti problemi da risolvere, e forse la promessa di un Mose sul punto di essere varato è ancora lontana dal realizzarsi. La più seria difficoltà è questa: una volta che l’opera sarà pronta, chi dovrà decidere e autorizzare la messa in funzione? Chi stabilirà i criteri per l’attivazione del Mose? Perché incredibilmente ancora non esiste una norma che stabilisca chi fa cosa. E sono passati quasi venti anni dall’inizio dei lavori. Noi de Le Iene ci stiamo occupando di questo scandalo nazionale: con Giulio Golia, che potete vedere qui sopra, vi abbiamo mostrato il disastro provocato dall’ultima acqua alta a Venezia e vi abbiamo parlato di alcuni dei problemi che affliggono il Mose, tra cui i ritardi nella costruzione. È vero che l’opera è stata completata oltre il 90%? “Forse la parte strutturale, ma quella elettronica che comanda ed è più delicata? Nessuno lo sa”, ci ha detto il professore Giuseppe Gambolati. Inoltre nel servizio vi abbiamo mostrato le condizioni di alcune paratoie sott’acqua, e l’immagine che ne è emersa non è proprio consolante: sabbia ovunque, un pezzo d’acciaio piegato come se fosse danneggiato, detriti e incrostazioni. C’è una paratoia sollevata dal fondo. Immagini forti, tanto che il Provveditorato delle Opere pubbliche del Triveneto ha chiesto di fare alcune verifiche al consorzio Venezia Nuova. Devono capire se le immagini che avete visto corrispondono allo stato attuale delle paratoie. Insomma, il Mose sarà davvero pronto in autunno? A pensare male si fa peccato, ma spesso si indovina…
Giuseppe Pietrobelli per il “Fatto quotidiano” il 30 gennaio 2020. "I commissari ci hanno detto che in cassa non c' è un euro. La cassa del Consorzio Venezia Nuova è vuota. Per questo abbiamo scritto una lettera al premier Giuseppe Conte. Il problema non è solo quello che lo Stato ci deve pagare, ma la prospettiva futura, visto che ci è stato chiesto di ultimare i lavori del Mose. E di farlo in fretta". Denis Rizzo, del Consorzio Kostruttiva, è uno dei sei firmatari dell' ultimatum per le promesse mancate riguardanti il sistema di paratoie mobili che dovrebbe salvare Venezia dall' acqua alta. "Lavorare va bene, ma non c' è un' impresa al mondo che lavorerebbe gratis. Soprattutto quando il governo assicura che i soldi ci sono". Una bella grana è piombata sui tavoli di chi ha in mano le sorti del Mose. Innanzitutto il commissario straordinario, Elisabetta Spitz, nominata dopo l' acqua alta eccezionale del 12 novembre scorso che raggiunse i 187 centimetri. Poi i tre amministratori straordinari del Consorzio, Giuseppe Fiengo, Francesco Ossola e Vincenzo Nunziata, il provveditore interregionale alle opere pubbliche Cinzia Zincone, il ministro Paola De Micheli e i suoi colleghi di governo. Le imprese chiedono di essere pagate, altrimenti a febbraio si fermeranno. In gioco ci sono un migliaio di posti di lavoro. Prima dello scandalo e degli arresti, nel 2014, tutto era controllato dal gruppo Mantovani, Condotte e Grandi Lavori Fincosit. Ma le inchieste e la crisi le hanno praticamente fatte sparire e così il Consorzio si è affidato a imprese minori, alcune delle quali facevano già parte del sistema. Sono state esse a far ripartire i cantieri, con l' affidamento diretto e una suddivisione dei compiti alle tre bocche di porto di Lido, Malamocco e Chioggia. Altre opere sono invece andate in gara con un iter diverso. La lettera, in rappresentanza di tutte le imprese, è firmata da Devis Rizzo per Kostruttiva, Massimo Paganelli per Vittadello, Renzo Rossi per Rossi Costruzioni, Giovanni Salmistrari che è anche presidente dell' Ance di Venezia, Giacomo Calzolari presidente di Clodia e Luigi Chiappini di Nuova Coedmar. "Il vero motivo è la prospettiva futura, dopo aver appreso pochi giorni fa, ufficialmente, che non ci sono denari - spiega Rizzo -. È vero che sono stanziati, ma con gli stanziamenti non si fa cassa e così le imprese non vengono pagate". Eppure a novembre sia Conte sia il ministro De Micheli hanno assicurato che i soldi ci sono. "È vero, il Cipe ha stanziato 413 milioni, poi altri 138 milioni erano nella disponibilità del Provveditorato. Ma siccome non sono stati spesi, sono ritornati a Roma. Nella lettera abbiamo spiegato che se ci fermiamo noi, si bloccano anche i test delle paratoie". Le imprese avevano concordato un primo cronoprogramma all' inizio dell' estate 2018. Durante il 2019 hanno firmato nuovi "Protocolli di affidamento" di "progettazione ed esecuzione di tutti i lavori a finire, compreso quelli relativi alla linea di manutenzione delle paratoie". In agosto altri protocolli hanno fissato gli affidamenti alle "Imprese (responsabili) di Bocca". Che ora scrivono: "L' assenza dei necessari finanziamenti, nonché la mancata certezza degli effettivi termini di liquidazione delle attività a oggi eseguite, si ripercuoterebbero in maniera assolutamente negativa sulla prosecuzione dei lavori, mettendo a repentaglio la continuità aziendale delle imprese coinvolte e, conseguentemente, il mantenimento degli attuali livelli occupazionali che a oggi consistono all' incirca in un migliaio di posti di lavoro". Senza una risposta concreta, "con la fine del prossimo mese di febbraio verranno sospese tutte le attività operative in essere, garantendo esclusivamente le condizioni di minimo presidio".
Giuseppe Pietrobelli per il “Fatto quotidiano” il 14 aprile 2020. Si può definire un colpo di spugna su debiti e contenziosi originati dai lavori del Mose e dalla cricca che gestì affari e tangenti in Laguna. Ma anche un tentativo di superare il Consorzio Venezia Nuova, a cui spetta la gestione della fase finale di realizzazione delle dighe mobili che dovrebbero salvare Venezia dalle acque alte, la struttura un tempo controllata dalle grandi imprese responsabili del malaffare, poi commissariata dal governo e dall' Autorità Anticorruzione. Ma può anche apparire come un primo passo per costruire la struttura statale che dovrà gestire il Mose, con un costo di manutenzione di decine di milioni di euro all' anno. Una torta appetitosa. Tutto questo, a seconda delle letture, è contenuto nella proposta del Settimo atto aggiuntivo, l' atto finale di una vicenda i1niziata trent' anni fa e poi con la posa nel 2003 della prima pietra per lavori che non si sono ancora conclusi. In ballo c' è la più grande delle incompiute, con un contenzioso infinito frutto di lavori fatti male, invecchiamento degli impianti, errori di progettazione e collusioni di varia natura. Qualche giorno fa, il provveditore alle opere pubbliche del Triveneto, Cinzia Zincone, ha scritto agli amministratori straordinari del Consorzio, Giuseppe Fiengo e Francesco Ossola, nonché al commissario straordinario per il Mose Elisabetta Spitz (nominata a novembre) per sottoporre la bozza del " VII Atto Aggiuntivo" della convenzione che dal 1991 regola i rapporti tra lo Stato e i Consorzio. Della bozza ne hanno già discusso il 3 marzo scorso. "Tale atto rappresenta l' unica possibilità di rimodulazione della somma di 5 miliardi e 493 milioni di euro indicata nel VI atto aggiuntivo - scrive il provveditore - per scorporare gli interventi non indispensabili alla messa in funzione delle paratoie e ottimizzarne la conclusione". L' atto avrebbe un "carattere transattivo che eliminerebbe ogni contenzioso, garantendo così il futuro dell' opera e dell' intera città". E questo è uno dei punti dolenti. In pratica è la proposta di uno "spezzatino". Il Consorzio si concentrerà sui lavori, per finire entro il 2021. Ma sarebbero messe da parte opre paesaggistiche, architettoniche, di manutenzione, gli studi e i piani di salvaguardia ambientale, le banche dati, la difesa dell' insula di San Marco (valore 30 milioni di euro). E il Consorzio rinuncerebbe a discutere l' assetto futuro della struttura che gestirà il Mose. In cambio lo Stato si farebbe carico di contenziosi, oneri e rinuncerebbe a chiedere penali e messe in mora per il ritardo biblico dei lavori. In particolare, "il Provveditorato si impegna ad assumere la spesa e a sostenere il costo dei ripristini e delle manutenzioni derivanti da danni e incuria, anche imputabili alle imprese consorziate". Il Consorzio a sua volta "si impegna a rinunciare a riserve e contenziosi anche per conto delle imprese consorziate". Inoltre il personale delle società collegate Thetis e Comar "potrà progressivamente essere assorbito dal Provveditorato". Sullo sfondo c' è però il mare magnun di cause incrociate e questioni aperte. Basti pensare che lo Stato ha chiesto danni per 76 milioni al Consorzio, da cui sono uscite di scena le tre grandi società Mantovani, Condotte e Fincosit, tutte in crisi. Rinuncerà alla pretesa? Alcune delle imprese hanno chiesto danni per 197 milioni di euro alla struttura degli amministratori straordinari, per essere state esautorate dai contratti. Ma nei programmi sono previste spese (69 milioni di euro) per riparare malfunzionamenti e ripristinare vecchi impianti, oltre a 36 milioni per un intervento alla porta della Conca di Malamocco danneggiata anni fa. Lì potrebbero esservi responsabilità delle vecchie imprese. Un pozzo senza fondo. Se ne farà carico lo Stato? Anche per questo rischio di colpo di spugna, l' avvocato Giuseppe Fiengo ha commentato: "Non faccio polemica con il Provveditorato, ma ho inviato all' Anac e al prefetto di Roma tutta la documentazione necessaria".
Giuseppe Pietrobelli per il “Fatto quotidiano” il 23 aprile 2020. In Laguna è scoppiata la guerra tra gli amministratori straordinari del Consorzio Venezia Nuova Giuseppe Fiengo e Francesco Ossola, il commissario Elisabetta Spitz nominata per sbloccare i cantieri del Mose e il Provveditore alle opere pubbliche del Triveneto, Cinzia Zincone. Se le stanno suonando a colpi di lettere, memorie, accuse e repliche, su costi delle consulenze, bilanci consuntivi, soldi che non ci sono e possibilità di concludere entro dicembre 2021 la colossale opera. L' ultimo capitolo è un documento che Fiengo e Ossola definiscono una "bozza di lavoro", ovvero "Scenari di produzione esercizio 2020 e a finire", il calcolo più attuale su disponibilità e risorse da impiegare. Il commissario Spitz lo ha subito definito un documento ufficiale proveniente dai due amministratori nominati dopo gli scandali, con il beneplacito dell' Anac. Intanto la Zincone risponde a colpi di mail alle accuse dei parlamentari 5S secondo cui la sua proposta di un Settimo Atto aggiuntivo diventerebbe un colpo di spugna sugli errori e le ruberie delle imprese (Mantovani, Condotte e Fincosit) che si spartirono lavori e distribuirono tangenti. La bozza di conto economico formalizza ciò che Il Fatto aveva rivelato ai tempi dell' acqua altissima di novembre. Ovvero, che il Mose alla fine costerà più di 6 miliardi di euro. La più grande delle incompiute. Finora sono stati spesi 5 miliardi e 93 milioni di euro, a fronte dei 5,493 miliardi da anni stati fissati dal governo come costo totale. Gli amministratori hanno (teoricamente) un credito di 413 milioni dai residui (soprattutto finanziari) dei contributi previsti dallo Stato negli ultimi 15 anni e che andrebbero destinati a lavori (286 milioni), studi, e accantonamento per rimborsi e imprevisti (76 milioni). A questi si aggiunge una previsione di altri 390 milioni per le spese di avviamento, di cui solo 100 stanziati. In una tabellina vengono sintetizzate le risorse che devono essere prodotte e contabilizzate per ultimare il Mose e avviarlo: 752 milioni nel 2020, 167 nel 2021, 109 nel 2022, 61 nel 2023 e 10 nel 2024. Il totale di quanto manca da spendere (a partire dai 5 miliardi 93 milioni già spesi) è quindi un miliardo 101 milioni (818 milioni per lavori). Il costo finale raggiunge così i 6 miliardi e 194 milioni, a cui però bisogna togliere - extra progetto - i 390 milioni dell' avviamento. Se i soldi arriveranno tutti, l' opera sarà ultimata e collaudata, altrimenti dovrebbero essere lasciate da parte alcune voci di spesa. Commento di Fiengo: "I calcoli sono per ora una bozza e comunque in linea con la previsione del Cipe del 2012".
Da ansa.it il 10 luglio 2020. "Siamo qui per un test, non per una passerella. Il governo vuole verificare l'andamento dei lavori". Così il presidente del Consiglio Giuseppe Conte a Venezia in occasione della cerimonia per il primo test completo delle dighe mobili del Mose. "E' giusto avere dubbi, è giusta la dialettica, ma dico a chi sta protestando, ai cittadini e intellettuali, concentriamoci sull'obiettivo di completare il Mose" ha aggiunto Conte. "Facciamo in modo che funzioni - ha proseguito -. Di fronte all'ultimo miglio la politica si assume le proprie responsabilità e decide che con un ulteriore sforzo finanziario si completa e si augura che funzioni". Spitz: 'Non è finito, ci vogliono altri 18 mesi' - "Il Mose non è finito, ci sono 18 mesi di lavori e test, bisognerà avviare il collaudo tecnico funzionale e poi alcuni anni di rodaggio per l'avviamento, per la progressiva ottimizzazione con procedure trasparenti e controllo rigoroso dei costi". Lo ha detto la commissaria alla conclusione del Mose di Venezia, Elisabetta Spitz, aprendo la cerimonia per il sollevamento delle dighe mobili. L'opera, ha proseguito "ha una storia travagliata e controversa, a noi è stato affidato il compito di portarla a termine. Una lunga pagina si chiude, Ringraziamo i veneziani per la lunga pazienza. Con le prove dei prossimi mesi sarà già possibile dal prossimo autunno il sollevamento in caso di maree altissime e salvare dall'acqua alta la Laguna". La Laguna di Venezia è stata chiusa completamente al mare, con l'effettuazione del primo test completo delle 78 dighe mobili del sistema Mose, per salvare la città dalle acque eccezionali. Alla prova sono presenti il presidente del consiglio Giuseppe Conte, i ministri Lucia Lamorgese, Paola De Micheli e Federico D'Incà, il presidente del Veneto Luca Zaia e il sindaco Luigi Brugnaro. Sull'isola artificiale che divide la Bocca di Porto del Lido è stata approntata una 'control room' da cui si possono seguire le operazioni di sollevamento e discesa delle paratoie nelle quattro 'bocche', da nord a sud: Lido-Treporti, Lido-San Nicolò, Malamocco e Chioggia. Per consentire l'intera procedura è prevista l'interdizione completa del traffico marittimo. Una decina le imbarcazioni che si sono radunate nello spazio acqueo davanti a Piazza San Marco per un'azione di protesta contro il Mose. Guardati a vista da imbarcazioni della polizia, i barchini hanno bandiere contro le grandi navi e contro quella che definiscono un'opera inutile.
FABIO POLETTI per la Stampa il 10 luglio 2020. Se ne parla dagli Anni Ottanta. I lavori sono iniziati nel 2003. Se tutto va bene sarà finito alla fine dell'anno prossimo. Ma oggi a Venezia, per la prima volta, va in scena il Mose al gran completo, con il test generale di innalzamento di tutte e 78 le paratoie che dovrebbero preservare la città dall'acqua alta. Ci sarà il premier Giuseppe Conte, il ministro delle Infrastrutture Paola De Micheli, il governatore Luca Zaia, il commissario al Mose Elisabetta Spitz e ovviamente il sindaco di Venezia Luigi Brugnaro.
Sindaco Brugnaro, a che punto siamo con l'opera?
«Intanto diciamo che si tratta di un'opera nazionale costruita dallo Stato. La città è sempre stata estromessa dalla costruzione. E questo potrebbe già spiegare alcuni problemi. Ma io non faccio polemiche. Sono un entusiasta del Mose. Certo davanti al comitatone ho chiesto una cabina di regia in Prefettura. I cittadini devono sapere. E noi siamo stanchi di essere presi in giro. Il progetto è in corso, i lavori sono proseguiti, ci sono ancora problemi per il vecchio meccanismo finanziario, ma si va avanti».
L'altro giorno, nella pre-prova, 6 delle 78 paratoie non sono scese regolarmente. Nessuna paura di un flop?
«Stiamo parlando di un cantiere. Siamo pratici, non c'è da vergognarsi. Stiamo parlando di un'opera gigantesca che non ha mai fatto nessuno al mondo. Un'opera frutto dell'ingegnosità italiana. Quello che è successo l'altro giorno è avvenuto a Punta Sabbioni, dove come dice il nome c'è molta sabbia che ha rallentato la discesa delle paratoie. Speriamo che abbiano sistemato i cassoni, ma si continua a lavorare. Troppo comodo fare polemiche. Io non le ho mai fatte».
Però vent' anni sono tanti.
«Chiaro che non è un tempo congruo. Sono i mali dell'Italia. Io preferisco encomiare chi sta facendo di tutto per finirlo. I veneziani sono arrabbiati. Ma non basta protestare. Per troppi anni la politica è stata gestita da filosofi e intellettuali, dimenticandosi della tecnica. I mari si stanno alzando. Facile dirlo ora. Il Mose è stato pensato tanti anni fa per questo».
A rallentare il progetto e a far lievitare i costi sono state anche le tangenti. Costruttori in galera, il suo predecessore Giorgio Orsoni ci ha rimesso pure la poltrona...
«È un fatto storico. Ci sarà una verità giudiziaria. Ma io oggi devo pensare soprattutto alle case dei veneziani che vanno sott' acqua. Anche senza dimenticare che non si possono più fare opere come questa, finanziate e gestite direttamente dal governo di Roma. Il modello Genova, quello della ricostruzione del ponte Morandi, è il modello giusto: finanziare interamente l'opera e commissario unico. Oggi è arrivato il momento del fare. La politica degli incapaci mi fa abbastanza schifo».
Sicuro che il Mose sarà la soluzione?
«Non ci sono alternative. All'inizio si parlava di ore per innalzare le paratoie. Oggi ci vogliono 20 minuti e altri 20 per stabilizzarle. È come una porta che si apre e si chiude. Può essere una soluzione anche per altri luoghi del mondo».
In piazza ci saranno anche i No Mose.
«No Mose, No Navi, No Vax, i soliti, un partito anarchico. Ma non si può sempre dire di no a tutto. Dobbiamo decidere se stare sempre nel mondo dei sogni o calarci nella realtà».
A proposito delle grandi navi in Laguna, come siamo messi?
«Siamo a niente. La proposta di fermarle a Marghera è sul tavolo da anni. Deve decidere il governo, ma ci sono state le elezioni e il Coronavirus. Era venuto qui anche l'allora ministro Danilo Toninelli. Dopo un giro in elicottero disse: "Ci penso io!". Siamo ancora qui».
Maltempo, Mose funziona: marea in laguna Venezia resta a 70 centimetri. (LaPresse il 3 ottobre 2020) - Il Mose ha funzionato, proteggendo Venezia dall'acqua alta. La conferma arriva dalla marea, che era prevista a 130 centimetri alle 12 e invece non è andata oltre i 70 centimetri in laguna.
Mose: acqua alta, ma Piazza San Marco all'asciutto. (ANSA il 3 ottobre 2020) Piazza San Marco è al'asciutto: l'entrata in funzione del Mose ha permesso al salotto di Venezia di evitare il fenomeno dell'acqua alta, che invece si è misurato in mare,. IIl Mose è chiuso, e dentro la Laguna di Venezia la marea non sta crescendo Lo comunica il Centro maree del Comune. Mentre alla Diga Sud del Lido si misuravano 119 centimetri, a Punta Salute, in città, il livello sul medio mare era di 69.
Il miracolo (in ritardo) di Venezia. Dopo vent'anni il Mose ferma l'acqua alta. Pubblicato sabato, 03 ottobre 2020 da Paolo Berizzi su La Repubblica.it. "Xe un miracoo, in ritardo ma xe un miracoo", dice il gondoliere Tommaso a Riva degli Schiavoni. Le raffiche di scirocco si sono attenuate, le onde stizzose e il cielo cupo dell'alba hanno lasciato il posto a un pallido sole che scalda piazza San Marco e arriva persino, in alcuni punti, a asciugare il pavimento. La prima notizia è questa: di acqua in piazza, dal mare, non ne arriva: né qui - nel salotto di Venezia che è anche il punto più basso della città - né nella Basilica del santo protettore. Di solito, si allaga. "La Basilica è asciutta, asciutta. E' la prima volta ed è un dato importantissimo", gioisce il primo procuratore di San Marco a Venezia, Carlo Alberto Tesserin. Il Mose e il "miracolo" a Venezia, dunque. Dopo vent'anni di lavori, polemiche, scandali, promesse mancate, il giorno fatidico è arrivato: il Mose ha finalmente - plasticamente - fermato l'acqua alta a Venezia. L'alta marea annunciata alla vigilia - 130 cm d'acqua, con punta massima a mezzogiorno - non è entrata in città. Merito delle 78 paratoie gialle di ferro che si sono alzate alle Bocche di porto, il canale di accesso a Venezia, e che hanno svolto la loro funzione: fare da diga all'onda di piena. Per la prima volta nella storia della città lagunare i suoi abitanti si sentono finalmente protetti dal loro nemico numero uno, l'acqua alta. "È una giornata di speranza, di attesa, con qualche riflessione anche sul fatto che questo risultato poteva essere ottenuto in tempi molto più brevi", aveva detto alla vigilia il Patriarca di Venezia Francesco Moraglia. Quando poi l'attesa si è sciolta e il risultato è arrivato, il realismo ha convinto tutti, o quasi. "Sono contento, certo. Ma anche cauto - ragiona Marco Proietto, storica famiglia di ristoratori -. Vediamo se e per quanto funzionerà il Mose". L'immagine plastica della svolta sono le passerelle posate nella notte come sempre quando il meteo dà l'allerta per il giorno dopo: sono lì, tra piazza San Marco e Rialto. Inutilizzate. La gente ci sale per fare i selfie. O per entrare nella Basilica ma solo perché le hanno predisposte e piazzate, e quindi sono ancora lì. L'ora X è scattata alle 6 del mattino, sei ore prima della punta di massima della marea. Bloccato il traffico nautico, il "filo" giallo ha iniziato a uscire dal pelo dell'acqua. In laguna tirava un forte vento e il mare si alzava. Un'ora e 17 minuti. E' stato il tempo necessario per fare uscire dall'acqua le paratoie del Mose. Due chiatte, agli estremi opposti del "muro". Le motovedette della Capitaneria di Porto e dei carabinieri a supervisionare le operazioni. "E' filato tutto liscio", dice il comandante provinciale dell'Arma, Mosè De Luchi. Rispetto ai 130 centimetri previsti, complice il forte vento di scirocco, alle 10 del mattino sono stati misurati alla Diga Sud del Lido 119 centimetri; a Punta Salute, dove si registra il 'medio mare', fra 70 e 75 centimetri, secondo il Centro maree del Comune. Là in fondo, la diga protegge la città. E in città si sorride. "Da una parte sono contento, molto. Dall'altra anche amareggiato - ragiona Marco Proietto, famiglia storica di ristoratori veneziani. In vent'anni c'è stato uno sperpero di soldi incredibile, e l'abbiamo pagato tutti". Cautela, anche. "Vediamo se continuerà a funzionare. Poi qualcuno accerterà se in questi anni la costruzione del Mose non ha anche fatto danni". Il riferimento è all'escalation di acque alte che secondo qualcuno sarebbero state causate - oltre che dai cambiamenti climatici - anche dalla stessa infrastruttura. Le correnti all'interno della laguna di Venezia sono aumentate di velocità. E l'acqua alta aumentata negli anni. "Per noi 1.35 mt , 20 anni fa, era un'enormità, adesso è la norma", dice Riccardo, uno degli otto steward del Comune incaricati di aiutare la gente a orientarsi in piazza San Marco. Undici mesi. Tanto è passato dall'acqua altissima che il 12 novembre 2019 arrivò alla seconda quota più elevata di sempre, 187 centimetri sul medio mare. I 135 cm previsti per oggi avrebbero significato il 52% della viabilità pedonale sotto'acqua. Ma così non è stato. Il primo utilizzo di fatto del Mose - dopo il collaudo di luglio (ma c'era bel tempo) - è andato a buon fine. E' accaduto 17 anni dopo l'avvio dei cantieri (la prima pietra fu posta nel 2003). La storia infinita dell'(ex) eterna incompiuta.
IL MOSE IN FUNZIONE. Mose, Venezia batte l’alta marea (ma ci sono voluti 40 anni). L’opera non è finita. E c’è l’incognita di condizioni meteo più dure. Gian Antonio Stella il 3 ottobre 2020 su Il Corriere della Sera. Evviva. Ieri mattina, quaranta anni dopo la decisione di puntare sulle dighe mobili, le paratie del Mose si sono infine sollevate. E tra il sollievo di sostenitori e scettici hanno lasciato Venezia all’asciutto. Prima di buttar via gli stivali ascellari, però, è meglio aspettare... Guai se qualcuno desse l’incubo per finito. E lo stesso sindaco neo-rieletto della città serenissima Luigi Brugnaro, che pure è di natura turbo-ottimista, accompagnava ieri all’esultanza («Siamo riusciti per la prima volta al mondo ad avere una barriera sottomarina che si alza e ferma il mare») la raccomandazione a non pensar di aver risolto ogni problema: «Prima il Mose va finito, poi c’è anche San Marco e altri luoghi bassi che hanno bisogno di lavori di rialzamento delle rive». Un lavoro lungo. Ieri, però, è andata bene davvero. Alla città più bella e delicata che, dopo mesi di sofferenza, non è stata allagata dalla prima acqua alta autunnale, evento che avrebbe riacceso polemiche roventi sui tempi biblici dell’opera, bacchettati dallo stesso Patriarca Francesco Moraglia («È una giornata di speranza, di attesa, con qualche riflessione anche sul fatto che questo risultato poteva essere ottenuto anche in tempi molto più brevi») e all’Italia intera. Che dopo aver retto all’urto del primo tsunami occidentale del Covid-19 e aver fatto un figurone per efficienza, generosità, talento architettonico e artistico sul nuovo ponte di Genova ha ora la possibilità di rispondere coi fatti alle irritanti ironie di troppi sopracciò stranieri. Il nostro è un Paese che, nei momenti critici, è spesso capace di dare il meglio. Semmai è proprio questo, il problema. Una formidabile cultura dell’emergenza (su certe cose siamo davvero i più bravi) sciaguratamente abbinata all’incapacità di reggere la sfida quotidiana della buona manutenzione. Che ci condanna ad esultare per la ricostruzione di un magnifico ponte mentre decenni di errori nella gestione della rete di torrenti, ruscelli e fiumi fanno crollare altri ponti, come è accaduto ieri, in altre parti del territorio. Ed è sempre così. Sempre.
L’opera. Dopo decenni di sonnolenza, lentezze, tangenti, commesse distribuite agli amici e agli amici degli amici fino all’esplosione dello scandalo del 2014, siamo sicuri che la costruzione del Mose sarebbe stata così accelerata se la disastrosa Aqua Granda del 12 novembre dell’anno scorso, con la marea salita a 187 centimetri sul cosiddetto «Zero mareografico» non avesse suonato campane a martello in tutto il mondo lanciando l’allarme su quanto domani (non un giorno lontano: domani o dopodomani o la settimana prossima) potrebbe accadere a Venezia? Certo, ieri è andata bene. Ma certe esultanze spropositate e in parte dettate dalla propaganda e dall’invito a fare «più grandi opere» (tema spinosissimo dati i troppi precedenti di grandi cantieri tenuti aperti per decenni con decine di perizie di variante e astronomici rincari) devono tenere conto di alcune cose importanti. Come il fatto che ieri il traffico di navi che quotidianamente solcano la laguna era inesistente. O che le previsioni in base alle quali ieri mattina era stato deciso di alzare le 78 paratoie parlavano di venti a 65 chilometri l’ora e di onde al largo alte 7 metri, contro i 33 chilometri l’ora (con raffiche a 41: molto meno di certe punte a 144 come ai primi d’ottobre del 2012) che sarebbero stati registrati a mezzogiorno e alle onde di un metro e 40 centimetri registrate alla torre del Cnr, 8 miglia da Chioggia. A farla corta: prima di dare per sicuro che il Mose funzioni perfettamente occorrerà aspettare, purtroppo, giornate più estreme. E magari l’automazione piena del «motore». Cioè della «Control room» che governerà le paratoie ma non è pronta (ancora sei mesi, pare) ed è stata sostituita anche ieri dai ponti radio del Genio militare. E sempre lì torniamo. Vedere quelle dighe mobili gialle sollevate e le persone che camminavano all’asciutto con le scarpe da ginnastica a Piazza San Marco ha fatto tirare un sospiro di sollievo. E così leggere della felicità di Carlo Alberto Tesserin, Primo Procuratore di San Marco: «La Basilica è asciutta, asciutta. È la prima volta ed è un dato importantissimo. A 90 centimetri di marea avremmo dovuto affrontare l’acqua che arriva dalla piazza, ma non è arrivata». La cautela però è d’obbligo. Tanto più che la manutenzione sarà costosissima e alcune paratie, come mostra una foto pubblicata ieri da un ambientalista veneziano, sono già oggi in condizioni pessime. E che occorra prudenza non ce lo ricorda solo la furia dell’Aqua Granda del 12 novembre 2019. Ma le previsioni degli scienziati, riassunte nel libro «Venezia e l’Acqua Alta», edito da Maredicarta, da quel Giampietro Zucchetta che ha appena ripreso e aggiornato, con dati nuovi, uno studio documentatissimo di quasi trent’anni fa. Dove si legge ad esempio che le «acque alte» sono passate da 30 in tutto l’‘800 a 164 nel ‘900 con un’accelerazione da paura in questo secolo: 146 fino al 2019. Con 3 scenari fino al 2100 elaborati su dati dell’Intergovernmental Panel on Climate Change. Nel peggiore ci sarebbe «un aumento del 430% delle maree considerate nello studio e conseguente enorme incremento della frequenza della necessità di interventi di chiusura del Mose». Il Lago di Venezia: una catastrofe per il porto, i cittadini, la laguna, l’ambiente. Un tema da affrontare non a fine secolo: ora. Certo che una cosa piccola ma utile si potrebbe fare in tempi brevi, scrive Zucchetta: spiegare a chi non è veneziano cosa sia il «misterioso “Zero mareografico” risalente addirittura alla fine dell’Ottocento e che se ne sta più o meno a un metro più sotto della quota della pavimentazione della città». L’uovo di Colombo, dice, sarebbe «semplicemente quello di cambiare il livello di riferimento delle misure di marea» riferendosi senza malintesi «a un “Livello medio” dei “masegni” della pavimentazione di Venezia». E si eviterebbe finalmente di spingere tanti turisti, spaventati da maree relativamente «normali» e da ieri arginabili dal Mose, ad annullare un viaggio con una motivazione un po’ surreale: «Com’è San Marco? Mia figlia non sa nuotare».
Giampiero Mughini per Dagospia il 3 ottobre 2020. Caro Dago, mi permetti qualcosa di dirti qualcosa di piccolo che mi sta a cuore? Vedo che il Mose a Venezia ha funzionato. Per la prima volta. L’acqua alta si è avventata a rovinare Venezia, e invece le paratie del Mose l’hanno stoppata. Era stata un’impresa azzardatissima e rischiosissima e costosissima in cui aveva creduto Gianni De Michelis, un leader politico socialista di cui nessuno più si ricorda o semmai si ricorda perché aveva lasciato una montagna di debiti all’Hotel Plaza di Roma. E non solo quello, era uno che amava la vita e gli piaceva far tardi nelle discoteche avvitato a fanciulle belle e disponibili. Io l’ho solo sfiorato, frequentato solo un tantino, non è che gli fossi particolarmente amico. Solo che glielo leggevi in fronte che era di una razza superiore, uno che da ministro se ne mangiava tre o quattro. Uno che sapeva quando un politico deve prendersi il rischio di decidere. Uno di quella generazione dell’Ugi che aveva mangiato pane e politica sin dai vent’anni - nei tardi anni Cinquanta - e oggi non ce n’è uno solo nella politica che gli stia a petto. (Ovviamente a parte Matteo Renzi, e so di poterlo scrivere qui anche se tu, Dago, non sei d’accordo.) Erano una famiglia i De Michelis. Cinque fratelli. L’altro gran talento era Cesare De Michelis, il fondatore della Marsilio. Quando Gianni De Michelis cadde in disgrazia, la Guardia di Finanza andava a frugare nella casa editrice un giorno sì e l’altro pure nell’idea si trovare chissà quali imbrogli. Pensavano che la casa editrice fosse come contaminata da quel fratello spavaldo e impudente. Anche Cesare l’ho conosciuto poco, io che oggi pubblico alcuni miei libri dalla Marsilio. Una volta che ero a Venezia e che avevo incontrato la mia amica Laura, amicissima di Cesare De Michelis e sua ospite a Venezia, lei mi portò mi potrò a casa di Cesare a fare un giro della sua immane biblioteca personale. Immane. Stanze e stanze piene di libri da terra al soffitto. Mi intendo di libri. So quello di cui sto dicendo. Mi intendo di persone. So di che pasta erano fatti Cesare e Gianni De Michelis. Una razza di cui ce n’è pochi nel mondo di oggi. Anzi pochissimi.
Domenico Cacopardo per “Italia Oggi” il 6 ottobre 2020. Il 3 ottobre 2020 è una data da scrivere nel calendario delle cose rilevanti accadute in Italia e, in particolare, a Venezia: in presenza di un' acqua alta, sono state azionate le 78 paratie del Mose e hanno funzionato. La seconda grande opera pubblica (l' altra è l' Alta velocità) che apre il millennio e che dà a Venezia una prospettiva nuova nella quale i danni ricorrenti delle altre maree e i vincoli da esse derivanti alla attività cittadine possono essere considerati al passato. Alcuni esprimono dubbi sull' efficienza delle paratie in future occasioni, perpetuando così il persistente negazionismo (dell' opera, della sua validità, del suo funzionamento) che prese a manifestarsi quando, dopo i primi passi compiuti dall' Unesco, le prime iniziative legislative (1973), la legge 29 novembre 1984, n. 798 (alla cui stesura, nella qualità di capo di gabinetto di Gianni De Michelis, veneziano, ministro delle partecipazioni statali, ho personalmente collaborato, come del resto alla definizione degli atti concessivi) dava il via alla creazione di un Consorzio (Venezia nuova) con l' incarico di progettare un sistema di dighe mobili idonee a bloccare o a laminare le maree eccezionali che affondavano Venezia. Un ritornello nazionale che si riproduce quando si pensa di intervenire in modo importante sul territorio e una parte della popolazione assume le vesti degli «umarell» che, non avendo nulla di meglio da fare, assistono al lavoro di chi lavora, sollevando obiezioni infondate. Altri deprecano il tempo trascorso (33 anni, non 40, vero Gian Antonio Stella?) dall' autunno del 1987, quando Gianni De Michelis, allora vicepresidente del consiglio dei ministri (Gianni Goria presidente), pose la prima pietra del futuro interminabile cantiere. Anche il patriarca di Venezia, Giovanni Moraglia, non rendendosi conto della rilevanza dell' evento, ha preferito lamentare il ritardo con cui l'opera è stata completata e messa in azione: Jacques II de Chabannes de La Palice avrebbe fatto di meglio. È facile ricordare a tutti che i tempi di realizzazione di un intervento così innovativo (per la Laguna il secondo dopo l' estromissione del Brenta, dovuta alla volontà di Napoleone e all' impegno dei suoi tecnici) sono necessariamente lunghi. Nel 1978 era in osservazione a Voltabarozzo nel Centro modelli del Magistrato alle Acque di Venezia - Università di Padova, Facoltà di ingegneria, il primo modello fisico della Laguna, con il quale i professori e ingegneri del Magistrato iniziarono a valutare gli effetti di eventuali paratoie. Già allora, il sig. Alberto Bertuzzi, da Cortina d' Ampezzo autonominatosi difensore civico degli italiani (che imperversò per qualche anno sui media) aveva protestato per l' inutile spreco di soldi spesi nel modello. Da presidente del Magistrato alle Acque lo invitai a visitare il centro: si presentò con un pullman pieno di giornalisti e di suoi amici. Alla fine, dovette ammettere di avere constatato de visu l' importanza e l' utilità dell' iniziativa. Il progetto del Mose, quindi, richiedeva tempo per la progettazione, per la realizzazione e per le asseverazioni necessarie, passo dopo passo. Altri ricordano (Carlo Nordio sul Messaggero) le ruberie riscontratesi intorno all' opera. Sul punto, voglio ricordare che, nella primavera del 1984, dopo una colazione esplorativa all' Hotel de la Ville di via Sistina a Roma nella quale si verificò la disponibilità dell' Italstat, nella persona di Ettore Bernabei, presidente e amministratore delegato, qualche giorno dopo, negli uffici del ministro dei lavori pubblici, si realizzò un incontro conclusivo tra il titolare del dicastero, Franco Nicolazzi, Gianni De Michelis, Ettore Bernabei e chi scrive (di altri non ricordo il nome): lo studio e la definizione di un disegno di legge da sottoporre al consiglio dei ministri era avviato. Il punto cruciale della riunione era rappresentato sì dall' idea di costituire un consorzio per Venezia, ma altresì dalla necessità che, di questo consorzio, la maggioranza fosse dello Stato mediante la sua finanziaria per le infrastrutture, appunto l' Italstat. Non so dire con certezza se finché l' Italstat con la sua Condotte controllò il Consorzio, la sua performance etica fosse stata esemplare, anche se, per il periodo in cui Luigi Zanda (in rappresentanza dell' Italstat) fu presidente del Consorzio Venezia nuova e io vicepresidente nessun mercimonio vi fu compiuto. C'erano molti problemi quotidiani, ma prevaleva la volontà di risolverli nell' interesse della città e dell' economicità dell' azione consortile. Unico sfrido che voglio ricordare, il caso Technital, la società veronese di ingegneria, socia del consorzio, tramite il gruppo cui apparteneva, incaricata della stesura della progettazione. L'impegno assunto dalla stessa, in occasione dell' affidamento del suo incarico era stato quello di aprire gli uffici di studio e di progettazione a Venezia, in modo da formare in loco un corpo di ingegneri specialisti in ingegneria lagunare. Nonostante gli sforzi di Zanda (e miei di rincalzo) non si riuscì a ottenere, finché rimanemmo in carica, l'adempimento dell' impegno originario. Fra l' altro gli uffici di progettazione non furono costituiti a Verona, ma a Milano. Oggi, però, si deve riconoscere che l' équipe dei progettisti capeggiata dall' ing. Alberto Scotti ha svolto un lavoro esemplare che rimarrà nella storia dell' idraulica lagunare, certificato dai migliori politecnici del mondo e, sabato, finalmente dalla prova del fuoco. Ed è stato fatale e logico che a Venezia e per Venezia si formassero tecnici di serie A, quelli responsabili della gestione dell' opera. Tornando alla questione ruberie, voglio ricordare che con la stagione delle privatizzazioni, l' Iri liquidò la sua quota nel Venezia nuova, cedendola a privati. Nessuno nel governo o in regione si pose il problema di governance di un consorzio nato per realizzare compiti dello Stato e nel quale lo Stato aveva la maggioranza, lasciato totalmente in mani private: insomma, la prevalenza di interessi personali, personalissimi non poteva non verificarsi, insieme all' uso che invalse (cose già note peraltro) tra i politici più influenti, di condizionare il flusso dei finanziamenti al pagamento di tangenti o a regalie varie. Ci sarebbe da aggiungere, come aggravante delle difficoltà, lo smantellamento del Magistrato alle acque, passato da alcune centinaia di dipendenti (molti tecnici, naturalmente) a poche decine, fino alla sua chiusura operata da Graziano Delrio - vero flagello di Stato-: il classico gettar via la vasca insieme all' acqua sporca. In ogni modo, 33 anni dopo la posa della prima pietra il Mose funziona. Se funzionerà ancora dipende da chi lo ha in gestione, ma si può ritenere, a dispetto dei pessimisti, che ora che c' è il Mose sarà utilizzato tutte le volte che si renderà necessario. Una constatazione che mi riempie di orgoglio per la parte (iniziale) che ho avuto nell' operazione, ma di amarezza per il silenzio totale della stampa sul ruolo di Gianni De Michelis. Ricordo che, da presidente del Magistrato alle acque avevo il potere di utilizzare o meno i 300 miliardi di lire raccolti dall' Unesco e custoditi in un conto di Tesoreria a disposizione, appunto, del Magistrato. Le pressioni del ministero per utilizzare i 300 miliardi in - per esempio -300 opere da 1 miliardo era costanti e pressanti. Un solo politico mi sostenne nel tener duro, impedendo la dissipazione di quei quattrini in lavori non strategici: Gianni De Michelis, di cui, dopo e in modo inatteso, sarei diventato capo di gabinetto. Il silenzio del Corriere soprattutto fa impressione. Quel Corriere che, un tempo, aveva avuto a Venezia uomini valorosi, fra i quali voglio menzionare Sergio Tazzer, non ha speso una parola sull' iniziatore del procedimento conclusosi sabato. Solo Il Sole 24 Ore l' ha ricordato en passant. A Gianni De Michelis va dedicato il Mose, al politico visionario che lo volle e che, sabato, non poté vederlo. E, in questa circostanza, va anche ricordato il fratello Cesare che non solo lo sostenne, ma fu a sua volta impegnato nella crescita della sua città. Per la cronaca, due riformisti. Socialisti.
Roberta Brunetti per ilgazzettino.it l'8 ottobre 2020. Tra squadre di uomini in campo e “bollette” da pagare, il costo di una movimentazione del sistema Mose si aggira sui 300 mila euro. Tanto è costato il test di sabato, quando per la prima volta le 78 paratoie hanno “salvato” Venezia da un’acqua alta importante. E poco meno costerà quella di domani, quando il sistema tornerà ad essere azionato, anche in assenza di un evento di marea, ma per raccogliere dati ed esperienze utili a mettere a punto il sistema. Un elemento da tenere conto - anche questo del costo dei sollevamenti - in questa fase in cui la città sta prendendo coscienza che la macchina funziona e chi deve decidere sta cercando di capire quando e come usarla. Per il momento la quota di marea in vista della quale sarà azionato il Mose resta 130 centimetri. Una scelta, però, che potrebbe cambiare. C’è già chi spinge per arrivare alla quota di salvaguardia prevista dal progetto di 110 centimetri. Di contro, ci sono le preoccupazioni del mondo del Porto che hanno toccato con mano, sabato, quando una chiusura incida (pesantemente) sull’attività dello scalo. Che sollevare le barriere costi parecchio, lo si è sempre saputo. Le prime prove dell’anno scorso, quando ad essere alzata era una sola schiera alla volta, si era detto fossero costate dai 30 ai 70 mila euro l’una. E la cifra ipotizzata a suo tempo per la chiusura completa del sistema, variava tra i 120 e 130mila euro. In realtà conti a consuntivo ancora non ce ne sono. E le stime prodotte di recente dal Consorzio Venezia Nuova sono di molto superiori: come “costi a singola movimentazione per barriera ed Arsenale” vengono calcolati 248mila euro per 2 ore di chiusura, che salgono a 323mila per 12 ore, scendono a 177mila se la prova viene interrotta. Facile immaginare che anche su questi conti ci sarà un confronto tra Provveditorato alle Opere pubbliche e concessionario. Comunque sono tante le voci che rientrano nel conto: dal personale impegnato, al costo dell’energia elettrica necessaria a movimentare l’opera. E la somma è alta. Solo gli operativi, anche quando le movimentazioni diventeranno di routine, non saranno mai meno di 70 - 80. Il cervello del sistema restano quei 30-40 tecnici, per lo più ingegneri, che azionano le paratoie dalle control room alle bocche di porto e ne verificano il funzionamento nei tunnel sott’acqua. Ma poi ci sono altre decine di persone che si devono occupare della sicurezza, che presidiano le aree delle bocche di porto, a terra e via acqua. Ci sono gli addetti dislocati all’Arsenale...Personale per lo più interno, ma anche esterno. Come le squadre di sommozzatori che devono essere a disposizione, per ogni evenienza, una per ogni bocca di porto. Un servizio che ha un costo. In generale più il test è lungo più i costi si alzano, considerando anche straordinari, festivi, turni notturni... Chiaro che il conto fa presto a salire. Intanto domani le paratoie torneranno ad alzarsi. Per le operazioni è stata concordata con la Capitaneria di Porto una finestra che va delle 10.30 e le 15.30. Inizialmente, visto il test di sabato con l’acqua alta, si era pensato di far coincidere la nuova prova con un’altra marea critica. Ma in mancanza di eventi prossimi, la scelta è stata quella di mantenere la prova del 9 ottobre. Test importante per mettere a punto la macchina, raccogliendo nuovi dati da studiare. Non avendo una marea da fermare, non è detto che i sollevamenti saranno contemporanei come sabato. Anzi, la bocca di porto di Malamocco potrebbe essere liberata più rapidamente per non intralciare troppo le attività portuali. I dati raccolti in queste prove serviranno anche a studiare gli effetti dei sollevamenti sulla laguna, nonché sui successivi eventi di marea. La strada verso un pieno controllo del Mose e del suo utilizzo è ancora lunga.
Le aziende del miracolo Mose uccise da inchieste e attacchi. Condotte, Mantovani e Grandi lavori oggi sarebbero nella top ten delle costruzioni. Invece sono sparite. Giuseppe Marino, Domenica 25/10/2020 il Giornale. «Non facevamo nulla. Le nostre giornate? Davanti al computer sui social o appoggiati alla scrivania per leggere un libro». È il racconto di una delle ultime impiegate della società di costruzioni Mantovani pubblicato dalla Nuova Venezia nel settembre 2019. Quattro anni prima il gruppo di costruzioni portato al successo da un imprenditore padovano, Romeo Chiarotto, fatturava 370 milioni e negli uffici del gruppo lavoravano in 116. Anche la Grandi Lavori Fincosit non è più la stessa: dai suoi bilanci si apprende che fino al 2016 fatturava in media 500 milioni. Già nel 2017 era scesa a 200 e avviava un concordato preventivo. Ma il caso più clamoroso è Condotte Spa. Gigante delle costruzioni nato nel 1880, che ha costruito di tutto, compreso il versante italiano del traforo del Monte Bianco. Sopravvissuta a Michele Sindona, alla rivoluzione iraniana che gli negò il pagamento per la realizzazione di un porto, all'acquisto da parte dell'Iri e alla privatizzazione, con l'ultimo manager, Duccio Astaldi, era arrivata a fatturare 1,3 miliardi e dare lavoro a 6.000 persone in una trentina di Paesi. Un simbolo del genio italiano nel mondo. Dal 2018 è in amministrazione straordinaria ed è sparita dai radar. Cos'hanno in comune queste tre aziende? Sono le ditte che hanno realizzato la parte più importante del Mose, la diga mobile che, riducendo gli scettici al silenzio, dall'inizio della stagione delle piogge evita a Venezia il calvario dell'acqua alta. Non funzionerà, costa troppo, è in ritardo, troppa manutenzione, ci mangiano sopra. Questo dicevano i critici, ritornello che ripetono ormai intorno a ogni grande opera pubblica, salvo poi piangere lacrime coccodrillesche quando Venezia affonda con danni per centinaia di milioni di euro. Un atteggiamento che ha praticamente paralizzato le grandi opere in Italia in una fase già difficile, prima per la grande crisi finanziaria del 2008 e poi per il Covid, con ripercussioni gravissime per l'economia. Perché i critici non si limitano a bofonchiare: pretendono che progetti già vagliati e decisi vengano riconsiderati, rivalutati, sottoposti a referendum, a improbabili analisi costi e benefici. Così i tempi e i costi si dilatano, creando occasioni di corruzione. Salvo poi lamentarsi del ritardo dei lavori e degli scandali. Nel 2014, quando scoppiò lo scandalo delle tangenti per il Mose, si scoprì che alcune aziende avevano pagato proprio per garantirsi i finanziamenti che continuavano ad arrivare con il contagocce nonostante tutto fosse già deciso. Ci sono state condanne e assoluzioni e alcuni processi sono ancora in corso. Ma quali che siano le colpe, è incredibile l'effetto su aziende che erano un patrimonio del Paese, capaci di realizzare un'opera visionaria la cui entrata in funzione è stata raccontata dal New York Times. Le inchieste hanno decapitato le imprese. Al momento solo alcuni dei manager della Mantovani hanno subito condanne o le hanno patteggiate. Ma non siamo stati capaci di separare il loro destino da quello di società che erano tra le prime dieci della classifica «Top 50 delle costruzioni italiane». Oggi la Mantovani è evaporata dopo un'avventurosa cessione. La Grandi lavori fincosit è ormai una piccola azienda. Condotte Spa sarebbe ancora oggi la terza nella classifica, invece è finita nel tunnel spesso letale del commissariamento. Avete sentito qualcuno ammettere di essersi sbagliato?
Da repubblica.it il 9 dicembre 2020. Il maltempo alza d'improvviso la marea a Venezia. Il Mose non viene alzato. E la città finisce sott'acqua. Se fino a questa mattina l'acqua alta aveva toccato una massima di 122 centimetri, con parte della città allagata, subito dopo l'ora di pranzo il Centro maree del Comune ha rivisto le previsioni al rialzo annunciando un massimo di 145 cm alle 16.40 di oggi a causa del rinforzo anomalo del vento di bora. E 10 cm in più per la città di Chioggia. All'ora indicata il picco di marea ha raggiunto i 138 centimetri a Punta della Salute. "La situazione è terribile, siamo sotto l'acqua in maniera drammatica" dice Carlo Alberto Tesserin, procuratore della Basilica di San Marco. "Il nartece è completamente allagato - spiega, raccontando i danni nell'edificio sacro - e se il livello sale ancora andranno sotto anche le cappelle interne". I mosaici sono come sempre completamente coperti dall'acqua. Proprio in virtù delle precedenti previsioni climatiche, il sistema Mose - la cui entrata in funzione avviene a 130 centimetri - non è stato attivato, dopo due giorni in cui invece le paratoie si erano alzate e, con oltre 40 ore di attività consecutive, avevano scongiurato due maree. Tanto che il sindaco Luigi Brugnaro fino a poche ore fa esultava su Twitter: "A Venezia ancora una volta abbiamo fermato il mare". Adesso invece è polemica: "Per attivare il Mose serve una previsione più ampia, ora bisognerà rivedere anche le regole della cabina di regia" dice il primo cittadino. E ora si corre ai ripari: "Il Mose è in preallarme, stanno arrivando gli operai" annuncia Brugnaro sulla base delle previsioni meteo, che danno per domani mattina una massima di marea di 120 centimetri. "Speriamo che si scarichi in mare l'acqua della laguna - aggiunge - per poter alzare il Mose verso mezzanotte e mezzo o l'una". Intanto le critiche a quel sistema voluto, realizzato, lungamente atteso e infine entrato in funzione, non scemano: "Bisogna modificare il limite per far alzare il Mose - aggiunge Tesserin - ma anche a 1,15 non si risolve il problema per la Basilica: bisogna realizzare l'innalzamento di tutta piazza San Marco e deve essere approvato in tempi brevi il nostro progetto per la Barriera trasparente e temporanea di fronte alla basilica che abbiamo pronto da tempo, e prima che sia troppo tardi". "E' drammatico e vergognoso non considerare un'acqua alta eccezionale di questo tipo - accusa Claudio Vernier, responsabile del Bar Gelateria al Todaro e Presidente dell'Associazione Piazza San Marco - La previsione di almeno 125 centimetri di massima c'era già da ieri, quindi non alzare le paratoie è stata una decisione quantomeno opinabile. Avere il Mose e non usarlo è assurdo perché 5 centimetri di acqua a Venezia cambiano tutto. E se l'acqua arriva a 145 centimetri solo io avrò almeno 15mila euro di danni". "Perché oggi il Mose non è stato azionato? - chiede anche Cinzia Zincone, a capo del Provveditorato alle opere pubbliche del Nordest - Siamo in una fase sperimentale, nella quale si alza quando c'è una previsione di 130 centimetri: l'allerta viene data 48 ore prima, per permettere non solo di emettere le ordinanze per la navigazione ma anche per convocare le squadre operative". "Nonostante a Venezia si parli di "strucare el boton" (pigiare il bottone), in realtà l'operazione nasce con molto anticipo e va preparata - sottolinea -. Fino a questa mattina le previsioni non arrivavano a 130, e quando sono cambiate si era fuori tempo massimo. Si prevede che possano esserci margini di errore, ma non così ravvicinato". Zincone afferma di augurarsi due cose: "La prima è che il vento, cioè l'elemento più imponderabile e fantasioso del mondo meteoreologico, spinga le acque fuori della laguna e faccia quello che oggi noi non siamo stati in grado di fare -conclude -. La seconda è che si riesca a fare tesoro anche di questa esperienza per aggiornare le procedure in modo da adattarle anche a situazioni come questa, di improvviso peggioramento". A tarda sera, dopo le polemiche, il Centro maree del Comune ha confermato che nella notte verrà attivato il Mose pur davanti alle previsioni per domattina che ridimensionano la marea a 125 centimetri. Le condizioni favorevoli al fenomeno dell'acqua alta resteranno per tutta la settimana.
Da ilgazzettino.it l'8 dicembre 2020. Stavolta il Mose non si alzerà. E Venezia e Chioggia rischiano di dover affrontare un'acqua alta davvero difficile. Le condizioni meteo sono peggiorate in mattinata, tanto che le previsioni di marea sono state aggiornate dal Centro previsioni e segnalazione maree del Comune di Venezia attorno alle 12, con il picco portato da 125 centimetri e 135, sempre per le 15.10. In città le sirene sono così tornate a suonare, mentre il sito del Comune avverte che "il sistema Mose non è attivo". Il centro storico è in buona parte sott'acqua. Ma alle 15.30, con una marea che ha già superato i 130 centimetri a Venezia, le sirene tornano a suonare per un ulteriore peggioramento. Stavolta la previsione è di 145 centimetri alle 16.45 a causa del rinforzo del vento anomalo. La conferma arriva anche dal sindaco Luigi Brugnaro. In questa fase di completamento dell'opera, infatti, il sollevamento delle paratoie avviene solo quando le previsioni danno una marea superiore ai 130 centimetri. Eventualità che fino a questa mattina era stata esclusa. E per azionare il Mose servono ore di anticipo. Ora se la marea arriverà a 135 centimetri, Venezia si ritroverà per metà allagata. Ma peggio potrebbe andare a Chioggia. Sempre a causa del vento qui le previsioni ipotizzano una marea anche superiore, fino a 140 centimetri. Il centro sarebbe protetto dal cosiddetto baby Mose, che però garantisce solo fino a 130 centimetri.
Perchè il Mose non si è alzato: parla Cinzia Zincone. «Perché oggi il Mose non è stato azionato? Siamo in una fase sperimentale, nella quale si alza quando c'è una previsione di 130 centimetri: l'allerta viene data 48 ore prima, per permettere non solo di emettere le ordinanze per la navigazione ma anche per convocare le squadre operative». Lo spiega Cinzia Zincone, a capo del Provveditorato alle opere pubbliche del Nordest. «Infatti, nonostante a Venezia si parli di “strucare el boton” (pigiare il bottone), in realtà l'operazione nasce con molto anticipo e va preparata sottolinea -. Fino a questa mattina le previsioni non arrivavano a 130, e quando sono cambiate si era fuori tempo massimo. Si prevede che possano esserci margini di errore, ma non così ravvicinato». Zincone afferma di augurarsi due cose: «la prima è che il vento, cioè l'elemento più imponderabile e fantasioso del mondo meteoreologico, spinga le acque fuori della laguna e faccia quello che oggi noi non siamo stati in grado di fare -conclude -. La seconda è che si riesca a fare tesoro anche di questa esperienza per aggiornare le procedure in modo da adattarle anche a situazioni come questa, di improvviso peggioramento».
· Chernobyl, verità e bugie sul disastro nucleare che ha cambiato il mondo.
Chernobyl, verità e bugie sul disastro nucleare che ha cambiato il mondo. In onda su La7 l'ultimo episodio di Chernobyl, la serie tv che ricostruisce - tra realtà e finzione - il disastro nucleare che ha sconvolto il mondo. Carlo Lanna, Giovedì 02/07/2020 su Il Giornale. Il disastro alla centrale nucleare di Chernobyl è una pagina di storia contemporanea molto drammatica che ha lasciato un’impronta quasi indelebile nella nostra società. Sono trascorsi ben 34 anni da quella notte del 26 aprile del 1986 quando, all’una e ventitre del mattino, è esploso il reattore numero 4 della centrale V.I. Lenin, situata in Ucraina a 3 chilometri dalla città di Prypjat (soprannominata la città dei fiori) e a 18 dalla zona di Chernobyl. Una nube di materiale radioattivo è fuoriuscita dal rettore compromesso e, come un manto oscuro, si è posata sulle aree intorno alla centrale, contaminando pesantemente la zona. Nonostante il coraggioso intervento dei vigili del fuoco, non è stato comunque possibile contenere il disastro. La nuvola si è sospinta fino in Europa Centrale, arrivando in Finlandia, Scandinavia, Francia, Germania e Italia, provocando un allarme generale che, di fatto, ha sconvolto il mondo intero. Ancora oggi non sono chiare le cause di quanto accaduto dato che, nei momenti successivi al disastro, le autorità hanno cercato di minimizzare. Ad oggi si crede che l’esplosione sia avvenuta per gravi errori da parte del personale tecnico e per alcuni difetti funzionali al progetto del reattore e dell’impianto. E così, proprio per ricordare (e per non dimenticare) quanto è successo nell’aprile di 34 anni fa, è nata l’idea di raccontare sotto forma di una miniserie tv, in bilico tra fiction e documentario, il disastro che ha colpito la grande madre Russia.
Cronaca di una sconvolgente tragedia. Con il titolo di "Chernobyl", il 26 luglio del 2017 è nato ufficialmente il progetto che è stato realizzato da HBO e Sky, in una sinergia tra America e Inghilterra. Cinque episodi che sono stati trasmessi a maggio del 2019 negli Stati Uniti, per arrivare poi in Italia a giugno dello scorso anno su Sky Atlantic. Ora, è il canale di La7 che, in prima visione free, ha trasmesso gli episodi della miniserie tv, con un doppio appuntamento ogni giovedì sera. E oggi, 2 luglio 2020, viene trasmessa l’ultima puntata di questa "saga" tragica e dal triste epilogo. Forte e potente come un pugno nello stomaco, Chernobyl non ha nessuna intenzione di edulcorare i dettagli della vicenda ormai noti. Anzi, con uno sguardo deciso e pungente, la miniserie racconta tutti i momenti più salienti, illustrando la storia da diversi punti di vista. C’è spazio per la gente comune e gli abitanti della cittadina di Prypjat, focolaio principale della contaminazione, ma trova spazio anche la classe politica dell’epoca e gli scienziati che, nonostante l’ostruzionismo, cercano di salvaguardare la popolazione. La serie ricostruisce molto fedelmente quando accaduto grazie alle testimonianza dei sopravvissuti, e con l’ausilio di ben due saggi critici che sono stati pubblicati sull’argomento. Come "Preghiera per Chernobyl", scritto dal Premio Nobel Sveltana Alexievich, e "Chernobyl: 01:23e40" di Andrew Leatherbarrow.
Tra fiction e realtà: quanto è accurata la serie tv? E grazie a una vasta gamma di testimonianze e a una letteratura di genere che ha rivelato particolari sepolti dalla burocrazia e dal regime sovietico, la serie tv ha potuto mostrare una vicenda molto vicina alla realtà dei fatti. E dove la narrazione ha intrapreso svolte diverse, il creatore della miniserie in alcune interviste ha affermato che "le scelte distorte non hanno influito sulla storicità. Il pubblico doveva capire quando fosse apocalittico lo scenario che aveva di fronte". Sulla questione è stato pubblicato un articolo di Business Insider che ha rivelato cosa c’è di vero e di falso dietro la realizzazione della miniserie. Ad esempio, è vero che furono uccisi diversi animali tra le campagne circostanti. Infatti 36 ore dopo l’esplosione, ai residenti fu chiesto di lasciare le loro abitazioni e a nessuno fu concesso di portare i propri animali domestici. Si riteneva che potessero essere veicoli per il diffondersi delle radiazioni. É falsa una scena del primo episodio, in cui si vede precipare un elicottero nelle vicinanze della centrale. Questo avvenimento non è mai accaduto. O meglio, l’evento si è verificato solo tre settimane dopo lo scoppio del rettore e non nei primi tragici minuti dall'espolsione. I personaggi della serie sono tutti realmente esistiti, come quello interpretato da Jared Harris (visto anche in Mad Men). Lui ha interpretato il vicedirettore dell’Istituto dell’Energia Atomica, l’unico che combatte con le unghie e con i denti per cercare di fermare la nube radioattiva. E ha registrato i suoi pensieri su una musicassetta, anche se sul contenuto gli sceneggiatori si sono presi molte libertà. Nel primo episodio, inoltre, gli scienziati ammettono che l’incendio del reattore ha provocato il doppio delle radiazioni lanciate dalla bomba di Hiroshima, ma in realtà l'affermazione è in parte un falso. Quello di Chernobyl e di Hiroshima sono due eventi catastrofici molto diversi ed è impossibile quantificare il danno reale. Si ritiene comunque che, nel caso di Chernobyl, il materiale radiottivo diffuso nell'atmosfera ha colpito solo un’area molto vasta e per un lungo periodo di tempo. La bomba lanciata nel '45, invece, ha avuto un raggio di azione molto più contenuto ma i danni sono stati comunque ingenti. Infine I sovietici nella realtà tentarono di usare dei rudimentali robot per pulire il sito dai detriti, nella serie tv dei giovani volontari dell'esercito si sono immolati per la causa. Tutti finiranno per ammalrsi a causa delle radiazioni.
Un successo senza precedenti. Premiata con episodi che hanno sfiorato i 12 milioni di telespettatori, Chernobyl in America è stata la serie più vista in un canale via cavo dal 2001. Anche in Italia si è difesa bene, racimolando quasi un milione di telespettatori durante la prima trasmissione su Sky Atlantic. Senza contare il plauso da parte della critica, che ha premiato la produzione con il 96% di recensioni positive. Ha ottenuto ben 10 Emmy Awards, 2 Golden Globes, 1 Grammy e oltre 46 candidature. Senza considerare il fatto che il The Guardian ha inserito lo show tra le serie tv più belle del 2019.
E in Russia? Trasmessa anche nel cuore del territorio sovietico, ancora pesantemente colpito dalla catastrofe, Chernobyl è stata accolta positivamente. Il ministro della cultura russo ha elogiato la regia e la sceneggiatura che ha "avuto grande rispetto della gente comune". È stata però bersagliata da alcuni media, affermando che l’operato delle forze dell’ordine sia stato più volte sminuito.
Chernobyl all’epoca dei social network. Non solo elogi, dunque, ma anche critiche. Nel corso del 2019 la serie ha portato ad un aumento del turismo nelle zone colpite dal disastro, in luoghi che ancora oggi sono interdetti perché radioattivi. Non solo turisti e curiosi, ma più che altro le zone limitrofe all’esplosione sono state prese d’assalto da aspiranti influencer, che hanno usato le città colpite di Chernobyl e Pripyat come sfondo per i loro scatti.
· Balcani inquinati.
Balcani inquinati. Alessandro Lutman su Inside Over il 7 febbraio 2020. Disoccupazione, spopolamento, malcontento e ferite mai saturate. Sono questi alcuni dei problemi che uniscono pressoché tutti gli Stati della regione balcanica. In aggiunta, negli ultimi anni è emerso anche il tema dell’inquinamento ambientale, argomento sentito ben prima della comparsa di Greta Thunberg sulla scena pubblica. Nei Balcani, infatti, secondo l’ultimo rapporto delle Nazioni Unite per l’Ambiente sono circa 5mila le persone che ogni anno muoiono per cause riconducibili all’inquinamento, principalmente quello aereo. La situazione più grave si riscontra in Serbia dove, stando alla Global Alliance for Health and Pollution, si stimano 175 morti premature ogni 100mila abitanti. Una stima che pone il Paese al livello dell’India. A seguire la vicina Bosnia-Erzegovina (125 su 100mila abitanti). Ed è proprio in questi due Stati che si trovano le centrali più inquinanti per quanto riguarda la anidride solforosa (SO2), mentre il triste primato riguardate la PM10 è della centrale Kosova A, situata nella cittadina di Obilic, a qualche chilometro dalla capitale Pristina. Almeno stando a un’analisi condotta nel 2016 dal network ceco Bankwatch e pubblicata nel dicembre del 2019. Oltre al sistema industriale ed energetico, gravi responsabilità sono da attribuire anche al riscaldamento domestico e al traffico urbano, quest’ultimo aggravato dal fatto che molto spesso i veicoli utilizzati hanno più di dieci anni. Ma se il tema ambientale può non interessare, è bene sapere che le conseguenze dell’inquinamento si ripercuotono anche sui bilanci degli Stati, con un impatto spesso abbastanza rilevante. Sempre secondo la organizzazione Bankwatch, per esempio, in Croazia una percentuale tra l’8% e il 14% dell’intera spesa sanitaria è riconducibile all’inquinamento prodotto dalle centrali a carbone. Non solo, anche lo stesso sistema di produzione ne subisce gli effetti: si stimano più di 355mila giorni di lavoro persi. Un numero più comprensibile se si tiene di quello riguardante l’Unione europea che si situa intorno ai 612mila giorni. In ogni caso sulla questione i governi nazionali saranno chiamati a intervenire se effettivamente vorranno entrare nell’Unione europea, soprattutto tenendo conto che il Segretario Regionale del Consiglio di Cooperazione Regionale, Majlinda Bregu, ha posto l’attenzione sul considerare requisito fondamentale il tema ambientale per il processo di integrazione europeo. E se oggi non lo è ancora, questo potrebbe cambiare in futuro.
Nella Serbia che protesta per l’ambiente e la salute. Dalla capitale ai centri abitati più periferici ma vicini a impianti inquinanti, la popolazione serba è scesa più volte in piazza per manifestare il proprio malcontento nei confronti del governo e per rivendicare un diritto basilare: quello alla salute. A Bor, importante centro minerario e industriale nel nord-est della Serbia, sono state organizzate decine di manifestazioni per protestare contro la nuova compagnia cinese, la Zijing Mining, che ha rilevato il complesso minerario e di fusione presente a qualche chilometro di distanza. Secondo gli organizzatori, infatti, dal 2018, ovvero da quanto è avvenuto il passaggio di proprietà, la situazione si è aggravata, portando a una presenza di sostanze pericolose nell’aria anche duecento volte più alta rispetto agli anni precedenti. Accusa che la società cinese ha contestato in un comunicato stampa facendo sapere che la situazione era già grave prima dell’arrivo dei nuovi proprietari. Possibile, ciò che invece è certo è che il problema ambientale in Serbia è un dato di fatto ed è dimostrato anche dalle numerose manifestazioni organizzate a Belgrado di fronte agli edifici governativi, come accaduto il 17 gennaio. Critiche che sono state recepite dal primo ministro Brnabic e alle quali ha risposto che “la situazione non è peggiore rispetto gli anni precedenti” ma che sia percepita maggiormente “a causa della mancanza di neve e del vento Kosova”.
Bosnia-Erzegovina: i casi di Sarajevo e Tuzla. Non capita raramente di svegliarsi a Sarajevo e trovare la città coperta da una densa foschia causata dall’inquinamento che mette a repentaglio la salute di chi vi abita. La situazione, poi, si aggrava nei mesi invernali, quando la combinazione del fattore meteorologico, del riscaldamento domestico e del traffico urbano crea una miscela esplosiva: a tal punto che recentemente il governo bosniaco è stato costretto a prendere misure per ridurre le emissioni. Misure che, tuttavia, non pongono in discussione l’intero sistema industriale. Si tratta infatti dello stop alla circolazione delle automobili Euro 2 e del suggerimento a indossare le maschere di protezione, nonché di limitare il tempo all’aria aperta. I provvedimenti non si possono considerare sufficienti. E a offrire un’idea della posizione del governo è il caso della centrale a carbone di Tuzla. Questa è stata oggetto di un finanziamento per il suo ampliamento da parte di una banca di sviluppo cinese, dimostrando che gli interessi economici precedono quelli salutari; benché comunque il settore in questione sta vivendo un momento di difficoltà, tanto che alcuni analisti ritengono che la chiusura dell’impianto sarà inevitabile. Al tempo stesso bisogna ricordare che le analisi condotte da Bankwatch mostrano come a Tuzla il limite UE del Pm10 (e quello raccomandato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità) viene superato costantemente.
Kosovo e la questione di Obiliq. Il governo a trazione Vetevendosje dovrà inevitabilmente fare i conti con la questione dell’inquinamento ambientale che, per quanto il Kosovo non possieda un settore industriale paragonabile agli altri Stati balcanici, è una delle maggiori cause di morte nel Paese, come documentato nel reportage di Arian Lumezi pubblicato sulla testata Kosovo 2.0. Ma se tale “piaga” è condivisa con i propri vicini, non lo si può dire altrettanto per quanto riguarda la conoscenza che ne ha la società civile, sebbene alcuni movimenti verdi abbiano preso forma negli ultimi anni in particolare grazie all’attivismo dei giovani. Anche qui la fonte dell’inquinamento è riconducibile alle due centrali, Kosova A e Kosova B, situate nella città di Obiliq, distante qualche chilometro dalla capitale Pristina e che a causa del loro status – si tratta di impianti costruiti rispettivamente nel 1960 e nel 1980 – non solo inquinano in maniera considerevole ma non riescono a fare fronte alla richiesta energetica nazionale. Questa è, tra l’altro una delle ragioni per cui il precedente governo ha preso in considerazione il progetto di costruzione di una terza centrale (Kosova e Re), progetto che la Banca Mondiale ha deciso di non finanziare perché preoccupata per l’impatto ambientale. A ciò si aggiungono le emissioni dei veicoli la cui età media risulta essere sopra i 18 anni, come riportato da un rapporto scritto dal Gap Institute. In Kosovo, infatti, molte delle automobili circolanti sono di seconda mano e notevolmente inquinanti. Si parla di circa 1.7 milioni di CO2 emesse all’anno solamente dai mezzi di trasporto.
Nord Macedonia: Skopje capitale inquinata. Tra le capitali balcaniche Skopje “vanta” il triste primato di peggiore per qualità dell’aria nella regione. Mediamente il World Air Quality Index (Indice mondiale della qualità dell’aria) della società svizzera AirVisual vede la capitale nordmacedone tra le dieci città più inquinate assieme a Calcutta (India), Lagore (Pakistan) e Kabul (Pakistan). La gravità è tale che, per esempio, secondo la Banca Mondiale l’impatto produttivo dell’inquinamento aereo è dello 0.13% del Pil nazionale. Anche qui non sono mancate le manifestazioni di piazza, che in questo caso hanno coinvolto la fascia più giovane della popolazione. Come avvenuto il 19 dicembre 2019, quando centinaia di ragazzi – e non solo – hanno manifestato di fronte all’edificio principale del governo al grido di “We want to breathe” (Noi vogliamo respirare) e “No air no peace” (No aria no pace). La risposta del governo è giunta tardiva e sicuramente non può essere considerata sufficientemente adeguata. Ma la ragione può risiedere anche nell’importante appuntamento elettorale: le elezioni parlamentari anticipate al 12 aprile di quest’anno. Infatti al momento il governo si è limitato a raccomandare alle aziende di non far lavorare le donne in gravidanza e gli over 60, mentre alle ditte di costruzione di diminuire i lavori all’aperto, alla popolazione di non praticare attività all’aperto, mentre ha stabilito che i funzionari ridurranno della metà l’uso delle loro auto. Ma sembra troppo poco per un Paese notevolmente inquinato e che aspira a entrare nell’Unione Europea in un futuro non troppo lontano.
· Giappone Radioattivo.
«L'acqua radioattiva di Fukushima? Buttiamola in mare»: il consiglio al governo degli esperti giapponesi. Pubblicato domenica, 02 febbraio 2020 su Corriere.it da Paolo Virtuani. La commissione di esperti incaricata dal governo giapponese di trovare una soluzione alla presenza di acqua contaminata a Fukushima ha consigliato all'esecutivo di gettarla in mare: una posizione destinata a riaccendere le polemiche da parte dei Paesi vicini. A riportare la conclusione cui è giunto i panel di esperti è l'agenzia Reuters, che nota anche come l'alternativa indicata fosse quella di lasciare evaporare l'acqua, e come il governo sia solito accogliere le raccomandazioni degli esperti. Il problema dell'acqua contaminata a Fukushima — la località dove si trova la centrale atomica danneggiata dallo tsunami dell'11 marzo 2011 — è sempre più pressante per il governo, ormai alla vigilia delle Olimpiadi estive che si terranno a Tokyo. Alcune gare si disputeranno a meno di 60 chilometri dalla centrale. La società Tokyo Electric Power (Tepco), che gestisce la centrale, ha reso noto l'estate scorsa che nel 2022 i serbatoi nei quali viene stoccata l’acqua utilizzata per evitare che i reattori fondano, non avranno più spazio. A Fukushima ogni giorno vengono usati 200 metri cubi di acqua (pari a 200 mila litri che pesano circa 200 tonnellate) per raffreddare i reattori danneggiati. L’acqua ne risulta contaminata dalla radioattività e deve essere stoccata nei 960 serbatoi costruiti a questo scopo con una capacità complessiva di 1,15 milioni di tonnellate. Tepco ha intenzione di costruirne altri, ma ha avvertito che c’è un limite massimo dovuto alle dimensioni del sito e si possono stoccare non più di 1,37 milioni di tonnellate di acqua, quantità che sarà raggiunta nel 2022. I tecnici che hanno studiato il caso avevano indicato 5 possibili soluzioni, ma hanno aggiunto che lo scarico in mare è l’unica realistica e più economica. Secondo uno studio della Società per l’energia atomica giapponese occorrerebbero 17 anni per far diluire la radioattività a livelli accettabili mescolando con quella del mare l’acqua contaminata sversata.
· Sicilia Radioattiva.
In Sicilia la valle dei tumori, dove l’aria è d’amianto e la terra radioattiva. Un’area un tempo bellissima, tra Agrigento e Caltanissetta. Che ha ospitato fabbriche e miniere. Oggi sono rimasti solo veleni e tassi spaventosi di gente che si ammala. E chi può scappa, in cerca di qualsiasi futuro migliore. David Alan Scifo il 26 febbraio 2020 su L'Espresso. Il vento soffia forte sulla stazione di Campofranco, paese collinare della Sicilia interna, una trentina di chilometri a nord di Agrigento ma in provincia di Caltanissetta. È uno di quei giorni in cui il silenzio dell’area del Vallone viene rotto dai singhiozzi di chi dice addio per un’altra partenza. Un tempo crocevia della più importante miniera della zona, la Cozzo-Disi, oggi questa è la stazione di chi da qui se ne va per sempre. La provincia di Caltanissetta è ultima, ultimissima, nella classifica sulla qualità della vita stilata da Il Sole 24 ore. Chiuse le miniere, serrate le industrie, liquidati i lavoratori, qui il futuro è una domanda senza risposta. Il passato, invece, è ancora presente. Anche in quella stazione che sorge accanto all’ex Montecatini, un mostro di ferro e amianto ormai sgretolato che ammorba tutta l’aria del Vallone - Mussomeli, Sutera, Milena… - facendo schizzare i dati dei tumori alle stelle. E il vento che soffia nella stazione sparge l’asbesto tutto intorno, in quel grigio dove le uniche sfumature di colore sono date dalle valigie dei ragazzi che vanno via. Per trovare lavoro, certo, ma anche per paura di ammalarsi: in quest’area - lo dicono i medici che hanno redatto il registro tumori per la provincia - il cancro è del 43 per cento superiore alle stime. Una percentuale che si innalza ancor di più se si considerano i tumori ematologici (108 per cento) e quelli al polmone (69 per cento). Emanuele Quarta, un ragazzone di 27 anni che si diverte a fare teatro, dopo la laurea in Giurisprudenza presa lo scorso ottobre ha deciso di ribellarsi alle troppe morti nella sua Campofranco. Così, con gli altri (pochi) ragazzi del luogo, ha formato il comitato “Basta tumori”: «Troppi miei amici sono andati via per paura di ammalarsi», dice. «Ogni famiglia qui ha almeno un caso di morte per tumore. Noi però non riusciamo a rassegnarci a quello che succede e invece di aspettare che le istituzioni ci diano spiegazioni, ci siamo fatti avanti». Così nella piazza principale del paese, dove anche la fontana è stata spenta, tra gli anziani che camminano per strada, un manipolo di ragazzi ha iniziato a volantinare e raccogliere fondi negli unici due giorni in cui ancora a Campofranco gira ancora qualcuno: durante il mercato del sabato e la domenica, dopo la Messa. A raccogliere il volantino c’è anche un uomo, Claudio, quasi 60 anni e un fisico provato dalla malattia lo costringe alla bombola d’ossigeno: «Certo che vi do qualcosa», dice in siciliano. In due giorni, grazie anche al contributo del sindaco, i ragazzi sono riusciti a comprare un contatore geiger, scoprendo così che quell’ecomostro non avvelena solo l’aria con l’amianto ma anche il terreno. Armati di mascherine e rilevatore geiger, si sono incamminati tra erba incolta, vetri rotti e murales: “Paradise” è la scritta paradossale su un muro. «È andata come temevamo», racconta Emanuele, «qui c’è radioattività, 0,790 microsiviert, cioè sopra la soglia di attenzione». Da un paese all’altro, dove prima ci si riuniva nei sindacati dei lavoratori, adesso nascono altri comitati e associazioni contro i tumori. Come quello di Serradifalco, cittadina di rupi che ha 5.000 abitanti, terra tra le più inquinate d’Italia da discariche mai bonificate e i resti della miniera Bosco, smantellata nel Natale del 1985: oggi è rimasto solo l’amianto, in quella cava che non è mai stata convertita in museo nonostante le promesse della Regione. Rimane l’amianto e rimangono i tumori. Marcello Palermo , infermiere di 48 anni, sportivo con la passione per il rally e la velocità, ha perso il padre per il cancro ed è stato questo a spingerlo a fondare il comitato “No Serradifalko” (dove la “k” è il sim bolo del tumore in Medicina). Il disco dei racconti sembra sempre lo stesso, «qui moriamo tutti di tumore», a Serradifalco così come negli altri paesi del Nisseno. «Non sappiamo nemmeno cosa sia stato nascosto nelle miniere del nostro paese dopo la fine delle estrazioni», dice Marcello. La paura è che nella vecchia cava sia stato seppellito anche altro: sicuramente dei rifiuti medici, nascosti lì da qualche ditta di smaltimento, di cui sono state ritrovate perfino delle ricevute di trasporto provenienti dall’Emilia Romagna; ma c’è anche il timore, come ha rivelato il boss mafioso pentito Leonardo Messina, che alla fine degli anni ‘80, poco prima della chiusura, ci siano stati dei camion che hanno trasportato nelle cave rifiuti radioattivi provenienti da altre nazioni. Qui si arriva anche a 12 chilometri di profondità, non è facile ora ritrovarli. L’amianto è insomma solo un pezzo di un puzzle dell’orrore che in quello che una volta era un polmone verde. C’è anche una montagna di scarti di sali potassici che inquinano le acque dei fiumi nisseni, ormai salati (4 milioni di metri cubi). «Il sale si potrebbe bonificare e utilizzare per altri scopi», il geologo esperto di miniere, Angelo La Rosa, 70 anni, ex assessore di San Cataldo (oggi sciolto per mafia) che sul “Bosco ferito” ha scritto anche un libro. «Rimuovere l’amianto però significherebbe alzare un polverone di asbesto, quindi la soluzione migliore sarebbe “tombare” tutto, se mai lo faranno», aggiunge. Anche a Serradifalco quindi tutti o quasi fanno le valigie, le famiglie si trasferiscono e le scuole rischiano di chiudere o già chiudono come accaduto nella vicina Montedoro, poco più di mille abitanti: qui l’istituto elementare 6 anni i Geova che arrivano da tutta la Sicilia per le assemblee che si svolgono nelle vicinanze. Dove c’erano i banchi ci sono adesso i letti, mentre della scuola rimane soltanto la lavagna all’ingresso: «Non c’erano più iscrizioni», dice Federico Messana, quasi 80 anni, ex sindaco del paese e ideatore della trasformazione dell’istituto rimasto senza bambini. Una buona iniziativa, come altre («Abbiamo fatto anche un museo dei minatori e un planetario») che però non hanno fermato l’emigrazione. E nell’immensa piazza principale di Montedoro oggi c’è solo un ufficio informazioni vuoto e un bar dove si ritrovano gli anziani. Così la provincia “peggiore d’Italia” continua a svuotarsi: 73 mila sono i nisseni che vivono all’estero; ogni mese altri scelgono la via del nord Italia, percorrendo un’ultima volta quella strada statale numero 640 iniziata otto anni fa e mai terminata, nonostante quattro inaugurazioni di quattro diversi governi. Dal 2016 a oggi anni sono andate via più di tremila persone, la maggior parte delle quali giovani. Intanto i fallimenti e lentezze dalle colline arrivano fino al mare, a Gela, una delle città che risente di più dell’emigrazione, soprattutto dopo la chiusura del polo petrolchimico che per tanti anni ha portato alla gente lavoro e insieme veleni. «Qui le famiglie si sgretolano, come è successo a me che ho perso il papà e lo zio, uccisi tutt’e due da un tumore, uno dopo l’altro, in meno di sei mesi», racconta Andrea Cassisi, 31 anni, giornalista che lavora per la Curia siciliana. «L’Eni è stata madre e matrigna, ora la gente vive con il terrore di ammalarsi». Già: a spaventare sono i dati che in città, ad esempio, vedono un aumento del 50 per cento delle malformazione nei neonati tra il 2010 e il 2015. Il tutto mentre i sogni di un futuro fatto di turismo vengono uno a uno seppelliti, così come seppellito è stato il preziosissimo sarcofago in terracotta con all’interno un “obolo di Caronte” (antico rituale funerario) risalente al IV secolo avanti Cristo, ritrovato lo scorso novembre durante degli scavi della rete idrica. Rimane il nulla, qui come ad Acquaviva Platani, dall’altra sponda della provincia, meno di mille abitanti e un’età media superiore ai 50 anni: tra le montagne di una Sicilia ancora arcaica, si incontrano soltanto pensionati seduti a giocare a carte, davanti a un bar dalle insegne scolorite. Fa impressione, un paese intero senza lo schiamazzo di un bimbo, così come impressionanti sono i terreni agricoli abbandonati e divenuti pascoli, tra la roccia bianca che irrompe nella valle del fiume Platani, l’Halykòs degli antichi greci. Alla sua foce qualche mese fa sono state raccolte tre tonnellate di rifiuti, montagne di plastica, vecchi elettrodomestici, bidoni, copertoni e laterizi, tutto impigliato tra le canne trascinate dal corso d’acqua verso la spiaggia dove al tempo degli antichi Greci sorgeva la splendida città di Eraclea Minoa. Si chiamava così in omaggio a Ercole e a Minosse: arrivato fin qui - narra la leggenda - per inseguire e punire Dedalo.
· Lotta alla Tap.
Tap, in spiaggia il cantiere è finito: il gasdotto che c’è ma non si vede. Pubblicato lunedì, 17 febbraio 2020 su Corriere.it da Michelangelo Borrillo. E il prossimo 1° ottobre, come da programma, si potrà aprire il rubinetto del gas azero. Dal 10 febbraio, infatti, la nave Castoro Sei, man mano che si muove verso l’Albania, posa i tubi sotto il mare per completare il gasdotto. E in due mesi circa la nave di Saipem raggiungerà Fier, in Albania. Quasi in contemporanea, quindi, con la prima udienza del processo — in calendario il prossimo 8 maggio a Lecce — che rappresenta l’ultima speranza per gli attivisti No Tap di bloccare il gasdotto ormai completato. La citazione diretta a giudizio di Tap è per il presunto sversamento di sostanze inquinanti nel cantiere del microtunnel, per una recinzione in area sottoposta a vincoli paesaggistici e per l’ipotesi di lavori fatti con autorizzazione illegittima perché rilasciata con due Via (Valutazione di impatto ambientale) differenti per Tap e Snam. In caso di condanna, il presidente della Regione Puglia Michele Emiliano ha già fatto sapere che chiederà «a Tap un risarcimento miliardario per il danno d’immagine causato alla Puglia con il gasdotto». Sulla spiaggia di San Foca, dove sbarca Tap, in realtà il tubo c’è ma non si vede, posizionato com’è 16 metri sotto la sabbia. «Voglio sfidare chiunque a stendere l’asciugamani sopra un gasdotto», sottolineò nel luglio del 2018 l’allora ministra per il Mezzogiorno Barbara Lezzi. La scorsa estate, con il microtunnel già pronto, gli ombrelloni si aprirono regolarmente. Fra qualche mese, con il tubo dentro il microtunnel, si avrà la controprova.
· Lotta alla Cimice Asiatica.
La strage silenziosa della cimice asiatica, agricoltura in ginocchio. Danni per milioni di Euro in tutta Italia, a partire dal nord: Emilia e Piemonte le regioni più colpite, la cimice asiatica sta distruggendo molte colture ed ancora non si è trovato un rimedio. A Verona l'allarme di Coldiretti. Mauro Indelicato, Giovedì 30/01/2020, su Il Giornale. Per adesso gli occhi di tutto il mondo sono proiettati sul Coronavirus, in grado di bloccare l’economia del colosso cinese e di diffondere il panico in tutto il pianeta per via dell’alto numero di contagi. Ma non ci sono soltanto i virus che fanno male direttamente all’uomo a preoccupare. Da anni il nostro paese combatte silenziose battaglie contro quegli insetti o quei batteri che, diffondendosi, contagiano piante ed animali procurando danni irreparabili all’agricoltura.
E se il caso più noto in tal senso è quello della Xylella, il batterio che nel Salento ha decimato gli alberi di ulivo, in realtà l’Italia ha tante altre emergenze che soltanto negli ultimi anni hanno fatto perdere intere piantagioni e coltivazioni. L’ultima, in ordine di tempo, è la questione riguardante la “cimice asiatica”. Si tratta di un insetto tanto piccolo quanto nocivo e deleterio per le coltivazioni. Il nome suggerisce la sua provenienza: è stata importata dall’estremo oriente, forse proprio dalla Cina. È arrivata in Italia, si riproduce a ritmi molto elevati ed ha creato danni incalcolabili all’agricoltura. E la cosa che più preoccupa, è che la strage di colture e piante continua ancora oggi senza che ancora siano stati scoperti gli strumenti per fermarla. Le regioni più colpite dall’insetto sono quelle settentrionali, Emilia Romagna in primis: qui, secondo la Coldiretti, in termini economici il danno è di 270 milioni di Euro. Poi c’è il Piemonte, con 180 milioni di Euro di danni stimati, la Lombardia, dove sono andati in fumo 160 milioni di Euro e poi anche Veneto, Friuli e Toscana, scendendo anche verso la parte centrale della penisola. La cimice asiatica si attacca mortalmente a tante coltivazioni: mele, mais, pere, ciliegie, nocciole, pesche, albicocche, olive, persino ai kiwi. In tante campagne per gli agricoltori è un disastro, economico ed anche umano: anni di sacrifici, di lavoro e di impegno gettati via a causa di un insetto minuscolo ed alieno rispetto al nostro territorio. L’occasione per fare il punto della situazione si è presentata mercoledì a Verona, lì dove si è aperta la “Fieragricola”: qui la Coldiretti ha presentato il conto ed ha prospettato lo scenario da totale disfatta per centinaia di aziende agricole. Ad ascoltare i numeri della strage silente, erano anche alcuni rappresentanti politici. A partire dal ministro dell’agricoltura, Teresa Bellanova. Quest’ultima ha annunciato, come rivelato da Libero, il via libera all’uso della vespa samurai, antidoto in grado di fermare la proliferazione della cimice asiatica. Il più preoccupato tra i rappresentanti presenti, era il padrone di casa Luca Zaia, presidente della regione Veneto: “Da quei paesi arrivano prevalentemente schifezze – ha dichiarato Zaia, peraltro ex ministro dell’agricoltura – Il problema c’è ed il Veneto è preoccupato”. Stefano Bonaccini, neo riconfermato alla guida dell’Emilia Romagna, ha dichiarato invece di aver avviato la perimetrazione dei territori in modo da iniziare quanto meno a contenere i danni. La cimice asiatica è soltanto l’ultima, tra insetti e batteri, che ha creato disastri alla nostra agricoltura. Oltre alla sopra citata Xylella, negli ultimi anni l’Italia ha dovuto fare i conti con il punteruolo rosso, che ha distrutto molte palme nel sud del nostro paese e non solo, con il moscerino killer e con il cinipide galligeno. Tutte specie provenienti da fuori, importante in un territorio, quale il nostro, che al momento non ha trovato naturali rimedi per difendersi. E gli agricoltori, già stremati dalla crisi, non fanno altro che continuare a contare i milioni di Euro di danni.
· Lotta alla Xylella.
GLOBAL KILLER: COSÌ GLI ORGANISMI STRANIERI UCCIDONO LE NOSTRE PIANTE. Il batterio Xylella introdotto dal Costa Rica in Puglia attraverso le rotte commerciali marittime di Rotterdam. Federico Cenci l'11 settembre 2020 su Il Quotidiano del Sud. La libertà di movimento di persone e cose rappresenta un’opportunità, ma anche un rischio. Lo dimostra la diffusione della pandemia di Covid-19: nata in circostanze misteriose in Cina, si è rapidamente propagata in tutto il mondo creando una crisi globale di portata catastrofica. Ma lo dimostra anche l’invasione di organismi vegetali trasferiti da una latitudine all’altra. Si ritiene, a tal proposito, che il famigerato batterio Xylella fastidiosa, che ha falcidiato numerosi olivi in Salento, sia stato introdotto nel tacco d’Italia dal Costa Rica attraverso le rotte commerciali marittime di Rotterdam. Il pericolo arriva da ogni dove. Coldiretti rileva che l’importazione in Italia di piante e semi ha causato danni per oltre un miliardo di euro nel 2019, con effetti gravissimi sul piano ambientale, paesaggistico ed economico. L’associazione di coltivatori commenta così la decisione del colosso dell’e-commerce Amazon di vietare la vendita di semi e piante straniere negli Stati Uniti dopo che migliaia di pacchi sospetti, molti provenienti dalla Cina, sono arrivati nelle case di tutto il mondo durante l’estate. Ed è proprio nei confronti del gigante asiatico che Coldiretti punta l’indice a proposito della situazione italiana. Nell’elenco diffuso si fa riferimento al moscerino dagli occhi rossi (Drosophila suzukii) che colpisce la frutta al cinipide del castagno (Dryocosmus kuriphilus) fino alla cimice asiatica (Halyomorpha halys), l’insetto polifago che colpisce oltre 300 diversi vegetali, che ha messo in ginocchio i produttori italiani, per la mancanza di nemici naturali, con circa 740 milioni di euro di danni provocati nel solo 2019 e 48mila aziende agricole italiane colpite. In un articolo pubblicato su “Orticalab”, l’agronomo e fitopatologo Ferdinando Zaccaria ha posto attenzione anche sulla cocciniglia tartaruga del pino (Toumeyella parvicornis), i cui attacchi nel giro di pochi anni «possono portare al deperimento e alla morte delle piante» di pino. «I focolai – spiega Zaccaria – sono presenti in Campania dal 2014, prima regione ad essere interessata, in particolare nelle aree costiere ed insulari. Per ora rappresenta la regione più colpita». E «sembrerebbe arrivata in Italia – prosegue – con le piante importante senza le necessarie certificazioni» Accusa a un sistema di controllo europeo fin troppo permissivo, «che ha lasciato passare materiale vegetale infetto e parassiti vari», la muove anche Coldiretti. L’associazione di coltivatori denuncia la mancata applicazioni delle cautele e delle quarantene «che devono invece superare i prodotti nazionali quando vengono esportati con estenuanti negoziati e dossier che durano anni». Due pesi e due misure, dunque. «Per effetto dei cambiamenti climatici e della globalizzazione si moltiplica l’arrivo di materiale vegetale infetto e parassiti vari che provocano stragi nelle coltivazioni e per questo serve un cambio di passo nelle misure di prevenzione e di intervento sia a livello comunitario che nazionale – conclude Coldiretti – anche con l’avvio di una apposita task force».
Xylella, dalla «Favolosa» la rinascita dei frantoi: in Salento già 500mila piante. Copagri: avanti con la ricerca. Plauso all’Arif per il monitoraggio del vettore, ormai giunto a Monopoli. La Gazzetta del Mezzogiorno l'11 Ottobre 2020. La rinascita dell’economia olivicola del Salento è in un super extravergine d’oliva che regala qualità ai consumatori e speranza agli agricoltori piegati da 7 anni dalla Xylella fastidiosa. È l’olio proveniente dalla varietà Fs-17 Favolosa, le cui olive sono state raccolte per la prima volta nei giorni scorsi in provincia di Lecce. Si tratta di una pianta brevettata dal Cnr che, insieme al leccino, secondo gli scienziati, è resistente agli attacchi del batterio killer. Il risultato, a detta degli esperti, è un extravergine che regala un elevato contenuto in polifenoli antiossidanti che si traduce in un buon livello di amaro e piccante che, abbinato ad un fruttato erbaceo, conferiscono armonia ed equilibrio. «Grazie alla ricerca e alla caparbietà degli agricoltori - commenta il presidente Cia-Agricoltori Italiani, Dino Scanavino - c’è un futuro per questo territorio colpito da una sciagura economica e paesaggistica senza precedenti». La carta d’identità della Favolosa è un mix tra le varietà «frantoio» e «ascolana tenera», frutto di un incrocio di cultivar studiato per anni dal professor Giuseppe Fontanazza, già direttore del Dipartimento di Scienza Bio-Agroalimentare del Cnr. Una varietà interamente italiana, caratterizzata per il rapido accrescimento in campo e per la sua precocità. Già dopo due anni, infatti, la pianta riesce a produrre circa il 10% del potenziale massimo di olive, per raggiungere entro 5 anni la produzione massima senza subire la ciclicità delle stagioni. Secondo le stime di Cia sono già quasi 500 mila le piante di Favolosa impiantate in Salento, con l’obiettivo di andare a coprire la perdita delle 5 milioni di piante uccise dal killer in un’area che ne contiene più di 22 milioni. «Questo è solo il primo passo per riportare lavoro ed entusiasmo nei campi - dichiara il presidente di Oliveti d’Italia, Nicola Ruggiero - ci auguriamo che la ricerca trovi ulteriori cultivar resistenti per completare l’opera di ricostruzione dell’olivicoltura pugliese». «Per bloccare l’avanzata della Xylella, ormai certificata in agro di Monopoli, occorrono le eradicazioni e gli espianti, bene sta facendo il nuovo direttore dell’Arif, Francesco Ferraro aprendo le porte ad approfondire il tema del controllo dei vettori. Non si può pensare - ha detto il presidente di Copagri Puglia Tommaso Battista in un convegno in Fiera - che l’espianto sia l’unico argine alla avanzata». La Regione, attraverso il PSR con la misura 1.2, ha favorito le attività di informazione rivolte al mondo agricolo ed è in questo ambito che lo sforzo di Copagri si sta concentrando perché la lotta alla Xylella non sia solo uno slogan ma una serie di azioni, anche con una comunicazione efficace, rivolte a fermare quella che appare una inesorabile avanzata. «Vanno gettate le basi per un nuovo modello di gestione di questa emergenza che ci auguriamo il nuovo assessore all’Agricoltura, Donato Pentassuglia, voglia accogliere. Eradicazioni, controllo vettori con intensificazione dei monitoraggi e cura, questo - sottolinea Battista - il percorso da seguire.
Occorrono nuovi finanziamenti anche su progetti di ricerca come quelli portati avanti dal Professore Scortichini», anche lui intervenuto al convegno. «Copagri ha un solo obiettivo su questo tema: fermare l’avanzata di Xylella con un cambio di passo: azioni sinergiche tra i soggetti interessati». Per Franco Verrascina, presidente nazionale di Copagri che ha concluso i lavori, «la politica ha le sue responsabilità, oggi è tempo di pensare agli agricoltori senza altri fini, è necessario intervenire subito anche con l’aiuto del mondo scientifico. Basta ritardi! È tempo di agire! Fermiamo la Xylella e confrontiamoci anche sul futuro dei nostri territori e del nostro paesaggio», l'appello finale di Verrascina.
Gli ulivi che battono la Xylella: dopo due anni il primo olio della Favolosa. Michelangelo Borrillo, inviato a Casarano (Lecce) su Il Corriere della Sera il 7 ottobre 2020. Iniziata in Salento la prima vera raccolta di olive nei nuovi uliveti impiantati al posto dei campi distrutti dal batterio. La speranza che diventa realtà. Dopo due anni di attesa. Con la Favolosa che batte la Fastidiosa. La Fs-17, meglio conosciuta, appunto, come Favolosa, una delle due cultivar, insieme al Leccino, che secondo gli scienziati resistente agli attacchi della Xylella Fastidiosa, l’infezione che impedisce negli alberi il passaggio dell’acqua attraverso i vasi, a partire dalla chioma, che sta distruggendo gli ulivi pugliesi. Tutti quelli che trova sulla sua strada, tranne quelli della cultivar Favolosa, come dimostra la prima vera raccolta di olive iniziata, in questi giorni, in Salento, dai nuovi uliveti impiantati due anni fa al posto dei campi completamente distrutti dal batterio. Laddove c’erano ulivi ingialliti, a Casarano, adesso si può produrre olio nuovo grazie alla cultivar italiana, brevettata dal Cnr, precoce rispetto alle altre, visto che gi dopo due anni riesce a dare i suoi primi buoni frutti.
La scoperta per caso. L’idea della Favolosa nata quasi per caso. Quando un gruppo di olivicoltori not, in agro di Sannicola di Lecce, una macchia di verde nella distesa gialla degli ulivi secchi colpiti dalla Xylella. Troppo verdi, quei 400 ulivi, per poter prosperare nel Salento. In realtà si trattava di una varietà quasi inesistente in Puglia, ma non del tutto evidentemente, chiamata Favolosa. Scoperta una trentina di anni fa dal professor Giuseppe Fontanazza, all’epoca direttore dell’Isafom del Cnr di Perugia e brevettata dallo stesso Cnr, con licenza esclusiva ceduta a tre vivai in Umbria (Agricola Faena), Puglia (Oliveti d’Italia) e Sicilia (Vivaio Russo). Ancor più valorizzata dalla scoperta del 2017 — fatta dai ricercatori del Cnr con i colleghi dell’Università di Bari e del Centro ricerca Basile Caramia di Locorotondo — della resistenza alla Xylella. Una scoperta che ha ridato una speranza e un futuro a un territorio martoriato dalla peste degli ulivi. Questo un giorno importante — spiega Cosimo Primiceri, l’imprenditore agricolo di Casarano che per primo, nel Salento, ha creduto nella Favolosa — perchè iniziamo, a due anni dalla nascita dell’impianto, a raccogliere le prime olive che serviranno per produrre un olio che simbolo di rinascita. Quest’anno raccoglieremo, anche a causa delle avversità atmosferiche, il 10% scarso del potenziale produttivo della pianta, ma dopo soli due anni già un gran risultato se pensiamo che per le nostre cultivar tradizionali distrutte dalla Xylella, come la cellina o l’ogliarola, sarebbero stati necessari 6-7 anni. Grazie a questa cultivar dovremmo riuscire ad avere un raccolto costante che non risente dell’alternanza delle stagioni, risparmi importanti sui costi di gestione dell’impianto e un olio di grande qualità. Con un’agricoltura più meccanizzata e più moderna alla quale si è già convertito (o sta iniziando a farlo) il 20% degli olivicoltori salentini.
In 7 anni percorsi 150 chilometri. Scoperta il 13 ottobre 2013 nella zona di Gallipoli, in provincia di Lecce — nelle vicinanze di vivai di piante ornamentali che potrebbero aver portato il batterio patogeno in Puglia — da allora la Xylella si mossa verso nord arrivando proprio nelle scorse settimane fino a Monopoli, in provincia di Bari, passando dalla provincia di Brindisi (da Ostuni, al limite della zona degli ulivi secolari di Fasano) e quella di Taranto (da Martina Franca). In pratica la Xylella ha percorso circa 150 chilometri in 7 anni, a una velocità superiore ai 20 chilometri all’anno. Di questo passo, in altri 7 anni sarà raggiunta l’intera Puglia, fino alla provincia di Foggia, passando per l’area pugliese a più alta densità produttiva, da Bitonto ad Andria, la capitale italiana dell’olio. In questi primi 7 anni di danni — secondo uno studio di Italia Olivicola che con Cia-Agricoltori Italiani e Consorzio Oliveti d’Italia sta organizzando la prima vera raccolta dai nuovi uliveti anti Xylella — la peste degli ulivi ha compromesso la produzione di quasi 5 milioni di piante nelle province di Lecce, Brindisi e Taranto, in un areale di 22 milioni di piante, con un calo medio produttivo annuo di 29 mila tonnellate di olio extravergine d’oliva, pari al 10% della produzione olivicola italiana.
Per ogni ettaro cento quintali. Per questo le prime olive e il primo olio da Favolosa hanno aperto il cuore degli olivicoltori pugliesi alla speranza. Si stima che per ogni ettaro impiantato si potrebbe arrivare a raccogliere ogni anno, in maniera costante e con le piante in piena maturazione, da 100 a 120 quintali di olive (a fronte dell’alternarsi, per le cultivar tradizionali, di annate di carica da 170-200 quintali a ettaro e annate di scarica da 40-50 quintali) in grado di produrre un olio extravergine d’oliva eccellente, che per qualità e caratteristiche organolettiche gi apprezzato dai consumatori. una notizia importantissima per l’olivicoltura italiana — sottolinea il presidente di Cia Agricoltori Italiani, Dino Scanavino — e un messaggio di speranza per chi ha a cuore il futuro di questo settore. Dopo anni difficili, grazie alla ricerca scientifica e alla caparbietà degli agricoltori, c’un futuro per questo territorio che stato colpito all’improvviso da una sciagura economica e paesaggistica senza precedenti. Il recupero di un’area importantissima dell’agricoltura italiana, dalla distruzione della Xylella a una nuova olivicoltura che produce qualità, grazie a un importante ricambio generazionale — gli fa eco il presidente del Consorzio Oliveti d’Italia, Nicola Ruggiero — segna una grande primavera per il mercato dell’olio italiano che spesso soffre problemi di quantità e qualità disponibili per i consumatori. Speriamo sia l’alba di un giorno migliore — aggiunge il presidente di Italia Olivicola, Fabrizio Pini — non solo per il Salento ma anche per la produzione olivicola italiana che ha bisogno di guardare avanti con fiducia e di innovare per poter competere sui mercati nazionali e internazionali. La Xylella, finalmente, ha trovato la sua resistenza. E il Salento degli ulivi la sua ripartenza.
Xylella, l'Ue dimezza l'area di abbattimento: entro marzo le nuove regole. L'Efsa dovrebbe dimezzare il raggio di eradicazione delle piante intorno a ogni albero infetto. Massimiliano Scagliarini il 31 Gennaio 2020. Da Bruxelles arriva un nuovo «sì» alla rimodulazione delle misure di contenimento della Xylella. La scorsa settimana la riunione dell’Efsa ha infatti registrato l’allineamento tra Italia, Francia e Spagna (i Paesi colpiti dalla batteriosi degli ulivi) sulla necessità di rendere più semplici i controlli. I tempi per arrivare a una decisione definitiva non sono ancora stati fissati, ma in ogni caso bisognerà chiudere i lavori prima di marzo, in tempo per l’avvio della nuova campagna di verifiche (quella in corso si conclude oggi - secondo l’Arif - entro la prossima settimana vedrà l’«allineamento» alle richieste dell’Unione). Delle modifiche alla Decisione di esecuzione 2015/78 si parla (la «Gazzetta» ne ha già dato conto a novembre) da alcuni mesi, da quando la bozza è stata condivisa con i componenti del Comitato fitosanitario permanente della Ue. Il nuovo meccanismo vedrà il dimezzamento dell’ampiezza della zona di contenimento e di quella cuscinetto, mentre e verrà ridotta la distanza dalle piante infette entro cui bisogna tagliare tutto. L’area di contenimento (i primi 20 km dell’area infetta, soggetta a eradicazioni) verrà portata a 5 o 10 km, mentre la zona cuscinetto (l’ultima parte della zona indenne a contatto con quella in cui c’è l’infezione), oggi di 10 km, verrà portata a 5 km. Oggi è obbligatorio tagliare tutte le piante nel raggio di 100 metri da ogni ulivo infetto, radendo dunque a zero circa 3 ettari di campagna. La prima bozza prevedeva di ridurre il raggio a 10 metri, mentre ora sembra che il Comitato si stia orientando su un valore intermedio, 50 metri, che significa comunque ridurre di un quarto l’area da azzerare in caso di contagio. L’idea dei tecnici dell’Efsa è di cambiare strategia, abbandonando le griglie su cui si opera oggi per adottare un criterio statistico comune a tutto il territorio europeo. Un passo che va nella direzione della semplificazione (diminuisce l’area da controllare), e che favorirà in particolare l’Italia oggi sottoposta a procedura di infrazione proprio per non aver rispettato le indicazioni di Bruxelles. Il dossier è coordinato dai tecnici del ministero delle Politiche agricole ed è seguito, in particolare, dal sottosegretario Giuseppe L’Abbate. Il deputato pentastellato barese è in prima linea nel rappresentare le necessità degli operatori pugliesi. Le nuove regole di tutela dovrebbero, tra l’altro, eliminare i vincoli alla movimentazione dei prodotti florovivaistici che stanno mettendo in ginocchio i produttori del Salento. L’unica incertezza sui tempi della decisione riguarda la Brexit: le procedure per l’uscita del Regno Unito, infatti, potrebbero rallentare anche l’attività dell’Efsa. L’Arif intanto sta concludendo i monitoraggi nella zona cuscinetto, in particolare nei Comuni del Sud-Est Barese, del Brindisino e del Tarantino. In una settimana - secondo l’agenzia - sono stati abbattuti «più di 100 ulivi» infetti: le operazioni di eradicazioni in zona di contenimento (rimangono «circa un centinaio» di alberi) dovrebbero essere concluse la prossima settimana, «raggiungendo così gli obiettivi di allineamento temporale richiesti dalla Unione Europea».
Lotta alla Xylella, approvato in conferenza Stato-Regioni piano da 300mln. La notizia confermata dal ministro all'Agricoltura Teresa Bellanova. La Gazzetta del Mezzogiorno il 29 Gennaio 2020. Dalla Conferenza Stato-Regioni «finalmente il via libera al Piano per la rigenerazione olivicola della Puglia, colpita dalla Xylella». Lo ha annunciato, a Fieragricola, la ministra delle Politiche agricole Teresa Bellanova. «Finalmente uno strumento operativo che da oggi sblocca 300 milioni di fondi per gli indennizzi, gli investimenti e ricerca. Trecento milioni per l’olivicoltura salentina e pugliese che attraverso misure hanno come obiettivo esplicito la ripresa e lo sviluppo di un segmento strategico dell’economia messo a dura prova in questi anni». «Per rigenerare l’olivicoltura e l'agricoltura», ha aggiunto la ministra Bellanova, «servono imprese agricole che investano, che possano fare i reimpianti, piantare altre colture, lavorare in ottica di territorio con imprese di trasformazione e commercializzazione. Indennizzi, investimenti, ricerca: sono queste le parole d’ordine che sottendono la strategia del Piano, pienamente condivisa - ha sottolineato Bellanova - dagli altri ministeri coinvolti, Mise e Sud. Una strategia che da oggi è finalmente al servizio della rigenerazione e salvaguardia del paesaggio pugliese. All’insegna della ricerca scientifica, e non con chi ha finora creduto agli sciamani». Nell’esprimere parere favorevole al "piano straordinario per la rigenerazione olivicola in Puglia, nonché la definizione dei criteri e della modalità per l'attuazione degli interventi previsti», la Conferenza Stato-Regioni ha osservato come la Regione Puglia «dovrà prevedere un’integrazione a sostegno delle imprese per il ristoro dei danni subiti a compensazione delle risorse che il decreto distoglie da tali finalità». Lo rende noto il ministero per gli Affari Regionali e le Autonomie, ricordando che al fine di «contribuire al rilancio dell’agricoltura pugliese e sostenere la rigenerazione delle zone colpite da Xylella, si istituisce un fondo apposito con una dotazione di 150 milioni per ciascuno degli anni 2020 e 2021».
IL COMMENTO DI COLDIRETTI - «Ora tocca alla Regione Puglia fare la propria parte, recuperando tutti i ritardi accumulati in 6 anni. Sia sulla pratiche per la calamità naturale che per la 5.2 del PSR ci vorrà la massima semplificazione e una macchina burocratica regionale snella e veloce che consenta agli agricoltori di ricostruire il proprio futuro imprenditoriale». Lo afferma in una nota il presidente di Coldiretti Puglia, Savino Muraglia, che ribadisce «l'importanza di una spesa di fondi oculata con una governance pressante a regia Ministeriale». Muraglia «ringrazia il ministro delle Politiche Agricole, Teresa Bellanova, per aver scongiurato ulteriori ritardi ingiustificati e pretestuosi ed aver consentito l'approvazione del Piano di riparto dei 300 milioni di euro dopo un’attenta condivisione utile alla rigenerazione del Salento, dopo il disastro colposo causato dalla Xylella e dai ritardi regionali nella gestione della malattia».
LE PAROLE DI EMILIANO - «Siamo soddisfatti del via libera al Piano straordinario per la rigenerazione olivicola della Puglia per il quale ci siamo a lungo battuti. Le risorse messe a disposizione dal Governo sono state un atto dovuto a fronte del dramma Xylella», il governatore della Regione Puglia, Michele Emiliano, commenta così l’accordo in Stato-Regioni siglato questo pomeriggio a Roma. La Regione Puglia, però, chiedeva che i 300 milioni del Piano fossero indirizzati direttamente alle imprese, il governo nazionale non ha accettato la proposta. «Com'è noto - prosegue Emiliano - la Regione si è battuta affinché tutte le risorse disponibili fossero indirizzate alle imprese per il ristoro dei danni subiti. Sebbene la proposta finale del Governo non sia stata conforme a tale orientamento, la Regione Puglia per non ritardare l’approvazione del decreto ha espresso il proprio parere positivo in Conferenza Stato-Regioni impegnandosi a destinare alle imprese pugliesi danneggiate l’equivalente dei fondi dirottati dal decreto su attività diverse dal sostegno alle imprese medesime». Il presidente della Regione, poi, attacca chi evidenzia i ritardi nell’attuazione del Psr Puglia: «Chi mette in relazione la vicenda xylella con i tempi del Psr compie una inutile strumentalizzazione, infatti i contenziosi che hanno rallentato le principali misure del PSR non hanno interessato le misure della Xylella, che invece hanno seguito i tempi dell’adeguamento della normativa nazionale ed europea». Il governatore, infine, elenca alcune delle tappe della lunga vicenda Xylella: «Dal 2016 al 2018 - evidenzia - la Regione Puglia ha avviato il sistematico monitoraggio delle piante, finanzia la ricerca scientifica, attua le misure previste dalla normativa nazionale ed europea; nel febbraio 2018, grazie al lavoro della Regione Puglia, l’UE ha reso possibile il reimpianto di varietà resistenti di olivo. Prima non c'erano modi di intervenire. Nel maggio 2018 la Regione ha proposto un bando per il reimpianto di olivi; nel novembre 2019 è stato firmato il protocollo di intesa con Mibact e Mipaaf che ha rimosso i vincoli per reimpianti». A gennaio 2019 risulta che il 70% delle pratiche sono state smaltite e chiuse.
FITTO: «BRAVA BELLANOVA MA TEMO LA GESTIONE DELLA REGIONE» - «I milioni sono sempre quelli: 150 per il 2020 e 150 per il 2021, ma ora sono certi visto che la Conferenza Stato Regioni ha dato il parere favorevole al 'Piano straordinario per la rigenerazione olivicola in Puglià, previsto con Decreto del Ministro delle Politiche agricole, Alimentari e Forestali, di concerto con i Ministri per il Sud e dello Sviluppo Economico. Di ciò dobbiamo dare merito all’accelerata impressa dalla ministra Teresa Bellanova, che aveva assunto questo impegno come prioritario. Resta, però, un problema serio. La stragrande maggioranza di queste risorse, specie quelle destinate al ripristino della capacità produttiva, dovranno essere gestite dalla Regione Puglia e in modo particolare da quell'Assessorato all’Agricoltura, che si è dimostrato totalmente incapace, inadeguato e irresponsabile sulla materia. Insomma, non c'è da star tranquilli. Basti pensare a cosa è accaduto con i fondi europei del PSR (disimpegno di 86 milioni di euro). Lo afferma in una nota il co-presidente del gruppo europeo Ecr-Fratelli d’Italia, Raffaele Fitto. «Fermo restando - conclude - che questo Piano Straordinario, lo abbiamo detto e lo ribadiamo, non è sufficiente: occorre ora immaginare un progetto di ricostruzione del territorio Salentino devastato dal batterio che coinvolga non solo l’agricoltura ma tutte le altre attività economiche».
· Albero europeo 2020.
Albero europeo 2020: per l’Italia partecipa la quercia di Tricase. Pubblicato venerdì, 31 gennaio 2020 su Corriere.it da Paolo Virtuani. Si può votare fino al 29 febbraio tra 16 finalisti agguerriti dall’Irlanda alle steppe russe tra alberi di sambuco, faggi, castagni e abeti. Più che il più «bello», si vota quello con la «storia» più intrigante. Il più bello? Forse. Sicuramente quello con la «storia» più interessante. Si può votare per tutto il mese di febbraio l’albero europeo dell’anno in una lista di sedici finalisti. Anche l’Italia, che non ha mai vinto questo concorso che si organizza dal 2011, partecipa con il proprio candidato. Si tratta della quercia vallonea (Quercus ithaburensis macrolepsis) di Tricase, in provincia di Lecce, un gigante verde con una chioma che copre una superficie di 700 metri quadri. La sua età è stimata in più di 700 anni, nel 2000 è stato eletto dal Wwf albero simbolo della Puglia. E come «storia» non è secondo a nessuno. Una leggenda narra infatti che l’imperatore Federico II e i cavalieri del suo esercito trovarono riparo da un temporale sotto le enormi chiome della quercia. Per questo motivo è chiamato anche Quercia dei 100 cavalieri. Una leggenda, ovviamente, perché l’imperatore del Sacro romano impero morì 50 anni prima della probabile nascita della quercia, ma non importa che sia vero o meno: è bello crederci mentre si ammira il tronco alto 20 metri e con una circonferenza di 4,25 metri. La vallonea è una specie di quercia originaria delle zone mediterranee sudorientali che cresce dalla Puglia al Medio Oriente. È una pianta tipica dei boschi aridi su suoli calcarei e forma associazioni con il leccio, la quercia spinosa e la roverella. Un tempo dalle sue ghiande i conciatori ricavavano il tannino che serviva per ripulire le pelli, una specialità salentina conosciuta come lavorazione del pelacane. La quercia di Tricase l’anno scorso aveva ottenuto più di 160 mila voti nel concorso indetto dalla Giant Trees Foundation Onlus e si era aggiudicata la nomination per la decima edizione del concorso europeo. Prese il via in Repubblica Ceca nel 2011 con soli cinque Paesi partecipanti, tutti dell’Est europeo. Poco a poco il concorso ha guadagnato interesse e si è esteso a 16 nazioni. È solo la seconda volta che l’Italia partecipa alla fase finale, la prima fu nel 2014 con una quercia dell’Alta Sabina, nel Lazio, senza molta fortuna (arrivò ultima). Lo scorso anno vinse un mandorlo piantato 135 anni fa davanti all’ingresso della chiesa di Nostra Signora della Neve, in cima a una collina a Pécs, in Ungheria, che ottenne oltre 45 mila voti. Il più votato in assoluto è il vecchio olmo di Sliven, matusalemme di 1.100 anni simbolo della città bulgara che nel 2014 ricevette 77.500 voti. La quercia proverà a spuntarla tra concorrenti agguerriti dall’Irlanda alla Russia, tra alberi di sambuco e faggi, tra castagni e abeti. Si può votare fino al 29 febbraio. Per proseguire nella leggenda.
Albero europeo 2020: vince il pino solitario della Repubblica Ceca. Pubblicato mercoledì, 18 marzo 2020 su Corriere.it da Paolo Virtuani. La giuria si è espressa in modo inequivocabile: l’albero europeo dell’anno (non il più bello, ma quello con la storia più «intrigante») è il «Guardiano del villaggio allagato», che ha ottenuto quasi il doppio dei voti del secondo classificato, il gingko di Daruvar, in Croazia. Non è andata molto bene al candidato italiano, la quercia vallonea di Tricase, in Salento, che ha ricevuto 10.730 voti ma si è piazzata al sedicesimo posto. Su sedici partecipanti. Andrà meglio il prossimo anno. Diciamo che il vincitore, il pino silvestre di Chudobín, spettacolare esemplare della Repubblica Ceca, giocava un po’ «in casa». Il concorso, infatti, è nato nel 2011 proprio in Rep. Ceca e nei Paesi dell’Est europeo è diventato molto popolare, meno in Italia e nelle altre nazioni dell’Europa occidentale e settentrionale. Quindi non è un caso che ai primi tre posti si siano piazzati tre alberi dell’Est (al terzo posto il pioppo solitario della steppa russa in Calmucchia), tutti esemplari molto belli e fotogenici. Il vincitore è un pino silvestre che cresce sul promontorio roccioso della diga di Vír ed è legato al villaggio allagato di Chudobín, sommerso dopo la costruzione della diga. Secondo una leggenda, un diavolo di notte sedeva sotto il pino e suonava il violino, ma forse era solo il vento che soffia nella vallata. L’albero non è solo un importante punto di riferimento, ma anche una testimonianza della sua resistenza al cambiamento climatico e all’impatto umano. La quercia vallonea (Quercus ithaburensis macrolepsis) di Tricase, in provincia di Lecce, è un gigante verde con una chioma che copre una superficie di 700 metri quadri. La sua età è stimata in più di 700 anni, nel 2000 è stato eletto dal Wwf albero simbolo della Puglia. Una leggenda narra che l’imperatore Federico II e i cavalieri del suo esercito trovarono riparo da un temporale sotto le enormi chiome della quercia. Per questo motivo è chiamata anche Quercia dei 100 cavalieri. Una leggenda, ovviamente, perché l’imperatore del Sacro romano impero morì 50 anni prima della probabile nascita della quercia, ma non importa che sia vero o meno: è bello crederci mentre si ammira il tronco alto 20 metri e con una circonferenza di 4,25 metri. La vallonea è una specie di quercia originaria delle zone mediterranee sudorientali che cresce dalla Puglia al Medio Oriente. È una pianta tipica dei boschi aridi su suoli calcarei e forma associazioni con il leccio, la quercia spinosa e la roverella. Un tempo dalle sue ghiande i conciatori ricavavano il tannino che serviva per ripulire le pelli, una specialità salentina conosciuta come lavorazione del pelacane.